ROBIN COOK CRISI MORTALE (Crisis, 2006) Dedico questo libro all'odierna professionalità medica promulgata dal relativo c...
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ROBIN COOK CRISI MORTALE (Crisis, 2006) Dedico questo libro all'odierna professionalità medica promulgata dal relativo codice di deontologia, con la speranza che metta radici e fiorisca... Fa' posto al nuovo, Ippocrate! Ringraziamenti Come sempre, quando scrivo questi romanzi basati sulla realtà, devo affidarmi ad amici e conoscenti per trovare risposte alle mie numerose e fastidiose domande. Tanto più l'ho dovuto fare per questo libro, dal momento che la trama collega medicina e legge. Ringrazio tutti coloro che mi hanno offerto la loro disponibilità con tanta gentilezza, ma in modo particolare desidero ricordare i seguenti amici (in ordine alfabetico): John W. Bresnahan, perito, Division of Professional Licensure, Commonwealth of Massachusetts Jean R. Cook, psicologa Joe Cox, avvocato fiscalista e di pianificazione proprietaria Rose Doherty, accademica Mark Flomenbaum, medico legale, Commonwealth of Massachusetts Peter C. Knight, avvocato specializzato in responsabilità professionale Angelo MacDonald, avvocato specializzato in diritto penale, ex pubblico ministero Gerald D. McLellan, avvocato specializzato in diritto di famiglia, ex giudice Charles Wetli, patologo, Suffolk County, New York «Le leggi della coscienza, che noi sosteniamo trarre origine dalla natura, sono generate dalla consuetudine.» MONTAIGNE Prologo 8 settembre 2005
L'autunno è una stagione stupenda, malgrado la si usi spesso come metafora per l'avvicinarsi della morte e per il morire. La sua atmosfera tonificante e i suoi colori accesi raggiungono il massimo splendore negli Stati Uniti nordorientali. Già all'inizio di settembre, le calde, nebbiose e umide giornate estive vengono progressivamente sostituite dall'aria fredda, limpida e secca e da cieli azzurri e tersi. Quel giorno ne era un esempio tipico. Non una nuvola macchiava l'orizzonte dal Maine al New Jersey, ed entro il labirinto d'asfalto del centro di Boston e il reticolo in cemento di New York, c'era una piacevole temperatura di venticinque gradi. Mentre la giornata si avvicinava al termine, nelle loro rispettive città due medici armeggiavano per staccare i cellulari squillanti dalle loro cinture. Nessuno dei due accolse con gioia l'intrusione. Entrambi temevano che quel trillo melodico annunciasse una crisi che avrebbe richiesto la loro attenzione professionale e la loro presenza. Un'interruzione inopportuna, dato che avevano in programma interessanti attività private per la serata. Sfortunatamente, le loro intuizioni erano esatte: le telefonate avrebbero dato conferma alla fama metaforica dell'autunno. La telefonata a Boston riguardava una persona che stava per morire per un acuto dolore al petto e difficoltà respiratoria, mentre quella a New York una morta da poco. In entrambi i casi si trattava di emergenze che obbligavano i due medici a rinviare i loro programmi serali. Ciò che i due dottori non sospettavano era che avrebbero innescato una sequenza di eventi che li avrebbe coinvolti entrambi, mettendoli in pericolo e l'uno contro l'altro... Boston 19.10 Il dottor Craig Bowman lasciò ciondolare le braccia lungo i fianchi per dare sollievo ai muscoli doloranti degli avambracci, dopo essere rimasto a lungo di fronte all'anta a specchio dell'armadio, cercando di fare il nodo al formale papillon nero. In vita sua aveva indossato lo smoking al massimo cinque volte, la prima al ballo studentesco del liceo, l'ultima quando si era sposato, e in tutte le occasioni si era semplicemente agganciato un farfallino già annodato, ma questa volta aveva voluto quello autentico. Si era comperato uno smoking e non si sarebbe accontentato di un papillon fasullo. Il guaio era che non sapeva come annodarlo e non aveva avuto il coraggio di chiederlo al commesso. Al momento non se ne era preoccupato,
immaginando che in qualche modo fosse come allacciare le scarpe. Purtroppo non era così. Fortunatamente, Leona, la sua giovane ed energica segretaria nonché nuova compagna, era in bagno a truccarsi. Nel peggiore dei casi l'avrebbe chiesto a lei. Non si frequentavano da molto e Craig avrebbe preferito che continuasse a considerarlo sofisticato ed elegante, temendo che, in caso contrario, non avrebbe più smesso di parlarne. Leona aveva, secondo la sua imponente receptionist e la sua infermiera, una «lingua lunga». Il tatto non si poteva considerare una delle sue virtù. Craig lanciò una rapida occhiata in direzione della donna. La porta del bagno era spalancata: si stava truccando, ma lui riusciva a vedere solo il procace fondoschiena di ventitreenne, inguainato in una seta rosa lucente. Si era appoggiata al lavandino per avvicinarsi allo specchio. Un sorriso compiaciuto gli passò rapidamente sul viso al pensiero di loro due che percorrevano il corridoio della Symphony Hall. A dispetto della sua boccaccia, quella ragazza era uno schianto, specialmente nell'abito scollatissimo che avevano acquistato di recente. Era sicuro che avrebbe fatto voltare le teste di non pochi uomini e che lui sarebbe stato invidiato da tutti i suoi coetanei. Si compiacque, sentendosi un po' infantile ma risoluto a godersi appieno quel momento. Il sorriso vacillò al pensiero che tra il pubblico potessero esserci amici suoi e della moglie. Non aveva intenzione di mettere a disagio o ferire i sentimenti di nessuno, ma riteneva improbabile incontrare conoscenti. Né lui né sua moglie assistevano a concerti e neppure i loro amici, soprattutto medici superimpegnati come lui. Le interminabili ore di lavoro avevano precluso loro la vita mondana. Erano sei mesi che si era separato da Alexis ed era normale che avesse un'amica. Prima o poi sarebbe stato visto in giro con una donna. Oltre ai concerti, frequentava regolarmente una palestra, andava a teatro, assisteva a balletti e prendeva parte a numerose altre attività e occasioni mondane. Dal momento che Alexis si era rifiutata di adeguarsi alla sua nuova vita, Craig si sentiva giustificato a farsi accompagnare da chiunque lo desiderasse. Niente l'avrebbe trattenuto dal diventare la persona che aspirava a essere. Era entrato a fare parte dei sostenitori del Museum of Fine Arts e aspettava con ansia l'apertura delle mostre, nonostante non ne avesse mai vista una prima di allora. Per dieci anni, durante il faticoso cammino per diventare medico, si era precluso ogni svago, anche culturale, allontanandosi dall'ospedale solo per dormire. Una volta specializzatosi in medicina interna e appesa la targa, aveva avuto ancora meno tempo libero, anche a
scapito della famiglia. Era diventato un lavoratore indefesso che dedicava tutto il suo tempo ai pazienti, ma la situazione stava cambiando e, per il momento, aveva messo da parte rimpianti e sensi di colpa. Il nuovo dottor Craig Bowman si era lasciato alle spalle la frenetica, insoddisfacente quotidianità lavorativa priva di stimoli culturali. Sapeva che alcuni avrebbero definito la sua una crisi di mezza età, ma per lui era una rinascita o, meglio, un risveglio. Nel corso dell'anno precedente si era impegnato, si potrebbe dire con ossessione, a diventare una persona più interessante, più felice, più completa e, proprio per questo, un medico migliore. La scrivania del suo appartamento in città era coperta da pile di dépliant di università, tra cui Harvard. Aveva intenzione di seguire dei corsi in materie umanistiche per recuperare il tempo perduto. Grazie a questa svolta era riuscito a riprendere la sua grande passione, la ricerca, che aveva dovuto abbandonare appena intrapresa la professione medica. I suoi studi sui canali del sodio nelle cellule muscolari e nervose, che durante i primi anni rappresentavano solo un lavoro remunerativo, si erano trasformati in passione quando aveva raggiunto il grado di ricercatore laureato. Da studente di medicina e poi interno, aveva firmato con altri colleghi pubblicazioni scientifiche molto ben considerate. Adesso aveva due pomeriggi alla settimana da dedicare al laboratorio e ne era felice. Leona lo chiamava «l'uomo del Rinascimento». La voglia di cambiare era stata improvvisa e l'aveva colto di sorpresa. Poco più di un anno prima e per un colpo di fortuna la sua vita professionale era mutata in modo drastico garantendogli lauti guadagni e soddisfazioni. D'un tratto aveva avuto la possibilità di praticare la medicina che aveva appreso all'università, mettendo le esigenze dei pazienti davanti alle arcane regole della copertura assicurativa. Poteva permettersi il lusso di visitare un malato anche per un'ora. Di punto in bianco era stato liberato dal doppio flagello degli esigui rimborsi e degli aumenti dei costi che l'avevano costretto a infilare sempre più appuntamenti nella sua già più che indaffarata giornata. Per riscuotere l'onorario non doveva più discutere con impiegati delle assicurazioni spesso ignoranti in materia medica. Quando lo riteneva opportuno, faceva addirittura visite a domicilio, inimmaginabili nella sua vita precedente. Il cambiamento era stato un sogno divenuto realtà. Quando aveva ricevuto quella proposta, aveva risposto al suo benefattore, e ora socio, che doveva rifletterci sopra. Come aveva potuto essere tanto stupido da non accettare immediatamente? A parte la separazione, tutto procedeva a gon-
fie vele e, per la prima volta in vita sua, Craig aveva tempo libero e soldi in banca. Con un'estremità del cravattino in ciascuna mano, stava per provarci di nuovo, quando squillò il cellulare. Si rabbuiò. Lanciò un'occhiata all'orologio: le diciannove e dieci minuti. Il concerto sarebbe iniziato alle venti e trenta. Lesse il nome sul display: STANHOPE. «Dannazione!» esclamò. Aprì il telefono. «Dottor Bowman!» lo salutò una voce raffinata. «Chiamo per Patience. È peggiorata. Credo che questa volta stia veramente male.» «Sa qual è il problema, Jordan?» rispose lui, lanciando un'occhiata al bagno. Leona aveva sentito lo squillo e lo stava guardando. Muovendo solo le labbra pronunciò il nome del suo interlocutore e Leona annuì. Sapeva cosa significava e Craig comprese dalla sua espressione che temeva anche lei che la serata fosse a rischio. Se fossero arrivati al concerto in ritardo, avrebbero dovuto aspettare l'intervallo, rinunciando al divertimento e all'eccitazione dell'entrée, che entrambi avevano pregustato. «No», ribatté Jordan. «È molto debole. Non riesce nemmeno a mettersi seduta a letto.» «A parte la debolezza, presenta altri sintomi?» «Credo che dovremmo chiamare l'ambulanza e portarla all'ospedale. È molto agitata e la cosa mi preoccupa.» «Jordan, se è preoccupato lei, lo sono anch'io», cercò di tranquillizzarlo. «Quali sono i sintomi? Voglio dire, questa mattina a casa sua mi sono occupato dei soliti acciacchi. C'è qualcosa di nuovo?» Patience Stanhope era uno dei suoi casi più difficili, per non dire esasperanti. Ogni giorno si ritrovava ad ascoltare una litania di lamentele, perlopiù psicosomatiche o completamente immaginarie, raramente risolvibili con una qualsiasi terapia, nemmeno dalla medicina alternativa. Craig le aveva tentate tutte con simili pazienti, inutilmente. Nel complesso erano depressi, esigenti, frustranti e facevano perdere un sacco di tempo, e ora, grazie a Internet, inventavano sintomi con creatività e pretendevano conversazioni prolungate e partecipi. Con la clientela precedente, dopo avere accertato le loro ipocondriasi oltre ogni ragionevole dubbio, Craig faceva in modo di doverli visitare il meno possibile, affidandoli a un'infermiera professionale o, se riusciva a convincerli, a uno psichiatra. Nell'attuale studio medico raramente poteva ricorrere a simili stratagemmi e, nonostante rappresentassero solo una piccola quota dei suoi ammalati, assorbivano buona parte del suo tempo. Patience ne era l'esempio principe. Nel corso degli otto mesi prece-
denti l'aveva visitata almeno una volta alla settimana, il più delle volte la sera, se non la notte. Quella donna stava mettendo a dura prova la sua pazienza. «Questa volta è diverso», incalzò Jordan. «C'è qualcosa di assolutamente anomalo rispetto ai disturbi di ieri sera e di questa mattina.» «In che senso? Cerchi di spiegarsi.» Craig voleva accertarsi di ciò che stava accadendo, obbligandosi a ricordare che gli ipocondriaci a volte si ammalano veramente. «Il dolore è in un punto diverso.» «D'accordo. Questo è un inizio.» Guardò Leona e le fece segno di affrettarsi. Se il problema era quello che immaginava, aveva intenzione di portarla con sé. «In che modo è diverso?» «Il dolore di questa mattina era situato nel retto e nella parte inferiore del ventre.» «Sì.» I soliti disturbi erano gonfiore, gas e problemi di evacuazione descritti nei minimi disgustosi dettagli. «E ora?» «Dice che lo sente nel petto. Non se ne era mai lamentata prima.» «Qui sbaglia, Jordan. Il mese scorso ha avuto numerosi episodi di dolori al petto. Ecco perché le avevo prescritto un elettrocardiogramma sotto sforzo.» «Ha ragione, me n'ero dimenticato. Non riesco a star dietro a tutti i suoi sintomi.» Neppure io, avrebbe voluto dirgli Craig, ma tenne la bocca chiusa. «Secondo me dovrebbe andare in ospedale», ripeté Jordan. «Credo che faccia fatica a respirare e a parlare. È riuscita solo a dirmi che aveva un'emicrania e mal di stomaco.» «La nausea è uno dei suoi disturbi più comuni», osservò paziente. «Come il mal di testa.» «Ma questa volta ha vomitato. Ha anche detto che si sentiva intorpidita, come se stesse galleggiando nell'aria.» «Il dolore è viscerale e comprimente o acuto e intermittente come un crampo?» «Non lo so.» «Può chiederglielo? Potrebbe essere importante.» «D'accordo, rimanga in linea.» Sentì Jordan appoggiare il ricevitore. Leona uscì dal bagno, era pronta. Era perfetta per la copertina di una rivista e glielo fece capire alzando il pollice. Lei sorrise e, muovendo solo le labbra, chiese: «Che sta succeden-
do?» Craig alzò le spalle, tenendo il telefono premuto sull'orecchio, ma allontanandolo dalla bocca. «Temo che dovrò fare una visita a domicilio.» Lei annuì, poi chiese: «Non riesci ad annodarti la cravatta?» Riluttante, annuì con il capo. «Vediamo cosa riesco a fare io.» Lui alzò il mento mentre Jordan tornava con la risposta. «Sostiene che il dolore è tremendo. Dice che è proprio come l'ha descritto lei.» Craig pensò di riconoscere la Patience di sempre. Da lei non avrebbe ottenuto alcun aiuto. «Il dolore s'irradia ovunque, nel braccio o nel collo?» «Oh, perdio! Non lo so! Devo chiederglielo?» «Sì, per favore.» Con alcune abili manovre Leona tirò le estremità del papillon e strinse il nodo. Dopo un'aggiustatina, fece un passo indietro. «Niente male», dichiarò soddisfatta. Craig si guardò allo specchio e ammise che aveva ragione. Era anche riuscita a farlo sembrare semplice. In quel momento risentì la voce di Jordan: «Dice che è solo nel petto. Pensa che si tratti di un attacco di cuore, dottore?» «L'infarto non è da escludere», ribatté Craig. «Se ricorda, Patience aveva presentato lievi anomalie nell'ECG sotto sforzo e per questo le avevo consigliato di fare esami più approfonditi, anche se non era predisposta a malattie cardiache.» «Dottore, adesso mi sembra sia diventata addirittura blu.» «D'accordo, d'accordo, arrivo subito. Un'ultima domanda: ha preso una delle pillole antidepressive che le ho lasciato questa mattina?» «È importante?» «Potrebbe. Anche se non mi sembra una reazione al farmaco, non dobbiamo dimenticarci che per lei è nuovo, per questo le avevo consigliato di assumerlo questa sera, prima di andare a letto, nel caso le avesse causato vertigini.» «Non ne ho idea. Ha un sacco di medicine che le aveva dato il dottor Cohen.» L'armadietto dei medicinali di Patience sembrava una farmacia. Il dottor Ethan Cohen, il suo medico precedente, le prescriveva farmaci con molta libertà. Era stato Cohen a offrire a Craig l'opportunità di entrare nel suo studio, ma attualmente era suo socio più in teoria che di fatto. Problemi di salute l'avevano costretto a prendersi una prolungata vacanza che sarebbe
potuta essere permanente. Aveva ereditato la sua lista di pazienti difficili, ma almeno, con sua grande gioia, nessuno dei clienti incontentabili con cui già doveva fare i conti aveva deciso di pagare la quota richiesta per passare al nuovo studio medico. «Ascolti, Jordan», disse Craig. «Sto arrivando, ma nel frattempo trovi il flaconcino di pillole che le ho dato questa mattina, così che possiamo contarle.» «D'accordo», promise Jordan. Chiuse il cellulare, poi guardò Leona: «Devo visitare una cliente. Ti spiace accompagnarmi? Se fosse un falso allarme, potremmo andare al concerto direttamente da lì, non siamo lontani dalla Symphony Hall». «A me sta bene», rispose allegramente lei. Infilandosi la giacca dello smoking, Craig si diresse all'armadio e prese la borsa nera. Gliel'aveva regalata sua madre per la laurea, un dono che aveva apprezzato moltissimo, sapendo per quanto tempo doveva aver messo da parte i soldi. Era una tipica borsa da medico in pelle con finiture in ottone. Nel corso dell'ultimo anno l'aveva utilizzata di frequente per le visite a domicilio. Vi gettò dentro alcuni strumenti e un analizzatore portatile dell'infarto del miocardio o dei marcatori biochimici degli attacchi di cuore. La scienza era progredita parecchio dai tempi della specializzazione, all'epoca potevano passare giorni prima di ricevere i risultati dal laboratorio. Ora poteva fare quell'analisi al capezzale del paziente. Prese anche un apparecchio ECG portatile, che passò a Leona. Quando Craig si era formalmente separato da Alexis, aveva trovato un appartamento a Beacon Hill, nel centro di Boston, con un'ottima esposizione, un balcone e una bella vista sul fiume Charles. Era perfetto soprattutto perché poteva raggiungere a piedi ottimi ristoranti e i teatri. «Che possibilità abbiamo di andarcene in tempo per il concerto?» chiese Leona, mentre si allontanavano sulla nuova Porsche del dottore. «Jordan pensa che questa volta i dolori siano reali e la cosa mi spaventa. Vivendo con Patience, la conosce meglio di chiunque altro.» «Come fa a sopportarla? È una tale rompipalle, mentre lui mi pare un gentiluomo raffinato.» Leona aveva visto gli Stanhope un paio di volte nello studio. «Credo che sia lei quella con i soldi, ma chi può dirlo? La vita privata della gente riserva spesso delle sorprese, inclusa la mia, fino a poco tempo fa.» Strizzò la coscia di Leona.
«Non so come fai ad avere tanta pazienza.» «Una faticaccia e, detto tra noi, non la sopporto. Fortunatamente quelli come lei sono una minoranza. Ho studiato per prendermi cura degli ammalati e non degli ipocondriaci paranoici. Avessi voluto diventare psichiatra, avrei studiato psichiatria.» Gli Stanhope vivevano in un palazzo georgiano attorniato da un ampio terreno boschivo vicino al Chestnut Hill Country Club, in una zona elegante di Brighton. Craig percorse il vialetto circolare e si fermò davanti all'edificio. Conosceva anche troppo bene la strada. Il proprietario di casa spalancò la porta, mentre loro salivano i tre gradini, Craig con la borsa nera, Leona con l'apparecchio per l'elettrocardiogramma. «È di sopra nella sua stanza», li avvisò. Era un uomo alto, meticoloso, che indossava una giacca da camera in velluto verde scuro. Finse di non notare il loro abbigliamento da sera. Prima di girarsi fece cadere nella mano del medico un flaconcino in plastica. Era il campione di Zoloft che Craig aveva dato a Patience quel mattino. Notò subito che mancava una pillola. Evidentemente aveva iniziato la cura prima di quanto le avesse raccomandato. S'infilò in tasca il flacone e seguì il marito. «Non le dispiace che la mia segretaria mi accompagni?» disse. «Potrebbe darmi una mano.» Leona aveva già mostrato nello studio medico la sua disponibilità ad aiutare e Craig era rimasto colpito dal suo impegno e dal suo spirito d'iniziativa molto prima di cominciare a pensare di invitarla a uscire con lui. L'aveva impressionato anche il fatto che frequentasse dei corsi serali per ottenere un titolo come tecnica o infermiera, cosa che accresceva il suo fascino. «Affatto», rispose Jordan senza girarsi, facendo loro segno con la mano di seguirlo. Si era avviato su per lo scalone che costeggiava la finestra palladiana sopra l'ingresso. «Camere da letto separate», sussurrò Leona a Craig, mentre si affrettavano a seguire Jordan. «Mi sembra un'assurdità. Credevo esistessero solo nei vecchi film.» Craig non rispose. Percorsero rapidamente un lungo corridoio coperto da moquette ed entrarono nella suite tappezzata di seta blu. Patience, le palpebre pesanti, giaceva in un letto enorme, mezzo appoggiata a cuscini esageratamente imbottiti. Una domestica in un modesto abito da cameriera si raddrizzò. Aveva tenuto un panno umido sulla fronte della donna. Con una rapida occhiata alla malata e senza dire una parola, Craig corse da lei, fece cadere a terra la borsa e le tastò il polso. Aprì di scatto la borsa
e tirò fuori lo stetoscopio e il bracciale per la pressione. Mentre lo avvolgeva al braccio destro di Patience, gridò a Jordan: «Chiami l'ambulanza!» L'uomo si precipitò al telefono sul comodino e compose il 911. Con un gesto della mano fece allontanare la domestica. «Mio Dio!» esclamò il medico esaminando i valori della pressione. Tolse bruscamente i cuscini da dietro la schiena di Patience, che crollò all'indietro come una bambola di pezza. Scostò le coperte e le aprì il négligé, poi auscultò brevemente il torace prima di far segno a Leona di passargli l'apparecchio per l'elettrocardiogramma. Si sentiva Jordan parlare con l'operatore del 911. Craig districò i cavi dell'apparecchio e li attaccò con del gel conduttore. «Si riprenderà?» chiese sottovoce Leona. «E chi lo sa? È cianotica.» «Che vuol dire?» «Che non c'è ossigeno sufficiente nel sangue. Non so se perché il cuore non sta pompando a sufficienza o perché lei non respira abbastanza. Una cosa o l'altra o entrambe.» Si concentrò sull'apparecchio che stava stampando un tracciato. Erano evidenziate solo piccole onde molto distanziate tra loro. Strappò la striscia e la esaminò velocemente prima di infilarla nella tasca della giacca. Tolse con grande rapidità i cavi dalle estremità di Patience. Jordan appese il ricevitore. «L'ambulanza è per strada.» Craig fece un cenno di assenso mentre frugava nella borsa ed estraeva un pallone Ambu per la respirazione artificiale. Sistemò la maschera sul naso e la bocca di Patience e compresse il pallone. Il petto della donna si sollevò facilmente, indicando una buona ventilazione. «Puoi continuare tu?» chiese Craig a Leona, senza smettere di ventilare la donna. «Penso di sì», rispose esitante. S'infilò tra lui e la testata del letto e prese il suo posto. Craig le mostrò come mantenere sigillata la mascherina e come tenere la testa della paziente all'indietro. Poi esaminò le pupille della donna, che trovò dilatate e non reattive. Un brutto segno. Con lo stetoscopio controllò la respirazione e constatò che era regolare. Dalla borsa prese l'analizzatore dei biomarcatori per la diagnostica di un attacco cardiaco. Aprì la scatola e ne estrasse un dispositivo in plastica. Con una piccola siringa eparinizzata prelevò del sangue da una vena principale, poi ne fece cadere sei gocce sull'area campione. Mise il dispositivo
sotto la luce. «È positivo», esclamò dopo un attimo, ributtando tutto nella borsa. «Cosa è positivo?» volle sapere Jordan. «Il sangue è positivo alla mioglobina e alla troponina», spiegò. «Ha avuto un attacco di cuore.» Con lo stetoscopio si accertò che Leona stesse ventilando adeguatamente Patience. «Temo che la situazione sia molto grave.» «È quello che avevo cercato di spiegarle al telefono», proruppe Jordan. «Sta peggio di quanto mi abbia indotto a credere», sbottò Craig prendendo dell'epinefrina e dell'atropina e un flacone di soluzione endovenosa. «Le avevo detto chiaramente che stava peggiorando.» «Lei mi ha detto che respirava a fatica. Quando siamo arrivati non respirava quasi più. Ha detto che le sembrava bluastra, mentre io l'ho trovata cianotica.» Mentre parlava, sistemò l'ago, iniettò l'epinefrina e l'atropina e appese il flacone per l'endovenosa a un paralume. «Ho fatto del mio meglio, dottore.» «E l'apprezzo», gli concesse Craig, sollevando la mano in un gesto conciliante. «Mi scusi, non volevo criticarla. Sono solo preoccupato per sua moglie. Quello che dobbiamo fare ora è portarla il più velocemente possibile in ospedale. Ha bisogno di essere ventilata con ossigeno e di uno stimolatore cardiaco. E bisogna anche intervenire per la crisi acidotica.» In lontananza si sentì la sirena dell'ambulanza. Il marito corse giù per le scale per far entrare i paramedici e far loro strada fino alla camera da letto. «Ce la farà?» domandò Leona continuando a ventilare con il pallone. «Non mi sembra più tanto blu.» «Stai facendo un ottimo lavoro», le rispose Craig, «ma non sono ottimista. Ha le pupille miotiche ed è flaccida. Lo sapremo quando l'avremo portata al Newton Memorial Hospital, le avremo fatto una trasfusione e l'avremo collegata a un apparecchio per la respirazione e a uno stimolatore. Ti dispiacerebbe guidare la mia automobile? Vorrei accompagnarla in ambulanza nel caso di un arresto cardiaco. Se avesse bisogno di una rianimazione cardiopolmonare, voglio eseguire io le compressioni.» La squadra del pronto soccorso era efficiente: un uomo e una donna chiaramente affiatati da tempo, prevedevano ognuno le mosse dell'altro. Spostarono rapidamente Patience sulla lettiga, la portarono da basso e la caricarono sull'ambulanza. Nel giro di pochi minuti erano di nuovo in viaggio. Avendo riconosciuto l'emergenza, avevano azionato la sirena e la donna partì a razzo. Per strada il paramedico chiamò il Newton Memorial per avvisarli.
Quando arrivarono, il cuore di Patience stava ancora battendo, ma debolmente. Ad attenderli c'era una cardiologa che Craig conosceva molto bene. Patience fu portata dentro alla svelta e affidata alle mani di un'intera squadra. Craig riferì alla collega i risultati dell'esame dei biomarcatori che confermava la diagnosi di infarto miocardico o di attacco di cuore. Come previsto, Patience venne attaccata a un respiratore con ossigeno al cento percento e a un pacemaker e fu confermato che aveva un'attività elettrica senza polso (PEA), come dire che lo stimolatore cardiaco creava un'immagine sull'elettrocardiogramma, ma il cuore non reagiva con i battiti. Uno degli specializzandi iniziò la compressione del petto. Gli esami rivelarono valori di gas nel sangue nella norma, ma un livello acido elevato. Craig e la dottoressa si scambiarono un'occhiata. Entrambi sapevano per esperienza che l'attività elettrica senza polso aveva un esito negativo nei malati ricoverati, anche se si interveniva rapidamente. La situazione di Patience era molto peggiorata, rispetto a quando era stata caricata in ambulanza. Dopo aver tentato a lungo di far ripartire il cuore, la cardiologa prese il collega in disparte. Craig, i capelli spettinati, indossava l'elegante camicia con il papillon ancora perfettamente a posto. La manica destra si era macchiata del sangue che aveva prelevato alla sua paziente per le analisi e la giacca dello smoking era appesa a un'asta per endovena appoggiata contro la parete. «Deve essersi trattato di un grave danno al muscolo cardiaco», osservò la dottoressa. «Non c'è altra spiegazione per le anomalie di conduzione e la PEA. Forse se fossimo intervenuti prima... Dalla sua descrizione del decorso temporale, immagino che la dimensione dell'infarto iniziale sia cresciuta in modo significativo.» Craig annuì. Lanciò un'occhiata all'equipe che stava ancora praticando la rianimazione cardiopolmonare sulla scarna figura di Patience. Per colmo d'ironia, grazie all'ossigeno e alla compressione del petto aveva ripreso un colorito normale. Sfortunatamente avevano esaurito i tentativi. «Aveva qualche malattia cardiovascolare?» «Un elettrocardiogramma sotto sforzo eseguito pochi mesi fa aveva dato un risultato poco chiaro», rispose Craig. «Indicava qualche anomalia, ma la paziente si era rifiutata di sottoporsi a ulteriori esami.» «A detrimento della sua salute», commentò la cardiologa. «Sfortunatamente, le pupille non sono tornate normali, indicando un danno cerebrale anossico. Sulla base di questi dati, cosa pensa di fare? Tocca a lei decide-
re.» Craig trasse un profondo respiro ed esalò rumorosamente, scoraggiato. «Ritengo che si debba smettere.» «Sono d'accordo.» La dottoressa gli strizzò con fare rassicurante la spalla, quindi tornò al tavolo per dire ai colleghi di fermarsi. Craig prese la giacca e si diresse al bancone del pronto soccorso per firmare la dichiarazione di morte per arresto cardiaco a seguito di infarto del miocardio. Andò poi nella sala d'attesa, dove Leona sfogliava una vecchia rivista, seduta tra ammalati, feriti e le loro famiglie. Nel vestito da sera attillato sembrava una pepita d'oro in un vialetto di ghiaia. Alzò gli occhi appena lo vide avvicinarsi e Craig comprese che aveva capito cosa era successo dalla sua espressione. «Niente da fare?» Craig scosse la testa e si guardò in giro. «Dov'è il signor Stanhope?» «Se ne è andato un'ora fa.» «Davvero? Perché?» «Ha detto che preferiva aspettare la tua telefonata a casa. Che gli ospedali lo deprimono.» Craig si lasciò sfuggire una breve risata. «Rientra nel personaggio. L'ho sempre trovato freddo e secondo me con sua moglie faceva la commedia.» Leona gettò la rivista sul tavolino e lo seguì nella notte. Nessuno dei due parlò fino a che non arrivarono all'auto. «Vuoi che guidi io?» si offrì lei. Craig scosse il capo, le aprì la portiera, poi si mise al volante. Non avviò subito il motore. «Naturalmente abbiamo perso il concerto», disse infine, fissando oltre il parabrezza. «Direi. Sono passate le dieci. Che vorresti fare?» Craig non rispose. Sapeva di dover telefonare a Jordan Stanhope e non ne aveva voglia. «Dev'essere dura perdere un paziente», osservò Leona. «A volte è più duro affrontare i sopravvissuti», replicò lui, senza avere idea di quanto profetico si sarebbe rivelato quel suo commento. New York 19.10 Il dottor Jack Stapleton era seduto nel suo studio al quinto piano dell'istituto di medicina legale da più ore di quanto fosse disposto ad ammettere. Il
suo collega, il dottor Chet McGovern, se l'era svignata subito dopo le sedici per andare a esercitarsi nella sua elegante palestra. Aveva tentato in tutti i modi di coinvolgere Jack con incandescenti storie sulle tenute aderentissime che nulla lasciavano alla fantasia del nuovo gruppo di ragazze del corso di body-sculpting, ma Jack si era scusato sostenendo come sempre che, nello sport, preferiva partecipare più che osservare. Non poteva credere che Chet riuscisse ancora a ridere di ciò che era diventata una battuta trita. Alle diciassette la dottoressa Laurie Montgomery, collega e sua anima gemella, aveva infilato la testa nello studio per avvisarlo che stava andando a casa a prepararsi per il romantico tête-à-tête organizzato da Jack da Elio, il loro ristorante preferito. Gli aveva proposto di accompagnarla per darsi una rinfrescata, ma lui aveva rifiutato, sommerso di lavoro com'era. Si sarebbero incontrati al ristorante alle venti. Non capitava spesso che il suo compagno fosse così pieno di iniziativa, e lei si sarebbe fatta in quattro per incoraggiare un simile comportamento. I normali piani serali di Jack prevedevano una spericolata corsa a casa sulla mountain bike, un'intensa partita a pallacanestro al campo del quartiere con gli amici, un'insalata veloce attorno alle ventuno e, per concludere, un silenzioso crollo sul letto. Nonostante l'aria indaffarata, nell'ultima ora Jack aveva solo cercato di tenersi occupato. Ancor prima di sedersi alla scrivania, si era messo in pari con tutte le autopsie in sospeso. Quel pomeriggio si era impegnato tanto solo nel vano tentativo di controllare l'ansia che provava per i piani per la serata. Buttarsi a capofitto nel lavoro o in intense attività sportive era stata la sua salvezza per più di quattordici anni e non avrebbe abbandonato questo stratagemma proprio adesso. Sfortunatamente, il lavoro forzato non stava tenendo vivo il suo interesse. La sua mente cominciò a vagare in aree proibite, portandolo a ripensare ai progetti serali. Proprio in quel momento gli squillò il cellulare. Diede un'occhiata all'orologio, mancava poco all'ora X. Sentì il polso accelerare. Una telefonata in quel momento era un segno infausto. Lesse il nome sul display. Allen Eisenberg, uno dei patologi interni addetto ai casi fuori orario che necessitavano l'attenzione di un camice bianco. Quando il problema superava le competenze dello specializzando in patologia, allora bisognava interpellare il medico legale in servizio, che quella sera era Jack. «Mi dispiace doverla disturbare, dottor Stapleton», esordì Allen con voce piagnucolosa e stridula.
«Che problema c'è?» «Un suicidio, signore.» «D'accordo, ma qual è il problema? Non riuscite a occuparvene voi?» Jack non conosceva Allen molto bene, ma sapeva che Steve Marriott, l'investigatore forense del turno serale, aveva una grande esperienza. «È un caso di alto livello, signore. La defunta è la moglie o l'amica di un diplomatico iraniano che sta sbraitando come un matto minacciando di chiamare il suo ambasciatore. Mi ha interpellato Marriott, ma temo che la faccenda sia superiore alle mie forze.» Jack non rispose. Era inevitabile: doveva andarci di persona. Questi casi delicati assumevano invariabilmente implicazioni politiche, il lato del suo lavoro che Jack detestava. Non sapeva se avrebbe fatto in tempo ad arrivare al ristorante per le venti, il che non fece che accrescere la sua ansia. «È ancora lì, dottor Stapleton?» «Ci sono, ci sono...» «Temevo che fosse caduta la linea», piagnucolò Allen. «Siamo nell'appartamento 54-J del palazzo delle Nazioni Unite, sulla Quarantasettesima.» «Il corpo è stato spostato o toccato?» Jack s'infilò la giacca di velluto a coste marrone, picchiettando inconsapevolmente l'oggetto quadrato nella tasca destra. «Non da me né dall'investigatore forense.» «La polizia?» Jack si avviò verso l'ascensore. Il corridoio era deserto. «Credo di no, ma non l'ho chiesto.» «Forse dal marito o amichetto?» «Dovrebbe domandarlo alla polizia. Il detective che si occupa del caso è qui vicino a me e vuole parlare con lei.» «Me lo passi!» «Ehi, amico!» gridò una voce, costringendo Jack ad allontanare il telefono dall'orecchio. «Muovi il culo e corri qui!» Jack riconobbe la voce roca del tenente Lou Soldano della Omicidi, suo amico da dieci anni, quasi da quanto conosceva Laurie. Era stata lei a presentarli. «Avrei dovuto saperlo che c'eri tu dietro questa storia!» si lamentò Jack. «Spero tu non abbia dimenticato che dobbiamo essere da Elio tra meno di un'ora.» «Ehi, non programmo io 'sta merda. Quando capita, capita.» «E tu che ci fai lì, se si tratta di suicidio? Qualche motivo di pensare che non lo sia?»
«Che diavolo, no! È un suicidio, non ci sono dubbi con una ferita a contatto d'arma da fuoco alla tempia destra. È stato il mio amato capitano a richiedere la mia presenza grazie ai papaveri coinvolti e al polverone che sono potenzialmente capaci di sollevare. Vieni o no?» «Sto arrivando. Il corpo è stato spostato o toccato?» «Non da noi.» «Chi sta gridando?» «Il marito o un amico diplomatico. Non abbiamo ancora capito. Un tipo insignificante, ma altezzoso e aggressivo. Non ha fatto che urlarci contro da quando siamo arrivati, tentando di comandarci a bacchetta.» «Cosa vuole?» «Vuole che copriamo le nudità della donna ed è furioso perché non possiamo toccare la scena prima che voi abbiate finito di esaminarla.» «Un attimo!» lo interruppe Jack. «Mi stai dicendo che la donna è nuda?» «Nuda come un verme e completamente priva di peli pubici. È rasata come un palla da biliardo, che...» «Lou!» lo interruppe Jack. «Non è un suicidio!» «Che cosa?» chiese il tenente incredulo. «Stai insinuando che si tratta di omicidio senza neppure avere visto la scena del crimine?» «Verrò a esaminarla, ma ti assicuro che non si tratta di suicidio. Avete trovato qualche biglietto?» «Apparentemente, ma è in lingua farsi. Non ho la più pallida idea di cosa dica. Il diplomatico sostiene che è il biglietto di un suicida.» «Non è stato suicidio», ripeté il patologo. L'ascensore arrivò al piano e Jack entrò, ma tenne la porta aperta, per non perdere la comunicazione. «Ci scommetto cinque dollari. Non ho mai sentito di una donna che si sia suicidata nuda. Non accade mai.» «Stai scherzando!» «No. Non è così che una suicida vuole essere trovata. Faresti meglio a comportarti di conseguenza e a far venire quelli della Scientifica. Guarda che il diplomatico, marito o chi diavolo è, deve essere il tuo principale sospettato. Non permettergli di scomparire nell'ambasciata iraniana. Potresti non rivederlo più.» La porta dell'ascensore si chiuse, mentre Jack spegneva il cellulare. Sperò che non vi fosse un significato più profondo dietro l'interruzione dei suoi piani per la sera. Guardò l'ora: le diciannove e venti. «Dannazione!» imprecò, picchiando un paio di volte la porta con i palmi delle mani. Forse avrebbe fatto meglio a riconsiderare tutta la faccenda.
Con la rapidità appresa dall'esperienza, andò a prendere la mountain bike dal magazzino della morgue, aprì il lucchetto, s'infilò il casco e la spinse su per la rampa che portava in strada. Montò in sella tra i furgoni dell'obitorio e s'immise nel traffico. Una volta sulla bici, l'ansia di Jack svanì. In piedi sui pedali, li pigiò con forza e la bicicletta balzò in avanti, accelerando velocemente. Il traffico dell'ora di punta era scemato e le automobili, i taxi, i bus e i camion avanzavano ad andatura sostenuta, ma Jack riusciva quasi a tenere il loro passo. Una volta raggiunta una buona velocità, si risedette sul sellino e ingranò una marcia superiore. Grazie alle corse quotidiane e alle partite di pallacanestro, era in ottima forma. La serata era fantastica, e la città era soffusa di una luminescenza dorata. I grattacieli spiccavano contro il cielo blu. Superò rapidamente l'University Medical Center alla sua destra e il complesso dell'ONU più a nord. Appena poté, si spostò a sinistra per poi svoltare verso est. L'edificio in vetro e marmo delle Nazioni Unite si elevava per oltre sessanta piani nel cielo serale. Davanti al tendone che si protendeva dall'entrata c'erano numerose auto di pattuglia della polizia con i lampeggianti accesi. Gli assuefatti abitanti di New York passavano senza degnarli neanche di un'occhiata. Parcheggiata in seconda fila c'era una malconcia Chevy, l'auto di Lou, e di fronte un furgone funebre municipale. Appena assicurò la bici a un cartello di divieto di parcheggio, si sentì riprendere dall'ansia. La corsa era stata troppo breve per avere un effetto duraturo. Le diciannove e trenta. Mostrò il tesserino di medico legale al portiere, che lo indirizzò al cinquantaquattresimo piano. Nell'appartamento la situazione era diventata più tranquilla. Quando entrò, Lou, Allen, Steve e alcuni agenti erano seduti in salotto come se fosse la sala d'attesa di un medico. «Novità?» chiese. Nella camera regnava il silenzio. «Stiamo aspettando quelli della Scientifica», gli rispose Lou, alzandosi in piedi. Gli altri lo imitarono. Invece del suo solito abito spiegazzato e disordinato, indossava una camicia stirata e abbottonata fino al collo, una cravatta nuova dai toni tenui e una giacca sportiva un po' troppo stretta per la sua corporatura robusta. Lou era un detective esperto che per sei anni aveva fatto parte dell'unità contro il crimine organizzato prima di passare alla Omicidi, dove lavorava ormai da oltre dieci anni. «Sei molto elegante», lo lusingò Jack. I capelli cortissimi erano stati pettinati da poco e non c'era traccia della sua famosa barba delle cinque del
pomeriggio. «Più di così non si può fare», ribatté Lou, alzando le braccia. «In onore della tua cena sono corso a casa e mi sono cambiato. Ma qual è l'occasione?» «Dov'è il diplomatico?» chiese Jack, ignorando la domanda. Lanciò un'occhiata in cucina e in sala da pranzo, ma l'appartamento sembrava vuoto. «È corso via», rispose l'amico. «Si è precipitato fuori, appena terminata la telefonata con te, minacciandoci tutti di spaventose conseguenze.» «Non avresti dovuto lasciarlo andare.» «Cosa avrei dovuto fare?» si lamentò Lou. «Non avevo un mandato d'arresto.» «Non potevi trattenerlo per interrogarlo fino al mio arrivo?» «Senti, il capitano mi ha costretto a seguire questo caso per tenere la faccenda sotto controllo, non per smuovere le acque. Trattenerlo avrebbe voluto dire scatenare il caos.» «D'accordo!» borbottò Jack. «Il problema è tuo, non mio. Vediamo il cadavere.» Lou indicò la porta aperta della camera da letto. «Avete già identificato la donna?» «Non ancora. L'amministratore dello stabile dice che era qui da meno di un mese e che parlava poco la nostra lingua.» Jack osservò la scena prima di avvicinarsi al corpo. Nella stanza aleggiava un leggero odore di macelleria. L'arredamento era sicuramente opera di un architetto: pareti e moquette nere, soffitto a specchio, tende, mobili e soprammobili bianchi, come le lenzuola. Il corpo era completamente nudo e giaceva supino sul letto con i piedi che penzolavano dal lato sinistro del materasso. Sebbene da viva avesse avuto la carnagione scura, ora, contro il bianco del lenzuolo, la donna appariva di un color cenere, a parte alcuni lividi sul volto e un occhio nero. Le braccia erano aperte e i palmi rivolti all'insù. Nella mano destra teneva una pistola automatica, l'indice all'interno della guardia del grilletto. La testa era girata leggermente verso sinistra. Gli occhi aperti. Sulla tempia destra si vedeva il foro d'entrata di un colpo di pistola. Dietro la testa, sul lenzuolo, una grossa macchia di sangue che si allargava verso sinistra, e dei pezzetti di tessuto. «Alcuni di questi mediorientali sanno essere brutali con le loro donne», osservò Jack. «È quello che ho sentito dire», convenne Lou. «Quei lividi e l'occhio ne-
ro sono stati causati dallo sparo?» «Direi di no.» Si rivolse a Steve e Allen. «Avete scattato le foto?» «Sì», rispose Steve dall'uscio. Jack s'infilò un paio di guanti in lattice e spostò con attenzione i capelli scuri della donna per mettere in vista il foro d'entrata. Una precisa forma a stella indicava che la bocca dell'arma era stata a contatto con la tempia quando aveva fatto fuoco. Jack le girò la testa di lato per guardare il foro d'uscita in basso, sotto l'orecchio sinistro, poi si raddrizzò. «Ecco, un'altra prova.» «Prova di che?» chiese Lou. «Che non si è trattato di suicidio. La pallottola ha seguito una direzione dall'alto verso il basso. Non è così che ci si uccide.» Si puntò l'indice della mano destra alla tempia come se fosse la bocca di una pistola. Il dito era parallelo al pavimento. «Quando una persona si spara, il tracciato del proiettile è quasi orizzontale o tende leggermente verso l'alto, mai verso il basso. Questo è un omicidio che qualcuno vuol far passare per suicidio.» «Grazie mille», bofonchiò il detective. «Speravo che la tua deduzione iniziale si sarebbe rivelata sbagliata.» «Scusa.» «Da quanto pensi sia morta?» «Non posso ancora dirlo, ma non dovrebbe essere da molto. Qualcuno ha sentito uno sparo? Ci darebbe l'ora esatta.» «Sfortunatamente no.» «Tenente!» gridò uno degli agenti dal vano della porta. «Sono arrivati i ragazzi della Scientifica.» «Di' loro di portare qui alla svelta i loro deretani», gridò Lou senza girarsi. Poi si rivolse a Jack: «Hai finito?» «Sì. Avremo più informazioni domattina. Farò io stesso l'autopsia.» «Cercherò d'essere presente.» Nel corso degli anni Lou aveva imparato a riconoscere il valore delle informazioni che si potevano raccogliere dalle vittime di omicidi durante l'autopsia. «Bene.» Si sfilò i guanti. «Me ne vado.» Guardò l'ora. Non era ancora in ritardo, ma mancava poco. Erano le diciannove e cinquantadue. Ci avrebbe messo più di otto minuti per raggiungere il ristorante. Guardò Lou che si era chinato per esaminare un piccolo strappo nel lenzuolo a parecchi centimetri dal corpo verso la testata del letto. «Che cosa hai trovato?» «Cosa pensi sia? Potrebbe essere qui che la pallottola è penetrata nel materasso?»
Jack si chinò per osservare il taglio lineare e lungo un centimetro. Annuì. «Direi di sì. C'è del sangue lungo i bordi.» Lou si raddrizzò, mentre i tecnici della Scientifica entravano con le attrezzature. Accennò al proiettile e i tecnici gli assicurarono che l'avrebbero recuperato. «Riuscirai ad andartene a un'ora ragionevole?» gli domandò Jack. Lou alzò le spalle. «Posso venire via con te. Con il diplomatico lontano non ho motivo di restare. Ti do un passaggio.» «Sono in bici.» «E allora? Mettila nella mia auto. Arriveremo prima e tutti interi. Non posso credere che Laurie ti permetta ancora di girare per la città su quell'aggeggio. E pensare che proprio voi ne vedete tanti di quei fattorini appiattiti sull'asfalto.» «Io sono prudente.» «Prudente un corno», ribatté l'amico. «Ti ho visto sfrecciare come un pazzo più di una volta.» Jack rifletté. Voleva prendere la bici per il suo effetto calmante e anche perché non sopportava la puzza di sigarette nell'abitacolo della Chevy di Lou, ma l'ora dell'appuntamento si stava avvicinando. «D'accordo», accettò infine, riluttante. «Perbacco, una scintilla di maturità!» esclamò Lou, gettandogli le chiavi dell'auto. «Mentre sistemi la bici, io scambierò due parole con i miei ragazzi per assicurarmi che sia tutto a posto.» Dieci minuti dopo Lou stava percorrendo Park Avenue diretto a nord. Jack aveva sistemato la bici sul sedile posteriore dopo avere tolto le ruote. Aveva anche preteso di viaggiare con tutti i finestrini aperti, il che rendeva l'interno dell'auto ventoso ma sopportabile, malgrado il portacenere traboccante. «Mi sembri teso», osservò Lou costeggiando la stazione Grand Central sulla sopraelevata. «Ho paura di fare tardi.» «Per mal che vada arriveremo con un quarto d'ora di ritardo, che per me non è un ritardo.» Jack lanciò un'occhiata fuori del finestrino. Lou aveva ragione, ma non per questo si sentì meno ansioso. «Allora, come mai festeggiamo stasera? Non me l'hai detto.» «Deve sempre esserci un motivo?» «D'accordo», ribatté Lou lanciandogli una rapida occhiata. Si stava
comportando in modo strano, ma lasciò perdere. C'era qualcosa nell'aria. Parcheggiarono in divieto di sosta a pochi passi dal ristorante. Lou lanciò sul cruscotto il suo tesserino di poliziotto. «Pensi che sarà al sicuro?» chiese Jack. «Non vorrei che mi portassero via la bici assieme alla tua auto.» «Non la porteranno via!» ribatté convinto Lou. Entrarono da Elio, a quell'ora molto affollato, soprattutto il bar vicino all'entrata. «Sono rientrati tutti dalle ferie», spiegò Lou, gridando per farsi sentire sopra il fracasso di voci e risate. Jack annuì e si fece strada tra la folla. Stava cercando la direttrice di sala quando sentì qualcuno picchiettargli insistentemente la spalla. Si voltò e si trovò a fissare gli occhi verde-blu di Laurie. Jack notò che aveva preso molto sul serio il suo «prepararsi per la serata». I capelli biondo rame le cadevano sciolti sulle spalle, liberati dalla solita treccia. Indossava la camicetta bianca in stile vittoriano dal colletto alto e le gale, che gli piaceva tanto, e una giacca in velluto color miele scuro. Nella penombra del ristorante, la sua pelle brillava come se fosse illuminata dall'interno. La trovò stupenda, ma c'era un problema. Invece dell'espressione calorosa e felice che s'aspettava, sembrava di ghiaccio. Raramente Laurie si prendeva la briga di celare le sue emozioni e Jack comprese che qualcosa non andava. Si scusò per il ritardo, spiegandole che era stato chiamato per un caso di omicidio dove aveva incontrato Lou. Allungando la mano dietro di sé, lo tirò nella sfera della conversazione. Lou e Laurie si scambiarono dei bacetti sfiorandosi le guance, poi Laurie strattonò a sua volta da dietro Warren Wilson e la sua amica di sempre, Natalie Adams. Warren era l'afroamericano dai potenti muscoli con il quale Jack giocava quasi ogni sera a pallacanestro. Per questo motivo erano diventati ottimi amici. Dopo lo scambio di saluti, Jack annunciò che avrebbe cercato la direttrice di sala per chiederle dove fosse il loro tavolo. Mentre si faceva strada, sentì Laurie seguirlo. Si fermò davanti alla postazione della maître, che stava facendo accomodare un gruppo di persone. Si voltò verso Laurie per vedere se la sua espressione fosse cambiata dopo le sue giustificazioni del ritardo. «Non sei in ritardo», puntualizzò lei, come se gli avesse letto nel pensiero. L'osservazione lo discolpava, ma non il tono. «Eravamo arrivati solo da pochi minuti. Tempismo perfetto.»
Jack la scrutò. Da come serrava le labbra era evidente che era ancora irritata, ma non riuscì a capire perché. «Sembri di malumore. C'è qualcosa che dovrei sapere?» «M'aspettavo una cena romantica», rispose lei, il tono ora più triste che arrabbiato. «Non mi avevi detto che avresti invitato un'orda di gente.» «Warren, Natalie e Lou non sono un'orda», ribatté. «Sono i nostri migliori amici.» «Be', avresti potuto e dovuto dirmelo», replicò Laurie secca. «A quanto pare avevo attribuito a questa serata un significato più importante di quanto avessi inteso tu.» Jack distolse per un attimo lo sguardo per riprendere il controllo delle sue emozioni. Dopo tutta l'ansia e i sentimenti contrastanti che aveva provato nel pianificare la cena, era impreparato a una reazione simile, sebbene fosse comprensibile. Evidentemente troppo preso dai suoi, aveva ferito i sentimenti di Laurie. Non gli era passato per la mente che lei contasse su una serata a due. «Non guardarmi così!» sbuffò Laurie. «Avresti dovuto farmi capire cosa avevi in mente. Sai che non ho niente in contrario se esci con Warren e Lou.» Jack guardò nell'altra direzione e si morsicò la lingua per non ribattere; sapeva che, se l'avesse fatto, non avrebbe più potuto salvare la serata. Tirò un profondo respiro, decise di inghiottire il rospo e la fissò. «Mi dispiace», ammise con tutta la sincerità cui riuscì a fare appello date le circostanze. «Non ho pensato che te la saresti presa a male. Sarei dovuto essere più esplicito. Per la verità li ho invitati come sostegno.» Perplessa, strizzò gli occhi. «Che genere di sostegno? Non capisco.» «Dammi tempo e te lo spiego.» «D'accordo, ma dovrai essere molto convincente. Accetto comunque le tue scuse.» «Grazie.» Esalò rumorosamente prima di rivolgere lo sguardo alla sala. «Insomma, dov'è il nostro tavolo?» Dovettero aspettare altri venti minuti prima di potersi sedere. Laurie aveva dimenticato, almeno in apparenza, l'irritazione di poco prima e sembrava divertirsi, ridendo e chiacchierando animatamente, anche se Jack aveva l'impressione che evitasse di guardarlo. Era seduta alla sua destra, così di lei vedeva soltanto il profilo. Con grande piacere di Jack e Laurie, li servì il cameriere dai baffi a manubrio che li aveva serviti altre volte. La maggior parte delle loro serate in
quel ristorante erano state indimenticabili. Era passato un anno dall'ultima volta che avevano cenato lì e quella non era stata certo una serata da ricordare. Forse era stato il momento peggiore del loro rapporto, il mese in cui non avevano vissuto insieme. Durante quella cena Laurie gli aveva rivelato di essere incinta e lui, con grande insensibilità, le aveva chiesto chi fosse il padre. Sebbene avessero poi fatto la pace, Laurie aveva dovuto interrompere la gravidanza, che si era rivelata extrauterina. Dietro richiesta di Jack, il cameriere distribuì calici dal gambo lungo, stappò una bottiglia di champagne e, dopo l'applauso al botto, riempì i bicchieri. «Ehi, Jack», brindò Warren, sollevando il calice. «All'amicizia.» Tutti lo imitarono, tranne Jack che alzò invece una mano vuota. «Se non vi dispiace, vorrei dire subito qualcosa. Vi sarete tutti chiesti perché vi abbia invitati qui stasera, in particolar modo Laurie. Il fatto è che avevo bisogno del vostro appoggio per fare qualcosa che desideravo fare da tempo, senza trovarne il coraggio. Vorrei proporre un brindisi piuttosto egoista.» Jack infilò la mano nella tasca della giacca e a fatica ne estrasse una scatolina avvolta in una lucente carta azzurra legata con un fiocco argenteo. La posò sul tavolo davanti a Laurie, poi sollevò il suo calice. «Vorrei brindare a Laurie e a me.» «Wow!» esclamò Lou. «A voi due.» Sollevò il bicchiere e gli altri lo imitarono, tranne Laurie. «A voi due», ripeté Warren. «Evviva!» si unì Natalie. Tutti bevvero, tranne Laurie, che si era paralizzata. Pensò di sapere cosa stava succedendo, ma non riusciva a crederci. Lottò per tenere a bada le emozioni. «Non hai intenzione di partecipare al brindisi?» le domandò Jack, che aveva previsto una reazione diversa. Di colpo si chiese cosa avrebbe fatto e detto se avesse rifiutato. Con una certa difficoltà Laurie staccò gli occhi dal pacchettino e incrociò quelli di Jack. Riteneva di sapere cosa contenesse la scatolina, ma aveva paura di ammetterlo. Aveva sbagliato tante volte in passato. Per quanto lo amasse, sapeva quanto ancora fosse vittima del suo bagaglio psicologico. Non c'era alcun dubbio che la tragedia che l'aveva coinvolto prima del loro incontro l'aveva gravemente traumatizzato e si era abituata alla possibilità che non la superasse mai. «Forza!» la incitò Lou. «Che diavolo è? Aprila.»
«Sì, Laurie, aprila!» la incalzò Warren. «Adesso?» chiese, gli occhi ancora incollati su quelli di Jack. «Era questa l'idea», ammise lui. «Naturalmente, se preferisci, puoi aspettare un altro paio d'anni. Non intendo farti pressione.» Laurie sorrise. Trovava divertente il suo sarcasmo. Con dita tremanti, sfilò il nastro e tolse la carta. Tutti, tranne Jack, si chinarono in trepida attesa. La scatola era coperta da un velluto nero sgualcito. Temendo che Jack le avesse giocato uno scherzo di cattivo gusto, aprì con uno scatto la scatola, dove un solitario di Tiffany scintillava di luce propria. Girò la scatolina per mostrare il diamante agli altri e chiuse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime. Questa emotività era un tratto del suo carattere che detestava. La relazione con Jack durava ormai da quasi un decennio e da anni vivevano saltuariamente insieme. Aveva desiderato sposarsi ed era convinta che lo desiderasse pure lui. Lou, Warren e Natalie esplosero in una serie di esclamazioni stupite. «Allora?» le chiese Jack. Laurie si sforzò di riprendere il controllo. Con le nocche si asciugò una lacrima. Lo guardò e decise all'istante di fingere di non capire. Dopo tutti quegli anni voleva sentirglielo dire. «Allora cosa?» replicò. «È un anello di fidanzamento!» esclamò Jack con una risata imbarazzata. «So cosa è. Ma che significa?» Esercitare pressione su Jack le permetteva di tenere sotto controllo le sue emozioni. Nel vederlo sulle spine, l'angolo della bocca le si sollevò in un leggero sorriso. «Avanti, cretino!» ringhiò Lou. «Spara la domanda!» Jack comprese il tranello e sorrise. «D'accordo, d'accordo!» zittì Lou. «Laurie, amore mio, malgrado la tragedia che in passato ha colpito coloro che amavo e il mio timore che tale rischio possa estendersi su di te, vuoi sposarmi?» «Così va bene!» Lou sollevò il bicchiere. «Propongo un brindisi alla proposta di matrimonio di Jack.» Questa volta bevvero tutti. «Allora?» ripeté Jack. Laurie rifletté prima di rispondere: «Conosco le tue ansie e comprendo la loro origine, ma non le condivido. Sia come sia, accetto il rischio. Se dovesse capitarmi qualcosa, la colpa sarà tutta mia. Sarò felicissima di sposarti». Tutti applaudirono a Jack e Laurie che si scambiavano un timido bacio e
un abbraccio imbarazzato. Laurie tolse poi l'anello dalla scatola e lo provò. Tese quindi la mano per ammirarlo. «Mi va benissimo. È stupendo!» «Avevo preso uno dei tuoi per essere sicuro della misura», ammise. «Non è la pietra più grande del mondo», lo canzonò il detective. «Te l'hanno venduta con una lente d'ingrandimento?» Jack gli gettò addosso il tovagliolo, che Lou afferrò al volo prima che gli coprisse la faccia. «I tuoi migliori amici sono sempre sinceri.» Lou rise e gli ridiede il tovagliolo. «È perfetto», s'intromise Laurie. «Non mi sono mai piaciuti i gioielli vistosi.» «Sei stata accontentata», aggiunse Lou. «Nessuno lo considererà appariscente.» «A quando il grande giorno?» domandò Natalie. Jack guardò Laurie. «Ovviamente non ne abbiamo discusso, ma questo problema lo lascio a Laurie.» «Davvero?» «Davvero.» «Allora vorrei parlarne con mia madre. So che vorrebbe che mi sposassi nella Riverside Church. Era lì che si sarebbe voluta sposare. Se ti sta bene, vorrei che dicesse la sua sul quando e sul dove.» «D'accordo», accettò Jack. «Ma dov'è finito il cameriere? Ho bisogno di altro champagne.» (Un mese più tardi) Boston 9 ottobre 2005 16.45 Craig Bowman era soddisfatto dei suoi esercizi. Aveva usato i pesi per mezz'ora per tonificarsi e fare stretching. Poi si era impegnato in una serie di partite di pallacanestro tre contro tre. Per mera fortuna era riuscito a entrare in squadra con due ottimi giocatori e per più di un'ora non avevano mai perso e avevano smesso solo per stanchezza. Dopo la pallacanestro si era concesso il lusso di un massaggio seguito da sauna e doccia. Ora, in piedi di fronte allo specchio nell'area VIP dello spogliatoio dello Sports Club, dovette ammettere che erano anni che non si sentiva così bene. Da quando si era iscritto a quella palestra sei mesi prima, aveva perso
una decina di chili e qualche centimetro di girovita. Il colorito giallastro era stato sostituito da un sano rosa e si era lasciato crescere i capelli color sabbia, che un esperto parrucchiere gli aveva acconciato all'indietro abbandonando la solita e vecchia scriminatura a sinistra. Dal suo punto di vista, il cambiamento era stato tanto evidente che, da un anno all'altro, non si sarebbe riconosciuto. Non era più il dottore convenzionale e noioso di prima. Craig frequentava il club tre volte alla settimana: il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Il venerdì era il giorno migliore, la palestra era meno affollata e lo caricava per il fine settimana che aveva davanti. Al venerdì aveva preso l'abitudine di chiudere lo studio a mezzogiorno e di rispondere alle telefonate dal cellulare. In questo modo Leona poteva accompagnarlo in palestra. Come regalo per la fidanzata e per sé, aveva iscritto pure lei. Parecchie settimane prima, Leona si era trasferita a casa sua in Beacon Hill, dopo avere deciso che era ridicolo pagare l'affitto di un appartamento fuori città dato che passava da lui tutte le notti. All'inizio quel trasloco l'aveva irritato, perché non ne avevano discusso insieme e gli era stato presentato come un fatto compiuto. Gli era parsa un'imposizione, proprio nel momento in cui si stava godendo la sua nuova libertà. Dopo alcuni giorni si era già abituato. Aveva dimenticato il potere dell'erotismo e si era consolato pensando che se ci fosse stato bisogno avrebbe potuto facilmente mandarla via. S'infilò la giacca nuova e, dopo essersela sistemata, si rimirò di nuovo allo specchio. Per come andavano le cose, non poteva esimersi dal pensare che il mondo fosse ai suoi piedi. Terminato di vestirsi, controllò il cellulare per vedere se erano arrivati messaggi. Niente. Aveva intenzione di tornare a casa, rilassarsi per un'oretta con un buon bicchiere di vino e la nuova copia del New England Journal of Medicine prima di recarsi al Museum of Fine Arts per visitare l'esposizione del momento e finire la serata a cena in un nuovo ristorante alla moda. Fischiettando si avviò verso l'atrio principale del club, la reception alla sua sinistra e a destra in fondo a un corridoio oltre la fila di ascensori, il bar e il ristorante. Nell'aria si diffondeva della musica. Sebbene gli impianti sportivi non fossero affollati il venerdì pomeriggio, l'happy hour era tutta un'altra cosa e iniziava proprio allora a movimentarsi. Controllò l'orologio. Aveva calcolato perfettamente i tempi. Mancava un quarto alle diciassette, ora in cui aveva concordato di vedersi con Leona.
Sebbene venissero al club e ne uscissero insieme, lì ognuno faceva quel che voleva. Leona impazziva per lo step, il pilates e lo yoga, tutte attività che non entusiasmavano Craig. Una rapida occhiata gli confermò che non era ancora uscita dallo spogliatoio. Non ne fu sorpreso. Assieme a una relativa mancanza di discrezione, nemmeno la puntualità era uno dei suoi punti di forza. Si sedette soddisfatto a osservare l'andirivieni. Sei mesi prima, in una simile circostanza, si sarebbe sentito isolato e a disagio. Non fece in tempo a mettersi comodo che lei sbucò dagli spogliatoi. Proprio come si era esaminato con occhio critico pochi minuti prima, squadrò Leona dalla testa ai piedi. La palestra le giovava, anche se l'età giocava a suo favore: era attraente, briosa e caparbia di carattere. «Come è andata?» le chiese Craig, alzandosi. «Benissimo», rispose Leona. «Meglio del solito.» Mentre lei continuava a parlare degli esercizi e del perché anche lui avrebbe dovuto provare sia il pilates sia lo yoga, lui rifletteva soddisfatto sulla serata che li aspettava e su quanto fosse stata piacevole quella giornata. Quel mattino nello studio aveva visitato solo dodici pazienti. E non aveva dovuto correre da una stanza all'altra come nella sua vita precedente. Nel corso dei mesi, lui e Marlene, la sua segretaria e addetta alla reception, avevano sviluppato un sistema di catalogazione dei pazienti basato sui bisogni di ciascuno, sulla diagnosi e sulla personalità individuale. Le visite più brevi duravano quindici minuti ed erano dedicate a un rapido checkup periodico, le più lunghe un'ora e mezzo. Questo tempo era di solito riservato ai pazienti nuovi con disturbi gravi e noti. Agli altri venivano dedicati dai quarantacinque minuti all'ora, a seconda dell'età e della gravità dei disturbi. Se durante la giornata capitava un imprevisto, come un cliente inatteso o un'urgenza in ospedale, Marlene faceva un giro di telefonate per spostare, se possibile, qualche appuntamento. Raramente i pazienti dovevano aspettare nel suo ambulatorio e altrettanto raramente gli capitava di innervosirsi per essere in ritardo e dover quindi cercare di recuperare il tempo perso. Era un modo molto civile di praticare la medicina, il migliore. L'unico lato negativo di una situazione quasi perfetta era non aver potuto tenere segreta la relazione con Leona. I sospetti dilagavano, attizzati dalla giovane età e dal carattere della ragazza. Craig doveva quindi sopportare una corrente secondaria di disapprovazione da parte di Marlene e della sua infermiera, Darlene, e osservare il loro comportamento risentito verso la nuova compagna.
«Non mi stai ascoltando!» si lamentò Leona, chinandosi in avanti per guardarlo con aria truce. Entrambi fissavano le porte dell'ascensore che li portava nel garage. «Ma sì», mentì. Le sorrise, ma la petulanza mercuriale di Leona non si placò. Le porte si aprirono al piano del parcheggio e lei raggiunse un gruppetto di persone che stavano aspettando i loro veicoli. Craig la seguì a pochi passi di distanza. Queste oscillazioni d'umore erano un'altra caratteristica che Craig non amava, ma sapeva che se le ignorava, passavano rapidamente. Consegnò il tagliando a uno dei custodi. «La Porsche è in arrivo, dottor Bowman», lo avvertì il ragazzo. Craig sorrise tra sé. Era orgoglioso di possedere quella che considerava l'automobile più glamour del garage e l'antitesi della Volvo station wagon della sua vita precedente. Immaginò che i presenti fossero rimasti doverosamente colpiti. I custodi del garage lo erano e lo si capiva dal fatto che parcheggiavano il suo veicolo sempre vicino alla loro postazione. «Se ti sembro un po' distante», sussurrò Craig a Leona con fare ammiccante, «è perché sto pregustando la serata in ogni sua parte.» Lo guardò come a dirgli che si era calmata solo in parte. In realtà pretendeva attenzione completa il cento per cento del tempo. Craig udì il familiare ruggito del motore della sua auto nello stesso momento in cui qualcuno lo chiamò per nome. Fu stupito di sentire pronunciare l'iniziale del suo secondo nome. Pochi lo conoscevano e ancor meno sapevano che la M stava per Mason, il cognome da nubile della madre. Si voltò, aspettandosi di vedere un paziente, un collega o un vecchio compagno di scuola. Vide invece avvicinarsi uno sconosciuto, un bell'afroamericano, occhi vispi e movimenti sinuosi, più o meno suo coetaneo. Per un momento pensò si trattasse di un compagno di pallacanestro di quel pomeriggio che voleva complimentarsi di nuovo per le vittorie. «Il dottor Craig M. Bowman?» chiese l'uomo fermandoglisi davanti. «Sì?» rispose lui con un cenno interrogativo. Stava ancora tentando di identificarlo. L'uomo rispose mettendogli in mano una voluminosa busta chiusa. Craig la fissò. Battuto a macchina c'era il suo nome completo. Prima di poter dire qualcosa, lo sconosciuto girò sui tacchi e scomparve nell'ascensore da cui era venuto solo un attimo prima. «Che cosa ti ha dato?» domandò Leona.
«Non ne ho la più pallida idea», rispose. Guardò di nuovo la busta. Un primo sospetto gli attraversò la mente. Nell'angolo superiore era stampato: CORTE SUPREMA, CONTEA DI SUFFOLK, MASSACHUSETTS. «Allora?» insisté Leona. «Non hai intenzione di aprirla?» «Non credo di volerlo fare», ribatté. Scrutò il gruppetto in attesa intorno a lui. Qualcuno lo stava guardando incuriosito. Mentre il guardiano arrestava la Porsche davanti a Craig e gli teneva la portiera aperta, infilò il pollice sotto la linguetta della busta e la strappò. Sentì il polso accelerare mentre estraeva il contenuto. In mano si ritrovò un fascio di documenti pinzati insieme. «Allora?» incalzò Leona, preoccupata. Aveva notato che stava sbiancando in volto. Alzò gli occhi e incrociò quelli di lei. I suoi occhi riflettevano un'intensità che non aveva mai visto. Non poteva dire se sorgesse dalla perplessità o dall'incredulità, ma di certo era sotto choc. Per alcuni attimi parve paralizzato. Smise di respirare. «Ehi!» esclamò Leona. «C'è nessuno in casa?» Agitò la mano davanti al viso di marmo di Craig. Un'occhiata furtiva le fece capire che erano diventati oggetto dell'attenzione di tutti. Come se si stesse svegliando da un torpore improvviso, strinse le pupille e il colore si diffuse rapidamente sul suo viso. Prima che il raziocinio intervenisse, le sue mani iniziarono a spiegazzare le carte. «Mi hanno citato in giudizio», sibilò con voce lugubre. «Quel bastardo mi fa causa!» Spianò i documenti e li scorse rapidamente. «Chi ti fa causa?» «Stanhope! Jordan Stanhope!» «Perché?» «Per negligenza medica e atti lesivi. È oltraggioso!» «Per Patience Stanhope?» «Chi altri?» replicò in malo modo. «Ehi, non prendertela con me!» esclamò Leona, alzando le mani in segno di scherzosa difesa. «Non posso crederci!» Craig sfogliò di nuovo le carte come se le avesse lette male. Leona lanciò un'occhiata ai guardiani: il primo stava ancora tenendo aperta la portiera del guidatore, mentre il secondo aveva aperto la sua. «Che vuoi fare, tesoro?» chiese con insistenza. «Non possiamo restare qui per sempre.» Quel «sempre» parve durare all'infinito.
«Chiudi il becco!» ringhiò. Leona emise una risatina smorzata, poi lo ammonì: «Come osi parlarmi così?» Come se si svegliasse per la seconda volta e si rendesse conto che tutti gli occhi erano puntati su di loro, si scusò sottovoce, poi aggiunse: «Ho bisogno di bere qualcosa». «D'accordo», concesse Leona. «Dove? Qui o a casa?» «Qui», sbottò Craig, voltandosi e dirigendosi agli ascensori. Con un sorriso contrito e un'alzata di spalle a beneficio dei posteggiatori, Leona lo seguì. Quando lo raggiunse, stava premendo con rabbia il pulsante dell'ascensore con una nocca. «Calmati», gli disse, lanciando un'occhiata al gruppetto di persone che rapidamente distolsero lo sguardo. «Facile per te dirlo», ribatté con furia. «Non sei tu quella citata in giudizio. E ricevere una notifica in questo modo, in pubblico, è dannatamente mortificante.» Leona non tentò di conversare fino a quando si sedettero su due sgabelli al banco più lontano dalla calca dell'happy hour. Craig si fece servire uno scotch doppio, insolito per lui, che beveva poco, temendo di essere chiamato a qualsiasi ora. Leona prese un bicchiere di vino bianco. Da come gli tremava la mano, Leona concluse che aveva cambiato di nuovo umore. Era passato dall'iniziale incredulità alla rabbia e ora all'ansia, il tutto nel giro di un quarto d'ora. «Non ti ho mai visto tanto sconvolto», esordì. Sebbene non sapesse cosa dire, sentiva di dover parlare. Non sapeva gestire il silenzio, a meno che fosse alle sue condizioni, come quando metteva il broncio. «È naturale che sia sconvolto», scattò. Sollevò il bicchiere con mano tanto tremante che il ghiacciò tintinnò ripetutamente contro il vetro. Quando se lo portò alla bocca, riuscì a far traboccare lo scotch. «Merda!» esclamò appoggiandolo sul tavolo e pulendosi la mano. Si asciugò poi le labbra e il mento con un tovagliolino. «Non posso credere che quel bastardo di Jordan Stanhope mi abbia fatto questo, specialmente dopo tutto il tempo e l'energia che ho sprecato con la sua ipocondriaca, appiccicosa moglie da incubo. Odiavo quella donna.» Esitò un attimo, poi soggiunse: «Immagino che non dovrei dirlo a te. Non è il genere di cose di cui parlano i dottori». «Secondo me dovresti invece parlarne, visto quanto sei turbato.» «La verità è che Patience Stanhope mi faceva impazzire con la sua disgustosa descrizione di ogni defecazione, senza contare i vividi dettagli sul
catarro che espettorava quotidianamente e metteva da parte per mostrarmelo. Era patetica. Faceva impazzire tutti, incluso Jordan e forse anche se stessa!» Leona annuì. Sebbene la psicologia non fosse il suo forte, comprese che era importante per lui continuare a inveire. «Non saprei dirti quante volte nel corso di quest'anno abbia dovuto recarmi in quell'enorme casa dopo il lavoro o nel bel mezzo della notte per tenerle la mano e ascoltarla lamentarsi. E per cosa? Raramente seguiva i miei consigli, tra cui quello di smettere di fumare. Fumava come un turco, qualsiasi cosa le dicessi.» «Davvero?» chiese Leona, incapace di trattenersi. «Si lamentava del catarro e continuava a fumare?» «Non ricordi come puzzava la sua camera da letto?» «No», rispose Leona scrollando la testa. «Ero troppo presa dalla situazione per sentire qualcosa.» «Fumava come una disperata, una sigaretta dopo l'altra, parecchi pacchetti al giorno. E non è tutto. Era l'esempio tipico per tutti i pazienti che si rifiutano d'obbedire, in particolar modo a proposito dei farmaci. Esigeva le prescrizioni e poi assumeva o non assumeva le medicine a seconda dell'umore.» «Sai perché si comportava così?» «Probabilmente perché le piaceva essere ammalata. Le dava qualcosa da fare. Tutto qui. Era uno spreco di tempo per me, per suo marito e anche per sé. La sua morte è stata una benedizione per tutti. Non aveva una vera vita.» Si era calmato quel tanto da riuscire a bere un sorso di scotch senza versarlo. «Dalle rare volte che l'ho vista in studio, ricordo che mi era parsa una persona sgradevole», osservò Leona. «Questo è l'eufemismo dell'anno», bofonchiò lui. «Era una strega patentata piena di soldi e si aspettava che io le tenessi la mano e ascoltassi le sue lamentele fino alla nausea. Ho superato quattro anni di college, quattro di università, cinque di praticantato e l'esame di stato, ho scritto un quantitativo di saggi scientifici, e tutto ciò che voleva da me era che le tenessi la mano!» «Forse era sola», insinuò Leona. «Da che parte stai?» inveì. Sbatté il bicchiere sul tavolo, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio. «Era una rompicoglioni.»
«Ehi, rilassati!» Si guardò attorno imbarazzata, ma nessuno stava prestando loro attenzione. «Basta che non ti metta a fare l'avvocato del diavolo», ribatté. «Non sono dell'umore giusto.» «Sto solo cercando di calmarti.» «Come vuoi che ci riesca? Sono finito. Ho dedicato tutta la vita a diventare un bravo medico, che diavolo! E mi sto ancora dando da fare per esserlo. E ora questo!» Sbatté con rabbia la busta. «Ma non è per questo che paghi, continuando a lamentartene, l'assicurazione della responsabilità professionale?» La fissò esasperato. «Non credo che tu capisca. Questo disgraziato mi sta pubblicamente diffamando con la richiesta, cito testualmente, di un procedimento giudiziario. Il problema è il processo. Qualsiasi cosa succeda, sono già inguaiato. Sono impotente, una vittima. Senza pensare a cosa può succedermi se finisco sotto processo. Non ho nessuna garanzia, anche se mi sono fatto in quattro per i miei pazienti, soprattutto per Patience Stanhope. E saranno forse i miei pari a processarmi? Questo è un tiro mancino. Impiegati, idraulici e insegnanti in pensione non hanno idea di cosa voglia dire essere un medico, che si alza nel bel mezzo della notte per tenere le mani degli ipocondriaci!» «Non puoi spiegarlo loro? Farglielo capire durante la tua testimonianza?» Craig roteò gli occhi. C'erano dei momenti in cui Leona lo tirava scemo. Era il prezzo da pagare per stare con una persona giovane e ingenua. «Come mai ritiene che ci sia stata negligenza da parte tua?» Craig fissò la bella gente che si stava godendo la serata assorta in gioiose conversazioni. Il confronto lo fece sentire ancora peggio. Forse andare in un locale pubblico era stata una cattiva idea. Gli passò per la mente che voler diventare uno di loro era fuori dalla sua portata. La medicina e i suoi attuali guai l'avevano irretito. «Che genere di negligenza suppone ci sia stata?» riformulò la domanda. Craig alzò le braccia. «Senti, intelligentona! La citazione non è esplicita. Accenna a una mia mancanza di capacità e interesse nella diagnosi e nella cura, impegno che un qualsiasi medico ragionevole e competente avrebbe impiegato nelle stesse circostanze e bla, bla, bla. Stronzate. Per farla breve, c'è stato un esito negativo, il decesso di Patience Stanhope. Un avvocato specializzato in lesioni personali e negligenza medica partirebbe da qui e sarebbe creativo. Sanno sempre tirar fuori qualcosa da qualche fottuto teste
medico esperto che sosterrà che si doveva intervenire diversamente.» «Intelligentona?» ribatté Leona. «Piantala di essere condiscendente con me!» «D'accordo, mi dispiace. È evidente che sono di malumore.» «Chi è un teste medico esperto?» «Un dottore assunto in veste di medico competente che dirà qualsiasi cosa l'avvocato di parte civile voglia fargli dire. Una volta era difficile trovare medici disposti a testimoniare contro altri colleghi, ma le cose sono cambiate. Ci sono alcuni spregevoli bastardi che si guadagnano da vivere in questo modo.» «È terribile.» «A dir poco.» Craig scrollò la testa demoralizzato. «È spaventosamente ipocrita che quel bastardo di Jordan Stanhope mi citi quando lui non è neppure rimasto in ospedale, mentre io mi davo da fare per rianimare la moglie. Che diavolo, anche lui mi ha confidato che Patience era un'ipocondriaca senza speranza e che non riusciva a stare dietro a tutti i suoi sintomi. Si scusava addirittura quando lei lo costringeva a telefonarmi per farmi correre a casa sua alle tre di notte, perché pensava di essere in punto di morte. E non è capitato una sola volta. Jordan mi ringraziava, sapeva che cosa voleva dire per me andare là senza una buona ragione. Quella donna era una tortura. Tutti stanno meglio da quando non c'è più, anche Jordan, eppure mi fa causa e pretende cinque milioni di dollari come risarcimento danni per perdita di consortium. Che scherzo crudele!» «Cosa è il consortium?» «Il companatico di un rapporto con il coniuge. Compagnia, affetto, assistenza e sesso.» «Non credo che facessero molto sesso. Dormivano in camere separate!» «Forse hai ragione. Non riesco a immaginare che desiderasse fare sesso con quella strega.» «Pensi che ti stia facendo causa perché quella sera l'hai criticato? Mi era sembrato offeso.» Craig annuì un paio di volte. Leona aveva ragione. Con il bicchiere in mano, scivolò giù dallo sgabello e andò al bar a farselo riempire di nuovo. Mentre aspettava ricordò di essersi pentito di ciò che aveva detto a Jordan, quando aveva constatato le condizioni di Patience. L'osservazione gli era sfuggita di bocca per lo stress della situazione e la sorpresa. Al momento aveva pensato che quelle frettolose parole di scusa fossero bastate, ma forse non era così.
Con un secondo scotch doppio Craig si fece strada tra la gente e si appollaiò di nuovo sullo sgabello. Si muoveva lentamente, come se avesse le gambe di marmo. Leona ebbe l'impressione che avesse compiuto un'altra trasformazione. Ora sembrava depresso, la bocca flaccida e gli occhi tristi. «È una sventura», sospirò Craig, fissando il liquido ambrato, le braccia ripiegate sul tavolo. «Potrebbe essere la fine di tutto, proprio quando le cose stavano andando bene.» «Come può essere la fine?» chiese Leona. «Cosa farai ora che ti hanno citato in giudizio?» Non rispose e neppure si mosse. Le sembrò che neppure respirasse. «Dovrai procurarti un avvocato», insisté, chinandosi in avanti per guardarlo in faccia. «Dovrebbe difendermi la compagnia d'assicurazione», rispose Craig in tono piatto. «Perché non li chiami?» Craig alzò gli occhi e incrociò quelli di lei. Annuì un paio di volte, rimuginando sul suo consiglio. Erano quasi le diciassette e trenta di un venerdì pomeriggio, ma forse alla compagnia c'era ancora qualcuno. Non gli avrebbe fatto male fare qualcosa. Gran parte dell'ansia derivava dal senso di impotenza di fronte a una minaccia tanto schiacciante e incorporea. Staccò il cellulare dalla cintura e, con dita maldestre, sfogliò la rubrica. Come un faro in una notte buia, apparve il nome e il numero telefonico del suo agente d'assicurazione. Lo chiamò. Dovette fare più telefonate, ma nel giro di un quarto d'ora poté raccontare la sua storia a una persona in carne e ossa che, con voce autoritaria ma accorta, lo calmò. Craig trovò curiosamente rassicurante anche il nome del suo interlocutore, Arthur Marshall. «Visto che questa è la prima volta che lei viene sfiorato da un simile evento», gli spiegò Arthur, «e dal momento che sappiamo per esperienza quanto possa essere sconvolgente, ritengo sia importante per lei comprendere che per noi è una faccenda più che ordinaria. Siamo esperti nell'affrontare cause di imperizia e negligenza medica e daremo al suo caso tutta l'attenzione che merita. Nel frattempo desidero sottolineare che non deve prenderla sul personale.» «In che altro modo devo prenderla?» si lamentò. «Mette in discussione il lavoro di tutta la mia vita.» «È un'impressione normale e perfettamente comprensibile da parte sua, ma si fidi di me, non è così! Non è una critica alla sua dedizione e al lavo-
ro di una vita. Il più delle volte è un tentativo per ottenere un guadagno finanziario nonostante l'avvocato di parte civile sostenga il contrario. Tutti coloro che conoscono la medicina sanno che esiti meno che perfetti, anche quelli che coinvolgono semplici errori, non dipendono da negligenza e il giudice lo farà presente alla giuria, dovessimo arrivare a un processo. Ma non dimentichi che la maggioranza di cause simili sono quasi sempre vinte dalla difesa.» Il battito di Craig era tornato a un livello quasi normale. «È stato saggio a contattarmi subito, dottor Bowman. Le assegneremo al più presto un avvocato esperto, e per questo avremo bisogno della citazione. Deve rispondere entro trenta giorni dal ricevimento.» «Posso farle avere tutto il materiale lunedì.» «Perfetto. Nel frattempo le consiglio di cominciare a rinfrescarsi la mente sul caso, radunando soprattutto le cartelle cliniche. È un lavoro necessario e le darà l'impressione di fare qualcosa di costruttivo per difendersi. Per esperienza, sappiamo quanto è importante.» Si ritrovò ad annuire in segno di approvazione. «Per quello che riguarda le cartelle, dottor Bowman, devo avvertirla di non cambiarle in nessun modo o forma. Non corregga neppure una parola di ciò che trova sciatto. Non cambi nessuna data. In breve, non tocchi niente. Ha capito?» «Assolutamente!» «Bene! Tra le cause per negligenza vinte dall'avvocato di parte civile, parecchie coinvolgevano documenti revisionati, con correzioni anche irrilevanti. Un'alterazione qualsiasi porta a un disastro, mettendo in dubbio la sua integrità e la sua sincerità. Spero di essere stato chiaro.» «Perfettamente. Grazie, signor Marshall. Mi sento già un po' meglio.» «È così che deve essere, dottore. Non tema, ci occuperemo del suo caso con la massima premura. Tutti noi desideriamo che giunga a una rapida e favorevole conclusione, affinché lei possa tornare a prendersi cura dei suoi pazienti, come sa fare così bene.» «Me lo auguro.» «Siamo al suo servizio, dottor Bowman. Un ultimo punto, di cui sono certo è al corrente. Non... ripeto... non discuta la faccenda con nessuno a parte sua moglie e l'avvocato che le assegneremo! Ciò vale per colleghi, conoscenti e anche amici intimi. È molto importante.» Craig lanciò un'occhiata colpevole a Leona, rendendosi conto di quanto avesse parlato in modo inappropriato. «Amici intimi?» chiese. «Ciò signi-
fica che dovrò rinunciare a qualsiasi appoggio emotivo.» «È vero, ma l'altra faccia della medaglia è peggiore.» «E quale sarebbe esattamente?» Non sapeva con certezza quanto di questa sua conversazione sentisse Leona, che lo stava guardando intensamente. «Perché gli amici e i colleghi sono rintracciabili. Gli avvocati di parte civile possono, e lo fanno, se è nell'interesse dei loro clienti, costringere amici, anche intimi, e colleghi a testimoniare, spesso con grande effetto.» «Lo terrò a mente. Grazie per i suoi consigli, signor Marshall.» Il polso di Craig aveva ripreso un ritmo accelerato. Doveva ammettere di non conoscere realmente Leona, al di là del suo egocentrismo giovanile. Essere stato così loquace con lei acuì la sua ansia. «Grazie a lei, dottor Bowman. Ci metteremo in contatto appena avremo ricevuto il mandato di comparizione e la citazione. Cerchi di rilassarsi e di continuare a vivere come sempre.» «Ci proverò», rispose senza molta convinzione. Sapeva che avrebbe vissuto sotto una nuvola nera fino alla conclusione. Quello che non sapeva era quanto nera sarebbe stata. Nel frattempo giurò a se stesso che non avrebbe più trattato male Leona. Sapeva che ciò che le aveva confidato su quello che pensava di Patience Stanhope non avrebbe fatto una buona impressione in un tribunale. New York 9 ottobre 2005 16.45 Jack Stapleton rivolse la sua attenzione al cuore e ai polmoni. Di fronte a lui, sul tavolo dell'autopsia, c'erano i resti nudi e sventrati di una donna bianca di cinquantasette anni. La testa appoggiata su un blocco di legno, gli occhi assenti fissi sulle luci al neon. Fino a quel punto dell'autopsia, aveva trovato ben poco a parte un fibroma piuttosto grande, apparentemente asintomatico. Niente che potesse spiegare la morte di una donna all'apparenza sana, crollata a terra mentre si trovava in una boutique. Era assistito da Miguel Sanchez, il tecnico mortuario del turno serale. Mentre Jack si preparava a esaminare cuore e polmoni, Miguel era intento a lavare gli intestini al lavandino. Semplicemente palpando la superficie dei polmoni, le mani esperte di Jack riconobbero una resistenza anormale. Il tessuto era più sodo del soli-
to, il che era compatibile con il peso dell'organo risultato superiore alla norma. Con un coltello che sembrava quello di un macellaio, praticò numerosi tagli nel polmone e anche questa volta sentì una resistenza maggiore del previsto. Sollevò l'organo ed esaminò la superficie dei tagli che ne evidenziavano la consistenza. Il polmone appariva più denso del normale e Jack pensò che l'esame microscopico avrebbe mostrato una fibrosi. La domanda era... perché i polmoni erano fibrotici? Per esaminare il cuore, scelse un forcipe dentato e un paio di forbici più piccole e con la punta smussata. Proprio quando stava per iniziare, la porta del corridoio si aprì. Esitò vedendo comparire e avvicinarsi una sagoma. Gli occorse solo un attimo per riconoscere Laurie, nonostante la luce che si rifletteva sulla maschera protettiva. «Mi stavo chiedendo dov'eri», bofonchiò con un accenno di esasperazione. Indossava lo scafandro come Jack e Miguel. Era stato il dottor Calvin Washington, vicedirettore dell'istituto di patologia, a ordinare di indossare sempre la tuta in sala autopsie per proteggersi da possibili agenti infettivi. Non si poteva mai sapere in quale genere di microbi ci si poteva imbattere, specialmente in una sala attiva come quella di New York. «Allora mi stavi cercando.» «Brillante deduzione.» Laurie lanciò un'occhiata allo spettrale guscio umano sul tavolo. «Questo era l'ultimo posto dove credevo di trovarti. Come mai state facendo un'autopsia a quest'ora?» «Mi conosci», ribatté scherzosamente Jack. «Non mi tiro indietro di fronte a nessuna opportunità di divertirmi.» «Qualcosa d'interessante?» chiese Laurie, immune al sarcastico senso dell'umorismo di Jack. Allungò la mano e toccò la superficie di taglio del polmone con l'indice inguainato. «Non ancora, ma credo di avere raggiunto un terreno ricco di minerali. Vedi tu stessa che il polmone sembra fibrotico. Credo che il cuore ce ne spiegherà il motivo.» «Cosa si sa del caso?» «Alla vittima era appena stato detto il prezzo di un paio di stivali Jimmy Choo ed è collassata.» «Molto divertente.» «Sul serio, ha avuto un collasso da Bloomingdale. Naturalmente non so cosa stesse facendo. Il personale del negozio e un medico, un buon samaritano che per caso era presente, le hanno prestato le prime cure e hanno iniziato la rianimazione cardiopolmonare che poi è stata continuata nell'am-
bulanza fino al Manhattan General. Quando il corpo è arrivato all'istituto di medicina legale, il direttore del pronto soccorso ha telefonato per riferirci l'anamnesi. Ha detto che per quanto si fossero impegnati non erano riusciti a ottenere un solo battito, neppure con un pacemaker. Erano tutti delusi per non essere riusciti a rianimarla e lui sperava che noi saremmo stati in grado di gettare un po' di luce sul caso. Gli ho promesso che l'avrei richiamato quanto prima.» «Lodevole da parte tua», ribatté Laurie. «Naturalmente, fare un'autopsia a quest'ora fa sembrare noialtri dei fannulloni.» «Se lo dici tu...» «D'accordo, spiritosone! Non tenterò di competere con la tua ironia. Fa' un po' vedere cos'hai trovato!» Jack si chinò sul cuore, evidenziò rapidamente ma con cura le principali arterie coronarie, quindi cominciò ad aprirle. Di colpo si raddrizzò. «Guarda qui!» gridò, puntando l'estremità del forcipe. Prese il cuore e lo sollevò in modo che Laurie potesse vederlo meglio. «Oh, mio Dio!» esclamò lei. «Potrebbe essere il restringimento del tronco principale dell'arteria posteriore discendente più grave che abbia mai visto. E pare evolutivo, non ateromatoso.» «Siamo in due a pensarla così, e questo spiegherebbe la mancata risposta del cuore. Un blocco improvviso, addirittura transitorio, avrebbe provocato un forte attacco cardiaco, coinvolgendo parti del sistema di conduzione. Immagino che tutta l'area posteriore dell'organo fosse coinvolta nell'infarto. Ma per quanto sensazionale, non spiega le alterazioni polmonari.» «Perché non apri il cuore?» «È quello che intendo fare.» Sostituiti le forbici e il forcipe con un coltello, praticò una serie di tagli nelle cavità cardiache. «Voilà!» esclamò, spostandosi per permettere a Laurie di vedere l'organo divaricato. «Ecco qua: una valvola mitrale compromessa e incompetente.» «Una valvola mitrale molto incompetente. Questa donna era una bomba a orologeria ambulante, in attesa di esplodere. È stupefacente che né dal restringimento coronario né dalla valvola abbia avuto sintomi tali da farla correre da un medico. Un vero peccato. Era possibile correggere entrambi i disturbi chirurgicamente.» «Purtroppo la paura a volte rende le persone stoiche.» «Già», concordò lui, iniziando a prendere dei campioni per l'esame al microscopio. «Non mi hai ancora detto perché mi cercavi.»
«Un'ora fa mi hanno detto quando possiamo sposarci. Ero ansiosa di fartelo sapere, perché devo richiamarli il più presto possibile.» Jack si interruppe. Persino Miguel al lavandino smise di lavare gli intestini. «Non ti sembra un posto strano per un annuncio simile?» chiese. Lei fece spallucce. «È dove ti ho trovato. Speravo di poterli richiamare questo pomeriggio prima del fine settimana.» Jack lanciò una rapida occhiata a Miguel. «Allora, quando?» «Il nove giugno all'una e trenta. Che ne dici?» «Che dovrei dire? Mi sembra talmente lontano, ora che abbiamo finalmente deciso di fare il grande passo. Io ero più per il prossimo giovedì.» Laurie scoppiò a ridere. Il suono era smorzato dalla maschera che per un attimo si coprì di vapore. «Hai detto una cosa molto dolce. Il fatto è che mia madre ha sempre sognato un matrimonio in giugno. Anche secondo me è un mese fantastico, il tempo dovrebbe essere bello, non solo per la cerimonia ma anche per la luna di miele.» «Allora a me sta bene», accettò, lanciando un'altra occhiata a Miguel. Gli seccava che se ne stesse lì, immobile e in ascolto. «C'è un solo problema. Giugno è un mese di matrimoni e la Riverside Church è già prenotata per tutti i sabati del mese. E con otto mesi in anticipo. Il nove di giugno è un venerdì. Va bene lo stesso?» «Venerdì, sabato... che m'importa? Ci sto!» «Fantastico.» «Ehi, Miguel», gridò Jack. «Che ne dici di finire con quell'intestino? Non è il caso di metterci una vita.» «Ho finito, dottor Stapleton. Stavo solo aspettando che lei venisse qui a dare un'occhiata.» «Ah!» esclamò Jack, leggermente imbarazzato per avere pensato che il tecnico stesse origliando. Poi si rivolse a Laurie: «Scusami, ma lo spettacolo deve continuare». «Va bene», replicò lei, seguendolo al lavandino. Miguel gli porse l'intestino aperto per il lungo e accuratamente lavato per mettere in mostra la superficie mucosale. «Oggi ho scoperto un'altra cosa», riprese Laurie. «E volevo condividerla con te.» «Forza, parla.» Jack iniziò a esaminare con metodo il sistema digestivo, partendo dall'esofago. «Lo sai, non mi sono mai sentita particolarmente a mio agio nel tuo ap-
partamento, soprattutto perché il palazzo sembra sul punto di crollare da un momento all'altro...» Jack abitava al quarto piano di un cadente edificio nella Centoseiesima Strada, di fronte al campo da gioco del quartiere che aveva fatto risistemare di tasca sua. Spinto dalla certezza di non meritare alcun conforto, Jack viveva molto al di sotto dei suoi mezzi. La presenza di Laurie aveva, tuttavia, alterato l'equazione. «Non voglio ferire i tuoi sentimenti», continuò, «ma con l'avvicinarsi del matrimonio, dobbiamo riflettere sulla nostra casa. Mi sono così presa la libertà di scoprire chi possiede in realtà l'immobile, un nome che la società di gestione cui invii i tuoi assegni era restia a divulgare. In ogni caso ho scoperto i proprietari e li ho contattati per vedere se fossero interessati a vendere. Indovina un po'? Lo sono, a patto che venga acquistato nelle condizioni attuali. Ritengo che ciò apra alcune interessanti possibilità. Che ne pensi?» Mentre parlava, Jack aveva smesso di esaminare le budella e si girò verso di lei: «Progetti matrimoniali al tavolo delle autopsie e ora questioni abitative davanti al lavandino degli intestini. Non pensi che questo non sia il posto migliore per una discussione simile?» «L'ho saputo solo pochi minuti fa e avevo fretta di parlartene così potevi cominciare a rimuginarci su.» «Fantastico», bofonchiò, reprimendo un irresistibile stimolo al sarcasmo. «Missione compiuta. Ma che ne dici di discutere l'acquisto e, immagino, la ristrutturazione della casa davanti a un bicchiere di vino e un'insalata in un ambiente un po' più appropriato?» «È un'idea meravigliosa. Ci vediamo a casa.» Detto questo, Laurie girò sui tacchi e scomparve. Jack continuò a fissare per qualche altro battito di cuore la porta che dava sul corridoio e che si era chiusa alle spalle della fidanzata. «È fantastico che voi due vi sposiate», disse Miguel per rompere il silenzio. «Grazie. Non è un segreto, ma neppure di dominio pubblico. Non dimenticartene.» «D'accordo, dottor Stapleton. Ma, per esperienza personale, devo dirle che sposarsi cambia ogni cosa.» «Hai ragione», ammise Jack. Anche lui lo sapeva per esperienza. 1
(Otto mesi dopo) Boston Lunedì, 5 giugno 2006 09.35 «In piedi», gridò il messo del tribunale emergendo dalla stanza del giudice. In mano teneva un bastone bianco. Alle sue spalle comparve il giudice, avvolto in una fluente toga nera. Era un afroamericano tarchiato con guance cascanti, crespi capelli grigi e baffi. Gli occhi scuri e intensi lanciarono un rapido sguardo nel suo feudo mentre saliva i due gradini che portavano allo scranno con passo energico. Raggiunta la sedia, si girò verso la sala, incorniciato dalla bandiera americana alla sua destra e da quella dello stato del Massachusetts alla sua sinistra, entrambe sormontate da aquile. La sua fama di equità e profonda conoscenza della legge e il temperamento focoso lo rendevano la personificazione della risoluta autorità. Come per accrescere la sua posizione, una striscia di luce solare filtrò attraverso le tapparelle abbassate e scese a cascata sulla testa e sulle spalle del giudice, dando al suo profilo una luminescenza dorata, come quella di un dio pagano in un dipinto classico. «Ascoltate, ascoltate, ascoltate», continuò il cancelliere con voce baritonale. «Tutti coloro che hanno qualcosa da dire prima che si appropinqui l'onorevole giustizia della corte suprema di Boston e della contea di Suffolk, parlino e saranno ascoltati. Che Dio salvi il Commonwealth del Massachusetts. Seduti!» Quest'ultimo ordine, come le note finali dell'inno nazionale durante un evento sportivo, diede il via a un mormorio di voci e a uno scricchiolio di sedie nell'aula. Mentre il giudice sistemava le carte e la brocca d'acqua davanti a sé, l'impiegato seduto alla scrivania direttamente sotto lo scranno gridò: «La causa di Patience Stanhope contro il dottor Craig Bowman. Presiede l'onorevole giudice Marvin Davidson». Con un movimento studiato, il giudice aprì l'astuccio degli occhiali da lettura e li posizionò sulla punta del naso. Da sopra le lenti lanciò un'occhiata al tavolo del ricorrente e ordinò: «Che l'avvocato patrocinante si identifichi per il verbale». Diversamente dal cancelliere, aveva una voce da basso. «Anthony Fasano, vostro onore», rispose l'avvocato di parte civile, alzandosi per metà, come se dovesse sopportare un grosso peso sulle spalle. «Ma la maggior parte della gente mi chiama Tony.» Indicò poi alla sua de-
stra: «Sono qui a nome del ricorrente, il signor Jordan Stanhope». Fece poi un cenno verso sinistra: «Accanto a me la mia abile collega, la signora Renee Relf». Si rimise di colpo a sedere, come se fosse troppo timido per restare nella luce della ribalta. Gli occhi del giudice Davidson si spostarono verso il tavolo della difesa. «Randolph Bingham, vostro onore», si presentò l'avvocato difensore. Parlò lentamente, sottolineando ogni sillaba con voce melliflua. «Rappresento il dottor Craig Bowman e sono assistito dal signor Mark Cavendish.» «Immagino che voi signori siate pronti per iniziare», concluse il giudice Davidson. Tony fece un cenno d'assenso, mentre Randolph si alzò di nuovo in piedi. «Avrei alcune mozioni di routine da presentare.» Il giudice lanciò a Randolph un'occhiataccia che indicava che non amava né aveva bisogno che gli ricordassero le mozioni preliminari. Abbassò gli occhi sul tavolo e, toccandosi con l'indice la punta della lingua, cominciò a sfogliare le carte che aveva davanti. Era evidentemente irritato, come se l'osservazione di Randolph avesse risvegliato il disprezzo che provava per gli avvocati in generale. Si schiarì la gola, poi dichiarò: «Negata qualsiasi mozione di sfiducia. La corte ha inoltre l'impressione che nessuna testimonianza o prova sia troppo cruenta o troppo complessa per la giuria che deve giudicarla. Di conseguenza, ricuso tutte le mozioni in limine». Alzò gli occhi e guardò nuovamente l'avvocato difensore in cagnesco, come per dire «beccati questa», prima di rivolgersi al messo giudiziario. «Fate entrare il pannello dei potenziali giurati! Mettiamoci al lavoro.» Era famoso anche per essere uno che non amava perdere tempo. Dall'area degli spettatori si levò di nuovo un mormorio d'attesa. Il cancelliere declamò sedici nomi dall'elenco dei giurati e il messo andò a chiamare le persone selezionate dal gruppo. Nel giro di pochi minuti entrarono nell'aula e prestarono giuramento per dare il via all'esame preliminare. Il gruppo era disparato e diviso equamente tra uomini e donne. Sebbene in maggioranza fossero bianchi, erano rappresentate altre minoranze. Tre quarti erano abbigliati in modo adeguato e rispettoso, gli altri indossavano T-shirt, felpe, jeans e sandali. Alcuni dei giurati si erano portati giornali e riviste, e una donna di mezza età aveva un libro. Mentre prendevano posto nell'area della giuria, alcuni davano l'impressione di essere impauriti dall'ambiente, altri sembravano indifferenti. Il giudice Davidson fece un breve intervento, durante il quale ringraziò i probabili giurati per la loro presenza, sottolineando quanto fosse importan-
te il loro ruolo, visto che avrebbero dovuto scoprire la verità. Descrisse il procedimento di selezione, pur sapendo che ne erano già stati messi al corrente nell'aula della giuria. Iniziò ponendo alcune domande per determinarne l'adeguatezza, con la speranza di ricusare i giurati con particolari pregiudizi che avrebbero potuto influenzarli nel verdetto finale. L'obiettivo era quello di far trionfare la giustizia. «Giustizia un corno», bofonchiò Bowman. Trasse un profondo respiro e si dimenò sulla sedia. Non si era reso conto di quanto fosse teso. Posò le mani strette a pugno sul tavolo, chinandosi in avanti sugli avambracci. Allargò e tese le dita e sentì scattare le articolazioni dolenti. Indossava uno dei suoi completi grigi più tradizionali, camicia bianca e cravatta, come gli aveva consigliato il suo avvocato, seduto alla sua destra. Sempre su specifico ordine di Bingham, Craig mantenne un'espressione neutra, per quanto gli costasse in questa umiliante circostanza. Gli era stato anche intimato di comportarsi in modo solenne, rispettoso e umile. Doveva evitare di apparire arrogante e adirato, ma era difficile, considerato che l'intera faccenda lo mandava su tutte le furie. Avrebbe anche dovuto guardare i giurati negli occhi e considerarli come conoscenti e amici. L'idea che fossero suoi pari era ridicola. Il suo sguardo si fermò su una donna che sembrava un cane randagio, capelli biondi, lunghi e radi che le nascondevano quasi il viso pallido da folletto. Indossava una felpa troppo grande, con maniche tanto lunghe che si vedeva solo la punta delle dita quando si scostava i capelli dal volto. Sospirò. Gli ultimi otto mesi erano stati un inferno. Quando, l'autunno precedente, aveva ricevuto il mandato di comparizione, aveva immaginato che sarebbe stata brutta, ma era stata peggio di quanto avesse previsto. Prima c'erano stati gli interrogatori che avevano scandagliato ogni recesso della sua vita. Niente, in confronto alle deposizioni. Chinandosi in avanti, lanciò un'occhiata al tavolo dell'accusa e osservò Tony Fasano. In vita sua c'erano state persone che non gli erano piaciute, ma mai aveva odiato qualcuno tanto quanto quell'avvocato. Lo detestava anche per il suo aspetto e per come si vestiva, gli abiti marrone alla moda, le camicie e le cravatte nere, i vistosi gioielli d'oro. Fasano, che sembrava un attore nella parte di un losco mafioso, era lo stereotipo dell'avvocato che trova i suoi casi inseguendo le ambulanze per fare soldi sulle disgrazie altrui, spremendo milioni alle ricche e restie compagnie assicurative. Con profondo disgusto aveva scoperto che aveva addirittura un sito web in cui si vantava proprio di questo, e il fatto che rovinasse la vita di un medico
non faceva per lui alcuna differenza. Gli occhi di Craig si posarono sull'aristocratico profilo del suo difensore, concentrato sul procedimento di scelta dei giurati. Randolph aveva un naso adunco non molto diverso da quello del collega, ma l'effetto era ben diverso. Mentre Fasano ti guardava da sotto scure e cispose sopracciglia, con il naso puntato verso il basso che celava parzialmente un crudele sorrisetto, Randolph aveva lo sguardo fiero, leggermente altezzoso e con un'espressione che alcuni avrebbero potuto considerare di disprezzo. A differenza delle labbra piene del rivale, che le umettava con la lingua mentre parlava, la bocca di Randolph era una linea netta e sottile, e quando parlava non si vedeva la lingua. Era la personificazione del bostoniano snob e riservato, mentre Tony era il giovane esuberante bullo della situazione. All'inizio quel contrasto gli era piaciuto, ma ora si chiedeva se il personaggio dell'accusa avrebbe suscitato più simpatia e maggiore influenza. Questo timore accrebbe la sua inquietudine. E di motivi per sentirsi inquieto ne aveva a bizzeffe. Nonostante le rassicurazioni di Randolph, la causa non stava andando bene. A favore del ricorrente, il tribunale del Massachusetts, dopo avere ascoltato le testimonianze, aveva decretato che c'erano sufficienti prove concrete di possibile responsabilità professionale da consentire che la causa finisse sotto processo. Come corollario, il ricorrente Jordan Stanhope, non avrebbe avuto bisogno di depositare una cauzione. Il giorno in cui Craig aveva ricevuto questa notizia era stato il più nero di tutto il periodo antecedente il dibattimento e, all'insaputa di tutti, per la prima volta in vita sua aveva preso in considerazione l'idea del suicidio. Randolph gli aveva offerto il consueto sostegno: non doveva prendersela. Ma come avrebbe potuto non considerare che quella sentenza era stata emessa da un giudice, da un avvocato e da un collega medico? Quelle persone non erano né incompetenti né fannulloni, ma professionisti, e il fatto che avessero potuto pensare che era stato negligente, che aveva fornito cure scadenti, era stato un colpo mortale per il suo senso dell'onore e dell'integrità personale. Aveva dedicato tutta la vita a diventare il miglior medico possibile e ci era riuscito, come dimostravano i voti eccellenti della scuola di medicina, le ottime valutazioni durante l'internato in uno degli istituti più qualificati al mondo e la proposta di lavorare per l'attuale studio medico da parte di un illustre e famosissimo clinico. Eppure quei professionisti avevano deciso che aveva compiuto un atto illecito. Il suo amor proprio era stato scosso nel profondo.
Altri eventi, oltre la delibera del tribunale, avevano oscurato l'orizzonte. Ancor prima della conclusione degli interrogatori, Randolph aveva raccomandato a Craig di fare tutto il possibile per riconciliarsi con la moglie, di lasciare il suo appartamento in città (l'aveva definito bohémien) e tornare nella casa di famiglia a Newton. Randolph era sicuro che il nuovo stile di vita del suo assistito non sarebbe piaciuto alla giuria. Disposto ad ascoltare il consiglio di un esperto, anche se infastidito per le conseguenze, aveva seguito le raccomandazioni alla lettera. Era stato contento e grato perché Alexis gli aveva permesso di tornare, anche se gli aveva preparato la camera degli ospiti, e gli aveva dato tutto il suo sostegno, come dimostrava la sua presenza tra il pubblico in quel preciso momento. Come per riflesso, Craig si girò e incrociò lo sguardo di Alexis. La moglie indossava l'abito che usava al Boston Memorial Hospital, camicetta bianca e cardigan azzurro. Le rivolse un sorriso storto, cui lei rispose con uno dei suoi. Riportò l'attenzione sul procedimento di scelta dei giurati. Il giudice stava rimproverando un ragioniere trasandato che chiedeva di essere esentato da quella prova. L'uomo aveva sostenuto che i suoi clienti non potevano fare a meno di lui per la settimana del processo, il che era quanto secondo il giudice sarebbe durato, tenuto conto del numero dei testimoni, per lo più chiamati dall'avvocato del ricorrente. Il giudice Davidson, impietosamente, disse all'uomo ciò che pensava del suo senso di responsabilità civile, ma poi lo lasciò andare. Fu chiamato un sostituto e il procedimento continuò. Grazie alla generosità di Alexis, che Craig aveva attribuito in primo luogo alla sua maturità e poi alla sua professione di psicologa, negli ultimi otto mesi le cose erano andate discretamente bene a casa. Craig si rendeva conto che se fosse stato al posto suo con ogni probabilità sarebbe stato intollerante. Dall'attuale punto di vista, riusciva a giudicare il suo cosiddetto «risveglio» come un giovanilistico tentativo di essere qualcuno che non era. Era nato per essere un medico, una vocazione che riempiva la sua vita, e non un uomo di mondo snob. Il suo primo kit per il pronto soccorso gli era stato regalato dalla madre quando aveva solo quattro anni, e ricordava di avere somministrato farmaci e cure a lei e al fratello con una precoce serietà che presagiva il suo talento clinico. Sebbene al college e nei primi anni alla scuola di medicina si fosse sentito attratto dalla ricerca, in seguito si sarebbe reso conto di possedere un dono innato per la diagnosi clinica che aveva colpito i suoi superiori e colmato lui di soddisfazione. Quando si era diplomato aveva capito che sarebbe diventato un medico interessato alla ricerca e non viceversa.
Anche se Alexis e le due figlie minori, Meghan di undici anni e Christina di dieci, si erano mostrate comprensive, con Tracy era stata tutta un'altra storia. A quindici anni e in piena tempesta adolescenziale, gli aveva chiaramente fatto capire, e con insistenza, di non essere capace di perdonarlo. Come se non bastasse c'erano stati episodi di ribellione, uso di droga, aperta violazione del «coprifuoco» e furtive uscite notturne. Alexis era preoccupata, ma dal momento che aveva un buon rapporto con la figlia, era sicura che Tracy avrebbe superato questa fase. Date le circostanze, aveva incoraggiato Craig a non interferire e lui aveva ubbidito senza recriminazioni, visto che non aveva idea di come affrontare la situazione nel migliore dei modi ed era troppo preoccupato razionalmente ed emotivamente per se stesso. Il giudice Davidson ricusò due potenziali giurati, uno perché apertamente ostile alle compagnie di assicurazione che riteneva derubassero il paese; l'altro perché un suo cugino, cliente di Craig, gli aveva riferito che era un ottimo medico. Numerosi altri candidati furono esonerati dagli avvocati. Dal gruppo vennero chiamati a prestare giuramento altri tre potenziali giurati e le domande continuarono. Affrontare il risentimento di Tracy l'aveva ferito, ma era stato nulla in confronto ai problemi avuti con Leona. Da amante respinta, divenne vendicativa, in particolare appena scoprì di doversi cercare un appartamento. Il suo atteggiamento aveva messo a dura prova lo studio e Craig si ritrovò tra l'incudine e il martello senza poter intervenire per paura di un'accusa di discriminazione sessuale. Non capiva perché non si licenziasse, viste le aperte ostilità con le sue due colleghe. Ogni giorno Marlene e Darlene minacciavano di andarsene e Craig, che aveva più che mai bisogno di loro, non poteva permetterselo. Provato emotivamente e fisicamente dalla causa civile, riusciva a stento a lavorare, faticava a concentrarsi e considerava ogni paziente un potenziale contendente. Dal giorno in cui aveva ricevuto il mandato di comparizione, aveva sofferto di attacchi di panico che avevano ulteriormente compromesso il suo sistema digestivo già precario, provocandogli diarrea e bruciori di stomaco. Ad aggravare la situazione, l'insonnia lo costringeva ad assumere sonniferi che lo lasciavano istupidito. Nel complesso, un disastro. L'unico lato positivo era che l'inappetenza non gli aveva fatto recuperare i chili persi in palestra, ma aveva ripreso un colorito olivastro sul viso gonfio segnato da occhiaie scure. Per quanto l'atteggiamento ostile di Leona nello studio gli complicasse la vita, l'effetto che ebbe sull'accusa di negligenza fu peggiore. La prima av-
visaglia fu la sua comparsa nella lista dei testimoni di Tony Fasano. La vera portata del pericolo la si comprese durante la deposizione, una cosa penosa per Craig, che fu costretto ad assistere all'intensità del suo risentimento, fino al punto di venire umiliato dalla beffarda descrizione della sua scarsa virilità. Prima di allora, aveva confessato a Randolph i particolari della sua relazione con Leona, affinché l'avvocato sapesse cosa aspettarsi e quindi quali domande porre. L'aveva anche avvertito di come avesse rivelato in modo irresponsabile i suoi sentimenti verso la defunta, la sera in cui aveva ricevuto il mandato di comparizione, ma avrebbe potuto risparmiarsi il fiato. Per rancore o per buona memoria, Leona aveva ricordato quasi tutto ciò che Craig aveva detto su Patience Stanhope, quanto odiasse quella donna, che aveva definito una strega ipocondriaca patentata, e l'affermazione che la sua dipartita era stata una benedizione per tutti. Dopo simili rivelazioni, anche l'eterno ottimismo di Randolph sull'esito del processo aveva ricevuto un duro colpo. Quando era uscito con il suo assistito dall'ufficio di Fasano, Randolph era stato ancora più taciturno e impacciato del solito. «Non favorirà la mia causa, vero?» aveva chiesto Craig, sperando vanamente che i suoi timori fossero infondati. «Spero che questa sia l'unica sorpresa che ha in serbo per me», aveva risposto Randolph. «La sua loquacità ha reso il nostro percorso una strada in salita. La prego, mi dica che non ha parlato con altri in questo modo.» «Con nessun altro.» «Grazie a Dio!» Salendo sull'auto di Randolph, aveva ammesso tra sé di disprezzare l'atteggiamento di superiorità dell'avvocato, anche se in seguito avrebbe riconosciuto che ciò che odiava era la dipendenza che lo legava a lui. Fino a quel momento, Craig aveva sempre fatto a modo suo, lottando da solo contro ogni ostacolo. Ora aveva bisogno di Randolph e per questo motivo i suoi sentimenti verso di lui erano cambiati di continuo durante i mesi precedenti il processo, a seconda di come si dipanava la causa. Craig notò un moto di insoddisfazione in Randolph appena Tony usò la sua ultima opzione per eliminare l'amministratrice elegantemente vestita di una casa di riposo. Picchiettò con nervosismo il blocco e, per rappresaglia, eliminò la donna pallida e bionda nell'enorme felpa. Vennero chiamati alla sbarra altri due possibili giurati e le domande continuarono. Chinandosi verso l'avvocato, Craig gli domandò sottovoce cosa dovesse fare per poter andare in bagno. Il suo colon ipersensibile stava reagendo
all'ansia. Randolph gli assicurò che non doveva fare altro che dirlo. Craig annuì e spinse indietro la sedia. Era mortificante sentirsi addosso gli occhi di tutti, mentre usciva dall'aula. L'unica persona che salutò fu Alexis. Con tutti gli altri evitò di incrociare lo sguardo. La toilette degli uomini era antiquata e puzzava di urina. Si chiuse di corsa in un box per evitare qualsiasi contatto con gli uomini non rasati e dall'aria sospetta che indugiavano vicino ai lavandini e chiacchieravano a voce bassa. Con le pareti ricoperte di graffiti, il pavimento di piastrelle sbrecciate e l'odore sgradevole, quella toilette sembrava il simbolo dell'attuale vita di Craig. Ripensò alla deposizione di Leona che, sebbene fosse stata la peggiore per il suo effetto sull'esito della causa, non lo era stata da un punto di vista emotivo. Il triste onore spettava sia alla sua stessa deposizione sia a quelle dei periti di Tony Fasano. Con profondo sgomento, l'avvocato dell'accusa non aveva avuto difficoltà a indurre esperti locali a testimoniare e ne aveva trovati veramente molti. Erano tutte persone che Craig conosceva e stimava e che conoscevano lui. La prima a deporre era stata la dottoressa Noelle Everette, la cardiologa che si era adoperata nel tentativo di rianimazione. Il secondo, il dottor William Tardoff, direttore del reparto di cardiologia al Newton Memorial Hospital e infine il teste peggiore per Craig, il dottor Herman Brown, direttore del reparto di cardiologia al Boston Memorial Hospital e cattedratico di cardiologia alla scuola di medicina di Harvard. Tutti e tre testimoniarono che i primi minuti dopo un attacco di cuore erano i più cruciali in termini di sopravvivenza. Concordarono anche che fosse di vitale importanza portare il paziente in un istituto ospedaliero il più rapidamente possibile e che ogni ritardo era irragionevole. Sebbene tutti e tre reputassero assurdo fare una visita a domicilio di fronte a un sospetto infarto del miocardio, Randolph era riuscito a far ammettere loro che non ritenevano che Craig conoscesse la diagnosi prima di arrivare al suo capezzale. Era riuscito anche a far dichiarare a due di loro che erano rimasti colpiti dalla disponibilità di Craig a fare visite a domicilio quale che fosse la diagnosi. Randolph non era rimasto impressionato dalle dichiarazioni degli esperti come Craig, che si era indispettito, trattandosi di colleghi. Aveva considerato la loro disponibilità a testimoniare come un'aperta critica alla sua reputazione di medico, soprattutto da parte del dottor Brown, che era stato suo precettore alla scuola di medicina e uno dei suoi tutori durante l'internato. Il biasimo e la disapprovazione del dottor Brown che l'aveva tanto
lodato quando era studente l'avevano ferito a sangue. Per peggiorare le cose, non era riuscito a trovare un solo collega disposto a testimoniare a suo favore. Per quanto sconvolgenti fossero state le deposizioni dei tre medici, la più penosa e incresciosa esperienza della sua vita fu andare alla sbarra, soprattutto perché Fasano aveva prolungato la seduta per due snervanti giornate. Randolph aveva previsto le difficoltà e aveva tentato di prepararlo. Gli aveva consigliato di prendere tempo prima di replicare alle domande, di riflettere sulle conseguenze di una risposta, di evitare di dire qualcosa che non gli era stato chiesto, ma soprattutto di non mostrarsi arrogante e di non mettersi a discutere. Aveva detto di non poter essere più specifico, dal momento che non si era mai trovato di fronte il collega, soprattutto perché quella sembrava la sua prima incursione nell'arena della negligenza medica, mentre era specializzato in cause per lesioni personali. La deposizione aveva avuto luogo nell'elegante studio di Randolph, con una fantastica vista sul porto di Boston. All'inizio Tony era stato ragionevole, non gradevole ma neppure provocatorio, mostrando il lato divertente della sua personalità. Aveva addirittura fatto alcune battute, anche se aveva riso solo lo stenografo. Ma quell'atteggiamento aveva presto lasciato il posto a una fastidiosa arroganza. Appena aveva iniziato a serrare il ritmo e ad accusare, toccando la vita privata e professionale in mortificanti dettagli, le deboli difese di Craig si erano sgretolate. Randolph aveva mosso obiezioni a piè sospinto, aveva addirittura tentato di suggerire brevi sospensioni in alcuni frangenti, ma Craig era arrivato al punto di non volerne sentir parlare. Nonostante fosse stato avvertito di non lasciarsi prendere dall'ira, aveva perso le staffe e aveva ignorato tutti i consigli di Randolph, trascurando le sue raccomandazioni. Il peggior scambio di battute era avvenuto nel primo pomeriggio del secondo giorno. Sebbene a pranzo Randolph l'avesse messo in guardia e Craig avesse promesso di non perdere il controllo, era caduto rapidamente nella trappola sotto il furibondo attacco delle assurde asserzioni di Tony. «Aspetti un secondo!» aveva inveito Craig. «Lasci che le dica una cosa.» «Faccia pure. Sono tutto orecchi.» «Nella mia vita professionale ho commesso alcuni errori, come tutti i medici. Ma Patience Stanhope non è stata uno di quelli. Assolutamente no!» «Davvero?» aveva domandato Tony con disprezzo. «Che cosa intende per errori?»
«Ritengo che si debba fare un'interruzione», si era intromesso Randolph. «Non ho bisogno di alcuna dannata interruzione», aveva gridato Craig. «Voglio che questo stronzo capisca anche solo per un secondo cosa vuole dire essere un medico: quello in prima linea con i malati e gli ipocondriaci.» «Ma il nostro obiettivo non è quello di istruire l'avvocato Fasano», aveva replicato Randolph. «Non importa ciò che crede lui.» «Gli errori accadono quando si commette qualcosa di stupido», aveva sibilato Craig, ignorando il suo avvocato e chinandosi in avanti per avvicinare la sua faccia a quella di Tony, «come prendere una scorciatoia quando si è stanchi e si hanno altri dieci pazienti da visitare o dimenticare di prescrivere un esame quando si sa che è opportuno, perché è intervenuta un'emergenza.» «Oppure fare una stupida visita a domicilio a un paziente gravemente malato che fatica a respirare invece di mandarlo in ospedale, per poter arrivare al concerto in tempo?» Il rumore della porta esterna della toilette che veniva chiusa riportò Craig al presente. Con la speranza che l'intestino gli desse tregua per il resto della mattinata, si alzò, s'infilò la giacca e andò a lavarsi le mani. Al lavandino si guardò nello specchio e rabbrividì. Il suo aspetto era peggiorato e non pensava ci sarebbe stato un miglioramento nel prossimo futuro, con il processo alle porte. Sarebbe stata una settimana lunga e stressante, soprattutto tenendo conto della sua disastrosa deposizione. Subito dopo la débâcle non aveva avuto bisogno di sentirsi dire da Randolph quando si fosse comportato male, anche se era stato tanto gentile da fargli notare solo che avrebbero dovuto esercitarsi prima della sua deposizione al processo. Quel giorno, prima di uscire dallo studio dell'avvocato, l'aveva preso in disparte e fissandolo negli occhi aveva annunciato: «Voglio che sappia che ho commesso degli errori, come ho dichiarato a Fasano, pur avendo cercato con tutte le mie forze di essere un bravo medico. Ma non ho commesso alcuno sbaglio con Patience Stanhope. Non c'è stata alcuna negligenza». «Lo so», gli aveva risposto Randolph. «Mi creda, comprendo la sua frustrazione e il suo dolore e le prometto che, qualunque cosa accada, farò del mio meglio per convincere la giuria.» Rientrato in aula, Craig tornò al suo posto. La selezione dei giurati era stata completata ed era stata formata la giuria. Il giudice Davidson stava illustrando loro la procedura e impartendo alcune istruzioni di base, come tenere spenti i cellulari. Spiegò che loro soltanto avrebbero giudicato, a-
vrebbero cioè dovuto stabilire quali erano i fatti. Al termine del processo avrebbe chiarito loro i punti appropriati della legge, come era di sua competenza. Li ringraziò, infine fissò da sopra gli occhiali Tony Fasano. «L'avvocato di parte civile è pronto?» domandò Davidson. Aveva già spiegato alla giuria che l'azione giudiziaria sarebbe iniziata con il discorso d'apertura dell'avvocato del ricorrente. «Un momento solo, vostro onore», rispose Tony, allungandosi verso la sua assistente, che annuì mentre lui parlava sottovoce, e poi gli porse una pila di appunti. Durante quella pausa, Craig tentò di catturare l'attenzione dei giurati, come gli aveva consigliato Randolph, guardandoli uno a uno, sperando che la sua espressione non riflettesse i suoi pensieri più intimi. L'idea che quel gruppo di gente comune rappresentasse i suoi pari gli sembrava come minimo ridicola: un pompiere in maglietta bianca e muscoli rigonfi, un drappello di casalinghe elettrizzate da quell'esperienza, una maestra in pensione con i capelli azzurrognoli, un grasso aiuto idraulico in jeans e T-shirt sporca con un piede sulla balaustra, un giovane ben vestito con un fazzolettino rosso nel taschino della giacca di lino, una graziosa infermiera d'origine asiatica con le mani giunte sul grembo e due uomini d'affari in abiti in poliestere, l'espressione chiaramente annoiata e irritata per essere stati costretti a compiere il loro dovere civile. Nella fila dietro i due uomini sedeva un agente di Borsa decisamente più benestante. Craig sentì crescere la disperazione, mentre i suoi occhi passavano da un giurato all'altro. Tranne l'infermiera, nessuno sembrò disposto a incrociare anche solo brevemente il suo sguardo. Non poté esimersi dal pensare che difficilmente una di quelle persone, a parte l'infermiera, poteva avere un'idea di ciò che volesse dire essere un medico. Unendo questa riflessione alla sua pessima esibizione durante la deposizione, alla prevista testimonianza di Leona e a quelle dei periti della parte lesa, le probabilità di un esito favorevole gli parvero nel migliore dei casi remote. Era tutto deprimente, ma anche un finale adeguato agli otto tremendi mesi di ansia, angoscia, isolamento e insonnia. Era consapevole che l'esperienza l'aveva profondamente cambiato, privandolo della fiducia nelle sue capacità, del suo senso di giustizia, del suo amor proprio, addirittura della passione per l'esercizio della medicina. Mentre se ne stava lì seduto a guardare i giurati, si chiese se, a prescindere dall'esito, sarebbe mai più riuscito a tornare a essere il medico che era stato.
2 Boston Lunedì, 5 giugno 2006 10.55 Tony Fasano afferrò i bordi del podio come se stringesse il joystick di un mastodontico videogioco. I capelli impomatati all'indietro erano di una lucentezza impressionante. Il grande diamante incastonato nell'anello brillò colpito dalla luce del sole. I gemelli, due pepite d'oro, erano in piena vista. Malgrado la bassa statura, la struttura squadrata gli conferiva un aspetto possente e la carnagione scura un'aria sana, a dispetto del colore giallastro delle pareti dell'aula di tribunale. «Signore e signori della giuria», attaccò, «desidero esprimere il mio personale apprezzamento per il vostro servizio che consente al mio cliente, Jordan Stanhope, di vedere assicurata la giustizia.» S'interruppe per guardare il suo assistito, che rimase impassibile e immobile come un manichino. Indossava un impeccabile completo scuro con un fazzolettino bianco che spuntava dal taschino. Teneva le mani curate giunte davanti a sé, il volto privo d'espressione. Girandosi, Tony attirò di nuovo su di sé gli occhi dei giurati. Il suo viso assunse un'espressione dolente. «Il signor Stanhope ha passato un periodo di profonda afflizione dopo l'inattesa e incresciosa dipartita, nove mesi fa, della sua amorevole e devota moglie e compagna di vita, Patience Stanhope. Fu una tragedia che si poteva evitare e che è accaduta solo a causa della vergognosa negligenza e imperizia del cliente dell'avvocato di parte avversa, il dottor Craig M. Bowman.» Craig s'irrigidì. Le dita di Randolph si chiusero immediatamente sul suo avambraccio e l'avvocato, chinandosi su di lui, gli sussurrò: «Si controlli!» «Come può, quel bastardo, affermare una cosa simile?» grugnì Craig sottovoce. «Credevo che il processo riguardasse proprio questo.» «Ed è così. Gli è permesso esporre il suo punto di vista. Ammetto che il suo è un discorso sedizioso, ma questo è il suo stile.» «E ora», continuò Tony puntando l'indice verso l'alto, «prima di illustrarvi come argomenterò ciò che ho appena asserito, vorrei fare una confessione. Io non sono andato a Harvard come il mio stimato collega. Sono solo un ragazzo di periferia, e a volte non mi esprimo tanto bene.» L'aiuto idraulico scoppiò a ridere e i due abiti in poliestere sorrisero a di-
spetto della loro lampante irritazione. «Ma mi sforzo di farlo», soggiunse Tony. «E se essere qui vi rende un poco nervosi, sappiate che lo sono anch'io.» Le casalinghe e la maestra in pensione sorrisero all'inattesa ammissione di Tony. «Sarò franco con voi, come lo sono stato con il mio cliente», riprese. «Non mi sono occupato di molte cause di responsabilità professionale medica. Questa è la prima.» Il muscoloso pompiere sorrise e approvò con un cenno del capo la sincerità di Tony. «E così potreste chiedervi: perché mai questo immigrato italiano ha accettato il caso? Ecco perché: per proteggere me, voi e i miei figli da persone come il dottor Bowman.» Sui volti della maggior parte dei giurati si dipinsero tenui espressioni di sorpresa, quando Randolph si alzò in tutta la sua aristocratica altezza. «Obiezione, vostro onore. L'avvocato è sedizioso.» Il giudice Davidson lanciò un'occhiata irritata a Tony da sopra gli occhiali e ammonì: «Le sue osservazioni stanno per superare i limiti del decoro di quest'aula. Questa è un'arena per il combattimento verbale, ma si devono seguire riti e regole stabiliti, soprattutto nella mia aula. Mi sono spiegato?» Tony alzò le mani nerborute con fare supplichevole. «Assolutamente sì e mi scuso con la corte. A volte le mie emozioni hanno il sopravvento e questa è una di quelle volte.» «Vostro onore...» si lamentò Randolph, ma venne interrotto dal giudice che gli fece cenno di sedersi, mentre ordinava a Tony di procedere con adeguata proprietà. «Sta diventando uno spettacolo circense», sussurrò Randolph sedendosi. «Fasano è un pagliaccio, ma un pagliaccio subdolamente furbo.» Craig fissò l'avvocato. Era la prima volta che notava un'incrinatura nel glaciale aplomb dell'uomo. Il suo commento era tanto più sconvolgente perché rivelava un pizzico di riluttante ma inequivocabile ammirazione. Dopo una rapida occhiata alle carte, Tony riprese la sua dichiarazione d'apertura: «Alcuni di voi potrebbero chiedersi perché cause come queste non vengano risolte da giudici esperti e perché abbiate dovuto interrompere la vostra routine quotidiana. Ve lo spiego io. Perché voi avete più buonsenso dei giudici». Segnò a dito ogni giurato. Aveva ottenuto tutta la loro attenzione. «È la verità. Con tutto il dovuto rispetto, vostro onore», sog-
giunse alzando gli occhi sul giudice. «La vostra memoria è stipata di leggi e statuti e di ogni genere di oscuri cavilli legali, mentre queste persone», e riportò la sua attenzione sui giurati, «sono capaci di giudicare i fatti. Questo per me è il massimo. Dovessi mai finire nei guai, vorrei una giuria. Come mai? Perché voi, con il vostro buonsenso e il vostro intuito riuscite a penetrare la foschia legale e a capire dove sta la verità.» Numerosi giurati fecero cenni d'assenso e Craig sentì il battito del polso accelerare e un crampo gli strinse le viscere. Il timore che Tony riuscisse a conquistare la giuria si era già avverato ed era sintomatico di tutta quella penosa faccenda. Proprio quando sentiva che le cose non potevano andare peggio, peggioravano. «Ciò che farò», continuò Tony, gesticolando, «è dimostrarvi quattro punti basilari. Numero uno: grazie alle testimonianze delle stesse dipendenti del dottor Bowman, confermerò che egli era al servizio della defunta. Numero due: con la testimonianza di tre riconosciuti esperti di istituti clinici locali, vi mostrerò cosa farebbe un medico sensato nella circostanza in cui si era trovata la defunta la sera dell'otto settembre 2005. Numero tre: con la testimonianza del mio assistito, di una delle dipendenti del dottor Bowman e di uno degli esperti che è rimasto coinvolto nel caso, vi dimostrerò come il dottor Bowman non abbia agito come avrebbe dovuto fare un bravo medico. E, numero quattro: vi proverò come la condotta del dottor Bowman fu la causa immediata della morte della sua paziente.» La fronte di Craig si coprì di sudore. Aveva bisogno di andare in bagno, ma non osava farlo. Si versò dell'acqua con mano tremante e ne bevve un sorso. «Ora siamo tornati con i piedi sulla terra ferma», mormorò Randolph. Il suo atteggiamento calmo lo confortò, ma Craig sapeva che non era finita. «Ciò che ho appena descritto», riprese Tony, «è il nucleo di una banale causa di negligenza medica. È ciò che gli eleganti e facoltosi avvocati come il mio avversario amano chiamare prima facie. Io lo chiamo fulcro. Avvocati e medici amano riempirsi la bocca di parole che nessuno comprende, in particolar modo termini latini. Ma questo non è un caso banale. È qualcosa di molto peggio, ed è per questo che lo sento tanto intensamente. La difesa vorrà farvi credere, e presenterà dei testimoni a questo scopo, che il dottor Bowman è un grande medico, compassionevole e comprensivo, con una famiglia perfetta, ma la realtà è molto diversa.» «Obiezione!» esclamò Randolph. «La vita privata del dottor Bowman non è in discussione. L'avvocato sta cercando di attaccare il mio cliente.»
Il giudice Davidson squadrò il pubblico ministero dopo essersi tolto gli occhiali. «Sta andando fuori tema, figliolo. La direzione che sta prendendo è attinente a quest'affermazione di negligenza?» «Sì, vostro onore, è fondamentale.» «Lei e la causa del suo cliente si troveranno in cattive acque se non lo fosse. Obiezione respinta. Proceda.» «Grazie, vostro onore», disse Tony prima di rivolgersi nuovamente ai giurati. «La sera dell'otto settembre 2005, quando Patience Stanhope stava per incontrare la sua prematura morte, il dottor Craig Bowman non se ne stava comodo nella sua elegante casa a Newton con la sua amata famiglia. Oh, no! Verrete a sapere da una testimone, al tempo sua dipendente e amante, che era con lei nel suo nido d'amore in città.» «Obiezione!» gridò Randolph con insolita energia. «Affermazione tendenziosa e basata sul sentito dire. Non posso tollerare questo tipo di linguaggio.» Craig si sentì avvampare. Avrebbe voluto voltarsi e parlare con Alexis, ma non poteva, non mentre si sentiva tanto umiliato. «Accolta! Avvocato, si attenga ai fatti senza divagazioni atte a fomentare la giuria fino a che la sua testimone non deporrà.» «Naturalmente, vostro onore, ma non è facile tenere a freno l'emozione.» «Si attenga ai fatti.» Tony si rivolse nuovamente ai giurati. «La testimonianza che sentirete mostrerà come lo stile di vita del dottor Bowman fosse profondamente cambiato.» «Obiezione», ripeté Randolph. «La vita privata e lo stile di vita del mio assistito non hanno alcuna attinenza con questo processo. Stiamo dibattendo un caso di negligenza.» «Avvicinatevi immediatamente al banco!» esclamò in tono perentorio il giudice Davidson. Gli avvocati si accostarono ubbidienti fuori portata d'orecchio dell'aula e, più importante, lontano dallo stenografo e dalla giuria. «Di questo passo, il processo durerà una vita», bofonchiò il giudice. «Se continuate così manderete a monte il mio programma per questo mese.» «Non posso permettere che questa farsa continui», si lamentò la difesa. «È pregiudizievole per il mio cliente.» «Tutte queste interruzioni mi fanno perdere il filo», obiettò Tony. «Moderate i toni! Non voglio più sentire lamentele. Avvocato Fasano, mi fornisca una giustificazione per questa divagazione dagli attinenti fatti
medici!» «È stato il dottor Bowman a decidere di andare a visitare a domicilio la defunta invece di accogliere la richiesta del mio cliente di portare la moglie direttamente in ospedale, anche se, come testimonierà lo stesso dottore, sospettava un attacco di cuore.» «E allora?» domandò il giudice Davidson. «Immagino che il dottore abbia reagito all'emergenza senza indebito ritardo.» «Su questo siamo disposti a convenire, ma l'imputato non aveva mai fatto visite a domicilio prima della sua crisi di mezza età e del suo 'risveglio', parole sue, e prima di trasferirsi in città con la sua amante. I miei periti testimonieranno concordi che il ritardo provocato dalla visita a domicilio è stato letale per Patience Stanhope.» Il giudice soppesò quelle parole. «Ribadisco che lo stile di vita non è materia di discussione in una causa per negligenza medica», rincarò Randolph. «Legalmente, ci si deve chiedere se è occorsa una deviazione dallo standard di cura che ha provocato un danno risarcibile.» «In linea di massima ha ragione, avvocato, ma credo che l'avvocato Fasano abbia una sua tesi, a patto che venga suffragata dalla testimonianza. Può sostenere inequivocabilmente che è questo il caso?» «Alla lettera», rispose convinto Tony. «Allora toccherà alla giuria decidere. Obiezione respinta. Può procedere, ma l'ammonisco a moderare i toni.» «La ringrazio, vostro onore.» Randolph tornò al suo posto, chiaramente indispettito. «Dovremo parare il colpo», riferì. «Il giudice consente a Fasano un'insolita libertà. Aggiungerà foraggio all'appello, dovesse concludersi con un verdetto a noi sfavorevole.» Craig annuì, ma il fatto che Randolph, per la prima volta, esprimesse la possibilità di un esito negativo accrebbe in lui sconforto e pessimismo. «Allora, dove ero rimasto?» chiese enfaticamente Tony tornando a rivolgersi alla giuria. Sfogliò rapidamente i suoi appunti e si sistemò le maniche della giacca per mettere in risalto i gemelli e l'orologio d'oro. Poi alzò gli occhi. «In terza elementare ho capito di non essere bravo a parlare in pubblico e non sono migliorato, per cui spero che mi consentiate una certa inesattezza di linguaggio.» Alcuni giurati sorrisero e annuirono comprensivi. «Presenteremo testimonianza che la vita professionale del dottor Bo-
wman cambiò profondamente all'incirca due anni fa. Prima aveva soprattutto una clientela tradizionale con programma assicurativo a rimborso. Poi ha cambiato direzione. È diventato socio, o meglio ha rilevato uno studio medico di successo, che propone la cosiddetta concierge medicine, con clientela che paga una quota annuale anticipata.» «Obiezione!» esclamò Randolph. «Questo processo non riguarda lo stile dello studio medico.» Davidson emise un altro sospiro di frustrazione. «Avvocato, lo stile dell'esercizio professionale è pertinente alla questione discussa tra noi poco fa?» «Certamente, vostro onore.» «Respinta. Proceda.» «Allora», continuò Tony, «vedo alcuni volti un po' perplessi quando menziono il termine concierge medicine. Sapete perché? Perché tanti non sanno di cosa si tratta, come non lo sapevo io prima di accettare questa causa. La retainer medicine, come viene anche chiamata, prevede che i pazienti che vogliono essere inclusi nella clientela sgancino parecchi soldi in anticipo ogni anno. E stiamo parlando di grosse somme, che in alcuni studi possono arrivare a ventimila dollari a testa l'anno! Il dottor Bowman e il suo socio, ormai quasi in pensione, il dottor Ethan Cohen, non richiedono così tanto, ma comunque una bella cifra. Come potete immaginare, questa pratica può esistere solo nelle zone più ricche ed eleganti del paese.» «Obiezione», sbraitò Randolph. «Vostro onore, qui non è sotto accusa la concierge medicine.» «Non sono d'accordo, vostro onore», ribatté il pubblico ministero fissando il giudice. «In un certo senso lo è.» «Allora la colleghi al caso, avvocato», sbottò Davidson. «Obiezione respinta.» Tony tornò a guardare i giurati. «Che cosa ottengono i clienti che pagano profumatamente gli onorari in anticipo, a parte venir cacciati dalla lista dei pazienti se non tirano fuori i soldi? Vi illustreremo anche questo, compresa la disponibilità ventiquattro ore su ventiquattro del medico, il libero accesso al suo cellulare e indirizzo e-mail e gli appuntamenti rapidi, servizi che io ritengo dovrebbero essere alla portata di tutti senza alcun anticipo di sorta. Ma la cosa più importante in relazione a questo caso è che hanno la possibilità di ottenere, in caso di necessità o convenienza, visite a domicilio.» Fece una pausa per permettere alle sue parole di andare a segno. «Duran-
te il processo, ascolterete la testimonianza diretta che la sera dell'otto settembre 2005, il dottor Bowman aveva i biglietti per un concerto per sé e la sua convivente, mentre la consorte e le sue amate figlie erano chiuse in casa. Ora che è tornato in famiglia, vorrei tanto poter ascoltare la moglie al banco dei testimoni, ma non posso. Immagino, tuttavia, che sia una santa donna.» «Obiezione.» «Accolta.» «Sentirete anche», continuò Tony senza quasi interrompersi, «che l'iter in caso di sospetto attacco cardiaco è trasferire immediatamente il paziente in ospedale per sottoporlo a terapia. E, quando dico immediatamente, non esagero, perché i minuti, forse anche i secondi, sono ciò che separano la vita dalla morte. Sentirete dire che, malgrado il mio cliente avesse chiesto al dottor Bowman di far ricoverare la moglie, il dottore insisté nel voler fare una visita a domicilio. Per quale motivo? «Sentirete testimoni dichiarare che scelse la visita perché, se Patience Stanhope non avesse avuto un attacco di cuore, nonostante ne avesse il sospetto, sarebbe potuto arrivare al concerto in tempo, con la sua Porsche rossa nuova fiammante, fare il suo ingresso e farsi ammirare per il suo prestigio e per la giovane e attraente donna sottobraccio. E qui sta la negligenza e la responsabilità professionale medica! Nella sua vanità, il dottor Bowman ha disatteso lo standard di cura che impone che la vittima di un infarto venga portata in un istituto il più presto possibile. «Ascolterete interpretazioni diverse dei fatti grazie agli sforzi del mio più esperto e raffinato collega. Ma sono sicuro che vedrete la verità come credo abbia fatto il tribunale del Massachusetts, quando, sentito il caso, ha deliberato lo svolgimento del processo.» «Obiezione», sbraitò Randolph, balzando in piedi. «Chiedo che queste parole vengano cancellate e che la corte ammonisca il mio collega. Il verdetto del tribunale non è ammissibile: Beeler contro Downey, corte suprema del Massachusetts.» «Accolta!» concesse il giudice. «Chiedo scusa, vostro onore.» Tony si avvicinò al tavolo e prese un foglio che gli porgeva la sua assistente. «Ho qui una copia della legge del Massachusetts, capitolo duecentotrentuno, sezione sessanta B, in cui si dichiara che i verdetti federali e le loro testimonianze sono ammissibili.» «Questa legge è stata rovesciata dalla causa citata», lo zittì il giudice. Guardò lo stenografo: «Cancelli il riferimento dal verbale».
«Sissignore.» Davidson fissò poi la giuria. «Siete invitati a non considerare l'accenno al tribunale del Massachusetts, e a ricordare che non ha alcuna rilevanza nella vostra responsabilità di giudicanti. Sono stato chiaro?» La giuria assentì timidamente. Il giudice lanciò un'occhiata torva a Tony: «L'inesperienza non è una giustificazione per l'ignoranza della legge. Mi auguro che non commetta altri errori di questo genere o sarò costretto a invalidare il processo per vizio di procedura». «Farò del mio meglio», si scusò. Tornò al podio, raccolse per un momento i pensieri, poi riprese: «Sono sicuro, come ho già detto, che vedrete la verità e riconoscerete che è stata la negligenza del dottor Bowman a provocare la morte della moglie del mio cliente. Vi si chiederà poi di assegnare un risarcimento per le cure, la guida, l'appoggio, i consigli e la compagnia che Patience Stanhope avrebbe offerto al mio cliente, se non fosse deceduta. «Vi ringrazio per la vostra attenzione e chiedo scusa alla corte per la mia inesperienza in questo particolare campo della legge». Raccolse gli appunti e andò a sedersi al suo posto, dove si lanciò in una conversazione sommessa ma convulsa con la sua assistente. Sventolava il foglio che gli aveva sottoposto pochi minuti prima. Con un sospiro di sollievo, il giudice guardò l'ora prima di rivolgere la sua attenzione all'avvocato della difesa. «Avvocato, vuole fare una dichiarazione?» «Senz'altro, vostro onore.» «Bene, ma prima facciamo una pausa», e batté il martelletto. «La corte si aggiorna fino all'una e trenta. I giurati non devono discutere la causa con nessuno né tra di loro.» «In piedi», gridò il cancelliere, mentre il giudice si alzava. 3 Boston Lunedì, 5 giugno 2006 12.05 Mentre tutti si apprestavano a uscire in fila indiana dall'aula, Alexis Stapleton Bowman non si mosse. Osservava suo marito sprofondato nella se-
dia come un palloncino sgonfio. Randolph, chino su di lui, gli stava parlando a bassa voce, una mano sulla spalla. Mark Cavendish, in piedi accanto a Craig, raccoglieva e infilava in una borsa i documenti, un portatile e alcuni appunti. Alexis aveva l'impressione che Randolph cercasse di indurre il marito a fare qualcosa e, dopo essersi chiesta se fosse il caso di intervenire, decise che era meglio attendere. Osservò Jordan Stanhope attraversare il cancelletto che separava il pubblico, il volto neutro, il contegno distaccato, l'abito classico e costoso. Continuò a guardarlo mentre si accostava, senza dire una parola, a una giovane donna che gli assomigliava in modo impressionante sia nel comportamento sia nel vestire. Come esperta psicologa, aveva assistito a numerosi processi e aveva testimoniato in varie vesti e sapeva che era un'esperienza inquietante, in particolare per suo marito, che era decisamente vulnerabile. Il processo era il culmine di due anni difficili e molto dipendeva dal suo esito. Conosceva Craig profondamente e al momento riteneva che i suoi punti deboli avevano battuto quelli di forza: se non avesse avuto la meglio, dubitava che sarebbe più riuscito a rimettere insieme la sua vita, che era andata a pezzi ancor prima dell'azione legale con la tipica crisi di mezza età. Craig era soprattutto un dottore. I suoi pazienti venivano prima di ogni altra cosa e questa realtà lei l'aveva intuita fin dall'inizio della loro relazione e l'aveva accettata, addirittura ammirata, dal momento che essere un medico, e in particolare un bravo medico, era secondo lei uno dei lavori più faticosi ed esigenti. Come le aveva confidato Randolph, c'era la possibilità, almeno in questa prima fase, che perdessero la causa nonostante non ci fosse stata alcuna negligenza. Di questo Alexis era convinta, perché sapeva che Craig aveva sempre messo i pazienti al primo posto, fossero anche le tre del mattino. A complicare la situazione c'era la doppia stangata dell'istanza e la crisi di mezza età. Il fatto che si fossero verificate contemporaneamente non la sorprese. Raramente aveva avuto medici come pazienti, le sembrava che non facesse parte della natura di un dottore cercare sostegno psicologico. I medici donavano aiuto, non lo ricevevano, e, sotto questo punto di vista, Craig era un ottimo esempio. Gli aveva consigliato di rivolgersi a uno psicoterapeuta, vista la reazione alla deposizione di Leona e a quelle dei periti, e avrebbe potuto facilmente fissargli una seduta, ma lui si era categoricamente rifiutato. Aveva reagito addirittura con stizza quando gliel'aveva riproposto, una settimana più tardi, quando era chiaro che stava cadendo in depressione.
Mentre si stava domandando se avvicinarsi al marito o restare dov'era, si accorse che un'altra persona era rimasta nella tribuna degli spettatori. A catturare la sua attenzione erano stati i vestiti, quasi identici per taglio e colore a quelli dell'avvocato di parte civile. Se non fosse stato per la stazza, almeno una volta e mezzo più grande di Tony Fasano, il volto segnato dall'acne giovanile e la carnagione leggermente più chiara, sarebbero potuti essere gemelli. In quel momento Fasano interruppe la sua conversazione con l'assistente, agguantò la cartella e si precipitò fuori dall'aula. Era evidentemente mortificato per l'errore commesso sulla delibera del tribunale. Alexis si chiese come mai stesse reagendo in quel modo spropositato, visto che il discorso di apertura era stato malauguratamente efficace. La signora Relf lo seguì colma di imbarazzo. Senza una sola occhiata, né un tentennamento, Tony chiamò: «Franco?» indicando all'uomo vestito come lui di seguirlo. Un attimo dopo erano scomparsi attraverso le pesanti doppie porte. Alexis riportò lo sguardo sul marito. Non si era mosso, ma ora Randolph stava guardando dalla sua parte e le fece segno di unirsi a loro. Ubbidì con piacere. Quando li raggiunse notò il volto contratto del marito. «Deve parlargli!» ordinò Randolph con un accenno di esasperazione nella voce che aveva perso per un attimo la sua studiata e aristocratica calma. «Non può continuare a comportarsi in questo modo avvilito e sconfitto. Per esperienza so che i giurati hanno antenne capaci di captare l'animo dell'imputato e decidere di conseguenza.» «Sta dicendo che la giuria potrebbe pronunciarsi contro Craig solo perché è depresso?» «Esattamente. Deve dirgli di riprendersi! Se continua a comportarsi così, c'è il rischio che lo considerino colpevole. Non sto dicendo che non ascolteranno le testimonianze né che non terranno conto delle prove, ma lo faranno solo per tentare di annullare la loro prima impressione. Un atteggiamento simile trasforma una giuria neutrale in una di parte e sposta il peso della prova dal ricorrente, dove dovrebbe stare, su di noi, la difesa.» Alexis guardò il marito che si stava massaggiando le tempie, la testa tra le mani, i gomiti sul tavolo. Teneva gli occhi chiusi e respirava con la bocca aperta. Riuscire a infondergli coraggio le parve arduo. Negli ultimi otto mesi non aveva fatto che entrare e uscire dalla depressione. Quel mattino e nei giorni immediatamente precedenti era stato euforico solo perché sapeva che il processo sarebbe finito presto. Ora che il processo era iniziato, era evidente che il panico dell'esito aveva avuto il sopravvento. La depres-
sione non era una reazione irragionevole. «Perché non andiamo tutti a pranzo?» suggerì Alexis. «Il signor Cavendish e io non possiamo», si scusò l'avvocato. «Devo pianificare la mia dichiarazione d'apertura.» «Non l'ha ancora fatto?» chiese, sorpresa. «Certo che sì», ribatté con stizza Randolph, «ma grazie alla libertà concessa dal giudice al mio collega, devo cambiarla.» «Ammetto che l'esposizione mi ha sorpresa», disse Alexis. «Ci credo. Non è stato altro che un tentativo diffamatorio, visto che non hanno alcuna prova concreta. L'unico elemento positivo è che il giudice Davidson ci sta fornendo le basi per l'appello, fosse necessario, specialmente dopo il colpo basso di Fasano di presentare il verdetto del tribunale.» «Non crede che si sia trattato di uno sbaglio?» «Per niente. Ho fatto fare ricerche su alcune delle sue cause. È un avvocato della peggior specie. È privo di coscienza. Non che ve ne sia nel suo settore...» Alexis non ne era tanto sicura. Avendo visto l'avvocato riprendere la sua assistente: si fosse trattato di una farsa, gli sarebbe valsa un Oscar. «Dovrei darmi un contegno e lei già sta parlando di appello», sospirò Craig, aprendo per la prima volta bocca da quando era arrivata Alexis. «Bisogna essere pronti a tutte le eventualità.» «Perché non va a prepararsi?» propose Alexis all'avvocato. «Il dottor Bowman e io dobbiamo parlare.» «Perfetto», esclamò. Sollevato, fece segno all'assistente di andarsene. «Ci ritroveremo qui al più presto. Il giudice Davidson è svelto e si aspetta che anche gli altri lo siano.» Alexis osservò il difensore e Mark attraversare l'aula e scomparire nel corridoio prima di riportare lo sguardo su Craig che la stava fissando con aria mesta. Si sedette. «Che ne dici di andare a mangiare qualcosa insieme?» chiese al marito. «L'ultima cosa che desidero al momento è mangiare.» «Allora usciamo. Usciamo da questo ambiente opprimente.» Craig non rispose, ma si alzò. Lei gli fece strada nel corridoio e nell'atrio degli ascensori, dove indugiava un gruppetto di persone, alcune delle quali stavano parlottando con fare furtivo. Il tribunale trasudava un'aura litigiosa. Uscirono in silenzio e furono investiti da un sole brillante. La primavera era arrivata. In forte contrasto con l'interno soffocante e deprimente del
tribunale, l'aria era colma di speranze e promesse. Dopo avere attraversato un piccolo cortile a forma di mezzaluna, scesero una breve scalinata. Non fu facile attraversare le quattro trafficate corsie di Cambridge Street, ma alla fine raggiunsero la vasta spianata di fronte al municipio della città. La piazza era affollata di gente che scappava dagli uffici per un po' di sole e aria fresca. Alcune bancarelle di frutta facevano ottimi affari. Senza una destinazione particolare, si ritrovarono vicino all'entrata della metropolitana. Si sedettero su un parapetto in pietra, e si ritrovarono uno di fronte all'altra. «Impossibile dirti di tirarti su», esordì Alexis. «Lo farai solo quando lo vorrai tu.» «Come se già non lo sapessi.» «Ma io sono brava ad ascoltare. Forse dovresti dirmi semplicemente come ti senti.» «Evviva! I terapeuti sono sempre pronti ad aiutare i malati di mente. Dimmi come ti senti tu!» la scimmiottò Craig. «Non essere ostile, io credo in te. Sono dalla tua parte.» Craig osservò distrattamente due bambini che si lanciavano un frisbee. Sospirò, poi guardò di nuovo la moglie: «Scusami. So che sei dalla mia parte, visto che mi hai lasciato tornare come un cane con la coda tra le zampe senza porre domande. Te ne sono grato, veramente». «Sei il miglior medico che conosca, e ne conosco tanti. Intuisco anche quello che stai attraversando proprio perché sei un dottore tanto bravo. Questo ti rende più vulnerabile. Tu e io abbiamo alcune cose da risolvere e ci saranno domande a cui rispondere, ma non adesso. Le affronteremo in seguito, prima dobbiamo superare questa orribile situazione.» «Grazie», rispose con sincerità. Poi il mento cominciò a tremargli. Tentando di respingere le lacrime, si fregò gli occhi con i polpastrelli. Appena ripreso il controllo, la guardò nuovamente, gli occhi umidi e arrossati. Si passò nervosamente la mano tra i capelli. «La situazione sta peggiorando e ho paura di perdere la causa. Accidenti, se ripenso al mio comportamento di quel periodo, provo imbarazzo. E il fatto che sarà discusso in pubblico è una vergogna per entrambi e un disonore per te.» «La divulgazione del tuo comportamento mondano è un punto rilevante della tua depressione?» «In parte, ma l'umiliazione maggiore sarà sentire la giuria raccontare al mondo intero che io pratico una medicina scadente. Dovesse succedere,
non riuscirò più a fare il medico. Mi è già difficile adesso. Vedo tutti come nemici e ogni visita come una possibile causa di negligenza. Un incubo.» «È comprensibile.» «Se non praticassi più, che altro potrei fare? Non so fare altro. Ho sempre e solo voluto fare il dottore.» «Potresti dedicarti alla ricerca a tempo pieno. Ti sei sempre sentito in conflitto tra la ricerca e la medicina clinica.» «Già, forse, ma temo che potrei perdere la passione per la medicina in generale.» «Allora mi sembra ovvio che devi fare tutto il possibile per vincere. Randolph sostiene che devi riprenderti.» «Oh, ancora lui!» gemette Craig, fissando il vuoto. «Non so che pensare di lui. Dopo avere visto l'esibizione di Fasano questa mattina, non credo che Randolph sia l'avvocato giusto. Entrerà in conflitto con quella giuria, mentre Fasano li ha già portati a fare quello che vuole lui.» «Se hai questa impressione, puoi chiedere un altro avvocato alla compagnia di assicurazioni.» «Non so, forse.» «Però c'è da chiedersi se, a questo punto, sia una decisione giusta.» «E chi lo sa?» domandò Craig pensoso. «Chi lo sa?» «Ecco, affrontiamo la circostanza con ottimismo. Sentiamo l'esposizione di apertura di Randolph. Nel frattempo dobbiamo trovare un modo per migliorare il tuo aspetto.» «Più facile a dirsi che a farsi. Qualche idea?» «Che ne dici di concentrarti sulla tua innocenza? Pensa a quella per ora. Avevi capito la gravità della condizione di Patience Stanhope; hai fatto tutto ciò che era umanamente possibile. L'hai addirittura accompagnata in ambulanza per poter essere presente, avesse avuto un arresto cardiaco. Perdio, Craig! Concentrati su questo e sulla tua dedizione alla medicina e proiettala all'esterno. Riempi l'aula del tribunale! Come potresti essere più responsabile? Che ne dici?» Craig abbozzò un sorriso stentato all'improvviso entusiasmo di Alexis. «Vediamo un po' se ho capito bene. Vuoi che mi concentri sulla mia innocenza e la trasmetta alla giuria?» «Hai sentito Randolph. Lui ha grande esperienza con le giurie ed è convinto che intuiscano la disposizione d'animo delle persone. Cerca di entrare in connessione con loro. Male non può fare.» Craig esalò rumorosamente. Non aveva alcuna fiducia, ma neppure la
forza di combattere l'impeto di Alexis. «D'accordo, ci proverò.» «Bene. E un'altra cosa. Prova a far ricorso alla tua abilità di medico per chiudere in un cassetto i pensieri negativi. Ti ho visto farlo un sacco di volte. Mentre pensi a che grande medico sei e a come hai dato tutto te stesso con Patience Stanhope, non pensare ad altro. Concentrati.» Annuì e distolse gli occhi. «Non sei convinto.» Scrollò la testa e fissò l'edificio postmoderno e squadrato del municipio di Boston che dominava la spianata. La sua imponenza inquietante e grigia gli parve come una metafora del pantano burocratico che lo aveva intrappolato. Con grande sforzo staccò gli occhi dall'edificio per riportarli sulla moglie. «La cosa peggiore di tutto questo casino è che mi sento impotente. Dipendo totalmente dall'avvocato. Ho superato con le mie forze ogni altra difficoltà ed era sempre stato quello sforzo in più che aveva risolto la crisi. Ora è come se ogni mio sforzo mi facesse sprofondare.» «Concentrarsi sulla tua innocenza richiede impegno. Creare scomparti mentali richiede fatica», spiegò e pensò a quanto fosse ironico che spiegasse proprio a lui le sensazioni che la gente prova riguardo le malattie e la loro dipendenza dai dottori. Craig annuì. «Non mi spaventa sforzarmi. Ho detto che tenterò di entrare in contatto con la giuria. Vorrei solo poter fare qualcos'altro, qualcosa di concreto.» «C'è un'altra cosa che mi è passata per la mente.» «Cosa?» «Ho pensato di chiamare Jack, e vedere se può venire qui da New York a darci una mano.» «Oh, veramente utile», ribatté in tono sarcastico. «Non verrà. Non vi frequentate da anni e inoltre non sono mai piaciuto a tuo fratello.» «È comprensibile che faccia fatica a mantenere i contatti con noi, dopo che ha perso tragicamente le sue due figlie. È troppo doloroso per lui vedere le nostre ragazze.» «Sarà, ma non spiega l'antipatia che prova per me.» «Come mai pensi di essergli antipatico? Ti ha mai detto che non gli piaci?» La fissò per un attimo. Si era messo alle corde da solo e non sapeva come uscirne. Jack Stapleton non aveva mai detto nulla di specifico, era solo una sua impressione. «Mi dispiace che pensi di non piacergli. Ti ammira e me l'ha detto chia-
ramente.» «Davvero?» Craig venne colto alla sprovvista, convinto com'era del contrario. «Sì. Mi ha confessato che tu eri il tipo di studente che evitava alla facoltà di medicina e durante l'internato, perché sei uno di quelli che leggono tutto ciò che viene loro consigliato, che conoscono tutti i casi, anche i più banali, e che potrebbero citare a memoria interi passi delle più prestigiose riviste del settore. Ha ammesso che la soggezione può generare un certo disprezzo, ma che avrebbe voluto consacrarsi allo studio tanto quanto te.» «Molto lusinghiero, veramente. Non ne avevo idea. Mi chiedo se la penserebbe così anche dopo la mia crisi di mezza età. E anche se venisse, che aiuto potrebbe fornirci? Con ogni probabilità, piangere sulla sua spalla mi farebbe stare peggio di quanto non stia adesso.» «In qualità di patologo forense, Jack ha frequentato spesso i tribunali. Viene mandato dappertutto come perito per l'istituto di medicina legale di New York. Mi ha detto che gli piace. Mi ha dato l'impressione di avere grande intuito, anche se qualche volta è un po' sconsiderato nel correre rischi. Abbattuto come sei per come stanno andando le cose, forse la sua estemporanea creatività potrebbe risultare utile.» «Non saprei proprio come, ma è tuo fratello. Lascio a te decidere.» «Ci penserò», concluse. Guardò l'ora. «Non abbiamo più molto tempo. Sei sicuro di non voler mangiare qualcosa?» «A dire il vero, ora che siamo usciti, il mio stomaco ha cominciato a brontolare. Un panino lo mangerei volentieri.» Si alzarono e Craig strinse sua moglie in un lungo abbraccio. Era sinceramente grato del suo appoggio e ciò rendeva ancora più imbarazzante il suo comportamento in passato. Aveva ragione riguardo la sua capacità di dividere tutto in compartimenti stagni. Aveva completamente separato la vita professionale da quella famigliare e dato troppa importanza alla prima. Pregò di avere la possibilità di recuperare. 4 Boston Lunedì, 5 giugno 2006 13.30 «In piedi!» ordinò il messo giudiziario.
Il giudice Marvin Davidson uscì dalla sua camera nell'esatto momento in cui la lancetta dei minuti dell'orologio appeso alla parete superò l'una e mezzo. Il sole si era spostato lungo la sua traiettoria ed erano state sollevate le tapparelle di alcune delle alte finestre che interrompevano il rivestimento in legno di quercia. Si riusciva a vedere una parte della città e anche un pezzetto di cielo azzurro. «Seduti», gridò il cancelliere dopo che il giudice si fu accomodato. «Spero che vi siate tutti rifocillati», esordì il giudice rivolto alla giuria. La maggior parte dei giurati annuì. «E che nessuno abbia parlato ad alcun titolo della causa.» Tutti i giurati annuirono con un cenno della testa. «Bene. Ora siamo pronti per ascoltare l'esposizione di apertura dell'avvocato della difesa, il signor Bingham.» Randolph si alzò, si avvicinò al podio e ordinò i suoi appunti sul leggio con tutta calma. Si sistemò la giacca blu scuro e i polsini della camicia. Diritto come un fuso, si allungò in tutto il suo metro e ottantacinque, mentre le mani dalle dita affusolate stringevano i bordi del leggio. Non aveva un solo capello fuori posto e la capigliatura argentea era stata tagliata con maestria. La cravatta con gli stemmi di Harvard disseminati su un fondo color cremisi era annodata alla perfezione. Era la personificazione dell'eleganza innata e spiccava per raffinatezza nell'aula di tribunale. Craig ne rimase colpito e per un attimo pensò che il contrasto con Tony Fasano avrebbe potuto favorirlo. Randolph era una figura paterna, il presidente, il diplomatico. Chi non avrebbe voluto fidarsi di lui? Ma poi i suoi occhi si spostarono sulla giuria, passando dal pompiere muscoloso all'aiuto idraulico e ai due uomini d'affari infastiditi. Ogni viso rifletteva una noia che era l'esatto contrario di ciò che aveva suscitato Tony Fasano e, ancor prima che Randolph aprisse bocca, il breve lampo di ottimismo di Craig evaporò come una goccia d'acqua in una padella sfrigolante. Eppure questo rapido alternarsi di percezioni non fu del tutto negativo. Convalidava il consiglio di Alexis sull'inclinazione mentale, così che Craig chiuse gli occhi ed evocò l'immagine di Patience Stanhope a letto, quando lui e Leona si erano precipitati nella sua camera. Pensò a quanto era rimasto scioccato dalla cianosi, alla rapidità con cui aveva reagito e a tutto ciò che aveva fatto da quel momento fino a quando si era capito che era impossibile rianimarla. Nel corso degli ultimi otto mesi aveva riesaminato la sequenza numerose volte e, sebbene per alcuni casi precedenti avesse giu-
dicato con il senno di poi le sue azioni e avesse ritenuto che avrebbe potuto agire in modo leggermente diverso, con Patience Stanhope si era comportato con cognizione di causa. Era sicuro che, di fronte alla stessa situazione, ora si sarebbe comportato allo stesso modo. Non c'era stata negligenza. Ne era assolutamente sicuro. «Signore e signori della giuria», esordì Randolph parlando lentamente. «Avete sentito una particolare dichiarazione d'apertura formulata dal mio esimio collega che ammette di non avere alcuna esperienza nelle complesse cause di negligenza medica. Una tirata con subdole dichiarazioni svilenti che vi hanno fatto sorridere. Io non ho sorriso, perché ho riconosciuto lo stratagemma per quello che era. Io non vi prenderò in giro con simili trucchi oratori. Dirò semplicemente la verità che sono certo arriverete a riconoscere quando sentirete le testimonianze presentate dalla difesa. A differenza dell'avvocato di parte civile, ho difeso per più di trent'anni medici e ospedali e in tutti i processi cui ho preso parte non ho mai sentito una dichiarazione d'apertura come quella del mio collega, che per molti versi è stata una sleale campagna diffamatoria nei confronti del mio cliente, il dottor Craig Bowman.» «Obiezione», gridò Tony, balzando in piedi. «Polemica e sediziosa.» «Vostro onore», esclamò Randolph, agitando con fare sprezzante e seccato una mano verso Fasano, come per allontanare dei moscerini. «Posso avvicinarmi?» «Certamente», sibilò Davidson, facendo cenno a entrambi di farsi avanti. Randolph marciò verso di lui con Tony alle calcagna. «Vostro onore, all'avvocato Fasano è stata concessa ampia libertà nella sua esposizione di apertura. Mi aspetto lo stesso trattamento.» «Io ho soltanto descritto cosa intendevo provare con le mie testimonianze, il che è ciò che deve dimostrare una dichiarazione d'apertura. Lei, Bingham, ha fatto obiezione ogni dieci secondi, interrompendo il filo del mio ragionamento.» «Piantiamola», gemette Davidson. «Questo non è un processo per omicidio. Non abbiamo ancora concluso le esposizioni d'apertura e già vi state scannando. Di questo passo, staremo qui per mesi.» Fece una pausa a effetto, poi aggiunse: «È un avvertimento per entrambi. Voglio sbrigare la faccenda. Mi avete sentito? Ognuno di voi ha sufficiente esperienza per sapere cosa è appropriato e cosa l'altro tollererà, perciò, controllatevi e limitatevi ai fatti. «Per quello che riguarda l'obiezione, le regole valgono per entrambi. Lei
ha fatto obiezione allo stile incendiario del suo collega e ora lui ha il diritto di fare altrettanto. Avvocato Fasano, le è stata concessa ampia libertà e che Dio aiuti lei e il suo cliente, se i suoi testi non sosterranno le sue argomentazioni. A lei, Bingham, sarà concessa la stessa libertà. Sono stato chiaro?» Entrambi gli avvocati annuirono. «Bene! Procediamo.» Randolph tornò al podio e Fasano riprese posto al suo tavolo. «Obiezione accolta», concluse il giudice a beneficio dello stenografo. «Continui.» «Signore e signori della giuria», riprese il difensore, «la motivazione normalmente non rientra nell'esame delle procedure per negligenza medica. Ciò di cui si discute è se in quel particolare caso sia stato adottato lo standard di cura che un medico competente avrebbe rispettato nelle medesime circostanze. Avrete notato che nell'esposizione l'avvocato Fasano non ha detto che secondo i suoi esperti il dottor Bowman non avrebbe usato tutta la sua abilità e istruzione in modo adeguato. Ha dovuto invece insinuare il concetto del motivo per rendere sostanziale la sua affermazione di negligenza. E lo ha fatto, perché, come testimonieranno i nostri esperti, il dottor Bowman aveva compreso immediatamente la gravità dello stato di Patience Stanhope, aveva agito in modo tempestivo e competente e aveva fatto tutto il possibile per salvare la vita della sua paziente.» Alexis si accorse che stava annuendo con il capo, mentre ascoltava Randolph. Le sue parole le piacquero e pensò che stava facendo un buon lavoro. Osservò il marito che finalmente era seduto eretto. Avrebbe voluto vederlo in faccia, ma, dalla posizione in cui era, gli era impossibile. Esaminò allora la giuria e il suo giudizio sull'esibizione del patrocinante vacillò. C'era qualcosa di diverso nella postura dei giurati rispetto a quando aveva parlato Fasano. Sembravano troppo rilassati, come se Randolph non riuscisse ad attirare la loro attenzione. Poi, come per confermare i suoi timori, l'aiuto idraulico sbadigliò platealmente e venne imitato da quasi tutti gli altri. «Il peso della prova spetta all'avvocato del ricorrente», continuò Randolph. «È compito della difesa confutare l'allegazione di parte civile e la deposizione dei testimoni dell'accusa. Dal momento che Fasano ha chiarito che la motivazione è la sua linea principale, noi dobbiamo regolarci di conseguenza e confermare con i nostri testi il sacrificio di una vita e l'impegno del dottor Bowman a diventare il miglior medico e a praticare la miglior medicina possibile, a cominciare dal kit per il pronto soccorso ricevuto in
dono all'età di quattro anni.» «Obiezione. L'impegno e il sacrificio del dottor Bowman non hanno alcun rapporto.» «La deposizione dei suoi testimoni collegherà l'impegno e il sacrificio del dottor Bowman a Patience Stanhope?» domandò il giudice a Bingham. «Certamente, vostro onore.» «Obiezione respinta. Proceda.» «Prima di delinearvi come abbiamo intenzione di presentare il nostro caso, vorrei dire due parole sull'esercizio della professione del dottor Bowman. L'avvocato Fasano l'ha descritto come concierge medicine, dando al termine una connotazione peggiorativa.» Alexis riportò lo sguardo sulla giuria. La preoccupava la sintassi di Randolph e si chiese quanti di quei giurati riuscissero a comprendere termini come «connotazione peggiorativa», e, tra quelli che li comprendevano, quanti li avrebbero ritenuti pretenziosi. Ciò che vide non fu molto incoraggiante: i giurati sembravano statue di cera. «Il significato del termine concierge», riprese, sollevando un dito lungo e ben curato, come se stesse rimproverando un gruppo di bambini birichini, «è aiuto o servizio, senza qualsivoglia connotazione negativa. Proprio per questo motivo è stato collegato a quel tipo di pratica della medicina che richiede una piccola quota anticipata. Ascolterete alcuni medici affermare che tale struttura concede al medico di dedicare più tempo al paziente durante le visite, offrendogli quel tipo di assistenza medica che tutti noi profani vorremmo ricevere. Capirete che l'assistenza praticata nella concierge medicine è proprio quella che tutti i medici hanno studiato all'università. Apprenderete anche che è la risposta al problema economico delle strutture ambulatoriali che costringono i medici a stipare sempre più pazienti per non sforare con i costi. Permettetemi di delucidarvi con alcuni esempi.» Fu un riflesso più che un ragionamento consapevole a far balzare in piedi Alexis davanti alla scorreria di Randolph sull'aspetto economico della medicina. Scusandosi, si spostò lateralmente lungo le panche verso il corridoio centrale. Mentre usciva dalla fila, i suoi occhi incrociarono brevemente quelli dell'uomo vestito come Fasano, seduto nella fila corrispondente alla sua dall'altra parte del corridoio. La sua espressione e lo sguardo fisso la innervosirono, ma li dimenticò immediatamente. Aprì la porta dell'aula il più silenziosamente possibile, ma lo scatto che produsse venne sentito da tutti. Mortificata, uscì nell'atrio. Seduta su una panca di pelle,
frugò nella borsa, trovò il cellulare e lo accese. La ricezione era scarsa, così scese al pianterreno e uscì dall'edificio. Dopo la penombra all'interno, la luce del sole le fece socchiudere gli occhi. Per sfuggire alla nebbia del fumo di sigarette dei nicotina-dipendenti sparpagliati attorno all'entrata del tribunale, si allontanò fino a restare sola. Appoggiata a una balaustra con la borsa a tracolla ben stretta sotto il braccio, fece scorrere la rubrica elettronica fin quando trovò i numeri del fratello maggiore. Dato che erano passate le due del pomeriggio, compose quello dell'istituto di medicina legale di New York. Mentre attendeva, cercò di ricordare quando aveva parlato con lui l'ultima volta. Probabilmente erano passati mesi. Un vero peccato, pensò, perché da bambini erano stati molto uniti. La vita non era stata facile per Jack, che quindici anni prima aveva perso la moglie e le due figlie in un incidente aereo. Stavano tornando a casa in Illinois dopo essere andate a trovare Jack a Chicago, dove si stava specializzando in patologia forense. Quando, dieci anni prima, si era trasferito a New York, Alexis aveva sperato di vederlo spesso, ma non era andata così. Jack stava ancora lottando per superare la tragedia, e le nipoti la richiamavano dolorosamente alla memoria. Tracy, la figlia maggiore di Alexis, era nata un mese dopo la tragica perdita di Jack. «Spero solo sia qualcosa di importante, Soldano», rispose Jack, senza nemmeno salutare. «Non riesco a concludere niente.» «Jack, sono Alexis.» «Alexis! Scusami! Credevo fosse il mio amico tenente della Omicidi. Continua a chiamarmi dall'auto di pattuglia, ma cade sempre la linea.» «È una telefonata importante? Vuoi che ti richiami?» «No, no, gli parlerò più tardi. So cosa vuole, ma non sono ancora in grado di accontentarlo. L'abbiamo addestrato bene e ora è innamorato del potere della medicina legale, ma vorrebbe risultati rapidi. Che succede? È bello sentirti anche se non me l'aspettavo, e a quest'ora, poi.» «Mi spiace disturbarti sul lavoro. È un buon momento, o...?» «A dire il vero ho la sala d'attesa piena di pazienti, ma immagino che possano aspettare, visto che sono tutti morti.» Alexis rise alla nuova vena sarcastica del fratello. Un bel cambiamento. Era sempre stato dotato di senso dell'umorismo, ma nel passato era stato più sottile e decisamente pungente. «Tutto bene in quel di Boston? Non è da te chiamarmi durante il giorno. Dove sei, al lavoro in ospedale?»
«In realtà, no. Sai, m'imbarazza dire che non ricordo quando ci siamo parlati l'ultima volta.» «Circa otto mesi fa. Mi avevi chiamato per dirmi che Craig era tornato a casa. Se non ricordo male, non ero stato molto ottimista e te l'avevo detto. Non l'ho mai considerato un tipo casa e famiglia. Ricordo di averti detto che lo ritenevo un ottimo medico ma non un grande padre o marito. Scusami se ho ferito i tuoi sentimenti.» «Il tuo commento mi aveva sorpresa, non ferita.» «Non sentendoti più, ho pensato che fosse così.» Avresti potuto chiamarmi tu, se era questo che temevi, pensò, e invece disse: «A dire la verità, le cose non vanno tanto bene». «Mi dispiace. Spero che la mia profezia non si sia avverata.» «No, Craig è ancora a casa. Ma non credo di averti riferito, l'ultima volta che ci siamo sentiti, che è stato citato in giudizio per imperizia.» «No, ti sei dimenticata di raccontarmi questo piccolo dettaglio. È successo prima o dopo il suo rientro?» «È stato un periodo molto faticoso per tutti noi», continuò, ignorando la domanda. «Immagino. Difficile invece è immaginare che sia stato citato in giudizio per una cosa simile, anche se oggigiorno sono tutti a rischio.» «Il processo è iniziato proprio oggi.» «Allora auguragli buona fortuna. Conoscendo il suo bisogno di essere il numero uno, immagino che l'abbia presa male.» «Altro che prenderla male. Affrontare un'accusa del genere è dura per tutti i medici, ma per Craig lo è ancora di più in termini di autostima. Ha puntato tutto su una sola carta. Gli ultimi otto mesi sono stati un inferno per lui.» «E per te e le bambine?» «Non è stato facile, ma ce la siamo cavata, a parte Tracy. Quindici anni sono di per sé complicati e questo stress non l'ha aiutata. Non riesce a perdonare Craig di averci abbandonate e di avere avuto una storia con una delle sue segretarie. Ha perso ogni fiducia nel padre. Meghan e Christina l'hanno presa meglio. Sai, Craig non ha mai avuto il tempo di interessarsi molto a loro.» «E come va tra voi due? Le cose stanno tornando alla normalità?» «Il nostro rapporto è in una fase d'attesa, lui dorme nella camera degli ospiti fino a quando non si sarà risolto questo pasticcio. Sono sufficientemente realista da sapere che al momento ha troppa carne sul fuoco. Di fat-
to sta bruciando, ed è per questo che ti ho telefonato.» Un attimo di silenzio. Alexis trasse un profondo respiro. «Se hai bisogno di soldi, non ci sono problemi», disse infine Jack. «No, i soldi non sono un problema. Il problema è la possibilità che Craig perda la causa. E con il biasimo pubblico credo che avrà un crollo nervoso. Se dovesse succedere dubito che tra noi ci sarà una riconciliazione. Sarebbe comunque una tragedia per lui, per me e per le bambine.» «Lo ami ancora?» «Domanda difficile. Mettiamola così: lui è il padre delle mie figlie. So che non è stato il miglior padre né il miglior marito che una donna possa desiderare, ma non ci ha mai fatto mancare niente ed è sempre stato molto premuroso. Credo che ci ami a modo suo. La medicina è la sua vera passione. Craig è vittima di un sistema che l'ha spinto a eccellere e a competere dal momento in cui ha deciso di diventare un medico. Ci sono sempre stati un altro esame e un'altra sfida. È insaziabile di approvazione professionale. Il successo nella vita privata non ha per lui la stessa importanza. Sapevo che era così quando l'ho conosciuto e lo sapevo quando l'ho sposato.» «Speravi cambiasse?» «Non proprio. Ammetto che lo ammiravo per la dedizione e il sacrificio ed è ancora così. Forse questo spiega qualcosa di me, ma non c'entra con quello che stiamo passando adesso.» «Temo che i medici siano tutti un po' narcisi e non amino chiedere aiuto, dato che considerano la dipendenza un segno di debolezza», aggiunse il fratello. «Ho percorso questa strada anch'io.» «Be', Craig ne ha ben più di un tocco, ecco perché questo problema lo sta schiacciando.» «Mi spiace per tutti voi, Alexis, ma i miei pazienti stanno cominciando a spazientirsi. Posso richiamarti questa sera?» «Scusa lo sfogo, ma avrei un favore da chiederti. Un favore molto grosso.» «Dimmi.» «Saresti disposto a venire qui e vedere se riesci a darci una mano?» Jack si lasciò sfuggire una risatina. «Aiutarvi? E come?» «Una volta mi hai raccontato che testimoni spesso ai processi. Questa tua esperienza potrebbe esserci d'aiuto. L'avvocato della compagnia assicurativa assegnato alla difesa di Craig è esperto e pare competente, ma non riesce a entrare in contatto con i giurati. Craig e io abbiamo discusso se ri-
chiederne un altro, ma non sappiamo se sia una mossa saggia. Il nocciolo della questione è che siamo disperati e pessimisti.» «La maggioranza delle mie deposizioni sono state per processi penali e non civili.» «Non credo che importi.» «Nell'unico caso di negligenza cui ho partecipato, ero dalla parte del reclamante.» «Non credo importi neppure questo. Tu hai inventiva, Jack. Ragioni con la tua testa. Il mio intuito mi dice che abbiamo bisogno di un miracolo.» «Alexis, non vedo proprio come potrei esservi utile. Non sono un avvocato, e neppure mi piacciono gli avvocati.» «Jack, quando eravamo giovani, tu mi hai sempre aiutata. Sei ancora il mio fratellone. Ho bisogno di te, sono disperata. Anche se alla fine il tuo risultasse più un supporto psicologico che altro, ti sarei per sempre riconoscente. Non ho mai insistito che venissi a trovarci, so che sarebbe stata dura per te vedere le ragazze.» «Era tanto evidente?» «Era l'unica spiegazione. Ti comportavi così anche da bambino, hai sempre preferito evitare una situazione emotiva piuttosto che affrontarla. In ogni caso, ho rispettato i tuoi sentimenti, ma ora ti chiedo di metterli da parte e di venire qui per me, per le mie figlie e per Craig.» «Quanto durerà il processo?» «Almeno fino a buona parte della settimana.» «L'ultima volta che ci siamo sentiti c'era qualcosa di nuovo nella mia vita che non ti ho rivelato. Sto per sposarmi.» «Jack! Che notizia meravigliosa! Perché non me l'hai detto?» «Non mi sembrava il momento giusto visto quello che stava succedendo con tuo marito.» «Non mi sarebbe importato. La conosco?» «L'hai vista l'unica volta che sei venuta a trovarmi qui. Laurie Montgomery. Siamo colleghi, è patologa anche lei.» Alexis sentì un brivido di disgusto correrle giù per la schiena. Non era mai entrata in un obitorio prima di quella visita a Jack. Anche se lui aveva sottolineato che l'edificio era un istituto di medicina legale e che l'obitorio era solo una piccola parte di un complesso più ampio, non aveva trovato convincente la distinzione. Per lei era un luogo di morte, puro e semplice, e l'edificio sembrava e puzzava come un luogo di morte. «Sono felice per te», riuscì a dire mentre si chiedeva di che cosa avrebbero parlato a cola-
zione suo fratello e la futura moglie. «È fantastico, davvero fantastico che tu sia riuscito a elaborare il dolore per la morte di Marilyn e delle bambine e sia passato oltre. Sono contenta.» «Non credo che un dolore simile si possa superare completamente, comunque grazie.» «A quando il matrimonio?» «Questo venerdì pomeriggio.» «Oh, mio Dio! Mi dispiace doverti chiedere un favore simile in un momento tanto critico.» «Non è certo colpa tua, complica le cose, ma non le rende impossibili. Non sono io quello impegnato in tutti i preparativi. A me toccava la luna di miele e quella è sistemata.» «Vuol dire che vieni?» «Se non ti richiamo entro poche ore, ci sarò. Meglio prima che poi, altrimenti Laurie comincerà a pensare che sto cercando di evitare il matrimonio.» «Le spiegherei volentieri la situazione.» «Non occorre. Prenderò l'aereo navetta questo pomeriggio sul tardi o stasera subito dopo il lavoro. Naturalmente dovrò parlare con Laurie e con il vicedirettore e sistemare alcune cose qui in ufficio. Ti chiamerò subito dopo essermi registrato in albergo. Avrò bisogno dell'intero dossier della causa: tutte le deposizioni, la descrizione o la copia di ogni prova e, se puoi, di ogni testimonianza.» «Non andrai a stare in albergo», esclamò Alexis con decisione. «Assolutamente no. Devi stare da noi, abbiamo un sacco di stanze. Ho bisogno di parlare con te di persona e sarebbe meglio anche per le ragazze. Ti prego, Jack.» Seguì un attimo di silenzio. «Sei ancora lì?» «Sì, sono ancora qui.» «Dato che ti prendi il disturbo di venire fin qui, ti voglio a casa mia. Farà bene a tutti e, devo ammetterlo, soprattutto a me.» «D'accordo», accettò con un tocco di riluttanza nella voce. «Per ora non c'è stata alcuna testimonianza. Mentre parliamo, la difesa sta pronunciando la sua dichiarazione d'apertura. Il processo è proprio agli inizi.» «Più materiale puoi farmi avere, più alte sono le probabilità che possa saltar fuori con qualche consiglio.»
«Vedrò cosa posso fare.» «Bene, allora immagino che ci vedremo più tardi.» «Grazie, Jack. Mi sembra di tornare ai vecchi tempi sapendo che stai per arrivare.» Alexis concluse la telefonata e infilò il cellulare nella borsa. Anche se Jack non l'avesse aiutata, era felice che presto l'avrebbe rivisto. Le avrebbe fornito quel genere di appoggio emotivo che può offrire solo un membro della famiglia. Rientrò nell'edificio e salì in ascensore al terzo piano. Mentre entrava nell'aula e lasciava che la porta si chiudesse silenziosamente alle sue spalle, udì Randolph che stava ancora descrivendo l'effetto deleterio che l'attuale economia stava avendo sulla professione medica. Sedutasi il più vicino possibile alla giuria, l'espressione vacua dei loro occhi le fece capire che non erano più interessati di quando se n'era andata. Provò una gioia ancora più grande per l'arrivo del fratello, anche perché così sentiva che stava facendo qualcosa. 5 New York Lunedì, 5 giugno 2006 15.45 Dopo aver concluso la telefonata con la sorella, Jack rimase per alcuni minuti alla scrivania, tamburellando con le dita la superficie metallica. Non era stato del tutto sincero con lei. Benché non l'avesse riconosciuto, la sua valutazione sul perché non fosse mai andato a trovarla era stata corretta. E non aveva mai voluto ammetterlo. Di fatto, adesso le cose potevano essere ancora più difficili, considerato che Meghan e Christina avevano la stessa età delle sue due figlie, Tamara e Lydia, all'epoca dell'incidente. Era comunque intrappolato in un labirinto emotivo, tenuto conto di quanto lui e Alexis fossero stati uniti da piccoli. Aveva cinque anni più di lei e la differenza d'età era stata sufficiente per dargli un ruolo quasi paterno ma allo stesso tempo erano stati tanto uniti da essere veri fratelli. Quello e il senso di colpa per averla evitata per i dieci anni passati a New York gli avevano reso impossibile mostrarsi insensibile alle sue richieste nel momento del bisogno. Ma non sarebbe stato facile. Si alzò e si chiese con chi parlare per primo. Avrebbe voluto correre subito da Laurie, anche se l'idea non lo eccitava, dal momento che i pro-
grammi matrimoniali l'avevano messa in tensione: sua madre la stava facendo impazzire e lei stava facendo impazzire lui. Pensò quindi che era più ragionevole parlarne prima con Calvin Washington, il vicedirettore. Sarebbe stato lui a dargli il permesso di assentarsi. Per un attimo sperò che Calvin glielo negasse, considerato che lui e Laurie sarebbero partiti per una vacanza di due settimane dopo il matrimonio. Un rifiuto da parte del capo avrebbe risolto i suoi sensi di colpa verso Alexis, la sua riluttanza ad affrontare le nipoti e anche il bisogno di sollevare la questione con Laurie. Ma Calvin non gli avrebbe detto di no, nessuna emergenza famigliare era mai stata respinta. Prima ancora di spegnere il computer, prevalse la razionalità. Sapeva che avrebbe dovuto almeno tentare di parlare prima con Laurie, perché altrimenti, se fosse sparito nel nulla a così pochi giorni dal matrimonio, l'avrebbe pagata cara. S'incamminò verso il suo ufficio. C'era un altro motivo per cui il viaggio a Boston non l'attirava: non poteva dire di gradire Craig. L'aveva sopportato per amore della sorella, ma a fatica. Aveva capito che tipo fosse appena l'aveva conosciuto. Alla facoltà di medicina ce n'erano parecchi come lui, e tutti primi della classe, che ritenevano doveroso soffocare gli altri con una valanga di citazioni da articoli che confermavano i loro punti di vista ogni qualvolta finivano in una discussione medica. Fosse stato quello il solo problema, Jack ci sarebbe passato sopra, ma sfortunatamente i modi supponenti del cognato erano resi ancora più insopportabili da un grado irritante di arroganza, grandiosità e presunzione. Avrebbe tollerato anche questo, se solo fosse riuscito a sviare di tanto in tanto le conversazioni con lui dalla professione. Non c'era mai riuscito. A Craig interessavano solo la medicina, la scienza e i suoi pazienti. Non era interessato né alla politica né alla cultura e nemmeno allo sport. Non ne aveva il tempo. Avvicinandosi alla porta di Laurie gli tornò in mente ciò che Alexis aveva detto sulla sua tendenza a sottrarsi. Che coraggio! Rifletté un attimo e poi sorrise alla sua reazione. Sapeva che la sorella aveva ragione e che Laurie avrebbe concordato di tutto cuore. In molti sensi, questa sua reazione era prova del suo stesso narcisismo. Infilò la testa nell'ufficio di Laurie, ma la sua sedia era vuota. Riva Metha, la sua collega, stava parlando al telefono. Alzò gli occhi color onice su di lui. Jack indicò la sedia di Laurie, sollevando un sopracciglio con fare interrogativo. Riva rispose indicando verso il basso e dicendogli sottovoce,
«nella fossa», senza spostare il ricevitore dall'orecchio. Facendole cenno di avere capito che Laurie era nella sala autopsie, cambiò direzione e si diresse agli ascensori. Se Laurie avesse scoperto che si era recato prima da Calvin, ora avrebbe avuto una buona scusa. Come sempre, trovò il vicedirettore nel suo ufficio. A differenza di quello del direttore, il suo era minuscolo e stipato di schedari metallici, una scrivania e un paio di sedie dallo schienale rigido. I centoventicinque chili di Washington riuscivano a stento a passare dietro la scrivania e a calarsi nella sedia. Il suo compito era dirigere l'istituto di medicina legale su base giornaliera, un lavoro tutt'altro che facile, con più di dodici patologi e oltre ventimila casi all'anno che portavano a quasi diecimila autopsie. Ogni giorno c'erano in media due omicidi e due casi di overdose di droga. L'istituto di medicina legale era un luogo molto attivo e Calvin sovrintendeva tutti gli sgradevoli dettagli. «Che problema c'è?» chiese Calvin nella sua voce baritonale. All'inizio era rimasto relativamente intimidito dalla stazza e dal temperamento tempestoso dell'uomo. Con il passare degli anni, tra i due si era sviluppato un cauto rispetto reciproco. Sapeva che Calvin era il tipico cane che abbaia ma non morde. Jack non entrò nei particolari, ma gli riferì soltanto che un'emergenza famigliare a Boston richiedeva la sua presenza. Calvin lo fissò attraverso occhiali dalla montatura metallica e lenti progressive: «Non sapevo che avessi parenti a Boston. Pensavo che venissi da qualche parte del Midwest». «Mia sorella», rispose semplicemente Jack. «Tornerai in tempo per la vacanza?» Jack sorrise. Conosceva abbastanza bene Calvin da capire che il suo era stato un tentativo di umorismo. «Ci proverò.» «Quanti giorni prevedi saranno?» «Non lo so, spero uno solo.» «Tienimi informato. Laurie sa di questo improvviso sviluppo?» Nel corso degli anni si era reso conto che Calvin provava un affetto quasi paterno per lei. «Non ancora, ma è in cima alla mia lista. In realtà, è l'unica sulla lista.» «D'accordo! Vai ora. Ho del lavoro che m'aspetta.» Dopo averlo ringraziato, Jack uscì dall'area amministrativa e scese le scale che portavano al piano delle autopsie. Salutò con un gesto della mano il tecnico mortuario e il capo della sicurezza. Un soffio di quella che i
newyorchesi chiamavano aria fresca arrivò dalla rampa che portava alla Trentesima Strada. Percorse il corridoio in cemento macchiato e spoglio e superò la grossa cella frigorifera e gli scomparti individuali. Raggiunta la sala, guardò dentro attraverso la finestra protetta da rete metallica. All'interno notò due sagome nelle tute protettive intente a ripulire. Sul tavolo più vicino c'era un corpo con un'incisione suturata. L'autopsia era chiaramente conclusa. Aprì la porta e chiese a gran voce se qualcuno sapeva dove fosse la dottoressa Montgomery. Una delle due figure rispose che se ne era andata da cinque minuti. Imprecando sottovoce, riprese l'ascensore fino al quinto piano. Mentre saliva si chiese come dare la notizia a Laurie senza farla star male. Il suo intuito gli disse che non sarebbe stata contenta di questa novità, con tutta la pressione che sua madre le stava mettendo. La trovò nel suo ufficio intenta a sistemare la scrivania. Era appena arrivata. Riva era ancora al telefono e li ignorò entrambi. «Che bella sorpresa», lo salutò Laurie allegramente. «Spero che lo sia», ribatté Jack. Appoggiò il sedere sul bordo della scrivania e la fissò. Non c'erano altre sedie. Non solo i patologi legali dovevano condividere gli uffici nell'antiquato istituto di medicina legale, ma gli uffici erano già di per sé piccoli. Due tavoli e due schedari riempivano la stanza. Gli occhi azzurro-verdi di Laurie lo fissarono senza batter ciglio. Aveva raccolto i capelli sulla nuca e li teneva a posto con una molletta in finta tartaruga. Alcune ciocche le scendevano a boccoli sulla fronte. «Che intendi dire con spero che lo sia? Che diavolo stai per dirmi?» «Ho appena ricevuto una telefonata da mia sorella.» «Che bello! Come sta? Mi sono chiesta come mai non vi siate più sentiti, soprattutto da quando tra lei e suo marito le cose non vanno tanto bene. Sono ancora insieme?» «Alexis sta bene e sì, sono ancora insieme. La telefonata riguardava lui. Sta attraversando un momento difficile. È sotto processo per negligenza.» «Ma è terribile! Un ottimo medico come lui... Odio sentire storie simili con ciò che sappiamo noialtri sui medici che dovrebbero essere citati in giudizio.» «I cattivi medici stanno molto più attenti ai rischi per compensare le carenze di abilità e cognizioni tecniche.» «Che succede, Jack? Non sei venuto qui per discutere di problemi di negligenza.»
«A quanto pare, la causa di mio cognato non sta andando molto bene, e mia sorella teme che una sconfitta possa turbare il suo equilibrio. Pensa che, se succedesse il peggio, andranno a pezzi il matrimonio e la famiglia. Se Alexis non avesse un dottorato in psicologia, non le darei molto credito, ma devo presumere che abbia ragione.» Laurie piegò la testa di lato per vederlo da un'altra angolatura. «Ho come l'impressione che tu stia per darmi una notizia che non troverò tanto piacevole.» «Alexis mi ha chiesto di correre a Boston per cercare di aiutarli.» «Che diavolo potresti fare?» «Probabilmente solo tenerle la mano. Sono scettico come te e gliel'ho anche detto, ma mi ha praticamente implorato. Ha fatto ricorso al ricatto del senso di colpa.» «Oh, Jack», mormorò lei, mesta. Inspirò ed esalò rumorosamente. «Quanto starai via?» «Spero solo un giorno. È quello che ho detto a Calvin.» Poi si affrettò ad aggiungere: «Ero venuto prima da te, poi mi sono fermato da lui, mentre scendevo nella fossa a cercarti». Lei annuì. Fissò il piano della scrivania e giocherellò con una graffetta. Era combattuta tra le esigenze della sorella di Jack e le sue. «Non penso di doverti ricordare che è lunedì pomeriggio e che il nostro matrimonio è fissato per l'una e trenta di venerdì.» «Lo so, ma state facendo tutto tu e tua madre. Io dovevo pensare alla luna di miele e quella è sistemata.» «Che mi dici di Warren?» «Per quanto ne so, è tutto a posto, ma controllo.» Indeciso sulla scelta del testimone tra Warren e Lou, aveva tirato a sorte e aveva vinto il primo. Oltre a loro due aveva invitato solo il suo collega, il dottor Chet McGovern, e alcuni compagni di pallacanestro. Aveva evitato di invitare famigliari per un sacco di motivi. «E tu?» «Io sono pronto.» «Devo preoccuparmi che a Boston vedrai le figlie di tua sorella? Mi avevi detto che per te sarebbe stata una sofferenza. Quanti anni hanno adesso?» «Quindici, undici e dieci.» «Come le tue figlie, vero?» «Sì.»
«Sono preoccupata, temo che rivederle ti procurerà una ricaduta... Dove dormirai?» «A casa loro. Alexis non ha voluto sentir ragione.» «Se alla fine non te la senti, ascolta te stesso e vai in albergo. Non voglio che questa faccenda ti costi troppo e ti spinga a decidere di non volerti più sposare. Andare a Boston potrebbe riaprire vecchie ferite?» «Mi conosci troppo bene. Ho già riflettuto su tutto quello che hai detto e valutare seriamente il rischio invece di ignorarlo è già un buon segno. Alexis mi ha accusato di fuggire davanti ai problemi.» «Come se non ne fossi consapevole, tenuto conto di quanto ci hai messo ad accettare l'idea di sposarmi!» «Non litighiamo», la pregò Jack con un sorriso. Attese di essere sicuro che avesse capito che stava scherzando, perché quello che aveva detto era vero. Per alcuni anni, il senso di colpa e il dolore l'avevano spinto a ritenere che non fosse giusto che si sentisse felice. Aveva addirittura pensato che sarebbe dovuto morire lui e non Marilyn e le bambine. «Sarebbe meschino da parte mia chiederti di non andare», continuò in tono grave Laurie. «Ma non sarei sincera se non ripetessi che la cosa non mi rende felice, sia da un punto di vista egoistico sia per le conseguenze che potrebbe avere sul tuo benessere mentale. Ci sposiamo venerdì. Non chiamarmi da Boston per dirmi di rimandare la cerimonia. Se lo facessi, ci sarebbe un annullamento e non un rinvio. Spero che tu non prenda le mie parole come una minaccia insensata. Dopo tutto questo tempo, questo è quanto. Detto ciò, fai quello che devi fare.» «Grazie. Capisco come ti senti e credo sia per ottime ragioni. Sotto molti aspetti, il mio cammino verso la normalità è stato molto lento.» «Quando partirai?» Controllò l'ora. Mancava poco alle sedici. «Adesso, penso. Torno a casa in bici, prendo alcune cose e corro all'aeroporto.» Al momento abitavano al primo piano di un vecchio edificio nella Centoseiesima Strada. Si erano trasferiti dal quarto piano, perché tutta la casa era in ristrutturazione. L'avevano acquistata sette mesi prima e avevano commesso l'errore di tentare di viverci durante i lavori. «Mi chiamerai stasera dopo esserti sistemato?» «Certo.» Laurie si alzò e lo abbracciò. Jack non perse tempo. Dopo avere riordinato la scrivania, scese nel sotterraneo e recuperò la mountain bike. Inforcò la bicicletta e si diresse verso
casa. Come al solito, appena montato in sella, i problemi svanirono. L'esercizio e l'euforia lo portavano in un altro mondo, in particolare quando attraversava Central Park. Come un gioiello lussureggiante al centro della città in cemento, il parco offriva un'esperienza straordinaria. Quando sbucò all'altezza della Centoseiesima Strada, la tensione causata dalla conversazione con Laurie era scomparsa, eliminata dalla spiritualità del parco fiorito. Si fermò di fronte al suo edificio, al bordo del campo da gioco del quartiere. Warren e Flash si stavano allenando sotto canestro in vista delle partite serali sempre veloci, sfrenate e altamente competitive. Jack aprì il cancello dell'alto recinto a rete metallica e spinse la bici nel campo. «Ehi, amico», lo salutò Warren. «Sei arrivato presto. Hai intenzione di giocare o cosa? Se sì, porta qui il tuo culo, stasera sarà una grande partita.» Il corpo giovane e muscoloso di Warren era completamente nascosto sotto una tenuta hip hop fuori misura. Flash era più vecchio, con un barbone che cominciava a ingrigirsi prematuramente. La sua principale dote, oltre al tiro, era la parlantina. Poteva discutere di qualsiasi argomento e indurre praticamente tutti a concordare con la sua tesi. Insieme formavano una squadra quasi imbattibile. Dopo un breve abbraccio e le loro tipiche strette di mano, Jack riferì a Warren che quella sera non avrebbe potuto giocare, dovendo andare a Boston per un paio di giorni. «C'è un fratello lassù che è in gamba e gioca a pallacanestro. Potrei chiamarlo e fargli sapere che sei da quelle parti», propose Warren. «Sarebbe fantastico», ammise Jack. Non aveva pensato di portare con sé tuta e scarpette, ma un po' di moto poteva essere proprio ciò che il dottore avrebbe ordinato, se le cose fossero diventate emotivamente rischiose. «Gli do il tuo numero di cellulare e ti lascio il suo sulla segreteria telefonica.» «Ottimo, ma dimmi, tutto a posto con lo smoking per venerdì?» «Nessun problema. Andiamo a ritirarlo giovedì.» «Fantastico», approvò Jack. «Forse ci vedremo già mercoledì sera. Una partita mi farebbe bene in vista del gran giorno.» «Saremo qui, dottore», si accomiatò Warren, rubando palla a un Flash imbambolato e andando a segno con un tiro lungo da tre punti. 6
Boston Lunedì, 5 giugno 2006 19.35 Jack scese dall'aereo navetta delle diciotto e trenta e si lasciò trascinare dalla gente. Si ritrovò sul marciapiede del terminal e nel giro di cinque minuti il bus della Hertz accostò al cordolo. Jack salì a bordo. Era da un po' che mancava da Boston e, grazie all'interminabile ampliamento dell'aeroporto, non riconobbe niente. Mentre il pulmino si faceva strada lungo i terminal, si chiese che accoglienza avrebbe ricevuto. Poteva contare su Alexis che gli avrebbe riservato un caloroso benvenuto, ma non aveva idea di cosa aspettarsi dal resto della famiglia, in particolare da Craig. Non vedeva la sorella da un anno. L'ultima volta era stato a New York, quando era venuta da sola per assistere a un convegno di psicologia. Sospirò. Non era contento di essere a Boston, soprattutto perché a parte dare qualche pacca sulla schiena della sorella, era convinto che non sarebbe riuscito a fare altro, e la sua partenza aveva sconvolto Laurie, che doveva già sopportare le interferenze della madre nei preparativi. Jack aveva dovuto mordersi la lingua più volte per evitare di dirle che avrebbe dovuto aspettarselo. Fosse dipeso da lui, avrebbero organizzato una piccola cerimonia con pochi amici. Dal suo cinico punto di vista, la realtà dei principali eventi mondani non era mai all'altezza delle aspettative romantiche. Jack e i suoi compagni di viaggio furono fatti scendere davanti all'agenzia di autonoleggio e in breve il dottore si ritrovò al volante di una Hyundai Accent color crema che gli ricordò una lattina di succo di frutta. Dotato di una misera cartina stradale e di alcune frettolose indicazioni, si avventurò coraggiosamente fuori dall'aeroporto e si perse subito. Boston non era una città amichevole con i turisti alla guida, e tantomeno lo erano i bostoniani, e trovare il sobborgo dove viveva Alexis fu un'impresa. Nelle sue precedenti e rare visite si erano sempre incontrati in città. Un po' scosso, imboccò il vialetto d'accesso dei Bowman alle venti e quarantacinque. Le giornate si erano allungate e non era ancora completamente buio, ma le luci accese all'interno dell'edificio davano un aspetto falsamente intimo di famiglia felice. La casa era imponente, come altre nel sobborgo di Newton: una struttura a due piani e mezzo in mattoni, dipinta di bianco con una serie di abbaini che spuntavano dal tetto. Come davanti alle altre, c'era un prato vasto e curato, cespugli, alberi secolari e ampie
aiuole; sotto ogni finestra a pianterreno, una cassetta di fiori. Jack posteggiò la Hyundai accanto a una Lexus, mentre nel garage c'era la station wagon di rigore. Nessuno si precipitò fuori sventolando uno striscione di benvenuto. Spense il motore e per un attimo covò l'idea di girarsi e andarsene. Ma non poteva, così prese dal sedile posteriore la sua sacca e smontò. All'esterno venne accolto dal familiare rumore dei grilli. A parte quei suoni, il quartiere pareva privo di vita. Davanti all'ingresso spiò attraverso i vetri dei pannelli laterali. Vide un piccolo atrio che dava su un corridoio e un portaombrelli. Notò anche una rampa di scale che portava al primo piano, ma continuò a non sentire rumori e a non vedere nessuno. Suonò il campanello, un tintinnio di campane che sentì distintamente al di là della porta. Quasi immediatamente apparve una figura piccola e androgina che saltellò giù per le scale. Indossava una semplice T-shirt e calzoncini ed era a piedi scalzi. Aveva capelli color del grano, una pelle bianco-latte perfetta e braccia e gambe sottili. Spalancò la porta e Jack comprese che era un tipetto risoluto. «Tu devi essere zio Jack.» «Sì, e tu?» Sentì il cuore accelerare. Già vedeva in lei la figlia Tamara. «Christina», canticchiò, poi senza staccargli gli occhi verdi da dosso, gridò da sopra la spalla: «Mamma! Zio Jack è arrivato!» Alexis sbucò in fondo al corridoio, trasudante domesticità. Indossava un grembiule e si stava asciugando le mani in uno strofinaccio a quadri. «Allora invitalo a entrare, Christina.» Sebbene invecchiata, Alexis gli parve uguale a come la ricordava nella loro casa d'infanzia nell'Indiana. Non c'era dubbio che fossero fratelli: avevano lo stesso colore di capelli, gli stessi occhi color sciroppo d'acero, gli stessi lineamenti marcati e la stessa carnagione che faceva pensare che fossero stati al sole anche quando non era vero. Non erano mai pallidi, neppure in pieno inverno. Con un sorriso affettuoso, gli si avvicinò e lo strinse in un lungo abbraccio. «Grazie per essere venuto», gli mormorò nell'orecchio. Sempre abbracciato alla sorella, Jack vide arrivare in cima alle scale le altre due figlie. Era facile distinguerle: la quindicenne Tracy era di una trentina di centimetri più alta dell'undicenne Meghan. Incerte sul da farsi, scesero le scale lentamente, esitando a ogni passo. Jack notò che le loro personalità differivano quanto le loro altezze. Gli occhi celesti di Tracy ardevano di un'impudente intensità, mentre quelli nocciola di Meghan saettavano evi-
tando di stabilire un contatto con quelli dello zio. Deglutì. Il movimento degli occhi di Meghan gli ricordò la timidezza della sua Lydia. «Venite qui e salutate vostro zio», le invitò Alexis. Quando raggiunsero l'atrio, Jack rimase sorpreso dalla statura della maggiore che lo guardava dritto negli occhi. Notò che aveva due piercing: quello nella narice con un brillantino e l'altro, un anellino d'oro, nell'ombelico. Indossava un top senza maniche che si tendeva su seni precocemente sviluppati e larghi pantaloni a vita bassa. L'abbigliamento e gli accessori le davano una sensualità sfacciata come il suo sguardo. «Ragazze, vi presento vostro zio.» «Come mai non sei mai venuto a trovarci?» chiese Tracy, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni in atteggiamento provocatorio. «Le tue figlie sono veramente morte in un incidente aereo?» proruppe quasi simultaneamente Christina. «Ragazze!» le ammonì Alexis, allungando la parola come se fosse di sei o sette sillabe. Poi si scusò con il fratello: «Mi dispiace. Conosci i bambini, non si sa mai cosa diranno». «Non fa niente. Purtroppo hanno fatto entrambe domande ragionevoli.» Quindi, fissando Tracy negli occhi, riprese: «Forse domani o dopo potremo parlare e cercherò di spiegarti perché non mi conosci». Poi fissò Christina e aggiunse: «Per rispondere alla tua domanda, sì, ho veramente perso le mie due adorate figlie in una tragedia aerea». «Su, Christina», s'intromise la madre, «dal momento che sei l'unica ad avere finito i compiti, perché non accompagni zio Jack nella camera degli ospiti nel seminterrato? Tracy e Meghan, voi due tornate di sopra a finire i vostri. Jack, immagino tu non abbia ancora cenato.» Annuì. Aveva divorato un panino prima del decollo, ma era ormai un lontano ricordo. «Che ne dici di un piatto di pasta? Ho tenuto in caldo il sugo alla marinara e posso fare un'insalata.» «Ottimo.» La camera nel seminterrato era come ce la si poteva aspettare. Nonostante le due alte finestre, l'aria era umida e fredda come quella di una cantina. Era tutta sui toni del verde con un letto a una piazza e mezzo, una scrivania, una comoda poltrona con un abat-jour e un televisore a schermo piatto. Il bagno era di fianco. Mentre toglieva i vestiti dalla sacca e li appendeva nell'armadio, Christina si gettò nella poltrona. Con le braccia sui braccioli e i piedi allungati in
aria, lo esaminò con occhio critico. «Sei più magro di mio padre.» «È un bene o un male?» domandò. Appoggiò le scarpe da pallacanestro sul fondo dell'armadio e portò il necessario per la barba in bagno. Notò con piacere la grande doccia. «Che età avevano le tue figlie quando sono precipitate?» Sebbene avesse dovuto prevedere che Christina sarebbe tornata sull'argomento, una domanda tanto diretta e personale lo riportò alla sconvolgente sequenza di saluti all'aeroporto di Chicago. Erano passati quasi quindici anni dal giorno in cui aveva accompagnato sua moglie e le due figlie a prendere il volo che le avrebbe riportate a casa, mentre una serie di temporali e tornado si stava avvicinando dalle vaste pianure del Midwest. A Chicago si stava specializzando in patologia forense dopo che un gigante della sanità aveva ingurgitato il suo studio di oftalmologia. Jack aveva cercato di convincere Marilyn a trasferirsi a Chicago, ma lei si era rifiutata per il bene delle figlie. Gli anni non avevano intorpidito il ricordo di Jack di quell'ultimo arrivederci. Come se fosse ieri riusciva a vedere, nell'occhio della mente, Marilyn, Tamara e Lydia scendere la rampa oltre il gate della partenza. Raggiunta la pancia del jet, solo la moglie si era voltata per salutarlo. Tamara e Lydia, nel loro entusiasmo giovanile, erano semplicemente scomparse. Come avrebbe appreso più tardi quella notte, solo quindici o venti minuti dopo il decollo il piccolo velivolo con motore a elica era piombato ad alta velocità sulla fertile terra nera della pianura. Era stato colpito da un fulmine e catturato in un forte vento di gradiente. Erano deceduti tutti in un batter d'occhio. «Stai bene, zio?» chiese Christina. Per alcuni secondi Jack era rimasto immobile, come catturato in un fermo immagine. «Tutto bene», rispose, con palpabile sollievo. Aveva appena rivissuto il momento della sua vita cui aveva strenuamente cercato di non pensare, ma questa volta si era concluso senza i soliti postumi fisici. Non gli si capovolse lo stomaco, il cuore non perse un solo battito né provò la sensazione di venire ricoperto da una pesante e soffocante coperta. Era una triste storia, ma la sentì sufficientemente distante, come se coinvolgesse qualcun altro. Forse Alexis aveva ragione. Come aveva detto al telefono, forse aveva finalmente elaborato il dolore ed era passato oltre. «Quanti anni avevano?» «I tuoi e quelli di Meghan.» «È terribile.»
«Lo è stato», concordò. La sorella lo fece accomodare in cucina mentre finiva di cuocere la pasta. Le bambine si erano ritirate al piano superiore per prepararsi per la notte. Il giorno seguente dovevano andare a scuola. Gli occhi di Jack vagarono per la stanza. Era un soggiorno con cucina a vista, costoso, ma intimo che si adattava all'esterno della casa. Le pareti erano dipinte di un giallo luminoso e carico. In soggiorno, un profondo divano dall'aspetto comodo, rivestito di un tessuto verde a fiori e coperto di cuscini, era sistemato di fronte a un caminetto sormontato dal più grande televisore a schermo piatto che avesse mai visto. Le tende, dello stesso motivo del divano, incorniciavano un bovindo che dava su una terrazza. Oltre la terrazza, una piscina e un prato con una struttura che al buio assomigliava a un gazebo. «È una casa bellissima», si complimentò Jack che in verità la trovava più che bellissima. Rispetto a come aveva vissuto lui negli ultimi dieci anni, era la quintessenza del lusso. «Craig non ci ha fatto mancare nulla», disse, scolando la pasta. «Dov'è?» chiese senza pronunciare il suo nome. Pensò che fosse fuori, forse per una visita medica d'emergenza o a consultarsi con il suo avvocato. «Sta dormendo nella camera degli ospiti al piano di sopra. Ti ho detto che non dormiamo nella stessa stanza e non l'abbiamo più fatto da quando è andato a vivere in città.» «Pensavo fosse uscito per una visita.» «No, ha assunto un sostituto per coprire la sua clientela durante il processo. Gliel'ha consigliato l'avvocato e credo sia un bene. Per quanto sia un ottimo dottore, questa settimana non vorrei averlo come medico. È troppo teso.» «Mi colpisce che riesca a dormire. Al posto suo non farei che aggirarmi per casa.» «Si è servito di un piccolo aiuto», ammise. Portò la pasta e l'insalata sul tavolo. «È stata una giornata dura con l'apertura del processo ed è comprensibilmente depresso. Temo che si sia autoprescritto pillole per combattere l'insonnia. E ha bevuto dello scotch, ma non tanto da doverci preoccupare, non ancora almeno.» Jack annuì, ma non disse nulla. «Cosa vuoi bere? Io prenderò un bicchiere di vino.» «Il vino andrà bene.» Conosceva la depressione più di quanto gli sarebbe piaciuto. Dopo l'incidente, l'aveva combattuta per anni.
Alexis portò una bottiglia di vino bianco e due bicchieri. «Craig sapeva che sarei venuto?» Era una domanda che avrebbe dovuto fare prima di andare. «Naturalmente», rispose versando il vino. «In verità, ne avevamo parlato insieme prima di telefonarti.» «Ed era d'accordo?» «Aveva messo in dubbio l'utilità, ma ha lasciato a me la decisione, anche se non era entusiasta e mi detto qualcosa che mi ha sorpreso. Pensava di non piacerti. Non hai mai detto nulla di simile, vero?» «Assolutamente no.» Mentre cominciava a mangiare, si chiese fino a che punto continuare quella conversazione. Quando Craig e Alexis si erano fidanzati, aveva pensato che lui non era adatto alla sorella, ma si era ben guardato dal dire qualcosa, soprattutto perché riteneva, senza sapere esattamente perché, che i medici non erano da vita di coppia. Solo di recente il proprio tortuoso cammino verso la ripresa gli aveva spiegato quella reazione viscerale, e cioè che il lungo processo per diventare medici o selezionava persone narcisistiche o le rendeva tali. E secondo lui Craig era un perfetto esponente della sua teoria. La sua dedizione assoluta alla medicina aveva fatto sì che i suoi rapporti personali fossero del tutto superficiali. «L'ho rassicurato che non era vero, e che anzi lo ammiravi, come mi avevi detto una volta. Giusto?» «Ti avevo detto che lo ammiravo come medico», rispose, consapevole di essere evasivo. «Che invidiavi i suoi risultati... avevi detto qualcosa di simile, o sbaglio?» «Vero. La sua capacità di fare della seria ricerca scientifica mentre portava avanti e con successo un grande studio medico mi ha sempre messo in soggezione. È l'obiettivo romantico di molti medici che però neppure vi si avvicinano. Ci ho provato anch'io quando ero oftalmologo, ma, a pensarci ora, la mia presunta ricerca era una barzelletta.» «Ne dubito, conoscendoti bene.» «Tornando a noi, che cosa pensa Craig della mia presenza? Non me l'hai ancora detto.» Alexis bevve un sorso di vino. Era chiaro che stava soppesando la risposta e più a lungo rimaneva in silenzio, più a disagio si sentiva Jack. Dopotutto era ospite nella casa di quell'uomo. «Immagino di non averti risposto volutamente», confessò. «Chiedere aiuto lo imbarazza. Senza alcun dubbio considera la dipendenza una debo-
lezza e questa faccenda l'ha fatto sentire vulnerabile.» «Ho l'impressione che non sia stato lui a chiedere aiuto», osservò Jack. Finita la pasta, si era buttato sull'insalata. Alexis appoggiò il bicchiere di vino. «Hai ragione», ammise con riluttanza. «Sono io che chiedo aiuto a nome suo. Non è entusiasta della tua presenza. Io invece ne sono felicissima.» Allungò il braccio e gli strinse la mano con forza. «Grazie per il tuo affetto, Jack. Mi sei mancato. So che non è il momento migliore per te per allontanarti da New York e ciò rende la tua venuta ancora più speciale. Grazie, grazie, grazie.» Arrossì per l'improvvisa ondata di emozioni e, sviando la commozione, sfilò la mano da sotto quella della sorella, bevve un sorso di vino, poi cambiò argomento. «Allora, parlami della prima giornata del processo.» Un sorriso vacuo arricciò le labbra di Alexis. «Sei scaltro proprio come ai vecchi tempi. La tua è stata una rapidissima inversione di marcia per non affrontare questioni emotive. Pensavi che non me ne sarei accorta?» «Continuo a dimenticare che sei una psicologa. È stata una reazione istintiva di autodifesa.» «Almeno riconosci il tuo lato emozionale. In ogni caso, per quello che riguarda il processo, finora ci sono state solo le esposizioni d'apertura dei due avvocati e la deposizione del primo testimone.» «Chi era?» chiese Jack finendo l'insalata e prendendo il bicchiere di vino. «Il commercialista di Craig. Bingham ci ha spiegato che ha incluso il commercialista solo per stabilire che Craig aveva il dovere di visitare la defunta, dato che la donna aveva pagato una quota anticipata e lui la visitava con regolarità.» «Che intendi con quota anticipata?» «Da due anni Craig è passato dall'avere una clientela classica alla concierge practice, uno studio medico su abbonamento con alte quote annuali.» «Davvero?» Non l'aveva saputo. «Come mai? Credevo che il suo studio andasse bene e che gli piacesse così.» «Ti spiego, perché lui non lo farà», disse avvicinandosi al tavolo come se stesse per rivelare un segreto. «Nel corso degli ultimi anni, Craig aveva l'impressione di perdere progressivamente il controllo delle decisioni da prendere con i pazienti. Sono sicura che capisci cosa intendo. Il coinvolgimento delle compagnie assicurative è diventato sempre più pressante e i piani sanitari sempre più orientati a contenere i costi, e questo ha fatto sì
che s'intromettessero sempre di più nel rapporto tra medico e paziente, sentendosi in diritto di dire ai medici cosa fare e cosa non fare. Per uno come Craig, è stato un incubo continuo e sempre peggiore.» «Se chiedessi a lui il motivo del cambiamento, cosa mi risponderebbe?» domandò Jack. Era affascinato. Aveva sentito parlare della concierge medicine, ma aveva pensato si trattasse di un piccolo e marginale gruppo o semplicemente di una moda. Non aveva mai parlato con un medico o con uno studio organizzato in quel modo. «Non ammetterebbe di avere compromesso una decisione su un paziente a causa di influenze esterne, ma prenderebbe in giro se stesso. Solo per mantenere lo studio medico solvente, ogni giorno ha dovuto visitare sempre più pazienti. Sostiene di essere passato alla concierge practice perché questo sistema gli offre l'opportunità di praticare la medicina come aveva imparato all'università, dove poteva visitare un paziente per il tempo necessario.» «Be', è la stessa cosa.» «No, c'è una sottile differenza, anche se da parte sua c'è una spiegazione razionale. La differenza sta tra una spinta negativa e un'attrattiva positiva. La sua spiegazione mette l'accento sul paziente.» «Nella causa c'entra il modo di operare del suo studio?» «Sì, almeno secondo l'avvocato del querelante che, ammetto, si sta comportando meglio di quanto previsto.» «In che senso?» «Guardandolo, e lo vedrai se verrai in tribunale, non penseresti mai che sia in gamba. È lo stereotipo dell'avvocatucolo da due soldi che fa di tutto per procurarsi una causa e del tipico difensore di mafiosi, e avrà la metà degli anni dell'avvocato di Craig. Però sta conquistando la giuria in un modo sorprendente.» «E in che modo il tipo di studio medico di Craig entra nella causa? L'ha tirato in ballo l'avvocato dell'accusa?» «Sì, e in modo molto efficace. Il concetto di concierge practice si basa proprio sulla capacità di soddisfare i bisogni dei pazienti, proprio come un concierge.» «Ho afferrato il senso.» «Per questo ciascun paziente può contattare il suo medico curante sul cellulare o via posta elettronica, il che vuole dire che può chiamarlo e, se necessario, farsi visitare a tutte le ore.» «Mi pare un invito alla prevaricazione da parte del paziente.»
«Immagino possa succedere con alcuni, ma a Craig non dava fastidio. Sembrava gli piacesse, perché aveva cominciato a fare visite a domicilio e fuori orario. Immagino vi trovasse qualcosa di nostalgico e retrò.» «Visite a domicilio? In certi casi sono solo una perdita di tempo. Si può fare ben poco.» «Ciononostante, alcuni amano le visite a domicilio, inclusa la defunta. Craig l'aveva visitata spesso fuori orario. In verità, era andato a casa sua proprio la mattina del giorno in cui si suppone ci sia stata negligenza e imperizia. Quella sera era peggiorata e Craig è tornato da lei.» «Sarà difficile trovare da ridire su questo.» «Già, ma secondo l'avvocato del querelante, Craig ha fatto quella visita a domicilio invece di far ricoverare d'urgenza la paziente in ospedale, ritardando così la diagnosi e le cure per un attacco cardiaco.» «È assurdo», borbottò indignato Jack. «Non quando lo senti dire dall'avvocato del querelante nella sua esposizione d'apertura. Ci sono altre circostanze importanti relative a quell'episodio. Craig e io eravamo ufficialmente separati e lui viveva in un appartamento a Boston con una delle sue segretarie, Leona.» «Ma no!» esclamò Jack. «Non so quante storie ho sentito su medici sposati che hanno tresche con le loro assistenti. Non so cosa gli ha preso ai dottori. La maggior parte degli uomini sa che è meglio non uscire con le dipendenti. Sarebbe come andare in cerca di guai legali.» «Sei troppo generoso con i maschi di mezza età sposati che si ritrovano rinchiusi in una realtà che non ha corrisposto alle loro aspettative romantiche. Credo che Craig sia un ottimo esempio, ma il richiamo iniziale non sono state tanto le curve di una ventitreenne, quanto il passaggio alla concierge medicine che gli ha regalato quello che non aveva mai avuto: tempo libero. Avere del tempo libero per uno come Craig, che ha passato metà della sua vita con un'unica idea in testa, può diventare pericoloso. È stato come se si fosse svegliato e si fosse guardato allo specchio e non gli fosse piaciuto ciò che vedeva. All'improvviso si è fatto prendere da un maniacale interesse per la cultura. Voleva recuperare il tempo perduto e trasformarsi dalla sera alla mattina nella sua idea di persona eclettica, ma non gli bastava farlo come hobby. Proprio come per la medicina si è buttato in questa nuova vita con ossessione e mi ha chiesto di assecondarlo. Ovviamente io non potevo, non con il lavoro e le bambine. È questo che lo ha spinto fuori casa, almeno per quanto ne so. Leona è arrivata dopo, quando si è reso conto di sentirsi solo.»
«Se stai cercando di farmi provare compassione per lui, non ci sei riuscita.» «Volevo solo che sapessi che cosa dobbiamo affrontare. L'accusa sa che la sera in cui è morta la moglie del querelante, Craig e Leona avevano i biglietti per un concerto di musica classica. Sostiene che i suoi testimoni dimostreranno che Craig ha voluto fare quella visita a domicilio, pur sospettando che la paziente potesse avere avuto un attacco di cuore, nella speranza di sbagliarsi e riuscire quindi ad arrivare in tempo al concerto. La Symphony Hall è più vicina alla casa del querelante che al Newton Memorial Hospital.» «Lasciami indovinare, questa Leona è nella sua lista di testimoni.» «Già! È un'amante respinta e, come se non bastasse, continua a lavorare nello studio di Craig e lui non può licenziarla per paura di un'altra azione legale.» «E così l'avvocato del querelante sostiene che Craig ha messo in pericolo la vita della sua paziente scommettendo sulla possibile diagnosi.» «In sostanza è proprio così. Dicono che si è allontanato dallo standard di cura non avendo fatto una diagnosi precoce, il che è fondamentale in caso di un attacco cardiaco. Non devono neppure dimostrare che la donna sarebbe sopravvissuta, se fosse stata portata immediatamente in ospedale. L'aspetto più crudele è che l'affermazione è in netta contraddizione con il suo stile. Lo sai che ha sempre messo i pazienti al primo posto, anche davanti alla sua famiglia.» Jack si passò una mano tra i capelli per la frustrazione. «La faccenda è molto più complicata di quanto avessi pensato. Mi ero aspettato una questione medica specifica, ma con questo genere di causa, la possibilità che io possa essere d'aiuto è praticamente nulla.» «Chi può dirlo?» disse Alexis con tono fatalistico. Si staccò dal tavolo e andò a prendere una grossa busta piena di carte che fece cadere sul tavolo con un sonoro tonfo. «Qui troverai il materiale che sono riuscita a mettere insieme. Penso ci sia quasi tutto, dagli interrogatori alle deposizioni, alle cartelle cliniche. L'unica cosa che manca è la trascrizione degli atti di oggi, ma penso di averti fatto un racconto sommario. Ci sono anche le due ricerche più recenti di Craig che mi ha chiesto di includere, non so perché: forse per salvarsi la faccia, immaginando che ne saresti rimasto colpito.» «Il che succederà di certo, a patto che riesca a capirle. In ogni caso, mi pare che tu mi abbia dato un bel po' da fare.» «Dove vuoi metterti? C'è un sacco di spazio, posso mostrarti altri posti,
oltre alla tua camera da letto.» Lo guidò in giro per il pianterreno. Il soggiorno era enorme, ma sembrava che nessuno avesse mai calpestato la folta moquette. Lo escluse. Accanto al soggiorno, la biblioteca con le pareti di pannelli di mogano e il bar era troppo buia. No grazie! In fondo al corridoio c'era la stanza della televisione con un proiettore montato sul soffitto e numerose file di poltroncine. Inadatta e con un'illuminazione peggiore di quella della biblioteca. Sull'altro lato c'era un grande studio con due scrivanie uguali una di fronte all'altra. Quella di Craig era in ordine con ogni matita ben appuntita nel suo contenitore. Quella che doveva appartenere ad Alexis era completamente diversa, con pile di libri, giornali e stampe sparse dappertutto. C'erano numerose poltroncine con braccioli e cuscini. Una finestra simile a quella della cucina dava su un'aiuola con una piccola fontana. La parete opposta, ai lati della porta, era coperta da scaffali alti fino al soffitto. In mezzo a testi di medicina e psicologia c'era l'antiquata borsa da medico in pelle di Craig e un apparecchio portatile per l'elettrocardiogramma. Oltre a essere confortevole, era perfettamente illuminata, con fari incassati nel soffitto, lampade su ciascuno scrittoio e piantane a stelo accanto a ogni poltroncina. «Questa stanza è fantastica. Sei sicura che non ti dia fastidio avermi nel tuo studio?» Premette l'interruttore di una delle lampade a stelo che gettò una luce ampia e calda. «Affatto.» «Che mi dici di Craig, questo studio è anche suo?» «Non gli importerà. Non è mai stato uno che difende il suo territorio.» «D'accordo, allora qui va benissimo. Ho l'impressione che ci metterò un bel po' di ore.» Appoggiò la busta su un tavolo. «Allora goditela, io vado a letto. Con le bambine che vanno a scuola, domani la giornata inizia presto. Trovi da bere nel frigorifero in cucina e nel bar. Serviti da solo.» «Fantastico. Sono a posto.» Alexis lo squadrò per un attimo. «Devo dirti, fratello, che hai un ottimo aspetto. Quando ero venuta a trovarti nell'Illinois e avevi ancora lo studio di oftalmologia, sembravi un altro.» «Ero un altro.» «Ho temuto che ingrassassi troppo.» «Ero grasso.» «Ora hai un aspetto vigoroso, scolpito e vissuto, come un attore di we-
stern.» Jack rise. «Una descrizione creativa. Da dove viene?» «La ragazze e io abbiamo visto di recente alcuni vecchi film di Sergio Leone. Era un compito per il corso di cinema che Tracy frequenta a scuola. Ma, parlando sul serio, sei veramente in gran forma. Qual è il tuo segreto?» «Pallacanestro nel Campetto del quartiere e bicicletta. Li considero la mia seconda professione.» «Forse dovrei provarci anch'io», osservò lei con una smorfia. Poi si congedò: «Buonanotte, ci vediamo domattina». La osservò percorrere il corridoio e scomparire su per le scale con un ultimo cenno di saluto con la mano. Si voltò ed esaminò nuovamente la stanza. Come un lenzuolo, era sceso un improvviso silenzio. Lo studio aveva un aspetto e un odore tanto diversi dal resto della casa che sarebbe potuto essere su un altro pianeta. Un po' in imbarazzo a trovarsi nel posto di qualcun altro, si accomodò nella poltroncina illuminata dalla lampada a stelo. La prima cosa che fece fu tirare fuori di tasca il cellulare e accenderlo. C'era un solo messaggio ed era di Warren, con il nome e il numero di telefono del suo amico di Boston. David Thomas. Lo chiamò subito, pensando che forse avrebbe avuto bisogno di un po' di moto, se il giorno seguente si fosse rivelato stressante come temeva. La risposta evasiva della sorella sulla reazione di Craig alla sua visita non lo aveva fatto sentire il benvenuto. Warren doveva averlo lodato molto quando aveva parlato con l'amico, perché David rispose con entusiasmo alla sua proposta di unirsi per una partita. «In questo periodo giochiamo tutte le sere dalle diciassette», gli aveva detto David. «Ti aspettiamo e vedremo cosa sai fare.» Gli aveva poi spiegato come raggiungere il campo vicino a Harvard. Jack aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per arrivare nel tardo pomeriggio. Poi telefonò a Laurie per riferirle che si era sistemato al meglio per il momento. «Che cosa vuol dire?» «Non ho ancora visto Craig. Non credo che sia contento della mia presenza.» «Tutto sommato non è una cosa molto carina, soprattutto il tempismo.» Jack le raccontò poi la sua reazione alle figlie di Alexis. Le rivelò che una delle bambine aveva tirato subito in ballo l'incidente aereo, e che lui
l'aveva presa bene, con sua grande sorpresa. «Sono stupita e contenta», si congratulò Laurie. «È fantastico e mi conforta.» Jack continuò riferendole che l'unica brutta notizia era che gli elementi della causa non comprendevano prettamente questioni mediche tecniche, per cui aveva meno possibilità di aiutarli di quanto avesse ritenuto. «Spero che questo significhi che tornerai presto.» «Sto per leggere il dossier», ribatté. «Alla fine saprò qualcosa di più.» «Buona fortuna.» «Grazie, ne avrò bisogno.» Concluse la telefonata e mise da parte il cellulare. Per un momento tese le orecchie per sentire se ci fossero dei rumori. Silenzio assoluto. Afferrò la busta e la prima cosa che prese in mano fu una delle due ricerche che Craig aveva scritto assieme a un famoso biologo cellulare di Harvard e che era uscita su una prestigiosa rivista. Riguardava la funzione dei canali di sodio nelle membrane cellulari responsabili dei potenziali d'azione dei nervi e dei muscoli. C'erano alcuni diagrammi e delle micrografie elettroniche della struttura molecolare subcellulare. Lanciò un'occhiata alla sezione riguardante materiali e metodi. Lo meravigliava che qualcuno potesse concepire concetti tanto arcani, e ancor più studiarli. Avendo capito che tutto superava la sua attuale comprensione, mise da parte gli articoli e prese una deposizione. Era la testimonianza di Leona Rattner. 7 Boston Martedì, 6 giugno 2006 06.48 La prima cosa di cui Jack si rese conto fu una discussione lontana, seguita dallo sbattere di una porta. Per un attimo tentò di incorporare i rumori nel sogno, poi aprì gli occhi e per un attimo non capì dov'era. Dopo aver fissato la fontana immersa nella luce del sole oltre la finestra ed essersi guardato in giro, ricordò. In mano teneva la deposizione di un'infermiera di nome Georgina O'Keefe del Newton Memorial Hospital, che stava rileggendo quando si era addormentato. Radunò le carte della causa Stanhope contro Bowman e le infilò a fatica nella cartelletta. Quando si alzò in piedi gli girava la testa.
Non aveva idea di quando si fosse addormentato. Aveva letto tutti i documenti e stava per riprendere quelle parti che riteneva più interessanti, quando gli occhi gli si erano chiusi. Con sua grande sorpresa, era rimasto da subito affascinato. Se la storia non avesse coinvolto direttamente sua sorella, l'avrebbe considerata una sceneggiatura per una soap opera, tanto le personalità dei pittoreschi personaggi balzavano fuori dalle pagine. C'era il medico dotato e consacrato, arrogante e adultero; l'amante nubile, respinta e imbufalita; la laconica moglie tradita; gli esperti informati ma polemici; la serie degli altri testimoni e infine la vittima apparentemente ipocondriaca. Era una commedia delle debolezze umane, a parte lo sfortunato e tragico epilogo e il fatto che era finita con un'accusa di negligenza. Per quello che concerneva il probabile esito del processo, da ciò che aveva letto, pensò che il timore e il pessimismo di Alexis fossero fondati. Con l'arroganza delle ultime fasi della sua deposizione, Craig non aveva favorito la sua posizione. L'avvocato del querelante era riuscito a suggerire che Craig ritenesse oltraggioso che il suo giudizio clinico venisse messo in dubbio, e ciò non gli aveva attirato le simpatie della giuria. Il medico, inoltre, aveva insinuato che era stata colpa della moglie, se aveva avuto una tresca con la segretaria. Ogni qualvolta a Jack veniva chiesto di descrivere l'obiettivo del suo lavoro di patologo forense, la solita risposta era, indipendentemente da chi poneva la domanda e dalla circostanza, quella di dire che lui «parlava a nome del morto». Mentre rileggeva quei documenti, si ritrovò a pensare alla vittima e all'ovvia impossibilità che potesse essere chiamata a deporre come testimone. Pensò a come la partecipazione della defunta avrebbe influenzato il processo e questo ragionamento lo portò a ritenere che fosse lei la chiave di una sua soluzione favorevole. Immaginò che, se i giurati avessero creduto che era ipocondriaca come sosteneva Craig, avrebbero dovuto pronunciarsi a favore della difesa, malgrado gli ultimi sintomi fossero stati reali, e a dispetto della personalità narcisistica dell'imputato. Questo ragionamento sottolineava la sfortunata realtà della mancanza di un'autopsia e, di conseguenza, dell'assenza di un patologo legale nella lista dei testimoni della difesa che parlasse a nome della defunta. Con il faldone sottobraccio, raggiunse silenziosamente le scale del seminterrato. Scompigliato com'era, preferiva non incontrare nessuno. Mentre scendeva, sentì prima una delle bambine urlare e poi sbattere una porta al piano superiore. Una volta raggiunta la sua stanza, si fece la barba, la doccia e si vestì il
più rapidamente possibile. Quando tornò di sopra, il clan Bowman al completo era in cucina. L'atmosfera era tesa. Le ragazze erano sedute dietro scatole di fiocchi di cereali. Craig, sul divano in soggiorno, era nascosto dietro il New York Times, una tazza di caffè sul tavolino di fronte. Alexis era al bancone, intenta a preparare panini per il pranzo. Il televisore sopra il caminetto era sintonizzato sul telegiornale locale, con il volume al minimo. La luce del sole che penetrava dalla finestra era quasi accecante. «Buongiorno, Jack», lo salutò allegramente Alexis appena lo vide nel vano della porta. «Spero tu abbia dormito bene là sotto.» «Benissimo.» «Date il buongiorno a vostro zio», sollecitò le figlie, ma solo Christina lo salutò. «Non so perché non posso indossare il top rosso», piagnucolò Meghan. «Perché è di Christina e lei non vuole che tu lo metta», rispose la madre. «Le tue figlie sono bruciate nell'aereo?» chiese Christina. «Christina, basta!» la sgridò Alexis, roteando gli occhi. «C'è del succo fresco in frigo e del caffè appena fatto nella macchinetta. Cosa prendi di solito a colazione, Jack?» «Solo frutta e cereali.» «Abbiamo tutti e due. Serviti.» Jack andò alla macchinetta del caffè e, mentre cercava con gli occhi una tazza, sua sorella gliene passò una sul piano del bancone in granito. La riempì e vi aggiunse un cucchiaio di zucchero e un po' di panna. Mentre mescolava, osservò di nuovo il locale. Christina e Alexis stavano discutendo i programmi del dopo scuola. Le altre due erano silenziose e imbronciate. Craig non era emerso da dietro il giornale. Una chiara mancanza di rispetto. Rifiutandosi di farsi intimidire e ritenendo che un buon attacco era la miglior difesa, si avvicinò al caminetto e fissò direttamente il giornale che l'uomo teneva sollevato in tutta la sua ampiezza come una barriera. «Nulla di interessante?» chiese, sorseggiando il caffè bollente. Il bordo superiore del giornale scese lentamente, mostrando piano piano il volto gonfio e flaccido di Craig. Gli occhi erano come oblò circondati da occhiaie scure, con la sclera punteggiata da minuscoli capillari rossi che davano al suo viso l'aspetto di quello di un uomo che aveva passato la notte a gozzovigliare. Contrastavano il volto stanco una camicia bianca appena stirata e una cravatta classica, mentre i capelli color sabbia erano ben pettinati e riflettevano una leggera lucentezza che indicava un velo di gel.
«Non sono dell'umore giusto per le chiacchiere», bofonchiò, scontroso. «Neppure io», ribatté Jack. «Almeno siamo d'accordo fin dall'inizio. Craig, mettiamo le cose in chiaro! Sono qui su richiesta di mia sorella. Non sono qui per te. Sono qui per aiutare lei. Se così facendo ti fossi d'aiuto, sarebbe solo un effetto secondario. Resta comunque il fatto che ritengo una porcheria che ti abbiano citato in giudizio. Per quanto ti conosco, professionalmente parlando, sei l'ultimo che dovrebbe venire citato per colpa professionale. Ci sono altri campi in cui, secondo me, non brilli affatto, ma questa è un'altra faccenda. Per quello che riguarda la causa, ho letto il materiale e mi sono fatto alcune idee. Puoi sentirle o no, dipende da te. Per quello che concerne invece la mia permanenza qui, anche questo dipende da te, dovete essere d'accordo entrambi. Posso sempre trasferirmi in un albergo.» Nella stanza cadde il silenzio e nessuno si mosse, fin quando Craig non abbassò rumorosamente il giornale, ripiegandolo in qualche modo e buttandolo da parte. Un attimo dopo si sentì di nuovo il tintinnio delle posate contro le ciotole con i fiocchi di cereali e dal lavandino giunse il rumore del rubinetto che veniva aperto. «Confesso che», ammise Craig, la voce ora più stanca e triste che scontrosa, «quando ho saputo che saresti venuto, la cosa mi ha irritato. Con tutto quello che sta succedendo, non ritenevo fosse il momento giusto per avere compagnia, soprattutto perché non ti eri degnato di venirci a trovare prima. Mi seccava l'idea che covassi la falsa illusione di essere la cavalleria che arriva giusto in tempo per salvare la squadra in pericolo. Visto che invece hai detto da subito che non è così, ho cambiato idea. Mi farebbe piacere se restassi, ma, scusami non sarò un granché come ospite. Riguardo le tue riflessioni, sono tutto orecchi.» «Non m'aspetto che tu abbia voglia di fare conversazione, con quello che stai passando», replicò Jack. Si sedette sul bordo del tavolino di fronte a Craig. La chiacchierata stava andando meglio di quanto aveva previsto. «Insieme con il materiale c'erano due tuoi lavori. Ne sono rimasto colpito, anche se lo sarei stato di più se li avessi compresi.» «Il mio avvocato ha intenzione di presentarli come prova del mio impegno. Secondo l'esposizione d'apertura, l'accusa tenterà di dimostrare il contrario.» «Male non farà. Non riesco a immaginare come li presenterà, ma non sono io l'avvocato. Devo darti credito che sei sorprendente. Quasi tutti i medici che conosco vorrebbero fare sia lavoro clinico sia ricerca, ma tu sei
uno dei pochi che ci riesce veramente. Stupefacente, poi, è il fatto che si tratta di ricerca vera, non di quei rapporti su un caso interessante che cercano di far passare per studi all'avanguardia.» «Su questo non ci sono dubbi», ammise il cognato. Il tema l'aveva rianimato. «Stiamo apprendendo sempre più cose sui canali del sodio di tipo voltaggio-dipendente nelle cellule muscolari e nervose, e si ha anche un'applicazione clinica immediata.» «Nel tuo ultimo saggio sul New England Journal of Medicine, hai parlato di due differenti canali del sodio, uno per il muscolo cardiaco e uno per i nervi. In che modo differiscono?» «Sono strutturalmente diversi e questa differenza la stiamo determinando ora a livello molecolare. Abbiamo capito che differiscono nella reazione alla tetrodotossina e la diversità è strabiliante.» «Tetrodotossina?» chiese Jack. «Non è la tossina che uccide i giapponesi che mangiano il sushi sbagliato?» Craig rise, nonostante tutto. «Hai ragione. Se uno chef inesperto prepara il sushi con il pesce palla in un particolare momento del suo ciclo riproduttivo e non trattato come si deve.» «Interessante», commentò Jack. Riuscito nell'intento di averlo ringalluzzito, voleva passare ad altro. Ammise di ritenere che la vittima fosse l'elemento chiave per vincere la causa. «Se il tuo avvocato potesse stabilire inequivocabilmente nella mente dei giurati che quella donna era ipocondriaca, la giuria dovrebbe pronunciarsi contro il querelante.» Per alcuni secondi, Craig lo fissò. Fu come se il cambio di tema fosse stato tanto brusco che il suo cervello aveva bisogno di riavviarsi. «Be'», riprese. «È interessante che tu dica le stesse cose che io ho già ripetuto a Randolph Bingham.» «A quanto pare la pensiamo allo stesso modo, il che offre maggiore credibilità all'ipotesi. Cosa ha detto il tuo avvocato?» «Non molto.» «Penso che dovresti insistere. E, a proposito, non ho trovato il rapporto dell'autopsia. Immagino non sia stata eseguita, o sbaglio?» «Non sbagli. La diagnosi è stata confermata dall'analisi dei biomarcatori.» Scrollò le spalle. «Nessuno si aspettava una ripercussione. Sono certo che, se ci avessero pensato, i medici legali avrebbero optato per un'autopsia e l'avrei richiesta io stesso.» «C'è un altro punto nel rapporto che ho trovato curioso», riprese Jack. «Un'infermiera del pronto soccorso del Newton Memorial Hospital di no-
me Georgina O'Keefe ha scritto nei suoi appunti che all'arrivo la paziente aveva una marcata cianosi centrale. Il particolare mi è saltato all'occhio, perché non ne ha fatto menzione nella deposizione. Sono tornato indietro e ho avuto conferma. Tu nella tua deposizione hai sostenuto che la paziente presentava un'evidente cianosi. Di fatto, il punto di disaccordo tra te e il signor Stanhope.» «Certo che c'era disaccordo», sbottò lui in tono difensivo e nuovamente astioso. «Al telefono il signor Stanhope aveva detto testualmente: 'ha un aspetto bluastro', mentre quando sono arrivato a casa sua, era decisamente cianotica.» «Avresti usato anche tu il termine cianosi centrale come la signora O'Keefe?» «Centrale o periferica, che differenza fa? Il cuore non stava pompando con sufficiente rapidità il sangue nei polmoni. Il suo sistema era pieno di sangue deossigenato. È la diminuzione dell'ossigenazione che di solito provoca cianosi.» «La questione è quanto era cianotica. Concordo sul fatto che una profonda cianosi indica che attraverso i polmoni non passa sufficiente sangue o che non arriva aria sufficiente. Se si fosse trattato di cianosi periferica, quando il sangue ristagna nelle estremità, non sarebbe stata tanto vistosa e uniforme.» «Che cosa stai insinuando?» «A dire il vero, non lo so. Cerco di mantenere la mente aperta. Se posso chiedertelo, quale tipo di rapporto aveva la defunta con il marito?» «Un po' strano, direi. Non si mostravano affettuosi in pubblico. Dubito che fossero molto intimi, dato che lui si era lagnato con me a proposito della sua ipocondria.» «Vedi, noi patologi siamo sospettosi di natura. Se facessi l'autopsia e tenessi conto della cianosi, andrei alla ricerca di segni di strangolamento o di soffocamento, tanto per scartare l'omicidio.» «Ma è assurdo», sbottò Craig. «Non è stato un omicidio.» «Non sto insinuando questo, sto solo considerando la possibilità. È possibile anche che avesse uno shunt artero-venoso non diagnosticato.» Craig si passò nervosamente le dita tra i capelli e il suo aspetto divenne scarmigliato oltre che stanco. «Non aveva alcun foro nel setto interatriale!» «Come fai a dirlo? Non ti ha permesso di monitorarla come le avevi proposto dopo l'esito del test sotto sforzo, che, tra parentesi, non ho visto.» «Non siamo ancora riusciti a trovare il tracciato in studio, ma abbiamo i
risultati. E hai ragione, si è rifiutata di farsi fare qualsiasi esame cardiaco.» «Ti ripeto, potrebbe avere avuto uno shunt artero-venoso congenito che non era stato diagnosticato.» «Che differenza avrebbe fatto?» «Avrebbe potuto avere un grave problema strutturale del cuore o dei vasi sanguigni principali. Questo solleverebbe la questione del concorso di colpa, visto il rifiuto di ulteriori esami dopo l'ECG sotto sforzo e, se avesse avuto un serio difetto strutturale, si potrebbe sostenere che l'esito non sarebbe cambiato anche se fosse stata portata immediatamente in ospedale. Nel qual caso la giuria dovrebbe pronunciarsi a tuo favore.» «Tutti argomenti interessanti, ma solo accademici. Non è stata fatta alcuna autopsia, così non si saprà mai se soffriva di un'anomalia.» «Non necessariamente», ribatté Jack. «Non è stata fatta alcuna autopsia, ma ciò non significa che non la si possa più fare.» «Intendi esumare il corpo?» chiese Alexis dalla cucina. A quanto pare era stata ad ascoltarli. «A patto che non sia stato cremato.» «Non è stato cremato», rispose Craig. «È stato sepolto nel cimitero di Park Meadow. Lo so perché sono stato invitato al funerale da Jordan Stanhope.» «Immagino sia successo prima che ti citasse in giudizio.» «Ovviamente. Anche per questo mi ha stupito tanto ricevere la citazione e la querela. Perché mai invitarmi al funerale e poi farmi causa? Non ha senso.» «Ci sei andato?» «Sì, mi sentivo in dovere. Voglio dire, il fatto di non essere riuscito a rianimarla mi aveva sconvolto.» «È difficile eseguire un'autopsia su un corpo sepolto da quasi un anno?» chiese Alexis, che si era seduta sul divano. «Mi sembra mostruoso.» «Non si sa mai», rispose Jack. «Ci sono due fattori importanti: l'imbalsamazione del corpo e le condizioni della tomba, se era asciutta e se la bara era stata sigillata perfettamente. In realtà non lo si può sapere fino a quando non si apre il feretro. Ma qualunque sia la situazione, si possono sempre raccogliere molte informazioni.» «Di che state parlando?» gridò Christina dal tavolo della cucina. Le sorelle erano scomparse al piano superiore. «Di niente, tesoro», rispose la madre. «Corri a prendere le tue cose. Il bus sarà qui a minuti.»
«Questo potrebbe essere il mio contributo», dichiarò Jack. «Potrei scoprire la procedura per l'esumazione qui nel Massachusetts ed eseguire un'autopsia. Oltre a fornire un appoggio puramente morale, quello sarebbe l'unico modo per aiutarvi. Ma dipende da voi. Ditemi cosa volete che faccia.» Alexis guardò il marito. «Che ne pensi?» Craig era titubante. «Non saprei. Voglio dire, se l'autopsia dimostrasse che aveva un grave difetto cardiovascolare congenito, per cui portarla in ospedale in ritardo non avrebbe fatto alcuna differenza, allora sarei d'accordo. Ma quali sono le probabilità? Direi scarse. D'altra parte, se l'autopsia rivelasse che l'infarto del miocardio era ancora più esteso di quanto previsto, allora peggiorerebbe la mia situazione. Mi pare rischioso.» «Senti cosa faremo», propose Jack. «Indagherò e scoprirò tutti i dettagli e ve li comunicherò. Nel frattempo, voi due potete rifletterci su. Che ne dite?» «Per me va bene», rispose Alexis, lanciando un'occhiata a Craig. «Perché no?» accettò Craig. «Ho sempre sostenuto che è meglio avere più informazioni che non averne.» 8 Boston Martedì, 6 giugno 2006 09.28 «In piedi!» gridò il cancelliere mentre il giudice Marvin Davidson emergeva dalla sua stanza e saliva i gradini che portavano allo scranno. Grazie alla toga nera che gli copriva i piedi, pareva avanzare come un fantasma. «Seduti», si sentì, dopo che il giudice si era accomodato. Jack guardò dietro di sé prima di sedersi, per non rovesciare il caffè. Nessun altro aveva portato in aula qualcosa da bere, così aveva tentato di nascondere il bicchiere sulla panca accanto a sé. Era seduto vicino alla sorella nel gremito settore del pubblico. Le aveva chiesto come mai ci fossero tanti spettatori, ma lei non aveva saputo rispondergli. Quasi tutti i posti erano occupati. La prima mattina in casa Bowman era trascorsa meglio di quanto aveva previsto. Sebbene il cognato fosse passato dalle chiacchiere al broncio, avevano almeno avuto una conversazione aperta e Jack non si era più senti-
to a disagio. Dopo che le ragazze erano uscite per andare a scuola, avevano continuato a chiacchierare, più che altro lui e Alexis. Craig era ricaduto nel suo stato preoccupato. Avevano discusso su come andare in città e Jack aveva detto che preferiva guidare. Sarebbe andato in tribunale per farsi un'idea degli avvocati, ma verso metà mattinata voleva fare un salto all'istituto di medicina legale di Boston per informarsi per l'eventuale esumazione. Poi, forse, sarebbe tornato in tribunale, o si sarebbero ritrovati a casa nel tardo pomeriggio. Mentre la corte prendeva tempo, con le solite operazioni di routine, Jack si guardò in giro. Il giudice afroamericano sembrava un ex giocatore di football non più in forma, ma il senso di autorità che emanava grazie alla deliberata sicurezza con cui maneggiava i documenti e conversava sottovoce con l'impiegato diede a Jack la rassicurante sensazione di sapere cosa stesse facendo. I due avvocati erano esattamente come li aveva descritti sua sorella. Randolph Bingham, per come si vestiva, si muoveva e parlava, era il ritratto del raffinato ed elegante avvocato di un importante studio legale. Tony Fasano era il giovane avvocato impudente e vistoso che ostentava abiti alla moda e accessori dorati di scarso valore. Tuttavia, ciò che colpì immediatamente Jack e che Alexis non aveva menzionato era il fatto che Tony sembrava divertirsi. Mentre l'afflitto querelante sedeva rigido, Fasano e la sua assistente conversavano animatamente tra sorrisi e risate represse, una situazione diversa da quella al tavolo della difesa, dove tutti sembravano bloccati in un decoro raggelato o in una disperazione controllata. Gli occhi di Jack scrutarono i giurati, mentre s'infilavano ai loro posti. Era chiaramente un gruppo vario. Se fosse uscito dal tribunale e si fosse incamminato per strada, avrebbe potuto confonderli con dei passanti qualsiasi. Mentre esaminava i giurati, Tony Fasano chiamò il primo teste della giornata. Era Marlene Richardt, la matronale segretaria addetta alla ricezione di Craig. Jack rivolse la sua attenzione alla donna, che trovò essere proprio la risoluta Frau che indicava il suo cognome tedesco. Squadrata e di dimensioni voluminose, quasi come Tony, aveva i capelli raccolti in una crocchia, una bocca da bulldog e occhi che sprizzavano sfida. Non era difficile intuire che era una testimone riluttante, come Tony riuscì a far dichiarare al giudice. L'avvocato iniziò con calma, cercando di scherzare, ma senza riuscirci, o
almeno questo fu quello che pensò Jack fin quando posò gli occhi sui giurati. A differenza della teste, la maggior parte di loro sorrideva ai tentativi di umorismo di Tony e Jack comprese cosa aveva insinuato Alexis, e cioè che Fasano sapeva come entrare in contatto con la giuria. Aveva letto la deposizione di Marlene, che non aveva avuto alcun rapporto con il caso, perché quel giorno Patience Stanhope non era andata allo studio, per questo si meravigliò del tempo che l'avvocato dell'accusa le stava dedicando, verificando scrupolosamente il suo rapporto con Craig e la sua complessa vita privata. Visto che lavoravano assieme da quindici anni, c'era molto di cui parlare. Tony continuò con il suo modo di fare affabile. Marlene dapprima lo ignorò, ma dopo un'ora iniziò a stizzirsi e a rispondere spinta dall'emozione. Fu a quel punto che Jack intuì che lo stile canzonatorio era un trucco per farle perdere il controllo. Come se percepisse che stava per arrivare qualcosa di imprevisto, Randolph tentò di obiettare che la testimonianza era infinita e irrilevante. Il giudice parve concordare, ma dopo un breve scambio di battute con i due avvocati, l'interrogatorio riprese. «Vostro onore, posso avvicinarmi alla teste?» chiese Tony, sollevando una cartella. «Le è permesso», accordò il giudice. Tony si avvicinò al banco dei testimoni e allungò la cartella a Marlene. «Può dire al giudice cosa tiene in mano?» «La scheda di una paziente dello studio.» «Di quale paziente?» «Patience Stanhope.» «La scheda è contrassegnata da un numero.» «Naturalmente!» sibilò lei. «Come potremmo trovarla altrimenti?» «Può leggerlo ad alta voce per la giuria?» chiese Tony, ignorando lo scatto di Marlene. «PD otto.» «Grazie.» Tony riprese la cartella e tornò al podio. In ansiosa attesa, numerosi giurati si chinarono in avanti. «Signora Richardt, la prego di spiegare alla giuria cosa significano le iniziali PD.» Come un gatto in trappola, gli occhi di Marlene saettarono per l'aula prima di posarsi per un attimo su Craig. «Signora Richardt», la pungolò Tony. «Ehi! C'è nessuno in casa?» «Sono lettere», rispose brusca.
«Grazie mille», disse Tony in tono sarcastico. «Penso che la maggior parte dei giurati le abbia riconosciute come tali. Quello che chiedo è il loro significato. E mi consenta di ricordarle che lei ha giurato e che dare falsa testimonianza è uno spergiuro che porta a una seria sanzione penale.» Il volto di Marlene, che si era fatto sempre più rosso durante la testimonianza, avvampò ancora di più e le si gonfiarono le guance come se fosse sotto sforzo. «Se le servisse a ricordare, una testimonianza posteriore rivelerà che lei e il dottor Bowman avevate escogitato questo sistema di archiviazione. Ho i numeri di scheda di altri due vostri pazienti.» Mostrò altre due cartelle. «La prima è di Peter Sager e il suo numero è PS 121. Abbiamo scelto questa particolare scheda perché le iniziali di questa persona sono uguali a quelle della defunta, eppure le lettere sulla sua scheda sono PD e non PS. «La terza scheda è di Katherine Baxter e il suo numero di scheda è KB 233. Ve ne erano altre e in ciascuna le prime due lettere corrispondevano alle iniziali del nome del paziente. Sappiamo che ci sono altre schede con le iniziali PD, ma sono pochissime. Così le chiedo nuovamente: che cosa significano le lettere PD, dal momento che non rappresentano le iniziali del paziente?» «PD sta per paziente difficile», sbottò con aria di sfida Marlene. Il viso di Tony si contorse in un sorriso ironico a favore della giuria. «Paziente difficile!» ripeté lentamente ma ad alta voce. «Che diavolo significa? Fanno i capricci nello studio?» «Sì, proprio così», ribatté Marlene. «Sono ipocondriaci. Inventano un sacco di stupidi disturbi e rubano il tempo del dottore a pazienti realmente malati.» «E il dottor Bowman era d'accordo nel definirli così?» «Naturalmente. È lui quello che ci dice quali indicare così.» «E solo per evitare fraintendimenti, il dossier di Patience Stanhope era siglato PD, il che significa che era una paziente difficile. Giusto?» «Sì!» «Nessun'altra domanda.» Jack si chinò verso Alexis e le sussurrò: «Alla faccia delle pubbliche relazioni. Com'era venuto in mente a Craig?» «Non ne ho la più pallida idea. Ma non ci sarà d'aiuto. La situazione sta degenerando.» Jack annuì, ma non aggiunse altro. Non riusciva a credere che Craig potesse essere tanto stupido. Ogni dottore ha dei pazienti che etichetta come
difficili, ma non lo indicherebbe mai nella loro cartella medica. Ogni studio medico ha pazienti che si fanno odiare, disprezzare e che sarebbero felici di eliminare. Jack ricordò che nel suo studio di oftalmologia aveva avuto due o tre clienti tanto sgradevoli che vedere i loro nomi nella lista degli appuntamenti gli rovinava l'umore per tutta la giornata. Sapeva che una reazione simile era più che umana e che il dovere professionale non liberava il medico dal provare simili sentimenti. Nel controinterrogatorio, Randolph tentò di riparare al danno nel miglior modo possibile, anche se era evidente che la questione l'aveva preso alla sprovvista. Con l'indagine ritualizzata, simili sorprese erano rare. Tony sfoggiava un sorrisetto compiaciuto. «Etichettare un paziente come difficile non è necessariamente denigratorio, vero, signora Richardt?» «Credo di no.» «In verità, si indica così un paziente proprio per dargli un'attenzione maggiore, non minore.» «Fissavamo loro più appuntamenti.» «Esattamente ciò che intendevo. È corretto dire che, appena individuava un paziente PD, fissava la visita in modo che il medico rimanesse più a lungo con lui?» «Sì.» «Quindi per il paziente era un vantaggio essere etichettato PD.» «Sì.» «Nessun'altra domanda.» Jack si chinò nuovamente verso Alexis. «Andrò subito all'istituto di medicina legale.» «Grazie», sussurrò lei. Uscito dal tribunale, si sentì decisamente sollevato. Essere intrappolato nel sistema legale era sempre stata una delle sue fobie e vederne invischiato il cognato lo toccava troppo da vicino. L'idea che la giustizia avrebbe miracolosamente prevalso era irrealistica, come il caso di Craig minacciava di dimostrare. Jack non si fidava del sistema, anche se non riusciva a trovarne uno migliore. Una volta sbucato dal garage sotto il Boston Common, accostò al bordo della strada e consultò la mappa. Ci mise un po' a trovare Albany Street, ma riuscì a orientarsi tenendosi il parco sulla destra. Il parco era lussureggiante di fiori della tarda primavera. Si era dimenticato di quanto fosse bella Boston.
Mentre guidava, mantenendo alta la concentrazione, tentò di pensare a qualche altra via per aiutare Craig. Gli sembrava un'assurdità colma di ironia ritenere responsabile di negligenza il cognato per essere andato a fare una visita a domicilio. Trovò l'istituto di medicina legale e un garage pubblico a più piani nelle immediate vicinanze. Quindici minuti dopo, stava parlando attraverso uno schermo protettivo in vetro con una giovane e attraente receptionist. A differenza dell'antiquato istituto di medicina legale di New York, il quartier generale di Boston era nuovo di zecca. Non poté fare a meno di provare un moto di invidia. «Posso aiutarla?» chiese gentilmente la ragazza. «Penso di sì.» Si presentò e chiese di parlare con uno dei patologi. Andava bene uno qualsiasi. «Credo siano tutti in sala autopsie, dottore. Ora controllo.» Mentre la receptionist faceva diverse telefonate, si guardò intorno. L'allestimento era funzionale e aveva il caratteristico odore di nuovo. Notò l'ufficio di collegamento con il dipartimento di polizia e, dalla porta aperta, vide un agente in divisa e molte altre stanze. «La dottoressa Latasha Wylie scenderà immediatamente», lo avvertì, urlando per farsi sentire al di là del vetro divisorio. Jack la ringraziò e si chiese dove fosse esattamente il cimitero di Park Meadow. Se Craig e Alexis avessero deciso per l'autopsia, si sarebbe dovuto muovere alla svelta, visto che erano già arrivati al secondo giorno di un processo che si prevedeva ne sarebbe durati cinque. L'autopsia in sé e per sé non sarebbe stato un problema, lo sarebbero state invece le lungaggini burocratiche e, in una città vecchia come Boston, temette che le formalità fossero spaventose. «Dottor Stapleton?» chiese una voce. Sobbalzò. Stava lanciando un'occhiata curiosa e furtiva in una delle stanze che si aprivano sull'atrio. Con fare colpevole, si girò e si trovò davanti una giovanissima afroamericana con svolazzanti trecce nere come il carbone e un aspetto da modella. Rimase sconcertato. Troppo spesso, ultimamente, si era trovato di fronte colleghe che gli sembravano studentesse universitarie, il che lo faceva sentire vecchio. Dopo le presentazioni e dopo averle mostrato il suo tesserino, Jack le spiegò che voleva informazioni sulla procedura per un'esumazione. Latasha lo invitò a salire nel suo ufficio, che lo fece scoppiare nuovamente d'invidia. La stanza non era enorme né lussuosa, ma aveva una scrivania e
un banco da lavoro, così da poter tenere separate le scartoffie dal microscopio e non dover ogni volta sgomberare il tavolo. Aveva ampie finestre che, anche se offrivano solo la vista del vicino garage, lasciavano entrare una bella quantità di luce. Una volta nell'ufficio, Jack le fece un racconto dettagliato della causa per negligenza di Craig. Forzò un po' la realtà, dicendo che Craig era uno dei migliori internisti della città, anche se esercitava la professione nei sobborghi, e lasciando intendere che sarebbe stato considerato responsabile della morte della sua paziente a meno che il cadavere della donna venisse esumato e sottoposto ad autopsia. Si giustificò tra sé per queste esagerazioni dicendosi che, se l'istituto di medicina legale di Boston fosse stato sufficientemente motivato, avrebbe potuto ridurre i problemi burocratici. A New York le cose sarebbero andate così. Sfortunatamente Latasha lo disilluse immediatamente. «Nel Massachusetts, i patologi legali non possono richiedere un'esumazione a meno che si tratti di un caso penale», osservò. «E anche in quel caso, la richiesta deve passare dal procuratore distrettuale che a sua volta deve rivolgersi a un giudice per ottenere un'istanza del tribunale.» La burocrazia stava alzando la sua orribile testa. «È un procedimento lungo», continuò Latasha. «Questo istituto deve convincere il procuratore distrettuale che c'è un alto sospetto di criminosità. D'altra parte, se non stiamo parlando di un crimine, allora la procedura è solo pro forma.» Le orecchie di Jack si rizzarono. «Davvero? Come mai?» «Tutto quello di cui ha bisogno è un permesso.» Sentì il polso accelerare. «E chi mi concede questo permesso?» «Il segretario del comune dove è situato il cimitero, o il dipartimento della Sanità, se fosse qui a Boston. La via più facile sarebbe quella di contattare l'impresario di pompe funebri che ha organizzato la sepoltura. Se l'impresa fosse nella stessa città del cimitero, allora dovrebbe conoscere il segretario comunale o i dipendenti del dipartimento della Sanità. Con i giusti contatti lo si dovrebbe ottenere in un'ora.» «Questa sì che è una buona notizia.» «Se eseguirà l'autopsia potremo aiutarla, non qui, naturalmente, dato che questa è una struttura pubblica, e io non penso che il nostro capo autorizzerebbe qualcosa di simile. Potremo comunque collaborare fornendole contenitori e fissativi per i campioni ed elaborandoli. Se necessario, potremo anche fare esami tossicologici.»
«Sul certificato di morte ci sarà il nome dell'impresa?» «Certamente. Si deve registrare la collocazione del corpo. Può ripetermi il nome della defunta?» «Patience Stanhope. È morta circa nove mesi fa.» Latasha recuperò il certificato di morte nel computer. «Eccola qui. Otto settembre 2005, per l'esattezza.» «Davvero?» chiese Jack. Si alzò e sbirciò da sopra la spalla di Latasha. Sembrava una coincidenza. L'otto settembre 2005 era stata una giornata importante anche per lui, era la data della cena da Elio, quando lui e Laurie si erano fidanzati. «Del corpo si è occupata la Langley-Peerson a Brighton. Vuole che le annoti l'indirizzo e il numero di telefono?» «Grazie.» Jack stava ancora riflettendo sulla data. Non era superstizioso, ma la coincidenza lo incuriosì. «Quando pensa di eseguire l'autopsia?» domandò Latasha. «A dire il vero, non è ancora stato deciso di effettuarla», ammise. «Dipende dal dottore e da sua moglie. Sono io a pensare che servirebbe e sto valutando come muovermi.» «C'è un punto riguardante l'esumazione che ho dimenticato di menzionare», disse dopo un ripensamento la dottoressa. «Oh», esclamò Jack, tirando i freni al suo entusiasmo. «Avrà bisogno del consenso e della firma del parente prossimo.» Gli si afflosciarono le spalle. Si rimproverò per non essersi ricordato di una cosa tanto ovvia. Naturalmente il parente prossimo doveva acconsentire. Aveva permesso al suo ardente desiderio di aiutare la sorella di sopraffare il buonsenso. Come pensare che il querelante avrebbe acconsentito a disseppellire la moglie per aiutare la difesa? Ricordò poi che erano accadute cose ancora più strane e, dal momento che l'autopsia era con ogni probabilità l'unico aiuto che poteva offrire alla sorella, non avrebbe accettato una sconfitta incontestata. Ma a New York c'era Laurie, e le sue indagini l'avrebbero trattenuto a Boston. La situazione era molto più complicata di quanto avrebbe voluto. Quindici minuti dopo era di nuovo nella sua Hyundai e stava martellando con le dita sulla calotta dell'air bag del guidatore. Che fare? Controllò l'ora. Erano le dodici e venticinque. Non aveva senso tornare in tribunale, perché l'udienza sarebbe stata sospesa per la pausa pranzo. Avrebbe potuto chiamare Alexis sul cellulare, decise invece di andare all'impresa di pompe funebri. Spiegò la cartina e studiò il percorso.
Uscire da Boston non era più semplice che entrarvi, ma una volta raggiunto il fiume Charles, riuscì a orientarsi. Venti minuti dopo aveva raggiunto la strada giusta nella periferia di Brighton e trovato l'impresa funebre. La ditta aveva sede in una grande casa bianca in stile vittoriano con tanto di torre e particolari di stile italiano. Sul retro era stata aggiunta una costruzione moderna in blocchi di calcestruzzo, con un ampio parcheggio. Dopo aver posteggiato, si avviò verso la facciata dell'edificio e salì i gradini che portavano a un'ampia veranda che circondava la casa. La porta era aperta ed entrò nell'atrio. La prima impressione fu che l'interno fosse tranquillo come una biblioteca medievale, con canti gregoriani smorzati in sottofondo. Gli sarebbe venuto da dire che era austero come un'impresa di pompe funebri ma, dal momento che lo era, si sentì costretto a inventare qualcos'altro. Alla sua sinistra c'era la sala d'esposizione dei feretri con le bare aperte che esibivano interni in velluto o satin. Avevano tutte nomi confortanti, come Eterna Beatitudine, ma prezzi da capogiro. Alla sua destra, la camera ardente, al momento vuota. File di sedie pieghevoli di fronte a un palco con un catafalco vuoto. Nell'aria aleggiava odore di incenso come in un negozio indiano. Incerto su dove cercare un essere umano vivo, Jack stava per avviarsi quando come per magia ne apparve uno. «Posso esserle d'aiuto?» chiese un uomo con una voce appena udibile. Era esile e austero nel suo vestito nero, camicia bianca e cravatta nera. Con un volto cadaverico, sembrava un candidato ai servizi della ditta. Aveva i capelli fini, corti e tinti, impomatati. Dovette reprimere un sorriso. Era la personificazione dello stereotipo dell'impiegato di un'impresa di onoranze funebri. Era come se fosse stato chiamato dal casting per una parte in un film macabro. Nel suo ruolo di patologo, Jack aveva conosciuto molti dipendenti di imprese funebri, e nessuno assomigliava all'uomo che aveva di fronte. «Posso esserle d'aiuto?» ripeté l'uomo un po' più forte, ma sempre sussurrando malgrado non ci fosse nessuno, nemmeno un morto, da disturbare. Postura rigida e controllata, le mani piamente giunte sull'addome e i gomiti stretti al corpo. Le uniche cose che si muovevano erano le labbra sottili. Sembrava che neppure battesse le palpebre. «Sto cercando l'impresario di pompe funebri.» «Al suo servizio. Sono Harold Langley. Siamo un'azienda a conduzione famigliare.»
«Sono un patologo legale», si presentò Jack. Gli mostrò il tesserino ufficiale tanto rapidamente da essere sicuro che non notasse che non era del Massachusetts. Harold s'irrigidì come se Jack fosse un inviato del dipartimento per le licenze professionali. Sospettoso di natura, trovò strana la sua reazione, ma continuò: «Vi siete occupati voi di Patience Stanhope, passata a miglior vita il settembre scorso?» «Sì, me ne ricordo bene. Ci siamo occupati anche del signor Stanhope, un uomo molto in vista nella comunità. E anche dell'unico figlio, temo.» «Oh!» bofonchiò Jack in risposta all'informazione che non aveva cercato. La memorizzò. «Sono sorte delle controversie riguardanti la morte della signora Stanhope e si sta pensando a un'esumazione e a un'autopsia. L'impresa funebre Langley-Peerson ha qualche esperienza in proposito?» «Sì, ma capitano di rado», rispose Harold riprendendo il suo fare cerimonioso e controllato. A quanto pareva non considerava più Jack una possibile minaccia. «Possiede tutti i documenti necessari?» «No. Speravo che lei potesse aiutarmi in questo.» «Certo. Quello di cui abbiamo bisogno è un permesso di esumazione, uno di trasporto, uno di risepoltura e, il più importante, il permesso firmato dall'attuale signor Stanhope come parente prossimo. È il parente prossimo che deve dare l'autorizzazione.» «Così mi hanno riferito. Ha qui i moduli necessari?» «Sì, credo di sì. La prego, mi segua.» Harold fece strada attraverso un passaggio ad arco verso la scala principale, poi svoltò a sinistra in un corridoio oscuro e ricoperto da un'alta moquette. Ora comprese come Harold fosse riuscito a fare la sua comparsa in assoluto silenzio. «Ha detto che il defunto signor Stanhope era una persona importante nella comunità. Come mai?» «Ha fondato l'agenzia di assicurazioni Stanhope di Boston, che ha avuto grande successo. Il signor Stanhope era un uomo ricco e un filantropo, una cosa rara qui a Brighton, che è una comunità di operai.» «E anche il signor Jordan Stanhope è un uomo ricco.» «Certamente», esclamò Harold facendo entrare Jack in un ufficio altrettanto austero. «La storia dell'attuale signor Stanhope è una meravigliosa favola a lieto fine. Si chiamava Stanislaw Jordan Jaruzelski ed era un ragazzo di una famiglia di operai immigranti che aveva iniziato a lavorare nell'agenzia appena terminato il liceo. Era un giovane brillante anche se non aveva frequentato il college ed era riuscito a ottenere, grazie al suo
impegno, una posizione nell'amministrazione. Quando il vecchio morì, sposò la vedova, suscitando ipotesi scandalose. Ne assunse addirittura il cognome.» Sebbene all'esterno splendesse un caldo sole di giugno, l'ufficio di Harold era tanto buio che dovette accendere una lampada da scrittorio e una a stelo. Le finestre erano coperte da pesanti tende in velluto verde scuro. Dopo avere concluso la saga dell'attuale signor Stanhope, Harold si avvicinò a uno schedario di mogano a quattro cassetti. Dal primo prese una cartelletta ed estrasse tre fogli; ne porse uno a Jack e appoggiò gli altri due sulla scrivania. Fece segno a Jack di accomodarsi in una delle poltroncine in velluto di fronte alla scrivania prima di sedersi nella sua dallo schienale rigido. «Le ho dato il modulo per il permesso per l'esumazione», spiegò Harold. «C'è lo spazio per la firma del signor Stanhope, per l'autorizzazione.» Jack diede un'occhiata al foglio mentre si sedeva. Ottenere la firma sarebbe stato ovviamente il punto chiave, ma per il momento non aveva intenzione di preoccuparsene. «Chi riempirà il resto dopo che il signor Stanhope avrà firmato?» «Lo farò io. Quanto tempo ha a disposizione?» «Se si procede, dovrà essere immediatamente.» «Allora farà bene a farmelo avere rapidamente, dovrò prendere accordi per far arrivare il furgone e un escavatore.» «Si potrà eseguire l'autopsia qui?» «Sì, nella stanza dell'imbalsamazione, ma dovrà adattarsi ai nostri programmi e purtroppo temo che non abbiamo tutti gli strumenti necessari. Per esempio, non abbiamo una sega.» «Per quello non c'è problema, posso ottenere gli strumenti.» Era stupito: Harold, benché strano, era informato ed efficiente. «Devo avvisarla che sarà oneroso.» «Quanto?» «Ci saranno i costi dell'escavatore, le parcelle del cimitero e deve considerare le spese che sosterremo noi per ottenere i permessi, più la supervisione e l'uso della camera.» «Mi può dare una cifra approssimativa?» «Parecchie migliaia di dollari.» Jack sgranò gli occhi come se ritenesse alta quella cifra, mentre in realtà non lo pensava affatto. Si alzò. «Ha un numero di telefono per contattarla fuori orario?»
«Le darò il numero del mio cellulare.» «Fantastico. Un'altra cosa: conosce l'indirizzo di casa Stanhope?» «Naturalmente. Tutti conoscono quella casa, è un punto di riferimento a Brighton.» Pochi minuti dopo Jack era di nuovo nella sua automobile e rifletteva sulla mossa successiva. Erano appena passate le due del pomeriggio. Tornare in tribunale non lo entusiasmava. Era sempre stato più un uomo d'azione che uno spettatore. Individuò il Newton Memorial Hospital sulla piantina e studiò il percorso. L'ospedale assomigliava a quasi tutti gli ospedali di periferia che aveva visto. Era un disorientante guazzabuglio di ali aggiunte nel corso degli anni. La parte più vecchia presentava particolari tipici del suo periodo, mentre le strutture nuove erano più semplici. L'ultimo annesso era una struttura in mattoni e vetro color bronzo senza alcun abbellimento. Posteggiò nel settore dei visitatori, in uno spazio che finiva in un terreno con un piccolo stagno, sulla cui superficie galleggiava immobile uno stormo di anatre come un gruppo di uccelli da richiamo in legno. Consultò il grosso dossier e memorizzò i nomi delle persone con cui voleva parlare: Matt Gilbert, il medico del pronto soccorso; Georgina O'Keefe, l'infermiera del pronto soccorso; e Noelle Everette, la capo cardiologa. Tutti e tre erano sulla lista dei testimoni del querelante e tutti e tre erano stati destituiti dalla difesa. Ciò che preoccupava Jack era la questione della cianosi. Invece di avviarsi verso l'entrata dell'ospedale, andò al pronto soccorso. La zona delle ambulanze era vuota. Da un lato c'era una porta a vetri scorrevole che si apriva automaticamente. Entrò e si avvicinò subito al banco dell'accettazione. Era arrivato al momento giusto: nella sala d'attesa c'erano solo tre persone e nessuna sembrava malata o ferita in modo grave. L'infermiera al banco, tuta e stetoscopio al collo, alzò gli occhi nel sentirlo avvicinarsi. Stava leggendo il giornale. «La quiete prima della tempesta», scherzò Jack. «Qualcosa di simile. Che cosa posso fare per lei?» Jack snocciolò la sua storia e le mostrò rapidamente la tessera di patologo. Chiese di Matt e di Georgina, usando di proposito i nomi propri per indicare familiarità. «Non sono qui», lo avvertì l'infermiera. «Fanno il turno serale.» «Quando inizia?» «Alle quindici.»
Jack guardò l'orologio. Mancava poco. «Allora saranno qui a breve.» «Faranno bene a esserci!» dichiarò l'infermiera in tono serio, ma con un sorriso che indicava che stava scherzando. «Che mi dice della dottoressa Noelle Everette?» «Sono sicura che è qui da qualche parte. Vuole che la chiami sul cercapersone?» «Mi sarebbe utile.» Tornò in sala d'attesa dove tentò di guardare negli occhi qualcuno, ma senza risultato. Notò una vecchia copia del National Geographic che non raccolse. Si mise invece a riflettere sulla trasformazione di Stanislaw Jordan Jaruzelski in Jordan Stanhope, quindi rimuginò su come convincere il vedovo a firmare il permesso di esumazione. Gli sembrava impossibile, come scalare l'Everest senza ossigeno e senza vestiti. Sorrise all'idea di una coppia di scalatori a culo nudo che se ne stavano trionfanti sulla cima rocciosa. Nulla è impossibile, ricordò a se stesso. Sentì chiamare il nome della dottoressa Noelle Everette. Cinque minuti dopo l'infermiera in servizio al pronto soccorso lo richiamò al banco dell'accettazione per avvisarlo che la dottoressa era in radiologia e che l'avrebbe incontrato volentieri. Gli indicò la strada. La cardiologa era intenta a leggere ad alta voce e a registrare angiocardiogrammi. Era seduta in una stanzetta con una parete interamente ricoperta di radiografie su un nastro trasportatore mobile. L'unica luce proveniva da dietro le lastre e la investiva di un blu-biancastro, simile alla luce lunare ma più splendente, che le dava l'aspetto di un fantasma anche grazie al camice bianco. Jack immaginò di avere anche lui quell'aspetto spettrale. Fu sincero: le spiegò chi era e il motivo per cui era collegato alla causa. «Io sarò una testimone del querelante», lo avvertì Noelle con uguale sincerità. «Dichiarerò che quando la paziente è arrivata al pronto soccorso non c'era più alcuna possibilità di rianimarla e che mi sono indignata, sapendo che c'era stato un ritardo evitabile. Alcuni di noi della vecchia guardia, che curano tutti e non solo quelli che pagano in anticipo, ce l'hanno con i colleghi che curano solo su abbonamento. Siamo convinti che agiscano nel loro interesse invece di pensare ai bisogni del malato, come sostengono e come richiede la vera professionalità.» «Quindi lei testimonia perché il dottor Bowman pratica la concierge medicine?» domandò. La reazione emotiva della cardiologa l'aveva colto di sorpresa. «Assolutamente no», si difese Noelle. «Testimonio perché la paziente è
stata portata in ospedale in ritardo. Tutti sanno che in caso di infarto del miocardio è di vitale importanza iniziare un trattamento fibrinolitico e di riperfusione il più presto possibile. Se il mio parere rivela anche cosa penso della concierge medicine, tanto meglio.» «Io rispetto la sua posizione, dottoressa Everette, e non sono qui per tentare di convincerla a cambiare idea, mi creda. Sono qui per porle domande sul livello di cianosi della paziente. C'è qualcosa che ricorda in modo particolare?» Noelle si calmò. «In modo particolare non direi, dal momento che la cianosi è un segno che si vede di frequente nei casi di grave malattia cardiaca.» «L'infermiera del pronto soccorso ha annotato che la paziente aveva una cianosi centrale. Voglio dire, ha specificato che si trattava di cianosi centrale.» «Quando la paziente è giunta qui, era vicina alla morte, con le pupille dilatate, il corpo completamente flaccido e una pronunciata brachicardia con blocco atrioventricolare completo. Non era più possibile stabilizzare il cuore esternamente. La morte era alle porte. La cianosi era solo un particolare dell'intero quadro.» «La ringrazio per avermi ricevuto.» Si alzò. «Prego», rispose Noelle. Tornò al pronto soccorso più pessimista. La dottoressa Everette sarebbe stata una testimone esperta fantastica per il querelante, non solo per la sua qualifica, ma anche perché sapeva esprimersi con chiarezza, era un medico consacrato alla sua missione ed era stata direttamente coinvolta nel caso. «I tempi sono cambiati», borbottò Jack, pensando che una volta era difficile trovare un medico disposto a testimoniare contro un collega. Aveva l'impressione che Noelle fosse ansiosa di testimoniare e che, a dispetto di ciò che aveva detto, parte della sua motivazione fosse l'antipatia verso la concierge medicine. Il turno era cambiato, ma sebbene l'ambiente fosse ancora tranquillo, dovette attendere per parlare con l'infermiera e il dottore che si stavano aggiornando sui pazienti in attesa dei risultati degli esami o dell'arrivo dei loro medici curanti. Erano quasi le quindici e trenta quando poté finalmente sedersi con loro nel salottino del personale dietro il banco dell'accettazione. Erano entrambi giovani, sulla trentina. Ripeté le cose che aveva detto a Noelle, ma la loro reazione fu molto meno emotiva e critica. Georgina, nel suo modo di fare effervescente, con-
fessò di essere rimasta colpita da Craig. «Voglio dire, quanti medici arriverebbero al pronto soccorso in ambulanza con il paziente? Glielo posso garantire, pochissimi. Il fatto che sia stato citato in giudizio è una farsa. Dimostra quanto poco funzioni il sistema quando medici come il dottor Bowman cadono in imboscate tese da avvocatucoli come quel... non ricordo il nome, a caccia di casi.» «Tony Fasano.» Gli piacque ascoltare qualcuno che condivideva la sua opinione, pur chiedendosi se Georgina fosse a conoscenza della parte mondana della storia, dal momento che Leona era venuta al pronto soccorso quella sera. «Giusto, Fasano. Quando è venuto qui la prima volta a ficcanasare, ho pensato che fosse la comparsa di un film di gangster. Davvero. Voglio dire, non mi sembrava vero. Ha sul serio frequentato giurisprudenza?» Jack alzò le spalle. «Non Harvard di certo. In ogni caso non so perché mi voglia come testimone. Gli ho detto esattamente cosa pensavo del dottor Bowman. E cioè che ha fatto un ottimo lavoro. Aveva con sé addirittura un apparecchio per l'elettrocardiogramma portatile e aveva già fatto il test dei marcatori biochimici prima di arrivare qui.» Jack annuì, l'aveva letto nella sua deposizione. Appena smise di parlare, chiese: «Con voi volevo parlare della cianosi». «Che cosa voleva sapere?» chiese il dottor Matt Gilbert, aprendo la bocca per la prima volta. La sua pacata personalità era schiacciata dalla vivacità di Georgina. «Sciocco, ricordi la cianosi», s'intromise lei, dando a Matt una scherzosa pacca sulla spalla, prima che Jack potesse rispondere. «Era blu come una laguna blu, quando l'hanno portata qui.» «Non credo che le lagune e i colori abbiano qualcosa a che vedere con la paziente», ribatté Matt. «Ah, no?» domandò Georgina. «Be', secondo me, sì.» «Ricorda la cianosi?» chiese Jack a Matt. «Vagamente, ma il suo stato generale aveva la meglio su tutto il resto.» Si rivolse a Georgina: «Nei suoi appunti l'ha descritta come cianosi centrale. L'ha scritto per un motivo specifico?» «Naturalmente! Era completamente blu, non solo le dita o le gambe. Tutto il corpo era blu finché non le hanno dato ossigeno con il respiratore e hanno cominciato a praticarle un massaggio cardiaco.» «Quale pensa fosse stata la causa? Pensa si sia trattato di un foro nel set-
to interatriale o di un grave edema polmonare?» «Non so nulla di uno shunt», rispose Matt, «ma di certo non c'era alcun edema polmonare. I polmoni erano liberi.» «Una cosa la ricordo», lo interruppe Georgina. «Era completamente flaccida. Quando ho fatto partire un'altra flebo, il suo braccio era come quello di una bambola di pezza.» «Secondo la sua esperienza, è strano?» chiese Jack. «Sì», rispose lei, guardando Matt per avere conferma. «Di solito c'è una certa resistenza. Immagino vari a seconda del livello di coscienza.» «Uno di voi due ha notato emorragie petecchiali negli occhi, o qualche altro segno strano sul suo viso o sul collo?» Georgina scrollò la testa. «Io no.» Lanciò un'occhiata al collega. «Ero troppo preoccupato per lo stato generale per notare simili dettagli», ammise Matt. «Come mai questa domanda?» chiese Georgina. «Io sono un patologo forense. Sono addestrato al cinismo. In ogni morte improvvisa con cianosi bisogna prendere in considerazione il soffocamento o lo strangolamento.» «Questo sì che è un nuovo punto di vista!» esclamò Georgina. «Un test dei biomarcatori ha confermato l'attacco di cuore», ribatté Matt. «Non sto mettendo in dubbio l'infarto del miocardio. Mi interesserebbe tuttavia sapere se è stato provocato da qualcosa di diverso da un processo naturale. Vi faccio un esempio. Una volta mi è capitato il caso di una donna di qualche anno più vecchia della signora Stanhope, che aveva avuto un attacco di cuore immediatamente dopo essere stata derubata sotto la minaccia di una pistola. Fu semplice dimostrare una connessione temporale e ora il ladro è rinchiuso nel braccio della morte.» «Perbacco!» esclamò Georgina. Dopo avere dato a entrambi un biglietto da visita che riportava anche il numero del cellulare, tornò alla sua auto. Erano appena passate le sedici. Salì e rimase seduto per un po' a fissare il laghetto. Ripensò alle sue conversazioni con il personale dell'ospedale e al fatto che le parole di Noelle e di Georgina, una a favore, l'altra completamente contro, avrebbero pareggiato i conti. Il guaio era che Noelle avrebbe testimoniato, mentre Georgina no, non essendo tra i testi per la difesa. Oltre a questo non aveva appreso niente di nuovo, o era troppo stupido per essersene reso conto. Una cosa era certa: tutte quelle persone gli erano piaciute e ne era rimasto colpito e, se avesse avuto un incidente e fosse stato portato lì, si sarebbe sentito in
buone mani. Pensò a cosa fare. Sarebbe voluto tornare a casa Bowman, indossare tuta e scarpe da ginnastica e fare una partita con David Thomas, l'amico di Warren. Realisticamente parlando, sapeva che, per dare il suo contributo alla causa eseguendo l'autopsia, avrebbe dovuto affrontare Jordan Stanhope e indurlo a firmare il permesso per l'esumazione. Il problema era come riuscirci, se non procurandosi una pistola e puntandogliela alla tempia. Jack non riuscì a immaginare un altro stratagemma sensato e alla fine decise di improvvisare tentando di fare appello al senso di giustizia ed equità dell'uomo. Prese l'appunto che gli aveva dato Harold Langley con il suo numero di cellulare e l'indirizzo di Jordan Stanhope. Tenendolo in equilibrio sul volante, aprì la sua fedele cartina e si mise a cercare la strada. Con un po' di pazienza la localizzò dalle parti del Chestnut Hill Country Club. Presumendo che la corte avesse sospeso l'udienza attorno alle quindici e trenta o le sedici, pensò che quel momento era giusto come un altro per andare a fargli visita. Non sapeva se sarebbe riuscito a parlargli, ma tentare non avrebbe nuociuto a nessuno. Guidò per una mezz'ora nell'esasperante intrico di tortuose vie prima di trovare la casa. Che Jordan Stanhope fosse ricco lo si vedeva subito. La casa era enorme, attorniata da un grande prato con alberi e siepi ben potate e aiuole fiorite. Nel vialetto d'accesso circolare di fronte alla casa era parcheggiata una splendente e fiammante Bentley coupé blu scuro. Attraverso gli alberi alla destra dell'edificio principale si vedeva un garage a tre posti con rimessa. Accostò la Hyundai accanto alla sua controparte oscenamente costosa. Scese dalla sua auto e si avvicinò. Doveva assolutamente guardare dentro quella macchina, e attribuì il suo imprevisto interesse a un gene finora inespresso nel suo cromosoma Y. I finestrini erano abbassati e il profumo della pelle lussuosa lo inondò. Era chiaramente nuova di zecca. Dopo essersi assicurato che nessuno lo stesse osservando, infilò la testa nel finestrino del guidatore. Il pannello di controllo era di una semplice e ricca eleganza. Poi notò le chiavi inserite nel cruscotto. Fece un passo indietro. Pur pensando che spendere la cifra che immaginava costasse fosse il massimo del ridicolo, le chiavi a disposizione schiusero la fugace ma piacevole fantasia di volare con Laurie al suo fianco lungo una strada panoramica. Era un sogno a occhi aperti che gli portò alla mente quello ricorrente di volare che faceva da giovane. Quella fantasticheria si dissolse rapidamente lasciando
il posto a un certo imbarazzo per avere desiderato la macchina di un altro, anche se solo per un'immaginaria scorribanda. Aggirò la Bentley e si avvicinò all'ingresso. La sua reazione all'automobile l'aveva sorpreso per più motivi, il più importante riguardava l'idea di divertirsi. Anche molti anni dopo l'incidente aereo, lo svago gli suscitava sensi di colpa per essere l'unico sopravvissuto della sua famiglia. Aver preso in considerazione quella possibilità indicava che stava facendo notevoli progressi verso la ripresa. Dopo aver suonato il campanello, si voltò nuovamente a guardare la Bentley. Aveva riflettuto su ciò che quell'auto significava per lui, ora invece rifletté su ciò che rivelava di Jordan Stanhope o Stanislaw Jordan Jaruzelski. Quell'uomo si godeva sul serio la sua nuova ricchezza. Nel sentire aprirsi la porta, Jack riportò la sua attenzione alla situazione in cui si trovava. Nella tasca interna della giacca teneva il permesso di esumazione privo di firma che frusciò quando lui sollevò la mano per ripararsi gli occhi. Il sole del tardo pomeriggio, che si rifletteva dal batacchio in lucido ottone, l'aveva momentaneamente accecato. «Sì?» chiese Jordan. Malgrado la luce abbagliante, notò che lo stava guardando con sospetto. Jack indossava i soliti jeans, una camicia azzurra, una cravatta a maglia e una leggera giacca estiva che non era stata lavata né stirata da più tempo di quanto desiderasse ammettere. Jordan indossava invece un'elegante giacca da camera con una cravatta. Da dietro la sua silhouette si diffondeva l'aria fredda e secca di un condizionatore, sebbene fuori la temperatura fosse mite. «Sono il dottor Stapleton», si presentò Jack. Con l'improvvisa decisione di offrire una spiegazione quasi ufficiale alla sua visita, Jack estrasse il portafogli con il tesserino di medico legale e glielo mostrò per un attimo. «Sono un patologo e vorrei rubarle un po' del suo tempo.» «Mi faccia vedere», lo fermò Jordan, sorprendendo Jack che stava per rimettere portafogli e distintivo in tasca: raramente la gente chiedeva di esaminare le sue credenziali ufficiali. «New York?» domandò, lanciandogli un'occhiata. «Non è un po' lontano da casa?» All'orecchio di Jack, Jordan parlava con una falsa cantilena che associava ai ricchi college del New England. Nuovamente sorpreso, sentì Jordan bloccargli la mano mentre esaminava il distintivo. Le dita ben curate erano fredde. «Prendo il mio lavoro sul serio», ribatté Jack, assumendo un tono sarcastico di difesa.
«E quale lavoro la porta da New York alla nostra umile casa?» Jack non riuscì a reprimere un sorriso. Quel commento indicava che Jordan aveva un senso dell'umorismo simile al suo. La casa era tutt'altro che umile. «Chi è, Jordie?» gridò dalle fresche profondità della casa una voce cristallina. «Ancora non lo so di preciso, mia cara», rispose lui senza girarsi. «È un medico di New York.» «Mi è stato chiesto di dare una mano nella causa legale in cui è attualmente coinvolto», ammise Jack. «Davvero?» chiese Jordan con un pizzico di meraviglia. «E in che modo intende aiutare?» Prima che potesse rispondere, un'attraente giovane donna con occhi da cerbiatta e almeno la metà degli anni del padrone di casa comparve alle spalle di Stanhope e lo fissò. Aveva fatto scivolare un braccio attorno al collo di Jordan e l'altro attorno alla sua vita. Sorrise piacevolmente, mostrando denti perfetti e bianchissimi. «Perché te ne stai qui in piedi? Invita il dottore a entrare! Può prendere una tazza di tè con noi.» Jordan seguì il suo consiglio, si scostò e guidò Jack in un lungo viaggio attraverso l'atrio centrale e un lussuoso soggiorno fino a una serra sul retro della casa. Con tetto e tre lati in vetro, la stanza diede a Jack l'impressione di essere di nuovo all'aperto, nel giardino. Sebbene avesse inizialmente pensato che tè fosse un eufemismo per cocktail, si sbagliava. Sprofondato in un'enorme e bianca sedia di vimini con cuscini in chintz color pastello, gli vennero serviti tè, panna montata e biscotti da una donna riservata che indossava una divisa da cameriera e che scomparve rapidamente. Jordan e la sua amichetta, Charlene McKenna, si erano accomodati di fronte a lui su un divano che faceva il paio con la sua poltrona. Tra lui e i suoi ospiti c'era un basso tavolino in vetro su cui erano appoggiati il servizio da tè in argento e i dolcetti. Charlene non riusciva a tenere le mani lontane da Jordan, che si comportava come se non fosse consapevole delle sue manifestazioni d'affetto. La conversazione spaziò all'inizio liberamente, prima di focalizzarsi sui loro programmi per l'estate, che includevano una crociera lungo la costa della Dalmazia. Il fatto che la coppia fosse disposta a sostenere l'intera chiacchierata lo meravigliò. Era evidente che avevano voglia di parlare, visto che dopo aver riferito loro da dove veniva e che al momento era ospite della sorella a Newton, rimase per lo più a osservarli affascinato. Aveva sentito che Jor-
dan se la stava godendo e che a quanto pareva lo aveva fatto praticamente dal giorno in cui la moglie era morta. C'era stato poco tempo per il lutto, visto che Charlene si era trasferita a casa sua alcune settimane dopo il funerale. La Bentley nel vialetto d'accesso era stata acquistata da un mese e la coppia aveva trascorso parte dell'inverno ai Caraibi. Tutto ciò lo insospettì e gli fece pensare che nella morte di Patience ci fosse qualcosa di poco chiaro: l'idea dell'autopsia gli sembrava sempre più azzeccata e necessaria. Pensò di tornare all'istituto di medicina legale di Boston con i suoi sospetti, anche se circostanziali, per vedere se sarebbero stati disposti a chiedere al procuratore distrettuale di andare da un giudice per farsi rilasciare un'ordinanza di esumazione, perché Jordan non avrebbe mai acconsentito, se fosse stato in qualche modo responsabile della morte di Patience. Ma più a lungo Jordan parlava, più era chiaro che stava interpretando il ruolo di un gentiluomo aristocratico e acculturato, meno Jack era sicuro della sua reazione a un'autopsia. C'erano stati casi criminali in cui gli esecutori si erano ritenuti tanto intelligenti da avere aiutato attivamente la polizia solo per dimostrare quanto erano furbi. Jordan, con la sua simulazione, sarebbe potuto rientrare in quella categoria e accettare un'autopsia per rendere la partita molto più eccitante. Scosse la testa. Stava facendo correre la fantasia. «Non è d'accordo?» s'informò Jordan, avendo notato il movimento della testa. «No, voglio dire, sì», balbettò Jack, incespicando sulle parole. In verità non aveva seguito la conversazione. «Dicevo che il momento migliore per andare sulla costa dalmata è l'autunno e non l'estate. Non lo crede anche lei?» «È vero», ammise Jack. «Senza alcun dubbio.» Rabbonito, Jordan riprese a parlare, con Charlene che approvava risoluta. Jack tornò alle sue meditazioni e riconobbe che la probabilità che la morte di Patience dipendesse da un atto criminale era infinitamente piccola. La causa principale del decesso era stato l'attacco cardiaco e il coinvolgimento di troppi abili medici, compreso suo cognato. Craig non era di certo la persona che Jack preferiva, soprattutto come marito di sua sorella, ma era uno dei medici più informati e perspicaci che avesse mai conosciuto. Era impossibile che Jordan fosse riuscito a raggirare un gruppo di professionisti facendo sì che sua moglie avesse un infarto. Questo suo ragionamento lo riportò al punto di partenza. L'istituto di
medicina legale non avrebbe potuto fargli avere il permesso per l'esumazione e l'autopsia e così avrebbe dovuto pensarci lui. In questo caso, il fatto che Jordan amasse presentarsi come appartenente all'élite bostoniana gli sarebbe potuto essere utile. Avrebbe potuto fare appello al suo animo di gentiluomo, dato che i veri signori hanno il dovere di dare il buon esempio assicurandosi che vinca la giustizia. Non una grande idea, ma era tutto ciò che gli era venuto in mente. Mentre Jordan e Charlene discutevano su quale fosse il miglior periodo dell'anno per visitare Venezia, Jack appoggiò tazza e piattino e prese da una tasca della giacca un biglietto da visita. Appena la conversazione s'interruppe per un attimo, si chinò in avanti e con il pollice fece scivolare il biglietto sul ripiano in vetro del tavolino. «Vediamo un po'! Che abbiamo qui?» chiese Jordan, cogliendo immediatamente la palla al balzo. Lanciò un'occhiata al biglietto prima di prenderlo per esaminarlo da vicino. Charlene glielo tolse di mano e lo studiò. «Che cosa è un patologo legale?» chiese. «È un coroner», spiegò Jordan. «Non esattamente», intervenne Jack. «Storicamente, un coroner è un funzionario eletto o incaricato che deve indagare sulle cause della morte e può avere o non avere uno specifico addestramento. Un patologo legale è un medico che si è specializzato in patologia forense.» «Ammetto d'aver sbagliato», esclamò Jordan. «Lei stava per dirmi in che modo intende aiutare nel processo ma, a dire il vero, trovo il tutto piuttosto noioso.» «Come mai?» «Pensavo che sarebbe stato emozionante, come assistere a un incontro di boxe. Invece è tedioso, come guardare due persone che discutono.» «Io potrei rendere il processo molto più interessante», azzardò, afferrando l'opportunità che l'inattesa opinione di Jordan sul processo gli aveva offerto. «Si spieghi meglio.» «Mi piace la similitudine che ha fatto tra il processo e il pugilato, ma il motivo per cui l'incontro non è interessante dipende dal fatto che ai due pugili sono stati bendati gli occhi.» «Divertente: due pugili che, non vedendosi, agitano scompostamente le braccia.» «Appunto. E non vedono, perché non hanno tutte le informazioni necessarie.»
«Di che cosa hanno bisogno?» «Stanno discutendo sulle cure di Patience Stanhope senza che Patience possa raccontare la sua parte della storia.» «E che storia racconterebbe, se potesse farlo?» «Non lo possiamo sapere, finché non glielo chiederò.» «Non capisco di che cosa state parlando», si lamentò Charlene. «Patience è morta e sepolta.» «Credo stia parlando di fare un'autopsia.» «È proprio di questo che sto parlando.» «Intende dire disseppellirla?» chiese costernata Charlene. «Bleah!» «Non è tanto insolito», ammise Jack. «È passato meno di un anno. Posso garantire che dall'autopsia si apprenderà qualcosa e che l'incontro di boxe, come lo chiama lei, avverrà alla luce del sole e sarà molto più emozionante.» «Si apprenderà cosa?» volle sapere Jordan, che si era fatto serio e meditabondo. «Per esempio, quale porzione del suo cuore è rimasta coinvolta nell'infarto, come si è sviluppato, se esistevano condizioni preesistenti. Solo quando si conosceranno questi punti si potrà affrontare la questione della responsabilità del medico.» Jordan si mordicchiò il labbro inferiore mentre rifletteva sulle parole del medico legale. Jack si sentì incoraggiato. Sapeva che era un'impresa difficile, ma Jordan non aveva rigettato l'idea. Forse non si rendeva conto che l'autorizzazione all'esumazione spettava a lui. «Perché si offre di farlo?» chiese Jordan. «Chi la paga?» «Non mi paga nessuno. Posso sinceramente dirle che voglio solo vedere vincere la giustizia. Nello stesso tempo, c'è un conflitto d'interessi. Mia sorella è sposata con l'imputato, il dottor Craig Bowman.» Jack osservò attentamente il viso di Jordan per capire se si stava arrabbiando o irritando, ma l'uomo sembrava solo rimuginare sulle sue parole senza alcuna emozione. «Anch'io sono per la giustizia!» concluse infine Jordan, abbandonando per un attimo il suo aplomb. «Ma non credo che lei possa essere completamente obiettivo.» «Giusto», ammise Jack. «Ma se facessi l'autopsia, conserverei tutti i campioni per farli riesaminare da un perito di parte. Potrei anche farmi assistere da un patologo legale estraneo alla vicenda.»
«Come mai non è stata fatta subito?» «Non tutti i decessi richiedono un'autopsia. Se ci fosse stato qualche dubbio sulla causa della morte, l'istituto di medicina legale l'avrebbe ordinata. Al tempo, non erano sorti dubbi. Patience aveva avuto un attacco di cuore documentato ed era seguita da un medico. Se l'azione legale fosse stata intrapresa subito, sarebbe stata fatta.» «Non avevo pianificato di fare causa, anche se, per essere sincero, devo ammettere che suo cognato quella sera mi ha irritato. È stato arrogante e mi ha accusato di non avergli comunicato in modo adeguato lo stato di Patience quando l'avevo pregato di farla portare direttamente in ospedale.» Jack annuì. Aveva letto questo particolare nelle deposizioni sia di Jordan sia di Craig e non aveva intenzione di farsi coinvolgere. Sapeva che l'origine di molte cause per negligenza coinvolgeva la scarsa comunicazione da parte del medico o dei suoi assistenti. «In realtà, non avevo avuto alcuna intenzione di far causa a suo cognato, fin quando mi ha contattato il signor Tony Fasano.» Jack tese le orecchie. «È stato l'avvocato a cercarla e non viceversa?» «Proprio così. Come ha fatto anche lei. È venuto alla mia porta e ha suonato il campanello.» «E l'ha convinta a intentare la causa?» «Sì, e con la sua stessa giustificazione: giustizia. Ha detto che era mia responsabilità far sì che la gente venisse difesa da medici come il dottor Bowman e da ciò che ha chiamato iniquità e ineguaglianza della concierge medicine.» Mio Dio. La dabbenaggine di Jordan di fronte alla truffa di un avvocato di quart'ordine minò l'opinione che si era fatto di lui e dovette ricordare a se stesso che quell'uomo era un impostore, un ricco impostore, ma pur sempre un impostore che aveva fatto un matrimonio d'interesse. Poste le fondamenta, decise che era giunta l'ora di attaccare e andarsene. Infilò la mano in tasca, tirò fuori il permesso per l'esumazione e lo mise sul tavolo davanti a Jordan. «Affinché io possa eseguire l'autopsia, dovrebbe firmare questa autorizzazione. Mi occuperò io di tutto il resto.» «Che documento è?» chiese, riprendendo l'accento impostato. Si chinò e gli diede un'occhiata. «Non sono un avvocato.» «È solo un modulo di routine», rispose. Gli vennero in mente molte battute sarcastiche, ma si trattenne. La reazione di Jordan lo colse in contropiede. Invece di porre altre domande, infilò la mano nella tasca della giacca, ma non per estrarre una
penna. Tirò fuori un cellulare e premette un tasto della chiamata rapida. Poi, mentre aspettava la risposta, fissò Jack. «Avvocato», esordì Jordan, fissando il giardino. «Un patologo legale di New York mi ha presentato un modulo che potrebbe influenzare il processo. Serve per autorizzare l'esumazione di Patience per un'autopsia. Voglio che venga a esaminarlo prima che vi apponga la mia firma.» Da dove era seduto, ad almeno tre metri di distanza, Jack udì la risposta di Fasano. Non poté comprendere le parole, ma il tono era più che chiaro. «D'accordo, d'accordo!» ripeté Jordan. «Non firmerò, finché non l'avrà esaminato lei. Ha la mia parola.» Chiuse il cellulare, poi fissò Jack. «Sta arrivando.» L'ultima cosa che Jack avrebbe voluto era coinvolgere gli avvocati. Come aveva detto ad Alexis il giorno prima, non amava gli avvocati, particolarmente quelli specializzati in lesioni personali. Dopo l'incidente aereo era stato perseguitato da avvocati che volevano indurlo a fare causa alla linea aerea. «Me ne vado», disse Jack, alzandosi in piedi. Non poteva evitare di pensare che con il coinvolgimento di Tony Fasano le probabilità di ottenere la firma per l'autorizzazione erano quasi nulle. «Sul biglietto da visita c'è il numero del mio cellulare, in caso volesse contattarmi dopo che il suo avvocato avrà controllato il modulo.» «No, voglio risolvere la faccenda ora», ribatté lui. «Se non lo faccio ora, non lo farò più, per cui si sieda! Il signor Fasano sarà qui in men che non si dica. Che ne dice di un cocktail? Sono passate le diciassette, è legale.» Sorrise alla sua trita battuta e si fregò le mani. Jack si accomodò nella poltrona in vimini, rassegnandosi alla conclusione della visita, quale che fosse. Jordan doveva avere un campanello nascosto, perché all'improvviso si materializzò la cameriera. Le chiese di preparare dei vodka martini e un piattino di olive. Come se nel frattempo non fosse successo nulla, l'uomo riprese la discussione sui programmi di viaggio con l'uomo. Jack rifiutò il martini. Proprio quando aveva raggiunto il limite della pazienza, un carillon di campane annunciò l'arrivo di qualcuno. Si sentì il rumore della porta che si apriva, seguito da voci smorzate. Pochi minuti dopo Tony Fasano irruppe nella stanza, seguito a poca distanza da un uomo vestito come lui, ma minacciosamente più grande. Jack si alzò subito in piedi, mentre il padrone di casa rimase seduto.
«Dov'è il modulo?» chiese Tony senza perdere tempo. Jordan lo indicò con la mano libera. Nell'altra reggeva il martini. Charlene era seduta tranquilla accanto a lui e giocherellava con i capelli sulla nuca di Jordan. L'avvocato afferrò il modulo e lo scorse rapidamente con gli occhi scuri. Mentre lo esaminava, Jack esaminò lui. A differenza dell'atteggiamento spensierato che teneva in aula, era irritato. Doveva avere tra i trentacinque e i quarant'anni. Aveva una faccia larga con lineamenti arrotondati e denti squadrati. Mani a clava con dita tozze. Jack rivolse lo sguardo al suo più imponente socio nell'identico completo grigio con camicia e cravatta nera che si era fermato nel vano della porta. Il fatto che Tony avesse ritenuto opportuno farsi accompagnare da quell'armadio, per una visita a un cliente, gli diede da pensare. «Che assurdità è questa?» chiese Tony, sventolando il foglio verso Jack. «Non chiamerei un modulo ufficiale un'assurdità», ribatté Jack. «È un permesso di esumazione.» «Chi è lei, un sicario della difesa?» «Assolutamente no.» «È il cognato del dottor Bowman», spiegò Jordan. «È in città, in casa della sorella, per assicurarsi che vinca la giustizia. Parole sue.» «Giustizia un corno!» bofonchiò l'avvocato. «Ha un bel coraggio a presentarsi qui a parlare con il mio cliente.» «Sbagliato! Sono stato invitato a entrare per prendere il tè.» «Ed è pure un fottuto spiritosone», sbottò Tony. «È vero. L'ho invitato io», sottolineò Jordan. «Abbiamo preso un tè prima dei martini.» «Sto tentando di preparare la strada per un'autopsia», continuò Jack. «Più informazioni sono disponibili, più probabilità ci sono che venga fatta giustizia. Qualcuno deve parlare a nome di Patience Stanhope.» «Non posso credere a questa stronzata», esclamò Tony, alzando le braccia per l'esasperazione. Poi fece un cenno al suo socio: «Franco, vieni qui e butta questo pezzo di merda fuori della casa del signor Stanhope». Ubbidiente, Franco entrò nella stanza. Afferrò il braccio di Jack al gomito, alzandogli così la spalla. Jack si chiese se valesse la pena resistergli, mentre l'omaccione usciva trascinandoselo dietro. Jordan sembrò sorpreso, ma non intervenne, mentre Tony si scusava e prometteva di occuparsi dell'intruso. Tenendolo stretto per il gomito, Franco attraversò il soggiorno e raggiunse l'atrio con lo scalone.
«Non possiamo parlarne da gentiluomini?» chiese Jack, iniziando a opporre resistenza. Non voleva passare alla forza fisica, anche se era stato provocato. Franco era come i giocatori di football dei tempi del college, dove la sua breve carriera sportiva era finita dopo avere sbattuto contro una massa di simili dimensioni. «Chiudi il becco!» scattò Franco senza neppure lanciargli un'occhiata. Si fermò sulla porta, l'aprì e lo spinse fuori, mollando la presa. Jack si sistemò la giacca e scese i due gradini che portavano nel vialetto. Posteggiata diagonalmente dietro la Bentley e la Hyundai c'era una grande Cadillac nera. Sembrava una casa galleggiante paragonata agli altri due veicoli. Jack stava avviandosi verso la sua auto con le chiavi in mano quando si fermò e si voltò. Il buonsenso gli diceva di salire in macchina e partire, ma la stessa area nel suo cromosoma Y che gli aveva fatto ammirare la Bentley lo faceva indignare per quella sommaria espulsione. Franco era uscito dalla casa e se ne stava in cima alla scala a gambe divaricate e braccia conserte. Sul suo viso deturpato dall'acne, un sorrisetto di scherno. Prima che uno dei due potesse aprire bocca, Tony si precipitò fuori, spingendo di lato Franco. Gli si avvicinò puntandogli l'indice in faccia. «Lasci che le spieghi come vanno le cose qui», ringhiò. «Ho impegnato almeno centomila dollari in questa causa e prevedo una remunerazione favolosa. Mi sta ascoltando? Non le permetterò di mandare tutto a monte. Sta procedendo tutto a meraviglia, perciò niente autopsia. Mi sono spiegato?» «Non capisco perché sia tanto sconvolto», ribatté Jack. «Potrebbe mettere al mio fianco un medico legale di sua fiducia.» Sapeva che la faccenda dell'autopsia era morta e sepolta, ma provava una certa soddisfazione a irritare Tony, i cui occhi, già sporgenti di natura, ora sembravano fuori delle orbite. Le vene ai lati della fronte pulsavano come vermi scuri. «Come devo dirglielo? Non voglio un'autopsia! La causa è perfetta così come è. Non occorrono, né desidero sorprese. Inchioderemo quell'arrogante medico e la sua medicina come merita.» «Mi sembra che abbia perso obiettività», osservò Jack, chiedendosi se avesse preso la faccenda come una crociata personale. Nella sua espressione c'era un accenno di fanatismo. Tony lanciò un'occhiata al suo tirapiedi. «Quest'uomo è incredibile. Sembra venga da un altro pianeta.» «A me sembra che lei abbia paura dei fatti.»
«Non ho paura dei fatti», gridò Tony. «Ne ho un sacco di fatti. Quella donna è morta per un attacco di cuore. Sarebbe dovuta essere ricoverata in ospedale un'ora prima e, se fosse andata così, non saremmo qui a parlarne. Basta così», sbuffò. Fece schioccare le dita per attirare l'attenzione di Franco. «Sbatti questo cretino nella sua macchina lontano dalla mia vista.» Franco scese i gradini tanto in fretta da far tintinnare le monetine in tasca. Aggirò Tony e tentò di dare uno spintone a Jack con le mani aperte, ma lui neppure barcollò. «Avevo intenzione di chiedervi se vi accordate la sera prima su come vestirvi... voglio dire, è carino.» Franco reagì con una rapidità che lo colse di sorpresa. Con la mano aperta lo schiaffeggiò con tanta forza che gli fischiarono le orecchie. Jack si riprese immediatamente e rese il favore con un colpo di uguale efficacia. Abituato a intimidire con la sua stazza, Franco fu stupito più di Jack di essere stato colpito. Appena alzò la mano per toccarsi il viso bruciante, Jack lo afferrò per le spalle e gli sferrò una ginocchiata nell'inguine. L'energumeno si piegò in due, cercando di riprendere fiato. Quando si rialzò, aveva in mano una pistola. «No!» lo fermò l'avvocato. Agguantò il braccio di Franco da dietro e glielo torse verso il basso. «Se ne vada!» gridò a Jack, trattenendo un infuriato Franco come un addestratore con un cane arrabbiato. «Se incasinerà la causa, sarà un uomo finito. Non ci sarà alcuna autopsia.» Jack indietreggiò fino a sbattere contro la sua auto. Non voleva distogliere gli occhi da Franco, che non si era raddrizzato del tutto e impugnava ancora la pistola. L'adrenalina che gli scorreva nelle vene gli aveva reso le gambe di gelatina. Montato in macchina, avviò il motore e mentre lanciava un'ultima occhiata a Tony e al suo socio, intravide nel vano della porta Jordan e Charlene. «Non ti sei liberato di me», gli urlò Franco, mentre si allontanava. Jack girò per le strade senza meta per più di un quarto d'ora, incapace di fermarsi. Non voleva che qualcuno lo seguisse o lo trovasse, in particolare una grande Cadillac nera. Sapeva di essersi comportato da stupido, rischiando e sfidando la sorte, come quando era caduto in depressione subito dopo l'incidente. Defluita l'adrenalina, si sentì svuotato, smarrito. Accostò all'ombra di una gigantesca quercia per orientarsi. Mentre guidava, si era baloccato nell'idea di lavarsene le mani, correre
all'aeroporto e tornare a New York. La pelle ardente della guancia sinistra era un argomento a favore, come la remota possibilità di aiutare la sorella e il cognato eseguendo l'autopsia. Non ultimo, il matrimonio che si avvicinava a grandi passi. Ma non lo fece. Andarsene era da codardi. Aprì la cartina e la studiò. Proprio quando stava per ripartire alla ricerca di una strada principale, squillò il cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca e non riconobbe il numero. Rispose. «Dottor Stapleton, sono Jordan Stanhope. Tutto bene?» «Ho avuto momenti più felici, ma va tutto bene.» La telefonata lo aveva meravigliato. «Volevo scusarmi per come il signor Fasano e il suo socio l'hanno trattata a casa mia.» «Grazie.» Pensò ad altre risposte più intelligenti, ma si trattenne. «Ho visto quando l'hanno schiaffeggiata, e la sua reazione mi ha colpito.» «Perché? Mi sono comportato da stupido in modo imbarazzante, soprattutto tenuto conto che quell'uomo era armato.» «Se l'è meritata.» «Dubito che condivida la sua opinione. Quello è stato il momento che mi è piaciuto di meno.» «Mi sono reso conto di quanto sia rozzo il signor Fasano.» Non è troppo tardi per richiamare i cani. «Sto mettendo in dubbio le sue tattiche e il suo superficiale disinteresse verso la verità.» «Benvenuto nel mondo della professione legale. Sfortunatamente, nelle procedure civili, l'obiettivo è mettere in discussione la soluzione e non trovare la verità.» «Be', io non sarò complice. Firmerò il permesso d'esumazione.» 9 Newton Martedì, 6 giugno 2006 19.30 Quando Jack tornò a casa Bowman, era troppo tardi per andare a fare qualche tiro. Aveva anche saltato la cena con le ragazze, che si erano già
ritirate a studiare per gli esami imminenti. La sua presenza era ormai diventata un fatto normale, perché nessuna scese a salutarlo. Per compensare l'atteggiamento delle figlie, Alexis l'aveva accolto in modo estremamente affettuoso, ma aveva subito notato il rossore, il livido e il gonfiore sulla parte sinistra del viso. «Cosa diavolo ti è successo?» chiese preoccupata. Jack le aveva risposto che non era niente, che le avrebbe spiegato tutto dopo essersi ripulito, e aveva cambiato argomento chiedendole di Craig. Alexis aveva replicato soltanto che era nel soggiorno senza scendere in dettagli. Si era infilato sotto la doccia per togliersi di dosso la giornata e ora stava asciugando il vapore dallo specchio del bagno per esaminarsi la faccia. L'acqua calda aveva accentuato il rossore. Notò anche alcuni vasi capillari rotti nella sclera e sugli zigomi. Franco l'aveva picchiato con forza, ma Jack si chiese che aspetto avesse ora il suo avversario, dal momento che gli doleva ancora la mano per il pugno che gli aveva mollato. Si cambiò e gettò la biancheria nel cesto in lavanderia. «Ti va di mangiare qualcosa?» gli chiese Alexis dalla cucina. «Ottima idea. Sto morendo di fame. Non ho avuto il tempo di pranzare.» «Ci sono bistecche alla griglia, patate arrosto, asparagi al vapore e insalata. Va bene?» «Un sogno.» Durante questo scambio di battute, Craig non aveva fiatato. Era seduto a una decina di metri da loro sul divano, come quella mattina, ma senza giornale. Non si era cambiato e aveva la camicia spiegazzata con il primo bottone aperto e la cravatta allentata. Come una statua, fissava lo schermo piatto del televisore, completamente immobile, nulla di strano a parte il fatto che l'apparecchio era spento. Sul tavolino di fronte a lui, una bottiglia di scotch mezzo vuota e un bicchiere pieno fino all'orlo. «Cosa fa?» chiese Jack a voce bassa. «Cosa ti pare stia facendo?» ribatté la sorella. «Vegeta. È depresso.» «Come è andato il resto della giornata in tribunale?» «Più o meno come quando c'eri tu. Ecco perché è depresso. Ha deposto il primo dei tre testimoni del querelante. Il dottor William Tardoff, direttore di cardiologia al Newton Memorial Hospital.» «E?» «È parso molto credibile e non si è rivolto con arroganza ai giurati. Ha fatto capire con assoluta chiarezza il motivo per cui la prima ora, addirittu-
ra i primi minuti, sono vitali per una vittima d'infarto. Dopo alcuni tentativi di obiezione da parte di Randolph, è riuscito a far mettere a verbale che secondo il suo parere le probabilità di sopravvivenza di Patience Stanhope erano diminuite in modo notevole proprio a causa del ritardo nell'eseguire la diagnosi e nel ricoverarla.» «Piuttosto incriminante, soprattutto perché proveniente dal capo reparto dello stesso ospedale di Craig. Randolph è riuscito a ridurre l'impatto del dottor Tardoff nel controinterrogatorio?» «Fino a un certo punto sì, ma ribattere dopo non è facile.» «Per legge è l'avvocato del querelante a presentare per primo le argomentazioni. Poi tocca alla difesa.» «Il sistema non mi sembra equo, ma non abbiamo alternative.» «Ci sono stati solo due testimoni in tutta la giornata?» «No, tre. Prima del dottor Tardoff ha testimoniato Darlene, l'infermiera di Craig, e anche lei è stata torchiata sull'indicazione di 'paziente difficile' come lo era stata Marlene, con lo stesso risultato. Durante la pausa pranzo, Randolph era furioso con Craig per non avergliene parlato, ed è facile comprendere il perché.» «Inorridisco ancora al pensiero che Craig abbia permesso una cosa simile nel suo studio medico.» «Segno della sua arroganza.» «Per me è solo indice di stupidità e non lo favorirà di sicuro.» «Mi meraviglia che sia stato permesso parlarne. Lo trovo chiaramente pregiudizievole e non ha nulla a che fare con la presunta negligenza. Ma sai cosa mi secca di più?» «Cosa?» Jack notò che Alexis era avvampata. «Che quell'indicazione era appropriata.» «In che senso?» «Che erano veramente pazienti difficili. Chiamarli difficili non era neppure sufficiente. Erano degli ipocondriaci della peggior specie. Lo so, perché Craig mi parlava di loro. Gli facevano perdere tempo. Sarebbero dovuti andare da uno psichiatra o da uno psicologo, da qualcuno che avrebbe potuto aiutarli, e la signora Stanhope era la peggiore. Per un certo periodo, qualche tempo fa, tirava Craig giù dal letto almeno una volta la settimana per visite a domicilio assolutamente inutili. A danno della nostra famiglia.» «Patience Stanhope ti dava sui nervi.» «Naturalmente. Fu proprio poco dopo quel periodo tanto impegnativo
che Craig se ne è andato di casa.» Jack esaminò il volto della sorella. «E così non ti è dispiaciuto che sia morta?» chiese, e la sua era più un'affermazione che una domanda. «Dispiaciuta? Ero felice. Gli avevo spiegato che avrebbe dovuto dirle che non la voleva più come sua paziente, che doveva trovarle un altro medico, meglio ancora uno psichiatra. Ma conosci Craig. Ha sempre rifiutato. Non aveva problemi a indirizzare i suoi pazienti a specialisti per cure particolari, ma l'idea di rinunciare a un paziente equivaleva a un fallimento. Non poteva farlo.» «Quanto ha bevuto?» chiese, indicando la figura immobile. «Troppo, come ogni sera.» Annuì. L'abuso di alcol da parte dei medici non era insolito in un processo per negligenza. «Dato che siamo in argomento, cosa vuoi bere? Birra o vino?» «Una birra va benissimo.» Jack andò a prendersi la birra e, mentre Alexis preparava la sua cena, si avvicinò al divano. Il cognato non si mosse, ma alzò gli occhi iniettati di sangue su di lui. «Mi spiace che questa sia stata una giornata umiliante in tribunale», esordì Jack con la speranza di indurlo a conversare. «Fino a quando sei rimasto?» «Fino alla testimonianza della tua receptionist, Marlene, ed è stato sconvolgente.» Craig agitò la mano come per scacciare un insetto invisibile, ma non fece alcun commento. I suoi occhi tornarono a posarsi sullo schermo del televisore spento. Avrebbe voluto chiedergli di quel «PD» per capire che cosa lo aveva indotto a fare una cosa tanto politicamente scorretta e sciocca, ma non lo fece. Non sarebbe servito a niente ed era pura curiosità. Alexis aveva ragione. Era stata l'arroganza. Craig era un medico che considerava nobile tutto ciò che faceva, perché il nucleo della sua vita in termini di dedizione e sacrificio era davvero esemplare. Era un infelice senso di diritto acquisito. Visto che il cognato non aveva alcuna intenzione di chiacchierare, tornò in cucina e uscì in veranda dove la sorella stava grigliando la bistecca. Desiderosa di parlare di qualcosa di più allegro, gli chiese di Laurie e dei progetti per il matrimonio. Jack le riferì le cose fondamentali, ma l'argomento non lo entusiasmava perché si sentiva in colpa per averla lasciata sola a occuparsi degli ultimi dettagli. Era destinato a sentirsi in colpa qual-
siasi cosa facesse: se fosse tornato a New York, avrebbe avuto l'impressione di abbandonare Alexis. In ogni caso, avrebbe trascurato una delle due. Invece di arrovellarsi nel dilemma, andò a prendersi un'altra birra. Quindici minuti dopo era seduto al grande tavolo rotondo. Alexis si preparò una tazza di tè e si sedette di fronte a lui. Craig si era rianimato tanto da accendere il televisore e ora stava guardando il telegiornale locale. «Vorrei parlarti della mia giornata», disse Jack tra un boccone e l'altro. «Bisogna prendere una decisione sul mio ruolo e su quello che volete che faccia. Ho avuto un pomeriggio molto proficuo.» «Craig!» gridò Alexis. «Ti prego, spegni il televisore e vieni a sentire ciò che ha da dire Jack. Alla fine, la decisione sarà tua.» «Non mi piace essere illuso», sbottò Craig, ma spense il televisore. Si alzò, prese bottiglia e bicchiere e andò in cucina. Appoggiò il bicchiere sul tavolo, lo riempì di scotch e si sedette. «Ho intenzione di impedirti di bere», intervenne Alexis, afferrando la bottiglia e allontanandola dal marito. Jack pensò che si sarebbe infuriato, ma sbagliava. Il cognato rivolse un sorriso sghembo alla moglie. Mentre mangiava, spiegò loro la sua giornata, tentando di essere esauriente. Parlò del suo incontro con la dottoressa Latasha Wylie all'istituto di medicina legale e di quello che gli aveva detto sulle norme per l'esumazione, in particolare sulla necessità di ottenere l'approvazione del parente prossimo. «Jordan Stanhope?» chiese Alexis. «Non lo farà mai», borbottò Craig. «Lasciatemi finire.» Continuò parlando della sua visita all'impresa di pompe funebri e di ciò che aveva appreso da Harold Langley e dei moduli per l'autorizzazione. Raccontò poi anche quello che aveva appreso su Stanhope. Alexis e Craig spalancarono simultaneamente la bocca nel sentire la breve biografia di Jordan. Il cognato parlò per primo: «Credi sia vero?» «Harold Langley non ha motivo di mentire. Devono saperlo tutti a Brighton, altrimenti l'impresario non me l'avrebbe rivelato. Sono famosi per il loro riserbo.» «Stanislav Jordan Jaruzelski», ripeté la sorella incredula. «Non mi stupisce che abbia cambiato nome.» «Sapevo che Jordan era più giovane di Patience», ammise Craig, «ma
non avrei mai sospettato una cosa simile. Si comportavano come se fossero sposati da oltre venticinque anni. Sono stupefatto.» «Penso che la parte interessante sia che era Patience quella con i soldi.» «Ora non più», osservò il cognato, scuotendo la testa disgustato. «Randolph avrebbe dovuto scoprirlo. Ecco un altro esempio della sua inettitudine. Avrei dovuto pretendere un altro avvocato.» «Non è il genere di informazione necessaria per contestare in giudizio una citazione per causa professionale», ribatté Jack, sebbene meravigliato che ciò non fosse saltato fuori durante la deposizione di Jordan. «Non è importante.» «Non ne sarei tanto sicuro», obiettò Craig. «Lasciami finire», lo interruppe Jack. «Poi potremo parlare di tutta la situazione.» «D'accordo.» Gli riferì delle sue conversazioni al Newton Memorial Hospital con la dottoressa Everette, con il dottor Gilbert e Georgina O'Keefe. Ammise che, secondo lui, la questione della cianosi non era risolta e che, secondo Georgina, la cianosi era uniforme e non solo alle estremità. Chiese a Craig se avesse avuto anche lui quell'impressione. «Credo di sì. Ma ero tanto impressionato dal suo grave stato generale che non l'ho esaminata tenendo presente quel particolare.» «È quello che ha detto anche il dottor Gilbert.» «Aspetta un secondo!» esclamò il cognato, sollevando la mano. «È stato quello che hai appreso su Jordan che ti ha spinto a pensare che la cianosi fosse una questione più significativa? Voglio dire, la situazione finanziaria di un uomo più giovane che sposa una ricca vedova...» La voce si affievolì. «Devo ammetterlo», concordò Jack, «ma solo per un momento. Sarebbe un copione da soap opera. Inoltre i marcatori biochimici hanno stabilito che Patience ha avuto un attacco di cuore, come mi ha ricordato il dottor Gilbert. Nello stesso tempo, non si deve accantonare la strana storia di Jordan.» Continuò riferendo ciò che aveva detto a Matt e a Georgina sul caso di una donna anziana che era morta per un attacco di cuore dopo essere stata derubata sotto la minaccia di una pistola. «Secondo me è molto importante», sostenne Craig, «e mi induce ancora di più a mettere in dubbio la competenza di Randolph.» «Che mi dici dei lividi che hai in faccia?» chiese Alexis, come se si fosse improvvisamente ricordata che Jack le aveva detto che glieli avrebbe
spiegati. «Quali lividi?» chiese Craig che, avendo Jack alla sua sinistra, non lo vedeva bene in faccia. «Non te ne sei accorto?» domandò in tono stupito Alexis. «Da' un'occhiata.» Il marito si alzò e si allungò sul tavolo. Jack girò malvolentieri la testa in modo che potesse vederlo. «Accidenti!» esclamò Craig. «Hai un'escoriazione.» Allungò la mano e gli toccò lo zigomo con la punta dell'indice per determinare l'estensione dell'edema. «Fa male?» Jack si ritrasse. «Naturalmente», rispose seccato. Aveva sempre odiato quel modo di fare dei medici. Ti toccavano sempre dove faceva male. Gli ortopedici erano i peggiori, secondo la sua anche troppo ricca esperienza, grazie ai bernoccoli e ai lividi che si procurava giocando a pallacanestro. «Scusami. Forse sarebbe una buona idea farti un impacco. Te ne preparo uno?» Jack rifiutò l'aiuto di Craig. «Come è successo?» chiese la sorella. «Ci sto arrivando.» E raccontò la visita in casa Stanhope. «Sei andato da Jordan?» Craig era visibilmente incredulo. «Sì.» «È legale?» «Che intendi con legale? Certo che lo è. Voglio dire, non è come andare a parlare con i giurati. Per ottenere la firma dovevo pur andarci.» Raccontò della Bentley e dell'imprevista comparsa di Charlene. Craig e Alexis si scambiarono sguardi di sorpresa. Craig scoppiò in una breve risata isterica. «E questo sarebbe il lungo periodo di afflizione?» sbottò la moglie. «Quell'uomo è spudorato, tanto quanto la sua parvenza di gentiluomo.» «Mi ricorda un altro caso tristemente noto nel Rhode Island. Lì però c'era di mezzo il diabete», disse Craig. «Lo conosco», ammise Jack. «Ma anche in quel caso l'erede improvvisamente ricco fu assolto.» «Torniamo alla tua faccia», intervenne Alexis. «La suspense mi sta uccidendo.» Jack raccontò di come aveva sollevato la questione dell'esumazione prevedendo un secco rifiuto. Descrisse poi l'arrivo di Fasano con un socio vestito esattamente come lui.
«Si chiama Franco», disse Alexis. «Lo conosci?» chiese Jack sorpreso. «No. L'ho solo visto. Difficile non notarlo. Viene in tribunale con Fasano. So il suo nome, perché ieri ho sentito l'avvocato chiamarlo quando stavano uscendo dall'aula.» Jack riferì la violenta reazione di Tony all'idea dell'esumazione e le minacce nel caso avesse fatto l'autopsia. Per alcuni istanti marito e moglie lo fissarono in silenzio, entrambi sconcertati. «Perché mai dovrebbe essere tanto contrario?» Jack alzò le spalle. «Presumibilmente perché ha fiducia nella causa così come è e non vuole smuovere le acque. Ha investito dei bei soldi e prevede di ricavarne una bella somma. Il suo atteggiamento però mi motiva ancora di più.» «Torniamo alla tua faccia», ripeté Alexis. «Continui a non parlarcene.» «È successo alla fine, dopo che Franco mi ha buttato fuori. Sono stato spavaldo e stupido. Ho fatto loro i complimenti per il vestito...» «Così ti ha colpito?» chiese costernata Alexis. «Non è stato un buffetto affettuoso.» «Penso che dovresti fargli causa», esclamò la sorella indignata. «In realtà l'ho colpito a mia volta, per cui citarlo per lesioni porterebbe a una disputa su chi ha colpito per primo.» «Hai picchiato quell'energumeno?» domandò la sorella incredula. «Cosa sei diventato, autodistruttivo?» «Mi hanno già definito così in un passato non lontano. Mi piace pensare di essere un impulsivo con un tocco di spericolatezza.» «Non lo trovo divertente.» «Nemmeno io», ammise Jack. «Ma l'episodio, soprattutto essere stato percosso, ha favorito la mia posizione con Jordan, che ormai ritenevo senza speranza.» Estrasse dalla tasca interna della giacca il permesso per l'esumazione, lo mise sul tavolo e lo spianò con il palmo della mano. «Jordan l'ha firmato.» Alexis tirò a sé il documento per esaminarlo. Fissò la firma sbattendo gli occhi un paio di volte come se si aspettasse che scomparisse. «Il fatto che abbia firmato elimina qualsiasi sospetto di un suo coinvolgimento», concluse Craig. «Chi lo sa. Di certo dà validità all'idea dell'autopsia. Non è più solo una possibilità teoretica, anche se ora dobbiamo affrontare tempi stretti. Sup-
ponendo di riuscirci, la domanda è se volete che la faccia. Bisogna prendere una decisione questa sera.» «Io non ho cambiato idea», avvertì Craig. «Impossibile sapere se ci favorirà o se ci sarà di danno.» «Secondo me è più probabile che sia d'aiuto e non d'ostacolo», replicò Jack. «Deve esserci una spiegazione anatomica, qualche patologia secondaria. Ma hai ragione: non ci sono garanzie. Non voglio insistere, non sono qui per peggiorare le cose. Spetta a voi decidere.» Craig scrollò la testa. «Sono troppo confuso per scegliere. Credo sia l'incertezza dell'esito che mi rende contrario, ma che ne so io? Non mi trovo certo nella posizione di essere obiettivo.» «Che ne dite di chiedere a Randolph?» propose Alexis. «Se l'autopsia evidenziasse qualcosa, dovrà studiare come fare ammettere quella prova. Con le nuove regole dell'istruttoria, non è certo che ci riuscirà.» «Hai ragione. Si dovrebbe consultare Randolph. Non avrebbe alcun senso se non si potesse poi utilizzare.» «C'è qualcosa che non quadra», disse Craig. «Io sto mettendo in dubbio la competenza del mio avvocato chiedendomi se ricusarlo e voi due ritenete che dovremmo far decidere a lui se eseguire o no l'autopsia.» «Potremmo raccontargli la storia di Jordan», continuò Alexis, ignorando il marito. «Possiamo chiamarlo al telefono e parlarne con lui stasera stessa?» propose Jack. «Questa decisione non può aspettare. Non è detto che si possa fare comunque, ci sono troppe variabili e poco tempo.» «Possiamo parlargli di persona», intervenne Alexis. «Abita qui vicino.» «Bene», esclamò Craig alzando le mani. Non era tanto sicuro di sé da respingere l'opinione di entrambi. «Ma non sarò io a fare quella telefonata.» «Ci penso io.» Alexis si alzò e andò a telefonare. «Mi pare che ti senta meglio», notò Jack. «Va a momenti. Passo dalla depressione alla speranza che venga alla luce la verità. È così da quando è iniziato tutto questo casino nell'ottobre scorso. Quella di oggi è stata una delle giornate peggiori con Bill Tardoff che ha testimoniato contro. Tra noi c'era sempre stato un rapporto cordiale. Proprio non capisco.» «È un buon medico?» Craig lo fissò con aria torva prima di rispondere: «Chiedimelo tra un paio di giorni. Al momento non sono obiettivo, lo ucciderei volentieri». «Capisco. E che mi dici della dottoressa Everette? È valida?»
«Per me o per la comunità?» «Per tutti e due.» «Come per Bill. Ho cambiato idea dopo questa indagine. Prima pensavo che fosse in gamba, non fantastica ma efficiente, e mi è capitato di rivolgermi a lei. Adesso sono furioso con tutti e due. Per quello che riguarda la sua reputazione, è buona. Piace a tutti, anche se non è consacrata alla medicina quanto la maggior parte di noi.» «Come mai la pensi così?» «Lavora a orario ridotto, anzi ridottissimo. La sua giustificazione è la famiglia. Assurdo. Voglio dire, tutti abbiamo una famiglia.» Jack annuì come se concordasse, ma non era così. Pensò che Craig avrebbe dovuto provare l'etica professionale di Noelle e con ogni probabilità sarebbe stato un uomo più felice e un marito e un padre migliore. Dopo un attimo disse: «Ti ho chiesto di Noelle perché oggi ha detto una cosa interessante, e cioè che alcuni dei medici più all'antica, un gruppo in cui si è inclusa, sono arrabbiati con i colleghi che praticano la concierge. Ti sorprende?» «Non direi. Forse sono invidiosi. Non tutti possono passare a uno studio medico con pagamento anticipato. In gran parte dipende dal tipo di clientela.» «Vuoi dire se è ricca o no.» «In pratica, sì. Lo studio medico tipo concierge ha un'organizzazione invidiabile paragonata alla confusione in cui versano quelli normali. Io guadagno molto di più e in molto meno tempo.» «Che cosa è successo ai quei pazienti del vecchio studio che non avevano i soldi per le quote fisse?» «Li abbiamo indirizzati a studi medici normali.» «In un certo senso sono stati abbandonati.» «No, affatto. Abbiamo passato un sacco di tempo a dare loro i nomi e i numeri telefonici di altri medici.» Jack continuò a pensare che si trattasse di abbandono, ma lasciò perdere. «E così, secondo te, la rabbia di cui parlava Noelle nasceva dall'invidia.» «Non mi viene in mente altro motivo.» A Jack ne vennero in mente molti, tra cui il concetto di professionalità che aveva menzionato la dottoressa, ma non gli interessava mettersi a discutere. «La signora Stanhope era una paziente del tuo vecchio studio medico?» «No. Era del medico che aveva avviato lo studio che ora sto praticamen-
te gestendo da solo. Lui si è ritirato in Florida, non sta molto bene.» «E così l'hai ereditata tu?» «In un certo senso.» Tornò Alexis. «Randolph sta venendo qui. L'idea dell'autopsia lo interessa, ma ha alcune riserve, tra cui la sua ammissibilità, come temevo.» Jack annuì, ma gli interessava più la sua conversazione con Craig e stava cercando di trovare le parole giuste per la sua prossima domanda. «Ricordi che questa mattina ho menzionato l'idea del soffocamento o dello strangolamento, ipotesi che ho poi ritenuto assurda dal momento che è deceduta per attacco di cuore?» «Come potrei averla dimenticata?» «È un esempio di come ragionano i patologi legali come me. Voglio dire, non stavo facendo alcuna asserzione, stavo solo pensando ad alta voce, tentando di collegare la cianosi centrale agli altri fatti. In retrospettiva, capisci? In quel momento la mia idea ti ha dato fastidio.» «Capisco, ma in questi giorni non sono me stesso e per ovvi motivi. Scusami.» «Non devi scusarti. Ho sollevato questo punto solo perché desidero farti una domanda che mi è venuta in mente quando Noelle Everette ha fatto quel commento sul gruppo di medici rabbiosamente contrari alla concierge medicine. È una domanda cui potresti reagire altrettanto male.» «Hai stuzzicato la mia curiosità. Forza, spara.» «Ti viene in mente un modo, anche inverosimile, in cui potresti essere stato incastrato per la morte di Patience? Quello che sto insinuando è che qualcuno potrebbe avere visto la sua morte come un mezzo per mettere sotto cattiva luce la 'politica' del tuo studio. Questa idea ti dice qualcosa o sono di nuovo da qualche parte oltre l'orbita di Plutone?» Un sorrisetto apparve all'angolo della bocca di Craig e si propagò a tutto il viso. Scoppiò a ridere e scrollò la testa stupito. «Di certo compensi ciò che ti manca in razionalità con la creatività.» «Ricorda, la mia è una domanda retorica. Non mi aspetto una risposta, inseriscila semplicemente negli archivi della tua mente e vedi se combacia con altri fatti che non hai detto a nessuno.» «Stai alludendo a una cospirazione?» chiese la sorella, colta alla sprovvista. «La cospirazione implica più di una persona. Come mi avevi chiesto, sto ragionando al di fuori degli schemi.» «Questo è ragionare molto al di fuori degli schemi», osservò Craig.
Lo squillo del campanello impedì loro di continuare a parlare di malevoli macchinazioni mediche, come Craig aveva definito l'idea di Jack, mentre Alexis andava ad aprire. Quando tornò seguita da Bingham, i due uomini stavano ridacchiando su altre buffe ipotesi. Alexis ne fu piacevolmente sorpresa. Craig si stava comportando in un modo più normale di quanto avesse fatto da mesi, il che era ancora più insolito, tenuto conto di quanto era stata stressante quella giornata in tribunale. Jack venne nuovamente presentato a Randolph. La prima volta era successo al mattino fuori dell'aula del tribunale, prima della ripresa del processo. Non c'era stato molto tempo e Alexis aveva semplicemente detto che Jack era suo fratello, mentre ora specificò i suoi titoli professionali. L'avvocato non aprì bocca durante il monologo della donna, sebbene avesse annuito un paio di volte. «Sono contento di fare nuovamente la sua conoscenza», salutò Randolph, quando Alexis concluse la presentazione. «Anch'io.» Jack intuì che la situazione aveva messo tutti a disagio. Randolph conservava il suo aspetto ingessato: sebbene non indossasse più un completo, la sua idea di abito casual era una camicia Oxford a maniche lunghe, inamidata e fresca di stiratura, calzoni in lana pettinata con piega perfetta e un leggero maglioncino in cachemire. Come ulteriore prova della sua formalità, era ben rasato, a differenza di Jack e Craig, sulle cui guance si notava una corta barba serale, e i capelli argentei erano perfettamente acconciati come in tribunale. «Ci accomodiamo qui attorno al tavolo o preferisce che ci trasferiamo in soggiorno?» chiese Alexis all'ospite. «Come vuole», rispose lui. «Ma dobbiamo fare alla svelta, ho ancora molto da fare questa sera.» Finirono per restare in cucina. «Alexis mi ha parlato della sua idea di eseguire un'autopsia», esordì Randolph. «Potrebbe spiegarmi perché la ritiene importante a questo punto?» Jack elencò gli scarsi motivi a favore dell'autopsia senza accennare a cospirazioni o omicidi. Si lanciò poi nella sua brevettata tiritera sul ruolo del patologo legale che parla a nome della defunta. «Credo che un'autopsia potrebbe offrire a Patience Stanhope l'ultima possibilità di sostenere le sue ragioni in tribunale», concluse. «Quello che spero di trovare è una patologia tale da far prosciogliere Craig o, nella peggiore delle ipotesi, fornire una ragione per concorso di colpa, dato che è documentato che la paziente aveva rifiutato di eseguire le indagini che le erano state consigliate.»
Scrutò gli occhi azzurro ghiaccio dell'avvocato alla ricerca di una reazione, senza ottenerla. «Nessuna domanda?» chiese infine. «Non credo», rispose Randolph. «Ha espresso le sue ragioni bene e in modo succinto. È una possibilità interessante a cui non avevo pensato, visto che gli aspetti clinici del caso sono chiari. Quello che mi preoccupa è l'ammissibilità di qualsiasi elemento lei possa scoprire. Se si trovasse qualcosa di veramente importante e a discolpa, dovrei presentare alla corte una mozione per un rinvio. In altre parole, dipenderà dal giudice.» «Non mi potrebbe chiamare a deporre come teste a sorpresa della difesa?» «Solo per confutare una testimonianza precedente, non per fornire una nuova testimonianza.» «Io confuterei la testimonianza dei periti dell'accusa che sostengono la negligenza.» «Sarebbe uno strappo alla legge, ma dipenderebbe dal giudice in ogni caso e dovrebbe deliberare passando sopra alle strenue obiezioni del mio collega. Sarebbe una lotta estenuante e fornirebbe all'accusa le basi per l'appello se venisse accettato. «Un'ultima considerazione, riguarda il giudice Davidson. Tutti sanno che non ama dilungarsi e che il ritmo lento di questo processo l'ha già irritato. Non ci sono dubbi sulla sua volontà di giungere a una conclusione. Non vedrebbe di buon occhio una nuova prova presentata all'ultimo minuto.» Jack lo fissò con fare interrogativo. «Quindi lei è contrario all'autopsia?» «Non necessariamente. Questo è un caso unico con sfide uniche e sarebbe da sciocchi non fare tutto il possibile per arrivare a un esito positivo. Un inedito elemento a discolpa potrebbe essere usato per giungere a un nuovo processo in appello. D'altro canto, credo che le probabilità di trovare qualcosa a discolpa siano molto basse. Detto ciò, io sono per un buon sessanta percento a favore dell'autopsia.» Si alzò, seguito dagli altri. «Vi ringrazio per avermi invitato e per avermi informato», disse stringendo la mano a tutti. «Ci vediamo in tribunale.» Mentre Alexis lo accompagnava alla porta, Jack e Craig si risedettero. «Mi ha ingannato», ammise Jack. «Proprio quando pensavo che ci avrebbe detto che era contrario, mi dice che è a favore.» «Io ho avuto la tua stessa reazione.» «Questo breve incontro mi ha fatto capire che non dovresti cambiare avvocato. Sarà presuntuoso, ma mi ha colpito la sua intelligenza e il suo spi-
rito combattivo. Vuole vincere.» «Grazie per la tua opinione, vorrei condividerla senza avere tanti dubbi.» Quando Alexis tornò, sembrava lievemente seccata. «Perché non gli hai parlato del tuo scontro con Fasano e delle sue minacce?» «Non volevo si uscisse dal seminato», rispose lui. «E per lo stesso motivo non ho parlato delle mie teorie sul crimine né dei trascorsi di Jordan Stanhope, o Stanislaw Jaruzelski.» «Secondo me non dovevi sottovalutare la minaccia», insisté Alexis. «Non ti dà fastidio essere minacciato in quel modo?» «Non proprio. Fasano è preoccupato per il suo investimento, ma mi è parso una persona che fa discorsi boriosi.» «Non saprei. Comunque quelle minacce mi spaventano.» «Be', allora?» esclamò Jack. «È ora di prendere una decisione. Devo cercare di eseguirla questa autopsia o no? Una cosa non vi ho detto. Per esperienza, le giurie decidono sulla base di una reazione viscerale legata al buonsenso, ma amano i fatti. I risultati di un'autopsia sono più consistenti delle testimonianze effimere e aperte all'interpretazione. Cercate di tenerlo a mente.» «Se mi assicuri che le minacce di Fasano non ti preoccupano, allora voterò per l'autopsia.» «E tu, Craig? Sei tu il capo. Il tuo voto batte tutti noi.» «Non ho cambiato idea», rispose. «Secondo me è più probabile che porti alla luce qualcosa che non vogliamo sapere, ma non voterò contro voi due e Randolph.» Si alzò in piedi. «Ora andrò di sopra e mi metterò nelle mani calde e accoglienti di un forte sonnifero. Con gli altri esperti, il marito della vittima e probabilmente Leona, domani sarà una giornata dura.» Scomparso Craig su per le scale, i fratelli rimasero seduti in silenzio per alcuni minuti, persi nei loro pensieri. Jack parlò per primo, dopo avere afferrato la bottiglia di scotch: «Mescolare questa roba con un tranquillante non è una buona idea». «Sono d'accordo.» «Non hai mai temuto che potesse farsi del male?» «Vuoi dire assumendo una dose esagerata di sonniferi?» «Sì, intenzionalmente o altro.» Jack ricordò la sua lotta personale contro pensieri suicidi negli anni della depressione. «Certo che ci ho pensato, ma il narcisismo gioca a suo favore e la sua depressione non è mai stata inabilitante ed è ciclicamente passato attraverso periodi di normalità, come stasera, per esempio. Non lo ammetterebbe
mai, ma secondo me la tua presenza gli ha sollevato lo spirito. Vuole dire che ci tieni a lui e lui ti rispetta.» «D'accordo, ma che cosa ha preso per dormire? Lo sai?» «Il solito. L'ho tenuto d'occhio. Mi vergogno a dirlo, ma ho addirittura contato le pillole di nascosto.» «Non dovresti vergognartene. Sei stata prudente.» «Sarà.» Si alzò. «Salgo anch'io, controllo le ragazze e poi vado a dormire. Mi dispiace abbandonarti, ma con la testimonianza di Leona Rattner sarà una giornata molto stressante anche per me.» «Non preoccuparti. Sono stanco anch'io, ma rileggerò alcune delle deposizioni. Continuo a pensare che mi sia sfuggito qualcosa che potrebbe essere importante sapere quando e se eseguirò l'autopsia.» «Non t'invidio. Dover lavorare su qualcuno che è stato sepolto da quasi un anno. Come fai a fare questo lavoro ogni giorno? Non è disgustoso?» «So che sembra sgradevole, forse addirittura orrendo, ma in realtà è affascinante. Apprendo qualcosa ogni giorno e non ho pazienti difficili.» «Non farmeli ricordare. A proposito di autolesionismo, quello è un ottimo esempio!» Il silenzio calò nella grande casa dopo che Alexis si fu ritirata al piano di sopra. Per alcuni minuti Jack rifletté sulla strana reazione della sorella al fatto che Patience Stanhope fosse una paziente difficile e su come avesse spontaneamente ammesso di essere felice che fosse morta. Aveva addirittura alluso all'eventualità che avesse avuto a che fare con l'uscita di casa del marito. Non sapeva cosa pensare. Finì la sua birra, quindi scese in camera sua a prendere il dossier e il cellulare. Andò poi nello studio, dove, senza volerlo, aveva passato la notte. La stanza aveva un'aria confortevole e familiare. Dopo essersi seduto nella stessa poltrona della notte precedente, aprì il cellulare con sentimenti ambivalenti. Voleva sentire la voce di Laurie e allo stesso tempo non voleva affrontare il suo inevitabile risentimento, appena le avesse parlato della possibile esumazione e dell'autopsia. Era già martedì, quindi aveva a disposizione solo due giornate intere prima di venerdì. L'altro problema era che aveva telefonato a Calvin per avvisarlo che non sarebbe rientrato mercoledì e che l'avrebbe tenuto al corrente. Se Calvin avesse detto qualcosa a Laurie, lei si sarebbe infuriata per avere avuto informazioni di seconda mano. In attesa, Jack si dimenò per mettersi il più possibile comodo e i suoi occhi sorvolarono lo scaffale che copriva la parete opposta e si fermarono su
una grande, nera e antiquata borsa da medico sistemata accanto all'apparecchio ECG portatile. «Il viaggiatore indaffarato, finalmente», lo salutò allegramente Laurie. «Speravo fossi tu.» Jack si lanciò immediatamente in una dettagliata scusa per avere chiamato tanto tardi, spiegandole che aveva aspettato fino a quando non era stata presa una decisione. «Che decisione?» Trasse un profondo respiro. «Di fare l'autopsia alla paziente della cui morte Craig è indagato.» «Un'autopsia?» chiese Laurie costernata. «Jack, è martedì sera. Il matrimonio è all'una e mezzo di venerdì. Non ho bisogno di dirti che è vicinissimo.» «Lo so che il tempo stringe. Non me ne dimentico. Non preoccuparti!» «La farai al mattino?» «Non credo, ma potrebbe essere. Il guaio è che il corpo è ancora sotto terra.» «Jack!» gemette Laurie. «Perché mi fai questo?» Le riferì i particolari del caso, ciò che aveva appreso dal dossier e poi tutto ciò che era successo quel giorno tranne l'episodio con Franco. Laurie lo ascoltò senza interromperlo fino alla fine, poi lo sorprese chiedendogli: «Vuoi che voli su da te per assisterti?» Jack, che avrebbe voluto abbracciarla, disse: «Grazie, ma non ce n'è bisogno. Non sarà un caso difficile a meno che ci sia stata molta infiltrazione d'acqua». «Fammi sapere. Sono sicura che insieme faremmo prima.» Dopo essersi scambiati parole affettuose e, da parte di Jack, la promessa di telefonare appena avesse saputo qualcosa di più, si salutarono. Stava per mettersi sulle ginocchia il dossier quando i suoi occhi si posarono nuovamente sulla borsa da medico. Si alzò e andò allo scaffale. Come aveva confessato alla sorella, non riteneva che le visite a domicilio fossero il migliore impiego del tempo di un dottore, che non aveva a disposizione tutti gli strumenti diagnostici di uno studio medico ben attrezzato. Ricordando che nel dossier si faceva riferimento a un kit diagnostico portatile per confermare l'attacco di cuore, pensò che forse lui non era aggiornato. In realtà non aveva mai neppure sentito parlare di un apparecchio simile ed era curioso. Tirò giù la borsa dallo scaffale, la sistemò sulla scrivania di Craig, accese la lampada e l'aprì. Nello scomparto in basso trovò una collezione
di strumenti tra cui il bracciale per la pressione arteriosa, un oftalmoscopio e un otoscopio. Estrasse l'oftalmoscopio e tenerlo in mano gli richiamò un flusso di ricordi. Lo rimise a posto, quindi esaminò il resto del materiale, tra cui soluzioni per flebo, cannule, deflussori, un termometro, un set di medicazione d'emergenza, emostatici, terreni di coltura e bende. In un angolo trovò il kit diagnostico per i biomarcatori. Lo prese e lesse l'etichetta, poi, sperando di trovare all'interno un foglio informativo più approfondito, aprì la scatola. Era proprio in cima. Dopo averlo letto, si rese conto che avrebbe dovuto rivedere il suo giudizio sulle visite a domicilio. Con attrezzature simili che includevano anche nuovi e più accurati sistemi per determinare lo stato diabetico, un medico poteva essere realmente efficace in un ambiente domestico, soprattutto con l'ECG portatile che Jack aveva visto accanto alla borsa. Rimettendo a posto notò una fiala di atropina e una di epinefrina vuote. Si chiese se fossero lì da quando aveva curato la signora Stanhope. Poi trovò qualcosa che gliene diede la conferma: un flaconcino campione dell'antidepressivo Zoloft, con il nome di Patience Stanhope e l'annotazione che conteneva sei pillole e che la paziente doveva assumerne una prima di coricarsi. Aprì il flaconcino e fissò le cinque pasticche azzurre. Lo richiuse e lo rimise al suo posto. Sentendo dei passi sulla scala, provò un senso di colpa per avere curiosato in una proprietà privata, anche se si trattava solo della borsa di un medico. Un po' spaventato, rimise a posto le fiale, chiuse la borsa, la ripose sullo scaffale, poi attraversò di corsa la stanza, si buttò sulla sedia e si tirò il dossier sulle ginocchia. Appena in tempo. Craig entrò nello studio, strascicando i piedi. Indossava accappatoio e ciabatte. Gli si avvicinò e si accomodò nella poltroncina di fronte a lui. «Spero di non disturbarti», si scusò. «Non essere sciocco», replicò Jack. La voce era piatta e le braccia pendevano flosce lungo i fianchi come paralizzate. Era palese che aveva già assunto il sonnifero e che non aveva lesinato sulla dose. «Volevo solo ringraziarti per essere venuto a Boston. So di non essere stato cortese né ieri sera né stamattina.» «Non preoccuparti. Capisco perfettamente cosa stai attraversando.» «Volevo anche dirti che, dopo averci riflettuto, sono anch'io favorevole all'autopsia.»
«Bene, così c'è unanimità. Dopo avere convinto tutti, ora devo solo sperare di portarla a compimento.» «Ti sono grato per i tuoi sforzi.» Si rimise in piedi a fatica e barcollò prima di ritrovare l'equilibrio. «Ho dato un'occhiata nella tua borsa da medico», gli confessò, per liberarsi la coscienza. «Spero non ti scocci.» «Certo che no. Hai bisogno di qualcosa? Quando facevo un sacco di visite a domicilio, ho messo insieme una piccola farmacia.» «No! M'incuriosiva il kit diagnostico per gli attacchi di cuore. Non sapevo nemmeno che esistesse.» «È difficile tenersi aggiornati con la tecnologia. Buonanotte.» «Buonanotte», lo salutò Jack. Da dove era seduto vedeva tutto il corridoio e Craig che arrancava verso le scale. Si muoveva come uno zombie. Per la prima volta Jack si dispiacque per lui. 10 Newton Mercoledì, 7 giugno 2006 06.15 Al mattino scoppiò un'altra accesa discussione tra Meghan e Christina come quella del giorno precedente e sempre per un capo di vestiario, solo che questa volta era Meghan che si rifiutava di cederlo alla sorella, che si precipitò su per le scale in lacrime. Alexis fu l'unica a comportarsi normalmente. Era il collante della famiglia. Craig era mezzo addormentato e parlava poco, probabilmente perché gli effetti del sonnifero e dello scotch non erano ancora svaniti del tutto. Le ragazze uscirono e solo allora Alexis si rivolse a Jack: «Come intendi muoverti? Vuoi venire con noi o usi la tua auto?» «Prendo la mia. Devo passare prima all'impresa Langley a consegnare i documenti per avviare il procedimento di esumazione.» Tralasciò di dire che sperava di poter giocare un po' a pallacanestro nel pomeriggio sul tardi. «Allora ci vedremo in tribunale?» «D'accordo», rispose, anche se covava la speranza che Harold Langley potesse fare un miracolo e far esumare Patience Stanhope dal suo luogo di pace eterna quella mattina stessa. In quel caso avrebbe eseguito immedia-
tamente l'autopsia, avrebbe ottenuto i primi risultati nel pomeriggio, li avrebbe consegnati ai Bowman e si sarebbe imbarcato subito per New York. Avrebbe così avuto il giovedì per sistemare le cose in ufficio prima di partire, sabato mattina, per la luna di miele. Avrebbe fatto anche in tempo a ritirare i biglietti e i voucher. Jack uscì prima di Alexis e Craig e prese per la Massachusetts Turnpike, con la speranza di raggiungere prima le onoranze funebri. Ci mise ben quaranta minuti per coprire approssimativamente sette chilometri in linea d'aria. Borbottando e inveendo per quella stressante esperienza, dovette parcheggiare lontano perché lo spiazzo era occupato da parecchi veicoli. Notò alcune persone indugiare sulla veranda e si rese conto che stava per iniziare una funzione. Nella camera ardente a destra alcuni uomini stavano sistemando i fiori e ordinando le seggiole. Sul catafalco, una bara aperta e in sottofondo la stessa colonna sonora del giorno precedente. «Vuole apporre la sua firma sul libro delle condoglianze?» chiese un uomo con voce calma e partecipe, sotto molto aspetti una versione più pesante di Harold Langley. «Sto cercando l'impresario.» «Sono io. Locke Peerson ai suoi servizi.» Jack gli disse che stava cercando Harold Langley e venne indirizzato al suo ufficio. Trovò Harold alla scrivania. «Il signor Stanhope ha firmato l'autorizzazione», esordì Jack, porgendogli il modulo, senza perdere tempo in chiacchiere inutili. «È urgente portare il corpo nella stanza dell'imbalsamazione.» «Questa mattina abbiamo un funerale», spiegò Harold. «Appena finita la cerimonia me ne occupo.» «Pensa che per oggi sarà possibile? Abbiamo una scadenza molto stretta.» «Dottor Stapleton, ricorda che qui sono coinvolti il municipio, un addetto all'escavatore e il cimitero? In circostanze normali, si parlerebbe almeno di una settimana.» «Non è possibile. Deve essere fatto oggi o domani al massimo.» Rabbrividì all'idea di dover aspettare fino a giovedì e si chiese cosa avrebbe detto a Laurie. «È fuori discussione.» «Forse cinquecento dollari oltre al suo onorario potrebbero compensare il disturbo.» Osservò l'espressione dell'impresario. Aveva una mancanza di
mobilità quasi parkinsoniana e un paio di labbra strette che gli ricordarono quelle di Randolph. «Tutto ciò che posso dire è che mi darò da fare. Nessuna promessa, però.» «Non posso chiedere di più», ammise Jack, porgendo a Harold uno dei suoi biglietti da visita. «Ha idea delle condizioni in cui possiamo aspettarci di trovare il cadavere?» «Certo», rispose con enfasi Harold. «In ottime condizioni. È stato imbalsamato con la nostra solita cura e la bara è una Eterno Riposo deposta in una tomba in cemento, una delle migliori.» «Che mi dice della fossa? Infiltrazioni d'acqua?» «Assolutamente no. È in cima alla collina. Il primo signor Stanhope aveva scelto lui stesso il posto per la famiglia.» «Mi chiami appena sa qualcosa.» «Lo farò.» Mentre usciva, la gente sulla veranda cominciò a entrare con aria mesta. Salì in macchina e consultò la mappa che gli aveva dato Alexis, dopo averlo canzonato per aver usato quella in dotazione all'auto a noleggio. La destinazione successiva era l'istituto di medicina legale. Grazie a un traffico scorrevole rispetto alla mattina, lo raggiunse in poco tempo. La receptionist si ricordava di lui e gli disse che la dottoressa Wylie era nella sala autopsie. Senza che glielo chiedesse, chiamò e parlò con la patologa. Poco dopo un tecnico mortuario salì nell'atrio e scortò Jack nell'anticamera della sala autopsie. Due agenti, un afroamericano e un grande e grosso omone rubizzo, in borghese, stavano camminando su e giù. Indossò la tuta protettiva, quindi entrò nella sala, moderna e tecnicamente avanzata come il resto dell'edificio. C'erano cinque tavoli, tre dei quali in attività. Quello di Latasha era il più lontano e lei gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. «Ho quasi finito», lo salutò la donna da dietro la visiera in plastica. «Ho pensato che le avrebbe fatto piacere dare un'occhiata.» «Che cos'ha tra le mani?» chiese lui, sempre interessato. «Una donna di cinquantanove anni trovata morta nella sua camera da letto dopo un incontro con un uomo conosciuto su Internet. La camera era così sottosopra da far pensare a una lotta, con il comodino rovesciato e la lampada rotta. I due detective che stanno aspettando in anticamera ipotizzano un omicidio. La donna aveva un taglio all'attaccatura dei capelli.» Latasha spostò lo scalpo da dove era stato ripiegato sul viso per poter
accedere al cervello. Jack si chinò per esaminare la lacerazione. Era tonda e incavata, come se inflitta da un martello. Latasha continuò spiegando come aveva capito che non si era trattato di omicidio, ma di incidente. «La donna è scivolata su un tappeto sul parquet lucido, è rovinata sul comodino e ha sbattuto con tutto il peso del corpo la fronte contro la lampada.» Era un esempio di quanto fosse importante conoscere la scena del crimine. A quanto pareva il paralume era una lunga spira che terminava in un disco piatto che assomigliava a un martello. Jack ne fu colpito e glielo disse. «Nulla di strano», osservò Latasha. «Ma che cosa posso fare per lei?» «Accetterei la sua offerta di strumenti per l'autopsia. A quanto pare è cosa fatta, a patto che possano esumare il corpo alla svelta. La eseguirò nell'impresa funebre Langley-Peerson.» «Se la farà dopo l'orario d'ufficio, l'aiuterò volentieri e le porterò una sega per ossa.» «Davvero?» Non si era aspettato tanta generosità. «Il suo aiuto mi farebbe un enorme piacere.» «Mi pare un caso stimolante. Desidero presentarle il mio capo, il dottor Kevin Carson.» L'uomo, che stava lavorando al tavolo numero uno, era un tipo alto, snello e gradevole che sostenne di essere amico del capo di Jack, il dottor Calvin Washington. Gli disse che Latasha gli aveva parlato di ciò che intendeva fare e che appoggiava la sua proposta di esaminare i campioni e, se necessario, di dare una mano con gli esami tossicologici. Aggiunse che non avevano ancora un laboratorio di tossicologia interno, ma che si rivolgevano a un ottimo istituto sempre aperto all'università. «Porti i miei saluti a Harold», concluse Kevin prima di tornare al suo caso. «Sarà fatto. E grazie per il suo aiuto», rispose Jack, ma Carson non lo sentì, di nuovo chino sul suo lavoro. «Mi pare un capo piacevole», disse invece a Latasha mentre usciva con lei nell'anticamera. «È un bel tipo», concordò. Quindici minuti dopo Jack stava riponendo nel bagagliaio della sua automobile una scatola piena di materiale. Prima di mettersi al volante, infilò il biglietto da visita con il numero del cellulare di Latasha nel portafogli. Entrò nell'aula del tribunale richiudendosi la porta alle spalle il più silenziosamente possibile. In quel momento, il cancelliere stava facendo giu-
rare un testimone, il dottor Herman Brown. Dal vano della porta, scrutò l'aula. Vide le nuche di Craig e di Jordan vicine a quelle dei loro avvocati e degli assistenti. La giuria pareva annoiata come il giorno prima, il giudice invece preoccupato. Stava riordinando delle carte e le esaminava come se fosse da solo nella stanza. Gli occhi di Jack incrociarono quelli di Franco. Da lontano, le sue orbite sembravano due buchi neri senza forma sotto sopracciglia da uomo di Neanderthal. Insensatamente, gli sorrise e lo salutò sventolando la mano. Sapeva che era da sciocchi schernirlo, ma Jack non riuscì a trattenersi. Era come spinto da quel lato del suo carattere amante del rischio cui si era aggrappato per alcuni anni, una specie di regressione giovanile per affrontare e sopportare il senso di colpa e il dolore. Pensò di averlo visto irrigidirsi, ma non ne era sicuro. Franco continuò a guardarlo in cagnesco per qualche altro secondo, poi spostò la sua attenzione, quando il suo capo fece strisciare indietro la sedia e si avviò verso il podio. Rimproverandosi per averlo deliberatamente provocato, meditò di procurarsi qualche spray antiaggressione. In caso di un secondo scontro, non aveva nessuna intenzione di scambiare altri colpi. La differenza di taglia avrebbe reso l'incontro iniquo. Jack riportò lo sguardo sul pubblico e di nuovo si stupì del numero di persone. Individuò finalmente la sorella, seduta nella prima fila lungo la parete, vicina al banco dei giurati. Accanto a lei uno dei pochi posti liberi. Percorse il corridoio centrale, poi, scusandosi, s'infilò. Alexis lo vide avvicinarsi e spostò le sue cose per fargli posto. Prima di sedersi, Jack le strizzò la spalla. «Hai avuto fortuna?» sussurrò lei. «C'è stato un progresso, spero, ma ora la faccenda non è più nelle mie mani. Che cosa è successo qui?» «Più o meno le stesse cose, temo. C'è stata una partenza lenta, perché il giudice ha dovuto risolvere alcuni problemi. La prima a deporre è stata la dottoressa Noelle Everette.» «Niente di buono, quindi.» «Già. Ha dato l'impressione di essere una professionista istruita, seria e ragionevole, con una marcia in più, e ha partecipato al tentativo di rianimazione. Fasano l'ha manovrata bene. Il modo in cui l'ha interrogata e le sue risposte hanno tenuto sveglio l'interesse dei giurati. A un certo punto ho visto il gruppetto delle casalinghe annuire con il capo, e non è un buon
segno. Come per la testimonianza del dottor Tardoff, ma più efficace. Ha dato l'impressione del dottore che tutti vorrebbero avere.» «Come se l'è cavata Randolph nel controinterrogatorio?» «Non è stato efficace come con Tardoff, ma, secondo me, era impossibile. Ho avuto la sensazione che gli interessasse solo allontanarla.» «Forse è stata la strategia migliore. È stata sollevata la questione della concierge medicine?» «Certo. Randolph ha tentato di fare obiezione, ma il giudice sta accettando tutto.» «E della cianosi?» «No. Perché?» «Non mi dà pace. Sarà uno dei punti che avrò in mente quando e se farò l'autopsia.» Un sesto senso lo fece girare e guardare dall'altra parte verso Franco. L'uomo lo stava fissando con un'espressione tra la smorfia e il sorriso crudele, il lato del volto rosso come il suo. Erano pari. Riaccomodandosi sulla dura panca di legno, rivolse la sua attenzione all'interrogatorio. Fasano era sul podio, il dottor Brown sul banco dei testimoni e la stenografa, che batteva incessantemente le dita sulla piccola macchina per scrivere, era di fronte al giudice. Fasano stava facendo sciorinare al testimone le sue impressionanti credenziali accademiche e cliniche, e l'elenco stava andando avanti da un quarto d'ora. Come direttore di cardiologia del Boston Memorial Hospital, era anche rettore del dipartimento di Cardiologia alla facoltà di medicina di Harvard. Randolph si era alzato in parecchie occasioni e aveva proposto di far risparmiare tempo alla corte convenendo, quale esperto, alle qualifiche del testimone, ma Tony aveva continuato. Stava cercando di impressionare la giuria e ci stava riuscendo. Per tutti era sempre più evidente che sarebbe stato arduo trovare un testimone più qualificato in cardiologia o qualificato in modo equivalente. L'aspetto e il comportamento dell'uomo accrescevano il suo impatto. Aveva un'aria da intellettuale simile a quella di Randolph, ma senza l'accenno di spregio e condiscendenza. Era gentile e cordiale, il tipo di persona che si farebbe in quattro per rimettere un uccellino nel nido. I capelli erano bianchi come quelli di un nonno e perfettamente curati, la postura eretta. Gli abiti in ordine, ma non esageratamente eleganti, avevano un'aria comoda e vissuta. Portava un papillon a quadri e si lasciò sfuggire addirittura un moto di disapprovazione quando Fasano riuscì a fargli ammettere le sue onorificenze e i suoi successi.
«Come mai questo asso olimpico della medicina sta testimoniando per l'accusa in un processo di negligenza?» domandò sottovoce Jack ad Alexis, senza aspettarsi una risposta. Si chiese se avesse a che fare con l'inatteso commento di Noelle Everette sulla concierge medicine, quando aveva dichiarato che: «Alcuni di noi della vecchia guardia ce l'hanno con i colleghi che curano solo su abbonamento». Forse Brown faceva parte di quel gruppo, perché il concetto di concierge sfidava la nuova professionalità che l'accademia stava tentando di adottare e l'acclamato dottore, più di chiunque altro in quel processo, rappresentava il mondo accademico. «Dottor Brown», esordì Tony Fasano stringendo i lati del leggio con le corte dita grassocce. «Prima di passare alla triste ed evitabile morte di Patience Stanhope...» «Obiezione», gridò Randolph. «Non è stato stabilito che la morte della signora Stanhope era evitabile.» «Accolta!» dichiarò il giudice Davidson. «Riformuli la domanda!» «Prima di passare alla triste morte di Patience Stanhope, vorrei chiederle se aveva avuto precedenti rapporti con l'imputato, il dottor Craig Bowman.» «Sì.» «Può descrivere la natura di quei rapporti alla giuria?» «Obiezione, vostro onore», sbottò esasperato Randolph. «Irrilevante. Se fosse rilevante in qualche modo, allora mi oppongo al dottor Brown come teste esperto per lamentato pregiudizio.» «Che gli avvocati si avvicinino, per favore», ordinò Davidson. Fasano e Bingham si avvicinarono al giudice. «Non tollererò una replica della giornata di lunedì», dichiarò. «Siete entrambi avvocati esperti, comportatevi di conseguenza. Conoscete le regole. Avvocato Fasano, devo presumere che abbia valide argomentazioni per come sta conducendo il suo interrogatorio.» «Certamente, vostro onore. Il fulcro della nostra causa ruota attorno all'atteggiamento dell'imputato verso i suoi pazienti in generale e verso la signora Stanhope in particolare. Richiamo alla sua attenzione la spregiativa classificazione di 'paziente difficile' che le fu assegnata. Il dottor Brown ci aiuterà a capire come questi tratti caratteriali si siano sviluppati durante il terzo anno di medicina e l'internato del dottor Bowman. Una testimonianza successiva li metterà direttamente in relazione con il caso.» «D'accordo, proceda», concesse il giudice Davidson. «Ma giunga rapidamente a dimostrarne l'importanza. Sono stato chiaro?»
«Perfettamente, vostro onore», rispose Fasano senza riuscire a reprimere un sorrisetto soddisfatto. «Non assuma quell'atteggiamento afflitto», precisò il giudice rivolto a Randolph. «La sua obiezione è stata messa a verbale. A patto che l'avvocato Fasano sia sincero il valore probatorio supererà quello pregiudiziale. Garantirò alla difesa ampia indulgenza durante il controinterrogatorio. Per quello che riguarda il pregiudizio, c'era stata l'opportunità di determinarlo durante l'istruttoria, e non è stato fatto. La questione potrà essere esaminata durante il controinterrogatorio. «E voglio che non si perda tempo», sottolineò. «Ho previsto una settimana e siamo già a mercoledì. Per il bene dei giurati e dei miei impegni, voglio concludere venerdì, a meno che sorgano circostanze particolarmente attenuanti.» Entrambi gli avvocati annuirono. Randolph tornò al suo posto, mentre Tony saliva sul podio. «Obiezione respinta», gridò il giudice Davidson. «Proceda.» «Dottor Brown», chiese Tony dopo essersi schiarito la gola, «può descrivere alla giuria la natura del suo rapporto con il dottor Craig Bowman?» «Sono stato il suo insegnante al Boston Memorial Hospital al terzo anno di medicina durante il tirocinio professionale a rotazione nel reparto di medicina interna.» «Può spiegarci cosa intende con rotazione, visto che nessuno di questi splendidi giurati ha frequentato medicina?» Tony indicò con un gesto svolazzante la fila di giurati, alcuni dei quali annuirono. Tutti prestavano una rapita attenzione, tranne l'aiuto idraulico che era concentrato sulle sue unghie. «È il periodo più importante e più impegnativo del terzo anno e forse di tutti e quattro gli anni. Per la prima volta gli studenti hanno un contatto prolungato con i pazienti, dall'accettazione alla dimissione, e partecipano alla diagnosi e alla terapia sotto stretta osservazione e supervisione del personale interno e del tutore.» «Il gruppo di studenti di cui faceva parte il dottor Bowman era piccolo o grande?» «Piccolo: sei studenti, per l'esattezza. L'insegnamento è intenso.» «Così lei, come docente, vede gli studenti regolarmente.» «Quotidianamente.» «Può quindi osservare la prestazione generale di ognuno di loro.»
«Proprio così. È un momento critico nella vita del tirocinante e segna l'inizio della trasformazione personale da studente a medico.» «Quindi gli atteggiamenti che si esaminano o che si sviluppano sono importanti.» «Molto.» «E come giudica la sua responsabilità di tutore rispetto alle attitudini?» «Estremamente importante. Dobbiamo valutare le attitudini esplicite verso i pazienti incoraggiate dalla facoltà di medicina rispetto alle attitudini implicite spesso esibite dal personale stressato e affaticato.» «C'è una differenza?» domandò Tony con esagerata incredulità. «Può spiegarci quale?» «La quantità di informazioni ed esperienze che gli apprendisti medici devono assimilare aumenta ogni anno. Impegnati come sono, a volte perdono di vista l'aspetto umano che forma la base della professionalità. Ci sono meccanismi di difesa nei confronti di chi soffre e muore che non sono sani.» L'avvocato scosse la testa stupefatto. «Vediamo, se ho capito bene può esserci la tendenza a sminuire il valore dell'individuo, un po' come perdere di vista i singoli alberi prestando troppa attenzione alla foresta?» «Immagino sia così» rispose il dottor Brown. «È importante però non banalizzare.» «Ci proveremo», dichiarò Tony con una breve risatina che suscitò alcuni esitanti sorrisi da parte dei giurati. «Torniamo ora all'imputato. Come si è comportato durante quel periodo del terzo anno?» «In generale in modo eccellente. Del gruppo di sei studenti, era di gran lunga il più competente e preparato. La sua capacità di ricordare mi ha spesso stupito. Rammento di avere chiesto una volta quale fosse il risultato degli esami dell'azotemia di un paziente.» «È un test di laboratorio?» chiese Tony. «Sì. La mia era stata più che altro una domanda retorica, per sottolineare quanto la conoscenza della funzione renale fosse importante nella cura dello stato del paziente. Il dottor Bowman snocciolò l'esito dell'analisi dell'azoto ureico senza alcuna esitazione, tanto che mi chiesi se non l'avesse inventato, un trucco che gli studenti usano spesso per nascondere l'impreparazione. In seguito andai a verificare ed era esatto.» «Quindi il dottor Bowman ottenne ottimi voti.» «Il massimo.» «Eppure lei ha detto che si è comportato 'in generale in modo eccel-
lente'.» «È vero.» «Può spiegarcene il motivo?» «Avevo una fastidiosa sensazione, che riprovai quando fui il suo supervisore durante il suo internato al Boston Memorial Hospital.» «E che cosa era questa sensazione?» «Avevo l'impressione che la sua personalità...» «Obiezione», gridò Randolph. «Il testimone non è né uno psichiatra né uno psicologo.» «Respinta», rifiutò il giudice Davidson. «Come medico, il testimone conosce questi campi della medicina, e lei potrà contestarne i titoli durante il controinterrogatorio. Il testimone può procedere.» «Avevo l'impressione che il desiderio di successo del dottor Bowman e il suo atteggiamento idolatrante nei confronti del capo degli specializzandi dell'epoca lo spingessero a vedere i pazienti come mezzi per competere. Cercava attivamente i pazienti più interessanti, così che le sue presentazioni erano le più interessanti intellettualmente parlando e ottenevano il più ampio plauso.» «In altre parole, la sua impressione era che il dottor Bowman vedeva i pazienti come mezzi per promuovere la sua carriera?» «Essenzialmente sì.» «E quel genere di inclinazione non è compatibile con il concetto di professionalità?» «Giusto.» «Grazie, dottore.» S'interruppe e fissò uno dopo l'altro i giurati, incrociando lo sguardo con ciascuno, consentendo alla testimonianza di fare presa. Jack si chinò verso Alexis e le sussurrò: «Adesso capisco cosa volevi dire. Fasano è in gamba. Ora mette sotto processo la medicina accademica e la sua innata competitività assieme alla concierge medicine». Quando riprese l'interrogatorio riuscì a far dichiarare al suo teste quanto fosse importante iniziare il trattamento per le vittime di attacco di cuore in tempi brevi e come, dal riesame della documentazione, si arguisse che le possibilità di sopravvivenza della defunta erano diminuite a causa del ritardo con cui l'imputato aveva confermato la diagnosi. «Ancora qualche domanda, dottor Brown. Conosce il dottor William Tardoff?» «Sì.»
«Sa che ha insegnato alla Boston University?» «Sì.» «Conosce anche la dottoressa Noelle Everette e sa che insegnava alla Tufts?» «Sì.» «La sorprende che tre cardiologi esperti, di tre prestigiose facoltà di medicina, concordino nell'affermare che il dottor Bowman non ha soddisfatto lo standard di cura in relazione a Patience Stanhope?» «No. Indica semplicemente che tutti e tre concordano sul fatto che per le vittime di infarto è necessario un trattamento tempestivo.» «Grazie, dottore. Nessun'altra domanda.» Tony raccolse le sue carte e tornò al tavolo. Randolph si alzò lentamente e si avvicinò al podio. Si sistemò la giacca e appoggiò un piede sulla pedana. «Dottor Brown», attaccò Randolph. «Concordo che c'è unanimità sulla necessità di intervenire su un attacco di cuore in tempi rapidi e in un istituto adeguatamente attrezzato. Ciononostante, non è questa la controversia presentata davanti alla corte. La controversia riguarda se il mio assistito ha soddisfatto lo standard di cura.» «Insistere a volersi recare a casa Stanhope invece di far portare la paziente in ospedale ha causato il ritardo.» «Prima dell'arrivo del dottor Bowman in casa Stanhope, però, non era ancora stata fatta una diagnosi definitiva.» «Secondo la testimonianza del marito durante l'istruttoria, il dottor Bowman gli aveva detto che sua moglie stava avendo un attacco di cuore.» «Secondo la deposizione del querelante», ribatté Randolph, «mentre l'imputato ha testimoniato di avere solo accennato alla possibilità che avesse un attacco di cuore. Se non fosse stato in atto un infarto, non ci sarebbe stato alcun ritardo. Giusto?» «Sì, è vero, ma come risulta dalla documentazione la signora aveva un attacco di cuore.» «Il dottor Bowman non sapeva con certezza che la signora Stanhope aveva avuto un infarto del miocardio», insisté Randolph. «E questo lo dichiarerà sotto giuramento in questa aula. Ma volgiamo la nostra attenzione alla sua deposizione sulla facoltà di medicina. Posso chiederle se ha ottenuto voti massimi durante il suo periodo in reparto del terzo anno?» «Sì.» «Tutti gli studenti del suo gruppo hanno avuto voti massimi?»
«No, non tutti.» «Ma tutti li avrebbero voluti?» «Immagino di sì.» «Come si entra a medicina? Dovete sempre ottenere voti alti nel curriculum propedeutico alla specializzazione?» «Naturalmente.» «E come fate a ottenere la specializzazione negli ospedali più ambiti, come il Boston Memorial Hospital?» «Ottenendo voti massimi.» «Non è da ipocriti per gli accademici decretare la competizione come antiumanitaria e nello stesso tempo fondare l'intero sistema sulla competizione?» «Non devono escludersi a vicenda.» «Forse in un mondo migliore, ma la realtà è differente. In nessun campo la competizione produce compassione. Come ha testimoniato in modo molto eloquente, gli studenti di medicina devono assorbire una quantità di informazioni sempre crescente e vengono valutati sul loro grado di apprendimento. Secondo la sua esperienza di studente e insegnante c'è competizione per, cito testualmente, 'i pazienti più interessanti' piuttosto che per malattie degenerative di routine?» «Credo di sì.» «Questo perché le loro presentazioni raccolgono più plausi.» «Penso di sì.» «Direbbe quindi che tutti gli studenti e in particolare i migliori sfruttano in un certo senso i pazienti sia per apprendere da loro sia per favorire le loro carriere?» «Forse.» «Grazie, dottore. Ma ora torniamo alla faccenda delle visite a domicilio. Che cosa ne pensa, professionalmente parlando?» «Hanno un valore limitato. Non si ha accesso agli strumenti necessari per praticare la medicina del ventunesimo secolo.» «Quindi i medici non sono favorevoli alle visite a domicilio. È d'accordo?» «Sì. A parte la mancanza di strumenti, rappresentano un inadeguato utilizzo delle risorse. Si perde troppo tempo andando e tornando da una casa. Nello stesso periodo si potrebbero visitare più pazienti.» «Quindi è inefficace.» «Direi di sì.»
«Che cosa ne pensano i pazienti delle visite a domicilio?» «Obiezione!» gridò Tony, sollevandosi un poco dalla sedia. «Sarebbe un'affermazione per sentito dire.» Il giudice si tolse gli occhiali di lettura e fissò Tony con espressione incredula e irritata. «Respinta», sbottò. «Quale paziente, come siamo tutti prima o poi, il dottor Brown parlerebbe per esperienza. Proceda.» «Vuole che le ripeta la domanda?» si offrì Randolph. «No.» Il dottor Brown esitò. «In generale ai pazienti piacciono le visite a domicilio.» «Crede che anche Patience Stanhope la pensasse così?» «Obiezione!» urlò Tony, alzandosi di nuovo. «Supposizione. È impossibile che il testimone possa sapere ciò che la defunta pensava delle visite a domicilio.» «Accolta», concesse il giudice con un sospiro. «Presumo che abbia letto le cartelle mediche fornite dal querelante.» «Sì, le ho lette.» «Quindi sa perfettamente che il dottor Bowman aveva fatto numerose visite a domicilio per occuparsi di Patience Stanhope prima della sera in questione, spesso anche nel bel mezzo della notte. Dalla lettura di quei verbali, a quale diagnosi portavano tutte quelle visite?» «Reazione ansiosa che si manifestava per lo più con disturbi gastrointestinali.» «E la cura?» «Sintomatica e placebo.» «Sussisteva anche dolore?» «Sì.» «E dove?» «Per lo più nel basso addome, ma di tanto in tanto anche nella zona epigastrica.» «Il dolore in questa zona appena al di sotto delle costole viene a volte riferito come dolore di petto. È esatto?» «Sì, è esatto.» «Dalla lettura dei verbali, direbbe che Patience Stanhope mostrava qualche segno d'ipocondria?» «Obiezione!» gridò Tony restando seduto. «L'ipocondria non è stata mai menzionata nel verbale.» «Respinta», dichiarò il giudice Davidson. «La corte desidera ricordare
all'avvocato dell'accusa che il testimone è un medico esperto.» «Il fatto che il dottor Bowman abbia fatto ripetute visite a domicilio, che, come lei stesso ha sostenuto, la maggior parte dei medici disapprova, spesso nel bel mezzo della notte a una donna dichiaratamente ipocondriaca, rivela a lei come medico qualcosa sull'attitudine del dottor Bowman e sulla sua compassione verso i suoi pazienti?» «No.» Randolph s'irrigidì per la sorpresa e sollevò le sopracciglia. «La sua risposta è irragionevole. Può delucidarla?» «So che le visite a domicilio sono uno dei diritti che i pazienti acquistano quando, per accedere a un servizio concierge, pagano onorari anticipati, a volte di addirittura ventimila dollari l'anno. In un caso simile, non si può sostenere che le visite a domicilio del dottor Bowman riflettano necessariamente altruismo o beneficenza.» «Però potrebbero.» «Sì.» «Mi dica, dottor Brown, ha pregiudizi contro la concierge medicine?» «Certo che ce li ho», farfugliò il dottor Brown. Fino a quel momento aveva mantenuto una freddezza distaccata, non dissimile da quella di Randolph. Era evidente che la domanda l'aveva provocato. «Può dire alla giuria perché si prende tanto a cuore la questione?» Il testimone trasse un profondo respiro. «Perché va contro uno dei tre principi basilari della professione medica.» «La prego di spiegarsi meglio.» «Naturalmente», concesse il dottor Brown ricadendo nel suo familiare ruolo professionale. «A parte il benessere e l'autonomia del paziente, il principio della giustizia sociale è il sostegno chiave della professione medica. L'esercizio della concierge medicine va contro il tentativo di eliminare la discriminazione in campo sanitario, che è il presupposto base della giustizia sociale.» «Crede che i suoi forti sentimenti possano compromettere la sua capacità di essere imparziale nei confronti del dottor Bowman?» «No.» «Forse potrebbe spiegarcene il motivo, visto che, parole sue, 'va contro' la razionalità.» «Quale internista bene informato, il dottor Bowman sa che i sintomi che le donne provano in caso di infarto del miocardio differiscono dai classici sintomi degli uomini. Quando un internista pensa che sia in atto un infarto
in una donna, in particolare in fase postmenopausale, deve agire come se fosse un attacco di cuore fino a prova contraria. C'è un parallelo in pediatria: se al medico sorge il sospetto di meningite è obbligato a procedere come se lo fosse e a praticare una rachicentesi. Lo stesso vale per una donna con sospetto attacco cardiaco. Il dottor Bowman sospettava un attacco di cuore e avrebbe dovuto agire di conseguenza.» «Dottor Brown, si dice spesso che la medicina è più un'arte che una scienza. Può dirci che cosa significa?» «Che l'informazione basata sui fatti non è sufficiente. Un medico deve usare anche il suo discernimento e, dal momento che questo non è un campo obiettivo che si può studiare, viene etichettato come arte.» «Quindi la conoscenza medica scientifica ha i suoi limiti.» «Sì. Non ci sono due esseri umani uguali, neppure gemelli identici.» «Direbbe che la situazione che il dottor Bowman ha dovuto affrontare la sera dell'otto settembre 2005, quando è stato chiamato a visitare per la seconda volta in un giorno una donna che sapeva essere ipocondriaca, richiedesse una grande dose di discernimento?» «Tutte le situazioni mediche richiedono discernimento.» «La mia domanda riguarda specificamente la serata in questione.» «Sì. Avrebbe richiesto una grande dose di discernimento.» «Grazie, dottore», disse Randolph, radunando i suoi appunti. «Nessun'altra domanda.» «Il testimone può ritirarsi», dichiarò il giudice Davidson. Poi, rivolgendosi ai giurati, aggiunse: «Si avvicina mezzogiorno e mi pare che tutti voi abbiate bisogno di una pausa. Io di sicuro. Ricordatevi di non discutere la causa con nessuno né tra di voi». Batté il martelletto. «La corte si aggiorna fino all'una e mezzo.» «In piedi», gridò il cancelliere mentre il giudice scendeva dallo scranno e scompariva nel suo studio. 11 Boston Mercoledì, 7 giugno 2006 12.30 Alexis, Craig e Jack avevano trovato un piccolo e rumoroso bar che si affacciava sull'ampio spiazzo del Government Center. Avevano invitato
anche Randolph, che aveva rifiutato, sostenendo di avere dei preparativi da ultimare. Era una splendida giornata e la piazza era piena di gente che si prendeva una boccata d'aria fresca e un po' di sole nella pausa pranzo. Boston era una città in cui si viveva all'aria aperta molto più che a New York. Da principio Craig aveva fatto scena muta, poi aveva iniziato a rilassarsi e a partecipare alla conversazione. «Non hai parlato dell'autopsia», osservò improvvisamente. «A che punto è?» «Al momento è nelle mani dell'impresario delle onoranze funebri. Deve far avere i permessi al dipartimento della Sanità e provvedere all'apertura della tomba e al trasporto della bara.» «Quindi è ancora possibile?» «Me lo auguro. Avevo sperato di poterla eseguire questo pomeriggio, ma non avendolo sentito, immagino che dovremo sperare in domani.» «Il giudice vuole che la causa passi nelle mani della giuria venerdì», dichiarò scoraggiato Craig. «Domani potrebbe essere troppo tardi. Odio farti fare tutto questo per niente.» «Forse è inutile», concordò Alexis avvilita. «Forse non servirà a niente.» Jack li guardò, prima l'uno poi l'altra. «Ehi, forza. Per me non è così. Mi dà la sensazione di fare qualcosa. Inoltre, più penso alla cianosi, più m'interessa eseguirla.» «Perché?» domandò Alexis. «Spiegamelo di nuovo.» «Non farlo», bofonchiò Craig. «Non voglio sollevare false speranze. Analizziamo piuttosto ciò che è successo questa mattina.» «Non pensavo che avresti voluto parlarne», si sorprese Alexis. «Preferirei dimenticarmene, ma sfortunatamente non posso permettermelo, se vogliamo provare a cambiare le cose.» Craig e Alexis fissarono Jack ansiosi. «Cos'è?» chiese lui con un sorriso storto, «un interrogatorio? Perché io?» «Tu sei il più obiettivo», rispose la sorella. «Mi sembra ovvio.» «Come ti sembra si stia comportando Randolph, ora che l'hai visto in azione?» volle sapere Craig. «Io sono preoccupato. Non voglio perdere la causa e non solo perché non c'è stata alcuna negligenza. La mia reputazione finirebbe in pezzi. L'ultimo teste è stato mio insegnante alla facoltà di medicina e mio tutore durante la specializzazione. Adoravo quell'uomo e non ho cambiato idea, professionalmente parlando.» «Posso immaginare quanto sia devastante e mortificante», replicò Jack,
«ma ritengo che Randolph stia facendo un buon lavoro. Ha neutralizzato quasi tutte le affermazioni del dottor Brown. Da quello che ho visto stamattina, direi che è andata bene. Il problema è che Fasano è più divertente, ma non mi sembra sufficiente per cambiare avvocato a metà strada.» «Quello che Randolph non ha neutralizzato è stata la forte analogia con il paziente pediatrico e la meningite. Aveva ragione, perché è così che si deve reagire anche se si ha solo il sospetto che una donna in fase postmenopausale stia avendo un attacco di cuore. Le donne non presentano gli stessi sintomi degli uomini in un numero sorprendente di casi. Forse ho veramente incasinato tutto, perché l'infarto mi era passato per la mente.» «Giudicarsi con il senno di poi è una tendenza predominante dei medici, in ogni caso con esito negativo», gli ricordò Jack. «La verità è che tu ti sei fatto in quattro per quella donna che in realtà ti sfruttava. Non è politicamente corretto dirlo, ma è così. Con tutti i suoi falsi allarmi e le chiamate nel bel mezzo della notte, non mi stupisce che il tuo indice di sospetto sulla reale malattia sia precipitato.» «Grazie. Le tue parole significano molto per me.» «Il guaio è che Randolph deve farlo capire anche alla giuria. Tutto qui. E ricorda che Randolph non ha ancora presentato le sue argomentazioni e prove. Avete i vostri esperti.» Craig inspirò profondamente ed espirò rumorosamente. Annuì un paio di volte. «Hai ragione. Non posso cedere, ma domani toccherà a me testimoniare.» «Direi che dovresti essere ansioso di farlo», commentò Jack. «Sei tu quello che più di ogni altro sa esattamente cosa è successo e quando.» «Questo lo so molto bene», ammise Craig. «Il problema è che disprezzo tanto Fasano che non riesco a mantenere la calma. Hai letto la deposizione. Mi ha irritato. Randolph mi aveva consigliato di non mostrarmi arrogante e sono stato arrogante. Mi aveva detto di non mettermi a discutere e l'ho fatto. Mi aveva raccomandato di non infuriarmi e mi sono infuriato. Randolph mi aveva avvertito di rispondere solo alle domande e io sono partito per la tangente, tentando di giustificare semplici errori. Mi sono comportato malissimo e temo che succederà di nuovo. Non sono per niente bravo in questo.» «Considera la tua deposizione un'esperienza istruttiva», suggerì Jack. «E ricorda: la deposizione è durata due giorni. Il giudice non permetterà che la tua testimonianza duri altrettanto. È lui che vuole concludere il processo venerdì.»
«Immagino che tutto si riduca al fatto che non ho fiducia in me», replicò il cognato. «L'unico aspetto positivo di tutta questa brutta storia è che mi ha costretto a guardarmi allo specchio. Il motivo per cui Fasano è riuscito a farmi apparire arrogante è che lo sono veramente. So che non è politicamente corretto dirlo, ma io sono il miglior dottore che conosco. Ne ho avuto conferma in molti e diversi modi. Sono sempre stato uno degli studenti migliori, se non il migliore, durante tutta la formazione e mi sono abituato agli applausi. Mi piace sentirli ed è per questo che i fischi, come quelli che sento adesso, sono tanto umilianti e dolorosi.» Dopo questo sfogo si zittì. Alexis e Jack erano momentaneamente rimasti senza parole. Dopo che il cameriere se ne fu andato, Craig esclamò: «Che qualcuno dica qualcosa!» «Non so proprio che cosa dire. Non so se rispondere emotivamente o professionalmente», disse Alexis. «Prova professionalmente. Credo di avere bisogno che mi si ricordi qual è la realtà. Qui sono in caduta libera. E sai perché? Ecco perché. Quando ero al college e mi facevo un culo così, pensavo che fosse una gran rottura ma che, una volta alla facoltà di medicina, non avrei avuto più problemi. Ebbene, anche la facoltà di medicina è stata una gran rottura, e così aspettavo con ansia la specializzazione. Forse stai afferrando la situazione. Ecco, la specializzazione non è stata una passeggiata, eppure dietro l'angolo c'era l'avvio del mio studio medico. È stato allora che la realtà mi ha disilluso, grazie alle compagnie assicurative e all'assistenza medica gestita e a tutte le stronzate che si dovevano sopportare.» Jack lanciò un'occhiata ad Alexis e vide che si stava dibattendo su quello che avrebbe potuto dire di fronte a queste improvvise rivelazioni. Il monologo di Craig l'aveva scioccato. La psicologia non era affatto il suo forte. «La tua introspezione è sensazionale», iniziò Alexis. «Non rifilarmi stronzate piene di condiscendenza», sbottò Craig. «Credimi, non lo sto facendo. Sono impressionata, sinceramente! Ciò che stai cercando di comunicare è che la tua natura romantica ha continuamente patito delusioni, dato che la realtà non è riuscita a soddisfare le tue aspettative idealizzate. Ogni volta che raggiungevi un obiettivo, non era ciò che pensavi sarebbe stato. È tragico.» Il marito roteò gli occhi. «A me questa sembra una cazzata.» «Non lo è», insisté Alexis. «Riflettici.» «D'accordo», concluse. «Ha senso. Eppure mi pare un modo molto con-
torto per dire che le cose non sono andate come dovevano. Ma io non conosco il linguaggio della psicologia.» «Ti sei dibattuto con alcuni conflitti», riprese Alexis. «Non è stato facile per te.» «Oh, davvero», esclamò Craig con un accenno di arroganza. «Non metterti sulla difensiva», lo rimbrottò. «Hai chiesto tu il mio parere professionale.» «Hai ragione! Scusami! Sentiamo i conflitti.» «Il più semplice è quello tra la pratica e la ricerca. Nel passato ti ha provocato ansia proprio per il tuo bisogno di applicarti al cento percento in ogni attività, ma in questo caso sei riuscito a trovare un equilibrio. Un conflitto più difficile è quello tra dedicarti alla professione medica e alla famiglia. Questo ti ha provocato moltissima ansia.» La fissò, ma rimase in silenzio. «Per ovvie ragioni, non posso essere obiettiva», proseguì Alexis. «Ciò che vorrei fare è spingerti a esaminare queste tue riflessioni con un professionista.» «Non mi piace chiedere aiuto», ammise lui. «Lo so, ma anche questo tuo atteggiamento potrebbe essere qualcosa che varrebbe la pena rivedere.» Alexis si rivolse poi al fratello: «Vuoi aggiungere qualcosa?» Lui alzò le mani. «No. Questo è un campo in cui non sono bravo.» In realtà, ciò che stava pensando era che anche lui aveva i suoi conflitti, e cioè se fondare o no una nuova famiglia con Laurie, come aveva in programma quel venerdì. Per molti anni si era rifiutato, perché pensava di non meritare di essere felice e perché temeva che un'altra famiglia sminuisse la prima. Poi, con il trascorrere degli anni, era passato a temere di mettere in pericolo Laurie. Aveva lottato contro l'irragionevole paura che amare qualcuno mettesse quella persona a rischio. La conversazione prese una piega più leggera e Jack approfittò del momento per allontanarsi e fare una telefonata. Camminando verso la piazza, compose il numero dell'istituto di medicina legale di New York. Aveva avuto intenzione di lasciare un messaggio alla segretaria di Calvin, con la speranza che fosse uscito per il pranzo, ma fu lui in persona a rispondere al telefono. «Quando diavolo hai intenzione di tornare?» tuonò sentendo la sua voce. «La faccenda si fa difficile», rispose Jack. Dovette poi allontanare il telefono dall'orecchio mentre il suo capo imprecava e sbraitava. Dopo averlo
sentito dire: «Che diavolo stai facendo, in ogni caso?» riportò il cellulare all'orecchio e spiegò di avere proposto di eseguire un'autopsia. Riferì poi a Calvin di avere conosciuto il capo dell'istituto di medicina legale di Boston, il dottor Kevin Carson. «Davvero? Come sta quel vecchio sudista?» «Bene, credo. L'ho incontrato mentre era nel bel mezzo di un'autopsia, così abbiamo chiacchierato solo brevemente.» «Ha chiesto di me?» «Oh, sì!» mentì. «Ha detto di salutarti.» «Se ti capitasse di rivederlo, ricambia i saluti. E poi torna subito qui. Non occorre che ti dica che Laurie è nervosissima con il gran giorno dietro l'angolo. Non penserai di precipitarti qui all'ultimo minuto, vero?» «Certo che no», replicò Jack. Calvin era uno dei colleghi dell'istituto che Laurie aveva voluto invitare, mentre, fosse dipeso da lui, non avrebbe voluto nessuno, a parte Chet, il suo compagno d'ufficio. L'istituto ne sapeva anche troppo della loro vita privata. Dopo una breve passeggiata sotto il sole, tornarono tutti e tre in tribunale. Davanti all'aula altri stavano entrando. Era l'una e un quarto. Si accodarono. Craig superò la balaustra che divideva la corte dal pubblico assieme a Randolph e al suo assistente. Jordan Stanhope era già seduto al tavolo dell'accusa con Fasano e la sua assistente. Jack pensò che Tony stesse dando a Jordan gli ultimi consigli prima della sua testimonianza. Sebbene il suono della sua voce si perdesse nel chiacchiericcio generale, le sue labbra si muovevano rapidamente e stava gesticolando con entrambe le mani. «Ho il brutto presentimento che questo pomeriggio sarà una farsa», commentò Jack mentre si faceva strada verso la stessa fila occupata al mattino. Alexis aveva detto che le piaceva essere vicina ai giurati per osservare le loro espressioni e i gesti. Al momento il banco dei giurati era vuoto. «Temo che tu abbia ragione», ammise lei, sedendosi e appoggiando la borsa sul pavimento davanti a sé. Jack si sistemò e si guardò intorno e ancora una volta si ritrovò ad affrontare lo sguardo di Franco. Grazie alla luce vide gli occhi: due lucenti biglie nere. Provò l'impulso di salutarlo di nuovo, ma questa volta prevalse il buonsenso. Si era già divertito abbastanza quella mattina. «Le affermazioni di Craig ti sono parse sorprendenti come a me?» chiese Alexis. Felice di poter distogliere lo sguardo da Franco, si girò verso la sorella.
«Direi che un termine migliore sarebbe sbalorditive. Non voglio essere cinico, ma le ho trovate inconsuete. I narcisisti si riconoscono come tali?» «Di solito no, a meno che siano in terapia e motivati. Naturalmente sto parlando di qualcuno con un disturbo della personalità reale e disfunzionale, non di un semplice tratto caratteriale tipico della maggior parte dei medici.» «Questo genere di introspezione è una temporanea risposta allo stress o un vero cambiamento di consapevolezza di sé?» «Lo dirà il tempo, ma sono speranzosa. Sarebbe qualcosa di molto positivo. Craig è veramente vittima di un sistema che lo spingeva a competere e a eccellere e l'unico modo che aveva per capire che stava eccellendo era ottenere le lodi dei suoi insegnanti, come il dottor Brown. Conclusa la specializzazione, si era trovato come un drogato cui viene rifiutata la dose, mentre nello stesso tempo era deluso dalla realtà del tipo di medicina che era costretto a praticare.» «Credo che capiti a molti dottori. Hanno bisogno di lodi.» «A te non è successo? Come mai?» «Fino a un certo livello è capitato anche a me, quando ero ancora oftalmologo. Randolph è riuscito a far ammettere al dottor Brown che è colpa del sistema competitivo della formazione medica. Il fatto è che, quando ero studente, non ero monomaniacale come tuo marito. Avevo altri interessi oltre la medicina. Non avevo ricevuto il massimo dei voti al termine del praticantato del terzo anno.» Sobbalzò quando il cellulare cominciò a vibrargli in tasca. Armeggiò freneticamente. «Qualcosa non va?» gli chiese Alexis guardando le sue contorsioni. Aveva spinto in avanti il bacino per raddrizzarsi. «Questo dannato telefono», spiegò. Lanciò un'occhiata al display. Era un prefisso di Boston. Poi ricordò il numero, era quello dell'impresa funebre. «Torno subito.» Si alzò e uscì rapidamente dall'aula e solo allora rispose. La ricezione era pessima, per cui sospese la comunicazione, scese a piano terra e uscì dall'edificio. Richiamò scusandosi per l'interruzione. «Nessun problema», lo rassicurò Harold. «Ho buone notizie. Ho tutti i permessi, è tutto sistemato.» «Fantastico. Quando? Questo pomeriggio?» «No, quello sarebbe stato un miracolo. Domani a metà mattinata, è il meglio che sono riuscito a fare.» Deluso, ringraziò l'impresario e chiuse la comunicazione. Immobile, si
chiese se chiamare Laurie per avvisarla. Pur sapendo che sarebbe stato giusto, l'idea non lo entusiasmava, immaginando quale sarebbe stata la sua reazione. Gli venne poi in mente un piano vigliacco. Invece di telefonarle in ufficio, decise di chiamarla sul cellulare e lasciarle un messaggio sulla segreteria, visto che raramente accendeva il telefonino durante la giornata. In quel modo avrebbe preso tempo prima di ricevere la sua telefonata alla sera. Con grande sollievo sentì il messaggio registrato, quindi tornò al suo posto vicino ad Alexis. Al banco dei testimoni sedeva ora Jordan Stanhope e Fasano era sul podio, ma non stava parlando nessuno. «Cosa mi sono perso?» bisbigliò. «Niente. Jordan ha appena giurato e sta per testimoniare.» «L'autopsia è fissata per domani. Il corpo verrà esumato domattina.» «Bene», rispose Alexis, ma la sua reazione non fu quella che aveva previsto Jack. «Non mi sembri entusiasta.» «Come potrei? Come ha detto Craig, domani potrebbe essere troppo tardi.» Jack scrollò le spalle. Stava facendo tutto il possibile. «So che questo è difficile per lei», attaccò Fasano in tono enfatico, per farsi sentire. «Farò di tutto per abbreviare e renderle meno dolorosa possibile la sua testimonianza, ma la giuria deve sentire cos'ha da dire.» Jordan annuì con riconoscenza. Invece della solita postura eretta, teneva le spalle curve e aveva un'espressione affranta e avvilita, accentuata dagli angoli della bocca piegati all'ingiù. Indossava un abito di seta nera con camicia bianca e cravatta nera. Dal taschino spuntava appena la punta di un fazzoletto. «Immagino che sua moglie le manchi», osservò l'avvocato. «Era una donna meravigliosa, appassionata e colta, che amava la vita, non è vero?» «Perbacco!» gemette Jack rivolto ad Alexis. «Considerato quello che ho visto a casa sua, mi verrà la nausea. Non sono un avvocato, ma è sicuramente una domanda tendenziosa. Perché Randolph non obietta?» «Mi ha detto che la testimonianza di una vedova o di un vedovo è sempre la più problematica per la difesa. Sostiene che la migliore strategia sta nel farlo scendere il più presto possibile dal banco dei testimoni, che significa dare all'accusa libertà d'azione.» Jack annuì. Il dolore per la perdita di un famigliare era un'emozione che toccava tutti.
Jordan continuò a parlare in tono disgustosamente sentimentale di Patience: quanto fosse splendida, quanto la loro vita insieme fosse ideale, e quanto l'avesse amata. Tony lo imboccava suggerendogli la risposta ogni volta che Jordan esitava. Mentre la testimonianza procedeva noiosamente, Jack girò la testa e scrutò la galleria degli spettatori. Vide Franco che stava fissando il teste e fu sollevato, sperando che il loro scontro fosse acqua passata. Riprese a esplorare la folla e individuò Charlene, nell'ultima fila, in un affascinante abito nero da lutto. A volte proprio non riusciva a credere di quanta perversione erano capaci gli esseri umani. Anche se solo per salvare le apparenze, non sarebbe dovuta essere lì. Il protrarsi dei falsi elogi da parte del testimone lo stava innervosendo e gettò un'occhiata alla nuca del cognato che se ne stava immobile, come in trance, e provò a immaginare come sarebbe stata la sua vita, se fosse finito in un simile incubo. Lanciò poi un'occhiata furtiva alla sorella, completamente assorta. Le augurò mentalmente ogni bene e si dispiacque di non poter fare di più. «Parliamo ora dell'otto settembre 2005», cambiò registro Tony. «Immagino che sua moglie non si sentisse molto bene quel giorno. Può raccontarci con parole sue cosa è successo?» Jordan si schiarì la gola e si drizzò. «Era metà mattina quando mi sono reso conto che non si sentiva bene. Mi ha chiamato in camera sua e ho visto che soffriva molto.» «Di che cosa si lamentava?» «Dolore all'addome, flatulenza e congestione. Tossiva più del solito, e mi disse che non aveva dormito e che non ce la faceva più. Mi ha chiesto di chiamare il dottor Bowman e di farlo venire immediatamente. Non se la sentiva di andare in studio.» «Erano presenti altri sintomi?» «Diceva di avere mal di testa e di sentirsi calda.» «Tutto qui, per quello che riguardava i sintomi: dolore addominale, gas intestinali, emicrania e una sensazione di calore.» «Sì, voglio dire, si lamentava sempre di qualcosa, ma quelli erano i più importanti.» «Povera donna», sospirò Tony. «Ed era dura anche per lei, immagino.» «Facevamo del nostro meglio per sostenere la situazione», ribatté Jordan in tono rigido. «Allora ha telefonato al dottore, e lui è venuto a casa vostra.»
«Sì, è venuto.» «E che cosa è successo?» «L'ha visitata e le ha raccomandato di prendere il farmaco che le aveva già prescritto per il sistema digestivo. Le ha consigliato di scendere dal letto e di fumare di meno. Le ha anche detto che pensava che fosse più ansiosa del solito e le ha raccomandato di assumere, prima di coricarsi, una piccola dose di un antidepressivo. Disse che pensava valesse la pena provarlo.» «Quei consigli avevano soddisfatto Patience?» «No, voleva un antibiotico, ma il dottor Bowman glielo ha rifiutato, sostenendo che non ne aveva bisogno.» «Ha seguito le raccomandazioni del medico? «Non so quali farmaci abbia assunto, ma alla fine si è alzata. Mi sembrava stesse meglio. Poi, verso le cinque del pomeriggio, ha detto che sarebbe tornata a letto.» «A quel punto si era lamentata di altri disturbi?» «Non proprio. Voglio dire, aveva dei doloretti ed è per questo che è tornata a coricarsi.» «Cosa è successo poi?» «Verso le diciannove mi ha chiamato di nuovo in camera sua. Voleva che telefonassi al dottore, perché si sentiva molto male.» «Si lamentava degli stessi dolori del mattino?» «No, erano completamente diversi.» «Di che cosa si lamentava?» «Di un dolore al petto che durava da un'ora.» «Che era del tutto differente dal dolore addominale del mattino?» «Completamente.» «Che altro?» «Si sentiva debole e mi disse di avere vomitato. Riusciva a stento a mettersi seduta sul letto, si sentiva intorpidita e aveva come la sensazione di galleggiare. Trovava anche difficile respirare. Sembrava molto malata.» «A me pare una situazione molto grave. Lei deve essersi spaventato.» «Ero inquieto e preoccupato.» «E così», intonò Tony per dare più enfasi alle sue parole, «ha chiamato il dottore, e cosa gli ha detto?» «Gli ho riferito che Patience stava molto male e che bisognava ricoverarla in ospedale.» «E come ha reagito il dottor Bowman alla sua pressante richiesta di an-
dare immediatamente in ospedale?» «Ha voluto che gli descrivessi i sintomi.» «E lei lo ha fatto? Gli ha detto ciò che ha detto a noi oggi?» «Quasi parola per parola.» «E qual è stata la risposta del dottor Bowman? Le ha detto di chiamare un'ambulanza e che vi sareste incontrati all'ospedale?» «No. Ha continuato a farmi domande, tanto che sono dovuto tornare da mia moglie per rivolgerle a lei.» «Voglio essere sicuro di avere capito. Lei gli ha detto che sua moglie stava male e lui l'ha fatta tornare più volte in camera sua per porle domande specifiche. È questo che sta dicendo?» «Sì, esattamente.» «Durante questo scambio di domande e risposte, mentre trascorreva del tempo prezioso, lei ha ripetuto di ritenere che sarebbe stato meglio portarla direttamente in ospedale senza sprecare altro tempo?» «Sì. Ero terrorizzato.» «Ed era comprensibile che lo fosse, dato che sua moglie stava morendo davanti ai suoi occhi.» «Obiezione», esclamò Randolph. «Argomentativo e pregiudiziale.» «Accolta», concesse Davidson, che si rivolse alla giuria: «Tralasciate e non prendete in considerazione quest'ultima affermazione». Poi a Fasano: «L'avverto, avvocato, non tollererò più simili commenti». «Chiedo scusa alla corte. L'emozione ha prevalso sul buonsenso. Non succederà più.» Alexis si chinò verso il fratello: «Quell'uomo mi spaventa. È furbo come una volpe, l'ha fatto apposta». Jack annuì. Era come guardare un picchiatore da strada in una rissa senza regole. Fasano andò al suo tavolo per bere qualcosa e, di nascosto dal giudice, strizzò l'occhio alla sua assistente. «Durante quella conversazione telefonica», riprese, «con sua moglie gravemente malata, il dottor Bowman ha mai parlato di attacco di cuore?» «Sì.» «Ha detto che stava avendo un attacco di cuore?» «Sì. Ha detto che pensava potesse trattarsi di infarto.» Jack vide Craig chinarsi verso il suo avvocato e sussurrargli qualcosa. Randolph annuì. «Quando il dottor Bowman arrivò a casa sua e vide Patience, si compor-
tò in modo differente rispetto a quando era al telefono. Giusto?» «Obiezione», gridò Randolph. «Domanda allusiva.» «Accolta.» «Signor Stanhope, può raccontarci cosa accadde quando il dottor Bowman arrivò a casa sua la sera dell'otto settembre dello scorso anno?» «Rimase scioccato dallo stato di Patience e mi ordinò di chiamare immediatamente un'ambulanza.» «La condizione di sua moglie era drasticamente cambiata tra la conversazione telefonica con il dottor Bowman e il suo arrivo?» «No.» «A quel punto il dottor Bowman le ha detto qualcosa che le è parsa inappropriata?» «Sì. Mi ha biasimato per non avergli descritto in modo adeguato lo stato di Patience.» «Ne è rimasto sorpreso?» «Naturalmente. Gli avevo riferito quanto stava male e avevo insistito ripetutamente sulla necessità di portarla subito in ospedale.» «Grazie, signor Stanhope. Le sono grato per la sua testimonianza su questo tragico evento. Un'ultima domanda: cosa indossava il dottor Bowman quando arrivò a casa sua quella fatidica serata? Se ne ricorda?» «Obiezione», gridò Randolph. «Irrilevante.» Davidson giocherellò con la matita e fissò Fasano: «È una questione rilevante o un semplice abbellimento?» «Molto rilevante, vostro onore, come chiarirà la testimonianza della prossima teste dell'accusa.» «Obiezione respinta. Il testimone può rispondere alla domanda.» «Il dottor Bowman indossava lo smoking ed era in compagnia di una giovane donna in abito da sera.» Alcuni giurati si scambiarono occhiate come a chiedersi a cosa stessero pensando. «Riconobbe la giovane donna?» «Sì, l'avevo vista nello studio del dottore e lui me l'aveva presentata come la sua segretaria.» «Ha ritenuto il loro abbigliamento formale strano o rilevante?» «Sia strano sia rilevante», rispose lui. «Strano, perché era evidente che stavano andando a un evento mondano e io sapevo che il dottor Bowman era sposato, e rilevante, perché mi aveva spinto a chiedermi se quell'abbigliamento non avesse avuto a che fare con la decisione del dottore di veni-
re a casa invece di incontrarci in ospedale.» «Grazie, signor Stanhope», concluse l'avvocato, raccogliendo le sue carte. «Nessun'altra domanda.» «Avvocato Bingham», invitò il giudice Davidson, con un cenno del capo in direzione dell'avvocato della difesa. Randolph esitò, immerso nei suoi pensieri, e anche quando si alzò e si avvicinò al podio, sembrava si muovesse come un automa. Nell'aula cadde il silenzio. «Signor Stanhope», esordì. «Le porrò solo poche domande. Tutti noi, al tavolo della difesa, incluso il dottor Bowman, siamo addolorati per la sua perdita e comprendiamo quanto le sia difficile tornare a quella fatale serata, perciò sarò breve. Torniamo alla sua conversazione telefonica con il dottor Bowman. Ricorda di avere detto al mio assistito che, per quel che ricordava, Patience non si era mai lamentata di dolori al petto?» «Non ne sono certo. Ero sconvolto.» «Eppure con il mio collega, i suoi ricordi di quella telefonata mi sono parsi completi in modo impressionante.» «Forse l'avevo detto, ma non ne sono sicuro.» «Devo ricordarle che l'ha ammesso nella sua deposizione? Vuole che gliela legga?» «No. Se c'è, allora è vero. Anzi, ora che me lo ricorda, credo di avere detto che Patience non aveva mai avuto dolori al petto. È successo nove mesi fa ed ero preoccupato.» «Me ne rendo conto. Vorrei comunque che cercasse nella sua memoria la risposta del dottor Bowman. Ricorda cosa disse?» «Credo di no.» «Lui l'aveva corretta e le aveva ricordato che sua moglie aveva denunciato dolori al petto precedentemente e in numerose occasioni, per cui era andato a visitarla a casa sua.» «La conversazione telefonica è avvenuta tanto tempo fa e io in quel momento ero molto agitato. Non mi sembra strano che non ricordi.» «Non lo è per niente, eppure lei è sicuro che il dottor Bowman aveva affermato specificamente che Patience stava avendo un infarto.» «Aveva detto che non era da escludere.» «La sua scelta dei termini indica che non era stato il dottor Bowman a sollevare la questione.» «L'avevo sollevata io. Gli avevo chiesto se era quello a cui stava pensando. L'avevo immaginato dalle domande che mi chiedeva di rivolgere a
Patience.» «Dire che non era da escludere è molto diverso da dichiarare che sua moglie stava avendo un attacco di cuore. La sorprenderebbe, se le dicessi che il dottor Bowman non ha mai usato il termine 'attacco di cuore' durante la vostra conversazione telefonica?» «Ne abbiamo parlato, questo lo ricordo.» «Era stato lei a sollevare la questione. Lui aveva semplicemente detto che non era da escludere. Non ha mai usato quelle parole.» «Forse è così, ma che differenza fa?» «Credo che faccia un'enorme differenza. Ritiene forse che, ogni volta che qualcuno accusa un dolore al petto, lei per esempio, ed è in contatto telefonico con un medico, lui o lei penserà che non si debba escludere un attacco di cuore?» «Immagino di sì.» «Quindi, quando lei ha riferito al dottor Bowman che Patience aveva un dolore al petto, non sorprende che il dottor Bowman abbia pensato che non era da escludere, anche se le probabilità erano molto, molto scarse.» «Immagino di no.» «E nelle precedenti visite a domicilio fatte dal dottor Bowman in risposta alle lagnanze di dolore al petto di Patience, quali erano state le diagnosi?» «Flatulenza.» «Giusto! Gas intestinali nella fessura splenica del colon, per essere esatti. Non erano attacchi di cuore, né dolori al cuore, visto che gli elettrocardiogrammi e gli enzimi erano normali e i valori erano rimasti normali negli esami successivi.» «Quelli non erano attacchi di cuore.» «Il dottor Bowman ha fatto numerose visite a domicilio per assistere Patience. I registri indicano che in un periodo di otto mesi le visite a domicilio erano state circa una alla settimana. È conforme a quello che ricorda lei?» «Sì.» «Era Patience che preferiva essere visitata a casa?» «Sì. Non le piaceva recarsi nello studio medico.» «E cosa pensava degli ospedali?» «Ne era atterrita.» «Così, facendo visite a domicilio, il dottor Bowman veniva incontro ai bisogni e ai desideri di sua moglie?»
«Sì.» «Dal momento che lei è quasi in pensione e trascorre buona parte del suo tempo a casa, ha avuto numerose opportunità di confrontarsi con il dottor Bowman, viste le sue numerose visite a domicilio.» «Sì, è vero», ammise Jordan. «Chiacchieravamo tutte le volte che veniva e ci trovavamo simpatici.» «Immagino che lei fosse sempre presente quando il dottor Bowman si prendeva cura di Patience.» «O io o la nostra cameriera.» «Nelle sue numerose conversazioni con il mio assistito, che immagino riguardassero soprattutto Patience, è mai saltato fuori il termine ipocondriaco?» Gli occhi di Jordan saettarono verso il suo avvocato per tornare subito su Randolph. «Sì, è successo.» «Immagino che lei conosca la definizione del termine.» «Certo.» «Viene riferito a una persona che distorce delle normali sensazioni e funzioni e crede che indichino gravi problemi che necessitano di un'attenzione medica. È così che lei intende questo termine?» «Non sarei riuscito a essere così esplicito, ma sì, è così.» «Il dottor Bowman ha mai usato questo termine riferendosi a Patience?» «No, mai. Ha detto che è importante ricordare che gli ipocondriaci potrebbero avere malattie reali oltre a quelle psicologiche e che, anche se le malattie immaginarie non sono reali, li fanno soffrire ugualmente.» «Pochi momenti fa, mentre il mio collega la interrogava, lei ha dichiarato sotto giuramento che lo stato di Patience non era drasticamente cambiato tra la conversazione telefonica e l'arrivo del dottor Bowman.» «Giusto.» «Durante quella conversazione lei ha detto al dottor Bowman che riteneva che Patience respirasse a fatica. Se ne ricorda?» «Sì.» «Ha anche affermato che le sembrava piuttosto bluastra. Ricorda anche questo?» «Non so se quelle sono state le mie esatte parole, ma la sostanza è quella.» «Lei ha detto esattamente questo o qualcosa di molto simile. Nella sua deposizione ha ammesso che era molto simile. Vuole leggere le parti più importanti?»
«Se l'ho detto, allora lo era. A questo punto non lo ricordo.» «Al suo arrivo, il dottor Bowman ha trovato Patience completamente blu e incapace quasi di respirare. Direbbe che la situazione era molto diversa dalla sua descrizione al telefono?» «Cercavo di fare del mio meglio in una situazione difficile. Gli ho fatto capire che stava molto male e che sarebbe dovuta essere ricoverata in ospedale.» «Un'altra domanda», incalzò Randolph, raddrizzandosi in tutta la sua altezza. «Tenendo presente la lunga storia di ipocondria di Patience e i precedenti episodi di dolore al petto causati da gas intestinale, crede che la sera dell'otto settembre 2005 il dottor Bowman abbia pensato che Patience Stanhope stesse avendo un infarto?» «Obiezione», gridò Tony, alzandosi in piedi. «Testimonianza per sentito dire.» «Accolta», acconsentì il giudice Davidson. «Si potrà porre questa domanda all'imputato stesso durante il suo interrogatorio.» «Nessun'altra domanda», concluse Randolph, tornando a grandi passi al tavolo della difesa. «Desidera reinterrogare il teste?» chiese il giudice a Tony. «No, vostro onore.» Mentre Jordan abbandonava il banco dei testimoni, Jack si girò verso Alexis, alzando il pollice per il controinterrogatorio di Randolph. Poi i suoi occhi sfiorarono i giurati che non gli parvero affascinati come lo era stato lui. Invece di essere chini in avanti come lo erano stati prima, erano tutti appoggiati allo schienale delle loro sedie, le braccia incrociate al petto, tranne l'aiuto idraulico, che aveva ripreso a occuparsi delle sue unghie. «Avvocato dell'accusa, chiami il suo prossimo testimone», ordinò il giudice Davidson. Tony si alzò e gridò: «Chiamo a deporre la signorina Leona Rattner». 12 Boston Mercoledì, 7 giugno 2006 15.25 Jack si girò di colpo. Provò un interesse leggermente libidinoso nel vedere l'attraente ragazza sfacciata trasformata in bisbetica respinta. Avendo
letto la sua salace deposizione, era certo che la testimonianza sarebbe stata uno spettacolo. Leona entrò e percorse il corridoio centrale senza alcuna esitazione. Al posto del suo abituale abbigliamento sexy, a detta di Craig, indossava un completo pantaloni blu scuro con una camicetta bianca abbottonata fino al collo. Jack riconobbe lo zampino di Fasano. L'unico accenno al suo stile erano i sandali dal tacco vertiginoso che le davano un'andatura leggermente barcollante. Nonostante gli abiti castigati, Jack non ebbe difficoltà a intuire che cosa ci aveva trovato Craig. I suoi lineamenti non avevano nulla di speciale, neppure i capelli biondo paglia, ma aveva una pelle perfetta, lucente e soda, l'emblema della sensualità giovanile. Superò la balaustra con un movimento sexy. Sapeva di essere sotto gli occhi di tutti e la cosa le piaceva. Jack diede un'occhiata furtiva alla sorella, il viso di pietra, le labbra serrate, si stava trincerando contro quello che stava per accaderle. Il cancelliere lesse il giuramento, mentre Leona teneva la mano destra puntata verso il cielo. «Giura e afferma di dire la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità? Dica lo giuro e che Dio l'assista.» «Lo giuro», disse Leona con voce lievemente nasale. Mentre saliva sul banco dei testimoni, lanciò al giudice un'occhiata umile attraverso ciglia appesantite dal mascara. Fasano salì sul podio e sistemò i suoi appunti con tutta calma. Come sua abitudine, appoggiò un mocassino infiocchettato sulla ringhiera in ottone, quindi iniziò l'interrogatorio. Prima fornì una breve biografia della teste; dove era nata (Revere, nel Massachusetts); dove aveva frequentato il liceo (Revere); dove viveva attualmente (Revere). Le chiese da quanto lavorava nello studio medico del dottor Craig Bowman (più di un anno) e dove frequentava la scuola serale tre volte alla settimana (Bunker Hill Community College). Mentre Leona rispondeva a queste prime e insignificanti domande, Jack ebbe l'opportunità di osservarla e notò che condivideva con l'avvocato che la stava interrogando, la presunzione, l'intraprendenza e la determinazione. Ciò che non aveva ancora notato era la sua petulanza mercuriale. «Parliamo ora del suo rapporto con il dottor Craig Bowman», disse Tony. «Obiezione», gridò Randolph. «Irrilevante.» «Avvicinatevi!» ordinò in tono irritato il giudice.
Randolph obbedì immediatamente, Tony lo seguì, dopo avere fatto cenno a Leona di sedersi. Usando gli occhiali da lettura come si usa un giornale arrotolato per redarguire un cane, Davidson rivolse la sua attenzione a Fasano: «Spero che la sua non sia un'elaborata messinscena e voglio che mi assicuri di nuovo che questa fesseria mondana ha a che fare con la causa, altrimenti ci ritroveremo con processo annullato per vizio di procedura e con un verdetto a favore del dottore». «È assolutamente pertinente. La teste dichiarerà che il dottor Bowman non aveva preso in considerazione l'idea di visitare Patience Stanhope in ospedale, a causa del loro rapporto e dei programmi serali.» «D'accordo, le lascerò un bel po' di corda, con la speranza che non la userà per impiccarsi. Consentirò la testimonianza per i motivi già forniti in passato, nell'ipotesi che il suo valore probativo superi quello pregiudiziale.» Il giudice agitò gli occhiali verso Randolph: «Per quello che riguarda la difesa, le consentirò ampia libertà nel controinterrogatorio e l'avvocato Fasano dovrà rispettarla. E ora, entro questi limiti, voglio che procediate rapidamente. Tra tutti e due, queste interruzioni mi stanno infastidendo. Sono stato chiaro?» «Sì, vostro onore», dissero all'unisono. Girarono sui tacchi e tornarono ai rispettivi posti. «Obiezione respinta», annunciò il giudice. «Avvocato, prego continui.» «Signorina Rattner», chiese Tony, «potrebbe descrivere alla corte la sua relazione con il dottor Bowman?» «Certo. Dapprima ero, ecco, una delle sue segretarie. Ma circa un anno fa capii che il Dottor Bowman mi guardava con occhio diverso. Capisce che cosa voglio dire?» «Penso di sì», rispose Tony. «Continui!» «All'inizio ero imbarazzata, perché sapevo che era sposato con figli, ma poi, una sera, stavo lavorando fuori orario, entrò nella stanza dell'archivio e iniziò a parlare. Una cosa portò a un'altra e iniziammo a frequentarci. Voglio dire, tutto bene dato che avevo scoperto che se n'era andato di casa e aveva affittato un appartamento a Boston.» «Era una storia platonica?» «Che diavolo, no! Era una relazione molto fisica, un pomeriggio l'abbiamo fatto addirittura sul tavolo delle visite. Diceva che a sua moglie non piaceva il sesso e che era ingrassata dopo la nascita delle figlie e non era più riuscita a dimagrire. Era come se stesse morendo di fame e avesse bi-
sogno di un sacco di attenzioni, e così ho fatto una cosa che non rientrava nelle mie abitudini, ma non è stata un'idea geniale.» «Vostro onore, questo è oltre...» iniziò Randolph, alzandosi in piedi. «Si sieda, avvocato», sibilò il giudice a Bingham. Poi fissò Fasano da sopra gli occhiali. «Avvocato Fasano, vediamo di arrivare al dunque.» «Naturalmente, vostro onore.» Andò al suo tavolo, bevve un sorso d'acqua, poi, facendo scorrere la lingua sulle labbra come se fossero secche, tornò al podio e scompigliò le sue carte. Dall'area degli spettatori si levò un mormorio d'attesa e i giurati sembravano più attenti del solito, molti di loro erano chini in avanti. Le testimonianze piccanti non mancavano mai di solleticare. Ancora una volta Jack guardò la sorella con la coda dell'occhio. Non si era mossa, non aveva cambiato espressione. Non poté evitare di provare una tenera, fraterna compassione per lei. Sperò che, in questa situazione tanto umiliante, la sua formazione professionale le fornisse un qualche elemento di autodifesa. «Signorina Rattner», esordì Tony. «La sera dell'otto settembre 2005 lei era nell'appartamento del dottor Bowman, dove al tempo risiedeva.» «Sì. Mi ero trasferita là dalla topaia in cui vivevo perché il padrone di casa era un cretino.» Il giudice Davidson si chinò verso Leona: «La teste deve limitarsi a rispondere alle domande e astenersi da monologhi spontanei». «Sì, vostro onore», si scusò Leona in tono umile, ma sbattendo le ciglia. «Può dire alla giuria con parole sue cosa stavate facendo quella sera lei e il dottor Bowman?» «Quello che avevamo programmato di fare e ciò che facemmo furono due cose differenti. Avevamo programmato di andare alla Symphony Hall per assistere a un concerto. Craig, voglio dire il dottor Bowman, aveva questa fissa di recuperare il tempo perduto e mi aveva comperato un fantastico abito rosa scollato fin qui.» Con il dito tracciò un profondo arco concavo attraverso il petto. «Eravamo emozionati. Non vedevamo l'ora di arrivare alla Symphony Hall tra la confusione e l'eccitazione. Voglio dire, la musica era buona, certo, ma entrare nell'atrio era la cosa che più ci piaceva. Il dottor Bowman aveva l'abbonamento e i posti erano nelle prime file. Era come essere sotto gli occhi di tutti mentre percorrevamo il corridoio, ecco perché gli piaceva che io fossi sexy.» «Al dottor Bowman piaceva metterla in mostra?» «Qualcosa di simile», concordò. «A me stava bene. Pensavo fosse diver-
tente.» «Ma per questo dovevate arrivare in orario o un po' in anticipo.» «Proprio così! Se si arriva in ritardo, si deve aspettare l'intervallo e non è più la stessa cosa.» «Cosa successe l'otto settembre 2005?» «Ci stavamo preparando per uscire, quando è squillato il cellulare del dottor Bowman.» «Immagino fosse Jordan Stanhope.» «Era lui, e questo voleva dire che la serata non era più sicura, perché il dottor Bowman aveva deciso di fare una visita a domicilio.» «È rimasta nell'appartamento, mentre il dottor Bowman faceva quella visita?» «No. Mi disse di accompagnarlo. Se si fosse trattato di un falso allarme, potevamo andare direttamente al concerto da casa Stanhope, che, a detta sua, non era molto distante dalla Symphony Hall.» «Voleva dire che la casa era più vicina alla Symphony Hall del Newton Memorial Hospital?» «Obiezione», gridò Randolph. «Inconsistenza. La teste non ha parlato del Newton Memorial Hospital.» «Accolta», accordò il giudice con voce stanca. «La giuria non tenga in considerazione la domanda. Proceda!» «Signorina Rattner», intonò Tony, «mentre vi recavate a casa Stanhope, il dottor Bowman ha detto qualcosa a proposito di ciò che pensava dello stato di Patience Stanhope? Aveva la sensazione che la visita a domicilio sarebbe stata un falso allarme?» «Obiezione. Testimonianza per sentito dire.» «Accolta. La teste si limiterà ai reali commenti del dottor Bowman e non fornirà un'opinione riguardante il suo atteggiamento mentale.» «Ripeto la domanda», riformulò Fasano. «Il dottor Bowman le ha detto qualcosa sulla condizione di Patience Stanhope?» Leona guardò il giudice: «Sono confusa. Lui mi pone una domanda e lei mi dice di non rispondere». «Non le sto dicendo di non rispondere, mia cara», replicò il giudice. «Le sto dicendo di non tentare di immaginare cosa pensava il dottor Bowman. Potrà dircelo lui stesso. L'avvocato le sta chiedendo cosa il dottor Bowman ha detto esattamente sulla condizione di Patience.» «D'accordo», disse Leona, che finalmente aveva compreso. «Ha detto che temeva che la visita fosse fondata.»
«Nel senso che Patience Stanhope era veramente malata.» «Sì.» «Ha detto qualcosa su ciò che provava riguardo pazienti come Patience Stanhope, i pazienti difficili?» «Quella sera in auto?» «Sì, quella sera.» «Ha detto che era un'ipocondriaca e che lui non sopportava l'ipocondria. Ha detto che per lui gli ipocondriaci erano dei simulatori. Aveva usato un termine che non conoscevo. Sono poi andata a vedere che cosa vuol dire. Significa qualcuno che finge una malattia per ottenere ciò che vuole. Una brutta cosa.» «Cercare quel termine è stata una cosa lodevole. Che cosa l'aveva motivata?» «Sto studiando per diventare tecnica di laboratorio o assistente infermiera. Devo conoscere il gergo.» «Il dottor Bowman le ha mai detto altro su ciò che provava per Patience Stanhope?» «Oh, sì!» esclamò lei con una risatina fasulla. «Può dire alla giuria quando è successo?» «La sera in cui gli è stata notificata la citazione. Eravamo allo Sporting Club.» «E che cosa ha detto esattamente?» «È più esatto chiedere cosa non ha detto, voglio dire, ha blaterato senza dire nulla di importante.» «Faccia capire alla giuria cosa intende.» «Ecco, non è facile ricordare tutta la tirata. Ha detto che la odiava, perché faceva impazzire tutti, inclusa se stessa. Ha detto che lo faceva uscire di testa perché parlava solo del suo vomito e a volte lo metteva da parte per farglielo vedere. Ha anche detto che era impossibile perché non faceva mai ciò che lui le consigliava. L'ha chiamata una ipocondriaca, appiccicosa moglie da incubo e una vera strega che pretendeva che lui le tenesse la mano e ascoltasse le sue lamentele. Ha detto che la sua dipartita era una benedizione per tutti, compresa lei.» «Accidenti!» esclamò Tony, fingendo di aver sentito quella testimonianza per la prima volta e di esserne rimasto scioccato. «E così immagino che, dalle parole del dottor Bowman, abbia avuto l'impressione che era felice che Patience Stanhope fosse morta.» «Obiezione», disse Randolph. «Domanda che suggerisce la risposta.»
«Accolta. Che i giurati non la considerino.» «Ci dica che cosa ha pensato alla fine della ramanzina del dottor Bowman.» «Ho pensato che era contento che fosse morta.» «Nel sentire una simile tirata, come l'ha chiamata lei, deve aver pensato che il dottor Bowman era sconvolto. Ha detto qualcosa di specifico sul fatto di essere stato citato in giudizio, nel senso che la sua prestazione e la decisione presa sarebbero state messe in dubbio in un tribunale?» «Sì. Ha detto che era un oltraggio che Jordan Stanhope, uno stravagante bastardo, l'avesse querelato per danno esistenziale, cioè perdita delle prestazioni sessuali della moglie, quando neppure riusciva a immaginare che il signor Stanhope facesse sesso o desiderasse farlo con quella miserabile strega.» «Grazie, signorina Rattner.» Tony raccolse le carte sparse sul leggio. «Nessun'altra domanda.» Ancora una volta Jack guardò Alexis, ma questa volta lei incrociò il suo sguardo. «Ebbene», sospirò lei con filosofia, «che altro poteva aspettarsi Craig? Si è scavato la fossa con le proprie mani. La testimonianza di Leona è stata brutta come immaginavo. Speriamo che tu riesca a tirar fuori qualcosa dall'autopsia.» «Forse Randolph potrà fare qualcosa nel controinterrogatorio. E non dimenticare che non ha ancora presentato la difesa.» «Non me ne sono dimenticata. Sono solo realista e mi sto mettendo nei panni dei giurati. Non promette nulla di buono. La testimonianza fa apparire Craig come una persona diversa da quella che è, ed è convincente. Avrà i suoi difetti, ma il modo in cui si occupa dei suoi pazienti non è tra quelli.» «Temo che tu abbia ragione», ammise Jack. 13 Newton Mercoledì, 7 giugno 2006 15.30 «Fammi rivedere la pianta», disse Renaldo a Manuel. Erano seduti in una Chevrolet Camaro nera ferma in una strada laterale fiancheggiata da alberi dietro l'angolo di casa Bowman. Indossavano abiti da lavoro. Sul se-
dile posteriore c'era una sacca in tela simile a quelle utilizzate dagli idraulici per trasportare gli attrezzi. Manuel porse a Renaldo le piantine, che frusciarono quando le srotolò. Era seduto al volante e dovette faticare per appiattirle e poterle esaminare. «Entreremo da qui», decise Renaldo indicando la porta. «Ci sei?» Manuel si allungò, toccando quasi la spalla del compare. Era seduto sul sedile del passeggero accanto al guidatore. «Cazzo», si lamentò Renaldo. «Non è tanto complicato.» «Okay, ci sono.» «Ciò che dobbiamo fare è localizzare rapidamente tutte e tre le ragazze, affinché nessuna abbia la possibilità di avvertire le altre. Mi segui?» «Certo.» «Saranno qui, nella zona giorno a guardare la televisione», dichiarò Renaldo indicando un punto sulla piantina, «o ciascuna nella propria camera.» Passò poi a fatica al secondo foglio. Le piantine avrebbero voluto riprendere la loro forma a cilindro. Finì per buttare il primo foglio sul sedile posteriore. «Le camere da letto sono sul retro», spiegò, appena riuscì ad appiattire il secondo foglio. «E qui ci sono le scale. Capito? Non possiamo perdere tempo a cercarle, dobbiamo agire alla svelta.» «Capito. Ma sono tre e noi siamo in due.» «Non sarà difficile spaventarle a morte. L'unica che potrebbe crearci problemi è la più grande, ma se non sappiamo affrontare questa situazione, allora questo non è il lavoro che fa per noi. Dobbiamo legarle con del nastro adesivo. E intendo molto rapidamente. Non voglio grida. Una volta legate e imbavagliate, inizia il divertimento. D'accordo?» «D'accordo.» Manuel si raddrizzò. «Hai la pistola?» «Naturalmente.» Dalla tasca tirò fuori una trentotto a canna corta. «Mettila via, per l'amor di Dio», sibilò Renaldo. I suoi occhi saettarono in giro per assicurarsi che non ci fossero passanti. La zona era tranquilla. Erano tutti al lavoro, le case parevano deserte. «Maschera e guanti?» Manuel tirò fuori dalla tasca anche quelli. «Bene.» Controllò l'ora. «Forza, ci siamo. Muoviamoci!» Mentre Manuel scendeva dall'auto, Renaldo si allungò verso il sedile posteriore e prese la sacca. Raggiunse poi il socio e insieme, con calma e senza parlare, tornarono all'incrocio, girando a destra. Grazie alle fronde degli alberi, la strada era ombreggiata, mentre ogni casa era inondata di lu-
ce. In lontananza una donna anziana portava a passeggio un cane, ma camminava nella direzione opposta. Una macchina si avvicinò e passò senza fermarsi. Il guidatore li ignorò. Giunti all'altezza della proprietà dei Bowman, si fermarono brevemente per guardare la strada in su e in giù. «Tutto bene», si accertò Renaldo. «Sarà facile.» Mantenendo un'andatura normale, attraversarono il prato dei Bowman. Sembravano due operai con un incarico legittimo. Costeggiarono gli alberi che separavano le due case vicine e raggiunsero il retro. Scrutando l'abitazione, videro la porta a una decina di metri da loro, dall'altra parte di un prato immerso nel sole. «Bene», commentò Renaldo. «È ora di mettersi le maschere e i guanti.» Aprì la sacca per assicurarsi di avere tutto il necessario. Passò a Manuel un rotolo di nastro adesivo che l'uomo si infilò in tasca. «Andiamo!» Da veri professionisti, attraversarono il prato in un batter d'occhio ed entrarono in casa senza fare quasi rumore. Dentro, si fermarono ad ascoltare. Sentirono risate provenire dal televisore nel grande soggiorno. Renaldo alzò il pollice e indicò a Manuel di muoversi. Camminando con leggerezza e muovendosi silenziosamente, attraversarono lo studio e percorsero il corridoio, con Renaldo in testa. Si fermò davanti all'arco del soggiorno e sbirciò. Come vide le ragazze si ritrasse. Alzò due dita, per indicarne il numero. Manuel annuì. Renaldo disegnò con la mano in senso antiorario un ampio cerchio per indicare che avrebbero attraversato la cucina e si sarebbero avvicinati al divano da dietro. Il suo compagno annuì di nuovo. Renaldo brandì il rotolo di nastro adesivo e Manuel tirò fuori il proprio. Muovendosi rapidamente senza far rumore, Renaldo seguì il percorso che aveva tracciato nell'aria. Dallo schienale del divano dai colori vivaci spuntavano le teste delle due ragazze. Si avvicinarono alle spalle delle fiduciose fanciulle assorbite dalle risate del televisore. Con un cenno di Renaldo, balzarono davanti al divano e afferrarono ognuno una ragazza. Rudi e decisi, le agguantarono per il collo, premendo i loro visi nei soffici cuscini del divano. Emisero entrambe deboli strilli, immediatamente smorzati. Con i denti strapparono pezzi di nastro adesivo e, bloccandole con il peso del corpo, legarono loro le mani dietro la schiena. Le bambine si sforzarono di respirare, gli occhi spalancati dal terrore. Renaldo si portò un dito alle labbra per intimare loro di fare silenzio, ma non ce n'era bisogno, annaspavano alla ricerca d'aria, paralizzate dalla pau-
ra. «Dov'è vostra sorella?» chiese Renaldo a denti stretti. Nessuna delle due rispose, gli occhi fissi e impassibili sui due che le avevano catturate. Con uno schiocco di dita rivolto a Manuel, indicò Meghan, che tremava sotto la sua presa. Manuel la lasciò andare il tempo necessario a prendere uno straccio e infilarglielo con forza in bocca. Meghan tentò di opporsi. Manuel le bloccò il bavaglio con un pezzetto di nastro. Ne aggiunse un secondo, costringendo la bambina a respirare dal naso. Vedendo cosa avevano fatto a Meghan, Christina cooperò subito. «Di sopra a fare la doccia», gridò senza fiato. Renaldo la ricompensò imbavagliandola come la sorella, poi bloccarono loro le caviglie prima di tirarle in piedi e legarle schiena contro schiena. A quel punto Renaldo diede loro una spinta che le fece cadere una sopra l'altra. «Non muovetevi!» ordinò, raccogliendo il nastro. Renaldo salì le scale a passi rapidi. In corridoio al piano di sopra sentì la doccia. Era uno scroscio lontano, che seguì, superando parecchie camere da letto dalle porte aperte. La terza porta a destra dava su una stanza particolarmente disordinata. Vestiti, scarpe, libri e riviste erano sparpagliati sul pavimento e su tutte le superfici. Sulla soglia in marmo del bagno erano appoggiati un reggiseno e un tanga nero. Dal bagno uscivano a ondate nuvole di vapore. Con crescente aspettativa, Renaldo attraversò la stanza, facendo attenzione a non calpestare gli oggetti. Infilò la testa nel bagno, ma la densa nebbia gli impedì di vedere qualcosa. Lo specchio era completamente coperto di vapore. Era un bagno piccolo con lavabo a piantana, un water e una bassa vasca da bagno con doccia. Una tenda di plastica bianca opaca con cavallucci marini pendeva da un'asta argento e veniva mossa sia dalla forza dell'acqua e dal vapore sia dal contatto di chi stava facendo la doccia. Renaldo si chiese come affrontare la situazione. Con le altre due già bloccate, non era un problema, ma sapere che la ragazza era nuda lo eccitava e doveva tenerne conto. Appoggiò il rotolo sul bordo del lavabo. Sorrise al pensiero di essere pagato per fare qualcosa che avrebbe pagato per fare. La ragazza nella doccia aveva quindici anni e un paio di tette che valeva la pena guardare due volte. Dopo avere valutato alcune alternative, tra cui aspettare che finisse e u-
scisse da sola dalla doccia, afferrò la tenda e la strappò. L'asta era a pressione e cedette sotto il peso dello strattone. Nel momento in cui l'asta e la tenda caddero, Tracy volgeva la schiena alla doccia e teneva la testa sotto il flusso per risciacquarsi i lunghi capelli. Non aveva udito il rumore, ma doveva avere sentito il colpo d'aria più fredda, perché si spostò dal getto e aprì gli occhi. Appena vide l'estraneo dal volto coperto, urlò. Renaldo allungò la mano, agguantò una manciata di capelli bagnati e trascinò fuori dalla vasca Tracy, che cadde a terra, inciampando sul bordo. Le lasciò andare i capelli, la bloccò con un ginocchio sul fondoschiena e si precipitò a serrarle i polsi. Con forza, le tirò le mani dietro la schiena, afferrò il rotolo dal lavabo e, come aveva fatto al piano inferiore, strappò con i denti un pezzo di nastro. Con movimenti rapidi, avvolse il nastro attorno ai polsi della ragazza. Per tutto il tempo Tracy aveva continuato a gridare, ma le sue urla erano state smorzate dallo scroscio della doccia. Renaldo la voltò, tirò fuori di tasca un fazzoletto, lo appallottolò e cercò di infilarglielo in bocca. Tracy era più forte di Christina e riuscì a opporsi, fin quando Renaldo si mise a cavalcioni su di lei e le bloccò la testa con le ginocchia. Poi le riuscì di mordergli il dito. «Strega!» gridò, infuriato. La schiaffeggiò con forza, tanto da romperle il labbro. Nonostante la ragazza continuasse a dibattersi, riuscì a infilarle il bavaglio in bocca. «Non male», commentò soddisfatto, ammirandola con un lungo sguardo. Dal piercing all'ombelico, i suoi occhi si spostarono su un piccolo serpente tatuato appena sopra il monte di Venere. «Ti sei depilata e ti sei fatta un tatuaggio. Mi chiedo se mamma e papà lo sanno. Non sei un po' precoce, ragazzina?» Le infilò una mano sotto l'ascella e la issò rudemente in piedi. Lei reagì precipitandosi fuori del bagno, cogliendolo di sorpresa. «Quanta fretta, piccola», ringhiò lui, che l'aveva afferrata prima che uscisse dalla stanza. La fece girare su se stessa per averla di fronte. «Se sei furba e cooperi, non ti succederà niente. In caso contrario, ti garantisco che te ne pentirai. Capito?» Tracy lo fissò con aria di sfida e occhi feroci. «Siamo esuberanti, eh?» la canzonò. Lanciò un'occhiata ai seni sodi. «E anche sexy. Quanti serpenti hai fatto entrare nella tua tana? Scommetto molti più di quanti pensino i tuoi, eh?» Continuò a fissarlo con occhi truci, il petto che si alzava per l'impeto di
adrenalina. «Ecco cosa succede adesso. Tu e io andiamo in soggiorno per una bella riunione con le tue sorelle. Vi leghiamo insieme con il nastro adesivo così fate una bella famigliola felice. Poi vi spiego che cosa dovete riferire ai vostri genitori. E poi ce ne andremo. Ti sembra un bel piano?» Spinse Tracy nell'atrio, tenendola per il braccio. Raggiunta la scala, la esortò a scendere. Nella sala Manuel controllava le altre due bambine. Meghan stava singhiozzando, mentre gli occhi di Christina erano ancora spalancati dal terrore. «Bel lavoro», si congratulò Manuel mentre il suo compare spingeva una Tracy nuda verso il divano. Non poté esimersi dal fissarla proprio come aveva fatto il suo socio. «Fai sedere quelle due in modo che si diano le spalle», ordinò Renaldo. Manuel le tirò su e le fece girare. Renaldo fece sedere Tracy sul bordo del divano con la schiena rivolta alle sorelle, quindi avvolse il nastro adesivo attorno a tutte e tre. Quando ebbe finito, si raddrizzò e controllò l'opera. Soddisfatto, diede a Manuel il rotolo e gli disse di radunare le loro cose. «Ascoltate, dolcezze», esordì Renaldo, rivolgendosi più che altro a Tracy con cui incrociò lo sguardo. «Vogliamo che riferiate un messaggio ai vostri genitori. Ma prima devo chiedervi una cosa. Sapete cosa è un'autopsia? Annuite con il capo, se lo sapete.» Tracy non si mosse, né batté ciglio. Renaldo la schiaffeggiò, aprendo ancora di più il labbro spaccato. Un filo di sangue le scese lungo il mento. «Non ve lo chiederò di nuovo. Annuite o scrollate il capo a seconda della risposta!» Tracy annuì di colpo. «Bene! Ecco qui il messaggio per mamma e papà. Nessuna autopsia! Siamo intesi? Niente autopsia! Annuite con il capo, se avete capito.» Tracy annuì ubbidiente. «Bene. Questo è il messaggio. Niente autopsia. Potrei scriverlo, ma non credo sarebbe saggio. Riferitegli che, se ignorano questo avvertimento, torneremo a trovare voi tre e non sarà per niente bello. Mi seguite? Niente rispetto a quello che è successo oggi. Questo è solo un avvertimento. Non sarà domani e forse nemmeno la settimana prossima, ma prima o poi verremo a trovarvi. Sono stato chiaro? Annuite se avete capito.»
Tracy annuì. Dai suoi occhi era svanita buona parte della sua insolenza. «Ultima cosa semplicissima. Dite ai vostri genitori di tenere la polizia fuori da questa storia. È una cosa tra noi e voi. Se andassero alla polizia, dovrei tornare, e state sicure che vi scoverei ovunque. Chiaro? Siamo sulla stessa lunghezza d'onda?» Tracy annuì di nuovo. Era spaventata come le sorelle. «Fantastico.» Allungò una mano inguantata e pizzicò uno dei capezzoli di Tracy. «Belle tette. Di' ai tuoi genitori di non farmi tornare.» Dopo una rapida occhiata per la stanza, Renaldo fece un cenno a Manuel e, veloci come erano entrati, se ne andarono, raccogliendo la sacca mentre uscivano e togliendosi le maschere e i guanti. Si chiusero la porta alle spalle e seguirono lo stesso percorso per tornare in strada. Dirigendosi verso la loro auto superarono alcuni bambini che pedalavano, ma non si preoccuparono. Erano semplicemente due operai che avevano terminato un lavoro. Risaliti in auto, Renaldo guardò l'ora. Venti minuti per mille dollari. Niente male. 14 Boston Mercoledì, 7 giugno 2006 15.50 Randolph ci mise più del solito ad alzarsi dal tavolo della difesa, radunare i suoi appunti e sistemarsi dietro il podio. Fissò Leona Rattner tanto a lungo che lei dovette distogliere gli occhi. Sapeva incutere timore con la sua aura potente e paterna. «Signorina Rattner», esordì con voce elegante. «Come descriverebbe il suo modo di vestire nello studio medico?» Leona rise incerta. «Normale, direi. Perché?» «Chiamerebbe il suo abbigliamento classico o discreto?» «Non ci ho mai pensato.» «Marlene Richardt, che dirige lo studio, le ha mai fatto notare che il suo abbigliamento non era adeguato?» Per un attimo Leona sembrò la volpe beccata nel pollaio. I suoi occhi saettarono da Fasano al giudice per tornare su Randolph. «Ha detto qualcosa di simile.» «Quante volte?»
«Come posso saperlo? Alcune.» «Usava il termine sexy o provocante?» «Credo di sì.» «Signorina Rattner, lei ha detto sotto giuramento che, circa un anno fa, il dottor Bowman la guardava con desiderio.» «Esatto.» «Ritiene che ciò abbia avuto a che fare con il suo abbigliamento?» «Come faccio a saperlo?» «Lei ha testimoniato che all'inizio la cosa l'aveva messa in imbarazzo, perché lui era sposato.» «Vero.» «Ma un anno fa il dottor Bowman era ufficialmente separato da sua moglie. Il suo matrimonio stava passando un momento di crisi. Era una cosa risaputa nello studio?» «Forse.» «Potrebbe essere stata lei a guardare con desiderio il dottor Bowman e non viceversa?» «Forse inconsciamente. È un uomo attraente.» «Le è mai passato per la mente che il dottor Bowman potesse essere sensibile ad abiti provocanti, tenuto conto che viveva da solo?» «A questo non ho mai pensato.» «Signorina Rattner, lei ha testimoniato che l'otto settembre 2005 viveva nell'appartamento di Boston del dottor Bowman.» «Infatti.» «Come è successo? L'aveva invitata a trasferirsi lì il dottore?» «Non proprio.» «Avete mai discusso i pro e contro di un suo trasloco?» «Be', rimanevo lì tutte le notti. Perché pagare l'affitto per due appartamenti?» «Non ha risposto alla mia domanda. Si è trasferita nell'appartamento del dottor Bowman senza parlarne prima con lui. Giusto?» «Non è che si sia lamentato», sibilò Leona. «Gliela davo tutte le notti.» «La questione è se si è trasferita di sua iniziativa.» «Sì, mi sono trasferita di mia iniziativa», sbottò Leona. «E la cosa gli è piaciuta.» «Questo lo vedremo quando toccherà al dottor Bowman testimoniare», ribatté Randolph, consultando i suoi appunti. «Signorina, la sera dell'otto settembre dello scorso anno, quando è arrivata la telefonata di Jordan
Stanhope, il dottor Bowman ha detto qualcosa riguardo il Newton Memorial Hospital?» «No, niente.» «Non ha detto che sarebbe stato meglio andare al domicilio degli Stanhope invece che all'ospedale, perché casa Stanhope era più vicina alla Symphony Hall?» «No. Non ha parlato di ospedale.» «Quando siete arrivati a casa Stanhope, lei è rimasta in auto?» «No. Il dottor Bowman ha voluto che entrassi per aiutarlo.» «Ho saputo che lei ha preso con sé l'elettrocardiogramma portatile.» «Sì.» «E quando siete entrati nella camera da letto della signora Stanhope, che cosa è successo?» «Il dottor Bowman ha iniziato a darsi da fare con la signora.» «A quel punto le è parso preoccupato?» «Eccome. Ha fatto chiamare immediatamente l'ambulanza dal marito.» «È vero che le ha ordinato di continuare con la respirazione forzata mentre lui si occupava di farle degli esami?» «È vero. Mi ha mostrato come fare.» «Lo stato della paziente preoccupava il dottor Bowman?» «Sì, molto. La paziente era cianotica e le pupille erano dilatate e non reattive.» «L'ambulanza è arrivata in tempi brevi. Come avete raggiunto l'ospedale lei e il dottor Bowman?» «Io ho guidato la sua automobile. Il dottor Bowman è salito sull'ambulanza.» «Come mai?» «Ha detto che, se fossero sorti problemi, voleva essere presente.» «Lei non l'ha più visto, se non dopo la morte della signora Stanhope. Giusto?» «Sì. L'ho rivisto al pronto soccorso. Era scarmigliato e sporco di sangue.» «Era demoralizzato per la morte della sua paziente?» «Era molto scoraggiato.» «E così il dottor Bowman ha fatto di tutto per salvare la sua paziente.» «Sì.» «E il fallimento di tutti i suoi sforzi l'ha sconfortato.» «Direi che era depresso, ma gli è passata presto. Abbiamo passato una
splendida serata nel suo appartamento.» «Signorina Rattner, mi permetta di porle una domanda personale. Lei mi ha dato subito l'impressione di essere una giovane donna briosa. Ha mai detto cose che non intendeva realmente quando era arrabbiata, esagerando le sue emozioni?» «Lo fanno tutti», rispose lei con una risatina. «La sera in cui gli è stata notificata la citazione, era sconvolto?» «Molto. Non l'avevo mai visto così.» «E arrabbiato?» «Molto.» «Date le circostanze, ritiene possibile che, quando il dottore ha, cito testualmente quello che ha detto lei, 'ha blaterato' e fatto commenti inappropriati su Patience Stanhope, stesse semplicemente dando in escandescenze, soprattutto tenuto conto degli sforzi per rianimarla quella fatale sera, e delle innumerevoli visite a domicilio fatte durante l'anno che ha preceduto la sua morte?» S'interruppe, in attesa della risposta di Leona. «Che la teste risponda alla domanda», ordinò il giudice dopo un prolungato silenzio. «Quella era la domanda?» chiese Leona perplessa. «Non avevo capito.» «Ripeta la domanda», ingiunse il giudice. «Le sto chiedendo se i commenti del dottor Bowman su Patience Stanhope la sera in cui ha ricevuto la notifica della citazione rispecchiavano la sua agitazione, mentre ciò che provava veramente per la paziente era stato dimostrato dal suo impegno di curarla a casa ogni settimana per quasi un anno e dai suoi strenui sforzi per rianimarla la sera in cui è deceduta. Signorina Rattner, le pare plausibile?» «Forse. Non saprei. Forse dovrebbe chiederlo a lui.» «Lo farò. Ma prima vorrei chiederle se vive ancora nell'appartamento affittato a Boston del dottor Bowman.» Jack si chinò verso Alexis e sussurrò: «Gli stanno lasciando passare domande e affermazioni che dovrebbero sollevare obiezioni. Fasano è sempre stato così attento, mi chiedo cosa stia accadendo». «Forse ha qualcosa a che fare con quella conversazione bisbigliata tra il giudice e i due avvocati sulla testimonianza di Leona. C'è sempre un po' di compromesso per equità.» «Giusto.» Ascoltò Randolph porre a Leona domande su ciò che provava da quando era iniziata la causa per negligenza e Craig era rientrato in fa-
miglia. Sapeva esattamente cosa stava facendo l'avvocato, stava preparando la strada per una difesa basata sull'«amore respinto», in cui la precedente testimonianza sarebbe stata resa dubbia in quanto motivata dal rancore. Jack bisbigliò alla sorella: «Vorrei farti una domanda a cui devi rispondere con sincerità. Ti dispiacerebbe se me la filassi? Vorrei giocare a pallacanestro per scaricarmi un po'. Se preferisci che resti, non c'è problema. Ho la sensazione che il peggio sia passato. Da questo momento, darà di sé un'impressione sempre peggiore». «Ma dai!» esclamò Alexis con sincerità. «Vai a fare quello che vuoi. Ti ringrazio per essere stato qui, ma ora sto bene. Vai e divertiti. Tanto il giudice sospenderà l'udienza intorno alle sedici. Lo fa sempre.» «Sei sicura?» «Assolutamente. Cenerò presto con le ragazze, ma ti lascerò qualcosa da mangiare. Prenditi tutto il tempo che vuoi, ma sta' attento, Craig si fa sempre male quando gioca. Hai le chiavi?» «Sì.» L'abbracciò. Si alzò e, scusandosi con le persone sedute nella fila, raggiunse il corridoio e alzò gli occhi verso il posto dove di solito stava Franco. Con sua grande sorpresa non lo vide. Senza fermarsi, lo cercò tra il pubblico. Raggiunta la porta, si girò e scrutò di nuovo, ma di Franco neppure l'ombra. Usando la schiena per abbassare il maniglione, uscì dall'aula a marcia indietro. Non avere visto lo scagnozzo di Fasano lo innervosì. Temette di potersi imbattere in lui nel parcheggio sotterraneo. Anni prima non ci avrebbe neppure pensato, ma ora che mancavano due giorni al matrimonio, era diverso. Doveva essere prudente e pronto. Il giorno prima aveva pensato di procurarsi uno spray, ma non l'aveva fatto. Decise di farlo ora. Davanti agli ascensori al terzo piano c'era un capannello di persone. Dalle porte spalancate di una delle quattro aule usciva un sacco di gente. Era stato sospeso un processo. Alcuni chiacchieravano, mentre altri si affrettavano verso gli ascensori, tentando di stabilire quale delle otto cabine sarebbe arrivata per prima. Si unì a un gruppo e si ritrovò a guardarsi attorno con cautela e a chiedersi se avrebbe incontrato Franco. Non riteneva di correre pericolo all'interno del tribunale, era l'esterno che lo preoccupava. All'ingresso chiese dove trovare un negozio di ferramenta nelle vicinanze. La guardia gli rispose che non avrebbe avuto difficoltà a trovarne uno nella zona di Beacon Hill. Riprese l'auto e si guardò nuovamente intorno alla ricerca di Franco, ma
non lo vide e rise della sua paranoia. Le strade erano strette e tortuose, ben diverse dal reticolo cui era abituato a New York. Seguendo l'istinto, si ritrovò in un quartiere con edifici modesti e strette case di mattoni a quattro piani. Raggiunse un bel parco giochi pieno di mamme e bambini, superò l'impianto idrico, sorvegliato da un amichevole Labrador color cioccolato, e arrivò in cima alla collina prima di iniziare la discesa. Le case divennero più grandi e più eleganti. Oltrepassò una piazza inondata di sole dove una palizzata in ferro battuto circondava una fila di olmi centenari e un pianoro di erba verde. Dopo pochi isolati raggiunse un grande viale costellato di negozietti. Dopo un po' scorse un negozio di ferramenta. Una volta dentro, si chiese se fosse veramente necessario comperare uno spray al peperoncino. Lontano dal tribunale e dal processo, la minaccia di Franco sembrava una remota possibilità. Ma, visto che era arrivato fin lì, decise di procedere. Infilò la bomboletta nella tasca della giacca e percorse il resto della via fino al Boston Common, dove recuperò la Hyundai. Nel buio e deserto parcheggio sotterraneo, fu felice di avere con sé lo spray. Una volta salito in macchina, si diresse alla cassa ridendo nuovamente della sua paranoia. Sapeva che non avrebbe dovuto dare quella ginocchiata a Franco, eppure non dubitava che, non l'avesse fatto, la situazione sarebbe sfuggita di mano. Mentre usciva dalle tenebrose profondità del garage ed entrava nella splendente luce del sole, decise di smetterla di pensare a Franco. Accostò e spiegò la cartina, il polso accelerato al pensiero dell'imminente partita di pallacanestro. Raggiunse velocemente il campo da pallacanestro indicato da David Thomas, l'amico di Warren. Posteggiò in una stradina laterale e prese dal bagagliaio la sacca, spostando gli strumenti per l'autopsia fornitigli da Latasha. Si guardò in giro alla ricerca di un posto dove cambiarsi. Non trovandone, risalì in macchina e come un contorsionista riuscì a cambiarsi. Assicuratosi di avere chiuso a chiave l'automobile, tornò ai campi da pallacanestro. Vide una quindicina di ragazzi dai vent'anni in su. A quarantasei anni, pensò che sarebbe stato il più vecchio. La partita non era ancora iniziata. Stavano tutti palleggiando e facendo riscaldamento, mentre si scambiavano battute scherzose. Ben conoscendo la complicata etichetta di gioco grazie ai suoi anni d'esperienza a New York, iniziò passando le palle ai giocatori che avevano
eseguito tiri d'allenamento e solo in seguito si avvicinò al canestro. Come previsto, la sua precisione attirò l'attenzione di alcuni di loro, anche se nessuno fece commenti. Dopo una quindicina di minuti, i muscoli sciolti, chiese di David, che gli venne indicato. Jack si avvicinò all'uomo, che riconobbe come uno dei più ciarlieri. Afroamericano, tra i trentacinque e i quaranta, leggermente più alto di lui e più possente, aveva una folta barba, di fatto aveva più peli sulla faccia che sulla testa, occhi vivi e la risata pronta. Uno che sapeva godersi la vita, era evidente. Quando gli si avvicinò e si presentò, David gli gettò le braccia al collo, lo abbracciò e poi gli strinse la mano. «Ogni amico di Warren è amico mio», lo salutò con entusiasmo David. «E Warren dice che sei un playmaker. Giocherai con me, vero?» «Naturalmente!» «Ehi, Esopo!» chiamò David. «Questa non è la tua serata, amico. Giocherà Jack al posto tuo.» David diede una pacca a Jack e poi aggiunse: «Quel ragazzo ha sempre una storia da favola da raccontare. Ecco perché lo chiamiamo così!» La partita fu meravigliosa, proprio come quelle a New York. Fu fortunato a essere stato incluso nella squadra di David, perché trionfava sempre, quindi Jack poteva giocare continuamente. Alla fine era esausto. A bordo campo controllò l'ora. Erano le diciannove passate da un pezzo. «Pensi di passare anche domani sera?» chiese David, mentre Jack radunava le sue cose. «Non lo so.» «Noi saremo qui.» «Grazie per avermi permesso di giocare con te.» «Ehi, amico. Te lo sei guadagnato.» Quando uscì dal campo, sentì le gambe leggermente dure. Sebbene inzuppato di sudore, la calda e secca brezza che soffiava dal fiume lo asciugò in un batter d'occhio. Camminò lentamente, quel moto gli aveva fatto bene. Per alcune ore non aveva pensato ad altro che al gioco, ma ora stava riprendendo piede la realtà. Non era ansioso di parlare con Laurie. Il giorno dopo era giovedì e non sapeva ancora quando avrebbe potuto iniziare l'autopsia e ancor meno quando sarebbe finita e quando sarebbe potuto tornare a New York. Laurie si sarebbe inquietata e lui non sapeva cosa dirle. Arrivato all'auto, stava aprendo la portiera, quando una mano gli passò
sopra la spalla e la chiuse sbattendola. Jack roteò su se stesso e si ritrovò a guardare negli occhi infossati e nel brutto muso di Franco. La prima cosa che gli passò per la mente fu che quel maledetto spray da dieci dollari e novanta centesimi era nella tasca della giacca all'interno dell'automobile. «Abbiamo una faccenda in sospeso», ringhiò Franco. Erano tanto vicini che l'odore di aglio nell'alito dell'energumeno avrebbe potuto stenderlo. «Sbagliato», ribatté Jack, tentando di spostarsi indietro. Franco lo stava premendo contro l'auto. «Non credo che abbiamo mai avuto una faccenda insieme, meno che mai in sospeso.» Dietro Franco, di lato, c'era un altro uomo. «Saccentone», borbottò Franco. «Sto parlando della sleale ginocchiata nelle palle.» «Non è stato un colpo sleale, visto che hai iniziato tu.» «Afferralo, Antonio!» ordinò Franco, indietreggiando di un passo. Jack reagì tentando di scappare tra Franco e l'automobile. Con le scarpe da ginnastica, pensò che gli sarebbe potuto facilmente sfuggire, malgrado fosse esausto, ma l'uomo si tuffò in avanti e riuscì ad agguantarlo per la camicia con la mano destra, bloccandolo e tirandogli nello stesso tempo un pugno in bocca con la sinistra. L'altro energumeno gli afferrò un braccio e cercò di bloccargli l'altro dietro la schiena. Nel frattempo Franco piegò all'indietro la mano destra per un colpo da knock-out. Ma quel pugno non arrivò mai a destinazione. Un pesante tubo finì invece sulla spalla di Franco, facendolo urlare per la sorpresa e il dolore. Il braccio destro gli cadde lungo il fianco, mentre la sinistra scattava alla spalla ferita. Il tubo era puntato su Antonio. «Lascialo andare, amico!» gridò David. Una decina di giocatori di pallacanestro si erano materializzati minacciosamente attorno a loro, quasi tutti armati, alcuni con in mano dei cric e uno con una mazza da baseball. Antonio lasciò andare Jack e fissò con aria minacciosa i nuovi arrivati. «Non mi pare che siate del quartiere», osservò David. «Esopo, perquisiscili!» L'amico fece un passo avanti e tolse la pistola a Franco. Franco non si oppose. Il secondo criminale non era armato. «Adesso vi consiglio di andarvene», disse David, facendosi dare da Esopo la pistola. «Non è finita qui», mormorò Franco a Jack, mentre si allontanava con il
suo compare. I giocatori di pallacanestro si separarono per farli passare. «Warren mi aveva avvertito», gli confidò David. «Mi ha detto che hai la tendenza a metterti nei guai e che ti ha salvato il culo più di una volta. Per tua fortuna avevamo visto quei due bianchi gironzolare qui in giro, mentre stavamo giocando. Di che faccenda parlava?» «È un fraintendimento», rispose Jack in modo evasivo. Si toccò le labbra con un dito. Sanguinava. «Se avessi di nuovo bisogno d'aiuto, fammelo sapere. Ora faresti meglio a metterti del ghiaccio su quel labbro gonfio, e perché non prendere questa pistola? Potresti averne bisogno, se quel bastardo si presentasse alla tua porta.» Jack la rifiutò e ringraziò David e gli altri prima di salire in macchina. La prima cosa che fece fu tirare fuori lo spray al peperoncino. Poi si guardò allo specchietto retrovisore. Aveva la parte sinistra del labbro superiore tumefatta e bluastra. Lungo il mento era sporco di sangue coagulato. «Mio Dio», mormorò. Warren aveva ragione, aveva una tendenza a finire in casi compromettenti. Si pulì il mento con l'orlo della maglietta. Tornando verso casa, considerò l'idea di mentire e dire che si era fatto male giocando a pallacanestro. Con uno sport che richiedeva contatto fisico, si finisce spesso coperti di lividi e, dopo un'altra giornata in tribunale, non voleva aggiungere altri dispiaceri per Craig e Alexis, che si sarebbero ritenuti scioccamente responsabili. Aprì la porta il più silenziosamente possibile, gli abiti e le scarpe in mano. Voleva scendere nel seminterrato, farsi una doccia prima di imbattersi in qualcuno e mettersi alla svelta del ghiaccio sul labbro, anche se era già passato tanto tempo e quindici minuti in più non avrebbero fatto differenza. Mentre chiudeva la porta, si bloccò con la mano sulla maniglia. Il suo sesto senso lo mise in ansia: la casa era troppo silenziosa. Tutte le volte che era entrato, c'era sempre stato un rumore di sottofondo: una radio, lo squillo di un cellulare, le chiacchiere delle bimbe, la televisione. Ora non sentiva niente e quel silenzio non faceva presagire nulla di buono. Avendo visto la Lexus nel vialetto d'accesso, era certo che almeno i genitori fossero in casa. Temette che qualcosa fosse andato storto al processo. Con gli abiti stretti al petto, percorse rapidamente il corridoio fino al passaggio ad arco che portava nel soggiorno. Infilò la testa, pensando di trovarlo vuoto, ma con sua grande sorpresa, erano tutti seduti sul divano, con i due adulti alle estremità. Sembrava stessero guardando la televisione, ma l'apparecchio era spento.
Da dov'era, non poteva vedere in faccia nessuno. Per un attimo rimase immobile, guardando e ascoltando. Nessuno si mosse o parlò. Perplesso, entrò nella sala, si avvicinò al divano e, da tre metri, chiamò Alexis. Le teste di Craig e Alexis si girarono di colpo. Craig lo fissò con aria truce. Alexis balzò in piedi, il volto tirato, gli occhi arrossati. Qualcosa non andava. Qualcosa proprio non andava. 15 Newton Mercoledì, 7 giugno 2006 19.48 «E questo è tutto», concluse Alexis. Aveva raccontato a Jack come al loro rientro dal tribunale avessero trovato le figlie terrorizzate, legate e imbavagliate. Aveva parlato lentamente e senza fretta. Craig aveva lanciato qualche dettaglio cruento, come il fatto che Tracy era stata trascinata fuori dalla doccia, nuda, e picchiata rudemente. Jack aveva ascoltato seduto al tavolino di fronte alla sorella e alla sua famiglia. Era rimasto senza parole, gli occhi che saltabeccavano da Alexis, ansiosa, spaventata e preoccupata, a Craig, fuori di sé dalla rabbia, e alle figlie, scioccate e chiaramente traumatizzate. Tutte e tre se ne stavano sedute in silenzio e immobili. Tracy teneva le gambe raccolte e le braccia incrociate sul petto. Indossava una tuta oversize e aveva i capelli arricciati. Anche Christina e Meghan tenevano le braccia strette attorno alle gambe, con evidenti segni rossi ed escoriazioni sul viso, lasciati dal nastro adesivo. Tracy aveva anche un labbro spaccato. «State tutte bene?» s'informò Jack. Gli sembrava che solo Tracy fosse stata maltrattata fisicamente e, per fortuna, solo in modo lieve. «Stanno come ci si può aspettare», rispose Alexis. «Come hanno fatto a entrare?» «Hanno forzato la porta sul retro», sibilò il cognato. «Chiaramente erano dei professionisti.» «Hanno rubato qualcosa?» Gli occhi di Jack esaminarono rapidamente la stanza, ma sembrava tutto in ordine. «Credo di no», rispose Alexis. «Cosa volevano, allora?» «Riferire un messaggio. Hanno dato a Tracy un messaggio per noi.»
«Quale?» incalzò Jack con impazienza. «Nessuna autopsia», sbottò Craig. «Il messaggio diceva niente autopsia o torneremo e faremo del male alle bambine.» Gli occhi di Jack sfrecciarono da Craig ad Alexis. Non riusciva a credere che la sua offerta d'aiuto avesse causato una simile situazione. «È una pazzia», esclamò. «Non può essere vero.» «Dillo alle bambine!» lo provocò Craig. «Scusami.» Jack distolse lo sguardo. Era sconvolto per essere stato la causa di un tale disastro. Riportò lo sguardo su Craig e Alexis. «Allora, niente autopsia!» «Non siamo certi di voler cedere a questo genere di estorsione», dichiarò Alexis. «Nonostante quello che è successo, non escludiamo l'autopsia. Riteniamo che il fatto che qualcuno sia disposto ad arrivare al punto di minacciare delle bambine per impedire l'autopsia sia una ragione in più per farla.» Jack annuì. Aveva pensato la stessa cosa, ma non toccava a lui mettere in pericolo quelle ragazzine. Inoltre, l'unico colpevole che gli veniva in mente era Fasano e il suo motivo poteva nascere solo dal timore di perdere. Guardò Craig, la cui ira era calata di un grado mentre progrediva la conversazione. «Se ci fosse un rischio qualsiasi, sarei contrario», disse Craig. «Ma pensiamo di poterlo eliminare.» «Avete chiamato la polizia?» «No», rispose Alexis. «Quella era la seconda parte del messaggio. Niente autopsia, niente polizia.» «Dovete chiamare la polizia», insisté, ma le sue parole suonarono vuote, dal momento che lui stesso non aveva denunciato lo scontro con Fasano e socio il giorno precedente o lo scontro con Franco di mezz'ora prima. «Stiamo prendendo in considerazione le nostre opzioni», spiegò Craig. «Ne abbiamo discusso con le ragazze. Per alcuni giorni, fino alla fine del processo, staranno dai nonni. Mia madre e mio padre vivono a Lawrence e stanno venendo qui a prenderle.» «Con ogni probabilità andrò con loro», aggiunse Alexis. «Non occorre, mamma», la rassicurò Tracy, aprendo bocca per la prima volta. «Staremo bene con il nonno e la nonna.» «Nessuno sa dove saranno le ragazze», spiegò Craig. «Non torneranno a scuola per il resto della settimana e forse per tutto l'anno, mancano solo pochi giorni alla fine. Ci hanno promesso di non usare i cellulari e di non
dire a nessuno dove sono.» Jack annuì, ma non sapeva con cosa concordava. Aveva l'impressione di ricevere messaggi confusi. Era impossibile eliminare completamente il rischio per le bambine. Temeva che Alexis e Craig non riuscissero a ragionare con chiarezza per lo stress del processo. L'unica cosa certa era che la polizia non era stata avvertita. «Ascoltate», riprese Jack. «Dietro questa vergogna non possono esserci che Fasano e compari.» «L'abbiamo pensato anche noi», ammise il cognato, «ma ci sembra troppo disonesto. La cosa che più mi ha sorpreso in questo processo è l'animosità che provano i miei colleghi per il mio studio medico. Dà un certo credito alle questioni retoriche che avevi posto ieri sera sulla cospirazione.» Jack concesse a quell'idea una rapida riflessione, ma a parte tirare l'acqua al mulino della sua nota e amata teoria della cospirazione, non la ritenne plausibile. Fasano e i suoi sgherri erano un'eventualità molto più probabile, specialmente perché Tony l'aveva già minacciato. «Non so se avete notato il mio labbro gonfio», disse, toccandosi piano la tumefazione. «Difficile da non notare», osservò la sorella. «La pallacanestro?» «Avevo intenzione di farvelo credere», ammise, «ma è stato un altro scontro con quell'energumeno di Franco. Sta diventando una spiacevole abitudine giornaliera.» «Bastardi», sibilò Craig. «Stai bene?» chiese preoccupata Alexis. «Meglio di quanto sarei stato se i miei nuovi compagni di pallacanestro non fossero intervenuti immediatamente. Franco aveva un complice.» «Oh, mio Dio!» esclamò Alexis. «Ci dispiace averti coinvolto in questa faccenda.» «Me ne assumo la piena responsabilità. Non sto cercando compassione. Quello che voglio dire è che Fasano e soci erano con ogni probabilità anche dietro a ciò che è successo qui. Dobbiamo denunciare alla polizia entrambe le aggressioni.» «Tu puoi chiamare la polizia per il tuo problema», replicò Craig. «Non voglio rischiare la sicurezza delle mie figlie. Non credo che la polizia possa fare qualcosa. Quelli che sono venuti qui erano dei professionisti con maschere, tute da operai e guanti. La polizia di Newton non è abituata a questo genere di cose. È un borgo tranquillo.» «Non sono d'accordo», ribatté Jack. «Scommetto che la polizia locale ha visto molto più di quanto tu possa immaginare, e la scienza forense è uno
strumento potente. Non hai idea di cosa possano trovare. Potrebbero associare questo evento ad altri e possono aumentare la sorveglianza. Non riferendo il fatto fate il gioco di chi l'ha commesso e questo è un guaio. Permettete a voi stessi di farvi intimidire.» «Certo che ci stanno intimidendo», gridò Craig, facendo sobbalzare le figlie. «Perdio, pensi che siamo stupidi?» «Calmati, Craig!» lo ammonì Alexis, cingendo con un braccio Tracy che le era seduta accanto. «Avrei un'idea», propose Jack. «Ho un carissimo amico a New York, un tenente del dipartimento di polizia. Posso chiamarlo e sfruttare la sua competenza ed esperienza. Possiamo chiedergli cosa dovreste fare.» «Non voglio essere costretto a far niente», borbottò Craig. «Nessuno ti costringerà. Te lo garantisco.» «Penso che Jack dovrebbe chiamare il suo amico», intervenne Alexis. «Non avevamo ancora preso una decisione definitiva su questo.» «Bene!» esclamò Craig, alzando le mani. «Che ne so io?» Jack frugò nelle tasche della giacca alla ricerca del cellulare. Lo aprì e usando il tasto di chiamata rapida cercò Lou Soldano a casa. Erano appena passate le venti, l'ora più probabile per beccare il poliziotto, ma non rispose. Jack gli lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica. Provò poi il numero di cellulare e lo trovò in macchina diretto sulla scena di un omicidio nel Queens. Con i Bowman in ascolto, Jack gli fece un breve riassunto di ciò che aveva fatto e di ciò che era successo a Boston. Concluse dicendo che stava telefonando seduto in soggiorno con la sorella, il cognato e le loro figlie e che la domanda era: avvertire o no la polizia? «Non c'è alcun dubbio», rispose senza esitare Lou. «Devono avvertire la polizia.» «Temono che la polizia di Newton non abbia l'esperienza necessaria per giustificare il rischio.» «Hai detto che sono lì con te?» «Sì, qui di fronte.» «Metti il vivavoce.» Jack obbedì e tenne il telefono davanti a sé. Lou si presentò, espresse la sua partecipazione per la loro dura prova e poi disse: «Ho un amico molto caro che è la mia controparte al dipartimento di polizia di Boston. Abbiamo lavorato insieme molti anni fa. È esperto in ogni genere di crimine, compreso quello di cui siete vittime voi. Gli telefonerei volentieri per
chiedergli di contattarvi personalmente. Vive nella vostra città. Di sicuro conosce qualcuno della polizia di Newton. Dipende da voi. Posso mettermi in contatto subito. Si chiama Liam Flanagan. È un uomo fantastico. E permettetemi di aggiungere una cosa, le vostre figlie sono più a rischio, se non riferite l'accaduto. Lo so per certo». Alexis fissò il marito. «Credo che dovremmo accettare la sua proposta.» «D'accordo», accettò Craig con riluttanza. «Hai sentito?» chiese Jack. «Sì. Lo chiamo immediatamente.» «Aspetta, Lou», lo esortò Jack. Tolse il vivavoce, si scusò con i Bowman e uscì nell'atrio fuori portata d'orecchio. «Quando parli con Flanagan, vedi se mi può procurare una pistola.» «Una pistola? Non sarà facile.» «Vedi un po' se è possibile. Mi sento più vulnerabile del solito.» «Il tuo porto d'armi è valido?» «Sì, per New York. Ho completato l'addestramento e via dicendo. Sei tu quello che mi ha spinto a farlo, solo che non ho mai trovato il tempo per acquistare un'arma.» «Vedrò cosa posso fare.» Jack chiuse la comunicazione e in quel momento suonò il campanello della porta. Alexis gli passò davanti di corsa. «Devono essere il nonno e la nonna», disse. Ma sbagliava. Era Bingham, vestito in modo casual ma elegante come sempre. «Craig è pronto per la prova?» chiese l'avvocato, notando l'espressione sorpresa della donna. «Mi aspetta.» Alexis rimase per un attimo disorientata. «Prova?» domandò. «Sì. Craig testimonierà domattina e abbiamo deciso che era bene fare una prova.» «Entri», lo invitò lei, imbarazzata per avere esitato. Randolph notò i pantaloncini di Jack e la maglietta sporca e macchiata di sangue, ma non disse niente, mentre Alexis gli faceva strada lungo il corridoio fino in soggiorno. Randolph fu il secondo a essere informato di ciò che era accaduto in casa Bowman quel pomeriggio. Mentre il racconto procedeva, l'espressione dell'avvocato, dapprima fredda, divenne preoccupata. «Avete fatto visitare le ragazze da un medico?» chiese. «Solo da Craig», rispose Alexis. «Non abbiamo chiamato il pediatra.» Randolph guardò Craig: «Potrei presentare una mozione per il rinvio del
processo, se lo desiderasse». «Che probabilità abbiamo che il giudice Davidson lo conceda?» «Impossibile saperlo. Dipenderebbe completamente dalla sua discrezionalità.» «Preferirei che questo incubo finisse prima possibile. Probabilmente è anche la cosa più sicura per le bambine.» «Come desidera. Presumo che abbia già contattato la polizia.» Alexis e Craig si scambiarono un'occhiata. Poi la moglie avvistò Jack che era rientrato nella stanza. «Lo stiamo facendo», riferì lui. Poi spiegò che tutti e tre ritenevano che Fasano fosse coinvolto, sulla base della minaccia che gli aveva rivolto l'avvocato, quando gli aveva detto che, se avesse eseguito l'autopsia, sarebbe stato un uomo finito. «Era chiaramente una minaccia di passare a vie di fatto», commentò Randolph. «Potrebbe muovergli accusa.» «L'episodio è un po' più complesso», spiegò il patologo. «L'unico testimone era lo sgherro di Fasano e io l'ho colpito dopo che lui ha colpito me. In conclusione, non intendo muovere accuse.» «C'è una prova qualsiasi che Tony Fasano sia dietro le azioni di oggi?» domandò. «Se ci fosse, potrei ottenere l'annullamento del processo.» «Nessuna prova», rispose Craig. «Le mie figlie hanno detto di poter riconoscere una voce, ma non sono del tutto sicure.» «Forse la polizia avrà più fortuna?» insisté l'avvocato. «Che mi dite dell'autopsia? Si farà o no?» «Stiamo tentando di prendere una decisione», ammise Alexis. «Ovviamente la questione principale è la sicurezza della bambine», specificò Craig. «Eventualmente quando sarebbe?» «Il corpo dovrebbe venire esumato in mattinata», rispose Jack. «Io eseguirò l'autopsia immediatamente, ma i primi risultati riguarderanno solo la patologia evidente.» «Molto tardi nel corso degli eventi», dichiarò Randolph. «Forse non vale la fatica o il rischio. Domani, dopo la testimonianza del dottor Bowman, sono sicuro che il giudice decreterà che il ricorrente ha soddisfatto il suo onere della prova. Allora io presenterò la difesa, cioè le testimonianze dei nostri esperti. Ciò significa che venerdì mattina ci saranno le arringhe finali.» In quel momento squillò il telefono di Jack, che sobbalzò, avendolo an-
cora stretto in mano. Uscì dal salotto per rispondere. Era Lou. «Ho contattato Liam e gli ho raccontato la storia e gli ho dato l'indirizzo. Sarà da voi con qualche agente di Newton. È un tipo in gamba.» «Gli hai chiesto per la pistola?» «Sì. Non era entusiasta, ma gli ho parlato con fervore della tua integrità e via dicendo.» «E allora? Se va tutto bene, esumeranno il corpo domattina, e grazie a tutte queste minacce, mi sento una facile preda.» «Ha detto che provvederà, ma che riterrà me responsabile.» «Cosa significa?» «Presumo che ti darà un'arma, ma tu sta' attento.» «Grazie per il consiglio, papà. Farò di tutto per sparare a meno persone possibile.» Tornò in soggiorno. Craig, Alexis e Randolph stavano ancora discutendo sull'autopsia. Avevano votato a favore, nonostante i tempi stretti. Per Randolph era importante poter usare qualsiasi scoperta significativa per favorire il processo d'appello, se fosse stato necessario, per annullare il verdetto o per ottenere un nuovo processo o per stabilire l'indennizzo in conformità con il concorso di colpa. Ricordò a tutti che i verbali documentavano che Patience Stanhope aveva rifiutato in numerose occasioni e contro il parere medico di fare ulteriori esami cardiaci dopo l'esito dubbio dell'elettrocardiogramma sotto sforzo. Quando la conversazione s'interruppe, Jack li informò che stava arrivando il tenente Flanagan. «Vogliamo che tu esegua l'autopsia, se sei ancora disposto a farla», gli comunicò Alexis, fingendo di non avere sentito le sue parole. «L'avevo capito. La farò volentieri, se è quello che volete.» Guardò il cognato e Craig alzò le spalle. «Non ho intenzione di andare controcorrente», ammise Craig. «Sono talmente sotto pressione che mi fido del vostro giudizio.» «Bene.» Ancora una volta Jack pensò che Craig stava rivelando un inatteso discernimento. Il campanello suonò di nuovo e Alexis corse alla porta, dicendo che dovevano essere i nonni. Ma per la seconda volta sbagliava. Trovò cinque poliziotti, due dei quali indossavano la divisa del dipartimento di Newton. Li invitò a entrare e li condusse in salotto. «Sono il tenente Liam Flanagan», si presentò il grosso e rubizzo irlandese con voce tonante. Aveva celesti occhi luminosi e una manciata di len-
tiggini su un naso da pugile. Presentò poi gli altri, il detective Greg Skolar, gli agenti Sean O'Rourke e David Shapiro e l'investigatore della Scientifica Derek William. Mentre Liam faceva le presentazioni, Jack lo studiò. C'era qualcosa di familiare in lui, come se l'avesse già conosciuto. Improvvisamente gli tornò in mente. Appena ebbe l'opportunità di parlare chiese a Liam: «Ci siamo visti per caso questa mattina all'istituto di medicina legale?» «Sì, è vero», rispose lui con un sorriso. «Ora mi ricordo di lei. È entrato nella sala autopsie.» Dopo avere ricevuto un riassunto dell'incidente, l'investigatore della Scientifica e i due agenti uscirono a esaminare il prato, finché c'era ancora un po' di luce. I detective si concentrarono sulle ragazze. Randolph, preso da parte il suo assistito, gli chiese se si sentisse disposto a fare una prova della testimonianza in programma il mattino seguente. «Quanto ritiene sia importante?» chiese Craig, comprensibilmente preoccupato. «Estremamente importante», rispose l'avvocato. «Forse dovrebbe ricordare come si è comportato durante la deposizione. Sarebbe una calamità se si ripetesse davanti ai giurati. L'obiettivo della parte avversa è di presentarla come un medico arrogante e insensibile che quella sera era più interessato a un concerto con la sua amichetta, che al benessere della paziente gravemente malata. Dobbiamo evitare che si proponga in modo da convalidare tali affermazioni e l'unica è fare una prova. Lei è un bravo dottore, ma un pessimo teste.» Mortificato dall'affermazione, accettò docilmente. Interruppe i due detective per avvertire le figlie che si ritirava in biblioteca. Fratello e sorella si ritrovarono a guardarsi in faccia. All'inizio avevano ascoltato con interesse le bambine fare la descrizione dell'accaduto, ma appena divenne ripetitiva, il loro interesse svanì. Si ritirarono in cucina a parlare. «Voglio dirti di nuovo quanto mi rattristi tutto ciò che è successo», esordì Jack. «Le mie intenzioni erano buone, ma sono stato più d'ostacolo che d'aiuto.» «Nessuno poteva prevedere niente di simile», lo rassicurò lei. «Non devi scusarti. Sei stato d'enorme aiuto morale per me, e anche per Craig. È un uomo diverso da quando sei arrivato. Sono ancora scioccata dal buonsenso che ha manifestato oggi a pranzo.» «Spero che duri. Che mi dici delle ragazze? Come pensi reagiranno a
questa esperienza?» «Non lo so. Nonostante l'assenza del padre sono delle bambine emotivamente stabili. Noi abbiamo sempre avuto un buon rapporto. Vedremo giorno per giorno e lascerò che esprimano quello che provano e temono.» «Hai qualche programma per loro?» «Portarle dai nonni. Adorano la nonna. Dovranno dormire nella stessa stanza, cosa di cui normalmente si lamentano, ma, date le circostanze, credo che farà loro bene.» «Le accompagnerai?» «È proprio di questo che stavamo discutendo quando sei arrivato. Io preferirei. È un modo per riconoscere che i loro timori sono reali, ed è importante. L'ultima cosa da fare sarebbe dire loro banalità, insistere che andrà tutto bene e che non devono avere paura. Devono avere paura. È stata una prova traumatizzante. Ringrazio Dio che non sia stato fatto loro del male. D'altra parte a Craig farebbe piacere che restassi e Tracy diceva che non voleva che le accompagnassi. L'hai sentita. Credo però che fosse solo una spacconata da adolescente. E per quanto sia preoccupata per Craig, se si dovesse arrivare a decidere tra lui e le ragazze non avrei dubbio su chi scegliere.» «Pensi che avranno bisogno di un aiuto, di qualche terapia?» «Non credo. Solo se le loro paure perdurassero e fossero esagerate. Immagino che alla fine dovrò prendere una decisione. Fortunatamente in caso di necessità potrò chiedere aiuto ad alcuni colleghi.» «Stavo pensando, ecco, dato che la mia presenza ha causato un sacco di guai, forse la cosa migliore per tutti sarebbe che io mi trasferissi in un albergo in città.» «È fuori discussione», ribatté Alexis. «Non ne voglio neppure sentire parlare. Sei qui e starai qui.» «Sei sicura? Non me la prenderei.» «Assolutamente. Non parliamone più.» Il campanello della porta suonò di nuovo. «Questa volta devono essere i nonni», disse, staccandosi dal bancone della cucina. Jack lanciò un'occhiata in soggiorno e gli parve che l'interrogatorio stesse per concludersi. I due agenti e il tecnico della Scientifica erano rientrati ed erano alle prese con il nastro adesivo usato dagli aggressori. Pochi minuti dopo Alexis fece entrare i nonni. Leonard era un uomo pallido e grosso con una barba di due giorni, un taglio di capelli antiquato e un pancione dovuto alla troppa birra e a molte ore davanti alla televisione.
Era un uomo di poche parole e dai modi spicci. Quando Jack gli strinse la mano, bofonchiò e basta. Rose era l'esatto contrario. Quando entrò e le bambine corsero da lei, sprizzò piacere e preoccupazione. Era una donna bassa e robusta con ricci capelli bianchi, occhi luminosi e denti gialli. Mentre le ragazzine trascinavano la nonna sul divano, Jack si ritrovò isolato con Leonard. Tanto per fare conversazione, osservò quanto le bambine amassero la nonna. In risposta ottenne un altro smorzato grugnito. Con la polizia indaffarata, le ragazze prese dalla nonna, Alexis che preparava le valigie e Craig sequestrato in biblioteca da Randolph, era bloccato con Leonard. Dopo qualche altro vano tentativo di estorcere qualche parola dalla sua bocca, desistette. Si assicurò che Flanagan sarebbe rimasto ancora per mezz'ora, quindi raccolse vestiti e scarpe che aveva lasciato sul pavimento della cucina e andò a farsi una doccia. Mentre era in bagno, ricordò con senso di colpa di non avere ancora telefonato a Laurie. Uscito dalla doccia, si guardò allo specchio e rabbrividì. Si era completamente dimenticato il ghiaccio e ora aveva un labbro livido e gonfio. Sembrava uscito da una zuffa da bar. Si vestì e prese il cellulare. In assenza di segnale, rinunciò, salì le scale e trovò Alexis, le bambine e i nonni nell'atrio. Alexis aveva finito di fare i bagagli e aveva già messo le valigie in macchina. Le ragazze stavano implorando la nonna di viaggiare con loro, ma Rose disse che doveva andare con il nonno. Fu allora che Jack sentì Leonard pronunciare in tono strascicato due sole parole: «Forza, Rose». Era più un ordine che una richiesta. Rose si staccò dalle nipoti e corse dietro al marito che era già uscito. «Ti vedrò in tribunale domani?» chiese Alexis al fratello mentre spingeva le figlie verso la porta del garage. Le ragazze avevano già salutato Craig che stava ancora lavorando in biblioteca con Randolph. «A un certo punto», rispose lui. «Non so ancora quale sarà il mio programma di domani. Non dipende da me.» Di colpo Alexis roteò su se stessa. «Oh, mio Dio!» esclamò. «Mi sono appena ricordata che venerdì ti sposi. E domani è già giovedì. Con tante preoccupazioni me ne ero completamente dimenticata. Scusami. La tua futura moglie deve odiarmi per averti trascinato quassù e tenerti come ostaggio.» «Mi conosce tanto bene da sapere chi rimproverare, se vuole.» «Così farai l'autopsia e tornerai subito a New York?» «Questo è il programma.»
Alla porta del garage Alexis invitò le ragazze a salutare lo zio. Lo abbracciarono, ma solo Christina parlò. Gli sussurrò nell'orecchio che era dispiaciuta che le sue figlie fossero bruciate nell'aeroplano. Quel commento inatteso lo colse tanto alla sprovvista che minò il suo equilibrio emotivo e dovette reprimere una lacrima. Quando lo abbracciò anche la sorella, intuì la sua commozione e si tirò indietro per fissarlo negli occhi, fraintendendo. «Ehi», disse. «Stiamo bene. Le bambine staranno bene. Fidati di me!» Jack annuì e ritrovò la voce. «Ci vediamo a qualche ora domani e spero di avere per te qualcosa in grado di dare un senso a tutto questo.» «Anch'io.» Salì nella station wagon e attivò la porta del garage che si alzò con un rumore spaventoso. A quel punto Jack si rese conto di dover spostare la sua auto parcheggiata dietro la Lexus di Craig, perché ostruiva il vialetto d'accesso. Corse davanti alla sorella, indicandole di aspettare. Innestò la retromarcia e attese che Alexis uscisse. Con un colpo di clacson e un saluto con la mano, lei scomparve nella notte. Mentre Jack rientrava nel vialetto, lanciò un'occhiata alle due auto di pattuglia della polizia di Newton e alle altre due anonime e scure berline che appartenevano agli ispettori parcheggiate in strada. Si chiese tra quanto avrebbero finito, perché era ansioso di parlare con loro in privato, specialmente con Liam Flanagan. Come in risposta alla sua domanda, uscirono tutti da casa Bowman, mentre Jack scendeva dall'auto. «Scusate!» gridò correndo loro incontro. «Dottor Stapleton», disse Liam. «La stavamo cercando.» «Avete finito?» «Per ora.» «Trovato qualcosa?» «Il nastro adesivo verrà analizzato in laboratorio, come alcune fibre trovate nel bagno. Non c'era molto. Abbiamo trovato qualcosa che per il momento non posso divulgare e che potrebbe essere promettente, ma nel complesso è un lavoretto da professionisti.» «Cosa mi dice dell'autopsia?» chiese il detective Skolar. «La farà?» «Se ci sarà l'esumazione, ci sarà pure l'autopsia», rispose. «La eseguirò appena sarà disponibile il corpo.» «Strano, tutto questo per un'autopsia», osservò il detective. «Prevede qualche rivelazione esplosiva?» «Non so ancora cosa aspettarmi. Tutto quello che sappiamo è che la paziente ha avuto un attacco di cuore e questo ci ha incuriosito.»
«È strano», ripeté il detective Skolar. «Per la tranquillità sua e dei Bowman, terremo la casa sotto sorveglianza continua per alcuni giorni.» «Sono sicuro che i Bowman gliene saranno grati. Li farà dormire meglio.» «Ci tenga informati su qualsiasi sviluppo.» Prima di stringergli la mano Skolar gli allungò un biglietto da visita. Poi lo salutò assieme agli altri tre agenti. «Posso parlarle un minuto prima che se ne vada?» chiese Jack a Liam. «Assolutamente. Stavo per chiederle la stessa cosa.» L'auto degli agenti venne rapidamente inghiottita dall'oscurità della notte. L'unica luce nel quartiere proveniva dalle finestre della casa e da un solitario lampione in direzione opposta a quella presa dalla polizia. Nel cielo una stretta fetta di luna a forma di scimitarra sbirciava attraverso la volta frondosa degli alberi che fiancheggiavano la strada. «Vuole sedersi nella mia limousine?» propose Liam, appena arrivarono davanti alla sua Ford. «Qui fuori è bellissimo», rispose Jack. L'aria era più fresca e la temperatura era tonificante. Si appoggiarono all'auto e Jack raccontò la storia del suo scontro con Tony Fasano, la minaccia ricevuta e le due scazzottate con il suo compare, Franco. Liam lo ascoltò attentamente. «Conosco Fasano», ammise Liam. «È una persona che si muove tra cause per lesioni personali e per negligenza medica. Ha difeso anche un pugno di criminali da strapazzo in processi penali ed è per questo che so chi è. Devo ammettere che è più intelligente di quanto gli si dia credito inizialmente.» «Ho avuto la stessa impressione.» «Crede che sia dietro questo professionale ma rozzo tentativo di ricatto? Con la gente che frequenta, ha i contatti giusti.» «È evidente, per come mi ha minacciato, d'altra parte sembra troppo semplice e troppo stupido, visto quanto è intelligente.» «Qualche altro sospetto?» «Non proprio.» Jack prese in considerazione l'idea di parlargli della cospirazione, ma poi non se la sentì di menzionarla. «Verificherò anche la pista Fasano», dichiarò Liam. «Il suo studio è nel North End, per cui cade sotto la nostra giurisdizione, ma senza una prova, almeno finora, c'è ben poco che possiamo fare, specialmente a breve.» «Lo so», ammise Jack. «Le sono grato per avere trovato il tempo per ve-
nire qui stasera. Temevo che i Bowman non riferissero l'episodio alla polizia.» «Faccio sempre volentieri un favore al mio amico Lou. Ho avuto l'impressione che voi due siate molto legati.» Jack annuì e sorrise. Aveva conosciuto Lou quando facevano entrambi la corte a Laurie ed era stato tanto gentile e corretto da farsi da parte quando aveva visto che le sue prospettive erano svanite. «Il che mi porta all'ultima questione», riprese Liam. Aprì la portiera della sua auto e frugò in una sacca sul sedile del passeggero. Si girò e allungò a Jack una Smith and Wesson calibro 38 a canna corta. «La tenga ben stretta, perché questa non è una cosa che faccio di solito.» Jack si rigirò in mano il revolver. Brillava nell'oscurità. «Farà bene ad avere una validissima ragione per usarla», bofonchiò. «E mi auguro che non la usi mai.» «Le garantisco che sarà solo in caso di vita o di morte», dichiarò. «Ma ora che le ragazze non sono più qui, forse non ne avrò bisogno.» Tese la pistola a Liam. Il tenente alzò la mano, palmo in avanti. «La tenga. È stato malmenato un paio di volte. Mi sa che questo Franco ha qualche rotella fuori posto. Comunque voglio riaverla. Quando pensa di partire?» «Domani a un'ora imprecisata. Ragione in più per non prenderla.» «La prenda!» Gli diede il suo biglietto da visita, quindi aprì la portiera del guidatore. «Possiamo incontrarci quando parte o la può lasciare in una busta a mio nome al quartier generale. Basta che non sbandieri ai quattro venti cosa c'è dentro.» «Sarò discreto», replicò Jack. Poi aggiunse, in tono sarcastico: «Discreto è il mio secondo nome». «Non secondo Lou.» Scoppiò a ridere. «Però ha detto che è responsabile ed è su questo che faccio conto.» Con un ultimo saluto, entrò in macchina e scomparve rapidamente nella stessa direzione della polizia di Newton. Jack maneggiò la pistola nel buio. Gli parve innocente, come le armi giocattolo che aveva avuto da bambino, eppure, da patologo forense, conosceva bene il suo potenziale distruttivo. Aveva tracciato più percorsi di proiettili in cadaveri di quanti avesse voglia di ammettere, e ogni volta si era stupito del grado di trauma. Infilò l'arma in una tasca ed estrasse il cellulare dall'altra. Desiderava chiamare Laurie, ma nello stesso tempo sapeva che non avrebbe preso bene la notizia. Tornare a casa giovedì, forse addi-
rittura giovedì sera, con il matrimonio fissato alle tredici e trenta del venerdì era assurdo, irragionevole e addirittura offensivo. Era rimasto intrappolato in un pantano di circostanze. Dopo tutto quello che era accaduto, in parte anche per colpa sua, non poteva abbandonare Alexis e Craig. Era anche estremamente curioso di sapere perché qualcuno non voleva quell'autopsia. Mentre quest'idea si insinuava nella sua testa, gli venne in mente qualcosa di nuovo. L'ospedale. La sera in cui Patience Stanhope era stata ricoverata era forse successo qualcosa in ospedale che si doveva nascondere? Non aveva riflettuto su quell'aspetto e, sebbene improbabile, sembrava molto più verosimile dell'idea di una cospirazione contro il tipo di assistenza. Con trepidazione compose il numero del cellulare di Laurie. 16 Newton Mercoledì, 7 giugno 2006 21.55 «Era ora!» rispose secca Laurie. Jack trasalì. Il suo saluto era ben diverso da quello della sera precedente e preannunciava il tipo di conversazione che lui temeva. «Sono quasi le dieci!» si lamentò. «Perché non hai telefonato? Sono passate otto ore dal vigliacco messaggio che hai lasciato nella segreteria telefonica.» «Scusami», bofonchiò nel tono più contrito possibile. «È stata una serata strana.» Sebbene con quell'osservazione avesse cercato di minimizzare gli eventi, non era tipica dell'umorismo sarcastico di Jack. Si stava consapevolmente sforzando di resistere al suo approccio sconsiderato alla vita che era diventato automatico dopo la tragedia famigliare. Attento alle parole che pronunciava e il più succintamente possibile, riferì a Laurie l'irruzione in casa Bowman e il terrore inflitto alle bambine e la visita della polizia resa possibile dalla tempestiva intercessione di Lou. Le parlò poi di Tony Fasano e della sua minaccia, di Franco e dell'episodio del giorno precedente che non le aveva riferito la sera prima. «È incredibile!» esclamò Laurie dopo un po'. Dalla sua voce era svanita gran parte dell'ira. «Stai bene?»
«Ho un labbro gonfio e alcuni capillari rotti sullo zigomo, ma ne ho prese di più giocando a pallacanestro. Sto bene.» «Questo Franco mi agita. Mi pare un pazzo.» «Lo temo anch'io», ammise. Pensò di menzionare la pistola, ma poi decise che l'avrebbe solo preoccupata di più. «Se ho capito bene, credi che dietro l'aggressione alle bambine ci sia questo Fasano.» Le riferì parte della conversazione avuta con Flanagan. «Come stanno le ragazze?» «Sembrano calme, tenuto conto di ciò che hanno passato. Forse avere una madre psicologa le aiuta. Alexis è fantastica con loro. Le ha portate dai nonni paterni per alcuni giorni. Per darti un'idea, la più piccola era tanto in sé da farmi le condoglianze per le mie figlie quando ci siamo salutati. Mi ha colto alla sprovvista.» «Dà l'impressione di essere precocemente padrona di sé. Una benedizione per la famiglia. Ma dimmi, quando pensi di tornare?» «Nel peggiore dei casi, domani sera», rispose. «Eseguirò l'autopsia, annoterò i risultati, quali che siano, e li girerò all'avvocato di Craig. Anche se volessi, non ha intenzione di farmi salire sul banco dei testimoni, così non ci sono problemi.» «Sarai proprio al limite», borbottò Laurie. «Se finissi per essere abbandonata all'altare, non te lo perdonerò mai. Voglio che tu lo sappia.» «Ho detto nel peggiore dei casi. Potrei arrivare anche verso metà pomeriggio.» «Promettimi che non farai nulla di sciocco.» A Jack vennero in mente un sacco di risposte per le rime, ma si trattenne. «Sarò prudente», rispose invece. Poi, per toglierle ogni preoccupazione, aggiunse: «La polizia di Newton ha promesso una sorveglianza particolare». Fiducioso di averla tranquillizzata, la salutò dopo alcune frasi affettuose. Fece poi altre due telefonate. Parlò brevemente con Lou per raccontargli cos'era successo con Flanagan e per ringraziarlo. Gli disse inoltre che si sarebbero visti in chiesa venerdì. Telefonò poi a Warren e gli raccontò non solo che David era un ottimo giocatore, ma anche che gli aveva salvato il culo. Alla risposta dell'amico dovette allontanare il telefono dall'orecchio. Anche a lui disse che si sarebbero visti in chiesa. Inspirò una tonificante boccata d'aria fresca. Un cane abbaiò in lontananza. Diede un colpetto alla tasca e la pesante solidità dell'arma lo rassi-
curò. Si voltò ed entrò in casa. Senza Alexis e le bambine, si sentì un po' come un intruso. Dopo avere chiuso la porta d'ingresso, il silenzio della casa era quasi palpabile, anche se riusciva a sentire le voci smorzate di Craig e Randolph in biblioteca. Entrò in cucina, aprì il frigorifero, si preparò un panino e con una lattina di birra si trasferì sul divano. Accese il televisore, tenendo il volume basso, e dopo essere passato rapidamente da un canale all'altro, trovò un telegiornale. Finito il panino e quasi tutta la birra, sentì delle voci rabbiose provenire dalla biblioteca. Alzò il volume della televisione. Si sentiva un po' come quando era quasi stato scoperto a curiosare nella borsa di Craig. Pochi minuti dopo si sentì sbattere la porta d'ingresso e Craig apparve in salotto. Dal modo in cui si comportava, era chiaro che era furioso, soprattutto per come lanciò i cubetti di ghiaccio in un bicchiere e sbatté l'antina della vetrinetta. Si servì una bella dose di scotch, poi portò al divano bicchiere e bottiglia. «Ti spiace?» domandò indicando il divano su cui era seduto Jack. «Per niente.» Si chiese perché si fosse preso la briga di chiederlo. Spense il televisore e si girò a guardarlo. Gli occhi fissi sul caminetto spento, Craig bevve una lunga sorsata di scotch e se lo rigirò in bocca prima di ingollarlo. «Come è andata?» s'informò Jack. Si sentiva obbligato a tentare di fare conversazione. Craig scoppiò in una risata sprezzante. «Ti senti pronto?» «Più pronto che mai, ma temo che non sia abbastanza.» «Cosa ti ha consigliato Randolph?» «Il solito. Non devo mettermi le dita nel naso, non devo scoreggiare o deridere il giudice.» «Guarda che voglio saperlo sul serio.» Craig lo fissò, la tensione di poco prima stava svanendo. «I soliti consigli che ho menzionato a pranzo e qualche altro. Devo evitare di balbettare e ridere nei momenti meno appropriati. Riesci a crederci? Fasano mi attaccherà verbalmente e io dovrò lasciarlo fare senza agitarmi. Devo mostrarmi ferito ma non arrabbiato, così che la giuria simpatizzerà con me. Incredibile.» «Sono consigli sensati.» «Sembreranno a te, ma non a me.»
«Non ho potuto evitare di sentirvi alzare la voce. Voglio dire, non ho sentito di cosa stavate parlando, ma eravate in disaccordo su qualcosa?» «Non proprio. Mi ha semplicemente fatto incazzare fingendo di essere Fasano e c'è riuscito benissimo. Quando sarò sul banco dei testimoni, io avrò prestato giuramento, Fasano no. Ciò significa che lui può inventare e dire ciò che vuole, mentre io non mi devo agitare, ma non ci riesco. Mi sono addirittura arrabbiato con Randolph. Sono senza speranza.» Jack osservò il cognato svuotare il bicchiere e riempirlo di nuovo. «Non va bene», riprese Craig, più mesto che arrabbiato. «E continuo a temere che Randolph non sia la persona giusta, a dispetto della sua esperienza. È dannatamente pretenzioso. Viscido come è, Fasano riesce a manipolare i giurati.» «Alla fine i giurati hanno un modo sorprendente di vedere attraverso la nebbia», osservò Jack. «L'altra cosa che mi fa incazzare di Randolph è che continua a parlare dell'appello», proseguì come se non l'avesse sentito. «È stato questo che mi ha fatto perdere le staffe verso la fine della seduta. Non riuscivo a credere che a quel punto tirasse in ballo l'appello. So di doverci pensare, come devo pensare a cosa farò dopo. Se perdessi, non continuerei a esercitare.» «E sarebbe una doppia tragedia. La professione medica non può permettersi di perdere il suo miglior medico, tantomeno i tuoi pazienti.» «Se perdessi, non potrei più guardare un paziente senza temere di finire in giudizio e dover affrontare un'altra esperienza come questa. Questi sono stati i peggiori otto mesi della mia vita.» «Ma cosa faresti se non esercitassi più? Hai una famiglia e sei giovane.» Craig alzò le spalle. «Probabilmente lavorerei per una casa farmaceutica. Ci sono un sacco di opportunità. Conosco molti che hanno seguito questa strada. L'altra possibilità è fare ricerca a tempo pieno.» «Riusciresti veramente a continuare quel tuo lavoro sui canali del sodio a tempo pieno ed essere soddisfatto?» «Assolutamente. È una materia emozionante. È scienza e ha un'applicazione clinica immediata.» «Immagino che le case farmaceutiche siano interessate.» «Senza dubbio.» «Mentre ero fuori a salutare tutti», cambiò discorso Jack, «mi è venuta in mente una cosa che volevo discutere con te.» «Riguardo cosa?» «Ho letto più volte l'intero dossier e tutte le tue cartelle cliniche, ma l'u-
nico foglio proveniente dall'ospedale è l'attestato del referto del pronto soccorso.» «È tutto quello che c'era. Non è neppure stata ricoverata.» «Lo so, ma non c'era alcun rapporto di laboratorio tranne ciò che è menzionato negli appunti, e nessun foglio di registrazione. Ciò che mi chiedo è se non sia stato commesso un errore madornale in ospedale, come aver somministrato un farmaco sbagliato o in dose eccessiva. Fosse questo il caso, il responsabile, chiunque sia, potrebbe avere un disperato bisogno di nascondere il proprio operato e sarebbe più che felice di vedere incastrare te. So che è una teoria completamente fuori dalle righe, ma non è assurda come quella della cospirazione. Cosa ne pensi? Voglio dire, è evidente, da ciò che è accaduto questo pomeriggio alle ragazze, che qualcuno è molto, ma molto contrario a che io esegua l'autopsia e, se non si può incolpare Fasano, il motivo deve nascere da qualcosa di diverso dai soldi.» Craig fissò il vuoto per un minuto, rimuginando. «È un'altra idea stravagante, ma interessante.» «Immagino che durante l'istruttoria abbiate ottenuto tutte le carte pertinenti dall'ospedale.» «Credo di sì. E un argomento contro una simile teoria è che io ero lì con la paziente tutto il tempo. Me ne sarei accorto. Di solito, in caso di overdose o di farmaco sbagliato, c'è un rilevante mutamento nella condizione del paziente, ma non c'è stato nulla. Dal primo momento in cui l'ho vista a casa Stanhope a quando è stata ufficialmente dichiarata morta, è semplicemente scivolata via, senza mai reagire a qualsiasi intervento.» «Giusto. Ma forse varrà la pena di prendere in considerazione questa ipotesi quando riuscirò a fare l'autopsia. Avevo già una mezza idea di fare uno screening tossicologico, ma di fronte alla possibilità di un'overdose o di un farmaco errato lo ritengo indispensabile.» «Cosa evidenzia uno screening tossicologico?» «Le solite droghe e anche alcune inusuali, se hanno concentrazioni sufficientemente alte.» Craig finì anche il secondo bicchiere, scrutò la bottiglia, ma cambiò idea. Si alzò. «Scusami se non faccio gli onori di casa, ma ho un appuntamento con il mio agente ipnotico preferito.» «Non è una buona idea mescolare alcol e sonniferi.» «Davvero?» chiese Craig con fare sprezzante. «Non lo sapevo.» «Ci vediamo domattina», lo salutò ignorando la provocazione. «Hai paura che tornino i cattivi ragazzi?» chiese Craig in tono sarcasti-
co. «No.» «Nemmeno io. Almeno non fin dopo l'autopsia.» «Ci hai ripensato?» «Certo che ci ho ripensato, specialmente da quando mi hai detto che le probabilità di trovare qualcosa di rilevante sono scarse e Randolph ha confermato che non avranno alcuna influenza sul processo, perché non saranno ammissibili.» «Io avevo detto che le probabilità di trovare qualcosa sono scarse prima che qualcuno penetrasse in casa tua intimando di non farla. Ma dipende sempre e solo da voi due.» «Alexis è decisa.» «Allora dipende da te. Dimmi tu cosa vuoi che faccia.» «Non so, soprattutto dopo due scotch doppi.» «Perché non mi dai una risposta definitiva domattina?» Jack stava perdendo la pazienza. «Che genere di persona sarebbe disposta a terrorizzare tre bambine per dimostrare qualcosa?» chiese Craig. Jack scrollò le spalle. Era una domanda che non aveva bisogno di risposta. Diede la buonanotte a Craig che lo salutò prima di uscire barcollante dalla stanza. Jack si alzò e si stirò. Sentì il peso della pistola ed era un peso confortante, anche se non temeva intrusi. Controllò l'ora. Era troppo presto per dormire. Guardò la televisione, niente d'interessante. Non avendo piani migliori, andò a prendere il dossier e lo portò nello studio. Da abitudinario, si sedette nella poltrona che aveva già occupato prima. Dopo avere acceso la lampada, cercò la cartella dell'ospedale. Aveva già scorso la parte riguardante la cianosi, tuttavia voleva leggerla più attentamente, ma i suoi occhi si fermarono sull'antiquata borsa di Craig e gli venne in mente un'altra idea. Si chiese quale fosse la probabilità di avere falsi positivi con l'analizzatore portatile dei marcatori biochimici. Andò alla porta per assicurarsi di sentire Craig muoversi al piano di sopra. Sebbene avesse detto che non gli importava se esaminava la borsa, Jack si sentiva ugualmente a disagio. Convintosi che era tutto tranquillo, prese la borsa dallo scaffale, l'aprì ed estrasse il kit per i biomarcatori. Spiegò il foglio illustrativo e lesse che la tecnologia si basava su anticorpi monoclonali altamente specifici, vale a dire uno strumento di diagnostica estremamente efficace e con la probabilità di un falso positivo vicina allo
zero. «Fantastico», esclamò a voce alta. Il foglio tornò nella scatola e la scatola tornò in fondo alla borsa tra le tre fiale scartate. Alla faccia di un'altra idea intelligente. Si risedette e riprese a leggere la cartella del pronto soccorso. Sfortunatamente non c'era niente di sospetto e, come aveva notato alla prima lettura, l'annotazione sulla cianosi era la parte più interessante. All'improvviso presero vita simultaneamente i due telefoni sulle due scrivanie. Lo squillo roco che ruppe il silenzio lo fece sobbalzare. Il suono continuò insistente e, dopo il quinto trillo, concluse che Craig non l'aveva sentito, così si alzò, accese la lampada e controllò il nome del chiamante. Leonard Bowman. Dopo il settimo squillo, ormai sicuro che il cognato non avrebbe risposto, sollevò il ricevitore. Era Alexis. «Grazie per aver risposto», lo salutò. «Aspettavo che lo facesse Craig, ma immagino che lo scotch e il tranquillante abbiano fatto effetto.» «Tutto bene lì?» «Tutto okay. E da voi come vanno le cose?» «Piuttosto bene. Tutto considerato, le ragazze si stanno comportando in modo fantastico. Christina e Meghan stanno già dormendo. Tracy sta guardando un film alla tele. Dormiamo tutte nella stessa stanza, ma non è una cattiva idea.» «Craig ci sta ripensando.» «Perché? Credevo fosse tutto deciso.» «Ha paura per le ragazze. Mi farà sapere qualcosa domattina, a mente sgombra.» «Lo chiamerò domani. Io penso che sia giusto farla, tanto più dopo le minacce. Voglio dire, è uno dei motivi per cui siamo venute qui. Tu organizzati che lo convinco io.» Appesero dopo qualche altra battuta e la conferma che si sarebbero visti in tribunale. Jack tornò a sedersi nella poltrona, ma non riuscì a concentrarsi sul dossier. Interrogandosi su ciò che sarebbe accaduto nei due giorni seguenti, si chiese se ci sarebbero state altre sorprese. Non poteva neanche lontanamente immaginare cosa sarebbe successo. 17
Newton Giovedì, 8 giugno 2006 07.40 Il disagio che Jack aveva provato la sera prima dopo la partenza della sorella e delle bambine era niente in confronto a come si sentiva quella mattina. Non sapeva se l'atteggiamento di Craig derivasse dalla tensione per l'imminente testimonianza o dai postumi dell'alcol unito ai sonniferi, ma era ricaduto nella sua tetraggine silenziosa e meditabonda, come il giorno del suo arrivo. Appena salito dalla sua tana nel seminterrato, aveva tentato di mostrarsi ottimista, ma i suoi sforzi erano stati accolti da uno sguardo vacuo e freddo. Disse qualcosa solo dopo che Jack si era preparato la colazione. «Ho ricevuto una telefonata da Alexis», esordì con voce roca e disperata. «Ha detto che ieri sera vi siete parlati. Il suo messaggio è che l'autopsia si fa.» «Bene», rispose semplicemente. Di cattivo umore com'era, si chiese cosa avrebbe detto, se gli avesse confessato che per un attimo aveva provato l'impulso di salire in camera sua nel bel mezzo della notte per dargli un'occhiata e ascoltare se respirava. Quando Craig stava per uscire si avvicinò al cognato che stava bevendo il caffè e leggendo il giornale seduto al tavolo da pranzo. «Scusami. Non sono decisamente in un buon momento.» «Immagino cosa stai passando anche se non ne ho esperienza diretta, ma quando ero oftalmologo è capitato a molti miei amici. Dev'essere tremendo come divorziare.» «Già.» Poi Craig fece una cosa assolutamente inattesa. Lo abbracciò e lo lasciò andare prima che avesse il tempo di reagire. Evitò di guardarlo negli occhi, mentre si sistemava la giacca. «Per quel che vale, ti sono veramente grato di essere venuto. Grazie per i tuoi sforzi, e mi dispiace che ti sei beccato anche un paio di pugni per colpa mia.» «Sono contento d'essere venuto», replicò Jack, lottando con se stesso per non ribattere con un sarcastico «Piacere mio». Odiava essere meno che sincero, ma il mutamento di Craig l'aveva colto alla sprovvista. «Ti vedrò in tribunale?» «Presto o tardi.»
«D'accordo. Ci vediamo.» Jack lo osservò andarsene. Ancora una volta l'aveva sottovalutato. Tornò in camera sua, e radunò le sue cose nella sacca. Tolse le lenzuola e le lasciò a terra assieme agli asciugamani. Ripiegò la coperta. Accanto al telefono c'era un blocco per appunti. Scrisse alcune parole di ringraziamento e lasciò il biglietto sulla coperta. Decise di tenere la chiave e di renderla ad Alexis quando le avesse riconsegnato il dossier. S'infilò la giacca, la pistola in una tasca e il cellulare nell'altra. Con la busta sotto un braccio e la sacca nell'altra mano, aprì la porta. Il tempo, che era stato splendido da quando era arrivato, era decisamente peggiorato. Il cielo era coperto e pioveva. Lanciò un'occhiata alla Hyundai a una decina di fradici metri. Prese un ombrello dall'ingresso. Lo avrebbe reso assieme al resto. Uscì in retromarcia dal vialetto, salutò con la mano il poliziotto che, seduto nell'auto della polizia, sembrava stesse sorvegliando la casa, e partì. Mentre percorreva le sinuose strade di periferia, il traffico crebbe piano piano. Le basse nuvole nere avevano spinto molti automobilisti ad accendere i fari. All'imbocco della Massachusetts Turnpike, la strada brulicava di auto, pullman e camion che creavano una turbinosa e vaporosa nebbia. Mentre attendeva il verde a un semaforo, Jack si preparò a gettarsi nella mischia, consapevole di non essere un provetto guidatore. Preferiva di gran lunga la sua mountain bike. Qualcosa lo urtò da dietro, facendogli rimbalzare la nuca sul poggiatesta. Appena si riprese, si girò per guardare dal lunotto posteriore rigato dall'acqua e tutto quello che riuscì a distinguere fu un grosso veicolo nero premuto contro il retro della Hyundai. A quel punto si rese conto che la sua auto avanzava, anche se continuava a tenere il piede premuto sul freno. Il cuore di Jack perse un colpo. Lo stavano spingendo nell'incrocio con il semaforo rosso! Oltre lo stridore delle ruote sentì un clacson strombazzare e dei fari che puntavano su di lui dalla sua sinistra. Chiuse gli occhi, aspettandosi l'impatto, che fu più un tocco che un urto, il suono di metallo contro metallo, la sagoma di un'automobile dalla parte del passeggero. Nella frazione di tempo in cui staccò il piede dal freno, per premerlo nuovamente, venne sbalzato in avanti nella ressa di veicoli sulla Turnpike. Sentì le ruote bloccarsi, lo stridio degli pneumatici, ma la velocità non diminuì. Jack si lanciò un'occhiata alle spalle, la grande sagoma nera lo stava ineluttabilmente spingendo verso l'incrocio, che era a soli quindici metri di
distanza. Un attimo prima di girarsi di nuovo in avanti, intravide sul cofano il simbolo della Cadillac e, per lui, una Cadillac nera significava, fino a prova contraria, Franco. Dal momento che i freni nulla potevano contro i cavalli del bestione, tolse il piede e premette il pedale dell'acceleratore. L'auto rispose immediatamente. Un altro straziante rumore di metallo contro metallo e la Hyundai riuscì a staccarsi dalla prepotente Cadillac. Stringendo con disperazione il volante, s'immerse nel flusso del traffico nella corsia più a destra. Per fortuna i guidatori di Boston erano attenti e dotati di rapidi riflessi. Malgrado la cacofonia di clacson strombazzanti e di stridii di ruote, riuscì a infilarsi nel traffico e si ritrovò schiacciato tra due veicoli con meno di due metri davanti e pochi centimetri dietro. L'Hummer alle sue spalle non aveva tolto il pedale dall'acceleratore e lo incalzava con fare minaccioso. Jack cercò di adeguare l'andatura alla velocità dell'auto davanti, pur pensando che andava troppo forte con la pioggia. Non aveva però altre possibilità; non voleva rallentare per paura che l'Hummer lo speronasse. Nello stesso tempo cercava freneticamente di individuare la Cadillac negli specchietti laterali e nel retrovisore. Sotto la pioggia incessante con il tergicristalli alla massima velocità non la scorse, intravide invece il guidatore dell'Hummer che agitava il pugno nella sua direzione. La necessità di concentrarsi sulla guida non era l'unico ostacolo alla ricerca del suo aggressore. Spire di nebbia turbinanti e spruzzi di acqua venivano sollevati dai veicoli che gli sfrecciavano accanto. Improvvisamente, alla sua destra, apparve una piazzola. Doveva prendere una decisione alla svelta, girò a destra per uscire dal traffico, pigiò il pedale del freno e controsterzò per mantenere l'auto in assetto di guida. Riuscì ad arrestarsi, ma non fece in tempo a rilassarsi che intravide nello specchietto retrovisore la Cadillac nera uscire dal traffico. Inspirò, strinse con decisione il volante e premette il pedale dell'acceleratore a tavoletta, la Cadillac alle calcagna. Jack sapeva che a qualche chilometro c'era la sua rampa d'uscita che si diramava dalla corsia più a sinistra e poco oltre i caselli del pedaggio. Tentò di valutare la soluzione migliore. I caselli significavano personale e forse addirittura poliziotti. Sebbene David avesse alleggerito Franco della pistola, non aveva dubbi che ne avesse altre. Se era tanto pazzo da speronarlo nel tentativo di spingerlo in mezzo al traffico, non avrebbe avuto alcuno scrupolo a sparargli. Alla rampa c'erano pochi casellanti e nessun poliziot-
to, ma nemmeno fila. Mentre meditava cosa fare, fece caso alla corsia d'emergenza. Nemmeno il tempo di rendersene conto, che la Cadillac gli arrivò di fianco. E nello stesso istante vide il finestrino dalla parte del guidatore abbassato e Franco che guidava con una mano sola. Nell'altra impugnava una pistola. Jack toccò il freno nel momento in cui il finestrino del passeggero andò in frantumi e nel montante sopra il parabrezza alla sua sinistra si aprì un foro di proiettile. Dall'auto alle sue spalle arrivò un fragoroso boato di clacson, ma l'uomo alla guida era riuscito a evitare la collisione. Dopo quel virtuosismo, giurò a se stesso che non si sarebbe più lamentato dei guidatori di Boston. Accelerò di nuovo. Franco, più spericolato di prima, si era già reimmesso nel traffico ed era nella sua corsia, un solo veicolo dietro di lui. L'indicazione per Allston-Cambridge si avvicinò rapidamente e scomparve. D'impulso, prese una decisione, il corpo teso, mentre puntava gli occhi sull'obiettivo. Voleva svoltare a sinistra all'ultimo minuto e imboccare l'uscita sperando che il suo inseguitore continuasse la sua corsa in autostrada. Nell'attimo che sperava fosse quello giusto, sterzò in senso antiorario. Sentì gli pneumatici protestare e la forza centrifuga tentare di mandare l'auto in testacoda. Sfiorò il freno con titubanza, non sapendo se sarebbe stata una buona mossa. Per un attimo ebbe l'impressione di procedere su due ruote, ma riuscì a raddrizzarsi e a evitare gli sbarramenti di protezione. Controsterzando, puntò verso l'uscita e la fila di caselli di fronte a lui e iniziò a frenare. A quel punto lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore giusto in tempo per vedere Franco sbattere lateralmente contro il guardrail e capottare. Sobbalzò vedendo la forza dell'impatto che fece volare gomme e lamiere. Mentre si avvicinava alla barriera, due casellanti balzarono fuori dai loro gabbiotti, uno dei due trasportava un estintore. Jack controllò di nuovo nel retrovisore e vide lingue di fuoco lambire il veicolo rovesciato. Si allontanò, aumentando la distanza tra sé e quel brutto episodio. Non molti anni prima avrebbe considerato quella circostanza quasi divertente, ma ora si sentiva più responsabile. Laurie si aspettava da lui un comportamento coscienzioso. Quando, venti minuti dopo, si fermò nel parcheggio dell'impresa funebre, si era ripreso tanto da rendersi conto di dovere riferire l'incidente, sebbene non avesse alcuna voglia di perdere tempo alla polizia. Seduto in macchina, prese il cellulare e il biglietto da visita di Flanagan e compose il
numero. Quando Liam rispose, sentì un vociare in sottofondo. «È un brutto momento?» chiese Jack. «Che diavolo, no. Sono in fila a prendermi un caffè. Che succede?» Gli riferì l'accaduto. «Una domanda. Lui ha risposto al fuoco?» «No.» Non s'era aspettato quella domanda. «A dire il vero, non mi è neppure venuto in mente.» Liam disse a Jack che avrebbe riferito alla polizia di pattuglia sulla strada, e che lo avrebbe fatto chiamare direttamente se avessero avuto bisogno. Soddisfatto di avere risolto la questione tanto facilmente, si chinò in avanti ed esaminò il foro di proiettile immaginando la reazione della Hertz. Era un foro relativamente netto, come aveva visto spesso nelle ferite d'entrata nei crani delle vittime. Rabbrividì al pensiero di quanto fosse stato vicino alla sua testa. L'aggressione era forse un piano B di Franco? Il piano A sarebbe potuto essere quello di aspettare che uscisse da casa o penetrare nell'abitazione durante la notte. Forse la sorveglianza aveva fatto da deterrente. L'ignoranza era una benedizione. Deciso a non soffermarsi su ragionamenti ipotetici, prese l'ombrello dal sedile posteriore ed entrò nell'impresa funebre. Senza funerali in programma, l'edificio aveva ripreso la sua silenziosa e sepolcrale serenità, con canti gregoriani in sottofondo. Dovette trovare da solo la strada per l'ufficio dalle pesanti tende di Harold. «Dottor Stapleton», esclamò Harold vedendolo, «temo di avere cattive notizie.» «Oh no! Non mi dica. Ho già avuto una mattinata difficile e complicata.» «Mi ha chiamato Percy Gallaudet, l'operatore dell'escavatrice. Deve finire prima un lavoro al cimitero, e poi tirare fuori qualcosa da una fognatura. Non potrà occuparsi della defunta prima di domani.» I modi untuosi di Harold rendevano questo nuovo ostacolo ancora più insopportabile. «Va bene», sibilò. «E se prendessimo un'altra escavatrice? Non ci sarà solo quella.» «Oh no, ce ne sono parecchie, ma Walter Strasser, il sovrintendente del cimitero, accetta solo quella.» «Qualcosa a che fare con delle bustarelle?» chiese Jack, ed era più un'affermazione che una domanda. Un solo operatore di escavatrice puzzava in modo sospetto di corruzione. «Lo sa il cielo, ma dobbiamo tenerci Gallaudet.»
«Merda!» si lasciò sfuggire. Era impossibile fare l'autopsia al mattino e arrivare per l'una e mezzo in chiesa. «C'è un altro problema», continuò Harold. «La ditta costruttrice di tombe domani non è disponibile e ho dovuto telefonare e avvisare che oggi non ci serviva.» «Benissimo!» commentò sarcasticamente Jack. «Esaminiamo tutto con attenzione. C'è un modo per farlo senza di loro?» «No», sbottò Harold indignato. «Vorrebbe dire lasciare la tomba nella terra.» «Non mi importa se resta nel terreno. Dobbiamo estrarla per forza?» «È così che si fa. È una tomba di famiglia ipogea di gran lusso voluta dal defunto signor Stanhope, il coperchio di un pezzo unico deve essere rimosso con cura.» «Allora non si potrebbe rimuovere solo quello?» «Immagino di sì, ma potrebbe rompersi.» «E che differenza farebbe?» chiese Jack, perdendo la pazienza. Preferiva di gran lunga la cremazione. Bastava guardare le mummie dei faraoni egizi per rendersi conto che non era una buona idea lasciare in giro i resti terreni di una persona. «Una crepa potrebbe compromettere la tenuta», insisté Harold con rinnovata indignazione. «Mi pare di capire che si può lasciare nel terreno la tomba e me ne assumo la responsabilità. Se il coperchio s'incrinasse, possiamo sostituirlo. Sono sicuro che fornirne un altro renderebbe felice la ditta.» «Immagino di sì», ammise Harold, moderando il suo atteggiamento. «Andrò a parlare personalmente con Percy e Walter per vedere se possiamo risolvere l'intoppo.» «Come desidera, ma mi tenga informato. Devo essere presente se e quando si aprirà la tomba.» «Glielo garantisco. Mi può indicare come arrivare a Park Meadow?» Jack uscì dall'impresa irritato oltre che sovreccitato. Lo stizzivano tre cose: la burocrazia, l'incompetenza e la stupidità, specialmente quando capitavano insieme. Estrarre Patience Stanhope dal terreno si stava rivelando più difficile di quanto avesse previsto. Arrivato all'auto, la esaminò per la prima volta dall'incidente sull'autostrada. A parte il finestrino rotto e la pallottola nel montante del parabrezza, l'intero lato sinistro era graffiato e ammaccato e la parte posteriore era sfondata a tal punto che temeva di non poter aprire il bagagliaio. Provò il
baule e non ebbe difficoltà ad aprirlo. Voleva essere sicuro di poter recuperare il materiale per l'autopsia che gli aveva dato Latasha. Non era il momento di pensare alla reazione della Hertz, anche se era ben felice di avere scelto l'assicurazione totale. Risalì in macchina, prese la cartina e, assieme alle indicazioni di Harold, tracciò il percorso. Il cimitero non era distante e lo trovò senza sforzi. Dominava una collina con vista su un istituto religioso, simile a un college. L'entrata principale era un'elaborata struttura in pietra piena di statue di profeti e i cancelli in ferro sarebbero parsi minacciosi, se non fossero stati spalancati. Un edificio gotico che comprendeva un ufficio e un garage a più posti era nascosto subito dietro l'ingresso. Posteggiò ed entrò. «Posso aiutarla?» chiese una donna malvestita. Non era né gentile né scortese mentre gli rivolgeva uno sguardo indagatore. «Cerco Walter Strasser.» La donna gli indicò un uomo e riportò l'attenzione al monitor. Jack si avvicinò alla scrivania. L'uomo corpulento, sicuramente colpevole di almeno due peccati mortali, gola e accidia, era seduto con le mani giunte sulla pancia prominente, il viso rubizzo. «Il signor Strasser?» domandò, vedendo che non aveva alcuna intenzione di parlare o muoversi. «Sì.» Si presentò con poche parole, mostrando il tesserino di medico legale. Spiegò la sua esigenza di esaminare la defunta Patience Stanhope per una causa civile e aggiunse di avere ottenuto tutti i permessi per l'esumazione. Aveva solo bisogno della salma. «Il signor Harold Langley mi ha già spiegato esaurientemente la questione», commentò. Grazie per avermelo detto subito, pensò senza ribattere a voce alta. Domandò invece: «Le ha anche precisato che c'è un problema di tempo? Avevamo programmato di fare l'esumazione oggi». «Il signor Gallaudet è impegnato altrove. Gli ho chiesto di chiamare il signor Langley questa mattina e di spiegargli la situazione.» «Ho ricevuto il messaggio. Sono venuto qui di persona per vedere se un riconoscimento dei suoi sforzi e di quelli del signor Gallaudet poteva rimettere l'esumazione nella scaletta odierna. Devo partire questa sera e...» La voce di Jack si smorzò su questa vaga offerta di bustarella, con la speranza che l'avidità fosse uno dei punti deboli di Walter come lo era la gola.
«Che genere di riconoscimento?» volle sapere Walter, gli occhi improvvisamente vigili. «Pensavo al doppio del suo solito compenso in contanti.» «Da parte mia non ci sono problemi, ma dovrà parlare con Percy.» «Che ne dice di un'altra escavatrice?» Walter rifletté un attimo, poi rifiutò. «Mi dispiace. Percy ha da tempo rapporti di lavoro con noi. Conosce e rispetta le nostre norme e regole.» «D'accordo», accettò Jack in tono gentile, immaginando che i rapporti avessero a che fare più con tangenti che con norme e regole, ma non aveva intenzione di soffermarsi sull'argomento. «Il signor Gallaudet sta facendo un lavoro qui?» «È dalle parti del grande acero con Enrique e Cesar, a preparare il terreno per un funerale che avrà luogo a mezzogiorno.» «Chi sono Enrique e Cesar?» «I nostri becchini.» «Posso arrivarci in macchina?» «Certamente.» Mentre risaliva la collina, la pioggia diminuì fino a cessare del tutto. Grazie a Franco, viaggiava senza il finestrino del passeggero. Li trovò quasi in cima alla collina. Percy, nella cabina dell'escavatrice che stava dissotterrando, mentre i due becchini lo osservavano appoggiati a pale dai lunghi manici. La benna era nella fossa profonda, la terra fresca ammucchiata di lato su una grande cerata impermeabile. Di fianco, un furgone bianco con il nome del cimitero sulla portiera. Fermò l'auto e si avvicinò alla macchina. Cercò di attirare l'attenzione dell'operatore gridando il suo nome, ma il rombo del motore coprì la sua voce. Percy si accorse di lui solo quando Jack picchiò sul vetro della cabina. Fermò i comandi e il rombo si trasformò in un ronzio più sopportabile. Aprì lo sportello della cabina. «Che c'è?» gridò, come se il motore stesse ancora facendo un gran fracasso. «Ho bisogno di parlarle riguardo un lavoro», rispose Jack, urlando. Percy balzò giù. Era basso, i capelli corti e gli avambracci ricoperti di tatuaggi, e si muoveva a scatti. Lo guardò con espressione interrogativa. «Che genere di lavoro?» Jack ripeté la spiegazione data a Strasser, nella speranza di suscitare una reazione e indurlo a riprogrammare l'esumazione. Sfortunatamente non funzionò.
«Mi dispiace», declinò. «Dopo questo lavoro, ho un amico con una fogna intasata.» «Ho saputo che è impegnato, ma come ho detto al signor Strasser, sono disposto a pagare un compenso doppio in contanti pur di farla oggi.» «E cosa ha detto Walter?» «Che da parte sua non ci sono problemi.» Le sopracciglia di Percy si alzarono impercettibilmente, mentre rifletteva sulla proposta. «E così è disposto a pagare un compenso doppio sia al cimitero sia a me?» «Solo se lo fate oggi.» «Io non posso abbandonare il mio amico», ribatté Percy. «Potrò fare il suo lavoro solo dopo la fogna.» «Quando?» Controllò l'ora. «Di sicuro dopo le quattordici.» «Ma lo farà?» «Sì», promise. «L'unica cosa è che non ho idea di cosa troverò dal mio amico. Se fila tutto liscio sono indietro per le quattordici, altrimenti, Dio solo lo sa.» «Ma lo farà anche se fosse nel tardo pomeriggio?» «Assolutamente», confermò. «Per il doppio.» Jack tese la mano e Percy gliela strinse. Mentre tornava all'auto scassata, il manovratore risalì nella cabina. Prima di avviare il motore, Jack chiamò Harold Langley. «Questa è la situazione», riepilogò con una voce che non ammetteva repliche. «Dopo le due di questo pomeriggio.» «Può essere più preciso?» «Dopo che il signor Gallaudet ha portato a termine i suoi impegni. Questo è quanto, al momento.» «Ho solo bisogno di un preavviso di mezz'ora. Ci vediamo alla tomba.» «Bene.» Si sforzò di non lasciar trapelare il suo sarcasmo. Visto il compenso che avrebbe dato all'impresa di onoranze funebri Langley-Peerson, pensò che sarebbe dovuto essere Harold quello a correre in giro a convincere Strasser e Gallaudet. Erano quasi le dieci e trenta. Con un po' di fortuna avrebbero portato Patience Stanhope all'impresa funebre a metà pomeriggio, se non più tardi, e per quell'ora forse la dottoressa Wylie sarebbe stata disponibile. Non era sicuro che la sua offerta d'aiuto fosse stata sincera, ma con lei avrebbe sicuramente fatto più in fretta e non gli sarebbe dispiaciuto avere qualcuno
con cui scambiare idee e opinioni. Inoltre aveva bisogno della sega. Anche se controllare il cervello non sarebbe stato importante in questo caso, non voleva fare le cose a metà. L'attirava anche l'idea di usare un microscopio o un microscopio da dissezione, e la presenza di Latasha l'avrebbe reso fattibile, come pure lo allettava l'offerta del capo di lei del laboratorio di tossicologia. Simili riflessioni lo indussero a pensare alla possibilità, finora inconsciamente evitata, di non riuscire a prendere l'ultimo aereo quella sera. Sapeva che i primi voli partivano all'alba, per cui avrebbe fatto in tempo anche a passare da casa per indossare lo smoking prima di andare in chiesa, ma non sapeva come dirlo a Laurie. Alla fine, non avendo certezze sui suoi spostamenti, decise di non telefonarle. Estrasse quindi il biglietto da visita di Latasha dal portafogli e compose il suo numero di cellulare. Data l'ora, non si sorprese di sentire la segreteria telefonica. Probabilmente era in sala autopsie. Le lasciò un breve messaggio chiedendole se le andava ancora di aiutarlo. A questo punto non poté fare altro che recarsi in tribunale. L'idea non lo entusiasmava perché, dopo l'atteggiamento iniziale, provava ora una forte empatia per sua sorella e suo cognato e non gli andava di vederli soffrire. Una volta per strada, si ritrovò a sorridere. Non stava proprio ridendo, ma era divertito. Era a Boston da due giorni e mezzo, si era scervellato su un'assurda azione legale per negligenza medica, era stato preso a schiaffi e pugni, gli avevano sparato, ed era stato terrorizzato da un teppista su una Cadillac nera, eppure non aveva combinato niente. L'intera faccenda aveva un che di comico. Poi un altro pensiero gli passò per la mente. Si era sempre preoccupato della reazione di Laurie al suo ritardo, tanto da essere restio a parlare con lei, che non aveva mai veramente preso in considerazione l'eventualità di non arrivare in tempo per il matrimonio. Dovette ammettere che provava un certo disagio. Amava Laurie, ne era sicuro, e credeva di volersi risposare. Perché allora non era più preoccupato? Non trovò altra risposta, se non che la vita era più complicata di quanto indicasse il suo solito atteggiamento fatalista. Senza automobili che lo inseguivano, senza nebbia e senza il traffico dell'ora di punta, raggiunse rapidamente il centro città e il garage sotterraneo al Boston Common. Dopo avere parcheggiato andò a cercare un bancomat in Charles Street, per i contanti per Walter e Percy, e da lì ripercorse a rovescio il tragitto del
giorno precedente, risalendo Beacon Hill e godendo della serena atmosfera delle belle case. Sull'uscio dell'aula di tribunale esitò un momento. Sul banco dei testimoni c'era Craig. I giurati erano impassibili, come sagome ritagliate, tranne l'aiuto idraulico alle prese come sempre con l'esame delle unghie. Come il giorno prima, il giudice era indaffarato con delle carte, mentre il pubblico era attento. Jack si guardò in giro e individuò la sorella al solito posto, il sedile accanto tenuto libero per lui. Dall'altra parte della zona degli spettatori, nel posto solitamente occupato da Franco c'era Antonio, la versione più piccola di Franco, ma decisamente più piacevole. Indossava l'abbigliamento della squadra Fasano: vestito grigio, camicia nera e cravatta nera. Sebbene Jack fosse abbastanza sicuro che Franco non si sarebbe fatto vedere per alcuni giorni, si chiese se avrebbe avuto dei problemi con l'altro scagnozzo. Si chiese anche se o l'uno l'altro, o entrambi, avessero avuto a che fare con l'aggressione alle sue nipoti. Scusandosi, s'infilò nel corridoio. Vedendolo avvicinarsi, Alexis raccolse le sue cose e gli liberò il sedile, poi gli lanciò un sorrisetto nervoso che non lasciava presagire niente di buono. «Come sta andando?» sussurrò Jack, chinandosi verso di lei. «Meglio, adesso, con Randolph che sta facendo il controinterrogatorio.» «Che è successo?» Alexis lo guardò di sfuggita, tradendo il nervosismo. I muscoli facciali erano tesi e gli occhi più spalancati del solito. Teneva le mani strette in grembo. «Non è andata bene?» domandò Jack. «È stato tremendo», ammise. «L'unica cosa positiva è che la testimonianza di Craig era conforme alla deposizione. Non si è mai contraddetto.» «Non dirmi che si è infuriato; non di nuovo.» «Dopo un'ora circa, e da quel momento è andata sempre peggio. Fasano sapeva quali tasti premere e li ha premuti tutti. A un certo punto Craig ha detto a Fasano che non aveva alcun diritto di criticare o mettere in dubbio i medici che sacrificavano la vita per occuparsi dei loro pazienti. E per finire l'ha definito uno spregevole inseguitore di ambulanze.» «Terribile, anche se vero.» «Ed è andata di male in peggio», continuò Alexis, alzando la voce. «Non riusciamo a sentire», si lamentò uno spettatore. «Ci scusi», disse Jack. Poi alla sorella: «Vuoi uscire un momento?»
Annuì. Aveva bisogno di una pausa. «Non riesco proprio a capire che gusto ci trovi tutta questa gente ad assistere a questo maledetto processo», sbottò una volta seduta nell'atrio. «Hai mai sentito parlare di Schadenfreude?» «Rinfrescami la memoria.» «È il senso di esultanza che si può provare per i problemi e le difficoltà di qualcun altro.» «L'avevo dimenticato, ma conosco anche troppo bene il concetto. Del resto lo dimostrano le vendite dei giornali scandalistici.» «Ti senti bene?» «A parte il mal di testa, sì.» «Che mi dici delle ragazze?» «Apparentemente stanno bene. Visto che non vanno a scuola e stanno dai nonni, è un po' come essere in vacanza. Non ho ricevuto telefonate e se ci fossero stati dei problemi l'avrei saputo.» «Io ho avuto una mattinata movimentata.» «Davvero? Come procede con l'autopsia? Abbiamo bisogno di un miracolo.» Jack le raccontò i suoi guai sulla Massachusetts Turnpike. Alexis ascoltò sempre più allarmata. «Dovrei chiederti io come stai», esclamò, quando le descrisse lo schianto finale e spettacolare di Franco. «Io bene. La mia automobile un po' meno. E Franco non starà un granché, probabilmente è ricoverato in ospedale e non sarei sorpreso se fosse in arresto. Ho riferito l'incidente allo stesso detective che è venuto a casa tua ieri sera. Immagino che le autorità non apprezzeranno una sparatoria in autostrada.» «Mio Dio», disse Alexis. «Mi spiace che ti sia capitato tutto ciò. Non posso fare a meno di sentirmi responsabile.» «Non ce n'è bisogno! Temo di avere la tendenza a mettermi nei guai. È tutta opera mia. Ma tutto questo non ha fatto che alimentare la mia determinazione a fare questa dannata autopsia.» «A che punto sei?» Le descrisse le sue macchinazioni con Langley, Strasser e Gallaudet. «Perbacco, dopo tanta fatica, spero che porti a qualcosa di buono.» «Lo spero anch'io.» «L'eventualità di ripartire domani ti crea problemi?» «Si farà ciò che si deve.» Scrollò le spalle. Non aveva intenzione di af-
frontare quell'argomento spinoso. «Che ne dice la tua futura moglie?» «Non le ho ancora detto nulla», ammise. «Perdio!» esclamò Alexis. «Non è proprio un bel modo di presentarmi alla mia nuova cognata.» «Torniamo a noi», tagliò corto il fratello. «Mi stavi raccontando come è peggiorata la testimonianza di Craig.» «Dopo aver accusato Fasano di essere un bieco individuo che rincorre le ambulanze a caccia di clienti, ha pensato bene di far sapere ai giurati che non li considera suoi pari, ritenendoli incapaci di giudicare le sue azioni, visto che nessuno di loro ha mai neppure tentato di salvare qualcuno come lui aveva cercato di fare con Patience Stanhope.» Jack si batté la mano sulla fronte. «E Randolph che faceva?» «Il possibile. Saltava su e giù obiettando inutilmente. Ha cercato di spingere il giudice a proporre una sospensione, ma quando Davidson ha chiesto a Craig se aveva bisogno di una pausa, lui gli ha risposto di no e così sono andati avanti.» «Tuo marito è il peggior nemico di se stesso, anche se...» «Anche se cosa?» «Non ha tutti i torti. In un certo senso sta parlando per la categoria. Scommetto che i medici che hanno vissuto l'inferno di un processo per responsabilità professionale provano le stesse cose. È solo che quelli avrebbero il buonsenso di non dirle.» «Non avrebbe dovuto dire quelle cose. Se io fossi un giurato nell'adempimento della mia responsabilità civica e mi sentissi rimproverare in quel modo, mi irriterei e tenderei a credere all'interpretazione degli eventi di Fasano.» «È stata questa la parte peggiore?» «Sono state tante. L'avvocato ha costretto Craig ad ammettere di avere temuto che quella visita fosse per una vera emergenza, come aveva testimoniato Leona, e che tra le diagnosi possibili c'era anche l'infarto. È riuscito anche a fargli ammettere che il tragitto da casa Stanhope alla Symphony Hall avrebbe richiesto meno tempo che dal Newton Memorial Hospital e che era ansioso di arrivare al concerto prima dell'inizio per sfoggiare la sua ragazza. E forse particolarmente incriminante è stato il fatto che Tony ha costretto Craig ad ammettere di avere detto tutte quelle cose poco lusinghiere sulla signora Stanhope a quella Leona, tra cui anche il fatto che la morte di Patience era una benedizione per tutti.»
«Accidenti, proprio un bel pasticcio!» «Già. Craig è riuscito a presentarsi come un medico arrogante e distaccato, più interessato a un concerto con la sua nuova pupa che non a preoccuparsi per la sua paziente. L'esatto opposto di come l'aveva istruito Randolph.» Jack si raddrizzò. «E Randolph come ha impostato il controinterrogatorio?» «Potrei definirlo un tentativo di contenimento del danno. Sta tentando di riabilitarlo in ogni singolo punto, dall'indicazione di PD sulla cartella, fino agli eventi successi la sera del decesso. Quando sei entrato, Craig stava testimoniando sulla differenza tra la condizione di Patience al suo arrivo a casa sua e la descrizione avuta dal marito al telefono. Randolph si era già assicurato di fargli dire alla giuria che non aveva mai detto che Patience stava avendo un attacco di cuore mentre parlava con Jordan, ma soltanto che era da escludere.» «Come ti sono sembrati i giurati durante il controinterrogatorio?» «Impassibili, ma potrebbe dipendere solo dalla mia percezione pessimistica. Dopo la prestazione di Craig con Fasano, non sono per niente ottimista. Randolph ha davanti a sé un cammino tutto in salita. Questa mattina mi ha detto che chiederà a Craig di raccontare la storia della sua vita per neutralizzare l'attacco volto a distruggere la sua reputazione.» «Perché no», commentò Jack, anche se provava un moto di compassione per la sorella. Mentre rientravano in aula, si chiese come un verdetto a favore dell'avvocato di parte civile avrebbe influenzato il rapporto tra loro due. Si erano conosciuti durante la specializzazione al Boston Memorial Hospital ed erano andati a trovarlo a casa sua quando erano fidanzati. Jack lo aveva giudicato egocentrico e orientato verso la medicina in modo unidimensionale, ma ora che aveva avuto l'opportunità di vederli insieme nel loro ambiente, malgrado l'attuale difficile circostanza, comprese che erano ben assortiti. Il carattere istrionico e dipendente di Alexis, molto netto da bambina, si fondeva bene con il narcisismo di Craig. Si completavano a vicenda. Jack cercò di mettersi comodo. Randolph se ne stava rigidamente eretto sul podio, ed emanava autorità da sangue blu. Craig, nel banco dei testimoni, era chino in avanti, le spalle abbassate. La voce di Randolph era ben articolata e melodica, quella del cognato esausta come dopo un'accesa discussione. Sentì la mano di Alexis insinuarsi tra il suo gomito e il fianco e spostarsi
in avanti e stringergli la mano. Si scambiarono un sorriso furtivo. «Dottor Bowman», attaccò Randolph. «Lei ha desiderato diventare medico da quando, a quattro anni, ricevette in regalo una valigetta giocattolo, e curava i suoi genitori e suo fratello maggiore. Sono tuttavia venuto a conoscenza di un episodio della sua gioventù che rafforzò in modo particolare questa sua scelta professionale altruistica. Vuole raccontarlo alla corte?» Craig si schiarì la gola. «Avevo quindici anni ed ero nello staff della squadra di football del liceo. Avevo cercato di entrare nella squadra ma non c'ero riuscito, con grande delusione di mio padre, visto che mio fratello era stato una stella del football. Ero poco più di una mascotte. Durante le pause, correvo in campo con secchio, mestolo e bicchieri di carta. Durante una partita in casa, uno dei nostri giocatori fu ferito e venne richiesto il time-out. Io mi precipitai con il secchio e, avvicinandomi, mi resi conto che si trattava di un mio amico. Invece di portare il secchio al gruppo di atleti, corsi da lui, fui il primo ad arrivare, e ciò che vidi mi preoccupò. Aveva una gamba fratturata malamente, con il piede che sporgeva dalla scarpa in una direzione anomala e si stava torcendo dal dolore. Rimasi tanto colpito dal suo bisogno e dalla mia incapacità di aiutarlo che decisi non solo che volevo diventare un dottore, ma che lo sarei diventato.» «Una storia straziante», commentò Randolph, «e commovente per quel suo immediato impulso compassionevole e per il fatto che l'ha motivata a seguire quello che si sarebbe rivelato un cammino difficile. Diventare medico non è stato facile per lei, dottor Bowman, e quella passione altruistica che ha tanto eloquentemente descritto doveva essere veramente forte se l'ha spinta a superare tutti gli ostacoli che si è trovato di fronte. Può riferire alla corte parte della sua storia da 'sogno americano'?» Craig si raddrizzò nella sua sedia. «Obiezione!» gridò Tony, balzando in piedi. «Irrilevante.» Il giudice Davidson si sfilò gli occhiali da lettura. «Avvicinatevi.» «Lei ha incentrato il suo interrogatorio sulla distruzione della reputazione dell'imputato», esordì il giudice Davidson puntando gli occhiali su Fasano, «e io l'ho permesso, scavalcando le obiezioni del suo collega, con la clausola che comprovasse la sua accusa con dei dati, cosa che credo abbia fatto. Se vale per uno vale anche per l'altro. La giuria ha tutto il diritto di ascoltare le motivazioni e la formazione del dottor Bowman. Sono stato chiaro?» «Sì, vostro onore.» «Non voglio sentire una raffica di obiezioni a questo proposito.»
«Sì, vostro onore», accettò Fasano. I due avvocati tornarono ai loro posti. «Obiezione respinta», gridò il giudice Davidson a favore dello stenografo. «Il teste può rispondere alla domanda.» «Ricorda la domanda?» chiese Randolph. «Spero di sì», rispose Craig. «Da dove devo cominciare?» «Dall'inizio. Ho sentito dire che non ha avuto alcun appoggio dai suoi genitori.» «Almeno non da mio padre, ed era lui a dettar legge in famiglia con pugno di ferro. Noi figli l'abbiamo deluso, soprattutto io, visto che non ero un campione sportivo come mio fratello Leonard Junior. Mio padre mi riteneva una femminuccia e non faceva che ripetermelo in continuazione. Quando a mia madre scappò detto che volevo diventare un dottore, lui rispose che sarebbe successo solo passando sul suo cadavere.» «Usò proprio quelle parole?» «Proprio quelle. Mio padre era un idraulico con una scarsa considerazione per tutti i professionisti, che per lui erano solo un branco di ladri. Era impossibile che accettasse che uno dei suoi figli entrasse a far parte di un simile mondo, soprattutto perché lui non aveva finito il liceo. Credo che nessuno della mia famiglia abbia frequentato il college, né da parte materna né da parte paterna, compreso mio fratello, che ha rilevato la ditta idraulica di mio padre.» «E così suo padre non l'ha appoggiata nei suoi interessi accademici?» Craig rise tristemente. «Da giovane mi chiudevo a leggere in bagno. Dovevo farlo. Mio padre mi picchiava quando mi scopriva a leggere invece di fare qualcosa in casa. Dovevo nascondere le pagelle e farle firmare di nascosto da mia madre perché erano zeppe di dieci. Per la maggior parte dei miei amici, le cose andavano alla rovescia.» «È stato più facile quando è andato al college?» «Sì e no. Mi disprezzava e invece di chiamarmi femminuccia, diventai un idiota pretenzioso. Lo imbarazzava parlare di me ai suoi amici. Il problema più grande fu che si rifiutò di compilare i moduli necessari per richiedere una borsa di studio e, naturalmente, si rifiutò di contribuire con un solo centesimo.» «Come si è pagato il college?» «Una serie di prestiti, premi scolastici e ogni possibile genere di lavoro, mantenendo comunque una media di voti alta. Nei primi due anni ho lavorato soprattutto nei ristoranti, lavando piatti e servendo ai tavoli. Durante
gli ultimi due ho trovato lavoro in diversi laboratori scientifici. D'estate prestavo servizio all'ospedale, svolgendo qualsiasi mansione mi offrissero. Mio fratello mi aiutava un po', anche se non poteva fare molto, dato che si era sposato.» «L'obiettivo di diventare medico e il desiderio di aiutare gli altri l'hanno stimolata in quegli anni difficili?» «Moltissimo, soprattutto il lavoro estivo all'ospedale. Adoravo i medici e gli infermieri, in particolar modo gli specializzandi. Non vedevo l'ora di diventare uno di loro.» «Cosa successe quando entrò alla facoltà di medicina? Le sue difficoltà finanziarie diminuirono o peggiorarono?» «Peggiorarono, e di parecchio. Le spese erano più ingenti e il corso di studi richiedeva più impegno, l'intera giornata tutti i giorni, a differenza del college.» «In che modo se l'è cavata?» «Nuovamente con tutti i prestiti possibili e una miriade di lavoretti al centro medico che fortunatamente non mancavano.» «Come trovava il tempo per lavorare? Studiare medicina è ritenuta un'occupazione più che a tempo pieno.» «Non dormivo. Ecco, non del tutto, visto che sarebbe fisicamente impossibile. Ho imparato a riposare a spizzichi durante la giornata. Era difficile, ma almeno in quegli anni avevo un obiettivo che rendeva più facile sopportare il peso.» «Che genere di lavori faceva?» «Tutti. Dal prelievo di sangue per determinare il gruppo sanguigno e la compatibilità, a pulire le gabbie degli animali, qualsiasi cosa si potesse fare di notte. Ho lavorato anche nella cucina del centro medico. Poi, durante il secondo anno, ho trovato un lavoro fantastico con un ricercatore che studiava i canali ionici selettivi per il sodio nelle cellule nervose e muscolari. Continuo quella ricerca ancora oggi.» «Con un programma simile e così fitto, com'erano i suoi voti?» «Ottimi. Ero tra i primi dieci del mio corso e membro l'Alpha Omega Alpha, la società che riconosce i meriti scolastici universitari.» «Quale ritiene fu il suo sacrificio più grande? Forse la mancanza cronica di sonno?» «No! La mancanza di tempo per i contatti sociali. I miei compagni avevano il tempo per interagire e parlare della loro esperienza. La facoltà di medicina è molto impegnativa. Durante il terzo anno, non sapevo decider-
mi se scegliere la medicina accademica scientifica o quella clinica. Avrei voluto poter vagliare i vantaggi e gli svantaggi con i miei compagni e ascoltare le loro opinioni. Invece ho dovuto decidere da solo.» «E come ha fatto a prendere quella decisione?» «Mi sono reso conto che mi piaceva occuparmi della gente. Mi piaceva la gratificazione immediata.» «Trovava piacevole e gratificante il contatto con i singoli individui?» «Sì, e arrivare alla diagnosi e restringere il campo.» «Ma era soprattutto il contatto con le persone e la possibilità di aiutarle che teneva in grande considerazione.» «Obiezione», urlò Fasano, innervosito. «Ripetitivo.» «Accolta», accettò con voce stanca Davidson. «Non occorre che insista su questo punto, signor Bingham. Sono sicuro che la giuria l'ha compreso.» «Ci parli del periodo della specializzazione», riprese Randolph. «Quello fu un piacere», ammise Craig. Ora era seduto eretto con le spalle tirate indietro. «Grazie alla media dei voti, ho potuto specializzarmi presso il Boston Memorial Hospital. Era un ambiente d'apprendimento fantastico e improvvisamente venivo pagato, non tanto, ma pur sempre qualcosa. E non dovevo più le rette universitarie, così iniziai a estinguere l'enorme debito che avevo accumulato.» «Ha continuato ad apprezzare lo stretto legame che si instaurava necessariamente tra lei e i suoi pazienti?» «Sì, era la parte più gratificante.» «Ora ci parli della professione medica. Ho saputo che ha avuto delle delusioni.» «Non subito! All'inizio la professione era tutto ciò che avevo sognato. Ero indaffarato e motivato. Mi piaceva andare al lavoro ogni giorno. I pazienti mi stimolavano intellettualmente e mi apprezzavano. Poi però le compagnie assicurative cominciarono a rifiutarsi di pagare, contestando inutilmente alcune spese, rendendo sempre più difficile dare il meglio per i pazienti. Le entrate cominciarono a crollare, mentre i costi continuavano a crescere. Per poter tenere le porte aperte, dovevo aumentare la produttività, che è un eufemismo per dire che visitavo sempre più pazienti all'ora. Potevo farlo, ma con il tempo mi preoccupai della qualità.» «Ed è stato in quel momento che è cambiata la sua pratica medica.» «È cambiata in modo drastico. Venni contattato da un anziano e stimato medico che praticava la concierge medicine, ma che aveva problemi di sa-
lute. Mi propose di diventare suo socio.» «Mi scusi se la interrompo», lo fermò Randolph. «Forse dovrebbe rinfrescare la memoria dei giurati sul significato di concierge medicine.» «È un modo di praticare la medicina per il quale il medico accetta di limitare il numero dei suoi pazienti per fornire una straordinaria disponibilità a un onorario annuo versato in anticipo.» «Questa straordinaria disponibilità comprende anche visite a domicilio?» «Certo. Dipende dal dottore e dal paziente.» «Vuol dire che il medico può personalizzare le prestazioni sulle esigenze del paziente. È così?» «Sì. I due principi base della buona cura del paziente sono il benessere e l'autonomia del paziente. Visitare troppi ammalati in una sola ora minaccia di violare questi principi, dal momento che si fa tutto di fretta. Il tempo è cattivo consigliere ed è fondamentale dedicare tempo all'anamnesi di ciascuno, perché spesso dietro a questi dati si nascondono fatti critici e illuminanti. In uno studio medico con onorario pagato annualmente come il mio, posso decidere di volta in volta quanto tempo dedicare a ciascun paziente sulla base delle sue esigenze e dei suoi desideri.» «Dottor Bowman, la professione medica è un'arte o una scienza?» «Decisamente un'arte che si basa su un fondamento scientifico comprovato.» «Si può praticare la medicina seguendo un libro?» «Impossibile. Non ci sono due persone uguali al mondo. La medicina deve essere adattata a ogni singolo ammalato, senza contare che i libri non riescono a stare al passo con le scoperte medico-scientifiche che galoppano a ritmo esponenziale.» «Il parere ha un ruolo nella professione della medicina?» «Naturalmente. In ogni decisione medica, il parere del dottore è prevalente.» «Si è basato sulla sua conoscenza medica quando ha deciso che era meglio visitare Patience Stanhope a casa sua, la sera dell'otto settembre 2005?» «Sì.» «Può spiegare alla giuria perché secondo lei era la decisione giusta?» «La signora detestava gli ospedali. Ero restio a mandarla in un ospedale anche solo per farle fare analisi di routine. Ogni volta che veniva ricoverata, i suoi sintomi e il suo generale stato d'ansia peggioravano. Preferiva che
andassi a casa sua, cosa che ho fatto quasi una volta alla settimana per otto mesi. Ogni volta si trattava di un falso allarme, anche quando il signor Jordan Stanhope mi diceva che credeva di essere sul punto di morire. La sera dell'8 settembre non mi è stato detto che stava per morire. Io contavo sul fatto che anche quella volta si sarebbe trattato di un falso allarme come in tutte le occasioni precedenti, ma, come medico non potevo ignorare la possibilità che fosse veramente malata. Il modo migliore per appurarlo era andare direttamente a casa sua.» «La signorina Rattner ha testimoniato che lei ha detto di ritenere che le sue lamentele fossero reali. È vero?» «Sì, ma non ho detto che ritenevo la possibilità molto bassa. Ho detto che ero preoccupato, perché avevo notato un tono leggermente più ansioso nella voce del signor Stanhope.» «Ha detto al signor Stanhope al telefono di ritenere che la signora Stanhope avesse un attacco di cuore?» «No. Ho detto soltanto che non era da escludere visto che lamentava fitte al costato. Tuttavia non era la prima volta che la signora accusava dolori al petto che si erano poi rivelati insignificanti.» «La signora Stanhope soffriva di problemi di cuore?» «Alcuni mesi prima della sua dipartita le avevo prescritto un elettrocardiogramma sotto sforzo che aveva dato un risultato anomalo. Non era sufficiente per stabilire che aveva un problema cardiaco, ma volevo che si sottoponesse a ulteriori analisi in ospedale.» «Ha consigliato alla sua paziente di farle?» «Sì, e con insistenza, ma si è sempre rifiutata, soprattutto perché richiedevano che entrasse in ospedale.» «Un'ultima domanda», disse Randolph. «I pazienti che etichettava come pazienti difficili ricevevano più o meno attenzioni?» «Decisamente di più. Il problema con pazienti così identificati era che non potevo eliminare i loro disturbi, reali o supposti. Questo era per me un problema incessante, e da qui nasce la terminologia.» «La ringrazio, dottore.» Randolph raccolse i suoi appunti. «Nessun'altra domanda.» «Avvocato Fasano», chiese il giudice Davidson. «Desidera porre altre domande?» «Sì, vostro onore», ringhiò, balzando in piedi come un segugio che insegue una preda. «Dottor Bowman, tornando ai suoi pazienti difficili, non aveva detto alla
sua ex amante mentre correva nella sua Porsche rossa fiammante verso casa Stanhope l'otto settembre 2005, che non sopportava quei pazienti e che riteneva gli ipocondriaci peggiori o uguali a coloro che si fingono malati?» Craig lo fissò in silenzio, gli occhi due fessure. «Dottore?» lo incalzò. «Il gatto le forse ha mangiato la lingua?» «Non ricordo», rispose infine. «Non ricorda?» chiese con tono esageratamente incredulo. «Per piacere, dottore, mi sembra una giustificazione troppo conveniente, considerati i suoi trascorsi durante gli anni di studio e la sua abilità a sciorinare i particolari anche più insignificanti. La signorina Rattner se ne è rammentata durante la sua testimonianza. Forse anche lei riuscirà a ricordare ciò che ha detto alla signorina Rattner la sera in cui ha ricevuto la citazione in giudizio, e cioè che odiava Patience Stanhope e che la sua dipartita era una benedizione per tutti. Non è così? Riesce a ricordarlo, adesso?» «Ho detto qualcosa di simile», ammise con riluttanza. «Ero infuriato.» «Certo che era arrabbiato. Era offeso che qualcuno, come il mio afflitto cliente, avesse l'impudenza di mettere in dubbio il suo discernimento e parere clinico.» «Obiezione!» disse Randolph. «Argomentativo.» «Accolta.» Il giudice ammonì Fasano con lo sguardo. «Siamo rimasti tutti colpiti dalla sua storia di ragazzo povero diventato ricco», continuò l'avvocato in tono sprezzante. «Ma visto lo stile di vita che i suoi pazienti le hanno permesso di condurre nel corso degli anni, non sono sicuro di seguirla. Qual è l'attuale valore di mercato della sua abitazione?» «Obiezione! Irrilevante e non pertinente.» «Vostro onore», si lamentò Fasano, «la difesa ha presentato una testimonianza per dimostrare l'impegno speso dall'imputato per diventare medico. È giusto che la giuria senta a quale remunerazione economica ha portato quell'impegno.» Il giudice Davidson rifletté un attimo prima di dire: «Obiezione respinta. Che il teste risponda alla domanda». «Allora?» incalzò l'avvocato. Craig scrollò le spalle. «Due o tre milioni, ma non l'abbiamo pagata quella cifra.» «Vorrei porle alcune domande sulla pratica medica su abbonamento.» Strinse i bordi del podio. «Non pensa che esigere un pagamento anticipato di migliaia di dollari sia al di là delle possibilità di alcuni pazienti?»
«Naturalmente», sbottò Craig. «Che è successo ai suoi pazienti che non hanno potuto o voluto pagarle in anticipo l'onorario e finanziarle la sua Porsche nuova di zecca e la sua alcova extraconiugale a Beacon Hill?» «Obiezione!» Randolph balzò in piedi. «Argomentativo e pregiudizievole.» «Accolta», latrò Davidson. «Veda di porre all'imputato soltanto domande per ottenere informazioni riguardanti i fatti e non formuli teorie o supposizioni che farebbe meglio a tenere per la requisitoria. Non ho intenzione di ammonirla un'altra volta.» «Chiedo scusa, vostro onore.» Poi rivolto a Craig: «Che cosa è successo ai suoi amati pazienti di cui si era preso cura per anni?» «Hanno dovuto trovare altri dottori.» «Più facile a dirsi che a farsi. Li ha aiutati nella ricerca?» «Abbiamo fornito loro nomi e numeri di telefono.» «Che aveva trovato sulle Pagine Gialle?» «Erano medici del posto che io e i miei collaboratori conoscevamo.» «Ha telefonato di persona a quei medici?» «In alcuni casi, sì.» «Quindi vuol dire che in alcuni casi non l'ha fatto. Dottor Bowman, non le ha dato fastidio abbandonare i suoi presunti amati pazienti che si rivolgevano a lei in cerca di aiuto per i loro problemi di salute?» «Non li ho abbandonati!» sibilò Craig. «Ho dato loro delle scelte.» «Nessun'altra domanda.» Tony roteò gli occhi mentre tornava al suo tavolo. Il giudice Davidson guardò Randolph da sopra gli occhiali: «La difesa desidera controinterrogare?» «No, vostro onore», disse Randolph, alzandosi a metà. «Il teste può tornare al suo posto», ordinò Davidson. Craig si alzò e, con passo deciso, tornò al tavolo della difesa. Il giudice si rivolse a Tony: «Avvocato Fasano?» «La parte querelante ha terminato.» Gli occhi del giudice si posarono di nuovo su Randolph. Randolph si alzò in tutta la sua statura: «Sulla base dell'inadeguatezza del caso dell'attore di parte civile e quindi della mancanza di prove, la difesa propone di chiudere la causa». «Respinta», ribatté il giudice. «Ritengo le prove presentate sufficienti per procedere. Quando la corte si riunirà dopo la pausa pranzo, potrà
chiamare il suo primo teste, avvocato Bingham.» Abbassò con forza il martelletto e il suono riecheggiò come uno sparo. «La corte si aggiorna. Siete nuovamente avvertiti di non discutere il caso tra voi né con chiunque altro e di non esprimere opinioni fino alla conclusione delle testimonianze.» «In piedi», intimò il cancelliere. Jack e Alexis si alzarono assieme agli altri nell'aula, mentre il giudice spariva da una porta laterale. «Che ne pensi?» chiese Jack mentre la giuria veniva fatta uscire. «Mi meraviglia il livello della rabbia interiore di Craig, che abbia così poco autocontrollo.» «Mi sorprende che tu ti sorprenda, pur essendo tu l'esperta di casa. Non è conforme al suo narcisismo?» «Lo è, ma speravo che, dopo la sua piazzata di ieri a pranzo, sarebbe riuscito a controllarsi. Quando si è alzato Fasano, prima ancora che iniziasse l'interrogatorio, l'espressione di Craig è cambiata.» «In realtà ti chiedevo cosa ne pensavi di come se l'è cavata Randolph.» «Non è stato efficace come avevo sperato. Ha fatto apparire Craig troppo sermoneggiante, come se stesse tenendo una conferenza. Avrei preferito che tutto il controinterrogatorio fosse più diretto e incisivo, come è stato alla fine.» «Io l'ho trovato molto efficace», replicò Jack. «Non mi ero mai reso conto che Craig fosse un uomo che si è fatto da solo. Aver lavorato tanto per guadagnare qualcosa mentre frequentava la facoltà di medicina e ottenere ugualmente quei voti è decisamente impressionante.» «Ma tu sei un medico, non un giurato, e non hai sentito Fasano nella requisitoria. Craig si sarà anche dato da fare da studente, ma dal punto di vista dei giurati è difficile provare simpatia per uno che adesso vive in una casa che vale quasi quattro milioni di dollari. Quell'avvocato è veramente bravo, il modo in cui ha riportato alla memoria i sentimenti negativi di Craig verso la vittima, la Porsche, la sua ragazza e il fatto che ha abbandonato molti dei suoi vecchi pazienti.» Il fratello annuì, anche se con riluttanza. Aveva tentato di considerare il lato positivo. «Adesso è il gran momento di Randolph. È ora che brilli il sole della difesa.» «Temo che non ci sarà poi tutta questa luce. Un paio di testimoni esperti, nessuno dei quali di Boston. Finirà questo pomeriggio. Domani ci saranno le arringhe riassuntive.» Scrollò il capo, scoraggiata. «Date le circostanze,
non so proprio come potrà capovolgere la situazione.» «È un avvocato esperto», sottolineò Jack, nel tentativo di generare un entusiasmo che non provava. «Nell'ultima analisi di solito l'esperienza prevale. Chissà. Magari ha un asso nella manica.» Non si rese conto di avere ragione a metà. Ci sarebbe stata una sorpresa, ma non sarebbe uscita dalla manica di Randolph. 18 Boston Giovedì, 8 giugno 2006 13.15 «Riviste?» domandò la giovane che a Jack parve non pesare più di quaranta chili, ma che portava a passeggio sei cani che andavano da un alano grigio a un piccolo bichon frisé. Dalla tasca posteriore dei jeans le spuntava un pacchetto di sacchetti trasparenti per escrementi canini. Jack l'aveva fermata con l'intenzione di acquistare delle riviste nel caso avesse dovuto aspettare l'arrivo dell'operatore dell'escavatrice. «Vediamo, ci sono un paio di posti in Charles Street.» «Me ne basta uno.» «C'è un emporio all'angolo tra Charles e Mount Vernon Street.» «Sto andando nella direzione giusta?» chiese Jack che era diretto verso il parco e il parcheggio. «Sì. Il drugstore è a un isolato da qui su questo lato della strada.» Jack ringraziò la donna, che venne trascinata via dai suoi impazienti quadrupedi. L'emporio era un tipico negozio a conduzione famigliare, un ambiente antiquato, ingombro, ma accogliente. Era grande quanto una corsia di un supermercato, ma era un emporio vero e proprio. Prodotti che andavano dalle vitamine ai rimedi contro il raffreddore ai blocchi per appunti erano stipati su scaffali che si alzavano dal pavimento al soffitto lungo l'unico corridoio. In fondo, vicino al banco farmacia, c'era una scelta sorprendentemente ampia di riviste e giornali. Jack aveva accettato di pranzare con Alexis e Craig, ma quel pranzo si era rivelato come l'invito a una veglia dove ci si aspettava che l'ospite parlasse con il defunto. Craig era furioso contro il sistema, contro Fasano, contro Stanhope e soprattutto contro se stesso. Sapeva di essersi comporta-
to male, malgrado le ore passate a esercitarsi con Randolph la sera prima. Quando Alexis aveva tentato di indurlo a spiegare come mai avesse così poco autocontrollo, era andato su tutte le furie e ne era seguito uno scambio di aspre battute tra marito e moglie. Poi Craig era rimasto seduto imbronciato, mentre loro due avevano cercato di chiacchierare. Alla fine del pranzo, Alexis aveva sperato che Jack sarebbe tornato in tribunale, ma lui si era scusato dicendo che voleva essere al cimitero per le quattordici con la speranza che Gallaudet fosse riuscito a sistemare il sistema fognario del suo amico alla svelta. A quel punto Craig aveva con stizza cercato di dissuadere il cognato, dicendo che era troppo tardi, ma Jack aveva già coinvolto troppe persone per lasciar perdere. Con numerose riviste e il New York Times sotto il braccio, Jack recuperò la sua auto e si diresse verso ovest. Dopo non poche difficoltà a trovare la strada, raggiunse il cimitero di Park Meadow alle quattordici e dieci e parcheggiò davanti all'ufficio accanto a un minivan. All'interno trovò la donna e Strasser esattamente come li aveva lasciati al mattino. La segretaria stava battendo sui tasti di un computer e Walter era seduto alla sua scrivania con le mani giunte sul pancione. Jack si chiese se gli capitasse di lavorare qualche volta, visto che il piano della scrivania era completamente sgombro. Entrambi lo guardarono, ma la donna riprese immediatamente il suo lavoro senza dire una parola. Jack si avvicinò a Walter, che lo seguì con gli occhi. «Percy si è più fatto vedere?» chiese Jack. «Non da quando se ne è andato stamattina.» «Si è fatto sentire?» Solo il raro ammiccare e il movimento della bocca quando parlava indicavano a Jack che Walter era cosciente. «No.» «Come si può contattarlo? Dovrei incontrarlo qui dopo le quattordici. Ha accettato di disseppellire Patience Stanhope questo pomeriggio.» «Se ha detto che lo farà, arriverà.» «Ha un cellulare? Mi sono dimenticato di chiederglielo.» «No. Gli mandiamo una e-mail e lui si presenta in ufficio.» Jack gli allungò un biglietto da visita sulla scrivania. «Le sarei molto grato se si mettesse in contatto con lui per sapere quando viene. Mi può chiamare sul cellulare. Nel frattempo andrei alla tomba, se mi dice dove si trova.» «Gertrude, mostra al dottore sulla mappa dove si trova la tomba della famiglia Stanhope.»
Le rotelle della sedia di Gertrude cigolarono mentre lei si scostava dal tavolo. Donna di poche parole, picchiettò con un indice artritico il punto esatto. Grazie alle curve di livello, Jack comprese che si trovava proprio in cima alla collina. «La miglior vista in tutto Park Meadow», commentò Walter. «Aspetterò là.» Jack si avviò alla sua automobile. «Dottore!» gridò Walter. «Ci sarebbe la questione della parcella da saldare prima che si cominci a scavare.» Dopo avere ceduto un bel numero di banconote da venti dollari, risalì la collina. Lasciò l'auto in una piccola piazzola con una panchina ombreggiata da un albero e si avviò a piedi verso il punto dove riteneva fosse la tomba Stanhope. Era proprio sul cucuzzolo della collina. C'erano tre lapidi in granito identiche e semplici. Trovò quella di Patience e scorse rapidamente l'iscrizione. Con le riviste e il giornale, si accomodò sulla panchina. Il tempo era migliorato molto dal mattino. Il sole picchiava con una ferocia diversa da quella del giorno precedente, come per ricordare a tutti che l'estate era dietro l'angolo. Faceva un caldo tropicale e Jack accolse con piacere l'ombra dell'albero ricoperto di edera. Lanciò un'occhiata all'orologio. Era difficile credere che in meno di ventiquattr'ore sarebbe stato sposato, a meno che accadesse un disastro imprevisto, come non arrivare in tempo. Rifletté brevemente su questa possibilità, mentre una ghiandaia azzurra lo rimproverava da un vicino corniolo. Si sbarazzò dell'idea, ma quel pensiero gli ricordò che doveva telefonare a Laurie. Appena avesse avuto a disposizione il corpo di Patience, l'avrebbe chiamata. Era da troppo tempo che non si concedeva il lusso dell'ozio. Aveva scoperto che il metodo migliore per tenere a bada i suoi demoni era riempirsi le giornate con il lavoro o con lo sport. Era stata Laurie che, negli ultimi anni e con pazienza, l'aveva distolto da quel suo comportamento, ma solo quando erano insieme, e ora lei non c'era. Tuttavia non provò lo stimolo a soffermarsi sul passato e a come sarebbe potuto essere. Era contento di pensare al futuro, a meno che... Jack si sbarazzò di quel pensiero una seconda volta, aprì il giornale e iniziò a leggere. Era una bella sensazione stare al fresco sotto il sole, leggere le notizie con il canto degli uccelli in sottofondo. Non provava disagio a essere seduto in un cimitero, anzi, ci trovava un pizzico d'ironia. Finito il giornale, passò alle riviste. Dopo aver letto alcuni lunghi e inte-
ressanti articoli, lo stato di appagamento di Jack cominciò a calare, soprattutto quando si ritrovò in pieno sole. Controllò l'ora e imprecò: mancava un quarto alle sedici. Si alzò, si stirò e radunò riviste e giornale. In un modo o nell'altro, avrebbe trovato Percy e l'avrebbe costretto a fissare un'ora precisa. L'ultimo volo per New York partiva alle ventuno. Non ce l'avrebbe mai fatta a prenderlo. A meno che decidesse di tornare in automobile, cosa che aveva escluso a priori, sarebbe dovuto restare a Boston un'altra notte. Pensò che avrebbe potuto dormire nell'albergo vicino all'aeroporto: non aveva intenzione di tornare dai Bowman, ne aveva avuto abbastanza della depressione di Craig. Gettate le riviste nella Hyundai attraverso il finestrino mancante, stava aggirando l'auto quando udì il rumore dell'escavatrice. Riparandosi gli occhi dal sole e scrutando verso il basso tra gli alberi, vide il veicolo giallo di Percy avviarsi su per la tortuosa stradina del cimitero, la pala ripiegata contro il retro del mezzo. Jack chiamò immediatamente l'impresario di onoranze funebri. «Sono quasi le sedici», si lamentò Harold. «Più di così non ho potuto fare», replicò Jack. «Ho dovuto addirittura comprare quell'uomo.» Non gli riferì di avere dovuto corrompere anche Strasser. «D'accordo», si rassegnò Harold. «Sarò lì tra mezz'ora. Prima devo assicurarmi che qui sia tutto pronto. Non apra la tomba prima del mio arrivo. Le ripeto, non tenti di sollevare il coperchio finché non sarò lì! Devo identificare la bara e certificare che è quella giusta.» «Capisco.» Prima di Percy arrivò il furgone del cimitero e scesero Enrique e Cesar che scaricarono l'attrezzatura. Con lodevole efficienza e senza quasi parlare, circondarono la tomba di Patience con picchetti, distesero una cerata come quella che Jack aveva visto al mattino accanto allo scavo della fossa, tagliarono e rimossero la zolla erbosa e fissarono l'estremità arrotolata al bordo della cerata. All'arrivo di Percy, l'area era pronta. Salutò Jack con la mano, ma non scese dalla cabina fin quando non ebbe sistemato la macchina come voleva. Solo allora balzò giù dalla cabina per posizionare i bilancieri. «Scusi il ritardo», gli gridò. Jack gli fece un cenno con la mano. Non aveva voglia di conversare, voleva solo tirare fuori quella dannata bara. Quando Percy ritenne che fosse tutto a posto, iniziò a scavare. La pala
affondò nel terreno relativamente morbido. Il motore rombava e sbuffava quando la pala venne richiamata e sollevata. Percy si dimostrò un manovratore esperto e in breve si formò un'ampia fossa con pareti perpendicolari. Quando lo scavo era arrivato a quasi un metro e mezzo di profondità, vennero raggiunti da Harold Langley con il carro funebre. Con tre manovre posizionò il veicolo lungo la fossa. Con le mani sui fianchi, ispezionò lo stato del lavoro. «Ti stai avvicinando», gridò Harold a Percy. «Vacci piano.» Jack non riuscì a capire se Percy non avesse sentito Harold o se avesse deciso di ignorarlo. In ogni caso, continuò a scavare come se Harold non fosse presente. Poco dopo, appena i denti della benna colpirono la cassa a circa trenta centimetri sotto terra, si sentì un dissonante suono sordo. Harold impazzì. «Ti avevo detto di andarci piano», urlò, agitando freneticamente le mani nel tentativo di indurre Percy a sollevare la pala dalla buca. Jack non poté fare a meno di sorridere, Harold sembrava completamente fuori posto lontano dall'impresa funebre, sotto il sole con il suo cupo completo nero e la carnagione pallida, come la parodia di un rocchettaro. Dai lati della testa calva spuntavano ciuffi di capelli tinti di scuro, pettinati e impomatati con cura. Percy continuò a ignorare i gesti sempre più frenetici di Harold. Affondò invece la pala, provocando un rumore stridente appena i denti metallici si trascinarono lungo il coperchio. Disperato, Harold si precipitò alla cabina e colpì il vetro. Solo allora la benna si fermò e il rombo del motore diminuì. Percy aprì lo sportello e fissò il livido impresario con un'innocente espressione interrogativa. «Spezzerai il coperchio o strapperai i ganci...» sbraitò Harold, incapace di esprimere a parole cosa pensava di lui. L'ira l'aveva ammutolito. Jack li lasciò soli e salì in macchina. Voleva fare alcune telefonate e l'auto avrebbe attutito il rumore del movimento terra quando Percy avesse ripreso. Chiamò la dottoressa Wylie. Questa volta rispose direttamente. «Ho ricevuto il suo messaggio», ammise Latasha. «Mi scusi se non le ho risposto subito, ma ogni giovedì abbiamo i nostri incontri plenari.» «Ma si figuri. La chiamo perché stanno finalmente esumando il corpo. Se va tutto liscio dovrei riuscire a eseguire l'autopsia tra le diciotto e le diciannove nei locali dell'impresa funebre Langley-Peerson. Lei si è offerta di aiutarmi. La sua proposta è ancora valida?» «Il tempismo non poteva essere migliore», rispose lei. «Conti su di me!
Ho già preparato la sega per le ossa.» «Spero di non portarla via da qualcosa di più divertente.» «Dovevo vedermi con il papa, ma gli dirò che sarà per un'altra volta.» Jack sorrise. Latasha aveva un senso dell'umorismo simile al suo. «Ci vediamo all'impresa funebre verso le diciotto e trenta», propose lei. «Mi chiami se dovessero esserci degli intoppi.» «Stupendo. Dopo posso offrirle una cena?» «Se non facciamo troppo tardi. Una ragazza ha bisogno del suo sonno ristoratore.» Jack chiuse la comunicazione. Mentre stava parlando, Enrique e Cesar erano scomparsi nella buca e badilate di terra cominciarono a volare in aria. Nel frattempo Percy aveva iniziato a montare cavi d'acciaio sui denti della pala. Harold era tornato sul ciglio della fossa e fissava in basso, le mani sui fianchi. Lanciando un'occhiata al cellulare, meditò se chiamare Laurie. Ora sapeva che era andato oltre anche quello che la sera prima al telefono aveva chiamato il «caso peggiore»: arrivare a casa di notte. Gli eventi avevano inesorabilmente rimandato la sua partenza al mattino seguente, il giorno del matrimonio. Sebbene il suo lato vigliacco cercasse di indurlo a rinviare la telefonata a dopo l'autopsia, sapeva di doverla fare, ma quello non era l'unico problema; non sapeva cosa dirle della sua avventura sulla Massachusetts Turnpike di quel mattino. Decise di confessare ogni cosa. Aveva l'impressione che la compassione superasse la preoccupazione, dal momento che poteva affermare con ragionevole sicurezza che Franco fosse fuori combattimento almeno per alcuni giorni. Naturalmente ciò non escludeva Antonio. Non aveva idea di come c'entrasse con la squadra di Fasano, ma nel momento in cui Percy aveva cominciato a scavare la tomba di Patience, aveva inconsciamente toccato il revolver che teneva in tasca, in cerca di rassicurazioni. Tenuto conto della gravità della minaccia riferita alle ragazze, non era assurdo pensare che qualcuno potesse arrivare e contestare l'esumazione. Dopo un profondo respiro chiamò Laurie. Sperò di sentire la segreteria, ma lei rispose immediatamente. «Dove sei?» chiese senza preliminari. «La brutta notizia è che sono in un cimitero a Boston. Quella buona è che non sono uno dei residenti.» «Non mi sembra il momento di scherzare.» «Scusa! Non ho potuto farne a meno. Stanno aprendo la bara in questo
momento.» Seguì un silenzio allarmante. «So che sei delusa. Ho fatto tutto il possibile. A quest'ora speravo di essere già sulla via del ritorno. Non è stato facile.» Le raccontò dello scontro con Franco e della pallottola nel montante del parabrezza. Laurie ascoltò in silenzio il monologo fino alla testimonianza controproducente del cognato. «Mi fa incazzare non sapere se devo essere arrabbiata o comprensiva.» «Se dipendesse da me, andrei nella direzione della comprensione.» «Per favore, Jack! È una faccenda seria.» «Terminata l'autopsia, avrò perso l'ultimo volo della sera. Dormirò nell'albergo dell'aeroporto e prenderò il primo aereo delle sei e mezzo.» Laurie sospirò. «Andrò a prepararmi sul presto dai miei genitori, così non ci incontreremo a casa.» «D'accordo. Penso di farcela da solo con lo smoking.» «Verrai in chiesa con Warren?» «Questa è l'idea. Sa sempre come trovare un parcheggio.» «D'accordo, Jack. Ci vediamo all'altare.» Si salutarono. Laurie non era felice, ma almeno si era tolto il pensiero. Tornò alla fossa. Percy era in cabina, il motore acceso, la benna sospesa sopra lo scavo con i cavi in tensione. Si avvicinò a Harold e guardò giù. «Cosa sta succedendo?» gridò per farsi sentire sopra il rombo del motore. «Stiamo tentando di rompere il sigillo», rispose l'impresario. «Non è facile, è di materiale robusto.» L'escavatrice grugnì e tirò, quindi ridusse la pressione per poi ricominciare. «Cosa si fa se il sigillo tiene?» «Dovremmo tornare domani con gli uomini della ditta che ha costruito la tomba.» Jack imprecò sottovoce. Improvvisamente si sentì uno schiocco e un gorgoglio. «Alleluia!» esclamò Harold, facendo cenno a Percy di rallentare. Il coperchio si sollevò, quindi, arrivato ad altezza uomo, Enrique e Cesar lo afferrarono per tenerlo fermo e Percy manovrò l'escavatrice per spostarla e la depose con cautela sull'erba. Harold scrutò nel loculo. Il rivestimento era in acciaio inossidabile e all'interno c'era una bara in metallo color oro bianco. Tutt'attorno una ses-
santina di centimetri di spazio. «Non è una bellezza?» chiese Harold con religiosa venerazione. «Non ne vendo molte di queste. È veramente uno spettacolo.» Jack era più interessato al fatto che all'interno fosse asciutto. «Come la tiriamo fuori?» Non aveva finito di fare la domanda che i due uomini erano scesi e avevano infilato delle cime sotto la bara e attraverso le quattro maniglie laterali. Percy riaccese il motore, riportò la pala sopra la fossa e l'abbassò per consentire di legare le cime. Harold aprì il portello posteriore del carro funebre. Venti minuti dopo la bara era al sicuro nel carro e Harold chiuse il portello. «Viene anche lei?» chiese Harold a Jack. «Naturalmente. Voglio iniziare subito. Sarà presente anche un altro medico legale, la dottoressa Latasha Wylie.» «Bene.» Harold si mise al volante, s'infilò nella strada e si avviò giù per la discesa. Jack pagò Percy, dandogli il grosso di una mazzetta di banconote da venti dollari. Ne diede un paio anche a Enrique e Cesar prima di montare in macchina e avviarsi giù per la collina. Mentre guidava, non poté esimersi dal sentirsi soddisfatto. Dopo tutti gli ostacoli in cui si era imbattuto per arrivare a quel punto, l'esumazione si era svolta senza problemi. Soprattutto, né Fasano, né Antonio, né Franco si erano presentati a rovinare la festa. Non gli restava altro da fare che l'autopsia. 19 Brighton, Massachusetts Giovedì, 8 giugno 2006 18.45 Le cose continuarono a filare lisce. Il percorso dal cimitero all'impresa Langley-Peerson si svolse senza incidenti. Quando arrivarono Latasha li stava già aspettando. Era arrivata da cinque minuti, con un tempismo quasi perfetto. Harold chiamò due suoi robusti dipendenti che fecero scivolare la bara dal carro funebre su un carrello che venne spinto nella sala delle imbalsamazioni.
«Ecco qua», esordì Harold, in piedi accanto al feretro con una mano ossuta appoggiata sulla lucente superficie metallica. L'illuminazione al neon della sala aveva spazzato via anche quel poco colore che aveva, tanto da far sembrare che in una delle casse dovesse riposare lui. I due patologi aspettavano a un metro dal tavolo. Avevano indossato le tute protettive che Latasha aveva portato dall'istituto di medicina legale assieme a guanti, maschere e a una serie di strumenti autoptici. Nella stanza c'erano anche un ossequioso e gentile Bill Barton, a detta di Harold il suo impiegato più fidato, e Tyrone Vich, un robusto afroamericano grande due volte il compagno. Si erano offerti di restare oltre l'orario di ufficio per essere d'aiuto in qualsiasi modo fosse stato necessario. «Ora apriremo la bara», continuò Harold. «Attesterò che contiene realmente i resti della defunta Patience Stanhope. Bill e Tyrone svestiranno il corpo e lo porteranno sul tavolo. Conclusa l'autopsia, rivestiranno il corpo e lo riporranno nella bara, così che possa essere interrato di nuovo domattina.» «Lei resterà nell'edificio?» s'informò Jack. «Non credo sia necessario. Comunque abito qui vicino e se ci fosse bisogno Bill o Tyrone possono telefonarmi.» «Perfetto», disse Jack, fregandosi le mani inguantate. «Forza, cominciamo!» Bill allungò una manovella a Harold che ne inserì un'estremità nel giunto della bara, la fissò e tentò di girarla. Lo sforzo gli colorì il volto, ma non riuscì a far girare il meccanismo. Fece cenno a Tyrone di prendere il suo posto. I muscoli del collega si gonfiarono sotto la maglietta e, con un brusco e straziante cigolio, il coperchio cominciò ad aprirsi. Un attimo dopo si sentì un breve sibilo. Jack guardò Harold. «Quel sibilo è un buon segno o no?» Sperava che non indicasse una decomposizione gassosa. «Né buono né cattivo. Sottolinea solo l'alta qualità del sigillo di questa cassa, che non deve sorprendere visto il prodotto eccellente, il migliore della serie, e ottimamente progettato.» Harold fece ripetere a Tyrone la stessa operazione all'altra estremità della bara. «Dovrebbe bastare», concluse l'impresario. Infilò le dita sotto il coperchio e indicò all'aiutante di fare la stessa cosa all'altro lato. Poi sollevarono all'unisono il coperchio e la luce inondò Patience Stanhope. L'interno della bara era tappezzato in satin bianco e Patience indossava un semplice abito bianco in taffettà. Il viso e le mani erano coperte da una
fungosa lanugine bianca e cotonosa. Sotto la muffa, la pelle era di un grigio marmoreo. «Senza ombra di dubbio, è Patience Stanhope», dichiarò Harold. «Ha un aspetto fantastico», ammise Jack, «vestita a festa e pronta per il ballo studentesco.» Harold gli lanciò uno sguardo di disapprovazione, ma tenne le labbra strette. «Bill e Tyrone, sfilatele i vestiti della festa e iniziamo.» «Vi lascio», disse Harold con un cenno di rimprovero nella voce, come se stesse sgridando un bambino cattivo. «Spero che valga la pena.» «E per il suo compenso?» lo sollecitò Jack. Si era reso conto che non ne avevano mai parlato. «Ho il suo biglietto da visita, dottore. Le invieremo la fattura.» «Perfetto. Grazie ancora per il suo aiuto.» «Piacere nostro», replicò lui, in tono sarcastico. La sensibilità dell'impresario funebre era stata oltraggiata dal suo linguaggio irriverente. Jack tirò a sé un tavolo in acciaio inossidabile su rotelle e vi mise sopra carta e penna. Non aveva un registratore e voleva annotare le sue osservazioni strada facendo. Aiutò poi Latasha a sistemare i flaconi per i campioni e gli attrezzi. Sebbene Harold avesse messo a disposizione alcuni strumenti per imbalsamare, Latasha aveva portato anche dei coltelli, dei bisturi e forbici per ossa. «La sua premura e la sua cura renderanno tutto molto più semplice», osservò Jack mentre inseriva una lama nuova nel manico di un bisturi. «Avevo pensato di dovermi arrangiare con quello che trovavo qui e a ben pensarci, non era una buona idea.» «Non è stato alcun disturbo», si schermì Latasha, guardandosi attorno. «Non sapevo cosa aspettarmi. Non avevo mai visto una sala per imbalsamare. Sinceramente, ne sono colpita.» La stanza aveva le stesse dimensioni della sala autopsie nell'istituto di medicina legale, ma con un solo tavolo in acciaio. Il pavimento e le pareti erano ricoperti di piastrelle in ceramica verde pallido. Non c'erano finestre, ma alcune parti in vetrocemento lasciavano entrare la luce. Gli occhi di Jack seguirono quelli di Latasha in giro per la stanza. «Questo posto è splendido. Quando ho accettato di fare l'autopsia, immaginavo di dover usare un tavolo da cucina di qualcuno.» «Bleah!» esclamò Latasha. Lanciò un'occhiata ai due uomini intenti a svestire il cadavere. «Quando è passato da me martedì, mi ha raccontato la
storia di Patience Stanhope e del suo amico internista, ma ho dimenticato i dettagli. Può farmi un rapido riassunto?» Fece di più. Le raccontò tutto, compreso il suo rapporto con il cognato e le minacce che avevano ricevuto lui e le nipoti. Le riferì anche l'incidente di quella mattina sull'autostrada. Latasha ne rimase scioccata. «Immagino che avrei dovuto dirglielo prima», si scusò. «Forse non avrebbe accettato di farsi coinvolgere. Comunque credo che adesso sia troppo tardi per aspettarci altri guai.» «Sono d'accordo», concordò Latasha, rianimandosi. «Saremo eventualmente noi a creare altri problemi con quanto scopriremo qui.» «Ha ragione. Ma forse sarebbe meglio se non mi assistesse. Se qualcuno dovesse diventare un bersaglio, non vorrei ci andasse di mezzo.» «Cosa?» chiese Latasha sgranando gli occhi. «E lasciare che vi divertiate solo voi ragazzi? Neanche per sogno! Non è nel mio stile. Vediamo cosa troviamo e poi decidiamo come è meglio procedere.» Jack sorrise. Ammirava quella donna e gli piaceva. Aveva stile, coraggio e iniziativa. Bill e Tyrone sollevarono il corpo e lo misero sul tavolo. Con un secchio e una spugna Bill tolse delicatamente la muffa. Il tavolo per l'imbalsamazione, come quelli per le autopsie, aveva un bordo che correva lungo tutto il perimetro e uno scarico per raccogliere i liquidi. Jack si mise alla destra di Patience e Latasha a sinistra. Tyrone si allontanò per il suo solito giro di sorveglianza notturna. Bill si trattenne a disposizione. «Il corpo è in perfette condizioni», osservò Latasha. «Harold sarà anche un po' borioso, ma a quanto pare conosce il suo mestiere.» Iniziarono a esaminare il corpo in silenzio. «Non vedo nulla che non mi sarei aspettata», commentò Latasha. «Voglio dire, ha subito un tentativo di rianimazione e un'imbalsamazione e di questi c'è traccia.» «Sono d'accordo», convenne Jack mentre osservava alcune piccole lacerazioni in bocca, che erano compatibili con l'intubazione durante la rianimazione. «Per ora niente che indichi strangolamento o soffocamento, ma si deve tenere presente la possibilità di soffocamento senza compressione del petto.» «Sarebbe in fondo alla mia lista», osservò lei. «L'anamnesi pare esclu-
derlo.» «Concordo.» Le porse un bisturi. «Che ne dice di fare gli onori di casa?» Latasha fece la tipica incisione a Y dalla parte anteriore delle spalle lungo la linea mediana fino all'osso pubico. Il tessuto era secco e aveva un colore marrone grigiastro. Non c'era putrefazione, e l'odore di muffa era sopportabile. Lavorando rapidamente e in tandem, esposero gli organi interni. Gli intestini erano stati completamente svuotati con una cannula da imbalsamazione. Jack sollevò il bordo sodo del fegato e palpò con le dita la cistifellea. «C'è della bile», esclamò con soddisfazione. «Servirà per la tossicologia.» «Abbiamo anche umor vitreo», disse Latasha palpando gli occhi da sopra le palpebre chiuse. «Dovremmo prenderne un campione.» «E anche dell'urina, se riuscissimo a procurarcene dalla vescica o dai reni.» Estrassero dei campioni con le siringhe. Jack etichettò i propri, mentre Latasha faceva lo stesso con i suoi. «Vediamo se presenta uno shunt artero-venoso evidente», aggiunse Jack. «Continuo a pensare che la cianosi si rivelerà importante.» Spostò i polmoni per dare un'occhiata ai grandi vasi sanguigni e, dopo attenta palpazione, scosse la testa. «Mi pare tutto nella norma.» «Troveremo la patologia nel cuore», affermò Latasha con convinzione. «Credo abbia ragione.» Jack chiamò Bill e gli chiese se c'erano dei contenitori in acciaio per deporre gli organi. Bill ne tirò fuori alcuni dall'armadietto sotto il lavandino. Procedendo come se fossero abituati a lavorare insieme, rimossero il cuore e i polmoni in blocco. Mentre lei reggeva il contenitore, Jack tolse il campione dal petto e lo depose nel recipiente che Latasha appoggiò sul tavolo davanti ai piedi di Patience. «I polmoni sembrano normali», borbottò lui, strofinando le dita sulla superficie. «Sono normali anche al tatto», sottolineò lei, mentre premeva delicatamente alcuni punti. «Peccato non avere una bilancia.» Jack richiamò Bill e gli chiese se avessero una bilancia, ma non furono accontentati. «Il peso mi pare normale.» Latasha provò a soppesarlo, senza riuscirvi. «Non sono brava in questo.»
«Sono ansioso di arrivare al cuore, ma forse dovremmo prima fare il resto. Che ne dice?» «Prima il dovere, poi il piacere.» «Dividiamoci i compiti. Uno di noi potrebbe dedicarsi agli organi addominali, mentre l'altro esegue la dissezione del collo. Nell'interesse della completezza, voglio assicurarmi che l'osso ioide sia intatto, anche se dubitiamo entrambi che ci sia stato strangolamento.» «Se posso scegliere, farei il collo.» «D'accordo.» Per i successivi trenta minuti lavorarono in silenzio. Jack lavò gli intestini nel lavandino e nell'intestino crasso trovò la prima rilevante patologia. Chiamò Latasha e gliela mostrò. Era un cancro nel colon ascendente. «È piccolo, ma sembra infiltrato nella parete.» «E alcuni nodi addominali sono ingranditi. Questo dimostra tragicamente che anche gli ipocondriaci si ammalano.» «Un esame dell'intestino l'avrebbe rilevato?» «Senza alcun dubbio. Se ne avesse fatto uno. Nelle cartelle di Craig c'è annotato il costante rifiuto di effettuare ulteriori indagini.» «Così l'avrebbe uccisa il cancro, se non l'avesse fatto l'infarto.» «Prima o poi. Come va con il collo?» «Ho quasi finito. Lo ioide è intatto.» «Bene! Perché non estrae il cervello, mentre io finisco con l'addome? Stiamo andando benissimo.» Lanciò un'occhiata all'orologio da parete. Erano quasi le otto e il suo stomaco stava brontolando. «Accetterà la mia proposta per la cena?» «Vediamo a che ora finiamo», rispose lei senza girarsi. Jack trovò alcuni polipi nell'intestino crasso. Quando terminò con l'intestino, lo rimise nella cavità addominale. «Onore a Harold Langley. Il suo lavoro con Patience Stanhope avrebbe reso orgoglioso un imbalsamatore egizio.» «Non ho una grande esperienza con i corpi imbalsamati, ma la condizione di questo è migliore di quanto avevo previsto», ammise Latasha, mentre collegava la spina della sega nella presa. Era un arnese studiato per segare le ossa. L'accese e l'attrezzo produsse un ronzio stridulo. Si sistemò in capo al tavolo e si mise a lavorare sul cranio che aveva precedentemente esposto tirando lo scalpo sulla faccia. Relativamente immune al fracasso, Jack palpò il fegato alla ricerca di metastasi sviluppatesi dal cancro al colon. Non ne trovò e così tagliò in se-
zioni l'organo, senza rilevare niente neanche qui. Avrebbe potuto trovarne con l'esame al microscopio, ma l'avrebbe fatto in seguito. Venti minuti dopo, quando il cervello era stato riconosciuto privo di visibili anomalie e dai vari organi erano stati presi numerosi campioni, i due patologi rivolsero la loro attenzione al cuore. Jack lo separò dai polmoni. «È come tenere il dono più bello per ultimo», disse fissando l'organo con ansia e curiosità, chiedendosi quali segreti avrebbe rivelato. La dimensione era più o meno quella di una grossa arancia, il colore grigio, ma l'oleosa membrana di tessuto adiposo che lo ricopriva era marrone pallido. «Sarà come il dessert», disse Latasha con eguale entusiasmo. «Guardando questo cuore mi è venuto in mente un caso di circa otto mesi fa. Una donna collassata in una boutique, e il pacemaker esterno non è riuscito a rimettere in funzione il cuore, proprio come con Patience Stanhope.» «Che ha scoperto in quel caso?» «Una marcata stenosi dell'arteria coronarica posteriore discendente. Una piccola trombosi aveva messo fuori uso buona parte del sistema di conduzione del cuore in un colpo solo.» «È questo che si aspetta di trovare in questo caso?» «È in cima alla mia lista», rispose Jack. «Ma penso anche di trovare un foro più o meno ampio del setto interatriale che abbia provocato il passaggio di sangue da un atrio all'altro per spiegare la cianosi. Quello che non ci dirà, temo, è perché qualcuno era tanto deciso a non farci scoprire quello che stiamo per apprendere, qualsiasi cosa sia.» «Credo che riscontreremo una malattia coronarica e la prova di alcuni precedenti piccoli attacchi di cuore asintomatici, cioè che il suo sistema di conduzione era a rischio prima dell'evento finale, ma non tanto compromesso perché fosse evidente in un elettrocardiogramma standard.» «Interessante», ammise Jack, lanciandole un'occhiata mentre lei continuava a fissare il cuore esposto. Sentì crescere il rispetto per quella donna che sembrava una diciannovenne e lo faceva sentire vecchio. «Si ricordi che è stato dimostrato di recente che le donne in postmenopausa presentano sintomatologie diverse dagli uomini coetanei per quello che riguarda la malattia coronarica. Il caso che mi ha appena descritto ne è la prova.» «La smetta di farmi sentire vecchio e disinformato.» Latasha sventolò una mano inguantata. «Già, come no!» ridacchiò. «Che ne dice di fare una piccola scommessa, visto che nessuno di noi è
nel proprio istituto, e non siamo sotto i riflettori? Io dico che è congenita, lei degenerativa. Sono disposto a scommettere cinque dollari.» «Che spendaccione!» lo derise. «Cinque dollari sono un sacco di soldi, ma io raddoppio la posta.» «Andata!» Dopo avere capovolto il cuore, Jack prese un paio di forcipi e delle forbici sottili e si mise al lavoro. Latasha reggeva l'organo, mentre Jack localizzava e apriva l'arteria coronarica destra, concentrandosi sul ramo posteriore discendente. Dopo averla rintracciata fin dove glielo permettevano gli strumenti, si raddrizzò e si stirò. «Nessuna stenosi», dichiarò con un misto di sorpresa e delusione. Sebbene di solito mantenesse la mente aperta a qualunque diagnosi possibile, in questo caso si era sentito sicuro della patologia che avrebbe incontrato. Era l'arteria coronarica destra, che fornisce sangue alla maggior parte del sistema di conduzione del cuore a essere stata distrutta dall'infarto di Patience Stanhope. «Non disperi», lo consolò. «Non ho ancora i dieci dollari in tasca. Non c'è stenosi, ma non vedo neppure depositi ateromatosi.» «Ha ragione. È perfettamente pulita.» Non riusciva a crederci. L'intero vaso era normale. Passò a esaminare l'arteria coronarica sinistra e i suoi rami, ma, dopo avere sezionato per alcuni minuti, fu chiaro che era uguale alla destra, completamente priva di placche e restringimenti. Jack era perplesso e deluso. Dopo tutto quello che aveva dovuto fare, gli sembrava un affronto personale che non ci fossero chiare anomalie coronariche, né di sviluppo né degenerative. «La patologia dev'essere all'interno del cuore», avanzò Latasha. «Forse vedremo della vegetazione sulla valvola mitralica o aortica che potrebbe avere liberato una serie di trombi e che poi è scomparsa.» Jack annuì, ma stava rimuginando sulla probabilità di un'improvvisa morte per infarto senza alcuna malattia coronarica dell'arteria. Estremamente bassa, meno del dieci percento, ma possibile, come dimostrato dal caso che aveva di fronte. Dalla patologia forense si apprendeva sempre qualcosa di nuovo. Latasha gli allungò un coltello a lama lunga, svegliandolo da quella momentanea trance. «Forza! Vediamo l'interno.» Jack aprì ognuna delle quattro cavità cardiache e fece numerose sezioni nelle pareti muscolose. Ispezionò le valvole, i setti tra i lati destro e sinistro del cuore e la superficie delle sezioni dei muscoli. Lavorarono in si-
lenzio, controllando ogni struttura singolarmente e metodicamente. Quando ebbero finito, si fissarono. «La buona notizia è che nessuno di noi perde dieci dollari», commentò Jack, tentando di cogliere l'aspetto comico della situazione. «La brutta è che Patience non svela i suoi segreti. Era ritenuta poco cooperativa in vita e non ha cambiato atteggiamento da morta.» «Dopo aver sentito l'anamnesi, mi stupisce che questo cuore sia tanto normale. Mai vista una cosa simile. Immagino che le risposte dovranno attendere l'esito degli esami al microscopio. Forse qualche processo patologico dei capillari coinvolgeva solo i più piccoli vasi del sistema coronarico.» «Non ho mai sentito una cosa simile.» «Neppure io», ammise lei, «ma è morta per un attacco di cuore che deve essere stato violento. Dobbiamo trovare una patologia oltre al piccolo, asintomatico cancro al colon. Aspetti un attimo! Come si chiama quella sindrome eponima che porta allo spasmo delle arterie coronariche?» Fece un segno a Jack come se stesse giocando al mimo, con la speranza che gli venisse in mente il nome. «Non ne ho idea. E adesso non dica qualche banalità che mi farà sentire inadeguato.» «Prinzmetal!» esclamò in tono trionfante Latasha. «Angina di Prinzmetal.» «Mai sentita nominare», ammise Jack. «Ora mi ricorda mio cognato, che è la vittima in questo pasticcio. Lui lo saprebbe di sicuro. Lo spasmo può provocare attacchi di cuore mortali? Questa è la domanda.» «Non può essere Prinzmetal», borbottò improvvisamente lei, abbandonando l'idea con un cenno della mano. «Anche in quella forma particolare di angina, lo spasmo è associato a stenosi del vaso, e si noterebbe la patologia, che qui non si vede.» «Che sollievo», esclamò Jack. «Dobbiamo capire, in un modo o nell'altro.» «È quello che vorrei, ma mi sento raggirato e addirittura imbarazzato per non avere trovato alcuna patologia, tenuto conto di tutto il trambusto che ho provocato per fare questa autopsia.» «Ho un'idea», propose Latasha. «Portiamo tutti i campioni nel mio ufficio. Possiamo esaminare il cuore allo stereomicroscopio e fare anche alcune sezioni criostatiche del tessuto cardiaco per esaminare i capillari. Il resto dei campioni dovrà essere esaminato in modo normale.»
«Forse dovremmo andare a mangiare qualcosa», ribatté, improvvisamente desideroso di lavarsene le mani. «Comprerò della pizza per strada. Andiamo, questo è un bel mistero e vediamo se riusciamo a venirne a capo. Stasera potremo fare addirittura uno screening tossicologico. Conosco il sovrintendente di notte del laboratorio all'università. Abbiamo avuto una storia tempo fa. Le cose non hanno funzionato, ma siamo rimasti amici.» A Jack si rizzarono le orecchie. «Prego?» chiese incredulo. «Potremmo ottenere un esame tossicologico questa sera stessa?» Nell'istituto di New York, sarebbe stato fortunato ad averne uno in una settimana. «Ha capito bene, ma dovremo aspettare fin dopo le ventitré, quando Allan Smitham inizia il turno.» «Chi è Allan Smitham?» La possibilità di fare immediatamente uno screening tossicologico apriva tutta un'altra dimensione d'indagine. «Ci siamo conosciuti al college, dove abbiamo seguito insieme un sacco di corsi di chimica e di biologia. Poi io mi sono iscritta alla facoltà di medicina e lui a un'altra specializzazione. Ora lavoriamo a due isolati di distanza.» «Che mi dice del suo sonno ristoratore?» «Ci penserò domani sera. Questo caso mi avvince. Dobbiamo salvare suo cognato dai cattivi avvocati.» 20 Newton Giovedì, 8 giugno 2006 21.05 Alexis rispose al quarto squillo. Jack aveva composto il suo numero e premuto il tasto del vivavoce prima di mettere il cellulare sul sedile del passeggero. Stava andando al Newton Memorial Hospital. Aveva deciso di passare dall'ospedale con la speranza di incontrare Matt Gilbert e Georgina O'Keefe. Era stata una decisione presa d'impulso quando era uscito con Latasha dall'impresa funebre dopo avere concluso l'autopsia. Lei sarebbe passata a casa sua prima di recarsi al laboratorio di tossicologia per lasciarvi i campioni e un messaggio per Allan con la preghiera di chiamarla appena fosse arrivato, e poi avrebbe preso un paio di pizze prima di ritrovarsi nel parcheggio dell'istituto di medicina legale. Aveva offerto a Jack di andare
insieme ma lui aveva preferito fermarsi all'ospedale. «Speravo fossi tu», lo salutò la sorella. «Mi senti bene? Sono in vivavoce.» «Benissimo. Dove sei?» «Continuo a farmi la stessa domanda anch'io», scherzò. L'entusiasmo di Latasha e la prospettiva di ottenere l'aiuto di un tossicologo l'avevano rinvigorito e ora le idee gli frullavano nella mente come uno stormo di passeri eccitati. «Che succede? Sei strano.» «Sto andando al Newton Memorial.» «Stai bene?» «Sì, sì. Voglio solo porre alcune domande a quelli del pronto soccorso che si erano occupati di Patience.» «Hai già fatto l'autopsia?» «Sì.» «Che hai trovato?» «A parte un cancro del colon, dal nostro punto di vista irrilevante, niente.» «Niente?» chiese Alexis, chiaramente delusa. «So a cosa stai pensando, perché ho pensato la stessa cosa. Ero depresso, ma ora ritengo che questo niente sia un regalo inatteso.» «Cosa vuol dire?» «Se avessi trovato una generica, normale malattia coronarica, come mi ero aspettato, invece di qualcosa di drammatico, come avevo sperato, mi sarei accontentato. Aveva una malattia cardiaca e ha avuto un infarto. Fine della storia. Il fatto che non avesse niente al cuore richiede una spiegazione. Voglio dire, c'è una possibilità che abbia subito un attacco cardiaco letale che nove mesi dopo non possiamo diagnosticare, ma credo che sia intervenuto qualcos'altro, soprattutto se teniamo conto di come Fasano si sia opposto all'esecuzione dell'autopsia e di come Franco abbia cercato di sbattermi fuori strada e abbia minacciato le ragazze. A proposito, come stanno?» «Bene. Si comportano con prudenza e qui in casa della nonna si divertono un mondo. Le vizia, come sempre. Ma torniamo a noi: cosa stai tentando di dirmi?» «Non lo so, ma, per quello che vale, penso che la morte di Patience e l'opposizione all'autopsia potrebbero essere due cose completamente separate. Fasano e i suoi potrebbero essere dietro alle minacce, ma solo per mo-
tivi venali, anche se non mi sembra abbia molto senso. Perché mai dovrebbe arrivare al punto di entrare in casa tua e poi lasciarmi procedere con le analisi? Fasano mi ha minacciato per soldi. Franco, dopo che gli ho mollato un pugno, si è sentito ferito nell'ego, e i miei guai con lui non hanno nulla a che vedere con la morta. Così però non si spiega l'irruzione in casa tua.» «È tutto troppo complicato», si lamentò lei. «Se non è stato Fasano a minacciare le mie figlie, chi è stato?» «Non ne ho idea. Mi sono chiesto quale potesse essere la motivazione, se non c'entravano Fasano e i soldi. Sarebbe stato un tentativo d'impedirmi di scoprire qualcosa, e cosa avrei potuto apprendere dall'autopsia? Un'overdose di farmaci o la somministrazione di medicinali sbagliati al pronto soccorso. Gli ospedali sono delle grandi organizzazioni con un sacco di azionisti, e un bel giro di soldi.» «Ma è assurdo», replicò senza esitare Alexis. «Non è certamente stato l'ospedale a terrorizzare le mie bambine.» «Alexis, sei stata tu a chiedermi di venire a Boston e riflettere in modo creativo, ed è quello che sto facendo.» «Ma l'ospedale... È per questo che stai andando là?» «Sì. Mi ritengo un buon giudice. I due del pronto soccorso con cui ho parlato martedì mi hanno colpito. Sono onesti e coscienziosi. Voglio parlare di nuovo con loro.» «Che intenzioni hai? Di chiedere loro se hanno commesso un errore tanto grosso che l'ospedale ha mandato qualcuno a trattare brutalmente le mie figlie per insabbiare tutto? È ridicolo.» «Mettendola così, suona incredibile, ma lo farò ugualmente. L'autopsia non è ancora conclusa. Voglio dire, abbiamo terminato la dissezione, ma vedremo cosa possono scoprire la tossicologia e l'esame al microscopio. Desidero anche sapere esattamente quali farmaci sono stati somministrati a Patience Stanhope per riferirlo al tossicologo.» «Questo mi pare più ragionevole che accusare l'ospedale di qualche ridicolo insabbiamento.» «Quella di un'overdose o di una medicina sbagliata non è la mia unica ipotesi. Vuoi sentire anche l'altra?» «D'accordo, mi auguro sia più sensata della prima.» Jack pensò a una replica spiritosa e sarcastica, ma si controllò. «L'idea dell'ospedale si basava sul fatto che l'infarto di Patience Stanhope e la resistenza all'autopsia fossero due circostanze separate anche se collegate. E se
coinvolgessero la stessa persona?» Seguì un attimo di silenzio, mentre Jack lasciava che questa sua congettura venisse recepita. «Non ti seguo», ammise Alexis infine. «Stai parlando di qualcuno che potrebbe avere provocato la morte di Patience Stanhope e che poi avrebbe tentato di evitare un'autopsia per non venire scoperto?» «Esattamente.» «Non saprei, mi pare altrettanto assurda. Immagino che tu stia parlando di Jordan.» «È la prima persona che viene in mente. Craig ha detto che Jordan e Patience non erano una coppia innamorata e lui è quello che più ci guadagna dalla sua morte e non ha perso tempo ad affliggersi. Per quello che ne sappiamo, lui e la sua ragazza stavano già insieme, mentre Patience era ancora tra noi.» «Come si può provocare un attacco di cuore a qualcuno di proposito?» «Con una dose di digitale.» «Non so.» Il tono di Alexis era dubbioso. «Anche questa teoria mi pare inverosimile. Se Jordan fosse colpevole, non avrebbe avviato l'azione legale per negligenza, né avrebbe firmato l'autorizzazione all'esumazione.» «Ho riflettuto su questo punto», replicò Jack entrando nel parcheggio del Newton Memorial Hospital. «Sono d'accordo che non sembra ragionevole, ma forse non abbiamo a che fare con una persona ragionevole. Forse a Jordan piace l'idea di dimostrarsi più furbo di tutti noi. Ma è prematuro. Dobbiamo aspettare l'esito dell'esame tossicologico. Se trovassimo qualcosa, allora dovremmo lavorare a ritroso.» «Continui a usare il noi.» «Una delle patologhe dell'istituto di medicina legale di Boston mi sta dando una mano.» «Spero tu abbia parlato con Laurie. Le sta bene che tu sia ancora qui?» «Non è felice, ma l'ha accettato.» «Non riesco a credere che domani ti sposerai.» «Nemmeno io.» S'infilò di muso in uno spazio che dava sullo stagno. I fari illuminarono uno stormo di uccelli acquatici. «Che è accaduto al processo questo pomeriggio?» «Randolph ha fatto testimoniare due esperti, uno da Yale e uno dalla Columbia. Entrambi credibili, ma per nulla emozionanti. Non si sono comunque fatti intimidire da Tony che ha tentato di innervosirli. Credo che Tony avesse sperato che Randolph richiamasse Craig al banco dei testimoni, ma
saggiamente non l'ha fatto. Ha concluso la sua parte. Tutto qui. Domani ci saranno le arringhe riassuntive e Randolph parlerà per primo.» «Le tue sensazioni sono cambiate?» «Non proprio. I testi per la difesa erano validi, ma venivano da fuori. Boston si ritiene una mecca della medicina, e non credo che il fatto che venissero da università lontane abbia fatto una buona impressione ai giurati. I periti di Tony hanno avuto un peso maggiore.» «Mi dispiace ammetterlo, ma credo che tu abbia ragione.» «Se per caso scoprissi qualcosa, con ogni probabilità salveresti la situazione.» «Non credere che non lo sappia. In tutta sincerità, è la mia principale motivazione. Come sta Craig?» «Scoraggiato, come al solito. Forse è addirittura peggiorato. Mi preoccupa saperlo solo. Quando pensi di tornare a casa mia?» «Non lo so», rispose, provando sensi di colpa per non desiderare affatto di tornare in casa Bowman. «Potresti controllare come sta. Non mi piace quando mischia alcol e sonniferi.» «D'accordo, lo farò. Ora sono all'ospedale, devo sbrigarmi.» «Qualsiasi cosa succeda, apprezzo veramente i tuoi sforzi, Jack. Non saprai mai quanto mi è servito il tuo appoggio in questi ultimi giorni.» «Anche dopo l'episodio alle ragazze?» «Non potrei mai rinfacciartelo.» Dopo qualche altra parola affettuosa che lasciò Jack quasi commosso, si salutarono. Chiuse il cellulare e rimase seduto in macchina per un minuto, riflettendo sulle relazioni e su come cambiavano con il tempo. Provò una piacevole sensazione al pensiero che avevano ripreso l'intimità di un tempo, malgrado gli anni di separazione durante i quali lui stesso aveva lottato contro lo sconforto. Mentre scendeva dall'auto, sentì riemergere l'entusiasmo suscitato da Latasha. Contrariamente alla sua prima visita, ora il pronto soccorso era in piena attività. La sala d'aspetto era piena, quasi tutti i posti a sedere occupati. Alcune persone aspettavano all'esterno sulla rampa delle ambulanze. Era una notte calda, umida, quasi estiva. Jack dovette attendere in fila al banco dell'accettazione dietro una donna che teneva in braccio un neonato febbricitante. Il bambino lo fissò da sopra la spalla della madre con occhi velati e un'espressione vuota. Quando, arrivato al banco, stava per chiedere del dottor Matt Gilbert, apparve il medi-
co. Gettò un modulo di accettazione del pronto soccorso sul banco e in quel momento vide Jack. «La conosco», disse, additandolo. Stava chiaramente tentando di ricordare il nome. «Dottor Jack Stapleton.» «Ah, il patologo interessato alla rianimazione non riuscita.» «Ottima memoria.» «È l'eredità principale della facoltà di medicina. Che cosa possiamo fare per lei?» «Avrei bisogno di due minuti del suo tempo, spero anche con Georgina O'Keefe. È qui stasera?» «È la responsabile di tutto qui», disse ridendo l'impiegata all'accettazione. «C'è.» «So che questo non è il momento migliore», si scusò Jack, «ma abbiamo esumato il corpo e ho eseguito l'autopsia. Ho pensato che le sarebbe piaciuto sapere cosa ho scoperto.» «Certamente», ammise Matt. «E questo non è un brutto momento. Siamo impegnati, ma è tutta normale routine da ambulatorio o studio medico. Al momento non ci sono emergenze critiche. Torni nella sala d'aspetto, io intrappolerò Georgina.» Jack rimase solo per alcuni minuti e sfruttò quel tempo per rileggere le due pagine che costituivano la documentazione della permanenza al pronto soccorso di Patience Stanhope. Le aveva tirate fuori dal dossier mentre parlava con Alexis. «Bentornato», lo salutò Georgina irrompendo nella sala d'aspetto. Matt entrò dietro di lei. Indossavano entrambi camici bianchi sopra la tuta verde. «Matt mi ha riferito che ha esumato la signora Stanhope e che ha eseguito l'autopsia. Fantastico! Cos'ha trovato? Voglio dire, nessuno ci ha mai dato questo genere di informazioni.» «La cosa interessante è che il cuore è assolutamente normale. Nessun mutamento degenerativo di alcun tipo.» Georgina mise le mani sui fianchi. La bocca formò un sorrisetto deluso. «Pensavo che avremmo sentito qualcosa di sorprendente.» «È sorprendente, a modo suo», replicò Jack. «È raro che, con una morte cardiaca improvvisa, non si trovi alcuna patologia.» «È venuto fin qui solo per dirci di non avere trovato niente?» domandò incredula Georgina. Lanciò un'occhiata a Matt chiedendo il suo appoggio.
«In realtà, sono venuto a chiedervi se c'è la possibilità che le sia stata somministrata un'overdose di qualche farmaco o forse una medicina sbagliata.» «Di che genere di medicina sta parlando?» chiese. Il suo sorriso era scomparso, lasciando il posto a una diffidente perplessità. «Una qualsiasi. In particolare uno dei nuovi agenti fibrinolitici o antitrombotici. Non so. Siete per caso coinvolti in qualche studio randomizzato che implica pazienti che hanno avuto un infarto? Sono solo curioso. Non c'è nulla a questo riguardo sul modulo d'ingresso.» Jack allungò le due pagine a Georgina che vi diede un'occhiata. Matt le scorse guardando da sopra la sua spalla. «C'è tutto ciò che le abbiamo somministrato», confermò Georgina, sollevando la cartella clinica e guardando Matt per avere da lui un riscontro. «Proprio così», concordò Matt. «Era in punto di morte quando è arrivata, con una linea piatta sul monitor cardiaco. Abbiamo solo tentato di rianimarla. Non abbiamo neppure cercato di trattarla per l'infarto del miocardio. Che senso aveva?» «Non le avete somministrato medicamenti come la digitale?» «No», rispose Matt. «Non riuscivamo a ottenere neppure un battito cardiaco, neppure con stimolazione sequenziale bicamerale. Il suo cuore non reagiva affatto.» Jack spostò lo sguardo dall'uno all'altro. Qui finiva la teoria dell'overdose o del trattamento sbagliato. «Gli unici resoconti di laboratorio sugli appunti del pronto soccorso riguardano i gas presenti nel sangue. Non sono stati fatti altri esami?» «Quando preleviamo il sangue per l'emogas, ordiniamo anche emocitometria più elettroliti. E di fronte a infarti, anche esami dei marcatori biochimici.» «Se sono stati richiesti, come mai non ce n'è menzione nel modulo e non ci sono i risultati nella cartella del pronto soccorso? Il test dei gas presenti nel sangue c'è.» Matt prese la scheda dalle mani di Georgina e la scorse rapidamente, poi scrollò le spalle: «Non so, forse perché normalmente quei dati entrano nella cartella dell'ospedale, ma, visto che è morta tanto velocemente, non ha mai avuto una scheda d'accettazione». Alzò di nuovo le spalle. «Immagino non siano sul modulo ordini, perché si tratta di un esame di routine per tutti i sospetti di infarto del miocardio. Nella mia nota ho scritto che i livelli di sodio e potassio erano nella norma, qualcuno dovrebbe avere portato l'e-
sito al banco del pronto soccorso.» «Questo non è il pronto soccorso di una grossa città», spiegò Georgina. «Capita raramente che muoia qualcuno. Di solito vengono ammesse anche le persone in cattive condizioni.» «Possiamo chiamare il laboratorio e vedere se riescono a trovare i risultati?» domandò Jack. Non sapeva esattamente cosa fare con questa fortunata scoperta o se avesse qualche significato, ma si sentiva obbligato a vedere dove l'avrebbe portato questa pista. Cinque minuti dopo, Jack si ritrovò nel minuscolo ufficio privo di finestre del sovrintendente notturno del laboratorio, un uomo grande e robusto con pesanti palpebre che gli davano un aspetto assonnato. Stava fissando il monitor del computer con la testa inclinata all'indietro. La targhetta d'identificazione diceva: SALVE, SONO WAYNE MARSH. «Non trovo nulla sotto Patience Stanhope», bofonchiò Wayne. Aveva risposto alla telefonata dei colleghi con grande disponibilità e aveva invitato Jack nel suo ufficio. Era rimasto colpito dalle credenziali di Jack e, anche se aveva notato che il suo badge indicava New York e non Boston, non disse nulla. «Ho bisogno di un numero di ammissione, ma, se non è stata ricoverata in ospedale, non l'ha avuto.» «E se lo cercasse tramite la fattura?» suggerì Jack. «Qualcuno deve avere pagato gli esami.» «Nessuna fattura finora, ma non mi ha detto di avere una copia della cartella del pronto soccorso? Su quella deve esserci un numero di accettazione. Posso provare con quello.» Jack gli allungò le schede del pronto soccorso e Wayne immise il numero. «Eccolo qua», disse, appena la cartella apparve sullo schermo. «Il dottor Gilbert aveva ragione, abbiamo fatto un'emocitometria completa con elettroliti, piastrine e i soliti biomarcatori cardiaci.» «Quali?» «Creatinchinasi e troponina T cardiaca specifica appena arrivata al pronto soccorso con ripetizione a distanza ravvicinata dall'ammissione.» «Era tutto normale?» «Dipende dalla sua definizione di normale», ribatté Wayne. Ruotò il monitor, affinché potesse vedere anche Jack, e indicò la sezione con l'emocitometria. «C'è un leggero aumento nella conta dei globuli bianchi, cosa prevedibile in un attacco di cuore.» Il suo dito passò poi sugli elettroliti: «Il potassio è al limite della norma. Fosse rimasta in vita, avremmo verifi-
cato questo punto». Jack rabbrividì. Benché fosse passato un anno, aveva ancora vivo in mente lo spaventoso episodio del potassio di Laurie, quando era stata ricoverata d'urgenza per gravidanza ectopica. Poi notò i risultati dei biomarcatori. Sorpreso, vide che erano negativi e richiamò l'attenzione di Wayne. Il polso di Jack accelerò. Si era imbattuto in qualcosa di importante? «Non è insolito», spiegò Wayne. «Essendo migliorati i tempi di risposta alle chiamate al 911, capita spesso che le vittime di attacchi cardiaci arrivino al pronto soccorso entro le tre, quattro ore che occorrono ai marcatori biochimici per formarsi. Proprio per questo ripetiamo il test sei ore dopo l'ammissione.» Jack annuì, mentre immagazzinava questa nuova informazione. Si era dimenticato o non aveva mai saputo dei tempi necessari ai marcatori per diventare positivi? Non volendo apparire disinformato, formulò con cura la sua domanda: «La sorprende che un primo test eseguito in casa della paziente fosse positivo?» «Non proprio.» «Perché no?» «Ci sono molte variabili. In primo luogo, si ha una frequenza di falsi negativi di circa il quattro per cento e di falsi positivi del tre. I test si basano su anticorpi monoclonali altamente specifici, ma non sono infallibili. In secondo luogo, le attrezzature portatili analizzano la troponina I e non la troponina T. L'esame eseguito in casa era solo per la troponina I o anche per la mioglobina?» «Non lo so.» Cercò di ricordare cosa c'era scritto sulla scatola dei marker sierici nella borsa di Craig, ma non riuscì a visualizzarla. «Sarebbe importante saperlo. La componente della mioglobina diventa positiva più rapidamente, spesso entro solo due ore. Qual è l'intervallo temporale di questo caso?» Riprese in mano la scheda e lesse ad alta voce: «Il marito della paziente dichiara che il dolore al petto e gli altri sintomi si sono sviluppati tra le diciassette e le diciotto, probabilmente più verso le diciotto». Lo guardò. «È arrivata al pronto soccorso alle venti, per cui il periodo temporale è giusto, per quello che riguarda i nostri risultati, visto che erano passate meno di quattro ore. Sa quando è stato fatto il test in casa?» «No, ma direi attorno alle diciannove e trenta.» «Ecco, questo mi pare marginale, ma le ripeto, i test casalinghi non sono tarati tutti alla stessa maniera, devono essere conservati con cura e credo
abbiano anche una data di scadenza. Per questo motivo preferiamo la troponina T che ha un'elevata sensibilità diagnostica e restituisce risultati in breve tempo. Le piacerebbe vedere il nostro analizzatore Abbott? È una bellezza. Misura l'assorbenza alla lunghezza d'onda di quattrocentocinquanta nanometri con metodo spettrofotometrico. Se vuole dare un'occhiata, è proprio di fronte al laboratorio.» «Grazie, sarà per un'altra volta», si congedò Jack, per il quale la conversazione stava superando le sue conoscenze, e la visita era durata più di quanto avesse programmato. Non voleva fare aspettare Latasha. Ringraziò Wayne per il suo aiuto e tornò all'ascensore. Mentre scendeva al pianterreno, non poté evitare di chiedersi se l'analizzatore portatile di Craig avesse dato falsi positivi perché conservato in modo inadeguato o scaduto. E se Patience Stanhope non avesse avuto un infarto del miocardio? Di colpo si stava aprendo una nuova prospettiva, soprattutto perché aveva a disposizione i servizi di un tossicologo. Erano molti di più i farmaci che influenzavano in modo deleterio il cuore di quelli capaci di simulare un infarto. Jack si precipitò nella sua auto e compose rapidamente il numero di Latasha. Come aveva fatto con Alexis, mise il cellulare in vivavoce e lo appoggiò sul sedile del passeggero. Latasha rispose, mentre lui usciva dal parcheggio dell'ospedale. «Dov'è?» chiese la dottoressa. «Io sono nel mio ufficio con due pizze e due coche.» «Sto uscendo dall'ospedale. Mi dispiace averci messo tanto, ma ho appreso qualcosa che potrebbe essere rilevante. Il test dei marker sierici era negativo, quando è stato letto dall'analizzatore dell'ospedale.» «Ma lei mi aveva detto che era positivo.» «Sì, quando è stato eseguito dall'attrezzatura portatile al capezzale della donna.» Le spiegò ciò che aveva appreso dal supervisore di laboratorio. «In sostanza, non siamo neppure sicuri che abbia avuto un attacco di cuore, il che sarebbe compatibile con gli esiti ottenuti finora dell'autopsia.» «Precisamente, e se le cose stessero così, l'esame tossicologico si rivelerà d'importanza fondamentale.» «Ho già portato i campioni nel laboratorio e ho lasciato scritto ad Allan di chiamarmi appena arriva.» «Perfetto.» Non fosse stato per lei, avrebbe forse rinunciato dopo che non aveva scoperto nulla nel cuore. «Immagino che questo metta il marito afflitto in una scomoda posizio-
ne», soggiunse Latasha. «Ci sono ancora alcune incongruenze, ma nel complesso concordo, per quanto banale e venale suoni.» «Quando arriva?» «Appena posso. Sono per strada. Incominci a mangiare la pizza, finché è calda.» «L'aspetterò. Per tenermi occupata, mi sono messa a fare sezioni congelate del cuore.» «Non sono sicuro che mangerò molto. Mi sento carico come se avessi bevuto dieci tazze di caffè.» La salutò, spense il cellulare e controllò l'ora. Erano quasi le ventidue e trenta e l'amico di Latasha sarebbe arrivato di lì a poco. Sperava che avesse un sacco di tempo libero, dato che pensava di tenerlo occupato per buona parte della notte. Non s'illudeva che l'esame riuscisse a scoprire i veleni. Non era un procedimento semplice come lo dipingevano tutti i media. Grandi concentrazioni delle droghe conosciute si evidenziavano senza problemi, ma scoprire quantità minime di composti tossici e letali, capaci di uccidere un individuo con dosi molto piccole, era come trovare il proverbiale ago nel pagliaio. Si fermò a un semaforo e tamburellò con le dita sul volante con impazienza. La calda e umida aria di giugno si diffuse attraverso il finestrino mancante. Era contento di essere passato dall'ospedale, anche se ora non credeva più all'idea di un insabbiamento, ma proprio grazie a quella teoria era arrivato indirettamente a mettere in dubbio la causa della morte di Patience Stanhope. Il semaforo diventò verde e si avviò. Il problema era che avrebbe potuto avere un infarto. Wayne aveva ammesso che, anche con il suo straordinario analizzatore dell'assorbenza, la percentuale di falsi negativi era più alta di quella di falsi positivi. Sospirò. Quel caso non aveva nulla di semplice. Patience Stanhope si stava dimostrando una paziente difficile anche da morta. Gli venne in mente una barzelletta sugli avvocati: qual è la differenza tra un avvocato e una prostituta? La prostituta smette di fotterti quando muori. Patience stava assumendo alcune fastidiose qualità da avvocato. Per strada, ripensò anche alla sua promessa di controllare Craig, che probabilmente era immerso in un profondo sonno indotto dal sonnifero e dall'alcol. L'idea di passare da lui non lo entusiasmava e la considerò inutile. Craig non aveva affatto tendenze suicide e, da medico intelligente, era
conscio del potere dei medicamenti che assumeva. D'altra parte, andare a trovarlo gli avrebbe dato la possibilità di controllare il tipo di analizzatore e la data di scadenza. Fino a che non avesse avuto quell'informazione, non avrebbe potuto decidere se c'era o no una probabilità più alta del normale che il risultato fosse stato un falso positivo. 21 Boston Venerdì, 9 giugno 2006 01.30 Per quasi cinque minuti Jack aveva osservato le lancette dell'orologio da parete che si spostavano implacabilmente verso l'una e trenta del mattino. All'ultimo balzo della lancetta, trasse un profondo respiro. Non si era reso conto di avere trattenuto il fiato negli ultimi secondi. Tra dodici ore esatte si sarebbe sposato e tutti gli anni trascorsi a evitare la questione sarebbero diventati storia passata. Sembrava inconcepibile. Aveva praticamente istituzionalizzato il suo status di single. Sarebbe riuscito a vivere il matrimonio e a pensare a due persone invece che a una? «Tutto bene?» chiese Latasha, riportandolo alla realtà, stringendogli l'avambraccio. «Sì. Sto bene», sbottò. L'aveva spaventato. «Ho temuto che avesse una crisi di epilessia. Negli ultimi minuti non ha mosso un muscolo. Non ha neppure sbattuto le palpebre. A che cosa stava pensando che l'ha tanto incantata?» Nonostante la sua riservatezza, ci mancò poco che le raccontasse i suoi pensieri per ottenere un nuovo punto di vista. Anche se aveva riconosciuto di avere una profonda affinità con quella donna, questa reazione lo sorprese. Nelle sei ore passate a lavorare insieme avevano instaurato una spontanea familiarità. Quando Jack era arrivato all'istituto di medicina legale si erano impadroniti della biblioteca, i cui scaffali erano vuoti, in attesa di futuri finanziamenti. Il mobile più importante era un grande tavolo su cui Jack aveva sparpagliato il contenuto del dossier di Craig, sistemandolo in modo da poter trovare qualsiasi cosa di cui avesse avuto bisogno. A un'estremità del tavolo c'erano le scatole di pizza aperte, piatti e bicchieri di carta. Presi com'erano dall'enigma Stanhope, nessuno dei due aveva mangiato molto.
Nella biblioteca avevano portato anche lo stereomicroscopio a testata binoculare e, seduti ai lati opposti del tavolo, avevano trascorso molto tempo aprendo e seguendo tutte le arterie coronariche. Come le loro sorelle più grandi e più vicine, tutti i vasi periferici erano normali e liberi. Jack e Latasha avevano prestato particolare attenzione a quei rami che servivano il sistema di conduzione del cuore. L'ultima fase dell'esame del muscolo sarebbe stata quella al microscopio. Avevano preso campioni da tutte le zone del cuore, ma sempre concentrati nel sistema di conduzione e attorno a esso. Prima dell'arrivo di Jack, Latasha aveva fatto una serie di sezioni criostatiche di un piccolo campione e la prima cosa che avevano fatto assieme era stata colorarle e poi asciugarle all'aria. Subito dopo aver finito di colorare i vetrini, Latasha aveva chiamato Allan Smitham. A quanto pareva era felice di sentirla, o almeno così parve a Jack da quello che fu costretto, suo malgrado, a sentire della conversazione. Si sentì a disagio, ma la buona notizia fu che Allan era ansioso di dare una mano e che avrebbe fatto immediatamente l'esame tossicologico. «Non mi sono venute in mente altre idee», ammise Jack richiamando l'attenzione di Latasha. Quando i suoi occhi si erano spostati sull'orologio e si era perso tra i pensieri sul matrimonio spaventosamente imminente, avrebbe invece dovuto tentare di escogitare nuove teorie. Le aveva riferito tutte le sue vecchie ipotesi, ripetendo ciò che aveva detto ad Alexis al telefono. Gettando alle ortiche ogni residuo di amor proprio, menzionò l'idea dell'overdose o del medicamento sbagliato, sebbene con il senno di poi gli sembrasse assurda, quasi stupida. «Nemmeno io ho avuto qualche illuminazione», ammise lei. «Avrei riso di alcune delle sue teorie, ma devo dare merito alla sua creatività. Non riesco a farmi venire in mente altro.» «Forse mettendo insieme ciò che le ho detto io con parte di questo materiale, ci riuscirebbe.» Indicò il dossier sul tavolo. «Ci sono parecchie deposizioni.» «Mi piacerebbe leggerne alcune, se mi dicesse quali potrebbero rivelarsi utili.» «Tra tutte, dovrebbe leggere quelle di Craig Bowman e di Jordan Stanhope. Io intendo rileggere quello che hanno detto sui sintomi. Se l'ipotesi dell'avvelenamento fosse valida, anche i sintomi più piccoli sarebbero cruciali. Lei sa, come me, che alcuni veleni sono quasi impossibili da individuare nel complicato minestrone che è l'essere umano. Con ogni probabili-
tà dovremo dire ad Allan cosa cercare, affinché possa trovarlo.» «Dove sono le deposizioni del dottor Bowman e del signor Stanhope?» Jack le sollevò: erano entrambe belle corpose. Allungò il braccio e le porse a Latasha. «Perbacco!» esclamò la donna, stimandone il peso. «Che cosa è, Guerra e pace? Quante pagine sono?» «La deposizione di Craig è durata molto. Lo stenografo ha dovuto annotare ogni parola.» «Non credo di farcela alle due del mattino», gemette, lasciando cadere il plico sul tavolo. «È tutto dialogo con un sacco di spaziature. In realtà si scorre rapidamente.» «Che ci fanno qui queste ristampe scientifiche?» chiese Latasha sollevando il plico di pubblicazioni mediche. «Il dottor Bowman è l'autore principale della maggior parte di quelle pubblicazioni e coautore nel resto. L'avvocato di Craig aveva pensato di presentarle come prova a favore del suo impegno medico per ribattere allo stratagemma di Fasano di distruggere la reputazione dell'imputato.» «Questo l'ho letto. Era uscito sul Journal», ricordò Latasha, mostrando l'articolo sui canali del sodio. Jack ne rimase di nuovo colpito. «Trova il tempo di leggere simili cose esoteriche?» «Non è nulla di esoterico», replicò lei con una risatina di disapprovazione. «Attualmente la fisiologia delle membrane è importante in quasi ogni campo della medicina, particolarmente in farmacologia e immunologia, anche nelle malattie infettive e nel cancro.» «D'accordo, d'accordo», si schermì Jack, alzando le mani. «Ritiro tutto. Il mio problema è che ho frequentato la facoltà di medicina nel secolo scorso.» «Una misera giustificazione», replicò Latasha. Diede una scorsa alle pagine di Craig. «I canali del sodio sono alla base della funzione dei muscoli e dei nervi. Se non funzionano, non funziona niente.» «Okay, ho capito. Dovrò sgobbare per mettermi alla pari.» Improvvisamente prese vita il cellulare di Latasha. Nel silenzio, fece sobbalzare entrambi. Lo afferrò, diede un'occhiata al display e poi lo aprì. «Che succede?» chiese senza preamboli, premendo il cellulare all'orecchio. Jack tentò di sentire la voce all'altro capo senza riuscirci. Immaginò e
sperò fosse Allan. La conversazione fu breve e tutto ciò che disse Latasha fu: «D'accordo». Spense il telefono e si alzò. «Che c'è?» «Allan vuole che andiamo nel suo laboratorio, che è dietro l'angolo. Credo valga la pena, se vogliamo tenerlo occupato sul nostro materiale. È dei nostri?» «Sta scherzando?» chiese Jack in tono retorico. Spinse indietro la sedia e si alzò. Jack non si era reso conto che l'istituto era parte dell'enorme complesso del Boston City Hospital Medical Center. Malgrado l'ora, notò numerosi dipendenti del centro medico, tra cui parecchi studenti di medicina che si spostavano tra i vari edifici. Nessuno sembrava andare di fretta, a dispetto dell'ora. Tutti godevano dell'aria tiepida che soffiava fuori. Sebbene tecnicamente fosse ancora primavera, sembrava una notte estiva. Il laboratorio di tossicologia era a soli due isolati in una struttura moderna di otto piani in vetro e acciaio. In ascensore Jack la osservò, gli occhi scuri fissi sugli indicatori di piano in attesa del sesto, il viso che rispecchiava una comprensibile stanchezza. «Mi scuso in anticipo, se dico qualcosa di inappropriato», esordì, «ma ho la sensazione che lo sforzo che Allan è disposto a dedicare a questo caso dipenda da sentimenti non corrisposti che prova per lei.» «Forse», fu la risposta evasiva. «Spero che aver accettato il suo aiuto non la metta in una posizione sgradevole.» «Penso di poterla affrontare», ribatté in un tono che sentenziava: fine della discussione. Il laboratorio era all'avanguardia e quasi deserto. Oltre ad Allan c'erano solo altri due tecnici impegnati dall'altra parte della grande stanza. C'erano tre file di panche che gemevano sotto il peso di lucide attrezzature nuove. Allan era un bel ragazzo dall'aspetto imponente, la struttura muscolosa era a malapena nascosta da un camice bianco con le maniche arrotolate sopra un'aderente T-shirt nera che lasciava vedere una pelle lucida color mogano, di una o due tonalità più scura di quella di Latasha. I vivaci occhi erano puntati sulla sua vecchia amica del college. Latasha gli presentò Jack, che si meritò solo una breve ma ferma stretta di mano e una rapida occhiata di stima. Ad Allan interessava solo la ragazza, cui elargì un ampio sorriso colmo di denti sorprendentemente bianchi.
«Non dovresti scomparire così, ragazzina», la rimproverò, indicando il suo minuscolo, ma funzionale ufficio. Si sedette sulla scrivania, lasciando a loro due sedie dallo schienale rigido. «Il suo laboratorio è fantastico», osservò Jack. «Seppure scarso di personale.» «Solo per questo turno», spiegò Allan. Stava ancora sorridendo a Latasha. «In quanto a numero di impiegati, la differenza tra noi e il turno diurno è come il giorno e la notte.» Rise alla sua stessa battuta. Non mancava di senso dell'umorismo. «Cosa hai trovato con i nostri campioni?» chiese Latasha per tornare al tema più importante. «Ah, sì», disse Allan, battendo le dita le une contro le altre. «Nel tuo biglietto mi hai dato qualche informazione, che vorrei rivedere con te per essere certo di avere capito. La paziente è morta per un attacco di cuore circa nove mesi fa. È stata imbalsamata, interrata ed esumata di recente. E tu vuoi escludere il coinvolgimento di qualche droga.» «Mettiamola in modo ancora più succinto», disse Latasha. «La sua morte era stata considerata naturale, ma noi vogliamo essere sicuri che non si tratti di omicidio.» «D'accordo.» «Qual è stato il risultato dello screening?» chiese con impazienza Latasha. «Perché la tiri tanto per le lunghe?» Jack rabbrividì a quel tono. Il fatto che fosse poco gentile con quell'uomo che stava facendo loro un enorme favore lo mise a disagio. Intuì che c'era qualcosa tra i due di cui non sapeva né voleva sapere. «Voglio essere certo che interpreterete in modo corretto le mie scoperte», borbottò in tono difensivo Allan. «Siamo entrambi patologi legali», proruppe Latasha. «Siamo al corrente dei limiti di uno screening tossicologico.» «Tanto al corrente da sapere che il valore predittivo di un test negativo è soltanto del quaranta percento?» chiese Allan, sollevando le sopracciglia. «E questo con un corpo morto relativamente da poco e non imbalsamato.» «Stai dicendo che lo screening tossicologico è stato negativo?» «Sì, decisamente negativo.» «Mio Dio, un altro buco nell'acqua», gemette Latasha. Roteò gli occhi e agitò le braccia. «Di quali farmaci è costituito il suo screening?» chiese Jack. «La digitale è compresa?»
«Sì, è inclusa», rispose Allan alzandosi a metà per porgere a Jack l'elenco dei farmaci dello screening tossicologico del laboratorio. Jack scorse il foglio e rimase colpito dal numero di farmaci inclusi. «Che metodo utilizzate?» «Una combinazione di cromatografia e analisi immunitaria a enzimi.» «Avete la gascromatografia e la spettrografia di massa?» «Può scommetterci», rispose con orgoglio Allan. «Ma se vuole che usi l'artiglieria, deve darmi un'idea di ciò che devo cercare.» «Al momento possiamo darle solo un'idea generale», rispose Jack. «Per come sono stati riferiti i sintomi della paziente, se fossero coinvolti farmaci o veleni, andremmo alla ricerca di qualcosa capace di produrre una frequenza delle pulsazioni cardiache decisamente lenta che non risponde ai tentativi di stimolazione elettrica e un calo dell'attività respiratoria, dal momento che è stata descritta anche come cianotica.» «Sta ancora parlando di una rosa troppo ampia di potenziali farmaci e veleni», replicò Allan. «Senza ulteriori particolari, mi sta chiedendo un miracolo!» «Lo so», ammise Jack. «Ma Latasha e io ci rimetteremo a pensare e cercheremo di trovare qualche altro probabile candidato.» «Sarebbe meglio», bofonchiò. «Altrimenti finirà per essere solo una perdita di tempo. Io devo per prima cosa capire cosa ignorare con tutti questi liquidi per l'imbalsamazione tra i piedi.» «Lo so», ripeté Jack. «Come mai prendete in considerazione l'omicidio?» chiese Allan. «Se mi posso permettere questa domanda.» I due patologi si scambiarono un'occhiata, incerti su quanto rivelare. «Abbiamo fatto l'autopsia solo poche ore fa!» esclamò Latasha. «Non abbiamo trovato niente. Nessuna patologia cardiaca, il che non ha senso, tenuto conto dell'anamnesi.» «Interessante», commentò Allan pensoso, fissando Latasha. «Fammi capire. Vuoi che faccia tutto questo lavoro che mi impegna tutta la notte e vuoi che lo faccia in gran segreto. È questo che stai dicendo?» «Certo che vogliamo che lo faccia tu!» sibilò Latasha. «Che ti succede? Per quale altro motivo saremmo seduti qui?» «Non intendo te e il tuo dottore», ribatté Allan, gesticolando nella direzione di Jack. «Intendo tu personalmente.» «Sì, voglio che lo faccia tu, va bene?» esplose Latasha, alzandosi in piedi.
«D'accordo.» Sul viso di Allan era apparso un sorriso soddisfatto. Latasha uscì dall'ufficio. Sorpreso da questa inattesa fine dell'incontro, Jack si alzò e cercò uno dei suoi biglietti da visita. «Nel caso volesse chiedermi qualcosa», disse mettendolo sulla scrivania. Poi prese uno dei biglietti di Allan da un piccolo contenitore in plexiglas. «Le sono grato del suo aiuto. Grazie.» «Si figuri.» Il sorrisetto compiaciuto era ancora visibile. Jack raggiunse Latasha all'ascensore. Non disse nulla, fin quando non iniziarono la discesa. «È stata una conclusione un po' precipitosa.» Jack finse di non guardarla, fissando gli indicatori di piano. «Già, mi stava dando sui nervi. È un bastardo vanitoso.» «Avevo intuito che non ha problemi di autostima.» Lei rise e si rilassò. Uscirono nella notte. Mancava poco alle tre, ma c'era ancora gente per strada. Mentre si avvicinavano all'istituto di medicina legale, Latasha finalmente parlò: «Immagino si sia chiesto perché mi sono comportata in modo sgarbato». «Mi è passato per la mente.» «Allan e io eravamo molto legati durante l'ultimo anno del college, ma poi è successo qualcosa che mi ha fatto vedere un tratto della sua personalità che non mi è piaciuto.» Aprì con la chiave la porta e salutò con la mano l'addetto alla sicurezza. Si avviarono su per l'unica rampa di scale e continuò: «Ho temuto di essere incinta. Quando gliel'ho detto, la sua reazione è stata quella di piantarmi. Non ho mai neppure ricevuto una risposta alle mie telefonate, per cui l'ho cancellato dalla mia vita. E non ero neppure incinta. Da un anno, da quando ha scoperto che lavoro qui, ha cercato di riallacciare, ma a me non interessa. Mi scusi se l'ho messa a disagio». «Non c'è bisogno di scusarsi. Spero solo di non essere stato io a causarle dei problemi, accettando il suo aiuto.» «Dopo tutti questi anni, ero convinta di saper affrontare la situazione, ma il solo vederlo mi ha fatto tornare in mente tutto e mi sono arrabbiata di nuovo. Penserà che me ne sarei ormai dovuta dimenticare.» Entrarono in biblioteca, dove il disordine era come l'avevano lasciato. «Che ne dice di esaminare i vetrini che abbiamo colorato?» suggerì. «Forse dovrebbe andare a casa e farsi una dormita. Lei non ha motivo di passare la notte in bianco. Voglio dire, adoro l'aiuto e la compagnia, ma questo è davvero chiedere troppo.»
«Non si libererà di me tanto facilmente», ribatté Latasha con un sorriso civettuolo. «Quando frequentavo medicina ho imparato che per me, arrivata a quest'ora, è meglio restare sveglia. Inoltre, mi piacerebbe risolvere il caso.» «Io devo tornare a Newton.» «All'ospedale?» «No, a casa Bowman. Ho promesso a mia sorella che avrei dato un'occhiata a suo marito per accertarmi che non fosse caduto in coma. È depresso e mescola scotch con qualche sonnifero.» «Ho dovuto fare l'autopsia a parecchi così.» «Non credo ci sia da preoccuparsi, ha un'opinione troppo alta di sé, ma vorrei approfittarne per controllare l'analizzatore portatile che ha usato con Patience per vedere se c'è un qualche ragionevole motivo per sospettare che abbia avuto come risultato un falso positivo. Se fosse stato così, la probabilità che non si sia trattata di morte naturale sale di molto.» «Che ne direbbe di un suicidio?» azzardò Latasha. «Non l'ha neppure lontanamente considerato? Come mai?» Jack si grattò la nuca. Era vero che non ci aveva mai pensato e si chiese perché. Ricordò quanti casi si erano rivelati diversi da quello che sembravano. L'ultimo riguardava la moglie di un diplomatico iraniano che si supponeva si fosse suicidata, e invece era stata uccisa. «Non so perché non ho nemmeno lontanamente pensato al suicidio», le rispose, «tenuto conto di alcune delle mie altrettanto improbabili teorie.» «Da quel poco che mi ha detto della donna, non mi sembrava molto felice.» «È vero, ma questo è l'unico particolare a favore del suicidio. Lo terremo a mente assieme alla mia teoria della cospirazione dell'ospedale. Ora però vado. Naturalmente mi farebbe molto piacere se mi accompagnasse, ma se fossi in lei andrei a casa.» «Resto qui.» Spostò la copia delle deposizioni di Jordan e Craig di fronte a una delle sedie e si sedette. «Nel frattempo mi aggiornerò leggendo. Dove sono le cartelle cliniche?» Jack gliele allungò. Latasha prese una corta striscia dell'elettrocardiogramma che spuntava dal plico. «Questo cos'è?» «È una registrazione fatta dal dottor Bowman appena arrivato al capezzale di Patience. Sfortunatamente è quasi inutile. Non riusciva neppure a ricordare dov'erano posizionate le derivazioni. Aveva dovuto smettere per-
ché le sue condizioni erano tanto gravi e peggioravano rapidamente.» «Qualcuno le ha dato un'occhiata?» «Tutti gli esperti l'hanno esaminata, ma senza conoscere le derivazioni e non potendo immaginare dov'erano gli elettrodi, non hanno potuto dire molto. Erano tutti concordi nell'affermare che la spiccata bradicardia indicava un blocco atrioventricolare. Tra quello e altre anomalie del sistema di conduzione, hanno tutti ritenuto che fosse compatibile con un infarto.» «Peccato non ci sia qualcosa di più.» «Me ne vado così posso tornare presto. Terrò il cellulare acceso, se dovesse scoprire qualcosa o se Allan compisse un miracolo.» «Ci vediamo.» Latasha stava già leggendo rapidamente la deposizione di Craig. Alle tre del mattino, Jack attraversò senza problemi Boston. Ad alcuni semafori la sua auto era l'unico veicolo in attesa del verde. La Massachusetts Turnpike fu tutt'un'altra storia. Non era affollata, ma c'era più traffico di quanto avesse previsto, e si chiese stupito cosa ci facesse tanta gente in giro a quell'ora. In uno stato d'animo più rilassato, riuscì a riflettere sull'intera situazione in modo più metodico e a comprendere quale sarebbe stato l'esito più probabile. In primo luogo avrebbe deciso che, in mancanza di prove che dimostrassero il contrario, Patience Stanhope era deceduta per un massiccio attacco di cuore malgrado non presentasse alcuna chiara patologia; in secondo luogo che Fasano e soci erano con grande probabilità dietro l'aggressione alle figlie di Craig e Alexis per banali motivi economici. Fasano aveva chiaramente stabilito la giustificazione logica quando aveva minacciato Jack. Arrivato a casa Bowman, la sua smania si era trasformata in sconforto. Si chiese di nuovo se il motivo per cui era ancora a Boston, immaginando cospirazioni al di fuori degli schemi, avesse più a che fare con semiconsapevoli timori riguardo l'imminente matrimonio che con il tentativo di aiutare la sorella e il cognato. Posteggiò accanto alla Lexus di Craig e scese con l'ombrello in mano. Si guardò attorno per vedere se c'era ancora la macchina della polizia notata al mattino. Non la vide. Bella sorveglianza. Si girò e si trascinò su per il vialetto d'accesso. La stanchezza si stava facendo sentire. La casa era buia, a parte una lucina che filtrava dai vetri laterali della porta. Inclinando la testa all'indietro, Jack controllò le finestre della camera
da letto al primo piano. Erano nere come l'onice e riflettevano la luce di un lontano lampione. Infilò silenziosamente la chiave nella serratura; non voleva entrare di soppiatto, ma neppure svegliare Craig. In quel momento Jack si ricordò del sistema d'allarme. Con la chiave nella serratura, tentò di ricordare il codice. Benché stanco, ci mise solo un minuto per rammentarlo. Quando si sentì pronto, girò la chiave. Il meccanismo gli parve assordante nel silenzio della notte. Entrò rapidamente e fissò la pulsantiera del sistema antintrusione. Era disattivato. Una spia verde indicava che era tutto a posto. Chiuse silenziosamente la porta. In quel momento sentì il suono smorzato della televisione provenire dal soggiorno. Dalla stessa direzione si diffondeva nel buio corridoio anche un po' di luce. Immaginando che Craig si fosse addormentato davanti al televisore, percorse il corridoio ed entrò nel salotto, ma il cognato non c'era. La TV sopra il caminetto era sintonizzata su un canale di notizie, le luci in quella parte della sala erano accese, mentre la cucina e la zona pranzo erano al buio. Sul tavolino da caffè di fronte al divano c'era una bottiglia vuota di whisky, un bicchiere e il telecomando. Per forza d'abitudine, Jack prese il telecomando e spense il televisore. Tornò poi nel corridoio e lanciò un'occhiata al piano superiore completamente buio e poi allo studio, fiocamente illuminato dai lampioni attraverso la finestra a bovindo. Si chiese se controllare subito Craig o l'analizzatore. Non era una decisione difficile. Di fronte a una scelta, faceva quasi sempre prima la cosa meno piacevole, che in questo caso era salire dal cognato. Non che la ritenesse complicata, ma entrando in camera sua rischiava di svegliarlo, e non voleva farlo per svariati motivi, il più importante dei quali era la convinzione che Craig non avrebbe apprezzato la sua presenza, anzi probabilmente si sarebbe offeso e irritato. Guardò nuovamente verso l'alto. Jack tornò in cucina a cercare una torcia che di sicuro Alexis teneva in un cassetto. La trovò in lavanderia e cominciò a salire le scale. In cima, lasciò filtrare tra le dita sufficiente luce per illuminare il corridoio prima in una direzione poi nell'altra. Girò a destra. Non ricordava dov'era la camera di Craig e, al buio e stanco, aprì una porta a caso, si affacciò e fece scorrere dentro la luce della torcia. Era una di quelle delle ragazze e, dai poster, le foto, i ninnoli e gli abiti sparpagliati, intuì che era quella di Tracy. Chiuse la porta e passò a quella successiva. Stava per a-
prirla quando notò che la porta in fondo al corridoio era a doppia anta. Gli parve di ricordare che fosse quella giusta. Premendo la torcia contro lo stomaco per oscurarla del tutto, schiuse l'anta che si apriva verso l'interno. Entrato, comprese subito che era la stanza che cercava. Sotto i piedi sentì una folta moquette. Per un attimo rimase immobile, sforzandosi di sentire il respiro di Craig, ma la stanza era silenziosa. Alzando lentamente la torcia, la sua luce si propagò in profondità e dal buio emerse un grande letto matrimoniale. Craig giaceva sul lato opposto a Jack. Incerto sul da farsi, rimase immobile. Alla fine decise di avvicinarsi e di ascoltare il respiro di Craig. Se gli fosse parso normale, avrebbe concluso che stava bene, anche se non era un metodo molto scientifico. Ridusse il fascio della torcia, aiutato più dal ricordo che da ciò che vedeva. Dalla strada, solo una misera quantità di luce filtrava attraverso la finestra, ma era sufficiente per dare a Jack un vago profilo dei mobili più grandi. Giunto ai piedi del letto, si fermò e tese le orecchie cercando di sentire i sibilanti suoni intermittenti del respiro di chi dorme. La camera era mortalmente quieta. Jack provò una scarica di adrenalina. Orripilato, dovette ammettere di non sentire nulla: Craig non respirava! 22 Newton Venerdì, 9 giugno 2006 03.25 I secondi successivi furono molto confusi. Appena si rese conto che suo cognato non respirava, si lanciò in avanti per raggiungere il letto, valutare rapidamente le condizioni e, se necessario, iniziare la rianimazione cardiopolmonare. Quel repentino scatto salvò la vita a Jack, che, un attimo dopo, si rese conto di non essere da solo nella camera. C'era un'altra sagoma, vestita di nero, che balzò fuori dal vano della porta della stanza da bagno, brandendo un grosso bastone che sventolò sul punto in cui un attimo prima c'era la testa di Jack. Sebbene il colpo avesse mancato il bersaglio, lo prese alla spalla sinistra, provocandogli un dolore lancinante e indebolendogli le ginocchia, ma non
l'atterrò. Jack teneva ancora stretta in mano la torcia, che puntò nella camera, mentre strisciava oltre il fondo del letto, per non restare intrappolato dall'intruso. Più per istinto che per avere visto la sagoma balzare verso di lui, comprese che stava per arrivare un altro colpo. Si abbassò, quindi, ritenendo che l'attacco fosse la miglior difesa, si lanciò in avanti e sbatté la spalla contro l'aggressore come per placcarlo. Strinse l'uomo alle cosce e, con la potenza delle gambe rafforzate dalle corse in bicicletta, riuscì a spingerlo indietro prima che entrambi cadessero a terra. Vicini com'erano, Jack pensò di poter sfruttare meglio la torcia come arma, mentre la lunghezza del bastone impacciava l'aggressore. Lasciate andare le cosce dell'uomo, Jack l'afferrò per la camicia e sollevò la torcia con l'intenzione di colpirlo in fronte. In quell'attimo, il raggio illuminò il viso dell'uomo. Fortunatamente, prima di colpire, lo riconobbe. Era Craig. «Craig?» gridò incredulo Jack, abbassando la luce per illuminare il viso di Craig. «Jack?» esclamò a sua volta Craig, alzando la mano libera per ripararsi gli occhi dal fascio accecante. «Perdio!» inveì Jack. Lo lasciò andare, spostò il raggio della torcia e si alzò in piedi. Anche Craig si rialzò e andò ad accendere la luce. «Perché diavolo sei entrato di soppiatto in casa mia a quest'ora?» Lanciò un'occhiata all'orologio sul comodino. «Sono le tre e mezzo del mattino!» «Posso spiegartelo.» Una fitta di dolore alla spalla lo fece sobbalzare. Esitante, si toccò e trovò un punto molle nell'articolazione tra clavicola e spalla. «Buon Dio!» gemette Craig, lanciando la mazza da baseball sul letto e avvicinandosi a Jack. «Mi dispiace d'averti colpito. Avrei potuto ucciderti. Stai bene?» «Ho ricevuto colpi peggiori.» Rivolse lo sguardo al letto. Quello che aveva creduto fosse Craig era un ammasso di cuscini e coperte. «Posso dare un'occhiata?» chiese premuroso il cognato. «Perché no?» Craig gli afferrò il braccio e gli appoggiò con delicatezza una mano sulla spalla. Ruotò il braccio, poi lo sollevò lentamente. «Fa male?» «Un po', ma il movimento non peggiora il dolore.» «Non credo ci sia niente di rotto, ma sarebbe bene fare una radiografia. Potrei portarti al Newton Memorial, se vuoi.»
«Per ora ci metterò su solo del ghiaccio.» «Buona idea! Vieni giù in cucina che te lo preparo.» Mentre percorrevano il corridoio, Craig disse: «Ho il cuore a mille. Pensavo fossi uno di quei due delinquenti che hanno maltrattato le mie figlie, tornato per mettere in atto la sua minaccia. Ero pronto a mandarti all'altro mondo». «E io ho pensato la stessa cosa di te.» Notò che Craig indossava un accappatoio scuro e non una tuta da ninja, come aveva immaginato. Sentì anche la pistola nella tasca della giacca sbattergli contro il petto. Per fortuna, nella frenesia del momento non ci aveva neppure pensato. Craig portò un sacchetto di ghiaccio a Jack che, seduto a un'estremità del divano, lo premette sulla spalla. Craig crollò all'altro lato, una mano sulla fronte. «Me ne vado subito, così puoi tornare a dormire», disse Jack. «Ma prima ti devo una spiegazione.» «Sono tutto orecchi. Prima d'andare a letto, sono sceso per controllare la casa. Di certo non aspettavo te, soprattutto a quest'ora, e non m'aspettavo che ti aggirassi furtivamente.» «Avevo promesso ad Alexis che sarei passato a vedere come stavi.» «Hai parlato con lei questa sera?» «Sì, sul tardi. È molto preoccupata perché mescoli alcol e sonniferi, e non posso darle torto. Ho fatto parecchie autopsie a gente che si è fatta di questi mix.» «Non ho bisogno del tuo consiglio.» «Giusto. Ciononostante, mi ha chiesto di venire a controllare. Io non pensavo ce ne fosse bisogno e se me ne andavo in giro in silenzio è solo perché non volevo svegliarti e temevo ti arrabbiassi con me.» Craig si tolse la mano dalla faccia e lo fissò: «Su questo hai ragione». «Mi spiace, l'ho fatto per mia sorella. Temeva che fossi più sconvolto del solito dopo ciò che è successo al processo.» «Almeno sei sincero. Immagino che dovrei considerarlo un favore, ma non è facile. Sono stato costretto a vedermi sotto una luce per nulla lusinghiera. Sono stato un testimone orribile, ridicolo e controproducente. Ripensandoci, mi sento imbarazzato.» «Come pensi sia andato il pomeriggio con gli esperti della difesa?» «Discretamente. È stato bello sentire una volta tanto qualche parola positiva, ma non credo sia stato sufficiente. A meno che domani Randolph non faccia una prestazione da Oscar con l'arringa riassuntiva, cosa di cui dubi-
to, secondo me la giuria si pronuncerà a favore di quel bastardo di Jordan.» Sospirò scoraggiato. Fissava lo schermo spento del televisore. «Sono venuto qui a quest'ora anche per un altro motivo», ammise Jack. «E cioè?» Craig si girò a guardarlo, gli occhi lucidi come se stesse per piangere, ma fosse troppo imbarazzato per farlo. «Non mi hai detto nulla dell'autopsia. L'hai fatta?» «Sì.» Raccontò brevemente quello che era successo, iniziando dall'esumazione e finendo con l'incontro con il tossicologo. Mentre parlava, Craig si rianimava, specialmente di fronte alla questione del tossicologo e alla possibilità della presenza di un atto criminale. «Se il tossicologo riuscisse a trovare una droga o un veleno, sarebbe la fine di questa assurda causa.» Si sedette più eretto. «Senza dubbio», ammise Jack, «ma le probabilità sono scarse. Eppure, se Patience non avesse avuto un infarto, si aprirebbe la possibilità di molti più potenziali agenti. C'è un altro motivo per cui sono venuto qui stasera. Volevo dare un'occhiata al contenitore del tuo analizzatore portatile. C'è qualcosa che ti porterebbe a pensare che il tuo risultato possa essere stato un falso positivo?» Craig sollevò un sopracciglio, mentre meditava sulla domanda. «Non mi viene in mente niente. Vorrei poterlo fare, ma così non è.» «Il supervisore del laboratorio all'ospedale mi ha chiesto se il kit che hai usato tu misurava sia la troponina I, sia la mioglobina o solo la troponina I.» «È quello con la mioglobina. Avevo deciso di prendere quello perché dà un risultato in due ore.» «Quegli apparecchi hanno date di scadenza?» «Che io sappia, no.» «Allora immagino che dovremo limitare i possibili agenti a quelli capaci di provocare un attacco di cuore.» «Che ne dici della digitale?» chiese Craig. «Ci ho pensato e faceva parte dello screening. Non c'entra.» «Vorrei essere di maggior aiuto», bofonchiò Craig. «Mi sento impotente ed è una sensazione terribile.» «Potresti aiutare facendoti venire in mente su quale droga cardiotossica potessero mettere le mani Patience o Jordan.» «Aveva un armadietto dei farmaci bello ricco, grazie al mio socio Ethan Cohen. Ma è stato preso in considerazione durante la fase istruttoria del processo.»
«Ho dato una scorsa a quella documentazione», dichiarò Jack, alzandosi. Dopo quei minuti di rilassamento, sentiva le gambe pesanti. Avrebbe avuto bisogno di un bel caffè prima che la nottata terminasse. «Sarà meglio che vada a vedere se il tossicologo ha avuto fortuna e tu faresti meglio a tornare a letto.» Si avviò. «Intendi lavorare tutta la notte?» chiese Craig, accompagnandolo. «A quanto pare. Dopo tutto quello che è successo, vorrei poter ottenere qualche risultato positivo, anche se mi sembra improbabile.» «Non so che dire, se non ringraziarti per tutti i tuoi sforzi.» «Grazie. Essere venuto qui è stato comunque un bene, a parte i guai che ho causato e le botte che mi sono preso, perché ho riallacciato il rapporto con Alexis.» Alla porta Craig indicò lo studio. «Vuoi che vada a prendere la borsa e ti mostri l'analizzatore? Sono sicuro che è lo stesso contenitore. Da allora, non faccio molte visite a domicilio.» Jack scrollò la testa. «No, non occorre, mi hai detto ciò che avevo bisogno di sapere.» «Ci vedremo domani in tribunale?» «Dubito. Ho alcuni programmi personali urgenti che mi impongono di prendere il primo volo per la Grande Mela. Buona fortuna!» Si strinsero la mano. Anche se non erano diventati amici, ora si conoscevano e si apprezzavano di più. Il tragitto in città poco dopo le quattro del mattino fu uguale a quello in senso inverso di un'ora prima. Ci mise meno di venti minuti per raggiungere l'istituto di medicina legale. Parcheggiò in un posto riservato, pensando che, dovendo partire entro poco, non importasse. L'agente della sicurezza lo riconobbe e lo fece entrare. Mentre saliva le scale, guardò l'orologio. Pensò che tutto si sarebbe risolto all'ultimo secondo. In meno di due ore sarebbe stato a bordo di un aereo. Entrando nella biblioteca, guardò sorpreso la confusione che vi regnava. Latasha sembrava stesse studiando per gli esami di specializzazione. Sul tavolo c'erano numerosi grossi libri che aveva preso dagli scaffali e Jack ne riconobbe la maggior parte. Testi di medicina interna, fisiologia, tossicologia e farmacologia. Il materiale del dossier che Jack aveva ben sistemato giaceva ora sparpagliato a caso, almeno ai suoi occhi. «Che diavolo stai combinando?» chiese ridendo Jack. La testa di Latasha saltò fuori da un libro aperto, «Bentornato, stranie-
ro!» Jack chiuse un paio di libri che non aveva riconosciuto. Dopo avere letto i titoli, li riaprì alla pagina letta da Latasha, quindi le si sedette di fronte. «Che le è successo alla spalla?» Jack continuava a premere il sacchetto con il ghiaccio sul livido. Ormai conteneva più acqua che altro, ma era ancora tanto freddo da fornire un qualche beneficio. Le raccontò cosa era successo e lei criticò Craig. «Non è stata colpa sua. Questo caso mi ha talmente preso, che non mi sono neppure fermato a chiedermi perché mai non l'ho avvertito. Voglio dire, dopo che qualche malintenzionato era entrato e aveva terrorizzato le sue figlie perché non eseguissi l'autopsia, che io avevo appena fatto... Perdio, a che diavolo stavo pensando?» «Ma lei era suo ospite. Avrebbe dovuto assicurarsi chi era la persona che stava colpendo con la mazza da baseball.» «Non ero più suo ospite. Ma non parliamone. Grazie a Dio nessuno si è fatto male. Credo sia solo una contusione. Dovrò farmi fare una radiografia.» «Guardi il lato positivo. Si è definitivamente accertato che non fosse in stato comatoso.» Jack sorrise. «E l'analizzatore portatile? Ha scoperto qualcosa?» «Niente che abbia sollevato la possibilità che lui abbia ottenuto un falso positivo. Dobbiamo supporre che il risultato fosse valido.» «È un bene, no? Elimina parecchi agenti letali.» «A quanto pare è stata molto occupata.» «Non ne ha idea. Mi sono fatta un'iniezione di energia con una Diet Coke. È stato come un corso di ripasso in tossicologia accelerato. Non avevo più studiato queste cose dagli esami per diventare patologa legale. «E Allan? Ha telefonato?» «Parecchie volte, per l'esattezza, ma meglio così. Più sento la sua voce, più facilmente riesco a non riportare alla luce vecchi ricordi e a non incazzarmi.» «Ha trovato qualcosa?» «No. Niente. A quanto pare sta tentando di impressionarmi e, vuole sapere una cosa? Ci sta riuscendo. Voglio dire, sapevo che era intelligente già dai tempi del college con le sue specializzazioni in chimica, matematica e fisica, ma non sapevo che avesse ottenuto un dottorato di ricerca al MIT. So che per conseguire quel titolo ci vuole un bel cervello e molta
perseveranza.» «Le ha detto cosa ha eliminato?» «La maggior parte degli agenti cardiotossici più comuni che non erano nello screening. Mi ha spiegato alcuni dei suoi trucchi. Gli elementi chimici dell'imbalsamazione hanno complicato la ricerca sui campioni dei tessuti, come quelli del cuore e del fegato, per cui si sta focalizzando sui liquidi, dove la concentrazione è minore.» «Perché allora tutti questi testi?» «Ho cominciato riesaminando gli agenti cardiotossici, molti dei quali, ho appreso, possono provocare attacchi di cuore o almeno danni al muscolo cardiaco tali da risultare clinicamente come attacco cardiaco anche in assenza di occlusione dei vasi. Voglio dire, è questo ciò che abbiamo scoperto con l'autopsia. È anche ciò che ho scoperto dalle sezioni criostatiche colorate. I capillari sembrano normali. Ho lasciato il vetrino nel microscopio nel mio ufficio, in caso volesse dargli un'occhiata.» «Le credo sulla parola. Non m'aspettavo di vedere niente.» «Ora ho ampliato la ricerca dagli agenti puramente cardiotossici a quelli neurotossici, dato che molti sono sia cardiotossici sia neurotossici. È un argomento affascinante, soprattutto per come è correlato con il bioterrorismo.» «Ha letto le deposizioni?» chiese Jack, non volendo che la conversazione deviasse. «Non è stato via così a lungo e io ho fatto molto altro. Mi dia tregua!» «Il tempo sta scadendo e dobbiamo restare concentrati.» «Io sono concentrata», ribatté Latasha. «Non me ne sto andando in giro in auto, ad apprendere qualcosa che sapevo già e a farmi bastonare.» Jack si fregò il viso con entrambe le mani nel tentativo di togliersi di dosso la stanchezza. Non aveva voluto criticare Latasha. «Dove sono quelle Diet Coke? Una dose di caffeina non mi farebbe male.» Latasha indicò la porta che dava sul corridoio. «C'è un distributore automatico nella mensa in fondo a sinistra.» Quando la lattina cadde nell'apertura del distributore automatico, il tonfo, nel silenzio dell'edificio, fu tanto forte che sobbalzò. Era stanco, ma anche teso, e non sapeva perché. Forse perché stava per scadere il tempo a disposizione per la causa, o dipendeva dalla sua ansia per il ritorno a New York e il matrimonio. Era opportuno aggiungere caffeina al suo leggero stato di tensione? Gettando al vento la prudenza, vuotò la lattina in un solo sorso. Decise che aveva bisogno di tutto il suo acume e che per questo la
caffeina gli avrebbe fatto solo bene. «Quelle non le ho lette dalla prima all'ultima pagina», confessò Latasha, mentre Jack prendeva le trascrizioni delle deposizioni di Craig e Jordan. «Le ho scorse per fare una lista dei sintomi di Patience.» «Davvero?» chiese Jack in tono interessato. «Dov'è?» Tirò fuori un blocco giallo sepolto tra le carte sul tavolo e lo passò a Jack. Lui si accomodò nella sedia. Latasha aveva ordinato i sintomi i due gruppi principali, la mattina dell'otto settembre, il tardo pomeriggio e la sera dello stesso giorno. Il gruppo del mattino includeva dolore addominale, tosse grassa sempre più forte, vampate di calore, congestione nasale, insonnia, emicrania, flatulenza e un'ansia generale. Il gruppo del tardo pomeriggio e sera appena iniziata comprendeva dolore al petto, cianosi, incapacità di parlare, emicrania, difficoltà a camminare, difficoltà a sedersi eretta, torpore, una sensazione di galleggiamento, nausea con un po' di vomito e una debolezza generale. «Tutto qui?» chiese Jack sventolando il blocco. «Non crede sia sufficiente? Assomiglia alla maggior parte dei miei pazienti al terzo anno di medicina.» «Volevo solo essere sicuro che fossero tutti i sintomi menzionati nelle deposizioni.» «Tutti quelli che ho trovato.» «Non ha trovato alcuna menzione di diaforesi?» «No, e l'ho cercata in modo particolare.» «L'avevo fatto anch'io. L'intensa sudorazione è tipica di un attacco di cuore e non ho creduto ai miei occhi quando non l'ho vista a una prima lettura. Mi fa piacere che non l'abbia trovata neppure lei, perché temevo mi fosse sfuggita.» Lanciò un'occhiata alla lista. La maggior parte delle voci non era esemplificata, mentre per le altre la specificazione era troppo generale o non sufficientemente descrittiva. Era come se tutti i sintomi avessero la stessa importanza, il che rendeva difficile valutare il contributo di ciascuno allo stato clinico di Patience. Il torpore, per esempio, aveva scarso significato, se non era accompagnato da una descrizione del punto intorpidito, della grandezza, e della durata, e se non era specificato, cioè se s'intendeva una sensazione di torpore o una parestesia, più comunemente nota come formicolio. Così come stavano le cose, era impossibile decidere se il torpore era di origine neurale o cardiovascolare.
«Sa cosa mi ha colpito di più della tossicologia?» domandò Latasha, alzando gli occhi da un voluminoso testo. «No! Cosa?» Si stava chiedendo se avrebbe avuto bisogno di rileggere le deposizioni per vedere se esistevano dei qualificatori per i sintomi menzionati. «I rettili», rispose Latasha. «È stupefacente come si siano evoluti i loro veleni e perché c'è una tale differenza di potenza.» «Curioso», commentò Jack aprendo la deposizione di Jordan e iniziando a sfogliare rapidamente le pagine per arrivare alla parte che si riferiva agli eventi dell'otto settembre. «Ci sono un paio di serpenti il cui veleno contiene una specifica e potente cardiotossina capace di provocare una necrosi del miocardio diretta. Riesce a immaginare cosa farebbe ai biomarcatori cardiaci?» «Davvero?» chiese, di colpo interessato. «Che genere di serpenti?» Latasha scavò una trincea tra il materiale sulla scrivania e, dopo avere girato il testo, lo spinse verso di lui. Con l'indice indicò i nomi su una tavola comparativa della virulenza del veleno. «Il serpente a sonagli mojave e il serpente a sonagli del Pacifico meridionale.» Jack diede un'occhiata alla tabella. I due serpenti indicati da Latasha erano tra i più velenosi della lista. «Molto interessante», ammise. Il suo interesse era scemato tanto rapidamente quanto era cresciuto. Spinse indietro il libro. «In ogni caso non ci stiamo occupando di un avvelenamento. Patience non era stata morsa da un serpente a sonagli.» «Lo so», replicò lei riprendendo il libro. «Sto solo leggendo queste pagine per farmi un'idea delle varie classi di composti da prendere in considerazione. Voglio dire, stiamo cercando una cardiotossina.» «Ah-ah.» Jack, che aveva ripreso la deposizione, aveva trovato la parte che lo interessava e aveva iniziato a leggerla più attentamente. «In realtà, gli animali velenosi più interessanti sono un gruppo di anfibi.» «Davvero», commentò, senza averla ascoltata. Aveva trovato nella deposizione la menzione del dolore addominale. Jordan aveva detto che era un dolore al basso ventre, più a sinistra che a destra. Rettificò l'appunto di Latasha nel blocco. «Il primo premio lo vince la rana del dardo del veleno colombiana», continuò Latasha, sfogliando il libro fino ad arrivare alla pagina giusta. «Davvero?» ripeté Jack. Saltò fino alla parte della deposizione in cui Jordan parlava dei sintomi serali. Lo interessava il punto in cui menziona-
va il torpore. «La secrezione della pelle contiene la maggior parte delle sostanze tossiche conosciute dall'uomo», soggiunse Latasha. «E hanno un effetto tossico immediato sul muscolo cardiaco. Conosce la batracotossina?» «Vagamente.» Aveva trovato il riferimento al torpore ed era evidente, dalla descrizione di Jordan, che si trattava di parestesia e non di assenza di sensibilità, e coinvolgeva braccia e gambe. Annotò l'informazione sul blocco giallo. «È la più potente tossina al mondo. Quando la batracotossina entra in contatto con il muscolo cardiaco, blocca di colpo ogni attività.» Latasha fece schioccare le dita. «In vitro, i miociti cardiaci che stanno attivamente pompando si fermano completamente subito dopo essere stati esposti ad alcune molecole di batracotossina. Riesce a crederci?» «È difficile», concordò Jack. Aveva trovato il riferimento di Jordan al galleggiamento associato alla parestesia, mentre non aveva nulla a che fare con l'essere in acqua. Invece che tenuti a terra ci si sente fluttuare in aria. Jack annotò anche questa informazione. «Il veleno è un alcaloide steroidico e non un polipeptide. Si trova in numerose specie di rane, ma quella in cui c'è la più alta concentrazione è la Phyllobates terribilis, o rana dorata. Un nome adatto, dal momento che una singola minuscola rana contiene tanta batracotossina da uccidere un centinaio di persone. È incredibile.» Jack trovò la parte dove Jordan parlava della debolezza della moglie che, scoprì, non si riferiva a un'ipotonia di un gruppo muscolare preciso. La debolezza era un problema più generale. Era iniziata con una difficoltà a camminare e si era rapidamente trasformata in una difficoltà a stare seduta eretta. Jack aggiunse anche questo sul blocco. «C'è un'altra cosa che dovrebbe sapere sulla batracotossina, se non la conosce già. Il suo meccanismo d'azione molecolare consiste nel depolarizzare membrane elettriche come il muscolo cardiaco e i nervi. E sa come? Colpendo il sistema di trasporto del sodio, una cosa che lei aveva ritenuto 'esoterica', ricorda?» «Cosa stava dicendo a proposito del sodio?» chiese Jack, appena le parole della dottoressa s'insinuarono nella sua mente, distogliendolo dalla sua concentrazione. Quando rifletteva, si estraniava completamente. «La batracotossina si attacca alle cellule nervose e muscolari e fa sì che i canali ionici del sodio si blocchino nella posizione aperta, che significa che i nervi e i muscoli coinvolti smettono di funzionare.»
«Sodio», ripeté Jack, sbalordito. «Sì. Ricorda che abbiamo parlato...» Di colpo Jack balzò in piedi e si mise a frugare come un matto tra i fogli sparpagliati sul tavolo. «Dove sono quelle carte?» chiese freneticamente. «Quali carte?» Si era interrotta a metà e si era appoggiata allo schienale, sorpresa dalla brusca impetuosità di Jack. «Lo sa!» sbottò, incapace di trovare il termine esatto. «Quelle... quelle carte!» «Abbiamo un sacco di carte qui. Perdio! Quante Diet Coke si è bevuto?» «Cazzo!» Smise di cercare e allungò la mano verso Latasha. «Mi faccia vedere quel testo di tossicologia!» chiese precipitosamente. «Certo.» La sua trasformazione aveva stupito Latasha, che lo osservò sfogliare quel grosso tomo per arrivare all'indice. Trovatolo, fece scorrere le dita lungo le colonne fin quando arrivò a ciò che cercava. Si mise quindi a sfogliare a ritroso il libro tanto velocemente che Latasha temette che si rompesse. Trovata la pagina, Jack la fissò in silenzio. «Sarebbe troppo chiederle cosa sta facendo?» lo schernì Latasha. «Credo di avere avuto quella che lei chiamerebbe un'illuminazione e che io chiamerei un'epifania», bofonchiò Jack continuando a leggere. «Sì!» gridò pochi attimi dopo, alzando trionfante il pugno in aria. Chiuse il libro e fissò Latasha. «Ora so cosa deve cercare Allan! È strano, e, se fosse presente, potrebbe non essere coerente con tutti i fatti per come li conosciamo, ma concorda con alcuni dei più importanti e ciò dimostrerebbe che Craig Bowman non ha commesso alcuna negligenza medica.» «Quali?» chiese Latasha. Non poté evitare di provare una certa irritazione di fronte all'evasività di Jack. Alle cinque del mattino non era dell'umore giusto per giocare. «Controlli questo strano sintomo che aveva annotato», le spiegò Jack. Le allungò il blocco e indicò la nota: senso di galleggiamento. «Non è una lagnanza comune neppure per l'ipocondriaca più scafata. Indica piuttosto che stava accadendo qualcosa di veramente strano e, se Allan riuscisse a trovare ciò a cui sto pensando, ci sarebbe la possibilità che Patience Stanhope fosse o una fanatica del sushi o una devota del vudù haitiano, ma ci renderemo conto che le cose non stanno così.» «Jack!» esclamò Latasha in tono irritato. «Sono troppo stanca per questo genere di scherzi.» «Mi scusi. Il mio sarcasmo nasce dal fatto che temo di avere ragione. È una di quelle situazioni nelle quali, malgrado lo sforzo, vorrei sbagliarmi.»
Le tese la mano. «Venga, le spiegherò ogni cosa, mentre corriamo al laboratorio di Allan. Risolveremo tutto all'ultimo minuto.» 23 Boston Venerdì, 9 giugno 2006 09.23 Jack posteggiò la sua scassata Hyundai dietro un camioncino dell'UPS. Era un'area di carico e scarico in Cambridge Street davanti a un lungo e sinuoso edificio con portico di fronte al municipio di Boston. Pensò che le probabilità di prendere una multa, anche se intendeva comunque essere il più rapido possibile, erano vicine al cento percento. Sperava che non gli avrebbero rimosso l'auto, ma, per sicurezza, portò con sé la sacca e una grande busta con l'indirizzo dell'ufficio dell'istituto di medicina legale. Salì di corsa una rampa di scale che entrava nell'edificio e sbucava nel cortile antistante la corte d'assise della contea di Suffolk. Senza perdere tempo, balzò verso l'entrata dove venne rallentato dai controlli del sistema di sicurezza, fece passare la sacca, la busta e il cellulare attraverso la macchina a raggi X, quindi s'infilò nel primo ascensore libero. Nella cabina riuscì finalmente a dare un'occhiata all'orologio. Sapeva perfettamente che entro quattro ore doveva sposarsi e il fatto che si trovasse nella città sbagliata lo rendeva ansioso. Quando l'ascensore arrivò al terzo piano si diede da fare per uscire nel modo più cortese possibile. Se non avesse saputo come andavano le cose, avrebbe pensato che lo stessero ostacolando deliberatamente. In altre occasioni aveva tentato di entrare nell'aula il più silenziosamente possibile, ma questa volta vi si precipitò. Aveva la sensazione che più creava scompiglio, meglio era. Mentre percorreva il corridoio verso il cancello che separava il pubblico dalle parti in causa, la maggior parte degli spettatori si girò a guardarlo, anche Alexis che era seduta in prima fila. Jack la salutò con un cenno del capo. Il cancelliere stava leggendo qualcosa e non alzò gli occhi. I giurati erano al loro posto, impassibili come sempre, concentrati su Randolph che, dal podio, stava per iniziare la sua arringa conclusiva. Il giudice, seduto nel suo scranno, esaminava delle carte. Sia lo stenografo sia il cancelliere erano affaccendati ai loro posti. Al tavolo della difesa, vide la nuca di Craig e quella dell'aiutante di Randolph. Al tavolo
del querelante, notò le nuche di Tony, di Jordan e dell'assistente. Tutto a posto: come in un'antiquata locomotiva a vapore, le ruote della giustizia stavano lentamente ma inesorabilmente acquistando velocità e arrivando a destinazione. L'intenzione di Jack era quella di dirottare il treno. Non voleva farlo deragliare, solo fermarlo e fargli prendere un binario diverso. Raggiunse il cancelletto e si fermò. Vide gli occhi dei giurati ruotare verso di lui senza che perdessero la loro impassibilità. Randolph continuava a parlare con la sua voce educata e melliflua. Le sue parole erano brillanti come i raggi del sole di primavera avanzata che rasentavano le persiane delle alte finestre e tagliavano l'aria carica di polvere. «Mi scusi!» chiamò Jack. «Mi scusi!» gridò vedendo che l'avvocato non si interrompeva. Quando lo chiamò di nuovo, Randolph si girò e gli occhi d'un azzurro gelido rifletterono un misto di perplessità e fastidio. Il cancelliere, che non aveva sentito Jack la prima volta, lo udì distintamente la seconda e balzò in piedi. La sicurezza in aula era di sua competenza. «Ho bisogno di parlarle immediatamente», insisté Jack a voce alta per farsi sentire da tutti nel silenzio dell'aula. «So che è inopportuno, ma è di vitale importanza, se le interessa evitare un errore giudiziario.» «Avvocato, che diavolo sta succedendo?» chiese il giudice Davidson, inclinando la testa per guardare da sopra il bordo degli occhiali. Fece cenno al cancelliere di restare al suo posto. Sconcertato, ma facendo appello ad anni di esperienza processuale, Randolph riprese la sua raffinata freddezza. Lanciò un'occhiata verso il giudice prima di riportare la sua attenzione su Jack. «Non farei una cosa simile, se non fosse di cruciale importanza», aggiunse Jack sottovoce. Vide che gli occupanti dei tavoli della difesa e del ricorrente si erano girati a guardarlo. Jack era interessato solo a Jordan e Craig. Dei due, Jordan era il più sorpreso e a quanto pareva il più sconvolto dal suo dirompente arrivo. Randolph si rivolse al giudice: «Vostro onore, posso approfittare della pazienza della corte solo per un momento?» «Due minuti!» concesse con voce petulante il giudice Davidson. Avrebbe permesso a Randolph di parlare con Jack, ma solo per liberarsi di lui. Al giudice non piacevano le interruzioni nella sua aula. Randolph si avvicinò alla balaustra, lanciò a Jack un'occhiata arrogante e sottovoce gli disse: «È una cosa altamente irregolare». «Io la faccio sempre», sussurrò Jack, tornando al suo vecchio stile sarca-
stico. «Deve chiamarmi sul banco dei testimoni!» «Non posso. Le ho già spiegato perché, inoltre sto pronunciando l'arringa conclusiva, per l'amor di Dio.» «Ho eseguito l'autopsia e posso dimostrare con prove avvalorate da affidavit di un patologo legale e da un tossicologo del Massachusetts che il dottor Bowman non ha commesso alcuna negligenza.» Per la prima volta individuò una minuscola crepa nel guscio di serenità entro cui agiva Randolph. L'avevano tradito gli occhi che saettarono nervosamente e rapidamente tra il giudice e Jack. C'era poco tempo per la riflessione, ancor meno per la discussione. «Avvocato!» gridò impaziente il giudice Davidson. «I suoi due minuti sono scaduti.» «Vedrò cosa posso fare», mormorò Randolph a Jack prima di tornare sul podio. «Vostro onore, posso avvicinarmi?» «Se proprio deve», bofonchiò il giudice, per nulla contento. Tony balzò in piedi e si avvicinò pure lui al giudice. «Che cosa sta succedendo, maledizione?» incalzò il giudice Davidson. «Chi è quell'uomo?» I suoi occhi corsero su Jack, che stava aspettando accanto al cancelletto come un supplicante; sebbene avesse deposto a terra la sacca, teneva ancora in mano la busta. «È il dottor Jack Stapleton», rispose Bingham. «È un patologo legale accreditato dell'istituto di medicina legale di New York. Sono stato informato che è molto ben stimato professionalmente.» Il giudice guardò Fasano: «Lo conosce?» «L'ho incontrato», ammise Tony senza approfondire. «Che diavolo vuole, precipitandosi qui in questo modo? È altamente irregolare.» «Vuole salire sul banco dei testimoni.» «Non può!» sibilò Fasano. «Non è sulla lista dei testimoni e non ha fatto una deposizione. Questa proposta è davvero oltraggiosa.» «Domini la sua indignazione», lo rimproverò Davidson, come se stesse parlando con un bambino indisciplinato. «E perché mai chiede di salire sul banco dei testimoni?» «Sostiene di poter fornire una testimonianza discolpante che dimostra che il dottor Craig Bowman non ha commesso negligenza medica. Sostiene inoltre di avere convalida sotto forma di affidavit da parte di un medico legale e di un tossicologo del Massachusetts.» «È una pazzia!» sbottò Tony. «La difesa non può presentare un teste a
sorpresa all'ultimo minuto. Violerebbe ogni regola dalla firma della Magna Carta.» «La smetta di lamentarsi e di brontolare, avvocato!» ringhiò il giudice. «Ha idea di come abbia trovato l'informazione che è disposto a fornirci?» «Ha detto di avere eseguito l'autopsia di Patience Stanhope.» «Se l'autopsia fosse potenzialmente discolpante, come mai non è stata eseguita prima e presentata in fase istruttoria?» «Non c'era stato motivo di pensare che un'autopsia avrebbe avuto un valore probatorio. Sono certo che il signor Fasano concorderebbe. I fatti clinici non sono mai stati messi in dubbio.» «Signor Fasano, era a conoscenza di questa autopsia?» «Solo che era stata presa in considerazione.» «Dannazione!» esclamò il giudice Davidson. «Questo mi mette tra l'incudine e il martello.» «Vostro onore», azzardò Tony, non più capace di restare in silenzio. «Se gli viene permesso di testimoniare, io...» «Non voglio sentire le sue minacce, avvocato. Sono perfettamente consapevole che il dottor Stapleton non può entrare qui dentro e salire sul banco dei testimoni. Non è negoziabile. Potrei ordinare un rinvio e il dottor Stapleton e le sue scoperte potrebbero essere proposti nell'istruttoria, ma il mio calendario andrebbe a catafascio. Detesto farlo, ma detesto anche vedere le mie cause ribaltate in appello, e se questa testimonianza fosse tanto importante come pare ritenere il dottor Stapleton, renderebbe il capovolgimento una reale possibilità.» «Che ne dice di ascoltare la prova del dottor Stapleton?» suggerì Randolph. «Poi le sarà più facile prendere una decisione.» Il giudice Davidson annuì, mentre rifletteva. «Per risparmiare tempo, potrebbe farlo nel suo ufficio», propose Randolph. «Portare un teste nel mio ufficio è un'altra cosa irregolare.» «Ma non senza precedenti», insisté Randolph. «Ma il teste potrebbe parlare con i giornali e sostenere qualsiasi cosa e questo non mi piace.» «Porti con sé lo stenografo», consigliò Randolph. «Che diventi parte del verbale. In ogni caso la giuria non sentirà ciò che ha da dire il dottor Stapleton ed è questo che conta. Se lei decidesse che non è importante né rilevante, io potrei riprendere la mia arringa. Se lo trovasse importante e rilevante, avrà più informazioni per decidere come procedere.»
Davidson rifletté ancora, poi annuì. «Va bene. Accorderò una breve pausa, ma tratterrò la giuria dov'è. Sarà una sospensione breve. È d'accordo, signor Fasano?» «Per me non ha senso.» «Ha una proposta alternativa?» lo sollecitò il giudice. Tony era furibondo. Contava sul fatto di vincere la sua prima causa di negligenza medica e ora, a poche ore dall'obiettivo, si stava preparando un gran casino a dispetto di tutto ciò che aveva fatto. Tornò al tavolo e si versò un bicchiere d'acqua. Aveva la bocca secca e la gola inaridita. Randolph tornò da Jack e gli aprì il cancelletto per farlo entrare nell'area riservata. «Non può salire sul banco dei testimoni», gli sussurrò. «Dovrà testimoniare nell'ufficio del giudice che poi deciderà se farla parlare in seguito davanti alla giuria. È disposto a concederle solo pochi minuti, perciò dovrà essere conciso e andare subito al sodo. Chiaro?» Jack annuì. Era tentato di dire che anche lui aveva solo pochi minuti, ma si trattenne. Guardò Jordan che stava nervosamente tentando di indurre Tony a spiegargli cosa stava succedendo, dal momento che il giudice aveva dichiarato che ci sarebbe stata una breve pausa, ma che la giuria doveva restare al suo posto. Dal pubblico si levò un ronzio, mentre tutti cercavano di capire cosa stesse accadendo e chi fosse il nuovo arrivato. Jack lanciò un'occhiata a Craig, che gli rivolse un sorriso. «In piedi!» gridò il cancelliere mentre il giudice si alzava e scendeva rapidamente dal seggio. In un batter d'occhio aveva attraversato la porta a pannelli ed era scomparso, lasciando l'uscio spalancato. Lo stenografo lo seguì a breve distanza. «È pronto?» chiese Randolph a Jack. Jack annuì e in quel momento incrociò gli occhi di Tony. Se gli sguardi potessero uccidere, sarei morto, pensò. L'avvocato era furioso. Jack seguì Bingham e Fasano si unì a loro mentre superavano il banco dei testimoni e il tavolo del cancelliere vuoti. Jack sorrise tra sé chiedendosi quale sarebbe stata la reazione di Tony, se gli avesse chiesto come stava Franco, dato che non lo si vedeva da nessuna parte. L'ufficio del giudice deluse Jack, che si era immaginato lucido legno scuro, mobili in pelle e l'aroma di costosi sigari, come in un esclusivo club per soli uomini. Era decisamente squallido, con pareti che avevano bisogno di una mano di pittura e mobili del governo. Tutto era avvolto in un miasma di fumo di sigarette. L'unico oggetto imponente era una solenne scrivania in stile vittoriano dietro la quale, su una sedia dall'alto schienale,
sedeva, relativamente calmo, il giudice Davidson, inclinato all'indietro, le mani giunte dietro la testa. Jack e i due avvocati si accomodarono su basse sedie in vinile. Jack immaginò che quello fosse un deliberato trucco del giudice, a cui piaceva sovrastare. Lo stenografo era a un basso tavolino a lato. «Dottor Stapleton», esordì Davidson dopo una breve presentazione. «Il signor Bingham mi dice che lei, all'ultimo minuto, ha una prova discolpante a favore dell'imputato.» «Questo non è del tutto vero», replicò Jack. «Io ho detto testualmente di poter fornire una prova convalidata che dimostra che il dottor Bowman non ha commesso colpa nella professione medica come definita dalla legge. Non c'è stata alcuna negligenza.» «E non è discolpante? Stiamo per caso facendo un gioco di parole?» «Non è un gioco», ammise Jack. «È discolpante da una parte e incriminante dall'altra.» «Dovrebbe spiegarsi meglio», borbottò il giudice. Appoggiò le mani sulla scrivania e si chinò in avanti. Jack aveva catturato la sua attenzione. Infilando il dito sotto il lembo della busta, Jack l'aprì e ne estrasse tre documenti. Si chinò in avanti e spinse il primo verso Davidson. «Questa prima dichiarazione giurata è firmata da un impresario di pompe funebri accreditato del Massachusetts che dichiara che il corpo su cui è stata eseguita l'autopsia è quello della defunta Patience Stanhope.» Fece scivolare anche l'altro foglio sulla scrivania. «Questo affidavit conferma che la dottoressa Latasha Wylie, patologa forense del Massachusetts, ha preso parte all'autopsia, ha aiutato a raccogliere tutti i campioni e ha portato tali campioni al laboratorio di tossicologia dell'università, dove li ha consegnati al dottor Allan Smitham.» Il giudice Davidson aveva preso in mano e leggiucchiato ogni affidavit. «Direi che questa è una lodevole catena di custodia.» Alzò gli occhi: «E l'ultimo cos'è?» «Questo è ciò che ha scoperto il dottor Smitham», dichiarò Jack. «Ha familiarità con l'avvelenamento da fugu?» Il giudice Davidson rivolse ai suoi ospiti un sorrisetto storto. «Credo che dovrebbe arrivare al punto, giovanotto», disse in tono condiscendente. «Fuori ho una giuria che si sta girando i pollici e che non vede l'ora di andarsene.» «È un tipo di avvelenamento spesso letale che si ha mangiando sushi di pesce palla. Naturalmente, più che altro capita in Giappone.»
«Non mi dica che sta dicendo che Patience Stanhope è morta per aver mangiato sushi», esclamò il giudice Davidson. «Vorrei che fosse così», replicò Jack. «Il veleno del pesce palla è chiamato tetrodotossina ed è un composto molto interessante. È altamente tossico. Per darle un'idea, è cento volte più letale del veleno di vedova nera e dieci volte più mortale di quello del Bungarus Multicinctus, uno dei serpenti più velenosi del sudest asiatico. Una microscopica quantità presa per bocca provoca una morte sicura.» Si allungò e spinse verso il giudice l'ultimo documento. «Quest'ultimo affidavit, firmato dal dottor Allan Smitham, dice che in tutti i campioni ottenuti da Patience Stanhope da lui testati ha trovato tracce di tetrodotossina.» Il giudice Davidson esaminò il documento, poi lo passò a Randolph. «Potrebbe chiedermi quanto siano affidabili gli esami per la tetrodotossina», continuò Jack, «e io le risponderei che sono estremamente affidabili. La possibilità di un falso positivo è vicina allo zero, specialmente perché il dottor Smitham ha usato due metodi differenti. Uno è la cromatografia liquida ad alta pressione seguita da spettrometria di massa. L'altro il dosaggio radioimmunologico tramite uno specifico anticorpo per la molecola della tetrodotossina. I risultati sono definitivi e riproducibili.» Randolph porse l'affidavit a Tony, che glielo strappò di mano. Era consapevole delle implicazioni. «In breve sta dicendo che la defunta non è morta per un attacco di cuore?» chiese il giudice Davidson. «Non è morta per un attacco di cuore. È morta per avvelenamento da tetrodotossina. Dal momento che non è disponibile alcuna cura, l'ora del suo arrivo in ospedale è assolutamente irrilevante. In sostanza, era condannata dal momento in cui aveva ingerito il veleno.» Un forte colpo alla porta del giudice rimbombò nella stanza. Il giudice gridò a chiunque fosse di entrare. Il cancelliere infilò la testa e disse: «La giuria chiede una pausa per il caffè. Che devo dire loro?» «Che si bevano il caffè», rispose, accomiatandolo con un cenno della mano. Trapanò Jack con occhi scuri e penetranti. «Questa è la parte discolpante. Qual è quella incriminante?» Jack si accomodò sulla sedia. Questa era la parte che riteneva più sconvolgente. «Grazie alla sua straordinaria tossicità, la tetrodotossina è una sostanza altamente controllata, specialmente ora. Il composto possiede, tuttavia, una strana qualità positiva. Lo stesso meccanismo molecolare responsabile della tossicità la rende un ottimo strumento per studiare i canali
del sodio nei nervi e nei muscoli.» «In che modo tutto ciò ha effetto sulla causa in questione?» «La ricerca pubblicata e in corso del dottor Craig Bowman riguarda lo studio dei canali del sodio. Utilizza ampiamente la tetrodotossina.» Un pesante silenzio avvolse la stanza, mentre Jack e il giudice Davidson si fissavano da una parte all'altra della scrivania. Gli altri due stettero a guardare. Per un intero minuto nessuno parlò. Alla fine il giudice si schiarì la gola e chiese: «A parte questa prova circostanziale di accesso alla tossina, c'è qualcos'altro che collega il dottor Bowman con l'azione criminale?» «C'è», ammise con riluttanza. «Appena abbiamo determinato la presenza della tetrodotossina, sono tornato alla casa dei Bowman, che mi avevano ospitato. Sapevo che c'era una boccettina di pillole che il dottor Bowman aveva somministrato alla defunta il giorno della sua morte. Ho portato il flacone al laboratorio di tossicologia, il dottor Smitham l'ha esaminato e ha determinato che l'interno era positivo alla tetrodotossina. Mentre stiamo parlando sta eseguendo l'esame completo e definitivo.» «D'accordo!» esclamò il giudice Davidson. Si fregò le mani tra loro e, sollevandosi un poco, lanciò un'occhiata allo stenografo. «Non registri più niente fin quando non rientriamo nell'aula.» Si risedette, facendo cigolare la sedia. Aveva assunto un'espressione severa ma pensosa. «Potrei ordinare un rinvio del processo, così che tutte queste nuove informazioni possano superare la fase istruttoria, ma non avrebbe senso. Qui non siamo davanti a negligenza, ma ad assassinio. Vi dirò cosa ho intenzione di fare. Dichiarerò nullo il processo per vizio di procedura. Si deve girare questo caso al procuratore distrettuale. Domande?» Fissò i tre, per fermarsi su Fasano. «Non sia tanto depresso, avvocato. Potrà crogiolarsi sapendo che la giustizia prevale e il suo cliente potrà sempre intentare causa per omicidio.» «Ma la compagnia d'assicurazione non avrà alcun obbligo», sbuffò Tony. Il giudice fissò Jack: «Un'ammirevole investigazione, dottore». Jack accettò il complimento, ma non aveva l'impressione di meritarlo. Aver dovuto riferire le sue scioccanti scoperte lo riempiva d'ansia per ciò che stava per fare ad Alexis e alle ragazze. Avrebbero dovuto sopportare una lunga indagine e un nuovo processo con tremende conseguenze. Era una tragedia per tutti, soprattutto per Craig. L'intensità del narcisismo del cognato e la sua mancanza di coscienza l'avevano scioccato. Nello stesso tempo intuiva che era stato vittimizzato dal sistema altamente competitivo che sollecitava l'altruismo e la compassione, ma premiava sentimenti op-
posti. Non si diventava capo degli specializzandi con la cortesia e la compassione. La sua costante necessità di lavorare per mantenersi agli studi durante la prima fase della preparazione medica gli aveva negato la normale interazione sociale che avrebbe smussato quel messaggio tanto contraddittorio. «D'accordo, signori», tagliò corto il giudice Davidson. «Sistemiamo questo disastro.» Si alzò e gli altri lo imitarono. Aggirò la sua scrivania e si diresse alla porta. Jack lo seguiva dietro i due avvocati, con lo stenografo alle spalle. Dall'aula sentì il cancelliere gridare a tutti di alzarsi in piedi. Quando Jack uscì dall'ufficio del giudice, Davidson si stava già sedendo al suo posto, mentre gli avvocati si avvicinavano ai rispettivi tavoli. Notò che Craig non era presente e fremette al pensiero della sua reazione, appena avesse saputo quale segreto aveva rivelato. Attraversò silenziosamente l'area riservata e alle sue spalle sentì il giudice chiedere di riportare in aula la giuria. Aprì il cancelletto e incrociò lo sguardo di Alexis che lo fissava con espressione interrogativa, perplessa e speranzosa. Jack si fece strada verso di lei e le sedette accanto. Le strinse la mano. Notò che aveva preso la sacca che aveva lasciato a terra accanto alla balaustra prima di entrare nell'ufficio del giudice. «Signor Bingham», gridò il giudice Davidson. «Noto che l'imputato non è al suo posto.» «Il mio assistente, il signor Cavendish, mi riferisce che ha chiesto di andare in bagno», rispose alzandosi a metà dalla sua sedia. «Capisco.» La giuria venne fatta entrare nell'aula e i giurati s'infilarono ai loro posti. «Cosa sta succedendo?» chiese Alexis. «Hai trovato qualche prova incriminante?» «Ho trovato più di quanto avessi previsto.» «Forse qualcuno dovrebbe avvisare il dottor Bowman che la seduta è ripresa», disse il giudice Davidson. «È importante che assista alla procedura.» Jack strinse di nuovo la mano di Alexis prima di alzarsi in piedi. «Vado a prendere il dottor Bowman.» Mentre ripercorreva il corridoio, indicò all'assistente di Randolph, che si era alzato per andare a prendere Craig, che l'avrebbe riportato lui. Jack uscì in corridoio e andò dritto alle toilette degli uomini. Guardò l'orologio: erano le dieci e un quarto. Spalancò la porta ed entrò. Un uomo di origine asiatica si stava lavando le mani. La zona degli orinatoi era vuota.
Si avvicinò ai cubicoli e si chinò per guardare sotto le pareti. Solo l'ultimo vano era occupato. Si avvicinò. Non sapeva se chiamare o aspettare, ma, data l'ora, preferì chiamare. «Craig?» Sentì tirare lo sciacquone e un attimo dopo il rumore del meccanismo di chiusura della porta che si aprì verso l'interno. Ne uscì un giovane ispanico che lanciò un'occhiata interrogativa a Jack prima di dirigersi ai lavabi. Sorpreso di non aver dovuto affrontare il cognato, dopo aver preso il coraggio a due mani, si chinò nuovamente per controllare che tutti i cubicoli fossero vuoti, e lo erano. A parte i due uomini ai lavabi, nella toilette non c'era nessuno. Di Craig nessuna traccia. Jack intuì che era fuggito. 24 Boston Venerdì, 9 giugno 2006 10.25 Tornato nell'aula, dove Craig non era riapparso, aveva preso in disparte Alexis. Il più rapidamente e umanamente possibile le aveva riferito ciò che era successo da quando avevano parlato la sera prima. Lei l'aveva ascoltato incredula e costernata fin quando comprese l'ampiezza della prova della presunta colpa di Craig. A quel punto aveva permesso al suo io professionale di assumere il comando, consentendogli di analizzare clinicamente la situazione. Con quello spirito, era stata lei e non Jack a menzionare il fattore tempo e il fatto che doveva affrettarsi se voleva arrivare in chiesa in tempo. Con la promessa di chiamarla nel pomeriggio, Jack aveva afferrato la sacca e si era precipitato verso gli ascensori. Aveva attraversato di corsa il cortile davanti al tribunale e si era precipitato giù per le due rampe di scale che portavano in strada. Fortunatamente, la malconcia Accent era ancora dove l'aveva lasciata, anche se con una multa sotto il tergicristallo. La prima cosa da fare era prendere dal bagagliaio il sacchetto di carta contenente la pistola. Avendo previsto di dover rendere l'arma mentre si recava all'aeroporto, si era fatto spiegare da Latasha come arrivare al quartier generale della polizia. La stazione di polizia era vicina a dove aveva parcheggiato, ma dovette fare un'inversione a U sull'isola spartitraffico e per un po' controllò nello specchietto retrovisore se non lo stesse inseguendo un'auto di pattuglia.
La sosta alla stazione di polizia fu rapidissima. Sul sacchetto c'era il nome di Liam Flanagan e l'agente in servizio lo accettò senza storie. In men che non si dica si ritrovò in un tunnel. Per fortuna l'aeroporto era poco distante dalla città, lo raggiunse alla svelta e seguendo i cartelli per l'agenzia di noleggio, arrivò nel parcheggio della Hertz in pochi minuti. Portò l'auto in uno dei posteggi, senza badare alle istruzioni da seguire alla restituzione dell'auto. L'ultima cosa che desiderava era mettersi a discutere sui danni al veicolo. Era sicuro che avrebbe avuto notizie dalla Hertz. Agguantò la sacca e corse a prendere il bus che portava al terminal. Salì sull'autobus, pensando che stesse per partire, invece rimase fermo con il motore al minimo e senza autista. Controllò nervosamente l'ora: erano appena passate le undici. Sapeva di dover prendere il volo delle undici e mezzo o tutto era perduto. Finalmente arrivò l'autista che chiese allegramente ai passeggeri a quale terminal volessero essere portati. Con soddisfazione, Jack sentì che quello della Delta era la prima fermata. L'ultima seccatura sarebbe stata comprare il biglietto e passare i controlli di sicurezza. Erano le undici e venti quando Jack si precipitò verso il suo gate. Non fu l'ultimo a imbarcarsi, ma quasi. Le porte dell'aereo si chiusero alle spalle della persona che era salita dietro di lui. Jack si sedette al primo posto disponibile per accelerare lo sbarco a New York. Sfortunatamente era tra uno studente con un iPod dal volume assordante e un uomo d'affari in gessato e computer portatile. L'uomo gli lanciò un'occhiata colma di disapprovazione quando Jack gli indicò che voleva occupare il sedile di mezzo, obbligandolo a spostare la borsa e a raccogliere la giacca e la cartella che vi aveva appoggiato sopra. Finalmente seduto, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Malgrado fosse esausto, non si sarebbe addormentato, e non solo a causa dell'iPod. Continuò a ripetere nella mente la breve e insoddisfacente conversazione con Alexis: si sentiva in colpa per aver scoperto il tradimento di Craig non solo verso la sua professione ma anche verso la sua famiglia. Pur dicendosi che Alexis e le ragazze sarebbero state meglio conoscendo la verità, non si sentì meglio. Le probabilità che rimanessero uniti di fronte a ciò che stava per accadere erano scarse. Da fuori sembrava che i Bowman avessero tutto: due belle professioni, splendide figlie, e una casa da favola. Da dentro, invece, un cancro li stava divorando. «Un attimo di attenzione, prego», gracidò una voce attraverso l'interfono
dell'aereo. «Parla il capitano. Siamo appena stati informati dalla torre di controllo che dovremo attendere prima di avvicinarci al terminal. Si sta abbattendo un violento temporale sulla zona di New York. Ci auguriamo si tratti di un breve ritardo, vi terremo informati.» «Merda!» imprecò. Si strinse la fronte con la mano destra e si massaggiò le tempie con le nocche. L'ansia e la mancanza di sonno stavano tramando per procuragli un'emicrania. Cominciò a pensare a ciò che sarebbe successo, se non fosse arrivato in tempo in chiesa. Laurie gli aveva più volte lanciato un segnale. Aveva detto che non l'avrebbe perdonato e le credeva. Laurie non si sprecava in promesse, ma quando ne faceva una, la manteneva. Per questo si chiese nuovamente se era rimasto a Boston tanto a lungo più per il desiderio inconscio di evitare il matrimonio che per risolvere il mistero della morte della signora Stanhope. Trasse un profondo respiro. Sapeva solo che voleva arrivare in tempo. Poi, come in risposta ai suoi pensieri, l'interfono riprese vita: «È di nuovo il capitano che parla. La torre di controllo ci ha dato il via libera. Arriveremo a New York in orario». Poi Jack venne svegliato dalle ruote dell'aereo che toccavano il suolo all'aeroporto La Guardia. Si era addormentato malgrado l'ansia e, con grande imbarazzo, si accorse che aveva sbavato un po'. Si pulì la bocca con il dorso della mano, sfregando la corta e ispida barba sul mento. Con la stessa mano si toccò il viso. Aveva bisogno di radersi e soprattutto di fare una doccia, ma un'occhiata all'orologio gli fece capire che non sarebbe stato possibile. Erano le dodici e venticinque. Scrollandosi per rimettere in moto la circolazione, si passò le mani tra i capelli. Quel gesto suscitò un'espressione interrogativa da parte dell'uomo d'affari che si era platealmente spostato dalla parte opposta. Jack si chiese se anche quella reazione non confermasse il bisogno di una doccia. Sebbene avesse indossato la tuta protettiva, non si era lavato dopo avere eseguito l'autopsia su un corpo morto da nove mesi. Di colpo si rese conto che stava battendo il piede a una frequenza frenetica. Tentò inutilmente di fermare la gamba appoggiando una mano sul ginocchio. Non ricordava di essere mai stato tanto agitato, e dover restare immobile peggiorava la situazione. L'aereo parve metterci un'eternità per raggiungere il terminal e fermarsi lentamente al gate. Appena si spense il segnale delle cinture di sicurezza, balzò in piedi e passò accanto all'uomo che stava recuperando una borsa dallo scomparto sopra la testa, spingendolo di lato e guadagnandosi un'al-
tra occhiataccia. Scusandosi, riuscì a insinuarsi fino al portellone e, quando, dopo un'interminabile attesa, questo si aprì, si precipitò fuori. Percorse correndo la passerella telescopica, spingendo di lato le due persone sbarcate prima di lui. Una volta nel terminal si lanciò fuori dove s'imbatté in una fiumana di gente. Aveva sperato di non trovare fila per il taxi, essendo stato tra i primi a sbarcare. Con espressione impassibile corse in testa alla fila. «Sono un medico e ho un'emergenza», gridò, dicendosi che entrambe le affermazioni erano vere, anche se non correlate. La gente in coda lo fissò con una certa irritazione, ma nessuno si mise a discutere. Saltò nel primo taxi. L'autista stava parlando al cellulare. Jack gli gridò l'indirizzo sulla Centoseiesima Strada e il taxi si staccò dal cordolo. Controllò l'ora. Mancavano diciotto minuti all'una. Aveva poco più di tre quarti d'ora per arrivare alla Riverside Church. Si appoggiò allo schienale e tentò invano di rilassarsi, ma come se non bastasse, beccarono il rosso a ogni semaforo. Guardò di nuovo l'orologio. Gli parve ingiusto che la lancetta dei secondi si spostasse nel quadrante più rapidamente del solito. Era già l'una meno un quarto. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a recarsi direttamente in chiesa, rinunciando a passare da casa, così sarebbe certamente arrivato puntuale, ma era vestito troppo male e aveva un assoluto bisogno di radersi e lavarsi. Quando il tassista terminò la telefonata e prima che potesse iniziarne un'altra, Jack si allungò e gli propose: «Se una volta arrivati fosse disposto ad aspettarmi, le darei una mancia di venti dollari». «Aspetterò, se è questo che desidera», rispose gentilmente l'autista. Il successivo intasamento si verificò quando un veicolo imboccò la corsia sbagliata di un ponte. Dopo un'assordante cacofonia di clacson e imprecazioni, il problema venne risolto, ma non prima d'avere perso altri cinque minuti. Quando arrivò finalmente a Manhattan, era l'una in punto. Il tassista era riuscito ad attraversare rapidamente la città prendendo alcune strade tranquille di Harlem. Quando si fermò davanti all'indirizzo di Jack, era l'una e un quarto. Jack aprì la portiera ancor prima che l'auto si fermasse del tutto. Corse su per le scale e si precipitò nell'edificio, sorprendendo alcuni operai che stavano ristrutturando lo stabile e sollevando nuvole di polvere. Aprì la porta dell'appartamento e stava per entrare quando il sovrintendente dei lavori lo intravide da alcuni piani sopra di lui e gli gridò che doveva parlargli per un problema idraulico. Jack gli urlò che non era il mo-
mento. In casa, gettò la sacca sul divano e cominciò a spogliarsi, seminando gli indumenti fino al bagno. Appena si vide nello specchio, rabbrividì. Aveva le guance e il mento anneriti da una barbetta spinosa che pareva sporco e gli occhi arrossati e infossati. Non avendo tempo per radersi e rinfrescarsi, scelse la doccia. Inclinandosi nella vasca, aprì al massimo i rubinetti, ma ne uscì solo un rivoletto d'acqua: il problema idraulico toccava chiaramente tutto l'edificio. Richiuse i rubinetti e, dopo essersi spruzzato generosamente con dell'acqua di colonia, corse in camera da letto e si vestì. Afferrò i gemelli e li infilò nella tasca dei pantaloni. La cravatta a farfalla già annodata finì nell'altra tasca. Dopo avere calzato le scarpe, messo il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni e il cellulare nella giacca, corse nell'atrio. Rallentò il passo per non sollevare troppa polvere e il capocantiere, rivedendolo, lo chiamò di nuovo. Jack non si prese neppure la briga di rispondere. Fuori il taxi lo stava aspettando, attraversò la strada e saltò dentro. «Riverside Church!» «Sa a che altezza si trova?» chiese il tassista, guardando Jack nello specchietto retrovisore. «Centoventiduesima», rispose secco, mentre armeggiava con i bottoni a perno. Uno gli cadde sul sedile e scomparve tra la seduta e lo schienale. Cercò di infilare la mano nella fessura per recuperarlo, ma non ci riuscì e vi rinunciò subito. Usò quelli che gli rimanevano e lasciò l'asola più bassa libera. «Sta per sposarsi?» chiese l'autista, continuando a lanciargli occhiate nello specchietto. «Lo spero», rispose, questa volta alle prese con i gemelli. Sistemato il primo, trafficò con il secondo e intanto cercò di ricordare l'ultima volta che aveva indossato uno smoking. Forse nella sua vita precedente, quando era oftalmologo. Sistemati i gemelli, si chinò, si allacciò le scarpe e le spolverò. Per ultimo abbottonò il primo bottone della camicia e si agganciò il papillon. «Sta benissimo», commentò l'autista con un ampio sorriso. «Vedremo», replicò Jack con il suo solito sarcasmo. Si chinò in avanti e tirò fuori il portafogli dalla tasca. Data un'occhiata al tassametro, estrasse le banconote da venti più la mancia, e le fece cadere attraverso il divisorio in plexiglas sul sedile del passeggero mentre il tassista svoltava in Riverside Drive. Davanti a loro apparve il campanile color sabbia della chiesa. Torreg-
giava sulle strutture vicine e spiccava per la sua architettura gotica. Davanti alla chiesa c'erano numerose limousine nere, ma, a parte gli autisti appoggiati ai veicoli, non c'era nessuno. Jack guardò l'orologio, era l'una e trentatré. Era in ritardo di tre minuti. Aprì la portiera prima ancora che l'auto si fosse fermata e gridò un grazie al tassista mentre balzava in strada. Abbottonandosi la giacca, fece gli scalini a due a due. Nel vano della porta, come un miraggio, apparve improvvisamente Laurie. Indossava uno splendido abito bianco e una musica da organo giungeva dalle sue spalle. Si fermò ammirato. Era più bella del solito, veramente raggiante, a parte le mani strette a pugno e piantate sui fianchi. C'era anche suo padre, il dottor Montgomery, molto regale, ma per niente allegro. «Jack!» gridò Laurie con un tono di voce sospeso tra l'ira e il sollievo. «Sei in ritardo!» «Ehi», la salutò allargando le mani. «Ma sono qui.» Laurie sorrise. «Fila dentro!» gli ordinò scherzosamente. Jack salì l'ultimo gradino, Laurie gli allungò una mano e lui gliela prese. Poi lei si chinò a guardarlo un po' preoccupata. «Dio mio, hai un aspetto orribile.» «Non dovresti lusingarmi tanto», si schermì con finta modestia. «Non ti sei neppure fatto la barba!» «Ci sono segreti peggiori», confessò, sperando che non si accorgesse che non si lavava da quasi due giorni. «Non so in che cosa mi vado a cacciare», borbottò. «Le amiche di mia madre saranno sgomente.» «E a ragione!» Le sfuggì un sorriso. «Non cambierai mai.» «Non sono d'accordo. Sono cambiato. Sarò in ritardo, ma sono felice di essere qui. Vuoi sposarmi?» Lo guardò estasiata. «Certo che sì. È quello che ho sempre desiderato.» «Non so come dirti quanto ti sono grato per essere disposta a sposarmi.» «Immagino tu abbia un'elaborata spiegazione per questo arrivo all'ultimo minuto.» «Non vedo l'ora di raccontartela. Francamente, l'epilogo a Boston mi ha stupito. Stenterai a credere alla storia che ti racconterò.» «Sono ansiosa di sentirla», ammise, «ma ora farai meglio a entrare in chiesa e ad aspettarmi all'altare. Il tuo testimone, Warren, è pronto per la camicia di forza. Quindici minuti fa era qui fuori e diceva testualmente: 'lo
prenderò a calci in culo'.» Lo spinse in chiesa, dove venne investito dalla musica. Esitò un attimo, facendo scorrere lo sguardo per la navata. La sua lunghezza lo intimidì. Il lato destro era gremito, non c'era quasi più un posto libero, mentre a sinistra non c'era quasi nessuno, a parte Lou Soldano e Chet. Accanto al sacerdote c'era Warren che, anche da lontano, aveva un aspetto fantastico. Trasse un profondo respiro per fortificarsi lo spirito e si avviò verso una vita completamente nuova. Il resto della cerimonia fu per lui un'esperienza vaga. Dovettero spingerlo in questa o quella direzione o sussurrargli cosa fare. Avendo trascorso gli ultimi giorni a Boston, aveva perso le prove e fu un'improvvisazione unica dall'inizio alla fine. La parte che gli piacque di più fu correre fuori dalla chiesa, e una volta salito in macchina, ebbe finalmente un attimo di pace, anche se troppo breve: il tragitto dalla chiesa alla Tavern on the Green a Central Park durò solo un quarto d'ora. Il ricevimento fu meno intimidatorio della cerimonia e, non fosse stato tanto stanco, l'avrebbe trovato piacevole. Dopo un pasto luculliano, il vino e i balli, Jack cominciò a spegnersi. Prima di perdere tutte le forze, doveva fare una telefonata. Si alzò dal tavolo scusandosi e trovò un posto tranquillo all'entrata del ristorante. Compose il numero del cellulare di Alexis la quale, con sua grande gioia, rispose subito. «Sei sposato?» volle sapere Alexis, appena sentì la sua voce. «Sì.» «Congratulazioni! È fantastico e sono molto felice per te.» «Grazie, sorellina. Ti ho chiamata per scusarmi per averti sconvolto la vita. Mi hai telefonato per aiutare Craig e te e ho finito per fare l'esatto contrario. Mi dispiace moltissimo.» «Grazie per le scuse», replicò Alexis, «ma non ti ritengo responsabile del comportamento di Craig né d'averlo smascherato. Sono sicura che sarebbe successo in ogni caso e preferisco sapere come stanno le cose. Sarà molto più facile prendere una decisione.» «Craig è ricomparso in aula?» «No, e non ho idea di dove sia. È stato emesso un mandato e la polizia è già venuta a casa per fare una perquisizione. Hanno confiscato tutte le sue carte, anche il passaporto, per cui non potrà andare lontano. Ovunque sia, sta soltanto rinviando l'inevitabile.» «Non ci crederai, mi dispiace per lui.»
«Anche a me.» «Ha tentato di vedere le ragazze o di telefonare?» «No, anche se non mi sorprende. Non è mai stato molto vicino alle sue figlie.» «Non credo sia mai stato vicino a nessuno, forse solo a te.» «A ripensarci, ne dubito. È una tragedia e personalmente ritengo che suo padre abbia una parte di colpa.» «Tienimi aggiornato», le chiese Jack. «Ora partiamo per il viaggio di nozze, ma avrò con me il cellulare.» «Questo pomeriggio sono venuta a conoscenza di un altro fatto inquietante. Una settimana fa Craig ha ipotecato casa nostra, e ha ritirato dalla banca parecchi milioni di dollari.» «Lo poteva fare senza la tua firma?» «Sì. Quando abbiamo acquistato la casa, ha insistito per farlo a nome suo, giustificandosi con tasse e assicurazioni, e all'epoca a me non interessava.» «Ha ritirato contanti?» «No, mi hanno riferito che li ha trasferiti su alcuni conti cifrati all'estero.» «Se avessi bisogno d'aiuto, fammelo sapere. Non avendo speso praticamente niente negli ultimi dieci anni, ho più soldi di quanti ne abbia mai avuti.» «Grazie, fratello. Me ne ricorderò. Ce la caveremo bene, anche se dovrò aumentare le mie tariffe.» Dopo qualche saluto affettuoso, Jack spense il telefonino. Non tornò immediatamente al ricevimento, ma rifletté sull'ingiustizia e i capricci della vita. Mentre lui pensava alla luna di miele con Laurie e a un promettente futuro, Alexis e le figlie avevano davanti a loro incertezza e strazi emotivi. Era sufficiente, pensò, per rendere una persona o epicurea o molto religiosa, o l'uno o l'altro. Si alzò. Aveva scelto l'epicureismo e tutto ciò che desiderava era portare a casa Laurie. Epilogo Cuba, L'Avana Lunedì, 12 giugno 2006 14.35
Per il viaggio di nozze, Jack aveva deciso di portare sua moglie in una località unica e lontana dai sentieri battuti. Aveva pensato all'Africa, ma aveva concluso che era troppo lontana. L'India ancora peggio, poi qualcuno gli aveva suggerito Cuba. Dapprima aveva accantonato l'idea, ritenendo impossibile riuscire a procurarsi i visti, ma poi su Internet aveva scoperto che si poteva aggirare l'ostacolo facendo scalo in Canada, in Messico o alle Bahamas. Lui aveva scelto le Bahamas. Il volo da New York a Nassau il sabato, il giorno dopo il matrimonio, era stato lungo e noioso, mentre quello da Nassau a L'Avana su un aereo di linea era stato molto più divertente e animato e aveva offerto loro un primo assaggio della mentalità cubana. Jack aveva prenotato una suite all'Hotel Nacional de Cuba, intuendo che avrebbe avuto un tocco del vecchio fascino dell'isola. Non erano rimasti delusi. Era situato sul Malecón nel quartiere Vedado, nella vecchia Avana. Sebbene alcune attrattive fossero datate, traspariva ancora l'originale splendore dell'art déco, e il servizio era eccellente. Contrariamente a ciò che aveva pensato, i cubani erano un popolo felice. Fortunatamente Laurie non aveva ancora insistito per fare gite turistiche, ma si era accontentata di passeggiare tranquillamente per il quartiere vecchio e centrale di L'Avana, in gran parte restaurato. Le loro camminate li avevano portati spesso oltre la zona rimessa a nuovo, in quartieri dagli edifici estremamente malconci, ma con ancora un vago accenno della loro originale imponenza. Per lo più, avevano dormito, mangiato e preso il sole. Jack aveva avuto il tempo per raccontarle nei dettagli quello che era accaduto a Boston e anche per discuterne a fondo. Laurie aveva provato comprensione per tutti, anche per Jack. «Che ne dici di organizzare una gita in campagna?» chiese improvvisamente Laurie, infiltrandosi nel riposo rinvigorente di Jack. Jack si riparò gli occhi dal sole e si girò per guardare la sua nuova mogliettina. Erano entrambi in costume da bagno, languidamente distesi su sedie a sdraio lungo la piscina. Laurie lo stava fissando da sopra gli occhiali da sole. «Vuoi veramente sacrificare questa vita splendidamente indolente?» le chiese. «Se fa tanto caldo qui al mare, chissà cosa non sarà in campagna.» «Non sto dicendo che dobbiamo farlo oggi o domani, ma un giorno o l'altro prima di partire. Sarebbe un peccato essere venuti fin qui e non aver
visitato l'isola al di fuori delle mete turistiche.» «Hai ragione», ammise senza grande entusiasmo. Il solo pensiero della calura gli fece venire sete. Si drizzò. «Vado a prendere da bere. Vuoi che ti porti qualcosa?» «Ti farai preparare uno di quei mojito?» «Mi tentano.» «Sei veramente in vacanza. Se lo prendi tu, lo prenderò anch'io, solo che può darsi che poi questo pomeriggio debba fare un sonnellino.» «Niente di male.» Jack si alzò e si stirò. Ciò di cui aveva veramente bisogno era noleggiare una bicicletta e fare un bel giro, ma quell'idea lo abbandonò già a metà strada verso il bar. Decise pigramente che ci avrebbe ripensato l'indomani. Catturato lo sguardo di uno dei camerieri, ordinò i due drink. Per lui bere alcol era una cosa eccezionale, soprattutto di pomeriggio, ma la sensazione di rilassamento che gli aveva dato il vino il giorno prima gli era piaciuta. Mentre attendeva, gli occhi di Jack vagarono per la piscina. C'erano alcune donne che meritavano più di un'occhiata di apprezzamento. Spostò lo sguardo verso la distesa del mare dei Caraibi smosso da una leggera e delicata brezza. «I suoi cocktail, signore», lo chiamò il cameriere, attirando la sua attenzione. Jack firmò lo scontrino e prese i due bicchieri. Mentre stava per girarsi, i suoi occhi notarono il viso di un uomo dall'altra parte della penisola del bar. Lo guardò una seconda volta, quindi si chinò in avanti e lo fissò in modo sfacciato. Gli occhi dell'uomo incrociarono brevemente i suoi, senza mostrare di averlo riconosciuto, per riportarsi subito sulla bella donna latina seduta accanto a lui. Jack lo osservò ridere amabilmente. Il medico si voltò e si avviò verso la sua sedia a sdraio, ma dopo pochi passi si girò di nuovo. Deciso a dare un'occhiata da vicino, costeggiò il bar e si avvicinò all'uomo da dietro. Gli arrivò direttamente alle spalle e sentì la sua voce. Parlava uno spagnolo decente, di certo migliore di quanto avrebbe potuto parlarlo lui. «Craig?» chiamò a voce abbastanza alta da farsi sentire da lui, che tuttavia non si voltò. «Craig Bowman», ripeté un po' più forte. Nessuna reazione. Jack fissò i due bicchieri che teneva in mano e che limitavano le sue opzioni. Dopo una breve indecisione, ne appoggiò uno sul bancone e diede un colpetto sulla spalla dell'uomo, che si girò di colpo e incrociò il suo sguardo. Nessuna reazione, solo un punto interrogativo stampato in faccia.
«Desidera?» chiese in inglese. «Credo che mi abbia confuso con qualcun altro. Mi chiamo Ralph Landrum.» «Mi scusi. Non volevo infastidirla.» «Si figuri. Lei come si chiama?» «Jack Stapleton. Da dove viene?» «Originariamente da Boston. E lei?» «New York», rispose Jack. «Soggiorna qui al Nacional?» «No. Ho affittato una casa appena fuori città. Mi occupo di sigari. E lei?» «Sono un medico.» Ralph s'inclinò all'indietro, affinché Jack potesse vedere la sua amica: «Lei è Toya». Jack le strinse la mano. «È stato un piacere conoscervi», disse Jack, pronunciando in modo goffo qualche parola in spagnolo a favore della ragazza. Recuperò il suo bicchiere. «Scusate la mia indiscrezione.» «Si figuri», esclamò Ralph. «Questa è Cuba. Le persone sono molto loquaci.» Con un cenno di saluto, Jack si allontanò e tornò da Laurie. Lei si raddrizzò, appoggiandosi su un gomito, e prese il bicchiere. «Ci hai messo un bel po'», osservò. Jack si sedette sulla sedia a sdraio e scrollò la testa. «Non ti è mai capitato d'imbatterti in qualcuno e di essere sicura di conoscerlo?» «Qualche volta», ammise, sorseggiando il suo mojito. «Perché?» «Perché mi è appena successo. Vedi quell'uomo che parla con quella donna pettoruta vestita di rosso dall'altra parte del bar?» Le indicò la coppia. Laurie spostò le gambe dall'altra parte, si sedette e guardò. «Sì, li vedo.» «Ero certo che fosse Craig», disse Jack con una risatina. «Gli assomiglia come una goccia d'acqua.» «Non avevi detto che tuo cognato ha i capelli chiari, come te? Quell'uomo è moro.» «Be', a parte i capelli. È incredibile.» Laurie si girò verso il marito. «Perché è tanto incredibile? Cuba sarebbe un ottimo rifugio per qualcuno come Craig. Non esiste estradizione tra Cuba e gli Stati Uniti. Forse è davvero lui.» «Chissà...» fece Jack pensieroso.
«Su, non lasciarti tormentare», lo incitò Laurie, sdraiandosi di nuovo, il bicchiere in mano. «Non preoccuparti», la tranquillizzò e si sdraiò pure lui. Non riuscì comunque a togliersi quella coincidenza dalla mente. Di colpo gli venne un'idea. Si raddrizzò, frugò nella tasca dell'accappatoio e tirò fuori il cellulare. Laurie percepì il movimento e aprì un occhio. «A chi telefoni?» «Ad Alexis.» Lei rispose, solo per dirgli che non poteva parlare, che era tra una seduta e l'altra. «Ho solo una domanda. Conosci per caso un Ralph Landrum?» «Sì, lo conoscevo», rispose Alexis. «Senti, Jack, devo proprio andare. Ti richiamo tra un paio d'ore.» «Come mai hai usato il passato?» «Perché è morto. Era uno dei pazienti di Craig morto per un linfoma circa un anno fa.» Nota dell'autore La concierge medicine (detta anche medicina a pagamento anticipato o boutique medicine o cura primaria di lusso) è un fenomeno relativamente nuovo apparso per la prima volta a Seattle. Come viene descritta in questo romanzo, è un esercizio di cura medica primaria che richiede una quota d'iscrizione annuale che varia da parecchie centinaia a migliaia di dollari a persona. Affinché questa quota non venga interpretata come un premio assicurativo sulla salute, che sarebbe contro le regole, al paziente viene fornita una lunga lista di servizi medici specifici solitamente non coperti dall'assicurazione, come, tanto per citarne alcuni, esami clinici approfonditi, cura preventiva, consigli alimentari e programmi di benessere su misura. Il reale beneficio deriva dalla garanzia offerta dal medico di limitare il numero di pazienti iscritti nel suo studio, rendendo quindi possibile un'attenzione maggiore e uno speciale accesso ai servizi standard (ma non eliminando il pagamento, che rimane a carico del paziente tramite l'assicurazione o direttamente dalle sue tasche). I servizi possono comprendere: un rapporto medico-paziente molto personale, visite che durano il tempo necessario, reception più accoglienti e meno affollate (non vengono chiamate «sale d'aspetto» dal momento che, trattandosi di un servizio confortevole, si deve evitare l'attesa), visite a
domicilio o in ambulatorio senza limiti d'orario, appuntamenti facilitati presso specialisti e consulti immediati, addirittura la possibilità che il medico raggiunga in luoghi distanti il paziente che si fa male o si ammala in viaggio. L'accesso speciale include appuntamenti fissati in giornata e la possibilità di contattare il medico ventiquattro ore su ventiquattro via cellulare, telefono di casa o e-mail. Su alcuni giornali specialistici, come pure sul New York Times e su altre riviste, sono stati pubblicati articoli sulla concierge medicine, ma pochi si sono accorti che questa pratica medica sta lentamente crescendo. Secondo me le cose sono destinate a cambiare perché la concierge medicine è un altro sottile ma significativo sintomo di un sistema sanitario che funziona male, visto che la buona medicina orientata al paziente era disponibile e dovrebbe continuare a esserlo, senza ulteriori spese. Sono di dominio pubblico le ingiustizie a livello mondiale nell'accesso alla sanità ed è più che evidente che la concierge medicine peggiorerà ulteriormente una situazione già difficile: i medici che praticano questo tipo di medicina vedranno, per definizione, un numero molto minore di pazienti e tutti quei pazienti che non possono pagare la quota anticipata avranno minori possibilità in un sistema ancora più limitato. Di fatto, un pugno di senatori statunitensi ha ufficialmente protestato presso il dipartimento della Salute e dei servizi umani per come il fenomeno potrebbe ridurre la capacità dei beneficiari del servizio sanitario pubblico di trovare medici di assistenza primaria. Nell'agosto 2005, il Government Accountability Office (organo di controllo delle spese del Congresso) ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che la concierge medicine non è ancora un problema, ma che va tenuta sotto controllo, sottintendendo implicitamente che avrebbe rappresentato un problema, vista la sua rapida crescita. Purtroppo, posso attestare personalmente che a Naples, in Florida, la concierge medicine si è ben radicata e che un nuovo paziente del servizio sanitario pubblico ha parecchie difficoltà a reperire un medico se non pagando l'onorario in anticipo o sborsando in prima persona una quota annuale esorbitante o decidendo di rinunciare al servizio pubblico. Sebbene Naples sia una comunità atipica per la particolare ricchezza economica, credo che preannunci un'imminente tendenza negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Pur avendo letto parecchi articoli, nessuno di loro affrontava il perché tale fenomeno sia emerso in questo particolare momento. Di solito vengono addotte motivazioni economiche e di marketing. A patto che ce lo si possa permettere, chi non vorrebbe avere i servizi offerti, considerata la si-
tuazione attuale? E quale medico non preferirebbe un'immediata sicurezza economica e la possibilità di praticare la propria professione senza fretta? Purtroppo questa risposta semplicistica non spiega il fenomeno. Secondo me, la vera risposta sta nel fatto che la concierge medicine è un risultato dell'atroce e inaudito stato confusionale dell'odierna assistenza sanitaria. Di fatto, c'è chi evoca la metafora della tempesta perfetta per descrivere l'attuale situazione, particolarmente negli Stati Uniti. Nel corso dell'ultimo quarto di secolo non sono stati pochi i problemi, ma mai così tanti e nello stesso momento. Stiamo assistendo contemporaneamente a un aggressivo contenimento dei costi, alla carenza di personale e attrezzature, alla tecnologia in espansione, a crescenti tensioni nel settore, all'aumento esponenziale dei costi ancillari, una pazzesca moltiplicazione dei prodotti offerti dalle compagnie assicurative, tra cui la managed care (assistenza gestita) con la sua intrusione nelle decisioni mediche e non ultimo il cambiamento del ruolo degli ospedali. Tutte queste forze hanno contribuito a rendere il principio base della medicina, cioè la pratica della cura primaria, un incubo, una cosa impossibile. Affinché un medico di base possa continuare a lavorare e a guadagnare a sufficienza da poter mantenere aperto l'ambulatorio (o mantenere l'impiego in una struttura di managed care) dovrà visitare i pazienti a un ritmo insostenibile, tale da creare insoddisfazione e scontento da ambo le parti. Prendete in considerazione il seguente esempio: un paziente con una malattia non grave (ipertensione e un alto livello di colesterolo) si fa visitare dal suo medico di base lamentando dolori alla spalla e addominali. Nell'attuale ambulatorio medico, il dottore potrà occuparsi di tutto, anche delle basilari cortesie sociali, in una quindicina di minuti. Comprensibilmente dovrà occuparsi in primis dei disturbi già noti e solo dopo potrà dedicarsi ai nuovi sintomi. Con l'orologio che ticchetta e una sala d'aspetto gremita di pazienti di malumore perché una piccola emergenza ha fatto slittare gli appuntamenti (incidenti che succedono quotidianamente), il medico ricorre all'approccio più rapido prescrivendo una risonanza magnetica o una TAC per la spalla e indirizzando il paziente a un gastroenterologo per i disturbi addominali. Sotto la spinta della pressione di contenere le spese dello studio, il medico non ha il tempo per analizzare ogni disturbo a fondo con accurati esami e anamnesi. Come conseguenza si ha una tendenza al sovrasfruttamento e al disagio per il paziente, costi più alti, e scarsa soddisfazione sia del malato sia del sanitario. Il medico è costretto dalle circostanze ad agire più che altro da collegamento tra il paziente e uno specialista. Ciò
vale soprattutto nel caso dei medici internisti, molti dei quali esercitano la medicina di base. Tornando al perché la concierge medicine abbia preso piede ora e non nel passato, io credo che sia una conseguenza della crisi della sanità e della conseguente disillusione e insoddisfazione nell'esercizio della medicina che sta raggiungendo proporzioni epidemiche, come indicato da numerosi sondaggi. I dottori non sono contenti, in particolar modo i medici di base. Sotto questa luce, la concierge medicine è un movimento reazionario più che un puro stratagemma di marketing. È un tentativo di correggere le disparità che i medici si sono trovati ad affrontare tra la medicina appresa nell'ambiente accademico e che avevano sperato di esercitare, e la medicina che sono costretti a praticare, obbligati dalla burocrazia (assistenza gestita o sanità statale) o dalle carenze (mancanza di strutture e attrezzature) e tra le aspettative dei pazienti e la realtà di ciò che forniscono realmente i medici. La concierge medicine è iniziata negli Stati Uniti, ma a causa dell'attuale disillusione e insoddisfazione dei medici di tutto il mondo si diffonderà, se già non è successo, in altri paesi. Intellettualmente, mi riesce difficile comprendere il concetto di concierge medicine per gli stessi motivi presentati dal dottor Herman Brown durante la sua testimonianza di perito del querelante in questo libro. In breve, la concierge medicine va contro i concetti tradizionali della medicina altruistica. Invero è una diretta violazione del principio della giustizia sociale, che è uno dei tre puntelli della professione medica che richiede che i medici «si adoperino per eliminare le discriminazioni di razza, sesso, stato economico (corsivo mio), etnicità, religione o qualsiasi altra categoria» nella sanità. C'è però un problema. Mentre, filosoficamente parlando, sono contro questa pratica, sono anche a suo favore, il che mi fa sentire un ipocrita. Ammetto che se fossi un medico di base oggi, vorrei avere uno studio stile concierge e non uno standard. Mi giustificherei dicendo che preferisco occuparmi di una sola persona bene piuttosto che di dieci male. Purtroppo il mio sarebbe un ben misero ragionamento giustificativo. Direi invece che ho il diritto di esercitare la medicina come più mi piace. Sfortunatamente vorrebbe dire negare che una consistente fetta di soldi pubblici viene spesa nella formazione di tutti i medici, me incluso, che sono tenuti a curare tutti i pazienti che si presentano in uno studio medico, e non solo quelli che possono pagare in anticipo. Allora direi che la concierge medicine è simile a una scuola privata e che i pazienti con i mezzi hanno il diritto di pagare
per i servizi in più. A questo ragionamento sfugge la considerazione che i genitori che scelgono di mandare i figli alle scuole private pagano ugualmente la scuola pubblica con le tasse e che il servizio medico, anche quello basilare, è distribuito in modo ingiusto, e io accrescerei questa ingiustizia. Dovrei infine ammettere che la scelta sarebbe stata dettata principalmente dalla quotidiana soddisfazione professionale, anche se, nel profondo, riconoscerci di essere diventato un medico differente da quello che ero all'inizio della carriera. Una simile ammissione significa che non biasimo i medici che praticano la concierge medicine, ma il sistema che li ha costretti a farlo. È sempre più facile criticare piuttosto che risolvere i problemi, anche se ritengo che ci sia una soluzione semplice per limitarne l'espansione. Basterebbe cambiare il meccanismo di rimborso per la cura primaria, che oggi in America si basa puramente su un prezzo fisso di poco più di cinquanta dollari a visita stabilito dal servizio sanitario pubblico (che determina le nuove tendenze per la politica sanitaria). I pazienti e le malattie non possono essere standardizzati e, se un paziente necessita di quindici, trenta, quaranta minuti o addirittura un'ora, il medico dovrebbe essere pagato di conseguenza. In altre parole, il rimborso dovrebbe basarsi sul tempo dedicato al paziente, incluse le telefonate o le e-mail. Dovrebbe inoltre adeguarsi al livello di preparazione del medico. È il buonsenso a suggerirlo. In questo modo si incoraggerebbe la qualità delle cure rendendo il medico più libero e il paziente più soddisfatto. Ritengo inoltre che un simile piano di rimborso avrebbe paradossalmente l'effetto di abbassare i costi della sanità riducendo gli abusi. Il rimborso dovrebbe essere dirottato verso le cure primarie e non verso quelle specialistiche, come succede ora. Si potrebbe obiettare che stabilire un rimborso sul tempo spalancherebbe la porta a ogni genere di abuso, ma non sono d'accordo. Ritengo che un eventuale abuso sarebbe l'eccezione piuttosto che la regola, in particolar modo in presenza del forte movimento che riafferma la professionalità medica tramite il codice di deontologia medica appena promulgato. Desidero infine spendere due parole sulla negligenza e l'imperizia medica. Quando conclusi la mia lunga formazione professionale negli anni Settanta e aprii un piccolo studio privato, vissi la prima crisi che riguardava la responsabilità professionale medica, provocata da un'ondata di vittorie dei querelanti. Come molti altri medici ebbi modo di sperimentare la difficoltà di ottenere una copertura assicurativa, dal momento che alcune compagnie avevano improvvisamente abbandonato il settore degli errori professionali.
Fortunatamente la situazione si calmò grazie alla nascita di metodi assicurativi alternativi e tutto filò liscio fino agli anni Ottanta, quando si profilò una seconda crisi che provocò un'improvvisa ripresa delle azioni legali per errori professionali e un marcato e inquietante aumento dei premi di assicurazione. Durante quelle due crisi, il sistema sanitario assorbì i costi maggiori girandoli più che altro sui pazienti, e sul governo attraverso il sistema sanitario pubblico. Di conseguenza il sistema non patì alcun dissesto, a parte un indurimento dell'avversione dei medici per gli avvocati, in particolare per alcuni avidi soggetti specializzati in negligenza medica. Ricordo bene quel periodo e condividevo quel risentimento. Grazie ai miei rapporti con la medicina accademica, avevo la sensazione che solo i bravi medici, quelli disposti ad accollarsi i casi problematici, venissero citati in giudizio, quindi ero favorevole alla «Tort Reform», un provvedimento del 2004 che voleva fissare un tetto alle ricompense non economiche e agli onorari degli avvocati, rettificare alcuni statuti sulle limitazioni ed eliminare la responsabilità comune e altri coinvolgimenti. Purtroppo siamo di nuovo in un periodo difficile che ha praticamente le stesse origini dei precedenti, nel problema della copertura assicurativa e nell'aumento vertiginoso dei premi, ma è decisamente peggiore e sta distruggendo il sistema sanitario. I medici sono tartassati ed esposti alla tempesta e, sempre più insoddisfatti e disillusi, chiudono gli ambulatori per trasferirsi in altre zone, riducendo così l'offerta dei servizi. Oltre ai crescenti problemi economici, una citazione in giudizio è un'esperienza agghiacciante anche quando si risolve in un nulla di fatto, come accade nella maggior parte dei casi. Nonostante un gran numero di Stati abbia accettato la «Tort Reform» sono emersi nuovi dati sull'entità del danno iatrogenico che mi hanno indotto a cambiare idea e a non considerare più questa riforma come una soluzione. Non considero neppure più il problema come un confronto tra i buoni e i cattivi con medici altruisti contrapposti ad avidi avvocati. Come suggerisce il mio libro, sono convinto che la colpa sia da ambo le parti. Sono più importanti le questioni globali sulla sicurezza dei pazienti e su un equo risarcimento per tutti i pazienti che hanno patito esiti negativi che non attribuire il biasimo o fornire transazioni inaspettate in una sorta di lotteria dei processi per pochi pazienti. Ci sono sistemi migliori per affrontare il problema: una medicina organizzata e un foro competente per negligenza medica e danni personali.
È risultato che l'approccio della riforma non funziona. Alcuni studi hanno dimostrato che nell'attuale sistema la stragrande maggioranza delle denunce non è pertinente; che la stragrande maggioranza dei casi ritenuti pertinenti non viene presentata e che i pagamenti vengono effettuati quasi senza alcuna prova di cure scadenti. Un simile risultato non è sicuramente un primato di cui andare fieri. Allo stato attuale, il metodo per affrontare l'incuria medica fallisce nei suoi due obiettivi: indennizzare i pazienti con esito sfavorevole, e fornire un efficace deterrente alla negligenza medica. Positivamente parlando, ci sono a disposizione molti fondi per una strategia migliore per gli indennizzi che i medici e gli ospedali sono costretti a pagare. Al momento, però, solo una piccolissima parte di questi soldi finisce nelle mani dei pazienti e coloro che ottengono un risarcimento, lo fanno solo in seguito a una dura battaglia. Abbiamo bisogno di un sistema che distribuisca i fondi senza lungaggini ai pazienti danneggiati, e contemporaneamente indaghi sui motivi del danno per garantire che la situazione non si ripeta. Sono state fatte numerose proposte, da una sorta di assicurazione «no fault» a qualcosa di simile al risarcimento per lavoratori di mediazione/arbitrato. Questo è il momento per un approccio alternativo. FINE