KARIN SLAUGHTER CORPI (A Faint Cold Fear, 2003) A V.S. per il suo amore e il suo affetto DOMENICA 1 Sara Linton fissava ...
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KARIN SLAUGHTER CORPI (A Faint Cold Fear, 2003) A V.S. per il suo amore e il suo affetto DOMENICA 1 Sara Linton fissava la porta della gelateria, da cui la sorella incinta stava uscendo con in mano due coppette di gelato al cioccolato. Mentre Tessa attraversava il parcheggio, una folata di vento le sollevò il vestito viola sopra le ginocchia. Si dimenò per tenere giù la gonna senza rovesciare i gelati e Sara la sentì imprecare mentre si avvicinava alla macchina. Cercò di non ridere e si allungò per aprirle la portiera. «Vuoi una mano?» domandò. «No» rispose Tessa, infilandosi dentro l'auto. Si sistemò e porse il gelato a Sara. «E smettila di ridere alla mie spalle.» Quando la sorella si sfilò i sandali per appoggiare i piedi nudi sul cruscotto, Sara trasalì. La BMW 330i era nuova di zecca e Tessa aveva già lasciato un sacchetto di noccioline pralinate a sciogliersi sul sedile posteriore e rovesciato una Fanta sul tappetino. Non fosse stata quasi all'ottavo mese di gravidanza, Sara l'avrebbe strozzata. «Come mai ci hai messo tanto?» domandò. «Dovevo fare pipì.» «Di nuovo?» «Già. E allora?» ribatté Tessa. Si fece vento con la mano. «Gesù, che caldo!» Sara decise che era meglio lasciar perdere e alzò l'aria condizionata. Essendo medico, sapeva che Tessa era solo vittima dei suoi ormoni, ma certe volte pensava che sarebbe stata un'ottima soluzione per tutti chiuderla dentro una cassa per farla uscire solo al momento del parto. «Era pieno di gente» farfugliò Tessa, con la bocca piena di gelato. «Dannazione, non dovrebbero essere tutti in chiesa a quest'ora?» «Mmh.» «È sporco da far schifo. Guarda il parcheggio» disse agitando il cuc-
chiaino. «Buttano rifiuti dappertutto e se ne fregano di chi dovrà pulire!» Sara borbottò qualche parola di assenso e continuò a mangiare il gelato, mentre Tessa snocciolava una litania di lamentele sulle persone che aveva visto in gelateria, dall'uomo che parlava a voce alta al cellulare, alla signora che dopo essere stata in coda dieci minuti buoni, arrivata al banco non aveva ancora deciso cosa ordinare. Dopo un po' Sara smise di ascoltarla e rimase a fissare l'area di parcheggio pensando alla settimana infernale che aveva davanti. Parecchi anni prima aveva accettato un incarico part-time come medico legale della contea, ma ultimamente il lavoro all'obitorio le rendeva difficile rispettare gli orari della Clinica Pediatrica di Heartsdale, dove esercitava. La settimana precedente, ad esempio, una convocazione in tribunale le aveva portato via due giorni e adesso l'aspettava una settimana di recuperi in reparto. Capitava sempre più spesso che il lavoro all'obitorio interferisse con quello ospedaliero. Tra breve avrebbe dovuto fare una scelta e non sarebbe stato facile. Tredici anni prima, quando aveva lasciato Atlanta per ritornare a vivere nella contea di Grant, quella del medico legale le era sembrata un'attività stimolante, di cui sentiva un gran bisogno. In effetti, temeva che il suo cervello si sarebbe atrofizzato senza le continue sfide offerte dalla medicina forense. D'altro canto curare i bambini era una sorta di lenitivo e Sara, che non poteva avere figli, sapeva che, se ci avesse rinunciato, ne avrebbe sentito la mancanza. Non riusciva a decidere quale delle due attività fosse più gratificante. Di solito bastava una giornata storta da una parte, per farle sembrare l'altra un paradiso. «Attempata!» esclamò Tessa stizzita e a voce alta, per riscuotere Sara dai suoi pensieri. «Ho trentaquattro anni, mica cinquanta! Un'infermiera non può permettersi di parlare così a una donna incinta!» Sara squadrò la sorella. «Come dici?» «Sii sincera, non hai ascoltato una parola!» «Ma certo che ho sentito» rispose, cercando di suonare convincente. Tessa si accigliò. «Stavi pensando a Jeffrey, non è vero?» La domanda la colse di sorpresa. Per una volta il pensiero dell'ex marito non l'aveva nemmeno sfiorata. «No.» «Sara, non dire bugie» l'ammonì Tessa. «Venerdì tutti hanno notato quella ragazza alla centrale di polizia.» «Doveva occuparsi della scritta sulla nuova auto di pattuglia» disse sentendosi le guance in fiamme.
Tessa le lanciò un'occhiata incredula. «Non è la scusa che ha tirato fuori anche l'altra volta?» Sara non rispose. Ricordava ancora il giorno in cui era rientrata presto dal lavoro e aveva trovato Jeffrey a letto con la proprietaria del negozio di insegne. Tutta la famiglia Linton era stupita e irritata dal fatto che Sara avesse ricominciato a uscire con Jeffrey, ma lei, pur condividendo i loro sentimenti, era incapace di una rottura definitiva. Non riusciva a essere razionale, quando si trattava di Jeffrey. «Stai attenta. Non dargli troppo spago» insistette la sorella. «Non sono una stupida.» «Ma ti comporti da stupida.» «Anche tu, se è per questo» la rimbeccò Sara, pentendosi subito delle sue parole. Cadde il silenzio, rotto soltanto dal ronzio del condizionatore. Alla fine Tessa azzardò una battuta. «Dovevi rispondere: "Chi lo dice sa di esserlo".» Sara avrebbe voluto ridere, ma era troppo indispettita. «Tess, non sono affari tuoi.» Tessa sbottò in una sonora risata. «Perché, cosa credi che facciano gli altri? Sono sicura che Maria Simms si è buttata sul telefono prima ancora che quella stronza scendesse dal furgone.» «Non chiamarla a quel modo.» Tessa agitò di nuovo il cucchiaino nell'aria. «Come vuoi che la chiami? Sgualdrina?» «Non chiamarla in nessun modo» disse Sara in tono perentorio. «Non nominarla neppure.» «Oh, a me sembra che qualche insulto se lo meriti.» «È Jeffrey il traditore. Lei ha semplicemente approfittato di una buona occasione.» «Be', anch'io ai miei tempi non mi sono mai lasciata scappare le buone occasioni. Ma non sono mai corsa dietro a un uomo sposato.» Sara chiuse gli occhi sperando che la sorella la smettesse. Ma Tessa continuò imperterrita: «Maria ha detto a Penny Brock che l'ha vista ingrassata». «E da quando spettegoli con Penny Brock?» «Le ho sturato il lavandino della cucina» rispose, estraendo con uno schiocco il cucchiaino dalla bocca. Tessa aveva smesso di lavorare a tempo pieno nella ditta di istallazioni idrauliche del padre da quando il pan-
cione le impediva di infilarsi negli spazi troppo stretti, ma era ancora in grado di rimediare a uno scarico intasato. Disse: «A sentire Penny, è diventata una barca». Sara non poté reprimere un moto di gioia subito soffocato dal senso di colpa per aver gioito dei fianchi larghi e del sedere grosso di un'altra donna. La ragazza delle insegne aveva sempre avuto la tendenza a ingrassare. «Vedo che sorridi» la stuzzicò Tessa. Era la verità. Le facevano male le guance per lo sforzo di tenere la bocca chiusa. «Questa storia mi sta facendo rimbecillire.» «È quello che cerco di dirti da circa mezz'ora.» Col cucchiaio di plastica Tessa ripulì la coppetta fino all'ultima traccia di gelato e sospirò, come se all'improvviso la giornata avesse preso una brutta piega. «Posso finire anche il tuo?» «No.» «Sono incinta!» piagnucolò. «Non è colpa mia.» Tessa riprese a grattare la coppetta. Poi, come se quel rumore non fosse già abbastanza irritante, cominciò a sfregare la pianta del piede sul cruscotto di radica intarsiato. Passò un minuto buono, poi il tipico rimorso da sorella maggiore investì Sara come una pietra. Cercò di opporre resistenza mangiando in fretta il suo gelato, ma le andò di traverso. «Tieni, bambinona» disse passando la coppetta alla sorella. «Oh, grazie» miagolò Tessa raddolcita. «Perché non ne compriamo dell'altro da mangiare più tardi?» propose. «Fammi un favore, vacci tu. Non mi va di fare la figura di quella che si abboffa come un maiale.» Le rivolse un sorriso angelico e sbatté le palpebre. «E poi temo che il ragazzo al banco non mi trovi troppo simpatica.» «Non mi dire.» Tessa sbatté ancora gli occhi con aria innocente. «Certa gente è troppo irritabile.» Sara aprì la portiera, contenta di avere un pretesto per scendere dalla macchina. Era a un metro di distanza, quando Tessa abbassò il finestrino. «Lo so, lo so» la anticipò Sara. «Doppio cioccolato.» «Esatto. Aspetta, però.» Leccò un baffo di gelato dal cellulare e lo allungò alla sorella. «C'è Jeffrey.»
Sara portò la macchina sull'argine ghiaioso, la infilò tra l'auto di pattuglia e quella di Jeffrey e si accigliò al rumore dei sassolini che schizzavano sulla fiancata. Si era decisa a cambiare la sua spider decappottabile con un modello più spazioso solo perché voleva sistemarci un seggiolino per bambini. Fra Tessa e le insidie della natura, tuttavia, la nuova BMW sarebbe stata da buttare prima che il piccolo avesse trovato il tempo di venire al mondo. «È questo il posto?» chiese Tessa. «Sì.» Sara tirò il freno a mano e guardò il letto del fiume in secca. Dalla metà degli anni '90 la Georgia era afflitta dalla siccità, e il fiume, che un tempo si snodava imponente attraverso i boschi simile a un grasso serpente pigro, ora era ridotto a poco più di un ruscello. Del serpente era rimasta solo la carcassa, rinsecchita e piena di crepe, e il ponte in cemento che lo attraversava a una decina di metri d'altezza adesso sembrava fuori luogo, anche se Sara ricordava un tempo in cui la gente ci saliva per pescare. «È là il corpo?» si informò sua sorella, indicando un gruppo di uomini radunati in semicerchio. «È probabile.» Si domandò se il terreno su cui si trovavano fosse di proprietà del college. La contea di Grant comprendeva tre città: Heartsdale, Madison e Avondale. Heartsdale, che ospitava il Grant Institute of Technology, era l'orgoglio della regione e i crimini commessi entro i suoi confini suscitavano sempre grande sgomento. Un crimine all'interno del college poi, era inaudito. «Che cosa è successo?» domandò Tessa, incuriosita, benché in passato non avesse mai mostrato interesse per quell'aspetto del suo lavoro. «È quello che devo scoprire» le ricordò, allungando il braccio per prendere lo stetoscopio dallo scomparto del cruscotto. Lo spazio era limitato e le sue dita sfiorarono la pancia di Tessa, Sara ve le lasciò riposare un momento. «Oh, Sissy» sospirò Tessa, prendendole la mano. «Ti voglio tanto bene.» Sara rise vedendo che aveva le lacrime agli occhi, poi, senza un vero motivo, si lasciò contagiare dalla commozione. «Anch'io ti voglio bene.» Le strinse forte la mano e aggiunse: «Rimani in macchina. Non ci vorrà molto». Mentre chiudeva la portiera, le venne incontro Jeffrey. Aveva i capelli scuri pettinati con cura all'indietro, ancora umidi sulla nuca. Indossava un abito grigio antracite, stirato alla perfezione e di ottimo taglio, col distintivo dorato della polizia che spuntava dal taschino.
Sara portava i pantaloni di una tuta che aveva visto giorni migliori e una maglietta che aveva rinunciato a essere bianca da un pezzo. Ai piedi, un paio di scarpe da ginnastica senza le calze, con i lacci allentati per poterle sfilare e infilare senza fatica. «Non era necessario che ti mettessi in ghingheri» ironizzò Jeffrey, ma a Sara non sfuggì la tensione nella sua voce. «Di che si tratta?» «Non ne sono sicuro, ma c'è qualcosa che non quadra...» si interruppe e si voltò verso la macchina. «Hai portato Tess?» «Eravamo insieme e ha voluto venire...» non terminò la frase perché non aveva una spiegazione diversa dalla propria volontà di accontentare Tessa ogni volta che era possibile. «Inutile discutere con lei, immagino» commentò Jeffrey. «Ha promesso di rimanere in macchina» disse Sara, e in quel momento sentì alle spalle il rumore della portiera che si chiudeva. Si voltò con le mani sui fianchi, ma Tessa la stava già liquidando con un gesto spazientito. «Devo andare» spiegò, indicando gli alberi poco lontano. Jeffrey domandò: «Torna a casa a piedi?». «Deve andare al gabinetto.» Sara osservò Tessa che cominciava a risalire la collina in direzione del bosco. Restarono a guardarla mentre affrontava la salita reggendosi la pancia, come se trasportasse una cesta. «Ti arrabbi se mi metterò a ridere quando la vedremo rotolare giù?» domandò Jeffrey. Invece di rispondere, Sara rise con lui. «Credi che se la caverà lassù?» «Ma certo» disse Sara. «Non morirà per un po' di moto.» «Sei sicura?» insistette Jeffrey preoccupato. «Sta benissimo» lo rassicurò. Jeffrey non aveva mai avuto a che fare con una donna incinta in vita sua. Forse temeva che Tessa entrasse in travaglio prima di raggiungere gli alberi in cima alla collina. Comunque, se fosse successo, sarebbe stata una benedizione! Sara s'incamminò in direzione della scena del crimine, ma si fermò quando si rese conto che lui non la seguiva. Si voltò immaginando quel che l'aspettava. «Te ne sei andata presto questa mattina» le disse. «Ho pensato di lasciarti dormire.» Tornò indietro e gli prese un paio di guanti di lattice dalla tasca della giacca. «Cosa c'è che non va?» «Non ero poi così stanco» disse Jeffrey in tono allusivo.
Lei armeggiò con i guanti cercando qualcosa da dire. «Dovevo fare uscire i cani.» «Potevi almeno portarli con te.» Sara fissò intenzionalmente l'auto della polizia. «È nuova?» domandò, fingendosi incuriosita. La contea di Grant era un posto piccolo. Sara aveva saputo della nuova auto di pattuglia prima ancora che venisse parcheggiata di fronte alla centrale. «È arrivata un paio di giorni fa.» «Bella scritta» commentò lei, simulando indifferenza. «Ti pare?» La solita irritante risposta di quando non sapeva cosa dire. Sara non gliela lasciò passare. «Ha fatto proprio un bel lavoro.» Jeffrey continuò a guardarla come se non avesse nulla da nascondere. Lei non si lasciò impressionare. Aveva fatto quella faccia anche l'ultima volta che le aveva giurato di non averla tradita. Fece un sorriso forzato e tornò a chiedere: «Che cosa c'è che non quadra?». «Lo vedrai da te.» Sbuffò con insofferenza e si diresse verso il fiume. Sara lo seguì senza affrettarsi, ma lui rallentò il passo per aspettarla. Era palesemente arrabbiato, ma lei non si era mai lasciata intimorire dai suoi umori. «È uno studente?» gli chiese. «Probabile» rispose Jeffrey, ancora sulle sue. «Non aveva addosso documenti di identità, ma questo lato del fiume è terreno del college.» «Fantastico» borbottò Sara aspettandosi da un momento all'altro di veder spuntar fuori Chuck Gaines, il nuovo capo della vigilanza del college, che non avrebbe fatto altro che criticare tutto quello che facevano. Avrebbero potuto allontanarlo come intralcio alle indagini, ma la consegna tassativa di Jeffrey, in qualità di capo della polizia, era di non creare attriti col college. Chuck lo sapeva meglio di chiunque altro e ne approfittava ampiamente. Sara notò una bionda molto attraente seduta su uno sperone roccioso. Accanto a lei c'era Brad Stephens, un giovane agente che tanti anni prima era stato un suo paziente. «Ellen Schaffer» la informò Jeffrey. «Stava facendo jogging in direzione del bosco. Ha attraversato il ponte e ha visto il corpo.» «Quando è successo?» «Circa un'ora fa. Ci ha chiamato col cellulare.» «Va a fare jogging col cellulare?» Si domandò perché la cosa la stupisse.
La gente non andava più neanche in bagno senza portarsi dietro il telefono. Jeffrey disse: «Le parlerò di nuovo quando avrai esaminato il corpo. Prima era troppo sconvolta. Speriamo che Brad riesca a calmarla». «Conosceva la vittima?» «Pare di no» rispose. «Probabilmente si è solo trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Era una sorte comune a molti testimoni: in una manciata di secondi vedevano qualcosa che si sarebbero portati dietro per il resto della vita. Per fortuna, da quello che Sara poteva scorgere del corpo adagiato sul letto del fiume, alla ragazza era andata bene, lo spettacolo non sembrava troppo raccapricciante. «Ti aiuto» disse Jeffrey prendendole il braccio quando furono vicino alla riva. Il terreno era ondulato e declinava verso il fiume. Il deflusso delle piogge aveva scavato una sorta di sentiero, ma il fondo sabbioso era friabile e cedevole. Sara calcolò che in quel punto il letto del fiume era largo almeno dodici metri, in ogni modo Jeffrey lo avrebbe fatto misurare da qualcuno dei suoi. Il terreno era asciutto e lei sentiva la polvere intrufolarsi nelle scarpe mentre camminava verso il cadavere. Una decina d'anni prima, in quel punto, si sarebbero ritrovati con l'acqua fino al collo. Si fermò a metà strada e guardò il ponte. Era in cemento, a travata continua e con un parapetto basso. A qualche centimetro dal bordo inferiore sporgeva un cornicione e tra questo e il parapetto qualcuno aveva scritto con una bomboletta spray CREPA NEGRO, con l'aggiunta di una grande svastica. Sara si sentì in bocca un gusto amaro. «Ma che bella trovata» ironizzò. «Già» ribatté Jeffrey, disgustato quanto lei. «Ce ne sono in tutto il campus.» «Quando è cominciato?» domandò. Il graffito era già sbiadito, probabilmente risaliva a un paio di settimane prima. «E chi lo sa?» disse Jeffrey. «Il college non ha neppure denunciato il fatto.» «Se lo avessero fatto, avrebbero dovuto prendere dei provvedimenti» osservò Sara, guardandosi alle spalle in cerca di Tessa. «Hai idea di chi siano?» «Studenti» rispose Jeffrey, dando alla parola un'inflessione sprezzante e riprendendo a camminare. «Probabilmente un branco di idioti yankee che trovano divertente venire al sud a fare i furbi.»
«Non sopporto i razzisti dilettanti» mormorò Sara. E quando fu vicina a Matt Hogan e Frank Wallace abbozzò un sorriso. «Buongiorno Sara» esordì Matt. Teneva in una mano la Polaroid e nell'altra una serie di fotografie. Frank, il secondo di Jeffrey, intervenne: «Abbiamo appena finito di scattare le foto». «Grazie» disse Sara e cominciò a infilarsi i guanti di lattice. La vittima giaceva proprio sotto il ponte, con la faccia a terra, le braccia abbandonate lungo i fianchi e i pantaloni e le mutande calati attorno alle caviglie. A giudicare dalla corporatura e dall'assenza di peli sulle reni e sui glutei, doveva trattarsi di un ragazzo, forse sui vent'anni. I capelli biondi erano lunghi fino al collo e ricadevano ai lati della testa. Sembrava che dormisse, non fosse stato per i grumi di sangue e di tessuto che fuoriuscivano dall'ano. «Ah» si lasciò sfuggire lei. Cominciava a capire perché Jeffrey era preoccupato. Per pura formalità Sara si inginocchiò e appoggiò lo stetoscopio sulla schiena del ragazzo. Sentì scricchiolare le costole sotto la pressione della mano. Non c'era battito cardiaco. Si appese al collo lo stetoscopio e iniziò a esaminare il corpo, annunciando ad alta voce tutto quello che rilevava, «Nessuna traccia del tipo di traumi collegati a una sodomizzazione violenta. Non ci sono lividi né lacerazioni.» Osservò le mani e i polsi. Il braccio sinistro era girato in una posizione innaturale e lungo l'avambraccio spiccava una cicatrice rossastra. Dall'aspetto, la ferita doveva risalire a quattro o cinque mesi prima. «Non è stato legato.» Il ragazzo indossava una maglietta verde scuro che Sara sollevò per verificare se c'erano altre lesioni. Si vedeva un lungo graffio in fondo alla schiena, la pelle era escoriata, ma non aveva sanguinato. «Di che si tratta?» domandò Jeffrey. Sara non rispose, anche se in quel graffio c'era qualcosa di insolito. Sollevò la gamba destra del giovane per spostarla di lato, ma si fermò quando si accorse che il piede ricadeva giù. Fece scivolare la mano sotto il pantalone, esercitando una lieve pressione sulle ossa della caviglia e quindi sulla tibia e sul perone. Fu come schiacciare un palloncino pieno di segatura. Provò con l'altra gamba e trovò la stessa consistenza. Le ossa non erano solo rotte, erano polverizzate. Udì sbattere due portiere, poi Jeffrey borbottò: «Merda».
Qualche secondo dopo Chuck Gaines cominciò a scendere dall'argine, la camicia kaki dell'uniforme tesa sul petto, mentre cercava di destreggiarsi lungo il pendio. Sara conosceva Chuck dai tempi delle scuole elementari, quando lui non faceva che prenderla in giro per qualsiasi cosa, dall'altezza, ai bei voti, ai capelli rossi. Nel vederlo provò lo stesso entusiasmo che aveva provato da piccola, nel cortile della scuola. Lo seguiva Lena Adams con un'uniforme identica, ma di almeno due taglie troppo grande per il suo corpo esile. I pantaloni erano tenuti su da una cintura e, con gli occhiali scuri e i capelli raccolti sotto un berretto da baseball a visiera lunga, sembrava un ragazzino che si era infilato per gioco gli abiti del padre, specialmente quando, perso l'equilibrio, fece il resto della discesa scivolando sul sedere. Frank si mosse per andare ad aiutarla, ma Jeffrey lo inchiodò con un'occhiata. Lena era stata detective - una di loro, quindi - fino a sette mesi prima. Jeffrey non le aveva perdonato di essere andata via ed era ben deciso a impedire che qualcuno della sua squadra le dimostrasse simpatia. «Dannazione» esclamò Chuck, accelerando il passo. Nonostante la giornata fresca, aveva il labbro superiore velato di sudore e la faccia arrossata per lo sforzo. Era un uomo decisamente muscoloso, eppure non aveva un'aria molto sana. Sudava sempre e un sottile strato di grasso faceva sembrare la pelle tesa e gonfia. Aveva una faccia tonda da luna piena, con gli occhi troppo grandi. Sara non sapeva se dipendesse dagli steroidi o da uno scarso esercizio con i pesi, ma aveva il tipico aspetto di chi vive con un infarto in agguato. Rivolse a Sara un sorriso ammiccante. «Ciao Rossa» disse, poi allungò la mano grassoccia verso Jeffrey. «Com'è la situazione, capo?» Jeffrey lo salutò stringendogli con riluttanza la mano. Lanciò a Lena un'occhiata di sfuggita e tornò a osservare il cadavere. «Ci hanno chiamato circa un'ora fa. Sara è appena arrivata.» Sara disse: «Ciao, Lena». Lena rispose con un lieve cenno del capo, ma Sara non riuscì a leggere l'espressione dietro gli occhiali scuri. Jeffrey osservò lo scambio di saluti con evidente disapprovazione. Se fossero stati soli, Sara gli avrebbe detto chiaro e tondo cosa poteva farsene dei suoi rancori. Chuck batté le mani, come per affermare la sua autorità. «Cosa c'è in ballo, dottore?» «Suicidio, probabilmente» rispose Sara, cercando di ricordare quante volte gli aveva chiesto di non chiamarla dottore e di non chiamarla Rossa.
«Davvero?» domandò Chuck allungando il collo. «A te non sembra che qualcuno se lo sia lavorato?» Indicò la parte inferiore del corpo. «A me pare proprio di sì.» Sara tornò ad accucciarsi senza rispondere. Diede un'altra occhiata a Lena, domandandosi come se la stesse cavando. L'anno prima aveva perso la sorella ed era passata attraverso la lunga trafila delle indagini. Un vero inferno. Anche se quella donna non le andava molto a genio, non avrebbe mai augurato a nessuno di lavorare alle dipendenze di Chuck. Quando si rese conto che nessuno gli prestava attenzione, Chuck batté di nuovo le mani e ordinò: «Adams, vai a dare un'occhiata intorno. Vedi se trovi qualcosa di interessante». Sorprendentemente, Lena annuì e si avviò lungo il fiume. Sara alzò gli occhi a guardare il ponte facendosi schermo con la mano per proteggersi dal sole. «Frank, potresti salire lassù a vedere se ha lasciato un biglietto?» «Un biglietto?» fece eco Chuck. Sara si rivolse a Jeffrey. «Credo che si sia buttato giù» disse. «È atterrato sui piedi. Le impronte delle scarpe sono impresse sul terreno. L'impatto gli ha tirato giù i pantaloni e gli ha rotto le ossa dei piedi e delle gambe.» Guardò l'etichetta sulla tasca posteriore dei jeans per controllare la taglia. «Erano larghi e da quell'altezza il colpo deve essere stato piuttosto violento. Credo che il sangue provenga dagli intestini lacerati. Una parte del retto è uscita dall'ano.» Chuck lanciò un fischio sommesso e Sara suo malgrado alzò gli occhi a guardarlo. Lo vide leggere l'epiteto razzista sul ponte muovendo le labbra. Poi, illuminandosi di un sorriso sfrontato, le domandò: «Come sta tua sorella?». Sara vide Jeffrey serrare la mascella e stringere i denti. Devon Lockwood, il padre del bambino di Tessa, era un uomo di colore. «Sta bene, Chuck» rispose Sara. Non aveva intenzione di raccogliere la provocazione. «Perché me lo domandi?» Lui fece un altro sorriso e continuò a fissare il ponte con ostentazione. «Oh, per nessuna ragione particolare.» Sara lo squadrò, quasi incredula che non fosse cambiato dai tempi della scuola. «Quella cicatrice sul braccio» si intromise Jeffrey «sembra recente.» Lei si costrinse a guardare il braccio della vittima, ma la rabbia le strinse la gola quando rispose: «Sì».
«Sì?» ripeté Jeffrey, mettendo in quell'unica parola un'intera domanda. «Sì» confermò Sara, per fargli capire che sapeva combattere da sola le sue battaglie. Respirò a fondo per calmarsi e aggiunse: «Secondo me è una ferita inferta deliberatamente, lungo l'arteria radiale. Sarà finito in ospedale, per un taglio così». Sentendosi di nuovo ignorato, Chuck finse di interessarsi agli spostamenti di Lena. «Adams!» gridò. «Controlla da quella parte.» Indicò una zona al di là del ponte, dalla parte opposta a quella dove lei si era diretta. Sara posò le mani sui fianchi del ragazzo morto. «Aiutami a girarlo» disse a Jeffrey. Mentre aspettava che lui si infilasse i guanti ispezionò con lo sguardo la zona alberata in cerca di Tessa. Nessuna traccia. Per una volta fu contenta che fosse nella sua macchina. «Sono pronto» disse Jeffrey, con le mani sulle spalle della vittima. Sara contò fino a tre, poi con la massima delicatezza girarono il ragazzo. «Oh, cazzo» squittì Chuck, con una voce molto più acuta del normale. Balzò indietro, come se il cadavere avesse preso fuoco all'improvviso. Jeffrey scattò in piedi con un'espressione di raccapriccio. Matt si lasciò sfuggire un verso simile a un conato di vomito e voltò le spalle alla scena. «Già» fece Sara, non sapendo cosa dire. Il pene della vittima era quasi completamente scorticato. Un lembo di pelle lungo una decina di centimetri penzolava dal glande e una serie di piercing a cerchio perforava la carne a diversi intervalli. Sara si inginocchiò vicino alla zona pelvica per esaminare il danno da vicino. Udì qualcuno sibilare tra i denti mentre rimetteva a posto il brandello di pelle e studiava i bordi slabbrati nei punti in cui si era strappata dall'organo. Jeffrey fu il primo a parlare. «Che cazzo significa?» «Body piercing» rispose lei. «Si chiama smagliatura del filetto.» Indicò i cerchi metallici. «Sono piuttosto pesanti. L'impatto deve avere rivoltato la pelle come un calzino.» «Cazzo» borbottò di nuovo Chuck, sgranando gli occhi. Jeffrey non riusciva a crederci. «Ma se li è fatti da solo? » Sara alzò le spalle. Il piercing dei genitali non era molto diffuso nella contea di Grant, ma all'ospedale ne aveva viste parecchie di infezioni da piercing. «Gesù mio» mormorò Matt, dando un calcio a una pietra senza girarsi. Sarà indicò un anellino d'oro che perforava la narice del ragazzo. «In
questo punto la pelle è più spessa e non si è strappata. Le sopracciglia...» Cercò per terra e trovò un altro anellino d'oro incastrato nell'argilla, nel punto in cui era atterrato il corpo. «Forse questo si è aperto con l'impatto.» Jeffrey indicò il torace. «E lì?» Un sottile rivolo di sangue rappreso scendeva di quattro o cinque centimetri sotto il capezzolo destro che si era diviso in due. D'intuito Sara calò ulteriormente i pantaloni e trovò tra la cerniera e i boxer un terzo anellino. «Piercing del capezzolo» disse raccogliendolo. «Hai una busta?» Jeffrey tirò fuori la piccola busta di carta in uso per conservare le prove e gliela tenne aperta. Con una smorfia di disgusto domandò: «E tutto?». «Probabilmente no.» Stringendo la mascella tra il pollice e l'indice aprì la bocca del ragazzo. Vi infilò con cautela le dita, cercando di non tagliarsi. «Probabilmente aveva un piercing anche sulla lingua» disse tastando il muscolo. «È spaccata sulla punta. Lo saprò con certezza quando l'avrò sul tavolo anatomico, ma credo che la punta di metallo gli sia finita in gola.» Si rimise sui talloni, si levò i guanti e studiò la vittima. Era un ragazzo dall'aspetto abbastanza gradevole, a parte il sangue che gli era uscito dal naso e si era addensato intorno alle labbra. Un pizzetto rossiccio gli decorava il mento poco pronunciato e le basette lunghe e sottili contornavano la mascella come un nastro colorato. Chuck fece un passo avanti per guardare meglio e spalancò la bocca. «Oh, merda. Ma questo è... merda...» borbottò, dandosi un pugno sulla testa. «Non mi ricordo come si chiama, ma sua madre lavora al college.» Sara vide Jeffrey irrigidire le spalle. Il caso era appena diventato dieci volte più complicato. Dal ponte Frank gridò: «Ho trovato un biglietto». Sara ne fu sorpresa, anche se era stata lei a mandarlo in perlustrazione. Aveva visto un discreto numero di suicidi, e in questo c'era qualcosa che non tornava. Jeffrey la stava osservando attentamente, come se volesse leggerle nel pensiero. «Pensi ancora che si sia buttato giù?» domandò. Lei non si sbilanciò. «Così pare, non trovi?» Lui esitò un secondo, poi disse: «Setacceremo la zona». Chuck si offrì subito come volontario, ma Jeffrey lo liquidò con tatto domandandogli: «Potresti rimanere qui con Matt e fare una fotografia del viso? La voglio mostrare alla donna che ha trovato il corpo». «Eh...» tergiversò Chuck, come se stesse cercando una scusa. Non gli
andava di prendere ordini da Jeffrey. Questi si rivolse a Matt, che si era rassegnato a voltarsi. «Scatta qualche foto.» Matt annuì con un gesto deciso del capo e Sara si chiese come avrebbe fatto a fotografare il corpo cercando di non guardarlo. Chuck invece non riusciva a staccare gli occhi dal cadavere. Probabilmente era il primo che vedeva. Conoscendo il tipo, non si stupì della sua reazione. Sembrava ipnotizzato, come se stesse guardando un film. «Andiamo» la esortò Jeffrey aiutandola ad alzarsi. «Ho già chiamato Carlos» disse lei. Carlos era il suo assistente all'obitorio. «Dovrebbe arrivare tra poco. Ne sapremo di più dall'autopsia.» «Ottimo» disse Jeffrey. Poi rivolto a Matt: «Cerca di prendere bene il viso. Quando arriva Frank, digli che lo aspetto alle macchine». Matt rispose col saluto militare, ancora ammutolito. Sara si mise in tasca lo stetoscopio e si avviò con Jeffrey lungo il letto del fiume. Tornò a guardare la macchina in cerca di Tessa, ma il sole colpiva in diagonale il parabrezza trasformando il cristallo in uno specchio. Jeffrey aspettò di essere abbastanza lontano da Chuck, poi domandò: «Cos'è che non mi hai detto?». Lei ci pensò un attimo, come se stesse cercando le parole per spiegarsi. «C'è qualcosa che mi disturba.» «Forse dipende da Chuck.» «No. Chuck è un idiota, ma lo conosco da trent'anni.» Jeffrey sorrise. «Allora di cosa si tratta?» Lei si voltò a guardare il ragazzo morto e poi il ponte. «Quel graffio sulla schiena. Come se l'è fatto?» «Sul parapetto del ponte?» suggerì Jeffrey. «E come? Il parapetto non è molto alto. Probabilmente si è seduto sopra e poi ha buttato le gambe dall'altra parte.» «C'è un cornicione sotto il parapetto» disse Jeffrey indicandolo. «Forse l'ha sfiorato cadendo.» Lei continuò a guardare il ponte cercando di immaginare la dinamica. «So che può sembrare un controsenso, ma al suo posto non avrei voluto andare a sbattere contro qualcosa prima di schiantarmi. Mi sarei messa in piedi sul parapetto e mi sarei lanciata in avanti, lontano dal cornicione, lontano da tutto.» «Forse è sceso sul cornicione e si è graffiato la schiena contro il ponte.»
«Fai controllare se ci sono residui di pelle» suggerì, anche se dubitava che potessero trovare qualcosa. «E il fatto che sia atterrato sui piedi?» «È meno insolito di quanto credi.» «Pensi che l'abbia fatto di proposito?» «Il salto?» «Quella roba» disse Jeffrey indicandosi l'inguine. «Il piercing?» domandò Sara. «Ce l'aveva da un po'. Era ben cicatrizzato.» Lui fece una smorfia. «E perché qualcuno dovrebbe conciarsi a quel modo?» «Pare che aumenti la sensibilità sessuale.» Lui parve scettico. «Dell'uomo?» «E della donna» aggiunse Sara, anche se l'idea le ripugnava. Guardò di nuovo verso la macchina nella speranza di scorgere Tessa. Dal punto in cui si trovava vedeva bene la zona di parcheggio. A parte Brad Stephens e la testimone, non c'era nessuno in vista. Jeffrey domandò: «Dov'è Tessa?». «E chi lo sa?» rispose Sara irritata. Avrebbe fatto meglio ad accompagnare a casa sua sorella, invece di portarsela dietro. «Brad» chiamò Jeffrey quando raggiunsero le macchine. «Tessa è scesa dalla collina?» «No signore.» Sara sbirciò sul sedile posteriore aspettandosi di trovare Tessa rannicchiata a fare un pisolino. L'auto era vuota. «Sara?» la chiamò Jeffrey. «Non ti preoccupare» rispose lei, pensando che mentre tornava Tessa avesse avuto ancora bisogno di tornare tra gli alberi. Nelle ultime settimane il bambino si era messo a ballare il tip-tap sulla sua vescica. «Vuoi che vada a cercarla?» si offrì. «Si sarà seduta da qualche parte a riposare.» «Sei sicura?» Lo liquidò con un gesto della mano e si incamminò per lo stesso sentiero che aveva preso Tessa. Gli studenti del college facevano jogging lungo i sentieri tra i boschi che si estendevano da un'estremità all'altra della città. Se Sara avesse continuato verso est per circa due chilometri, sarebbe arrivata alla clinica pediatrica. Verso ovest avrebbe trovato l'autostrada e verso nord sarebbe finita alla periferia opposta, nei pressi di casa Linton. Se
Tessa aveva deciso di tornare a casa a piedi senza avvisare nessuno, l'avrebbe strozzata. La salita era più ripida di quanto Sara avesse immaginato e una volta in cima si fermò a riprendere fiato. C'erano rifiuti dappertutto, lattine di birra sparpagliate qua e là come foglie secche. Guardò giù, verso le auto parcheggiate, dove Jeffrey stava interrogando la ragazza che aveva trovato il corpo. Brad Stephens la salutò con la mano e Sara ricambiò il saluto pensando che se a lei era venuto un po' di affanno, Tessa doveva essere rimasta senza fiato. Forse aveva deciso di fare una sosta prima di scendere. Forse si era imbattuta in un animale selvatico. Forse era entrata in travaglio. A quell'idea Sara tornò a voltarsi verso gli alberi e imboccò un sentiero che si addentrava nel bosco. Dopo pochi metri si guardò intorno, cercando qualche traccia della sorella. «Tess?» chiamò, cercando di non arrabiarsi. Probabilmente Tessa si era messa a girovagare perdendo la cognizione del tempo. Da qualche mese non portava l'orologio perché il polso si era gonfiato e non sopportava più il cinturino. Si inoltrò tra gli alberi continuando a chiamare a voce sempre più alta. «Tessa?» Nonostante la giornata di sole, il bosco era buio. I rami degli alberi più alti si intrecciavano come dita in un gioco infantile, impedendo alla luce di filtrare. Però Sara continuava a schermarsi gli occhi, come se questo potesse aiutarla a vedere meglio. «Tess?» riprovò, poi aspettò di avere contato fino a venti prima di chiamarla di nuovo. Nessuna risposta. Una lieve brezza agitava le foglie sopra la sua testa e questo le procurò un brivido lungo la schiena. Si strofinò le braccia nude e avanzò di qualche passo. Dopo pochi metri si trovò davanti a un bivio. I due sentieri apparivano entrambi battuti; il terreno era segnato da impronte sovrapposte di scarpe da tennis. Si era chinata per cercare di individuare l'impronta liscia dei sandali di Tessa tra quelle rigate e seghettate, quando sentì un rumore alle spalle. Sobbalzò. «Tessa?» chiamò, ma era solo un orsetto lavatore. Si fissarono per qualche istante, quindi l'orsetto si dileguò tra gli alberi. Sara si tirò su e batté le mani per ripulirle dalla terra. Prese il sentiero sulla destra, poi tornò indietro fino alla biforcazione e tracciò una freccia col tacco della scarpa per indicare che direzione aveva preso. Nel farlo si
sentì una sciocca, ma decise che poteva ridere delle sue precauzioni solo dopo avere riportato Tessa alla macchina. «Tess?» provò ancora, strappando le foglie da un ramo basso e riprendendo a camminare. «Tess?» Si fermò ad aspettare, ma non ci fu risposta. Vide che più avanti il sentiero descriveva una breve curva e tornava a dividersi. Per un attimo pensò di chiamare Jeffrey, ma poi decise di no. Una parte di lei si sentiva stupida per averlo pensato, ma un'altra, più segreta, non riusciva a reprimere la paura. Proseguì, continuando a chiamare. Al bivio successivo si schermò ancora gli occhi con la mano e guardò nelle due direzioni. I due sentieri curvavano dolcemente separandosi, e qualche metro più avanti quello di destra si piegava a gomito. In quel punto il bosco era ancora più buio e Sara dovette aguzzare gli occhi per vedere. Aveva appena iniziato a tracciare un segno sul sentiero di sinistra, percorrendo con lo sguardo l'altra direzione, quando, appena prima della curva, notò una pietra dalla forma strana. Fece qualche passo avanti poi si mise a correre, perché la pietra era in realtà un sandalo di Tessa. «Tessa!» gridò. Raccolse il sandalo da terra e cominciò a guardarsi attorno freneticamente, girando su se stessa. In preda al capogiro lasciò cadere il sandalo. La paura che fino a quel momento aveva represso, dilagò in un impeto di terrore che le serrò la gola. Davanti a lei, al centro di una radura, Tessa giaceva supina, con una mano sulla pancia e l'altra abbandonata di lato. La testa era girata in modo strano, la bocca era semiaperta, gli occhi chiusi. «No...» implorò in un sussurro, precipitandosi verso di lei. La distanza che le separava le sembrò interminabile. Un milione di possibilità le attraversò la mente, ma nessuna servì a prepararla a quello che trovò. «Oh, Dio mio» mormorò. Le ginocchia cedettero e si lasciò cadere a terra. «Oh, no...» Tessa era stata pugnalata almeno due volte alla pancia e una al petto. C'era sangue dappertutto, il viola scuro del vestito era diventato un nero compatto e fradicio. Sara la guardò in viso. Il cuoio capelluto era squarciato e un lembo pendeva sull'occhio sinistro, il rosso acceso della pelle strappata in netto contrasto con l'incarnato pallido. Gridò: «No... Tess... No...!». Le posò una mano sulla guancia, cercando di farle aprire gli occhi. «Tessie?» pregò. «Oh, mio Dio, che cosa è successo?» Tessa non rispose. Rimase inerte e non reagì, quando Sara risistemò al
suo posto il cuoio capelluto strappato e sollevando le palpebre con le dita le fece aprire gli occhi per vedere le pupille. Tentò di sentire il battito sulla carotide, ma la mano le tremava a tal punto che riuscì solo a sporcarle di sangue il collo, in una macabra pittura primitiva. Appoggiò l'orecchio al petto cercando di trovare qualche segno di vita e l'abito fradicio le si appiccicò alla guancia. Mentre auscultava, Sara guardava la pancia. Sangue e liquido amniotico stillavano dalle ferite più basse come da un rubinetto gocciolante. Da un grande strappo nell'abito spuntava un pezzo di intestino e a quella vista Sara chiuse gli occhi e trattenne il fiato, finché non udì il flebile battito del cuore di Tessa e avvertì il movimento quasi impercettibile del torace che saliva e scendeva a ogni respiro. «Tess?» chiamò, tirandosi su e passandosi il braccio sulla guancia per eliminare il sangue. «Tessie, ti prego, svegliati.» Alle sue spalle qualcuno incespicò in una radice. Il rumore la fece voltare col cuore in gola. Vide Brad Stephens che la guardava sbalordito, a bocca aperta. Si fissarono per qualche istante senza dire una parola. «Dottoressa Linton?» domandò lui infine, con un filo di voce che si smarrì nel vuoto della radura. Aveva la stessa espressione sbigottita dell'orsetto lavatore sorpreso sul sentiero. Sara non riusciva a fare altro che guardarlo. Con la mente gli gridava di fare qualcosa, di correre, di andare a chiamare Jeffrey, ma le parole non uscivano. «Vado a cercare aiuto» balbettò infine Brad, e partì di corsa, mentre i tonfi dei suoi passi echeggiavano sul sentiero. Sara rimase a fissarlo finché non scomparve dietro la curva, quindi si rassegnò a guardare di nuovo Tessa. Non poteva essere vero. Forse entrambe erano rimaste intrappolate in un incubo orribile, ma fra poco lei si sarebbe svegliata e tutto sarebbe finito. Quella non era Tessa, non era la sua sorellina, la stessa che aveva insistito per venire con lei, come faceva quando erano bambine. Tessa era andata a fare una passeggiata, a cercare un posto per fare pipì. Non era lei quella che se ne stava stesa a terra, sanguinante, mentre Sara non riusciva a fare altro che tenerle la mano e piangere. «Andrà tutto bene» le disse, allungando il braccio per prenderle l'altra mano. Quando la strinse sentì qualcosa di appiccicoso sulla pelle e vide che attaccato al palmo c'era un sottile frammento di plastica bianca. «Che cos'è?» domandò. Tessa strinse il pugno e gemette.
«Tessa?» chiamò Sara dimenticando la plastica. «Tessa, guardami.» Le palpebre fremettero, ma non si aprirono. «Tess?» ripeté. «Tess, resta con me. Guardami.» Lentamente, Tessa aprì gli occhi e respirò: «Sara...». Poi le palpebre sbatterono e si chiusero. «Tessa, non chiudere gli occhi!» ordinò Sara stringendole forte la mano. «Senti la mia stretta? Parlami. Senti che ti sto stringendo la mano?» Tessa annuì e spalancò gli occhi pieni di stupore, come se si svegliasse all'improvviso da un sonno profondo. «Riesci a respirare?» domandò Sara, sentendo che la voce le usciva stridula per il panico. Cercò di addolcirla, per non peggiorare la situazione. «Fai fatica a respirare?» Con le labbra tremanti per lo sforzo, Tessa articolò un muto no. «Tess?» continuò Sara. «Dove ti fa male? Dove è più forte il dolore?» Tessa non rispose. Mosse la mano esitante verso la testa e tenne le dita sospese sopra il punto lacerato. La voce era poco più di un sussurro quando domandò: «Cosa è successo?». «Non lo so» rispose Sara. L'unica sua certezza era che doveva tenere sveglia la sorella. Le dita di Tessa trovarono il cuoio capelluto squarciato, che scivolò via al contatto. Sara le allontanò la mano. Tessa disse: «Cosa...?» e la voce si spense. Vicino alla sua testa c'era una grossa pietra imbrattata di sangue e capelli. «Hai battuto la testa cadendo?» domandò Sara, cercando di immaginare la scena. «È questo che è successo?» «Io non...» «Qualcuno ti ha accoltellato?» domandò ancora. «Riesci a ricordare cosa è successo?» Il viso di Tessa si contrasse in un soprassalto di paura e la mano si mosse verso la pancia. «No» disse Sara prendendole la mano per impedirle di toccare le ferite. Altri rami si spezzarono e arrivò Jeffrey correndo. Si lasciò cadere in ginocchio di fronte a Sara e domandò: «Cosa è successo?». Come lo vide, lei scoppiò in lacrime. «Sara?» I singhiozzi le impedivano di rispondere. «Sara?» ripeté Jeffrey. La afferrò per le spalle e ordinò: «Sara, torna in te. Hai visto chi è stato?». Lei si guardò intorno, rendendosi conto solo in quel momento che chi aveva accoltellato Tessa poteva essere ancora nei paraggi.
«Sara?» Scrollò il capo. «Io non... Io non ho...» Jeffrey le tastò le tasche, trovò lo stetoscopio e glielo mise in mano. Quando disse: «Frank sta chiamando un'ambulanza», la sua voce suonò così lontana, che Sara ebbe l'impressione di leggergli le parole sulle labbra. «Sara?» Era paralizzata dal panico e non riusciva a pensare a cosa fare. Il suo campo visivo si restrinse focalizzandosi solo su Tessa, non vedeva che lei, sanguinante, terrorizzata, con gli occhi spalancati dallo shock. Qualcosa attraversava quello sguardo: orrore incontrollato, dolore, paura cieca. Sara si sentiva assolutamente inutile. Jeffrey ripeté: «Sara?» e le posò la mano sul braccio. L'udito le tornò all'improvviso, come acqua che erompe da una chiusa. Lui le strinse forte il braccio per indurla a una reazione. «Dimmi cosa devo fare.» Quelle parole la riportarono alla realtà. Con voce ancora incerta disse: «Togliti la camicia. Dobbiamo bloccare l'emorragia». Lo guardò sfilarsi la giacca e la cravatta e strapparsi la camicia facendo saltare i bottoni. Poi sentì che la mente ricominciava a lavorare. Sapeva cosa fare. Poteva farlo. Lui domandò: «È grave?». Sara non rispose, perché sapeva che dare un nome a quella sciagura serviva solo a conferirle più potere. Si limitò a pigiare la camicia sul ventre di Tessa e a metterci sopra la mano di Jeffrey dicendo: «Così», perché capisse quanta pressione esercitare. «Tessa?» disse, cercando di farsi coraggio. «Voglio che tu mi guardi, d'accordo, tesoro? Devi solo guardarmi e dirmi se senti che cambia qualcosa.» Tessa annuì, poi ruotò lo sguardo su Frank che arrivava in quel momento. Frank si buttò in ginocchio accanto a Jeffrey. «Hanno intercettato l'elicottero del pronto soccorso a meno di dieci minuti da qui.» Stava slacciandosi la camicia quando anche Lena Adams li raggiunse. Alle sue spalle c'era Matt Hogan, coi pugni serrati lungo i fianchi. «Deve essere andato da quella parte» disse Jeffrey, indicando il sentiero che si addentrava nel bosco. I due partirono di corsa senza una parola. «Tess» ricominciò Sara, facendo pressione sulla ferita al petto per vedere quanto era profonda. C'era il rischio che la lama avesse danneggiato il
cuore. «Lo so che fa male, ma devi tenere duro. D'accordo? Ce la fai a resistere?» Tessa annuì con un movimento deciso del capo, continuando a spostare lo sguardo di qua e di là. Sara la auscultò con lo stetoscopio, il cuore batteva all'impazzata, il respiro era sincopato. Le sue mani ricominciarono a tremare quando premette lo stetoscopio contro l'addome. Non fu sorpresa di non trovare un secondo battito. Dalla ferita era uscito del liquido amniotico, si era distrutto l'ambiente protettivo del bambino. Se la lama del coltello non aveva danneggiato il feto, di sicuro lo aveva fatto la perdita di sangue e di liquido. Sentiva che Tessa lo stava fissando con una muta domanda negli occhi. Ma lei a quella domanda non voleva rispondere. Se Tessa fosse entrata in stato di shock, se l'adrenalina fosse aumentata, il cuore avrebbe cominciato a pompare ancor più rapidamente il sangue fuori dal corpo. «È debole» mentì infine, sentendosi serrare lo stomaco. Si costrinse a guardare la sorella negli occhi, le prese la mano e ripeté: «Il battito è debole, ma riesco a sentirlo». La mano destra di Tessa si sollevò per toccare la pancia, ma Jeffrey glielo impedì. Le guardò il palmo. «Quello cos'è?» domandò. «Tessa, cos'hai nella mano?» Sollevò la mano perché lei potesse vederla. Il frammento di plastica si agitò nell'aria e la ragazza lo fissò smarrita. «L'hai strappato a lui?» domandò ancora Jeffrey. «Alla persona che ti ha aggredito?» «Jeffrey» disse Sara a voce bassa. Il sangue aveva inzuppato la camicia e gli macchiava la mano fino al polso. Jeffrey capì e fece per sfilarsi la maglietta, ma lei fece segno di no e prese da terra la sua giacca. Era la soluzione più rapida. Tessa gemette al cambiamento di pressione sul ventre, l'aria le passò tra i denti con un sibilo. «Tess?» chiamò Sara a voce alta afferrando di nuovo la mano della sorella. «Va tutto bene?» Tessa annuì serrando le labbra. Le narici si dilatarono per la fatica di respirare. Strinse la mano di Sara così forte che lei sentì le ossa scricchiolare. «Non fai fatica a respirare, vero?» Tessa non rispose, ma lo sguardo era vigile e passava in continuazione da Jeffrey a Sara. Sara si sforzò di eliminare la paura dalla voce e ripeté: «Respiri bene?». Se Tessa non fosse più riuscita a respirare da sola, non avrebbe potuto fare
molto per aiutarla. La voce di Jeffrey uscì tesa e controllata. «Sara?» Teneva la mano premuta sul ventre di Tessa. «Sembrava una contrazione.» Sara scosse la testa in un no deciso, posando la mano accanto alla sua. Sentì delle contrazioni uterine. Allora alzò la voce domandando: «Tessa? Qui in basso il dolore è aumentato? Hai un dolore pelvico?». Tessa non rispose, ma cominciò a battere i denti come se avesse freddo. «Voglio controllare se c'è dilatazione, va bene?» l'avvisò Sara sollevandole il vestito. Sangue e liquido amniotico le ricoprivano le cosce di uno strato nerastro e appiccicoso. Sara infilò le dita nel canale. Dentro, i muscoli erano talmente tesi che Sara si sentì come presa in una morsa. «Cerca di rilassarti» la esortò controllando la cervice. Da anni non faceva più i turni al reparto ostetrico e ultimamente aveva letto ben poco sulla preparazione al parto. Eppure la incoraggiò. «Stai andando bene. È tutto a posto.» Jeffrey disse: «L'ho sentita di nuovo». Sara gli lanciò un'occhiata per zittirlo. Anche lei aveva sentito la contrazione, ma non c'era nulla che potessero fare. Se anche rimaneva una possibilità che il bambino fosse vivo, un taglio cesareo in quelle condizioni avrebbe ucciso Tessa. Se il coltello aveva trapassato l'utero, sarebbe morta dissanguata prima di raggiungere l'ospedale. «Molto bene» disse Sara prendendole la mano. «Non c'è dilatazione. Va tutto bene. Hai capito Tess? Va tutto bene.» Tessa muoveva ancora le labbra, ma l'unico suono che riusciva a produrre era quello del respiro ansimante. Era in iperventilazione, c'era il rischio che cadesse in stato di ipocapnia. «Rallenta, tesoro» disse Sara, accostando il viso al suo, «Cerca di rallentare il respiro, d'accordo?» Le mostrò come fare, inspirando a fondo ed espirando lentamente, come avevano imparato qualche settimana prima al corso di preparazione al parto. «Così, brava» disse, quando il respiro cominciò a rallentare. «Lento e regolare.» Sara provò un attimo di sollievo, ma all'improvviso il viso di Tessa si contrasse in una smorfia. La testa cominciò a tremare e il braccio e la mano di Sara assorbirono la vibrazione come un diapason. Dalle labbra uscì un gorgoglio e colò fuori un rivolo di liquido trasparente. Gli occhi erano
ancora vitrei, lo sguardo vuoto e freddo. A voce bassa Sara domandò a Frank: «Quando arriva l'elicottero?». «Non dovrebbe mancare molto» rispose lui. «Tessa» disse Sara, con voce ferma, quasi imperiosa. Non parlava così a sua sorella dalla volta in cui questa, a dodici anni, si era messa in testa di saltare giù dal tetto di casa. «Tessa, non mollare. Devi resistere ancora un po'. Stammi a sentire. Tieni duro. Ti dico che...» Il corpo fu scosso da un sussulto violento e improvviso, come percorso da una scarica elettrica. La mascella si serrò, gli occhi si rivoltarono, dalla gola uscirono suoni gutturali. In preda alle convulsioni, Tessa sobbalzava in modo incontrollato, gemendo e roteando gli occhi. La vescica rilasciò l'urina, che sprigionò un odore forte e acido. Per lo spasimo, i muscoli del collo affiorarono come cavi d'acciaio. Sara udì in lontananza il ronzio dell'elicottero. Quando l'ambulanza aerea indugiò sopra le loro teste e poi piegò verso il letto del fiume, si sentì montare le lacrime agli occhi. «Sbrigatevi» mormorò. «Vi prego, sbrigatevi.» 2 Mentre l'elicottero si sollevava, Jeffrey intravide Sara dietro il finestrino. Si stringeva al petto la mano di Tessa e teneva la testa china, come se pregasse. Né lui né Sara erano mai stati molto religiosi, ma in quel momento Jeffrey si sorprese a rivolgere una preghiera a chiunque volesse ascoltarla, perché Tessa potesse salvarsi. Continuò a fissare Sara e a pregare in silenzio, fino a che l'elicottero virò a destra per sorvolare il bosco. Più lo vedeva allontanarsi, più le parole stentavano a formarsi nella sua mente e quando, finalmente, il velivolo piegò verso ovest in direzione di Atlanta, non gli era rimasta altro che una rabbia impotente. Abbassò lo sguardo sul frammento di plastica bianca che aveva trovato intrappolato nella mano di Tessa. Glielo aveva staccato dal palmo prima che la caricassero sull'elicottero, sperando che potesse condurli all'individuo che l'aveva aggredita. Mentre lo fissava, fu assalito da una devastante sensazione di sconforto. Sia lui che Sara avevano toccato la plastica. Sul sangue non c'erano impronte digitali evidenti. Non c'era modo di sapere se il frammento avesse qualcosa a che fare con l'aggressione. «Capo?» Frank porse a Jeffrey la giacca e la camicia che grondavano sangue.
«Dio mio» esclamò Jeffrey recuperando il distintivo e il portafoglio. Erano inzuppati come i vestiti. Trovò una busta per conservare le prove, ci infilò il pezzetto di plastica e la sigillò. «Che diavolo è successo?» Frank allargò la mani senza parlare. Quel gesto irritò Jeffrey, che si morse le labbra per evitare commenti sferzanti. Sapeva bene che quello che era accaduto a Tessa non era certo colpa di Frank. Semmai la colpa era sua. Mentre Tessa veniva aggredita, lui se ne stava lì a due passi con le mani in mano. Quando non l'aveva vista nella macchina, aveva capito che qualcosa non andava. Avrebbe dovuto insistere per accompagnare Sara a cercarla. Infilò la busta nella tasca dei pantaloni e domandò: «Dove sono Lena e Matt?». Frank aprì il cellulare. «No» lo fermò Jeffrey. La cosa peggiore che potesse capitare a Matt in mezzo al bosco era che il suo cellulare si mettesse a squillare. «Diamogli altri dieci minuti.» Guardò l'orologio per capire quanto tempo fosse passato. «Se non saranno arrivati, li andremo a cercare.» «Va bene.» Jeffrey lasciò cadere a terra gli abiti sporchi e vi posò sopra il distintivo e il portafoglio. «Chiama la centrale. Fai mandare sul posto sei unità.» Frank cominciò a comporre il numero, poi domandò: «Cosa facciamo con la testimone? La lasciamo andare?». «No» disse Jeffrey e, senza aggiungere altro, cominciò a scendere la collina in direzione delle macchine parcheggiate. Camminando cercò di riordinare le idee. Sara aveva intuito che c'era qualcosa di sospetto in quel suicidio. Il fatto che Tessa fosse stata accoltellata nelle immediate vicinanze, rendeva il sospetto ancor più plausibile. Se il ragazzo era stato assassinato, forse Tessa aveva sorpreso il colpevole nel bosco. «Capo» Brad sussurrò. Alle sue spalle Ellen Schaffer stava parlando al cellulare. Jeffrey lanciò un'occhiataccia a Brad. Entro dieci minuti tutto il campus sarebbe stato a conoscenza dell'accaduto. Brad fece una smorfia, riconoscendo il suo errore. «Chiedo scusa.» Ellen Schaffer aveva seguito lo scambio di battute e chiuse la telefonata con un rapido: «Devo andare». Era una giovane attraente, bionda, con occhi nocciola e il più irritante accento yankee che Jeffrey avesse mai sentito. Indossava un paio di panta-
loncini da corsa attillati e una maglietta in lycra ancor più attillata. Appesa ai fianchi portava una cintura con il lettore CD. Un tatuaggio con un elaborato sole raggiante le circondava l'ombelico. Jeffrey cominciò: «Signorina Schaffer...». La voce di Ellen Schaffer suonò ancor più irritante di quel che ricordava. «Se la caverà?» domandò. «Credo di sì» rispose, anche se la domanda gli causò un nodo allo stomaco. Tessa aveva perso conoscenza mentre la caricavano sulla barella. Era impossibile stabilire se si sarebbe mai risvegliata. Avrebbe voluto trovarsi con lei in quel momento - con Sara - ma all'ospedale non sarebbe stato di alcun aiuto. Rimanendo lì, almeno, aveva qualche probabilità di trovare delle risposte per la famiglia Linton. «Potrebbe raccontarmi di nuovo come è andata?» domandò. Il labbro inferiore di Ellen ebbe un tremito. «Ha visto il corpo dal ponte?» la incoraggiò. «Stavo facendo jogging. Come tutte le mattine.» Jeffrey guardò di nuovo l'orologio. «Sempre a quest'ora?» «Sì.» «Sempre da sola?» «Di solito, sì.» Lui si sforzò di essere gentile, anche se in realtà avrebbe voluto scrollarla e costringerla a dire quello che voleva sapere. «E fa sempre questo percorso?» «Di solito» rispose la ragazza. «Scendo dal ponte e poi risalgo verso il bosco. Ci sono dei sentieri...» Lasciò spegnere la voce appena si rese conto che doveva saperlo anche lui. «Dunque» riassunse Jeffrey, per ritornare in tema. «Fa lo stesso percorso tutti i giorni.» Ellen annuì con un rapido cenno della testa. «In genere non mi fermo sul ponte, ma oggi ho avuto l'impressione che qualcosa non andasse.» Strinse le labbra in una linea sottile e rifletté. «Di solito si sentono gli uccelli, i rumori della natura. Oggi sembrava tutto troppo silenzioso. Capisce cosa intendo dire?» Jeffrey capi. Aveva provato la stessa sensazione mentre correva nel bosco in cerca di Sara e Tessa. Gli unici rumori erano stati quello dei suoi piedi che percuotevano il terreno e quello del suo cuore che gli rimbombava nella testa. Ellen proseguì: «Allora mi sono fermata per stirare i muscoli e ho guar-
dato dal parapetto... ed era laggiù». «Non è scesa a vedere?» Parve imbarazzata. «No... Avrei dovuto?» «No» rispose Jeffrey. Poi, per essere gentile, aggiunse: «Meglio così, non ha contaminato la scena». Sembrava sollevata. «Ho capito che...» Si guardò le mani e cominciò a piangere in silenzio. Jeffrey lanciò un'occhiata in direzione del bosco, innervosito che Matt e Lena non fossero ancora tornati, visto anche il rumore che aveva fatto l'elicottero. Mandarli nel bosco probabilmente non era stata una buona idea. Ellen interruppe i suoi pensieri domandando: «Avrà sofferto?». «No» la rassicurò, anche se non ne aveva idea. «Pensiamo che sia saltato giù dal ponte.» Parve sorpresa. «Io mi ero fatta l'idea..,» Non le lasciò il tempo di indugiare sulle sue impressioni. «Quindi l'ha visto e ha chiamato la polizia. Poi cosa ha fatto?» «Sono rimasta sul ponte fino all'arrivo dell'agente.» Indicò Brad, che sorrise intimidito. «Poi sono arrivati gli altri e io sono rimasta con lui.» «Ha visto altre persone? Qualcuno nel bosco?» «Solo la ragazza che è salita in cima alla collina.» «Nessun altro?» «No, nessuno» rispose, sbirciando oltre la spalla di Jeffrey. Lui si voltò e vide Matt e Lena che uscivano dal bosco. Lena zoppicava e teneva le braccia allargate per mantenersi in equilibrio. Matt le offrì la mano per aiutarla a scendere, ma lei la rifiutò con un gesto deciso. Jeffrey tornò a rivolgersi a Ellen: «Continueremo domani. La ringrazio per la collaborazione». Poi disse a Brad: «Accompagnala al dormitorio». «Sì signore» rispose Brad, ma Jeffrey stava già correndo verso la collina. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che aveva esposto al rischio un'altra donna, mandando Lena nel bosco. Quando li raggiunse il rimorso gli serrava lo stomaco come una cintura stretta. Offrì il braccio a Lena per aiutarla a mettersi seduta. «Cos'è successo?» chiese e intanto pensava a quante volte aveva già fatto quella domanda quel giorno, senza ottenere una risposta plausibile. «Stai bene?» «Sì» rispose Lena, scostandosi con uno scatto di insofferenza che la fece cadere a terra di peso. Frank cercò di aiutarla afferrandola per il braccio, ma Lena si stizzì. «Mio Dio, sto benissimo» disse, ma come posò il piede a
terra le sfuggì una smorfia. I tre uomini rimasero lì impalati mentre lei si slacciava la scarpa e Jeffrey si rese conto che i suoi agenti stavano pensando la stessa cosa che aveva in mente lui. Quando li guardò, sia Matt che Frank risposero con un'occhiata accusatoria. Lena avrebbe potuto vedersela brutta, nel bosco. Quello che le era successo - o poteva succederle - era colpa di Jeffrey. Lena spezzò il silenzio: «Era ancora là». «Dove?» domandò Jeffrey, sentendo accelerare il battito cardiaco. «Quel bastardo era nascosto dietro un albero, voleva vedere cosa stava succedendo.» Frank lanciò un'imprecazione, ma Jeffrey non riuscì a capire se fosse rivolta all'aggressore o a lui. «L'ho inseguito» continuò Lena, inconsapevole della tensione che si era creata o, più semplicemente, decisa a ignorarla. «Ho inciampato in qualcosa. Un tronco. Non lo so. Posso mostrarvi dove si era nascosto.» Jeffrey cercò di mantenere la calma. Perché l'aggressore era rimasto nei pressi? Per accertarsi che Tessa venisse soccorsa, o per godersi la scena come al cinema, per assaporare tutti i particolari del dramma? «E tu dov'eri, nel frattempo?» si intromise Frank, parlando con voce alterata. Matt rispose con lo stesso tono risentito. «Ci eravamo separati per coprire un'area più ampia. Un paio di minuti dopo l'ho vista correre.» Frank borbottò: «Non avresti dovuto lasciarla andare sola». «Ho solo seguito la prassi» ribatté Matt. «Voi due» intervenne Jeffrey. «Fatela finita. Non c'è tempo per le recriminazioni.» Tornò a rivolgersi a Lena. «A che distanza era dal punto in cui si trovava Tessa?» «Abbastanza vicino. Poco oltre il sentiero, a una cinquantina di metri. Sono tornata indietro pensando che se voleva tener d'occhio la situazione, non si sarebbe allontanato.» «L'hai visto bene?» «No. Mi ha visto prima lui. Era accucciato dietro un albero. Forse stava godendo vedendo Sara nel panico.» «Non ti ho chiesto le tue impressioni» tagliò corto Jeffrey. Non gli era piaciuto il modo in cui la ragazza aveva pronunciato il nome di Sara. Non erano mai state amiche, ma non era certo quello il momento di tirare fuori vecchie rivalità, soprattutto date le condizioni in cui versava Tessa. «Hai visto quell'uomo. E poi?»
«Non l'ho visto affatto» ribatté lei, infiammata di rabbia. Jeffrey si rese conto troppo tardi di aver schiacciato il tasto sbagliato. Guardò Frank e Matt in cerca di aiuto, ma anche loro avevano la stessa espressione indurita. «Vai avanti» si limitò a dire. Lena fu telegrafica. «Ho visto qualcosa. Un movimento. Si è alzato e se n'è andato. Gli sono corsa dietro.» «Da che parte è andato?» Lei prese tempo e guardò in alto per controllare la posizione del sole. «A ovest, probabilmente verso l'autostrada.» «Nero? Bianco?» «Bianco» disse. Poi aggiunse subito: «Credo». «Credi?» ripeté Jeffrey, consapevole di alimentare l'incendio, ma incapace di trattenersi. «Te l'ho detto» spiegò lei sulla difensiva. «Si è voltato e si è messo a correre. Cosa avrei dovuto fare? Chiedergli di rallentare, perché dovevo accertare la sua appartenenza etnica?» Jeffrey rimase zitto per un attimo, cercando di controllarsi. «Com'era vestito?» «Aveva qualcosa di scuro.» «Un giaccone? Dei jeans?» «Jeans. Un giaccone, forse. Non lo so. C'era poca luce.» «Un giaccone lungo o corto?» «Una giacca... credo.» «Aveva un'arma?» «Non ho visto.» «Di che colore erano i capelli?» «Non lo so.» «Non lo sai?» «Credo che avesse in testa un berretto.» «Tu credi?» Tutto il senso di impotenza che si era accumulato dal momento in cui aveva visto Tessa a un passo dalla morte, scoppiò all'improvviso. «Cristo, Lena, eppure sei stata un bel po' nella polizia!» Lena lo fissò con quello sguardo infuocato d'odio che di solito gli riservavano i sospetti durante un interrogatorio. «Inseguì un sospetto del cazzo e non sai neppure dirmi se aveva un berretto o no? Che diavolo ci facevi in quel dannato bosco, raccoglievi le margherite?»
Lei continuò a fissarlo stringendo le mascelle per non lasciarsi scappare quello che avrebbe voluto dire. «Ti è andata bene che non abbia assalito anche te» disse Jeffrey. «Altrimenti a quest'ora avremmo due donne su quell'elicottero, invece di una.» «So badare a me stessa.» «Credi che quel coltellino che porti al polpaccio possa proteggerti?» Si indispettì ancora di più vedendola sorpresa, soprattutto perché l'aveva addestrata a ben altro. Jeffrey aveva notato il pugnale quando era scivolata, mentre scendeva verso il fiume. Disse: «Dovrei sbatterti dentro per porto d'armi abusivo». Lei continuò a fissarlo, con odio palpabile. «Attenta a come guardi» la minacciò. Lena strinse i denti, tanto che le parole uscirono a stento. «Io non lavoro più per te, testa di cazzo.» Qualcosa dentro Jeffrey fu sul punto di spezzarsi. La vista si affinò, tutto gli apparve inaspettatamente nitido. «Capo» lo frenò Frank, posandogli la mano sulla spalla. Allora si bloccò, consapevole dell'assurdità del suo comportamento. Vide per terra i vestiti impregnati di sangue, il sangue di Tessa, e in un istante tutto gli si presentò alla mente. Le lacrime sul viso di Sara, che rigavano la guancia sporca di sangue. Il braccio di Tessa, che ciondolava floscio dalla barella quando l'avevano sollevata. Si voltò perché nessuno lo vedesse in faccia, raccolse il distintivo e lo ripulì sulla maglietta per prendere tempo e recuperare la calma. Brad Stephens scelse proprio quel momento per presentarsi. Rigirando il berretto tra le mani domandò: «Che succede, capo?». Jeffrey si sentì serrare la gola dal furore. «Ti avevo detto di accompagnare Ellen Schaffer fino al dormitorio.» «Ha incontrato due amiche» si giustificò Brad sbiancando. «Ha voluto andare con loro.» Spalancò gli occhi azzurri impauriti e balbettò: «I-io... ho pensato che stesse meglio con loro. Abitano nello stesso edificio. Io non credevo...». «D'accordo, d'accordo» lo interruppe Jeffrey. Sfogarsi su Brad sarebbe servito solo a farlo sentire peggio. A Frank disse: «Manda qualcuno dei nostri sulla statale. Di' che cerchiamo un uomo che sta andando a piedi. Forse ha la giacca, forse no». Non guardò Lena, ma lei sapeva che una descrizione un po' più precisa avrebbe fatto la differenza. «Le unità dovrebbero essere qui tra poco» disse Frank.
Jeffrey annuì. «Voglio che setaccino la zona da qui fino al punto in cui Lena ha visto l'aggressore. Cerchiamo un coltello. Qualsiasi oggetto abbandonato.» «Aveva in mano qualcosa» se ne uscì Lena, come se stesse offrendo un premio. «Un sacchetto bianco.» Brad Stephens spalancò la bocca e quando tutti lo guardarono arrossì. Jeffrey domandò: «Cosa c'è?». «Ho visto Tessa raccogliere della roba mentre saliva su per la collina» rispose, con un tono di scusa misto a inquietudine. «Che genere di roba?» «Rifiuti e roba simile, credo. Aveva un sacchetto di plastica, come quelli che danno al Pig.» Intendeva dire il Piggly Wiggly, il supermercato della città. Migliaia di persone ci andavano a fare la spesa ogni settimana. Jeffrey si costrinse a non parlare per qualche secondo. Pensò al brandello di plastica che aveva trovato nella mano di Tessa. Poteva benissimo essere il manico strappato di un sacchetto del supermercato. Domandò a Brad: «Tessa aveva trovato il sacchetto per terra?» e notò per la prima volta che tutto quel tratto era disseminato di rifiuti, Gli spazzini del college si impegnavano soprattutto a tenere pulito il terreno circostante gli edifici. Probabilmente in tutto l'anno non si erano mai spinti fino a lì. «Sì signore» rispose Brad. «L'ha raccolto e ha cominciato a metterci dentro della roba mentre saliva.» «Che roba?» chiese ancora Jeffrey. Brad ricominciò a tartagliare, come gli capitava sempre quando era nervoso. «Spa-az-zatura, immagino. Car-tacce, lattine, cose così.» Jeffrey cercò di moderare il tono. Non sapeva perché, ma la sua balbuzie gli dava sui nervi. «Non ti è venuto in mente di raggiungerla e chiederle che cosa stava facendo?» «Lei mi aveva detto di rimanere con la testimone» gli ricordò Brad. Le guance pallide si infiammarono di nuovo. «E io... ah... non volevo interferire con quello che stava facendo lassù. Sa, cose p-p-ersonali.» Jeffrey disse a Matt: «Passa la notizia alle radio. Abiti scuri, forse ha in mano un sacchetto bianco». «Credi che si sia rubato la spazzatura?» domandò Lena con sarcasmo. Matt si portò il cellulare all'orecchio e si allontanò di qualche passo per trasmettere gli ordini di Jeffrey. Frank osservava Lena, ma era impossibile
stabilire cosa stesse pensando. Jeffrey scorse Chuck che stava risalendo con tutta calma la collina. Come lo vide fermarsi e chinarsi si irrigidì, ma Chuck si stava solo allacciando una scarpa. Quando raggiunse il gruppo disse: «Sono rimasto accanto al cadavere. Perché nessuno contaminasse la scena del delitto». Lena lo ignorò e domandò a Jeffrey: «Credi che ci sia una relazione tra i due episodi?». Dalla faccia che fece Frank, Jeffrey capì che, dopo tutto quello che era successo, il vecchio poliziotto non si era ancora posto la domanda. Alla fine ci sarebbe arrivato anche lui, ma Lena procedeva a passi da gigante rispetto agli agenti più anziani della squadra. La sua rapidità di pensiero era la cosa che gli mancava di più, da quando se n'era andata. Lena ripeté: «Deve per forza esserci una relazione». Jeffrey la ignorò, e non solo perché c'era Chuck a sentire tutto. Lena aveva lasciato la polizia da sei mesi. Non faceva più parte della sua squadra. Disse a Frank: «Fammi vedere il messaggio del suicida». «Era sotto una pietra in fondo al ponte» spiegò Frank. Infilò la mano nella tasca posteriore e tirò fuori un foglio di quaderno ripiegato. Jeffrey non se la sentì di rimproverarlo per non avere messo il messaggio in una busta. Il sangue che avevano sulle mani lo avrebbe comunque macchiato. Diede una scorsa distratta. Chuck si portò la mano sotto il mento in una posa da pensatore. «Siete sempre convinti che si sia buttato di sua iniziativa?» «Già» rispose Jeffrey fissandolo. Quanto a riservatezza Chuck era una calamità. Jeffrey lo aveva sentito spettegolare su tutto e su tutti e sapeva che non era affidabile. Frank avvalorò la sua risposta: «L'assassino lo avrebbe accoltellato e non spinto giù dal ponte. Non cambiano tecnica da un momento all'altro». «Questo è vero» convenne Chuck, anche se chiunque con un briciolo di intelligenza in più avrebbe chiesto altri chiarimenti. Jeffrey restituì il messaggio a Frank. «Quando arriva la squadra spostatevi sull'altra riva del fiume. Rilevate le impronte, se necessario. Capito?» «Sì» rispose Frank. «Partiremo dal fiume e arriveremo fino alla statale.» «Bene.» Matt aveva finito di telefonare e Jeffrey gli assegnò un altro compito. «Chiama Macon. Vedi se può mandarci dei cani.» Chuck incrociò le braccia sul petto. «Posso far venire un paio dei miei uomini...»
Jeffrey gli puntò un dito addosso. «Tieni alla larga i tuoi uomini del cazzo dalla mia scena del crimine.» L'altro non si lasciò intimidire. «Questa è proprietà del college.» Jeffrey indicò il ragazzo morto sul greto. «Se vuoi renderti utile, c'è solo una cosa che puoi fare: scopri chi è quel ragazzo e avvisa la madre.» «È Rosen» disse Chuck sulla difensiva. «Andy Rosen.» «Rosen?» fece eco Lena. «Lo conoscevi?» le domandò Jeffrey. Lena scrollò la testa, ma lui capì che nascondeva qualcosa. «Lena?» la sollecitò, per darle l'opportunità di spiegarsi. «Ho detto di no» ribatté, e Jeffrey non seppe decidere se mentiva o se voleva solo tenerlo sulle spine. In ogni modo, non aveva tempo da perdere con i suoi giochini. «Sarai tu il responsabile della perlustrazione» disse a Frank. «Io ho altro da fare.» Frank annuì. Jeffrey si rivolse a Chuck: «Fai venire in biblioteca la madre fra un'ora, le voglio parlare». Indicò Lena col pollice. «Al tuo posto, mi porterei lei per dare la notizia. Ha molta più esperienza di te in queste cose.» Lanciò un'altra occhiata alla ragazza pensando che avesse apprezzato il commento, ma da come lo squadrò capì che non lo riteneva affatto un favore. Jeffrey si era infilato la camicia pulita che teneva sempre di scorta in macchina, ma non era riuscito a eliminare tutto il sangue dalle mani. Per quanto le avesse sfregate, le unghie erano ancora orlate di rosso. L'anello del college che aveva al dito era tutto incrostato, c'era sangue rappreso sul numero della sua maglia da football e sulle cifre dell'anno in cui avrebbe preso il diploma, se non avesse mollato gli studi. Forse, pensò, era il senso di colpa a fargli vedere sangue dappertutto. Tessa non sarebbe mai dovuta salire su quella collina. Con tre poliziotti esperti e armati a pochi metri di distanza, era stata pugnalata e ridotta in fin di vita. Era compito suo proteggerla e non l'aveva fatto. Imboccò il vialetto di casa Linton e parcheggiò dietro il furgone di Eddie. Si costrinse a scendere dalla macchina nonostante la paura che lo aveva invaso come un virus. Da quando lui e Sara avevano divorziato, Eddie Linton gli aveva fatto capire senza mezzi termini che lo considerava uno stronzo, degno di stare sotto la suola della scarpa della sua primogenita.
Ciò nonostante, Jeffrey provava una profonda affinità con lui. Eddie era un buon padre, il tipo di padre che Jeffrey aveva desiderato da bambino. Conosceva i Linton da più di dieci anni e nel periodo del matrimonio si era sentito per la prima volta parte di una famiglia. Per molti anni Tessa era stata per lui come una sorellina. Trasse un respiro profondo e si incamminò lungo il vialetto. La brezza rinfrescante lo fece rabbrividire e si rese conto che stava sudando. Dal retro arrivava della musica e decise di fare il giro dall'esterno invece di suonare alla porta principale. Come riconobbe la canzone trasmessa alla radio si fermò d'impulso. La festa di nozze era stata organizzata in casa Linton, perché Sara voleva evitare confusione e formalismi. C'era stato il giuramento in salotto, seguito da un piccolo rinfresco in giardino per i familiari e gli amici. Avevano danzato il loro primo ballo da marito e moglie al ritmo di quella canzone. Ricordava cosa aveva provato quando aveva stretto Sara tra le braccia e sentito la sua mano carezzevole sulla nuca, mentre i loro corpi si toccavano in un modo al tempo stesso casto e terribilmente sensuale. Sara era una pessima ballerina, ma quella volta, grazie al vino forse, o al momento particolare, aveva dimostrato una miracolosa coordinazione. Avevano ballato fino a quando la madre era venuta a ricordarle che dovevano prendere un aereo. Eddie aveva cercato di trattenerla, non riusciva ad accettare l'idea che la sua Sara se ne andasse. Riprese a camminare con riluttanza. Allora aveva portato via una figlia ai Linton, adesso era venuto ad annunciare che rischiavano di perdere per sempre l'altra. Quando svoltò l'angolo Cathy Linton stava ridendo per qualcosa che aveva detto Eddie, Erano seduti sul portico, ad ascoltare spensierati Shelby Lynne, e a godersi il pigro pomeriggio domenicale, come stava facendo la maggior parte dei cittadini della contea di Grant. Cathy sedeva su una poltrona a sdraio, con le gambe allungate su uno sgabello, mentre Eddie le smaltava le unghie dei piedi. La madre di Sara era una bella donna, con pochi fili grigi nei lunghi capelli biondi. Doveva avere quasi sessant'anni, ma li portava benissimo. C'era in lei un che di sexy e insieme di concreto, che Jeffrey aveva sempre trovato affascinante, E per quanto Sara sostenesse di non avere preso nulla dalla madre - era alta, mentre Cathy era piccola, era formosa, mentre Cathy aveva un corpo quasi da ragazzo - le due donne avevano molti tratti in comune. Sara aveva la pelle perfetta di sua madre e quel modo di rivolgerti il
sorriso che ti faceva sentire la cosa più importante del pianeta. Aveva anche la sagacia mordente della madre e sapeva come metterti al tuo posto facendolo sembrare un complimento. Come vide Jeffrey, Cathy sorrise e disse: «Abbiamo sentito la tua mancanza, a pranzo». Eddie si drizzò sulla sedia e avvitò il tappo dello smalto borbottando qualcosa che Jeffrey fu felice di non aver sentito. Cathy alzò il volume della radio, perché ovviamente anche lei aveva riconosciuto la canzone. Canticchiò sopra la musica: «I'm confessing that I love you...» con la sua voce bassa e gutturale e un'ironia gioiosa negli occhi. Due occhi tanto simili a quelli di Sara che Jeffrey fu costretto a guardare altrove. Abbassò il volume, sentendo che qualcosa non andava, forse immaginava un'altra lite tra lui e Sara. Disse: «Le ragazze dovrebbero arrivare tra poco. Non so come mai abbiano fatto così tardi». Lui si avvicinò di qualche passo. Si sentiva le gambe molli e sapeva che quello che stava per dire avrebbe cambiato tutto. Cathy ed Eddie non avrebbero mai dimenticato quel pomeriggio, quel momento destinato a stravolgere la loro esistenza. Nella sua carriera di poliziotto gli era toccato centinaia di volte di annunciare una tragedia, aveva spiegato a centinaia di genitori, mogli, mariti o amici, che la persona amata era in gravi condizioni o, peggio, che non sarebbe più tornata a casa. Ma mai era stato toccato così da vicino come questa volta. Parlare ai Linton sarebbe stato come ritrovarsi in quella radura, vedere Sara crollare e Tessa sanguinare, sapendo di non potere fare nulla per aiutarle. Si accorse che lo guardavano incuriositi perché non aveva ancora detto una parola, Domandò: «Dov'è Devon?», per non dover dare l'annuncio una seconda volta. Cathy gli lanciò un'occhiata interrogativa. «È da sua madre» rispose, usando lo stesso tono che Sara aveva usato meno di un'ora prima con Tessa: fermo, controllato, spaventato. Aprì la bocca per pronunciare la domanda, ma non uscì nulla. Jeffrey salì i gradini con lentezza, domandandosi come fare. Si fermò sull'ultimo e infilò le mani in tasca. Lo sguardo di Cathy seguì le mani. Quelle mani insanguinate, macchiate dalla colpa. Quando lei deglutì, lui vide la gola muoversi. Poi Cathy si portò la mano alla bocca e lacrime improvvise le velarono gli occhi. Alla fine fu Eddie a parlare al posto della moglie, facendo l'unica do-
manda che il genitore di due figlie può fare: «Quale?». 3 Lena sfruttò la distorsione alla caviglia per rimanere indietro ed evitare le chiacchiere di Chuck, perché non voleva sfogare su di lui la rabbia che le bolliva in corpo. Aveva bisogno di qualche minuto di tregua per riflettere su quello che era successo con Jeffrey. Continuava a tornarle in mente il modo in cui l'aveva guardata. Era capitato anche in passato che perdesse le staffe, ma mai come questa volta. Questa volta l'aveva sinceramente odiata. Nell'ultimo anno la vita di Lena era stata una sequela di sventure, dalla perdita del lavoro, fino allo scivolone sul sedere lungo l'argine. Non c'era da meravigliarsi che Jeffrey l'avesse spinta a lasciare la polizia. Aveva ragione: era inaffidabile. In troppe occasioni aveva dimostrato di non meritare la sua fiducia. E questa volta, per colpa sua, gli era forse sfuggito l'uomo che aveva accoltellato Tessa Linton. «Muoviti, Adams» la spronò Chuck. Camminava qualche metro più avanti e lei fissava la sua schiena larga cercando di trasmettergli tutto l'odio che sentiva dentro. «Coraggio, Adams» continuò Chuck. «Cammina che ti passa.» «Sto benissimo.» «Come no» disse lui, rallentando il passo. Le lanciò un sorriso stirato. «Mi sembra che il capo non smanii dalla voglia di lavorare con te.» «Lo stesso vale per te.» Chuck ridacchiò, come se lei avesse fatto una battuta. Lena non aveva mai conosciuto qualcuno capace di negare l'evidenza con tanta protervia. «Gli sto antipatico perché alle superiori uscivo con la sua ragazza.» «Tu uscivi con Sara Linton?» Tanto valeva che dicesse di avere avuto una storia con la regina d'Inghilterra. Chuck scrollò le spalle con indifferenza. «È roba di tanto tempo fa. Siete amiche voi due?» «Certo» mentì Lena. «Non me ne ha mai parlato.» «Perché le brucia ancora. L'ho lasciata per un'altra.» «Capisco.» Tipico modo di fare di Chuck. Convinto com'era che qualsiasi cosa gli uscisse dalla bocca fosse oro colato, si illudeva di essere molto rispettato nel campus, ma tutti sapevano che aveva avuto quel posto solo perché suo padre aveva fatto una telefonata a Kevin Blake, il preside del
Grant Technology College. Albert Gaines, presidente della Grant Trust and Loan, aveva molta influenza in città. Quando Chuck era tornato a casa dopo otto anni nell'esercito, aveva subito ottenuto l'incarico di capo della sicurezza del college, senza che nessuno facesse obiezioni. Lavorare alle dipendenze di un uomo come Chuck era il boccone amaro che Lena doveva ingoiare ogni giorno. Una volta riconsegnato il distintivo le era rimasto ben poco da scegliere. A trentaquattro anni, era l'unico lavoro che sapesse fare. Era entrata all'accademia appena uscita dalle superiori e non aveva mai avuto ripensamenti. Con quel poco che aveva in mano, poteva andare a rivoltare hamburger o fare la donna delle pulizie, e non erano alternative allettanti. Dopo il congedo dalla polizia, per un po' aveva meditato di andarsene, magari in Messico a cercare i parenti di sua nonna, oppure oltreoceano a lavorare nel volontariato. Poi era tornata alla realtà e aveva dovuto accettare l'idea che a quelli della banca non importava che lei avesse bisogno di cambiare aria. Esigevano in ogni caso il pagamento mensile del mutuo e delle rate della macchina. Anche col misero sussidio di invalidità che riceveva dal dipartimento di polizia e i pochi soldi che aveva raggranellato con la vendita della casa, la sua situazione economica rimaneva critica. Il lavoro al college garantiva l'alloggio e l'assistenza sanitaria, che compensavano il salario quasi da fame. Certo, l'appartamento era squallido e l'assicurazione sanitaria copriva così poco che le bastava uno starnuto per andare in panico, ma almeno aveva un lavoro fisso che la metteva al riparo dalla prospettiva di tornare a vivere dallo zio Hank. Tornare a Reece, dove Hank aveva cresciuto lei e Sibyl, la sua gemella, sarebbe stato troppo semplice. Troppo semplice insediarsi nel bar di Hank e affogare gli incubi nell'alcol. Troppo semplice nascondersi al resto del mondo e passare gli anni su uno sgabello a guardarsi le cicatrici che aveva sulle mani, per non dimenticare mai la ragione per cui aveva cominciato a bere. Poco più di un anno prima Lena era stata violentata. Non solo violentata, ma rapita e sequestrata nella casa del suo rapitore per giorni. I ricordi di quel periodo erano frammentari, perché per buona parte del tempo era stata drogata, con la mente confinata altrove mentre il corpo veniva brutalizzato. Le cicatrici sulle mani e sui piedi erano ancora lì a ricordarle che era stata inchiodata sul pavimento a gambe e braccia divaricate per essere a disposizione del suo aggressore in qualsiasi momento. Nelle giornate fredde le mani le facevano ancora male, ma il dolore non era nulla in confronto al terrore che aveva provato quando i chiodi erano penetrati nelle carni, sotto
i colpi del martello. Prima di prendere di mira Lena, l'animale aveva ucciso Sibyl, sua sorella, ed era una magra consolazione sapere che adesso quell'uomo non c'era più. Si presentava ancora nei suoi sogni e le procurava degli incubi così violenti, che a volte si svegliava madida di sudore, avvinghiata alle coperte, con la sensazione che lui fosse nella stanza. Ancora peggio erano i sogni che non si trasformavano in incubi, quando lui la sfiorava appena, facendola rabbrividire. Allora si svegliava eccitata e confusa, col corpo fremente per le immagini erotiche che la sua mente aveva elaborato nel sonno. Sapeva che le droghe che lui le somministrava avevano spinto il corpo a reagire con l'inganno, ma Lena non riusciva ancora a perdonarsi quelle sensazioni. A volte il ricordo di quelle carezze la avvolgeva come il velo sottile di una ragnatela e doveva buttarsi sotto la doccia bollente per smettere di tremare e ricominciare a sentire la pelle come sua. Un mese prima - non sapeva ancora se per disperazione o per stupidità si era decisa a rivolgersi al centro di consulenza psicologica del college. Qualunque fosse il motivo, le tre sedute e mezza a cui si era sottoposta si erano rivelate un grosso errore. Raccontare a una sconosciuta quello che le era successo, o meglio tentare di farlo, era stato troppo per lei. Alcune cose erano troppo intime per poterne parlare. Alla quarta seduta, dopo dieci minuti particolarmente dolorosi Lena si era alzata e se n'era andata, decisa a non tornare più. E ora era lì, per annunciare alla sua psicoterapeuta che suo figlio era morto. «Adams» disse Chuck, voltandosi a guardarla. «Tu la conosci, quella femmina?» Per Chuck le donne si dividevano in femmine e puttane, a seconda che le giudicasse disposte o meno a scopare con lui. Lena si augurava con tutto il cuore che lui la considerasse una puttana, anche se certe volte la guardava in modo strano, come fosse convinto che era solo questione di tempo prima che lei si gettasse ai suoi piedi. Rispose: «No, non la conosco». Poi, per ogni evenienza, aggiunse: «L'ho incontrata qualche volta nel campus». Lui la guardò di nuovo, ma per fortuna non sapeva leggere negli occhi delle persone più di quanto sapesse farsi degli amici. «Rosen... Secondo te è un cognome ebreo?» Lena rispose con un'alzata di spalle. Non ci aveva mai pensato. Al Grant Tech c'era una discreta integrazione e, a parte qualche deficiente che negli ultimi tempi si era messo a decorare con scritte razziste tutte le superfici
disponibili, nel campus prevaleva un'atmosfera di tolleranza. «Spero che non sia...» Fece ruotare l'indice sulla tempia. Secondo lui chiunque avesse a che fare con la salute mentale era uno svitato. Lena non gli diede la soddisfazione di una risposta. La preoccupava solo l'idea che qualcuno potesse riconoscerla. La domenica il centro chiudeva alle due, ma la dottoressa Rosen aveva accettato di vederla fuori orario, probabilmente perché il suo caso era noto a tutti, Chiunque in grado di leggere un giornale conosceva i dettagli inquietanti del rapimento e dello stupro. La dottoressa doveva essersi entusiasmata all'idea di averla tra le sue pazienti. «Eccoci qui» disse Chuck, aprendo la porta del centro di consulenza, Lena bloccò la porta prima che le arrivasse in faccia e lo seguì nella sala d'attesa affollata. Come la maggior parte dei college, il Grant Tech lesinava i fondi al centro di igiene mentale. Specialmente in Georgia, dove si concedevano borse di studio a chiunque fosse in grado di tracciare un cerchio con la matita, i giovani che arrivavano al college spesso non reggevano lo stress emotivo della lontananza dalla famiglia e dello studio. Il Grant era un college a orientamento scientifico e quindi tendeva a prediligere le teste d'uovo della matematica e i giovani molto competitivi, soggetti che di solito non sanno accettare i fallimenti. Di conseguenza il centro di consulenza psicologica era sul punto di scoppiare per l'afflusso continuo di nuovi studenti. Se le loro polizze assicurative erano simili a quelle di Lena, non avevano altra scelta che rivolgersi ai servizi gratuiti del college. Chuck infilò i pollici nella cintura e si diresse al banco dell'accettazione. Lena gli lesse nella mente quando lo vide guardarsi intorno e constatare che c'erano soprattutto ragazze, tutte con l'ombelico fuori e i jeans a vita bassa. Lei si era fatta una sua opinione su quelle studentesse, che al massimo si torturavano per un ragazzo o per la nostalgia del cane lasciato a casa. Non avevano la minima idea di cosa significasse avere dei problemi seri, problemi che ti tenevano sveglia la notte, a sudare freddo e a sperare nell'arrivo dell'alba per riuscire a respirare di nuovo. «C'è nessuno?» chiamò Chuck, lasciando cadere di peso la mano sul campanello. Alcune ragazze sobbalzarono e lanciarono un'occhiataccia a Lena, come se si aspettassero che lei potesse tenerlo a bada. «C'è nessuno?» ripeté, sporgendosi sopra il bancone e cercando di sbirciare nel corridoio. La sua voce risuonò così forte, che Lena ebbe l'impulso di tapparsi le orecchie con le mani. Invece puntò lo sguardo sul pavimento,
tentando di mascherare l'imbarazzo. Finalmente comparve la segretaria, una bionda alta con l'aria seccata. Guardò Lena senza dare segno di riconoscerla. «Ah, eccoti qui» disse Chuck sorridendole come se fossero vecchi amici. «Sì?» «Carla?» domandò leggendo il nome sulla targhetta. Gli occhi indugiarono sul seno. Lei incrociò le braccia. «Desidera?» Si intromise Lena, parlando a voce bassa: «Dobbiamo vedere la dottoressa Rosen». «È in seduta. Non può essere disturbata.» Lena stava per prendere da parte la donna per spiegarle in privato la situazione, quando Chuck annunciò senza mezzi termini: «Suo figlio si è ammazzato circa un'ora fa». Nella stanza cadde il silenzio. Qualche rivista volò a terra e due ragazze uscirono a pochi secondi l'una dall'altra. Carla prese tempo per riaversi dalla sorpresa, poi disse: «Vado a chiamarla». Lena la trattenne. «Glielo dirò io. Mi accompagni nel suo studio.» La donna tirò un sospiro di sollievo. «La ringrazio.» Lena seguì la segretaria, con Chuck alle calcagna. Nel corridoio lungo e stretto la claustrofobia la investì come una fiammata e quando raggiunse lo studio di Jill Rosen era in un bagno di sudore. Con la sua spiccata predisposizione a peggiorare le cose, Chuck si piazzò accanto a lei, standole praticamente appiccicato. Lena si sentì addosso l'odore del suo dopobarba misto a quello dolciastro e appiccicoso della gomma che le masticava rumorosamente nell'orecchio. Trattenne il fiato e voltò la testa dall'altra parte per reprimere la nausea. La segretaria bussò delicatamente alla porta. «Jill?» Lena scostò il colletto dell'uniforme in cerca d'aria. La dottoressa Rosen aprì la porta e con un tono infastidito disse: «Sì?». Poi vide Lena e, riconoscendola, fece un sorrisetto ambiguo. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Lena la anticipò. «La dottoressa Rosen?» domandò, con una voce che a lei stessa suonò metallica. La donna passò lo sguardo da Lena a Chuck, ebbe un attimo di esitazione, poi si voltò verso la paziente dentro lo studio: «Lily, torno subito». Chiuse la porta. «Da questa parte» disse.
Prima di seguirla, Lena squadrò Chuck, che non si dette per vinto e continuò a starle addosso. Jill Rosen si fermò davanti a una porta aperta e indicò l'interno della stanza. «Possiamo parlare qui.» Lena conosceva solamente la sala d'attesa e lo studio della Rosen e si sorprese di trovare una spaziosa sala riunioni. Era un locale accogliente, con molte piante. Le pareti erano dipinte in un luminoso grigio rilassante. C'erano sedie foderate in stoffa color malva, sistemate attorno a un lungo tavolo di mogano. Lungo una parete erano allineati schedari a quattro cassetti e Lena notò con sollievo che erano tutti chiusi col lucchetto per dissuadere i curiosi. Jill Rosen si guardò attorno scostando i capelli dagli occhi. Aveva un viso piccolo e capelli castani che scendevano sulle spalle. Era una quarantenne attraente, vestiva in uno stile sobrio, con bluse e gonne ampie adatte alla sua figura. Aveva un modo di venire subito al dunque che Lena aveva trovato irritante, specialmente quando, dopo solo tre sedute, le aveva dato dell'alcolista. In quel momento si domandò se avesse mai avuto dei veri alcolisti tra i suoi pazienti. A pensarci bene, non c'era molto da aspettarsi da una strizzacervelli che non era riuscita a impedire che il figlio si buttasse da un ponte. Com'era prevedibile, la Rosen andò subito al punto. «Cos'è successo?» Lena sospirò, incerta su come comportarsi, dati i suoi trascorsi con la dottoressa. Decise di essere diretta. «Siamo qui per suo figlio.» «Andy?» domandò Jill Rosen, lasciandosi andare su una sedia come un pallone che si sgonfia lentamente. Rimase ferma, con la schiena eretta, le mani intrecciate in grembo, perfettamente composta a parte l'espressione atterrita. Lena non aveva mai letto con tanta chiarezza negli occhi di una persona. La donna era in preda al panico. «È...» Si trattenne per schiarirsi la voce e gli occhi si riempirono di lacrime. «Gli è successo qualcosa?» Lena si ricordò di Chuck. Era fermo sulla soglia, con le mani in tasca, come se stesse assistendo a un talk-show. Senza lasciargli il tempo di protestare gli chiuse la porta in faccia. «Mi dispiace» disse. Appoggiò le mani sul tavolo e si sedette. Le scuse erano per Chuck, ma Jill Rosen pensò che fossero rivolte a lei. «Cosa è successo?» implorò, con una voce disperata. «Volevo dire...» Senza preavviso la donna allungò le mani sul tavolo e afferrò quelle di
Lena. Lei trasalì, ma la dottoressa parve non accorgersene. Da quando era stata violentata, la sola idea di toccare qualcuno - o peggio di essere toccata - le dava i sudori freddi. L'intimità che si creò in quel momento le fece salire in gola un sapore amaro. Jill Rosen domandò: «Dov'è?». La gamba di Lena cominciò a tremare, il piede ad agitarsi su e giù senza controllo. «Devo mostrarle una fotografia.» La voce uscì incrinata, ma non per la compassione. «No» si rifiutò la dottoressa, continuando a stringerle le mani come se fosse sospesa sopra un precipizio e Lena fosse l'unico appiglio per non cadere giù. «No.» A fatica Lena liberò le mani dalla stretta ed estrasse dalla tasca la Polaroid. La mostrò, ma Jill Rosen voltò la testa dall'altra parte e chiuse gli occhi, come una bambina. «Dottoressa Rosen» cominciò. Poi, addolcendo il tono: «Jill, questo è suo figlio?». La dottoressa continuò a ignorare la fotografia e fissò Lena con occhi infuocati d'odio. «Mi dica se è lui» insistette Lena, desiderosa di concludere al più presto il colloquio. Finalmente la dottoressa guardò. Le fremevano le narici e le labbra si serrarono in una linea sottile nello sforzo di reprimere le lacrime. Da quei particolari Lena capì che il ragazzo morto era suo figlio, ma lei prese tempo, continuò a fissare l'immagine, sforzandosi di fare accettare alla mente quello che gli occhi vedevano. Senza pensarci, accarezzò col pollice la cicatrice sul dorso della mano di Lena, come fosse un amuleto. La sensazione fu come carta vetrata su una lavagna e Lena digrignò i denti per non gridare. Alla fine domandò: «Dove?». «L'abbiamo trovato nel settore ovest del campus» spiegò, così presa dall'urgenza di levare la mano che cominciò a tremare. Ignara, Jill Rosen domandò: «Cos'è successo?». Lena si inumidì le labbra, ma aveva la bocca arida come un deserto. «È saltato» disse, sforzandosi di respirare. «Da un ponte.» Si interruppe. Poi aggiunse: «Noi pensiamo che abbia...». «Cosa?» domandò la dottoressa, continuando a stringere la mano di Lena. Lei non poté più resistere e implorò: «La prego, mi deve scusare...». La
dottoressa la guardò smarrita e questo non fece che aumentare in Lena la sensazione di essere in trappola. Gridò: «Lasci andare la mano!» scandendo le parole in un crescendo di agitazione. La Rosen si ritrasse impaurita, Lena si alzò di scatto facendo ribaltare la sedia e arretrò fino a che non sentì la parete contro la schiena. «Mi dispiace» disse la dottoressa con uno sguardo spaventato. Lena si appoggiò alla porta e si strofinò le mani sulle cosce come se volesse pulirle. «Non è niente» disse, col cuore che le martellava in petto. «Non avrei dovuto gridare.» «Ma io avrei dovuto capire...» «La prego» disse, sentendo sulle gambe il calore prodotto dallo strofinio. Unì le mani e le sfregò una contro l'altra come se avesse freddo. «Lena» disse la dottoressa, drizzandosi sulla sedia, ma senza alzarsi. «Si calmi. Qui è al sicuro.» «Lo so» rispose, ma la voce era incerta e sentiva ancora in bocca il sapore amaro della paura. «Non è niente» ripeté, continuando a tormentarsi le mani. Abbassò lo sguardo, premette il pollice sulla cicatrice che aveva sul palmo e la sfregò come se volesse cancellarla. «Sto bene» disse. «Sto bene.» «Lena...» cominciò Jill Rosen, ma non riuscì a continuare. Lena si concentrò sulla respirazione per calmarsi. Aveva le mani arrossate e appiccicose di sudore, con le cicatrici che spiccavano come un ammonimento. Si impose di smetterla e nascose le mani sotto le ascelle. Si stava comportando come una pazza. Solo i malati di mente facevano quelle cose. Forse la dottoressa stava già pensando di farla internare. Jill Rosen fece un altro tentativo. «Lena?» Lei cercò di liquidare l'incidente con una risata. «Mi sono solo innervosita» disse, sistemando i capelli dietro l'orecchio. Il sudore li aveva appiccicati alla testa. Inspiegabilmente le venne voglia di dire qualcosa di cattivo, per ferire Jill Rosen e ristabilire un livello di parità. La dottoressa intuì cosa si agitava e domandò: «Con chi posso parlare, alla centrale di polizia?». Lena sbarrò gli occhi e per una frazione di secondo non riuscì a ricordare perché si trovasse lì. «Lena?» la richiamò Jill Rosen. Si era di nuovo chiusa in se stessa, con le mani intrecciate in grembo, diritta e composta sulla sedia. «Io... Il capo, Tolliver, arriverà in biblioteca tra una mezz'ora.»
Jill Rosen restò con gli occhi fissi nel vuoto, come se non sapesse più cosa fare. Per una madre, trenta minuti di attesa per conoscere i dettagli di quello che era successo a suo figlio erano probabilmente una vita. Lena disse: «Jeffrey non sa che noi...». Indicò lo spazio che le separava. «Vuole dire la terapia?» suggerì, quasi che Lena fosse troppo stupida per usare quella parola. «Mi dispiace» disse Lena, e questa volta era sincera. Era venuta per confortarla, non per scagliarsi contro di lei. Jeffrey aveva detto a Chuck di lasciare fare a lei, ma nel giro di cinque minuti aveva combinato un disastro. Ci riprovò. «Mi dispiace veramente.» Jill Rosen alzò il mento, come per prendere atto delle scuse ma non per questo accettarle. Lena rimise a posto la sedia. Il desiderio di scappare da quella stanza era così forte che aveva male alle gambe. «Mi dica cos'è successo» disse Jill Rosen. «Ho bisogno di saperlo.» Lei afferrò con le mani la spalliera della sedia e la strinse forte. «A quanto pare si è buttato dal ponte vicino al bosco» disse. «L'ha trovato una studentessa e ha chiamato il 911. Il medico legale è arrivato poco dopo e ha constatato il decesso.» La donna trattenne il fiato per qualche istante. «È la strada che fa per andare a lezione.» «Passa dal ponte?» domandò Lena. Ne dedusse che i Rosen dovevano avere una casa nei pressi di Main Street, dove abitava buona parte del corpo docente. «Continuavano a rubargli la bicicletta» spiegò Jill, e Lena annuì. I furti di biciclette erano diventati una costante nel campus e gli addetti alla sicurezza non erano ancora riusciti a identificare i responsabili. Jill Rosen emise lentamente un sospiro, come se il dolore le uscisse a piccoli fiotti. Domandò: «È morto sul colpo?». «Non lo so» rispose Lena. «Credo di sì. In questi casi... di solito la fine arriva subito.» «Andy è un maniaco-depressivo» spiegò. «È sempre stato un ragazzo molto sensibile, ma suo padre e io siamo...» si trattenne, in dubbio se fornire altre informazioni. Considerato come si era appena comportata, Lena non poté fargliene una colpa. «Ha lasciato un messaggio?» chiese. Lei prese il biglietto dalla tasca posteriore e lo lasciò sul tavolo. Jill Rosen esitò prima di raccoglierlo.
«Quello non è di Andy» disse Lena, indicando le impronte di sangue lasciate sul foglio da Frank e da Jeffrey. Dato quello che aveva combinato con Tessa, Lena si era meravigliata che Frank le avesse concesso di portarlo alla madre. «È sangue?» Annuì, senza aggiungere altro. Voleva che fosse Jeffrey a spiegare i particolari. Jill Rosen inforcò gli occhiali che teneva appesi al collo con una catenella. Anche se Lena non glielo aveva domandato, lesse ad alta voce: «Non ce la faccio più. Ti voglio bene, mamma. Andy». Inspirò profondamente, cercando di controllare le emozioni. Si levò gli occhiali con lentezza e posò il messaggio sul tavolo. Rimase a fissarlo come se riuscisse ancora a leggerlo. «È quasi identico a quello che ha scritto l'altra volta.» «Quando è stato?» domandò Lena. Le era scattato l'istinto di investigatrice. «Il due di gennaio. Si è squarciato l'avambraccio. L'ho trovato quasi subito, non aveva ancora perso troppo sangue, ma...» Sostenne la testa con la mano e continuò a guardare il foglio. Vi posò sopra le dita, come se accarezzasse una parte di suo figlio, l'unica che le aveva lasciato. «Lo devo restituire» disse Lena, anche se Jeffrey e Frank l'avevano reso inservibile come prova. «Oh.» Allontanò la mano. «Poi lo potrò riavere?» «Sì, quando tutto sarà finito.» Jill Rosen prese a giocherellare con la catenella degli occhiali. «Posso vederlo?» «Dovranno fare l'autopsia.» La madre si aggrappò alla notizia imprevista. «Perché? Avete trovato qualcosa di sospetto?» «No» disse Lena, anche se non ne era sicura. «È solo routine, dato che non ci sono testimoni oculari. Non c'era nessuno sul posto.» «E il corpo è molto... danneggiato?» «Non molto» disse, benché sapesse che in questi casi non esiste una risposta obiettiva. Si ricordava ancora il momento in cui era andata a vedere la sorella all'obitorio. Per quanto Sara l'avesse ripulita, i graffi e i lividi che Sibyl aveva sul viso le erano sembrate ferite orribili. «Dov'è adesso?» «All'obitorio. Lo consegneranno alle pompe funebri fra un paio di gior-
ni.» Dall'espressione sgomenta capì che la madre non aveva ancora assimilato l'idea di dover dare sepoltura al figlio. Fu sul punto di scusarsi, ma si ricordò che di fronte al dolore le parole servono a ben poco. «Voleva essere cremato» disse Jill Rosen. «Non credo di poterlo fare. Non credo che permetterò...» Scrollò il capo e non terminò la frase. Si portò la mano alla bocca e Lena notò la fede nuziale. «Vuole che informi suo marito?» «Brian è fuori città» disse. «Sta cercando di ottenere dei finanziamenti.» «Lavora anche lui al college?» «Sì.» Corrugò la fronte per reprimere la commozione. «Andy lavorava con lui, gli dava una mano. Eravamo convinti che stesse meglio...» Tentò di soffocare un singhiozzo, ma alla fine crollò. Lena strinse più forte la spalliera della sedia e guardò la dottoressa. Era una di quelle persone che piangono in silenzio, dalle labbra socchiuse non usciva alcun suono. Si portò una mano al cuore e strizzò gli occhi mentre le lacrime le inondavano la faccia. Le spalle esili erano incurvate e il mento, abbassato sul petto, tremava. Lena provò un bisogno incontrollabile di andarsene. Anche prima di subire violenza, non era mai stata brava nel consolare gli altri. C'era qualcosa nella fragilità altrui che la faceva sentire minacciata, come se per confortare qualcuno dovesse rinunciare a una parte di sé. Voleva andare subito a casa per riprendere le forze, e togliersi dalla bocca il sapore della paura. Doveva trovare il modo di recuperare energie, prima di tornare ad affrontare il mondo. Soprattutto prima di vedere Jeffrey. Jill Rosen dovette intuire il suo stato d'animo. Si asciugò le lacrime e il tono di voce tornò sbrigativo. «Devo telefonare a mio marito» disse. «Mi concede un minuto?» «Ma certo» disse Lena con sollievo. «Ci vediamo in biblioteca.» Aveva già la mano sulla maniglia, ma si fermò e senza voltarsi sussurrò: «So di non avere il diritto di chiederglielo». Sapeva che Jeffrey l'avrebbe definitivamente eliminata dalla lista se Jill Rosen gli avesse riferito come erano andate le cose. Jill Rosen capì all'istante cosa la preoccupava. Senza cerimonie rispose: «No, non ne ha il diritto». Lei abbassò la maniglia, indugiò. Si sentiva in trappola, ma riuscì a domandare: «Quindi?». La dottoressa propose una sorta di compromesso. «Se la vedrò sobria, non glielo dirò.»
Lei deglutì e riuscì quasi ad assaporare il sorso di whisky che aveva in mente da qualche minuto. Senza rispondere, si chiuse la porta alle spalle. Lena sedeva a un tavolo libero della biblioteca vicino al banco dei prestiti e osservava Chuck che faceva il cretino con Nan Thomas, la bibliotecaria. A parte il fatto che, con quei capelli color topo e le lenti spesse, non era proprio un granché, Lena sapeva che Nan era lesbica. Era stata per quattro anni la fidanzata di Sibyl. Vivevano insieme quando Sibyl era stata assassinata. Per distrarsi da Chuck, guardò gli studenti seduti ai lunghi tavoli allineati al centro della sala. Gli esami di fine semestre si avvicinavano e la biblioteca era abbastanza affollata, per essere domenica. Oltre al bar e agli ambulatori medici, era l'unico edificio aperto quel giorno. Rispetto alle biblioteche degli altri college, quella del Grant Tech era considerevole. Lena immaginò che l'assenza di una squadra di football permettesse alla direzione di spendere più soldi negli altri servizi, anche se era convinta che investire qualcosa nello sport non avrebbe nuociuto. Cinque anni prima, due professori del Grant avevano messo a punto una sostanza in grado di ridurre i tempi di ingrasso dei maiali. Gli allevatori erano impazziti all'annuncio della scoperta e adesso, accanto all'entrata della biblioteca, era incorniciata una copertina di «Suini & Pollame», con la foto dei due professori. Il titolo recitava Vai coi maiali e, a giudicare dai sorrisi sulle facce dei due, era certo che non piangevano miseria. Come quasi tutti gli istituti di ricerca, il college si attribuiva una quota degli utili derivati dai lavori dei docenti e il preside Blake aveva utilizzato parte di quel denaro per rimodernare la biblioteca. I finestroni che davano sul lato orientale del campus erano stati dotati di doppi vetri per evitare dispersioni di calore. I pannelli in legno scuro e i due piani di scaffalature a tutta parete erano stati alleggeriti, anche se rimanevano imponenti. Nell'insieme l'ambiente era molto accogliente e Lena ci veniva spesso dopo il lavoro. Si sedeva in uno dei primi tavoli, sfogliava qualsiasi libro le capitasse a tiro poi, verso le dieci, tornava nella sua stanza, si faceva un paio di drink per allentare la tensione e cercava di dormire. Tutto sommato, quella routine non le dispiaceva. C'era un che di rassicurante nell'avere degli orari fissi. «Cazzo» borbottò, quando vide Richard Carter che le veniva incontro. Senza essere invitato, Richard si lasciò cadere sulla sedia di fronte.
«Ciao, cara» disse con un sorriso smagliante. «Salve» rispose lei, cercando di imprimere nella voce tutta la sua ostilità. «Cosa succede di bello?» Lena lo fissò, desiderando con tutto il cuore che se ne andasse. L'ex assistente di Sibyl era un uomo basso e tozzo, che solo da poco aveva rinunciato agli occhiali con le lenti spesse, in favore delle lenti a contatto. Richard aveva tre anni meno di Lena, ma esibiva già una discreta pelata al centro della testa, che cercava di mascherare pettinando all'indietro quel che rimaneva dei capelli. Tra le nuove lenti a contatto, che gli facevano sbattere gli occhi in continuazione, e l'attaccatura dei capelli, che disegnava una punta al centro della fronte, sembrava un gufo stralunato. Dopo la morte di Sibyl era stato promosso professore associato al dipartimento di biologia, dove probabilmente la sua carriera si sarebbe arenata. Al pari di Chuck, cercava di coprire la stupidità con un atteggiamento di superiorità del tutto infondato. Non riusciva nemmeno a ordinare la colazione senza far sapere a tutti che in fatto di uova ne sapeva più del cuoco. «Hai sentito di quel ragazzo?» Imitò il sibilo di un aereo in picchiata e lasciò cadere con un tonfo la mano sul tavolo. «È volato giù dal ponte.» «Già» fece Lena sulle sue. «Si parla di omicidio» aggiunse, quasi ridacchiando. Era più pettegolo di una donna, cosa peraltro comprensibile, dato che era una checca fatta e finita. «I suoi genitori lavorano qui al college. Sua madre fa la psicologa. Ti immagini che scandalo?» Lena arrossì di vergogna al pensiero di Jill Rosen. A Richard disse: «Immagino che saranno distrutti. Hanno perso un figlio». Lui storse la bocca, valutando attentamente le parole di Lena. Non mancava di intuizione, per essere un cretino, e Lena si augurò di non aver lasciato trapelare qualcosa. «Tu li conosci?» le domandò. «Chi?» «Brian e Jill» disse, sbirciando oltre la spalla di Lena. Lanciò a qualcuno un saluto affettato con la mano e tornò a lei. Lena lo guardò senza rispondere alla domanda. «Sei dimagrita?» «No» rispose, sebbene fosse vero il contrario. I pantaloni le stavano più larghi della settimana prima. Negli ultimi tempi non aveva voglia di mangiare. «Era tuo allievo?»
«Andy?» domandò Richard. «Ha seguito il corso di Sibyl per un trimestre, poco prima che...» «Che tipo era?» «Odioso, per quel che mi riguarda. I genitori non sapevano più cosa fare per lui.» «Era viziato?» «Viziato marcio» confermò. «Ha rischiato la bocciatura al corso di Sibyl. Biologia organica. Ti pare difficile? Lo trattavano come un futuro Einstein, e lui ha rischiato la bocciatura a biologia organica.» Fece un grugnito di disgusto. «Brian ha cercato di lavorarsi tua sorella, le ha promesso dei favori se gonfiava il voto.» «Sibyl non si prestava a queste cose.» «Certo che no» disse Richard, come se non l'avesse mai messo in dubbio. «Sib è stata molto cortese, come sempre, ma Brian non l'ha spuntata.» Abbassò la voce. «Diciamo la verità. Brian è sempre stato invidioso di Sibyl. Tramava giorno e notte perché non diventasse capo dipartimento.» Lena si domandò se Richard stesse dicendo la verità o se sparasse solo stronzate. Aveva il vizio di mettersi sempre al centro dell'attenzione. A un certo punto delle indagini sull'omicidio di Sibyl, la sua boccaccia lo aveva quasi trascinato nella lista dei sospetti, anche se le probabilità che fosse in grado di uccidere erano più o meno quelle che Lena aveva di farsi spuntare le ali. Cercò di metterlo alla prova. «A quanto pare conosci molto bene Brian.» Alzò le spalle, salutò qualcun altro dietro Lena, poi disse: «Questo è un dipartimento piccolo. Lavoriamo tutti insieme. Nello stile di Sibyl. Lo sai che il suo motto era: "Lavoro di squadra"». Salutò di nuovo. Lena fu tentata di voltarsi per vedere se ci fosse davvero qualcuno, ma decise che era meglio sfruttare l'occasione per strappargli qualche informazione. «In ogni modo» continuò lui, «Andy è andato fuori corso, e naturalmente il paparino gli ha trovato un posto al laboratorio.» Sospirò indispettito. «Ammesso che si possa chiamare lavoro stare seduti sul proprio culo ad ascoltare musica rap per sei ore al giorno. E guai a lamentarsi con Brian.» «La notizia lo sconvolgerà.» «Mi sembra ovvio. Ne usciranno entrambi distrutti.» «Che cosa fa Brian?» «Ricerca biomedica. Sta cercando di ottenere dei finanziamenti. Che re-
sti fra noi...» Non terminò la frase, ma Lena era certa che aveva già spettegolato con l'intero college. «Insomma, diciamo pure che se non ottiene quei fondi se ne dovrà andare.» «Non è di ruolo?» «Oh» disse Richard con un'occhiata eloquente. «Il ruolo ce l'ha.» Lei aspettò il seguito, ma stranamente Richard rimase zitto. Pur lavorando al campus solo da pochi mesi, Lena cominciava a rendersi conto che la direzione aveva sistemi alternativi al licenziamento per sbarazzarsi di un professore che non si dimostrava all'altezza della situazione. Richard, che passava i suoi giorni a insegnare biologia alle matricole, era un perfetto esempio di insegnante senza prospettive. L'unica differenza era che Richard non se ne sarebbe mai andato. Domandò: «Era intelligente?». «Andy?» Si strinse nelle spalle. «Era iscritto qui, no?» Era una risposta piuttosto ambigua. Il Grant Tech era una buona scuola, ma i veri secchioni cercavano di entrare al Georgia Tech di Atlanta. Insieme alla Emory University di Decatur, il Georgia Tech era considerato una delle migliori istituzioni del sud. Sibyl aveva frequentato il Georgia Tech grazie a una borsa di studio che le aveva subito aperto la strada della carriera universitaria. Avrebbe potuto insegnare ovunque, ma alla fine era approdata al Grant. Richard sembrava pensieroso. «Io volevo andare al Georgia Tech, sai. L'ho sempre desiderato. Doveva essere la mia via di fuga da Perry.» Sorrise, e per un attimo sembrò un normale essere umano. «Quando ero un ragazzino, avevo tappezzato la stanza con i manifesti del college. Avevo grandi progetti. E una gran voglia di rifarmi su tutti.» «E perché non ci sei andato?» domandò Lena per metterlo in imbarazzo. «Oh, mi avevano preso» rispose in tono rivelatorio, pensando di impressionarla. «Ma avevo appena perso mia madre...» si interruppe. «Comunque. Ormai non c'è più niente da fare.» Puntò l'indice su Lena. «Ho imparato molto da tua sorella. Era un'ottima insegnante. È stata un modello per me.» Lei lasciò perdere il complimento. Non le andava di parlare di Sibyl con Richard. «Oh, Dio» esclamò Richard irrigidendosi. «È arrivata Jill.» Jill Rosen era ferma all'entrata e si guardava attorno. Sembrava smarrita e Lena era in dubbio se andarle incontro, quando Richard agitò la mano con quel suo fare effeminato.
Jill Rosen abbozzò un sorriso e si mosse verso di loro. Richard scattò in piedi. «Oh, mia cara» disse, prendendole le mani. «Brian sta arrivando da Washington» lo informò. «Gli stanno cercando un posto sul primo volo in partenza.» «Se posso fare qualcosa per te o per Brian...» disse lui con aria contrita. «Ti ringrazio» rispose Jill, ma stava già guardando Lena. Lena cercò di liquidarlo: «Ci vediamo dopo». Lui aggrottò le sopracciglia, ma si inchinò con garbo e si congedò dicendo a Jill Rosen: «Fammi sapere se hai bisogno di me». Lei gli rispose con un sorriso forzato, poi si rivolse a Lena: «Tolliver è già arrivato?». «No, non ancora.» Jill Rosen la fissò, probabilmente per capire se aveva rispettato il patto. Di fatto Lena lo aveva rispettato. Era sobria. Le due sorsate di whisky che si era concessa nel suo appartamento non erano sufficienti a farla ubriacare. Disse: «Aveva un'altra cosa da sistemare». «Allude alla ragazza?» domandò, e Lena immaginò che nel tragitto dal centro medico alla biblioteca avesse sentito ogni sorta di commenti sull'aggressione a Tessa Linton. Cercò di giustificarsi: «Ho preferito non parlargliene». «Questo è ovvio» ribatté con un tono tagliente. «Non è per il motivo che lei pensa» si affrettò a dire Lena. «Non sappiano neppure se l'episodio abbia qualche relazione con quello che è accaduto ad Andy. Non volevo che lei pensasse...» «Il sangue sul messaggio era suo?» «Sì, ma è successo dopo» chiarì Lena. «Glielo avevano appena portato e...» Gli occhi della dottoressa si velarono di lacrime. Appoggiò le mani sul tavolo, come se le servisse un sostegno per tenersi in piedi. Lena chiese: «Vuole che la lasci sola?» sperando con tutto il cuore che dicesse di sì. «No» rispose la Rosen soffiandosi di nuovo il naso. Non spiegò perché preferisse tenersi vicina Lena. Rimasero in piedi a guardare scoraggiate le persone nella biblioteca. Lena si accorse che si stava grattando le cicatrici sulle mani e si costrinse a non farlo. Disse: «Mi dispiace davvero per suo figlio. So cosa significa perdere qualcuno». Jill Rosen annuì continuando a guardarsi in giro. «Dopo la prima vol-
ta...» si toccò l'avambraccio alludendo al primo tentativo di suicidio di Andy «era migliorato. Eravamo riusciti a calibrare i farmaci. Sembrava che stesse meglio.» Sorrise. «Gli avevamo appena regalato una macchina.» «Era iscritto qui?» «Immagino che Richard glielo avrà raccontato» disse, ma senza risentimento. «Dopo l'ultimo trimestre gli abbiamo suggerito di ritirarsi per concentrarsi sulla sua salute. Aiutava suo padre in laboratorio e sbrigava qualche lavoretto per me, al centro.» Sorrise al ricordo. «Il giovedì andava a lezione di pittura. Era molto bravo.» Lena rimpianse di non avere con sé il taccuino per segnare le informazioni, ma in realtà non aveva motivo per farlo. Come le aveva fatto notare Jeffrey, non era più un poliziotto. Era solo la galoppina di Chuck, nient'altro. Jill Rosen domandò: «Cosa vuole da me Tolliver?». «Probabilmente un elenco degli amici di suo figlio, dei posti che frequentava.» Non riuscì a impedirsi di pensare come un poliziotto e azzardò: «Andy faceva uso di droghe?». Parve sorpresa. «Perché me lo chiede?» «Le persone depresse tendono a curarsi da sole.» La dottoressa le lanciò un'occhiata allusiva, ma Lena la ignorò. Allora ammise: «Sì, si drogava. Prima solo erba, ma dall'anno scorso, più o meno in questo periodo, era passato a roba più pesante. Lo abbiamo anche mandato in una comunità. Ci è rimasto un mese». Fece una pausa. «Mi aveva detto che era pulito, ma non si può mai sapere.» Lena apprezzò che ammettesse di non sapere tutto di suo figlio. Spesso i genitori pretendono di conoscere i figli meglio di chiunque altro, perfino dei figli stessi. «Quando è tornato, i suoi amici non gli rivolgevano più la parola. I drogati non vogliono avere attorno persone che non si fanno» aggiunse quasi soprapensiero. «E così era sempre solo. Non faceva amicizie facilmente. Era molto intelligente e la cosa irritava gli altri ragazzi. In un certo senso si era emarginato.» «C'era qualcuno dei suoi amici che poteva avercela con lui? Al punto di volergli fare del male?» Le vide brillare negli occhi uno sprazzo di speranza: «Crede che qualcuno possa averlo spinto?». «No» rispose Lena, sapendo che Jeffrey non le avrebbe perdonato di avere messo quell'idea nella mente di Jill Rosen. Al pensiero di Jeffrey ebbe
un tuffo al cuore. «Riferirà a Jeffrey quello è successo oggi?» domandò. La dottoressa prese tempo per rispondere, poi si avvicinò, come se volesse odorarle l'alito. Non avrebbe potuto cogliere altro che un profumo di menta, ma Lena ebbe un attimo di panico. «No» decise la dottoressa. «Non gli dirò di oggi.» «E di prima?» Jill Rosea parve confusa. «Della terapia?» Scosse il capo. «Si tratta di cose riservate, Lena. Gliel'ho detto sin dall'inizio. Non è mia abitudine rivelare chi sono i miei pazienti.» Lena si limitò ad annuire, risollevata. Sette mesi prima Jeffrey le aveva dato un ultimatum: o vai da uno strizzacervelli o ti trovi un altro lavoro. Allora le era sembrata una scelta semplice e, senza esitazioni, aveva buttato sul tavolo distintivo e pistola. Adesso si sarebbe sparata un colpo, piuttosto di ammettere di fronte a lui che un mese prima il suo malessere l'aveva spinta a cercare un terapeuta. Come se fosse stato chiamato, Jeffrey aprì la grande porta in noce e si fermò sulla soglia guardandosi attorno. Chuck gli andò subito incontro, ma lui escogitò un pretesto per levarselo dai piedi, perché Lena lo vide uscire dalla biblioteca con la coda tra le gambe. Non aveva mai visto Jeffrey così dimesso. Si era cambiato, ma indossava un abito sgualcito e non si era messo la cravatta. Più si avvicinava e più saltava all'occhio la sua trascuratezza. «Dottoressa Rosen» disse. «Sono addolorato per la sua perdita.» Non le strinse la mano, né attese che lei rispondesse, e Lena trovò la cosa molto strana, per uno come Jeffrey. Scostò una sedia per la dottoressa. «Devo farle qualche domanda.» Lei prese posto e domandò: «Come sta la ragazza?». Jeffrey cambiò espressione, tanto che Lena provò un since ro dispiacere per lui. «Non sappiamo ancora nulla» disse. «I familiari la stanno raggiungendo ad Atlanta.» Jill Rosen ripiegò il fazzoletto nella mano. «Pensa che l'aggressore sia lo stesso che ha ucciso mio figlio?» «Per ora il caso di Andy è considerato un suicidio.» Fece una pausa, forse per dare più peso a quanto aveva detto. Poi aggiunse: «Ho appena parlato con suo marito». «Brian?» parve sorpresa. «Ha chiamato la centrale dopo avere parlato con lei» spiegò, e da come
si irrigidì, Lena intuì che il padre era stato tutt'altro che cortese. Anche Jill doveva averlo notato. «Brian è ruvido, a volte» disse, come se si volesse scusare. «Dottoressa Rosen» continuò Jeffrey, «le posso solo dire quello che ho detto a lui. Stiamo seguendo tutte le piste possibili ma, data la storia di suo figlio, il suicidio sembra l'ipotesi più probabile.» «Ho parlato col detective Adams...» «Mi perdoni, signora» la interruppe Jeffrey, «la signorina Adams non fa parte della polizia. Lavora con la squadra della sicurezza del campus.» «Non vedo cosa c'entri la gerarchia col fatto che mio figlio è morto, signor Tolliver.» Jeffrey fece un faccia contrita. «Mi perdoni» ripeté, prendendo qualcosa dalla tasca della giacca. «Abbiamo trovato questa nel bosco» disse, mostrando una catenina d'argento con appesa una stella di Davide. «Non c'erano impronte e così...» Jill Rosen afferrò la catenina e rimase a bocca aperta. Le salirono le lacrime agli occhi e cominciò a tremare, poi si portò l'amuleto alle labbra. «Andy, oh Andy.» Jeffrey guardò Lena sperando che facesse qualcosa, ma quando vide che rimaneva lì impalata, posò la mano sulla spalla della signora e cercò di assolvere al compito da solo. Le diede qualche colpetto, come si fa con i cani. Lena si domandò perché a un uomo tutti perdonavano una certa goffaggine, mentre a una donna nessuno concedeva attenuanti. La dottoressa si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Mi deve scusare.» «È più che comprensibile» disse Jeffrey, dandole qualche altro colpetto sulla spalla. Lei rigirò nella mano il ciondolo continuando a tenerlo vicino alla bocca. «Non lo portava da un po' di tempo. Pensavo che l'avesse regalato o venduto.» «Venduto?» domandò Jeffrey. Fu Lena a rispondere: «La dottoressa mi stava dicendo che forse faceva uso di droghe». «Suo padre dice che era a posto» obiettò Jeffrey. Lena si strinse nelle spalle. «Suo figlio aveva una ragazza?» domandò Jeffrey «Non ha mai avuto un rapporto stabile.» Rise senza allegria. «Una ragazza o un ragazzo, per noi non sarebbe stato un problema. Ci bastava che
fosse felice.» «C'era qualcuno in particolare che frequentava?» «No» rispose. «Credo che fosse molto solo.» Lena la guardò sperando che aggiungesse qualcos'altro, ma il contegno professionale stava di nuovo cedendo il posto alla commozione. Chiuse gli occhi, li strizzò. Mosse le labbra in silenzio, senza far capire cosa voleva dire. Jeffrey le concesse un po' di tempo, poi la sollecitò: «Dottoressa Rosen?». «Lo posso vedere?» «Certamente.» Le offrì la mano per aiutarla ad alzarsi. «L'accompagno all'obitorio» disse. Poi rivolto a Lena: «Chuck è andato a cercare Kevin Blake». «Va bene.» Jill Rosen sembrava persa nei suoi pensieri, ma disse a Lena: «La ringrazio». «Di nulla.» Si costrinse a toccarle il braccio in un gesto affettuoso. Jeffrey lo notò. «Con te parlerò dopo» disse in un tono che suonò quasi minaccioso. Lena li guardò uscire sfregando il pollice sul dorso della mano. Dal ballatoio del piano superiore arrivavano dei rumori, due ragazzi si rincorrevano, ma Lena li ignorò. Si mise seduta a ripensare agli ultimi dieci minuti, per cercare di capire cosa avrebbe dovuto fare di diverso. Dopo un po' si rese conto che l'unico modo per sistemare tutto sarebbe stato eliminare quell'ultimo, maledetto anno. «Dio mio, tu lavori con quella testa di cazzo?» bisbigliò Nan Thomas, lasciandosi cadere sulla sedia di fronte a lei. «Chuck?» domandò Lena con una scrollata di spalle, ma fu contenta di venire distratta. «È un lavoro come un altro.» «Preferirei catalogare libri all'inferno» disse Nan, legandosi i capelli trascurati con un elastico rosso. C'era un'enorme impronta di pollice sulla lente destra dei suoi occhiali, ma sembrava che la cosa le fosse del tutto indifferente. Indossava una maglietta rosa sopra una gonna di denim con la cintura di elastico. Completava l'insieme un paio di scarpe da ginnastica rosse, portate con calzini rosa. Domandò: «Cosa fai nel weekend?». Lena si strinse nelle spalle. «Non lo so, perché?» «Pensavo di invitare Hank per Pasqua. Potrei preparare il prosciutto al
forno.» Lena cercò di inventarsi una scusa, ma l'invito l'aveva colta alla sprovvista. Di solito guardava il calendario per vedere quanti giorni mancavano alla paga, non per programmare le festività in arrivo. Pasqua si era presentata a sorpresa. Disse: «Ci devo pensare». E con suo sollievo Nan la prese bene. Da sopra arrivò un grido e alzarono insieme la testa per guardare i ragazzi che scherzavano sulla balconata. Uno dei due dovette cogliere l'occhiata contrariata di Nan, perché le lanciò un sorriso di scuse e aprì il libro fingendo di leggere. «Che idioti» disse Lena. «Ma no, sono bravi ragazzi» obiettò Nan, ma continuò a fissarli per qualche secondo, per sincerarsi che stessero tranquilli. Nan era l'ultima persona al mondo con cui Lena avrebbe pensato di poter stringere amicizia, ma negli ultimi mesi qualcosa era cambiato. Non erano amiche nel senso che facevano cose insieme, andare al cinema o cose così. E nemmeno a Lena interessava ascoltare le confidenze di Nan sulle sue storie omosessuali. Le univa il fatto che parlavano di Sibyl, e per Lena parlare della sorella con qualcuno che l'aveva conosciuta davvero era come ritrovarla. «Ho provato a chiamarti ieri sera» disse Nan. «Non capisco perché non ti procuri una segreteria telefonica.» «Prima o poi lo farò» disse Lena, anche se ne aveva già una, che teneva inutilizzata in fondo all'armadio. Aveva staccato quel maledetto aggeggio la prima settimana che si era installata al campus. Le uniche persone che le telefonavano erano Nan e Hank, e tutti e due lasciavano i soliti messaggi accorati in cui le chiedevano come stava. Adesso Lena aveva inserito il sistema per identificare le chiamate, che le consentiva di filtrare le telefonate. «Ho appena visto Richard» disse. «Oh, Lena» si accigliò Nan. «Non l'hai trattato male, spero.» «Ha cercato di sollevare il solito polverone.» Come al solito, Nan tentò di difenderlo. «Brian lavora nel suo dipartimento. Sono sicura che voleva solo sapere cos'è successo.» «Lo conoscevi? Il ragazzo, intendo.» Nan scosse il capo. «Vedevamo Jill e Brian tutti gli anni alla festa di Natale della facoltà, ma non abbiamo mai davvero familiarizzato. Forse dovresti chiedere a Richard» suggerì. «Lavorano insieme al laboratorio.»
«Richard è una testa di cazzo.» «Era molto buono con Sibyl.» «Sibyl sapeva badare a se stessa» insistette Lena, anche se entrambe sapevano che non era del tutto vero. Sibyl era cieca. Nel campus Richard era stato i suoi occhi e le aveva reso la vita molto più semplice. Nan cambiò argomento. «Vorrei parlati del premio di assicurazione, tu dovresti prendere...» «No» la interruppe Lena. Sibyl aveva fatto un'assicurazione sulla vita tramite il college. Garantiva il doppio del premio in caso di morte accidentale. La beneficiaria era Nan, e da quando le era arrivato l'assegno insisteva per darne la metà a Lena. «Sibyl l'ha lasciato a te» disse Lena, con l'impressione di aver già detto quella frase un milione di volte. «Era a te che voleva lasciare quei soldi.» «Ma se non aveva neppure fatto testamento. Non le piaceva pensare alla morte, figuriamoci programmarla. Lo sai anche tu com'era fatta.» Lena si sentì salire le lacrime agli occhi. Nan continuò: «Aveva quella polizza per la semplice ragione che il college la passava gratis insieme all'assicurazione sanitaria. Ha messo il mio nome perché...». «Perché voleva che andasse a te» concluse Lena, usando il dorso della mano per asciugarsi gli occhi. Aveva pianto tanto nell'ultimo anno, che farlo in pubblico non la metteva più in imbarazzo. «Ascoltami, Nan, io ti ringrazio, ma quei soldi sono tuoi. Sibyl voleva che andassero a te.» «Certo non avrebbe voluto che tu lavorassi per Chuck. Non l'avrebbe tollerato.» «Neppure io ne vado pazza» ammise Lena, anche se l'unica persona a cui l'aveva confessato era Jill Rosen. «Ma è una cosa transitoria, mentre aspetto di capire cosa fare della mia vita.» «Potresti riprendere gli studi.» Lena rise. «Sono un po' vecchia per tornare a scuola.» «Sibby diceva sempre che avresti preferito schiattare a una maratona in pieno agosto, che stare dieci minuti in un'aula con l'aria condizionata.» Lena sorrise. Ricordava quelle parole e si intenerì al ricordo di Sibyl. A volte era come se nel suo cervello scattasse qualcosa che eliminava tutte le cose cattive, per lasciare finalmente spazio a quelle buone. Nan disse: «Sembra impossibile che sia già passato un anno». Lena guardò fuori dalla finestra, le pareva strano trovarsi lì a parlare con Nan. Non fosse stato per Sibyl, si sarebbe tenuta il più lontano possibile da
una come lei. «Questa mattina ho pensato a lei» disse. Qualcosa nello sguardo impaurito di Sara Linton mentre caricavano la sorella sull'elicottero, l'aveva colpita nel profondo, come non le succedeva da tempo. «Sibyl adorava questo periodo dell'anno.» «Le piaceva camminare nei boschi» disse Nan. «Il venerdì cercavo sempre di staccare presto per accompagnarla a fare una passeggiata prima che facesse buio.» Lena deglutì, per paura che, aprendo la bocca per parlare, le sfuggisse un singhiozzo. Nan appoggiò le mani sul tavolo e si alzò. «Sarà meglio che mi metta a catalogare un po' di libri, prima che torni Chuck e gli venga in mente di invitarmi a cena.» Si alzò anche Lena. «Perché non glielo dici che sei gay?» «Così si eccita ancora di più? No grazie.» Lena capì cosa intendeva dire. Anche lei aveva provato ripugnanza all'idea di Chuck, chino sul giornale a leggere i dettagli più sconci delle violenze che aveva subito. «E poi» aggiunse Nan, «uno come lui andrebbe in giro a dire che non lo voglio solo perché sono lesbica e le lesbiche odiano gli uomini» Si accostò a Lena con fare complice. «Invece noi non odiamo tutti gli uomini. Noi odiamo solo lui.» Lena scrollò la testa e sorrise, pensando che se il criterio era quello, tutte le donne del campus erano lesbiche. 4 Il Grady Hospital era uno dei centri traumatologici più rinomati del paese, ma tra gli abitanti di Atlanta non godeva di buona reputazione. Amministrato dalla Fulton-DeKalb Hospital Authority, il Grady era un dei pochi ospedali pubblici rimasti in quell'area, ma nonostante il fatto che ospitasse il centro ustionati più grande del paese, che gestisse il protocollo anti Aids più completo a livello nazionale e servisse da centro regionale per gestanti e neonati ad alto rischio, se ti presentavi con un mal di pancia o un'otite, avevi buone probabilità di aspettare due ore prima di vedere un medico. Il Grady era un ospedale universitario e molti degli interni provenivano dalla Emory University, l'università di Sara, o dal Morehouse College. Il pronto soccorso era il più ambito dagli studenti, perché il Grady aveva fa-
ma di essere il posto migliore del paese per imparare la medicina di emergenza. Quindici anni prima Sara aveva lottato con le unghie e coi denti per ottenere un posto in pediatria e in un anno aveva imparato più di quanto la maggior parte dei medici riesca a imparare in una vita. Quando aveva lasciato Atlanta per tornare nella contea di Grant, era convinta che non avrebbe più rivisto l'ospedale, tanto meno in una circostanza come quella. «Arriva qualcuno» disse l'uomo seduto accanto a lei. Tutti i presenti in sala d'attesa - almeno una trentina di persone - alzarono gli occhi speranzosi verso l'infermiera. «La signora Linton?» Sara sentì un balzo al cuore e per una frazione di secondo pensò che sua madre fosse finalmente arrivata. Si alzò in piedi e posò la rivista sulla sedia per conservare il posto; erano già due ore che faceva a turno col vicino per difenderlo, se uno dei due si allontanava. «È uscita dalla sala operatoria?» domandò, senza riuscire a controllare il tremito nella voce. Il chirurgo aveva stimato un intervento di almeno quattro ore, ma Sara pensava che si fosse tenuto prudente. «No» disse l'infermiera precedendo Sara verso la postazione delle infermiere. «C'è una telefonata per lei.» «Sono i miei genitori?» domandò, alzando la voce per farsi sentire. Il corridoio era affollato: medici e infermieri sfrecciavano via a passo deciso cercando di mantenere il controllo sul flusso crescente di pazienti. «Ha detto di essere un agente di polizia» spiegò l'infermiera. Le passò il ricevitore. «Sia breve. Su questa linea non sono permesse le telefonate private.» «La ringrazio.» Prese il ricevitore e si appoggiò alla parete. «Jeffrey?» «Ehi» disse lui con voce stanca. «È uscita dalla sala operatoria?» «No» disse, dando un'occhiata al corridoio su cui si apriva il reparto di chirurgia. Più di una volta aveva avuto la tentazione di superare quella porta per scoprire di persona come andavano le cose, ma c'era una guardia di servizio che sembrava decisa a far bene il suo lavoro. «Sara?» «Sono qui.» «Dimmi del bambino.» A quella frase Sara si sentì stringere la gola. Non poteva parlare di Tessa con lui. Non in quel modo. Domandò: «Hai scoperto qualcosa?». «Ho parlato con Jill Rosen, la mamma del suicida. Non mi è stata di
molto aiuto. Nel bosco abbiamo trovato una catenina, una specie di collana con la stella di Davide che apparteneva al ragazzo.» Poiché Sara non rispondeva, Jeffrey aggiunse. «Andy, il suicida, deve essere passato per il bosco. Oppure c'è passato qualcuno che gli ha preso la catenina.» Sara si costrinse a dire qualcosa: «Secondo te qual è l'ipotesi più plausibile?». «Non lo so. Brad ha visto Tessa raccogliere un sacchetto di plastica bianco mentre saliva sulla collina.» «Aveva in mano qualcosa» si ricordò Sara. «Che motivo poteva avere per mettersi a raccogliere i rifiuti?» Sara provò a pensare. «Perché?» «A Brad è sembrato che facesse proprio quello. Ha preso un sacchetto e ha cominciato a infilarci i rifiuti.» «Potrebbe essere» disse Sara confusa. «Si era appena lamentata che la gente lascia immondizie dappertutto.» «Forse ha trovato qualcosa per terra e l'ha messa nel sacchetto. Potrebbe essere anche così. Abbiamo trovato la stella di Davide che apparteneva alla vittima, ma quella era dentro il bosco.» «Forse qualcuno ci stava osservando mentre eravamo vicino al cadavere del ragazzo. Come si chiamava... Andy?» «Andy Rosen» confermò. «Credi ancora che ci sia qualcosa di sospetto?» Sara non sapeva cosa rispondere. Le sembrava passato un secolo da quando aveva esaminato il corpo del ragazzo. Riusciva a malapena a ricordare che aspetto aveva. «Sara?» Gli disse la verità. «Non lo so più.» «Avevi ragione. Ci aveva già provato. La madre ha confermato. Si era squarciato il braccio.» «Un tentativo precedente e un messaggio» disse Sara. Pensò che, a meno che non saltasse fuori qualcosa nel corso dell'autopsia, i due elementi potevano essere considerati conclusivi per determinare il suicidio. «Potremmo fare un test tossicologico. Non avrebbe scavalcato il ponte senza opporre resistenza.» «Aveva la schiena graffiata.» «Non era un indizio di violenza.» «Posso chiedere a Brock di controllare» propose Jeffrey. Dan Brock, un
impresario di pompe funebri del posto, era stato coroner della contea ed eseguiva le autopsie prima che Sara assumesse quell'incarico. «Non ho detto a nessuno che c'è qualcosa di sospetto, ma Brock sa mantenere un segreto.» «Può prelevare dei campioni di sangue, ma voglio essere io a fare l'autopsia.» «Te la senti?» «Se c'è una relazione tra i due casi» cominciò, «se l'uomo che ha fatto questo a Tess...» Si trattenne, ma mai in vita sua aveva provato un desiderio tanto forte di vendetta. Alla fine disse: «Ce la farò». Jeffrey pareva dubbioso, ma continuò: «Stiamo perquisendo l'appartamento di Andy. In camera sua hanno trovato una pipa. Sua madre dice che ha avuto dei problemi con la droga qualche tempo fa, ma il padre sostiene che ne era uscito». «Capisco» sibilò Sara. Diventò furibonda all'idea che sua sorella fosse rimasta vittima di una cosa tanto stupida come una transazione di droga andata storta. Quelli che sostenevano che la droga è un passatempo innocuo, fingevano di non sapere che dietro l'uso degli stupefacenti si celavano imperdonabili atti di violenza, come l'accoltellamento di Tessa. «Stiamo rilevando le impronte nella sua stanza per passarle al computer. Domani parlerò con i genitori. Sua madre mi ha dato qualche nome, ma sono studenti già laureati o che si sono trasferiti.» Smise di parlare e lei capì che si sentiva frustrato. Le porte della sala operatoria si spalancarono, ma il paziente che uscì non era Tessa. Sara si schiacciò contro la parete per far passare la barella. Trasportava una donna più anziana con i capelli castani e le palpebre ancora sigillate dall'anestesia. «Come hanno preso la notizia i genitori?» domandò, pensando ai suoi. «Discretamente, tutto sommato.» Fece una pausa. «Lei si è lasciata andare solo quando siamo saliti in macchina. C'era qualcosa tra lei e Lena. Non saprei dire cosa.» «Che intendi dire?» domandò Sara, anche se Lena Adams era l'ultima persona al mondo di cui le potesse importare in quel momento. «Non lo so» disse. Lo udì tamburellare qualcosa con le dita. «Come è salita in macchina Jill Rosen è crollata. Era a pezzi.» Smise di tamburellare. «Il marito mi ha chiamato subito non appena ha saputo. Me l'hanno passato dalla centrale.» Rimase zitto per un attimo. «Sono sconvolti. Non è una cosa facile da accettare. I genitori...»
«Jeffrey» lo interruppe Sara. «Ho bisogno di te...» Si sentì di nuovo serrare la gola, come se le parole la soffocassero. «Ho bisogno di te. Qui.» «Lo so» disse con una voce rassegnata. «Non credo di poter venire.» Sara si asciugò gli occhi. Un dottore di passaggio la guardò e tornò subito a occuparsi della cartella clinica che aveva tra le mani. Si sentì stupida ed esposta e cercò di proteggersi dalla commozione che minacciava di travolgerla. Di colpo cambiò tono: «D'accordo. Capisco». «No, Sara...» «Sarà meglio che lasci libero il telefono. Sono sulla linea riservata alle infermiere. In sala d'attesa c'è un tipo che è al telefono da un'ora.» Rise, per alleviare la tensione. «Parlava in russo, ma credo che stesse contrattando un affare di droga.» «Sara» la fermò Jeffrey. «È per tuo padre. È stato lui a chiedermi di non venire.» «Cosa?» Lo disse così forte, che un paio di infermiere alzarono gli occhi dal lavoro. «Era sconvolto. Mi ha detto di non presentarmi all'ospedale, che era una questione di famiglia.» Sara abbassò la voce. «Non sta a lui decidere...» «Sara, ascoltami» disse Jeffrey, più pacato. «È tuo padre. E io sono tenuto a rispettarlo.» Fece una pausa. «E non è stato solo tuo padre. Me lo ha chiesto anche Cathy.» «Cosa?» ripeté. «Hanno ragione. Tessa non avrebbe dovuto essere lì. Non avrei dovuto permetterle...» «Sono stata io a portarcela» gli ricordò Sara, e il senso di colpa che tratteneva da qualche ora si scatenò incontrollato. «In questo momento sono solo sconvolti. È più che comprensibile.» Jeffrey fece una pausa per cercare le parole giuste. «Hanno bisogno di tempo.» «Per vedere come va a finire?» domandò. «Così, se Tessa ce la fa, sarai di nuovo il benvenuto al pranzo della domenica, ma se non ce la fa...» Non riuscì a terminare la frase. «Sono furiosi. È una reazione normale in questi casi. Si sentono impotenti e se la prendono con quelli che hanno intorno.» «C'ero anch'io» gli ricordò. «Sì, ma...» Per un momento si sentì troppo scossa per parlare. Alla fine domandò:
«Sono arrabbiati con me?». Pensò che i genitori avessero tutte le ragioni per esserlo. Sara aveva la responsabilità di Tessa. Era sempre stato così. «Hanno solo bisogno di tempo, Sara. E non sarò io a negarglielo. Non voglio creare un'altra occasione di scontro.» Lei annuì, anche se lui non poteva vederla. «Vorrei essere lì, per te e per Tessa.» C'era una grande amarezza nella sua voce e Sara capì quanto fosse difficile per lui tenersi lontano. Eppure non poteva fare a meno di sentirsi tradita dalla sua assenza. Era successo tante volte che Jeffrey non ci fosse quando lei ne aveva più bisogno. Ora stava facendo la cosa giusta, ma Sara non era in vena di gesti nobili. «Sara?» «D'accordo» disse. «Hai ragione.» «Ci penso io ai cani, va bene? Mi occuperò di tutto.» Fece un'altra pausa. «Cathy ha detto che venendo lì sarebbero passati a prenderti dei vestiti da casa tua.» «Io non ho bisogno di vestiti» disse, sentendosi di nuovo invadere dalla commozione. Riuscì solo a bisbigliare: «Ho bisogno di te». «Lo so, piccola.» Sara sentì arrivare le lacrime. Non si era ancora concessa di piangere. Prima sull'elicottero, poi al pronto soccorso, e nella sala d'attesa, aveva avuto troppa gente intorno per potersi concedere la libertà di dare sfogo al dolore. L'infermiera scelse quel momento per interromperla. «Signora Linton?» disse. «Abbiamo bisogno del telefono.» «Mi perdoni» rispose Sara. Poi, a Jeffrey: «Devo lasciare libera la linea». «Puoi chiamarmi da un altro telefono?» «Non mi posso allontanare» disse guardando una coppia di anziani che arrivava dal corridoio. L'uomo era incurvato e la donna lo sosteneva per il braccio. Procedevano lentamente, soffermandosi a leggere le scritte sulle porte. Jeffrey disse: «C'è un McDonald's sull'altro lato della strada, vero? Vicino all'autosilo dell'università?». «Non saprei.» Da anni non veniva in quella parte di Atlanta. «Sei sicuro?» «Credo proprio di sì. Ci troviamo lì domani mattina alle sei. D'accordo?» «No» disse, guardando la coppia che si avvicinava. «Occupati dei cani.»
«Sei sicura?» Lei continuava a guardare la coppia. D'un tratto si rese conto di non avere riconosciuto i suoi genitori. Jeffrey disse: «Sara?». «Ti chiamo più tardi. Sono arrivati. Devo andare.» Si appoggiò al bancone e riagganciò il ricevitore sentendosi disorientata e spaventata. Si avviò lungo il corridoio stringendosi le braccia in attesa che i due nuovi venuti tornassero a sembrarle i suoi genitori. Con una chiarezza inaspettata si accorse di quanto erano invecchiati. Come succede spesso ai figli adulti, Sara si era fatta un'immagine della madre e del padre che era rimasta fissata a una certa età, e fu quasi sorpresa di trovarli così fragili, spaesati e prostrati dal dolore. «Mamma?» chiamò. Cathy non si fece avanti per abbracciarla, come aveva immaginato lei. Un braccio restò attorno alla vita di Eddie, quasi a sorreggerlo. L'altro non si mosse dal fianco. «Dov'è?» «È ancora in sala operatoria» rispose. Fu presa dal desiderio dì abbracciarla, ma capì dall'espressione dura di Cathy che non era il caso. «Mamma...» «Cosa è successo?» Sara si sentì un nodo in gola. Quella non era la voce di sua madre. Aveva una durezza mai sentita prima e la bocca era ridotta a una linea diritta e gelida. Sara li condusse a lato del corridoio per poter parlare senza intralciare il passaggio. Tutto sembrava così formale, come se si fossero appena conosciuti. Cominciò: «Ha voluto venire con me...». «E tu glielo hai permesso» la interruppe Eddie, con un tono d'accusa che la ferì. «Perché, in nome di Dio?» Sara si morse le labbra per non piangere. «Non pensavo che...» «Questo è il punto, non ci hai pensato.» «Eddie» intervenne Cathy. Non voleva rimproverarlo, ma solo fargli capire che non era il momento. Sara rimase zitta per un attimo, decisa a non farsi angosciare più di quanto non lo fosse già. «Adesso è in sala operatoria. Probabilmente ci rimarrà un altro paio d'ore.» In quel momento la porta si aprì e tutti e tre si voltarono a guardare, ma era solo un'infermiera che usciva per una pausa. Sara continuò: «È stata accoltellata al ventre e al petto. Ha una lacerazione sulla testa». Si portò la mano alla testa per mostrare in che punto si
trovava la ferita. Quel gesto le scatenò nuovamente il panico. Ancora una volta si domandò se non fosse tutto un incubo. Cathy la richiamò alla realtà con la sua voce pressante: «E poi?». «Ho cercato di fermare l'emorragia» proseguì, rivedendo la scena con la mente. In sala d'aspetto aveva ricostruito un numero infinito di volte tutte le sequenze, cercando di capire cosa avrebbe potuto fare di diverso, e ogni volta era arrivata alla conclusione che in quella situazione non si poteva fare altro. «E poi?» ripeté Cathy. Sara si schiarì la voce, cercando di prendere le distanze dai propri sentimenti. Continuò a parlare come se si rivolgesse ai genitori di un paziente qualsiasi. «Circa un minuto prima che arrivasse l'elicottero ha avuto dei forti dolori. Ho fatto quello che ho potuto per aiutarla.» Si interruppe, ricordando la sensazione che aveva provato sentendo gli spasmi di Tessa sotto le mani. Guardò suo padre e si rese conto che da quando era arrivato non le aveva rivolto un solo sguardo. Si impose di proseguire: «In volo ha avuto altre due crisi. Il polmone sinistro ha ceduto. L'hanno intubata per aiutarla a respirare». Cathy domandò: «E adesso cosa stanno facendo?». «Per prima cosa devono fermare l'emorragia. Hanno chiamato il neurologo per un consulto, ma non so cosa abbiano trovato. Le faranno un cesareo per estrarre...» Trattenne il fiato. «Il bambino» terminò Cathy. Eddie si aggrappò a lei. Sara riprese lentamente a respirare. «Che altro?» la incalzò Cathy. «Che cosa c'è che non ci vuoi dire?» Per riuscire a proseguire, Sara dovette spostare lo sguardo altrove: «È probabile che debbano praticare un'isterectomia, se non riescono a fermare l'emorragia». I genitori non fecero commenti, ma lei sapeva con esattezza quello che stavano pensando, come se glielo urlassero addosso. Tessa era la loro unica speranza di avere dei nipotini. «Chi è stato?» domandò Cathy alla fine. «Chi può aver fatto una cosa simile?» «Non lo so» sussurrò. Che razza di mostro poteva assalire in quel modo una donna incinta? «Jeffrey ha scoperto qualcosa?» domandò Eddie, e Sara gli lesse negli occhi quanto gli costava pronunciare quel nome. «Sta facendo tutto il possibile. Tornerò a Grant non appena...» Non riu-
scì a concludere la frase. Cathy domandò: «Cosa ci dobbiamo aspettare quando si sveglierà?». Sara fissò suo padre. Voleva dire qualcosa che lo costringesse a guardarla. Se Eddie e Cathy fossero state due persone qualunque, avrebbe detto la verità: che non aveva idea di cosa ci si poteva aspettare. Jeffrey diceva spesso che preferiva non parlare con i parenti o gli amici delle vittime prima di avere qualcosa di concreto da comunicare. Sara aveva sempre pensato che fosse un atteggiamento un po' codardo, ma adesso si rendeva conto che era necessario, tutti avevano bisogno di un filo di speranza, di qualcosa a cui attaccarsi. «Sara?» Cathy non le lasciava tregua. «Le faranno un elettroencefalogramma per accertare che non ci siano lesioni al cervello.» Lottò per trovare qualcosa di positivo da dire. Alla fine disse l'unica cosa che sapeva per certo. «Ci sono molte cose che potrebbero andare storte.» Cathy non aveva altre domande. Si voltò verso Eddie, chiuse gli occhi e gli posò le labbra sulla fronte. Eddie alla fine parlò, ma senza guardare la figlia. «Sei sicura del bambino?» Sara aveva difficoltà a parlare. Aveva la gola secca come il greto di quel fiume. Riuscì a mormorare: «Sì, papà». Sara era davanti al distributore automatico del bar dell'ospedale. Schiacciava con rabbia il pulsante, fino a sentire male alle dita, ma non succedeva nulla. Si chinò a controllare pensando di avere scordato di fare qualcosa. La vaschetta di raccolta era vuota. «Maledizione» esclamò. Tirò un calcio alla macchina e con un placido fruscio cadde giù un KitKat. Scartò la merendina e si avviò verso il corridoio per allontanarsi dal frastuono. Il cibo era cambiato da quando lei lavorava nell'ospedale. Adesso servivano di tutto, dalla cucina thai a quella italiana, a grossi hamburger succulenti. Immaginò che per l'ospedale fosse una manna, ma giudicò un controsenso che un'istituzione nata per curare gli ammalati vendesse cibo nocivo alla salute. Nonostante fosse quasi mezzanotte, l'ospedale pullulava di gente e il brusio incessante dava l'impressione di essere dentro un alveare. Sara non ricordava tutto quel rumore quando aveva lavorato lì come interna, ma l'ospedale non doveva essere stato molto più silenzioso. L'ansia e la mancan-
za di sonno le avevano forse impedito di notarlo. Prima che gli interni si organizzassero e cominciassero a esigere orari più umani, i turni al Grady oscillavano tra le ventiquattro e le trentasei ore. Lei si portava ancora addosso la sensazione di avere sempre del sonno da recuperare. Si appoggiò contro una porta, perché sapeva che se si fosse seduta non si sarebbe più rialzata. Tessa era uscita da tre ore dalla sala operatoria ed era stata trasferita nel reparto di terapia intensiva, dove i membri della famiglia facevano i turni per starle vicino. Era imbottita di sedativi e non si era ancora risvegliata dall'anestesia. La prognosi era riservata, ma il chirurgo riteneva che l'emorragia fosse sotto controllo. Poteva ancora avere bambini, ammesso che riuscisse a desiderarne altri dopo l'incubo che aveva vissuto nel bosco. Rimanere nel cubicolo della terapia intensiva con Tessa e sentirsi addosso le tacite accuse di Eddie e Cathy, era stato troppo per Sara. Perfino Devon aveva evitato di parlarle, si era rintanato in un angolo, ancora sotto shock per quello che era capitato alla sua compagna e al suo bambino. Sara si sentiva a un passo dal punto di rottura, ma non aveva nessuno che potesse aiutarla a rimettere insieme i pezzi. Buttò indietro la testa e chiuse gli occhi cercando di ricordare l'ultima cosa che le aveva detto sua sorella. Sull'elicottero, dopo le crisi, Tessa non era più stata in grado di comunicare. L'ultima frase coerente l'aveva pronunciata in macchina, quando aveva detto a Sara che le voleva bene. Addentò il KitKat benché non avesse fame. «Buonasera, signora» la salutò un uomo di passaggio, toccandosi il cappello. Si costrinse a sorridere e lo guardò salire le scale. Era più o meno dell'età di Eddie, ma la parte visibile dei capelli era già completamente bianca. La pelle era quasi diafana per effetto delle luci artificiali e per quanto i pantaloni blu e la camicia azzurra avessero un aspetto pulito, si lasciava dietro un vago odore di grasso o di olio di macchina. Forse era un meccanico o un addetto alla manutenzione dell'ospedale, forse invece aveva qualcuno al piano di sopra che stava aggrappato alla vita come Tessa. Un gruppo di medici con i pantaloni stazzonati e i camici bianchi macchiati di varie sostanze si fermò di fronte alla porta del bar. Erano giovani, forse ancora studenti, forse interni. Avevano gli occhi arrossati e un'aria vagamente abbattuta che a Sara ricordò il suo periodo di tirocinio. Stavano aspettando qualcuno e parlavano tra loro in un mormorio trattenuto. Lei fissò la barretta di cioccolata che teneva in mano fingendo di
leggere l'etichetta e li sentì fare pettegolezzi sull'ospedale e commenti su terapie e interventi. Una voce maschile chiamò: «Sara?». Lei tenne gli occhi sull'etichetta, dando per scontato che l'uomo si rivolgesse a un'altra Sara. «Sara Linton?» ripeté la voce. Allora alzò lo sguardo sul gruppo di interni. Si sentì decrepita guardando quelle facce giovani, ma poi notò un uomo alto, più maturo, che spiccava alle spalle del gruppo. «Mason?» domandò, cominciando a riconoscerlo. «Mason James?» «Sono io» disse, facendosi largo tra gli altri. Le posò una mano sulla spalla. «Ho incontrato i tuoi genitori di sopra.» «Oh» fece Sara, non sapendo che altro dire. «Adesso lavoro qui. Traumatologia pediatrica.» «Certo.» Annuì, come se si ricordasse. Aveva avuto una storia con Mason quando lavorava al Grady, ma poi si erano persi di vista. «Cathy mi ha detto che eri scesa a prendere qualcosa da mangiare.» Gli mostrò il KitKat. Lui rise. «Vedo che i tuoi gusti non sono cambiati.» «Il filet mignon era terminato» disse, e Mason rise di nuovo. «Ti vedo in gran forma» disse. Un'evidente bugia dettata dalla buona educazione. Il padre di Mason era cardiologo, come il nonno. Sara aveva sempre pensato che parte dell'attrazione che suscitava in lui dipendesse dal fatto che suo padre era un semplice idraulico. Cresciuto tra collegi privati e country club, Mason non aveva avuto grandi contatti con la classe lavoratrice, se non quando firmava gli assegni per i loro servigi. «Ah...» Cercò qualcosa da dire. «E tu come stai?» «Bene» rispose. «Ho saputo di Tessa. Al pronto soccorso non si parla d'altro.» Sara sapeva che anche in un grande ospedale come il Grady, un caso come quello non poteva passare inosservato. Qualsiasi violenza in cui era coinvolto un bambino suscitava raccapriccio. «Mi sono informato sulle sue condizioni. Spero che non ti dispiaccia.» «No» disse Sara. «Tutt'altro.» «L'ha operata Beth Tindall. È un ottimo chirurgo.» «Sì» ammise Sara. Sorrise. «Tua madre è bella come sempre.» Lei cercò di restituire il sorriso. «Sono sicura che è stata molto contenta di rivederti.»
«Be', date le circostanze... Hanno idea di chi possa essere stato?» Scosse semplicemente la testa, temendo di perdere il controllo. «Purtroppo no.» «Sara» disse, sfiorandole la mano con le dita. «Mi dispiace tanto.» Lei guardò altrove per non mettersi a piangere. Nessuno aveva pensato di consolarla da quando Tessa era stata aggredita. La carezza la fece rabbrividire e lo guardò negli occhi spaesata. «Sara, stai bene?» «Dovrei tornare di sopra» rispose. Le prese il braccio. «Andiamo» disse, e la accompagnò lungo il corridoio. Sara lo ascoltava parlare mentre percorrevano il corridoio diretti al reparto di terapia intensiva. Non prestava molta attenzione a quello che diceva, ma le piaceva la monotonia morbida e tranquillizzante della sua voce, mentre raccontava dell'ospedale e di quello che aveva fatto da quando lei aveva lasciato Atlanta. Mason James era il tipo d'uomo che affrontava tutto con grande scioltezza. Quando Sara era appena arrivata dalla contea di Grant, le era sembrato un uomo molto maturo, animato da uno spirito cosmopolita, forse perché tutta la sua esperienza sentimentale si riduceva a una storia con Steve Mann, un ragazzetto convinto che una bella serata dovesse concludersi sul sedile posteriore della Buick di suo padre. Svoltarono l'angolo e Sara scorse nel corridoio suo padre e sua madre che discutevano animatamente. Eddie fu il primo a notarli e smise subito di parlare. Aveva le borse sotto gli occhi. Sara non l'aveva mai visto così stanco. Sua madre sembrava più invecchiata nell'ultima ora che nei precedenti vent'anni. Avevano un'aria così indifesa che lei trattenne a stento le lacrime. «Vado a vedere come sta Tess» disse scusandosi. Schiacciò il pulsante a destra della porta ed entrò nel reparto di terapia intensiva. Come nella maggior parte degli ospedali, anche al Grady il reparto di terapia intensiva era piccolo e isolato. Le luci nel corridoio e nelle camere erano oscurate e questo garantiva un'atmosfera gradevole e tranquillizzante, sia per i pochi visitatori ammessi, sia per i pazienti. Tutte le camere erano dotate di porte scorrevoli in vetro che limitavano la privacy, ma la maggior parte dei degenti stava troppo male per potersi lamentare. Sara raggiunse la parte estrema del reparto accompagnata dai bip dei monitor e dal lieve alitare dei ventilatori. La camera di Tessa era proprio di fronte alla postazione delle infermiere, il che lasciava intendere quanto fossero cri-
tiche le sue condizioni. In camera con lei c'era Devon, in piedi a qualche passo dal letto, con le mani affondate nelle tasche. Stava appoggiato alla parete, anche se aveva accanto una sedia libera. «Ehi» disse Sara. La salutò a malapena con un cenno del capo. Aveva gli occhi cerchiati di rosso e la sua pelle scura sembrava pallida sotto la luce artificiale. «Ha detto qualcosa?» gli chiese. Non rispose subito. «Ha aperto gli occhi un paio di volte, non credo che abbia parlato.» «Sta cercando di svegliarsi. Questo è positivo.» Devon deglutì e il pomo di Adamo scivolò sulla gola tesa. «Se vuoi staccare per un po'...» cominciò Sara, ma lui non la lasciò finire. Uscì dalla stanza senza degnarla di un'occhiata. Lei portò la sedia accanto al letto e si sedette. Era rimasta seduta quasi tutto il giorno in attesa di notizie, ma si sentiva esausta. La testa di Tessa era bendata nel punto in cui le avevano ricucito il cuoio capelluto lacerato. Due tubicini per il drenaggio erano inseriti nel ventre. Un catetere pendeva dalla sponda del letto. La stanza era in penombra, l'unica luce proveniva dai monitor. Un'ora prima l'avevano staccata dal respiratore, ma il cuore era ancora monitorato e i battiti erano scanditi dai bip metallici della macchina. Sara accarezzò le dita della sorella e le parve di notare per la prima volta quanto fosse piccola la sua mano. Ricordava ancora il suo primo giorno di scuola, quando insieme erano andate alla fermata dell'autobus. Prima che uscissero di casa, Cathy aveva raccomandato a Sara di prendersi cura della sorellina. Un ritornello che si era ripetuto per tutta la loro infanzia. Perfino Eddie insisteva perché si occupasse della sorella, anche se nell'adolescenza lei aveva cominciato a capire come mai suo padre incoraggiasse sempre la più piccola a venirle dietro. Evidentemente Eddie aveva scoperto come funzionavano gli appuntamenti con Steve Mann, e voleva evitare il finale sul sedile posteriore della Buick. Tessa mosse la testa, come se avvertisse la presenza di qualcuno. «Tess?» disse Sara tenendole la mano e stringendola dolcemente. «Tess?» Tessa produsse un suono gutturale. Si portò la mano alla pancia, come aveva fatto un milione di volte negli ultimi otto mesi. Aprì gli occhi lentamente e si guardò attorno fino a che riuscì a mettere a
fuoco la sorella. «Ehi» disse Sara, e si sentì affiorare alla labbra un sorriso di sollievo. «Ehi, tesoro.» Le labbra di Tessa si mossero. Portò la mano alla gola. «Hai sete?» Tessa annuì e Sara prese il bicchiere col ghiaccio spezzettato che l'infermiera aveva lasciato accanto al letto. Il ghiaccio era quasi del tutto sciolto, ma riuscì a trovare qualche scheggia per la sorella. «Hai la gola intubata» spiegò Sara, facendo scivolare il ghiaccio nella bocca di Tessa. «Ti darà fastidio per un po' e farai fatica a parlare.» Tessa chiuse gli occhi e deglutì. «Senti molto male? Vuoi che chiami l'infermiera?» Fece per alzarsi, ma Tessa non lasciò andare la mano. Non le fu necessario pronunciare la domanda che aveva in mente. Sara gliela lesse negli occhi. «No, Tessie» rispose sentendo scendere le lacrime. «Lo abbiamo perduto.» Si premette sulle labbra la mano della sorella. «Non sai quanto mi dispiace. Non sai...» Tessa la interruppe senza dire una parola. L'unico rumore era il bip del monitoraggio cardiaco, attestazione metallica della vita di Tessa. «Ricordi qualcosa?» domandò Sara. «Ricordi che cosa è successo?» La sorella spostò la testa di lato per dire di no. «Sei andata nel bosco» disse Sara. «Brad ti ha visto raccogliere un sacchetto e infilarci dei rifiuti. Te lo ricordi?» Fece di nuovo segno di no. «Probabilmente hai visto qualcuno.» Sara si interruppe. «Sappiamo che nel bosco c'era qualcuno. Forse voleva il sacchetto. Forse...» decise di non aggiungere altro. Troppe informazioni l'avrebbero solo confusa e tutto era ancora privo di certezze. Si limitò a dire: «Qualcuno ti ha aggredito a coltellate». Tessa attese altre spiegazioni. «Ti ho trovata nel bosco. Eri stesa nella radura e io... io ho cercato di fare quello che potevo. Ho cercato di aiutarti. Non sono riuscita...» Capì che stava di nuovo perdendo il controllo. «Oh, mio Dio, Tessa, ho cercato di aiutarti...» Appoggiò la testa sul letto, vergognosa delle sue lacrime. Doveva essere forte per sua sorella, doveva dimostrarle che insieme potevano farcela, ma riusciva solamente a pensare che era tutta colpa sua. Dopo aver passato la
vita a badare a lei, non era stata capace di difenderla l'unica volta che ne aveva avuto bisogno. «Oh, Tess» singhiozzò Sara. Più di qualsiasi altra cosa aveva bisogno del suo perdono. «Quanto mi dispiace.» Sentì sulla testa la mano della sorella. Al momento non capì, poi si rese conto che Tess voleva avvicinarla a sé. Sara la guardò, col viso a pochi centimetri dal suo. Tessa mosse le labbra, bisbigliò una parola: «Chi?». Voleva sapere chi era stato, chi aveva ucciso il suo bambino. «Non lo so» disse Sara. «Ci stiamo provando, tesoro mio. Jeffrey sta facendo tutto il possibile.» Le tremò la voce. «Puoi star certa che chiunque sia stato, non potrà più fare del male a nessuno.» Tessa le passò le dita sulla guancia, appena sotto l'occhio e le asciugò le lacrime. «Perdonami Tessie. Perdonami» implorò Sara. «Dimmi che cosa posso fare. Dimmelo.» Quando Tessa parlò, la voce uscì flebile, poco più di un sospiro. Sara lesse il movimento delle labbra, ma fu come se glielo sentisse gridare. «Trovalo.» LUNEDÌ 5 Prima di entrare in casa, Jeffrey si chinò a raccogliere il giornale sul portico. Aveva detto a Sara che sarebbe arrivato verso le sei del mattino e l'aveva pregata di chiamarlo per aggiornarlo sulle condizioni di Tessa. La sera prima, al telefono, l'aveva trovata molto abbattuta. Non poteva sopportare di sentirla piangere. Le sue lacrime lo facevano sentire inutile e debole, prerogative che disprezzava negli altri, ma soprattutto in se stesso. Accese le luci in corridoio. Nell'altra stanza i cani si animarono, facendo tintinnare i collari e sbadigliando rumorosamente, ma non uscirono a vedere chi era arrivato. Dopo due anni passati a correre sull'anello del cinodromo di Ebro, i due levrieri di Sara preferivano risparmiare le energie e muoversi solo quando era necessario. Jeffrey fischiò, buttò il giornale sul bancone della cucina e diede un'occhiata alla prima pagina in attesa che gli animali si facessero vivi. La fotografia in alto mostrava Chuck Gaines, in piedi tra suo padre e Kevin Blake.
A quanto pareva, sabato i tre avevano vinto un torneo di golf ad Augusta. Più sotto c'era un articolo che incoraggiava i cittadini a sostenere un referendum per la realizzazione di vere aule in sostituzione dei container improvvisati di fronte alla scuola. Il «Grant Observer» era specializzato nel riservare i titoli di testa ad Albert Gaines. Non c'era di che stupirsi: possedeva metà degli immobili della città, nonché la banca che concedeva i mutui per l'altra metà. Jeffrey fischiò di nuovo per chiamare i cani, stupito che non si facessero vedere. Finalmente arrivarono trotterellando e ticchettando con le unghie sul pavimento bianco e nero. Li fece uscire nel cortile recintato e lasciò la porta aperta perché potessero rientrare una volta fatti i loro bisogni. Prima di scordarseli, recuperò dalla tasca della giacca due pomodori e li posò nel frigorifero, accanto a una cosa tonda e verde che a un certo punto della sua breve e triste vita doveva essere stata commestibile. Maria Simms, la segretaria del suo ufficio, aveva l'hobby del giardinaggio e gli regalava sempre grandi quantità di ortaggi. Conoscendo Maria e la sua spiccata tendenza a ficcare il naso in faccende che non la riguardavano, pensò che lo facesse di proposito, nella speranza che li spartisse con Sara. Andò a prendere i croccantini per Bubba, il gatto di Sara, pur sapendo che non si sarebbe fatto vivo prima che lui uscisse di casa. Il gatto beveva solo se la ciotola con l'acqua era sistemata di fronte allo sgabuzzino, ma Jeffrey finiva sempre per rovesciarla inavvertitamente con un calcio. Bubba prendeva quella, come molte altre cose, come un'offesa personale. Ne era derivato un rapporto di amore-odio, nel senso che Sara amava il gatto e Jeffrey lo odiava. Come sentirono il rumore familiare della lattina di cibo che veniva aperta, i due cani si ripresentarono in cucina. Bob si strusciò contro la gamba di Jeffrey in cerca di coccole, mentre Billy si accasciò con un sospiro, neanche avesse scalato l'Everest. Jeffrey non si spiegava come facessero due cani grossi come quelli ad adattarsi a stare in casa, ma i due levrieri sembravano più che soddisfatti di rimanere al chiuso tutto il giorno. Bob si strusciò di nuovo e spinse Jeffrey contro il bancone. «Un momento» lo rimproverò lui. Raccolse da terra le ciotole. Vi buttò dentro un paio di manciate di cibo secco e usando un cucchiaio lo mescolò col cibo in scatola. Sapeva bene che i cani avrebbero divorato qualunque cosa gli fosse stata messa davanti, ma a Sara piaceva preparare loro la pappa e lui fece lo stesso per scrupolo di coscienza. «Il pranzo è servito» disse, posando a terra le scodelle.
I cani si avvicinarono rivolgendogli il sedere snello. Rimase a guardarli per un po', poi decise di rendersi utile e di pulire la cucina. Sara non era particolarmente ordinata neppure nei giorni migliori, e i piatti rimasti dalla cena che avevano consumato insieme venerdì erano ancora ammonticchiati nel lavello. Sistemò la giacca sulla spalliera della sedia e si arrotolò le maniche della camicia. L'ampia finestra sopra il lavello offriva una vista rilassante sul lago e Jeffrey lasciò vagare lo sguardo sull'acqua, mentre lavava i piatti. Gli piaceva essere lì, nella casa di Sara, gli piacevano la cucina accogliente e le poltrone confortevoli del soggiorno. Gli piaceva fare l'amore con lei con le finestre aperte, sentire gli uccelli sopra il lago, odorare il profumo di shampoo nei suoi capelli, guardarla quando si stringeva a lui a occhi chiusi. Gli piacevano a tal punto tutte quelle cose, che Sara doveva essersene accorta e quando si vedevano, stavano quasi sempre da Jeffrey. Squillò il telefono mentre lavava l'ultimo piatto. Era talmente assorto nei suoi pensieri, che quasi gli sfuggì di mano. Agguantò il ricevitore al terzo squillo. «Ciao» disse Sara con voce stanca. Prese lo strofinaccio per asciugarsi le mani. «Come sta?» «Meglio.» «Si ricorda qualcosa?» «No.» Rimase zitta e lui non capì se stesse piangendo o se fosse solo troppo stanca per parlare. La vista si sfuocò e con la mente Jeffrey si ritrovò nel bosco, con la mano premuta sul ventre di Tessa, sopra la camicia inzuppata di sangue. Billy si voltò a guardarlo, come se capisse che qualcosa non andava, poi tornò al suo pasto facendo tintinnare il collare contro la scodella. Jeffrey domandò: «Ce la fai a resistere?». Sara rispose con un mugolio indistinto. «Ho parlato con Brock e gli ho spiegato cosa deve fare. Entro domani dovremmo avere gli esami di laboratorio. Carlos sa che sono molto urgenti.» Lui non si lasciò depistare. «Sei riuscita a dormire almeno un po'?» «Non direi.» Neppure Jeffrey aveva dormito. Verso le tre del mattino era balzato giù dal letto e si era fatto una corsa di sei miglia, sperando di stancarsi e di riuscire a prendere sonno. Non aveva funzionato. Sara disse: «Ci sono i miei adesso con lei». «Come stanno?»
«Sono arrabbiati.» «Con me?» Non rispose. «Con te?» Sentì che si soffiava il naso. «Non avrei dovuto portarla con me» osservò. «Sara, non potevi saperlo. Siamo andati centinaia di volte sulla scena di un crimine e non è mai successo niente. Mai.» «Era pur sempre la scena di un crimine.» «Esatto. Un posto dove il crimine è già stato commesso. Non c'era modo di prevedere...» «Questa sera riporterò a casa l'auto dei miei genitori» disse lei. «Sposteranno Tessa nel primo pomeriggio e prima di venire via voglio essere sicura che sia tutto a posto.» Fece una pausa. «Appena torno eseguirò l'autopsia sul ragazzo.» «Vengo a prenderti io.» «No. È un viaggio troppo lungo e...» «Non mi importa» la interruppe. Già in altre occasioni aveva commesso l'errore di non esserci quando Sara aveva avuto bisogno di lui e questa volta non voleva ricascarci. «Ti apetto all'entrata alle quattro.» «Ma è quasi l'ora di punta. Ci metterai un secolo.» «No, arriverò quando gli altri vanno via. Nella mia direzione non ci sarà nessuno» disse, anche se ad Atlanta, dove chiunque sopra i quindici anni possedeva un'automobile, non faceva una grande differenza. «Non voglio che tu ti metta in viaggio da sola. Sei troppo stanca.» Non rispose. «Non te lo sto chiedendo, Sara. Te lo sto comunicando» aggiunse con più decisione. «Sarò lì alle quattro. D'accordo?» Alla fine si arrese. «D'accordo.» «Alle quattro all'ingresso principale.» «Va bene.» Jeffrey la salutò e chiuse la telefonata prima che lei potesse cambiare idea. Cominciò a srotolarsi le maniche della camicia, ma cambiò idea quando guardò l'orologio. Aveva ancora un'ora prima di passare a prendere Brock per accompagnarlo all'obitorio a prelevare i campioni di sangue di Andy Rosen. Poi sarebbe andato a parlare con i suoi genitori, sperando che nella notte si fossero fatti venire in mente qualche particolare utile. Fino a che i tecnici non avessero terminato di rilevare le impronte nel
monolocale di Andy e non le avessero passate al computer, Jeffrey aveva molto da fare. Se, come si aspettava, dal riscontro non fosse saltato fuori niente di eclatante, Jeffrey sarebbe andato a cercare Ellen Schaffer al pensionato, per vedere se riconosceva Andy Rosen dalla fotografia del viso. La ragazza aveva visto il corpo solo di spalle ma, data la velocità con cui viaggiavano i pettegolezzi nel campus, doveva sapere più cose lei su Andy dell'intero corpo di polizia messo insieme. Jeffrey decise di proseguire con le faccende di casa. Si diresse verso la camera da letto e raccolse lungo il corridoio le scarpe e le calze di Sara, poi una gonna e un paio di mutande. Doveva essersi spogliata strada facendo. Sorrise, ripensando a come lo indispettiva quel disordine quando vivevano insieme. Quando entrò e depose gli indumenti raccolti sulla sedia vicino alla finestra, trovò Billy e Bob già sistemati sul letto. Andò a sedersi accanto a loro e li accarezzò a turno con imparzialità. Sul comodino c'erano un paio di fotografie in cornice e Jeffrey si soffermò a guardarle. Nella prima erano ritratte Tessa e Sara, in piedi di fronte al lago, con le canne da pesca in mano. Tessa aveva in testa un cappellaccio da pesca che lui riconobbe: era quello di Eddie. La seconda era stata scattata il giorno in cui Tessa si era diplomata. C'erano Eddie, Cathy, Tessa e Sara che si abbracciavano e sorridevano felici. Sara, con i capelli rosso tiziano, la carnagione chiara e la sua altezza, che la faceva sbucare sopra gli altri, dava l'impressione di essere la ragazza della porta accanto venuta a intrufolarsi nelle foto di famiglia, ma il sorriso non lasciava dubbi, era quello di Eddie. Tessa era bionda, con gli occhi azzurri e il corpo minuto della madre, ma tutte e tre avevano gli stessi occhi a mandorla. Sara sembrava più femminile, forse perché, come diceva Jeffrey, aveva tutte le curve al posto giusto. Posò la fotografia e notò una riga di polvere sul ripiano, nel punto in cui un tempo se ne trovava una terza. Cercò sul pavimento, poi aprì il cassetto, sollevò un paio di riviste e trovò una cornice d'argento sepolta sul fondo. Conosceva bene quella fotografia: l'aveva scattata per loro uno sconosciuto sulla spiaggia, quando erano in viaggio di nozze. Eliminò la polvere col lembo del lenzuolo e restituì la foto al cassetto. L'impresa di pompe funebri di Brock si trovava in una di quelle grandi case vittoriane in cui Jeffrey aveva sognato di abitare quando era bambino. A Sylacauga, Alabama, Jeffrey e la madre - più di rado il padre - vivevano
in un alloggio composto da due camere da letto e un bagno, che neppure con le migliori intenzioni si poteva definire casa. Sua madre non era mai stata una persona felice e, per quel che riusciva a ricordare, non c'erano mai stati quadri alle pareti o tappeti sul pavimento o qualsiasi altra cosa che desse un tocco personale ai locali. Era come se May Tolliver facesse di tutto per non mettere radici. Del resto, anche se avesse voluto, sarebbe stato ben difficile. Le finestre sconnesse tremavano ogni volta che si apriva la porta d'ingresso e il pavimento della cucina era talmente in pendenza che i frammenti di cibo caduti a terra andavano sempre a radunarsi sullo stesso lato. D'inverno, nelle notti più fredde, Jeffrey doveva rintanarsi a dormire col sacco a pelo di fronte all'armadio nell'atrio, l'unico punto caldo della casa. Faceva il poliziotto da troppo tempo per credere che un'infanzia difficile fosse una scusa da tirare in ballo a ogni occasione, ma poteva capire perché molti la usassero come giustificazione. Suo padre Jimmy era un ubriacone molesto, che lo picchiava di santa ragione ogni volta che commetteva l'errore di mettersi in mezzo, soprattutto quando cercava di proteggere la madre dai suoi pugni. Comunque era acqua passata, Jeffrey se n'era andato da tanto tempo. A tutti capitano esperienze orribili nella vita, fa parte della condizione umana, e la nostra capacità di lottare contro le avversità rivela che tipo di persone siamo. Forse per questo Jeffrey faceva fatica ad accettare Lena. Pretendeva che fosse una persona diversa da quello che era. Dan Brock uscì quasi di corsa dalla porta principale, ma al richiamo della madre fece marcia indietro. La donna gli diede due bicchieri di plastica e Jeffrey pregò il cielo che uno fosse per lui. Penny Brock faceva un caffè delizioso. Cercò di non sorridere quando vide madre e figlio separarsi. Brock si chinò per sfiorare con le labbra la guancia della mamma, e lei colse l'occasione per spazzolare via con la mano qualcosa dalla spalla dell'abito nero. Ecco perché Dan Brock, a quasi quarant'anni, non si era ancora sposato. Lanciò a Jeffrey un gran sorriso a piena bocca e lo raggiunse alla macchina. Era un uomo allampanato, con la sfortuna di sembrare esattamente quello che era: un impresario di pompe funebri. Aveva dita lunghe e ossute e una faccia inespressiva che si prestava al conforto dei congiunti. Gli capitava di rado di parlare con persone che non fossero afflitte da un lutto e, per contrasto, diventava incredibilmente loquace quando non era nell'esercizio delle sue funzioni. Era dotato di un'intelligenza sagace e di un senso dell'umorismo un po' inquietante. Quando rideva, lo faceva con tutta la
faccia, allargando la bocca come un pupazzo dei Muppet. Jeffrey si allungò sul sedile per aprirgli la portiera, ma Brock aveva già provveduto, reggendo i bicchieri con una sola delle grandi mani. «Salve, capo» disse, montando in macchina. Gli passò un bicchiere. «Da parte della mamma.» «Ringraziala da parte mia» disse Jeffrey prendendo il caffè. Levò il coperchio e inalò il vapore con la speranza che lo tirasse su. Non erano state le faccende a casa di Sara a buttarlo giù, ma quella foto relegata nel cassetto, come se lei avesse voluto rimuovere il fatto che erano stati sposati. Non poté fare a meno di sorridere di se stesso. Si stava comportando come un ragazzino. «Che succede?» domandò Brock, che col suo intuito professionale riconosceva al volo certi stati d'animo. «Niente» rispose Jeffrey, e inserì la marcia. Brock si sistemò sul sedile pienamente soddisfatto, e allungò le gambe senza riuscire a distenderle. «Grazie per il passaggio, non so quando sarà pronto il carro funebre e il lunedì mamma ha il corso di danza.» «Di nulla» disse Jeffrey, trattenendo una smorfia all'idea di Penny Brock in calzamaglia. L'immagine che gli si presentò alla mente era molto simile a quella di un sacco di patate. «Notizie di Tessa?» domandò Brock. «Ho parlato con Sara questa mattina. Sta un po' meglio, almeno pare.» «Ah, sia lodato il Signore» disse Brock e levò una mano al cielo. «Ho pregato per lei.» Lasciò cadere la mano colpendosi la coscia. «E per quel piccolo innocente. Gesù ha un posto speciale per i bambini.» Jeffrey non rispose, ma si augurò che Gesù ne avesse uno ancor più speciale per chi li pugnalava a morte. «Come se la sta cavando la famiglia?» chiese Brock. «Discretamente» rispose Jeffrey, cercando poi di cambiare discorso. «È da molto che non lavori per la contea, non è vero?» «Eh, sì» ammise Brock, che era stato il coroner della contea per anni. «Devo dire che sono stato davvero contento, quando Sara ha preso il mio posto. Non che mi dispiacessero quei soldi, ma Grant cominciava a diventare un po' troppo grande per i miei gusti. Arrivava un sacco di gente dalla città, gente con esigenze diverse. Avevo paura di non essere all'altezza. È una terribile responsabilità. Tanto di cappello a lei.» Per Brock, «città» significava Atlanta. Come in molte altre cittadine di provincia, all'inizio degli anni Novanta a Grant era arrivata un'ondata di
nuovi residenti in cerca di ritmi di vita più lenti. Venivano dai grandi centri urbani, convinti di trovare quiete e serenità. E forse le cose sarebbero andate così, se non si fossero portati dietro anche i figli. Jeffrey era stato assunto come capo della polizia locale anche perché a Birmingham, Alabama, aveva lavorato in una task force che si occupava delle bande giovanili. Quando aveva firmato il contratto, i responsabili della contea avrebbero fatto carte false pur di risolvere il problema della delinquenza giovanile. Brock disse: «Sara ha detto che si tratta di una cosa abbastanza semplice. Ti servono solo sangue e urine, vero?». «Vero» confermò Jeffrey. «Ho saputo che Hare la sostituirà in ospedale» continuò Brock. «Già» disse Jeffrey, prendendo un sorso di caffè. Il cugino di Sara, Hareton Earnshaw, era medico, anche se non pediatra. La sostituiva mentre lei era ad Atlanta. «Mio padre, pace all'anima sua, andava spesso a giocare a carte da Eddie» continuò Brock. «A volte mi portava con sé. Sara e Tessie erano le uniche bambine che a scuola mi rivolgevano la parola.» Fece una risata amara. «Le altre pensavano che avessi le mani puzzolenti.» Jeffrey lo guardò. Brock gli mostrò le mani. «Perché toccavo i morti. Non che lo facessi, a quell'età. Ho cominciato molto dopo.» «Ah!» fece Jeffrey, chiedendosi come fossero arrivati a parlare di quello. «All'epoca li toccava solo mio fratello Roger. Roger era un vero furfante.» Jeffrey si tenne sulle sue, sperando che la cosa finisse in una battuta. «Si faceva dare un quarto di dollaro da ognuno dei suoi compagni, per accompagnarli di notte nella sala di imbalsamazione, quando mio padre era già andato a letto. Li faceva entrare a luci spente, usava solo una torcia elettrica per farsi strada, poi premeva la mano qui, sul petto del defunto, così.» Suo malgrado Jeffrey girò la testa per vedere in che punto. «E il cadavere emetteva una sorta di lamento.» Aprì la bocca e produsse un gemito raggelante, un suono orribile, spaventoso, che Jeffrey sperò di dimenticare prima che arrivasse l'ora di andare a dormire. «Dio mio, è raccapricciante» disse, sentendosi rabbrividire. «Non farlo, Brock.» Brock parve deluso, ma non riuscì a non farlo pesare, andò avanti a bere il suo caffè e non disse altro per il resto del tragitto.
Quando Jeffrey si fermò davanti alla casa dei Rosen, la prima cosa che notò fu una Ford Mustang rosso fiammante parcheggiata sul vialetto. Invece di dirigersi alla porta principale si avvicinò alla macchina, ammirato dalla linea slanciata. Quando aveva l'età di Andy Rosen, Jeffrey sognava di guidare una Mustang rossa, e vederne una proprio lì gli procurò un'irragionevole fitta di invidia. Passò le dita sul tettuccio pensando che Andy aveva molte più ragioni per vivere di quante ne avesse lui a quell'età. Quella macchina doveva piacere anche a qualcun altro. Nonostante fosse ancora presto, sulla carrozzeria non c'era traccia di rugiada. Un secchio con accanto una spugna era abbandonato vicino al parafango posteriore. La manichetta da giardino era ancora srotolata fino alla vettura. Jeffrey guardò l'orologio e pensò che era un'ora bizzarra per uscire a lavare l'auto, considerato specialmente che il proprietario era morto il giorno prima. Mentre si avvicinava al portico udì i Rosen impegnati in quello che aveva tutta l'aria di essere un litigio. Faceva il poliziotto da troppo tempo per non sapere che la collera spinge a dire la verità. Aspettò davanti alla porta cercando di origliare, ma con discrezione, per non farsi notare da qualche passante mattiniero. «Perché adesso ti interessa tanto, Brian?» stava gridando Jill Rosen. «Non ti è mai importato niente di lui.» «Stai dicendo un sacco di stronzate. E lo sai anche tu.» «Non usare quel linguaggio con me.» «Vaffanculo! Io ti parlo come cazzo mi pare.» Passò qualche istante. La voce di Jill Rosen si abbassò e Jeffrey non riuscì a capire cosa stava dicendo. Anche il marito, rispondendo, abbassò la voce. Jeffrey aspettò un minuto buono nella speranza che l'alterco ricominciasse, poi bussò. Li udì muoversi e immaginò che uno dei due o entrambi stessero piangendo. Venne ad aprire Jill Rosen e dal suo aspetto Jeffrey capì che doveva aver passato molte ore a piangere. Gli balenò nella mente l'immagine di Cathy Linton il giorno prima, sul portico, e provò una compassione di cui mai si sarebbe creduto capace. «Signor Tolliver» disse la Rosen. «Le presento il dottor Brian Keller, mio marito.» «Ci siamo parlati al telefono» gli ricordò Jeffrey. Keller era un uomo devastato. A giudicare dai capelli radi e grigi e dalla
mascella floscia doveva essere vicino ai sessanta, ma il dolore lo faceva sembrare più vecchio di vent'anni. Aveva un paio di pantaloni gessati che ovviamente facevano parte di un completo, ma Keller li indossava insieme a una canottiera ingiallita, con una profonda scollatura a V che lasciava intravedere un ciuffo di peli grigi sul petto. Portava al collo una catenina con la stella di Davide simile a quella del figlio, forse era addirittura la stessa che avevano trovato nel bosco. Stranamente era a piedi scalzi e Jeffrey immaginò che fosse stato lui a lavare la macchina. «Mi deve perdonare per ieri» disse Keller. «Ero sconvolto.» Jeffrey disse: «Le faccio le mie condoglianze, dottor Keller». Gli strinse la mano, chiedendosi come poteva domandare, senza mancare di tatto, se Andy fosse il figlio naturale o adottato. Molte donne conservavano il loro cognome anche dopo sposate, ma di solito i figli prendevano quello del padre. «Lei è il padre biologico di Andy?» Fu Jill a rispondere. «Abbiamo lasciato che fosse Andy a scegliere il cognome, quando è stato abbastanza grande per decidere.» Jeffrey annuì con fare conciliante, ma era dell'opinione che i ragazzi con troppa libertà di scelta rischiavano più degli altri dì prendere decisioni sbagliate. Poi finivano alla centrale di polizia senza rendersi conto del perché erano finiti nei guai. «Prego, si accomodi» lo invitò Jill Rosen, indicandogli il breve corridoio che conduceva in soggiorno. Come la maggior parte dei docenti, abitavano in Willow Drive, una via laterale vicino a Main Street, poco distante dall'università. La scuola aveva una convenzione con la banca che concedeva mutui agevolati ai docenti, e così le case più belle della città erano finite a loro. Jeffrey si domandò se anche gli altri professori trascurassero la manutenzione come i Keller. Sul soffitto c'erano grosse macchie di umidità e le pareti reclamavano una imbiancatura. «Scusi il disordine» disse Jill Rosen. «Non si preoccupi» rispose Jeffrey, stupito che qualcuno riuscisse a vivere in una tale baraonda. «Dottoressa Rosen ..» «Mi chiami Jill.» «Jill. Mi dica, come mai conosce Lena Adams?» «La donna che ieri era in biblioteca?» domandò. «Ho avuto l'impressione che la conoscesse già.» «Era venuta da me allo studio. È stata lei a portarmi la notizia di Andy.»
Jeffrey la fissò negli occhi per un attimo. Non conosceva abbastanza bene quella donna per stabilire se le sue parole lasciassero intendere dell'altro. L'istinto gli diceva che tra Lena e Jill Rosen c'era un nesso, ma non era sicuro che riguardasse l'indagine. «Possiamo accomodarci qui» disse Jill, indicando il soggiorno ingombro. «Grazie» disse Jeffrey guardandosi attorno. Sicuramente Jill aveva arredato con grande cura la casa al momento del suo arrivo, ma erano passati troppi anni. C'erano dei bei mobili, ma provati dall'uso. La carta da parati era vecchia, sulla moquette le zone più calpestate risaltavano come un sentiero nel bosco. Inoltre, la quantità di oggetti che si erano accumulati negli anni rendevano la stanza soffocante. Pile di libri e riviste invadevano ogni spazio. A differenza di casa Linton, a suo modo disordinata e ancor più ingombra di libri, c'era qualcosa di particolare che colpiva lì, come se da molto tempo nessuno ci vivesse con piacere. «Abbiamo contattato le pompe funebri per il funerale» disse Keller. «Jill e io stavamo decidendo cosa fare. Mio figlio avrebbe voluto essere cremato.» Gli tremò il labbro superiore. «Sarà possibile, anche dopo l'autopsia?» «Certamente» disse Jeffrey. «Vogliamo rispettare i suoi desideri, ma...» cominciò Jill. Keller la interruppe: «Era quello che voleva, Jill». Jeffrey intuì che l'argomento creava tensione tra i due coniugi e non disse nulla. «La prego, si accomodi» disse Jill indicando la poltrona. «Grazie» disse Jeffrey. Infilò la cravatta nella cintura e sedette sul bordo per non sprofondare sul cuscino floscio. «Volete qualcosa da bere?» Prima che Jeffrey avesse il tempo di rifiutare, Keller disse: «Sì, magari dell'acqua». Poi rimase a fissare il pavimento fino a che la moglie ebbe lasciato la stanza. Pareva che aspettasse qualcosa, ma Jeffrey non capiva cosa. Quando dalla cucina si udì scorrere l'acqua dal rubinetto, Keller aprì la bocca ma non uscì una parola. Fu Jeffrey a parlare: «Ho visto la macchina, là fuori. Molto bella». «Sì» ammise stringendosi le mani sulle ginocchia. Teneva le spalle incurvate e Jeffrey notò che era più imponente di quanto non gli fosse sembrato in un primo momento. «L'ha lavata questa mattina?» «Andy curava molto la sua macchina» disse, senza rispondere alla do-
manda. «Lei lavora nel dipartimento di biologia?» «Mi occupo di ricerca» precisò Keller «Se c'è qualcosa che mi vuole dire...» Keller aprì di nuovo la bocca, ma in quel momento arrivò Jill con i due bicchieri d'acqua. «Grazie» disse Jeffrey prendendo un sorso, anche se il bicchiere aveva uno strano odore. Lo posò sul tavolino, guardò Keller per capire se voleva parlare e passò alle domande. «So che avete ben altro a cui pensare. Vi farò solo qualche domanda di routine, poi vi lascerò in pace.» «Si prenda tutto il tempo che vuole» lo incoraggiò Keller. Jill osservò: «Ieri sera i suoi agenti sono rimasti fino a tardi nell'appartamento di Andy». «Sì» confermò Jeffrey. A differenza dei detective dei telefilm, Jeffrey preferiva tenersi il più lontano possibile dalla scena di un crimine, almeno finché la scientifica non aveva terminato con i rilevamenti. Il greto del fiume su cui si era lanciato Andy era una zona troppo vasta e frequentata perché potesse rivelarsi di qualche utilità. L'appartamento era tutt'altra faccenda. Keller attese che sua moglie si sedesse sul divano e si sistemò accanto a lei. Cercò di prenderle la mano, ma la moglie la allontanò. Evidentemente lo scontro che avevano appena avuto non si era ancora concluso. Jill Rosen domandò: «Crede che qualcuno possa averlo spinto?». Jeffrey si chiese se per caso non glielo aveva suggerito qualcuno o se era invece una sua ipotesi. Domandò: «Vostro figlio era mai stato minacciato?». Si guardarono come se ne avessero già discusso. «A noi non risulta.» «E aveva già tentato il suicidio?» Annuirono in sincronia. «Avete visto il messaggio?» «Sì» bisbigliò Jill. «Non ci sono elementi che facciano ipotizzare un omicidio.» I suoi sospetti si riducevano solo a vaghe congetture. Non voleva offrire ai genitori qualcosa a cui aggrapparsi, per poi doverli deludere. «Indagheremo su tutte le ipotesi possibili, ma non posso darvi alcuna speranza.» Si interruppe, pentito di avere scelto quelle parole. Come poteva un genitore sperare che il proprio figlio fosse stato assassinato?
Keller si rivolse alla moglie: «Sarà l'autopsia a dirci se ci sono delle incongruenze. A loro non sfugge nulla. È incredibile cosa può fare la scienza di questi tempi». Lo disse con la convinzione dell'uomo che lavora nel campo e si affida al metodo scientifico per dimostrare qualsiasi cosa. Jill Rosen si portò il fazzoletto al naso e ignorò i commenti del marito. Jeffrey non riusciva a capire se la tensione che c'era tra loro era dovuta all'alterco di prima, o a problemi coniugali che duravano già da tempo. Lo avrebbe scoperto indagando con discrezione nel campus. Keller interruppe le sue riflessioni. «Abbiamo cercato di pensare se c'era qualcosa che avrebbe potuto esserle utile» disse. «Andy aveva degli amici... prima...» «In realtà noi non li conoscevamo» lo interruppe la moglie. «I suoi compagni di droga.» «È vero» ammise Keller. «Per quel che ne sappiamo, negli ultimi tempi non frequentava nessuno.» «Per lo meno nessuno che ci abbia presentato.» «Io ero spesso lontano, troppo spesso» disse Keller con la voce incrinata dal rimorso. Jill non fece commenti e Keller arrossì nello sforzo di trattenere le lacrime. «Si trovava a Washington?» gli domandò Jeffrey, ma fu la moglie a rispondere. «In questo periodo Brian sta seguendo una richiesta di finanziamenti molto complicata.» Keller scrollò il capo, come per sminuire la cosa. «Che importanza ha adesso? Tanto tempo sprecato, e per cosa?» «Un giorno il tuo lavoro potrebbe aiutare tanta gente» disse lei, ma con una punta di acredine nella voce che a Jeffrey non sfuggì. Non era certo la prima volta che una moglie rimproverava al marito di dedicarsi troppo al lavoro. «L'auto parcheggiata fuori era di suo figlio?» le domandò Jeffrey. Notò che Keller guardava altrove. «L'avevamo appena comperata. Perché avesse qualcosa... non so. Brian voleva ricompensarlo perché si stava comportando bene» disse, lasciando capire che lei non approvava la decisione del marito. Era una macchina costosa e i docenti di solito non erano ricchi. Jeffrey, che non era certo strapagato, guadagnava probabilmente di più. «Di solito andava in macchina al campus?»
«No, quasi sempre a piedi» disse Jill. «A volte ci andavamo tutti e tre insieme.» «Le ha detto dove era diretto ieri mattina?» «Io ero già al centro» rispose Jill. «Pensavo che sarebbe rimasto a casa tutto il giorno. Quando è venuta Lena...» La familiarità con cui pronunciò il nome lo incuriosì di nuovo. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non trovò il modo di introdurre l'argomento. Si limitò a prendere il taccuino. «Dunque, Andy lavorava per lei, dottor Keller?» «Sì» rispose Keller. «Non che avesse molto da fare, ma non volevo che passasse troppo tempo in casa da solo.» «Dava una mano anche a me al centro. Ogni tanto stava all'accettazione o si occupava della segreteria.» «Aveva accesso alle informazioni sui pazienti?» «Naturalmente no. Tutto quello che riguarda i pazienti viene tenuto sotto chiave. Andy si occupava di ricevute, appuntamenti, chiamate telefoniche. Quel genere di cose.» Le tremò la voce. «Lavoretti per tenerlo occupato.» «Come al laboratorio» intervenne Keller. «Non aveva i titoli per seguire la ricerca. Quello è un lavoro che compete ai neolaureati.» Drizzò la schiena e posò le mani sulle ginocchia. «Volevo solo averlo vicino per tenerlo d'occhio.» «Eravate preoccupati che potesse fare qualche gesto inconsulto?» «No» rispose Jill. «O meglio, non lo so. Forse inconsciamente sospettavo che ci pensasse. Negli ultimi tempi si comportava in modo strano, come se nascondesse qualcosa.» «Ha idea di che cosa fosse?» «Assolutamente no» rispose con sincero rammarico. «I ragazzi di quell'età sono complicati. Anche le ragazze, se è per questo. È il momento di passaggio dall'adolescenza all'età adulta. I genitori vengono considerati o un ostacolo o un sostegno, a seconda dei giorni.» «O del bisogno di soldi» aggiunse Keller. I due genitori sorrisero, come se fosse una battuta frequente tra loro. «Lei ha figli, signor Tolliver?» domandò Keller. «No.» Jeffrey si irrigidì, non era una domanda gradevole per lui. Da giovane, non aveva mai pensato di volere figli. Poi, dato che Sara non poteva averne, l'idea gli era del tutto uscita di mente. Solo ultimamente, nel corso dell'ultima indagine alla quale aveva lavorato con Lena, si era domandato cosa significasse essere padre.
«Ti strappano il cuore» disse Keller, nascondendo la faccia tra le mani. Jill ebbe un momento di incertezza, poi allungò la mano e gli accarezzò la schiena. Keller alzò gli occhi stupito, come se lei gli avesse fatto un regalo. Jeffrey lasciò passare qualche secondo, poi domandò: «Andy vi ha mai detto se aveva difficoltà a stare senza la droga?». Scossero entrambi il capo. «Qualcuno o qualcosa che può averlo turbato?» Keller alzò le spalle. «Stava cercando di costruirsi un'identità.» Agitò la mano in direzione del giardino. «Per questo gli avevamo permesso di trasferirsi sopra il garage.» «Aveva cominciato a interessarsi alla pittura» disse Jill. Indicò la parete alle spalle di Jeffrey. «Bello.» Jeffrey guardò la tela cercando di mascherare la delusione. Rappresentava un nudo di donna adagiata su una roccia. Aveva le gambe spalancate, i genitali erano l'unico punto colorato di tutto il quadro e davano l'impressione che la ragazza tenesse tra le cosce un piatto di lasagne. «Era davvero dotato» disse Jill. Jeffrey annuì, pensando che solo una madre distrutta o il direttore di una rivista pornografica potevano pensare che l'autore di quel quadro avesse del talento. Si guardò in giro e incrociò lo sguardo di Keller. Sembrava a disagio, almeno quanto lui. «Andy usciva con qualche ragazza?» non poté fare a meno di chiedere Jeffrey, perché per quanto dettagliato sembrasse il quadro, risultavano delle lacune piuttosto importanti. «No, per quel che ne sappiamo» rispose Jill. «Non abbiamo mai visto nessuno salire in camera sua, del resto il garage è sul retro.» Keller lanciò un'occhiata alla moglie: «Jill pensa che avesse ricominciato con la droga». «Abbiamo trovato qualcosa in camera sua» confessò Jeffrey, ma non lasciò a Jill il tempo di fare domande. «Quadrati di carta stagnola e una pipa. È impossibile stabilire se è stata usata recentemente.» Jill si accasciò, il marito le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé. Lei si irrigidì come aveva fatto prima e Jeffrey tornò a chiedersi a che punto fosse il loro matrimonio. «In ogni modo, in camera sua non c'era altro che possa far pensare a un consumo di droga» aggiunse. «Aveva sbalzi d'umore» disse il padre. «A volte era molto malinconico. Scontroso. Difficile dire se dipendesse dalla droga o dal carattere.» Jeffrey decise che valeva la pena di accennare ai piercing. «Ho notato
che aveva un piercing sul sopracciglio.» Keller alzò gli occhi al cielo. «Ha fatto impazzire sua madre.» «E anche sul naso» aggiunse Jill con una smorfia di disapprovazione. «Credo che si fosse fatto qualcosa anche sulla lingua. Non me lo ha mai mostrato, ma masticava in continuazione.» «Qualcos'altro di insolito?» azzardò Jeffrey. Lo guardarono meravigliati. Rispose Keller per entrambi: «Non credo che rimanesse altro da forare!» esclamò, non proprio divertito. Jeffrey passò ad altro. «E il tentativo di suicidio a gennaio?» «Non penso che volesse farlo sul serio» disse Keller. «Sapeva che Jill avrebbe trovato il messaggio al suo risveglio. Aveva calcolato i tempi in modo da farsi trovare prima che la situazione diventasse irreparabile.» Prese tempo. «Siamo convinti che stesse solo cercando di attirare la nostra attenzione.» Jeffrey attese che anche Jill dicesse qualcosa, ma lei restò a occhi chiusi, appoggiata al marito. Keller disse: «A volte agiva d'impulso, senza pensare alle conseguenze». Jill non lo contraddisse. Il marito scosse la testa. «Non lo so, forse non dovrei parlare così.» «No» bisbigliò Jill. «È la verità.» «Non siamo stati capaci di capire. Ci deve essere sfuggito qualcosa.» La morte di una persona cara è già un fatto terribile di per sé da accettare per chi rimane, ma il suicidio lo è ancor di più. I familiari o si accusano di non aver saputo cogliere i segni premonitori, o si sentono traditi dall'egoismo della vittima, che li ha lasciati soli ad affrontare le conseguenze. Jeffrey pensò che anche i genitori di Andy rischiavano di passare il resto della vita in una continua oscillazione tra i due stati d'animo. Jill si tirò su e si soffiò il naso. Prese un altro fazzolettino dalla scatola e si asciugò gli occhi. «Quasi mi stupisce che siate riusciti a trovare qualcosa in quell'appartamento» disse. «Era così disordinato.» Stava cercando di ricomporsi, ma qualcosa in quello che disse la rituffò nella commozione. Cedette lentamente, storcendo la bocca per reprimere i singhiozzi, ma alla fine nascose il viso tra le mani. Keller l'abbracciò di nuovo, stringendola a sé. «Mi dispiace tanto» disse, affondando la faccia nei suoi capelli. «Avrei dovuto essere qui.» Restarono così per qualche istante, dimentichi di Jeffrey. Si schiarì la voce. «Credo che andrò a dare un'occhiata all'appartamento, se non vi dispiace.»
Solo Keller alzò gli occhi. Fece segno di sì con la testa, poi tornò a consolare la moglie. Jill si lasciò andare tra le sue braccia come una bambola di pezza. Jeffrey si voltò per andarsene e si trovò di fronte il nudo di Andy. Nella donna ritratta c'era qualcosa di familiare che non riusciva a decifrare. Per non restare lì come un allocco, andò alla porta e uscì. Decise che avrebbe rivisto Keller per scoprire quello che non poteva dire in presenza della moglie. Voleva parlare di nuovo anche con Ellen Schaffer, per verificare se le fosse tornato in mente qualcosa. Di fronte alla Mustang si fermò un'altra volta in ammirazione. Era una stranezza decidere di lavare la macchina di primo mattino, e così vicino alla morte di Andy, ma non era certo un reato. Forse Keller lo aveva fatto in omaggio al figlio. Oppure per nascondere delle prove, anche se era improbabile che ci fosse un nesso tra l'automobile e un eventuale delitto. E, a parte l'aggressione a Tessa Linton, Jeffrey non era neppure certo che fosse stato commesso un crimine. Si chinò e fece correre la mano sul battistrada del copertone. La strada che portava alla zona di parcheggio vicino al ponte era asfaltata, ma il parcheggio era cosparso di ghiaia. Anche nel caso in cui fossero riusciti a trovare delle impronte sul luogo combacianti, era probabile che Andy fosse passato di là centinaia di volte, prima di morire. Dai rapporti di polizia Jeffrey aveva appreso che ci andavano molti studenti a pomiciare. Aprì il cellulare per chiamare Frank, ma rinunciò quando vide Richard Carter imboccare il vialetto con una grossa pentola tra le mani. Come notò Jeffrey sorrise, poi parve ricredersi e assunse un'espressione più seria. «Dottor Carter» lo salutò Jeffrey, cercando di mostrarsi cordiale. Aveva cose più importanti da sbrigare che rispondere alle domande di Richard, che avrebbe usato qualunque indiscrezione per farsi bello al campus. Richard disse: «Ho preparato uno stufato per Brian e Jill. Sono in casa?». Jeffrey lanciò un'occhiata all'edificio pensando all'atmosfera oppressiva, all'atroce dolore che affliggeva i genitori. «Forse non è il momento più adatto.» Richard fece una faccia delusa. «Volevo solo essere d'aiuto.» «Sono molto abbattuti» disse Jeffrey. Pensò a un modo per ottenere informazioni su Brian Keller senza darlo a vedere. Conoscendo Richard, decise di prendere la strada più lunga. «Lei era amico di Andy?» cominciò.
Richard doveva avere otto o nove anni più del ragazzo. «Mio Dio, no» sghignazzò. «Lui era uno studente. E a parte questo era veramente odioso.» Jeffrey aveva già raccolto in giro apprezzamenti simili su Andy Rosen, ma fu sorpreso dalla sua irruenza. «Però è amico di Brian e Jill?» «Oh, loro sono splendidi. Ci vogliamo tutti bene nel campus Siamo come una famiglia.» «Certo. Brian mi sembra un solido padre di famiglia.» «E lo è. È stato fantastico con Andy. Avrei voluto averlo io, un padre così.» Assunse un'espressione incuriosita, forse stava cominciando a capire il senso delle domande. Si sentì importante e con una smorfia ambigua si preparò a eventuali indiscrezioni. Jeffrey non perse tempo. «Si direbbe un buon matrimonio.» Richard storse la bocca. «Lei crede?» Jeffrey non rispose e Richard parve apprezzare la cosa. «Be'» cominciò, «non mi va di mettere in giro pettegolezzi.. perché di questo si tratta... semplici pettegolezzi. Io non ho mai visto nulla che lo possa confermare, tutto quello che posso dire è che all'ultima festa di Natale Jill si comportava in modo molto strano con Brian.» «Siete nello stesso dipartimento?» «Come ho già detto» gli ricordò Richard, «viviamo in un piccolo campus.» Jeffrey si limitò a guardarlo in silenzio, e l'altro si sentì incoraggiato a proseguire. «Qualche tempo fa girava una certa voce.» Fece una faccia, come se si aspettasse un intervento e Jeffrey lo accontentò. «Sì?» «Ripeto, si tratta di pettegolezzi.» Introdusse una pausa da teatrante consumato. «A proposito di una studentessa.» Altra pausa. «Un'allieva.» «Una relazione?» domandò Jeffrey, anche se la domanda era scontata. Poteva essere quello l'argomento di cui Keller non voleva parlare in presenza della moglie, specialmente se Jill ne era al corrente. Anche a lui bastava un'allusione di Sara alle circostanze che avevano messo fine al loro matrimonio per farlo sentire sull'orlo di un precipizio. «Sa come si chiamava la ragazza?» «Non ne ho idea, ma, stando a quel che si dice in giro, quando Jill l'ha saputo, lei si è trasferita.» Jeffrey rimase perplesso, non ne poteva più di gente che non diceva le
cose fino in fondo. «Ricorda che aspetto aveva? In che cosa si voleva laureare?» «Non so neppure se esistesse davvero. Come ho detto, si tratta di pettegolezzi.» Si accigliò. «E adesso mi dispiace di averne parlato fuori dall'università.» «Richard, se c'è qualcosa che non mi vuole dire...» «Le ho detto tutto quello che sapevo. O meglio, quello che ho sentito dire. Come ho già precisato...» «Sono solo pettegolezzi» terminò Jeffrey. «C'è altro?» domandò con aria imbronciata. Jeffrey decise di lasciar perdere. «È carino da parte sua, portare del cibo» «Quando se n'è andata mia madre, qualche anno fa, sono venuti in molti a portarmi del cibo, e per me è stato come un raggio di sole nel giorno più tetro della mia vita.» Jeffrey si ripeté la frase nella mente e sentì un campanello d'allarme. «Signor Tolliver?» domandò Richard. «Sole» esclamò Jeffrey. Adesso capiva cosa c'era di familiare nel dipinto impudico di Andy Rosen. La ragazza del quadro aveva un sole raggiante tatuato attorno all'ombelico. Quando Jeffrey si fermò davanti al pensionato dove alloggiava Ellen Schaffer, vi trovò parcheggiate un'auto di pattuglia e la Taurus di Frank Wallace, priva di contrassegni. Non aveva chiesto il loro intervento. «Merda» esclamò, infilandosi nello spazio accanto alla macchina di Frank. Capì che era successo qualcosa di molto grave prima ancora di vedere due ragazze che uscivano dall'edificio abbracciate e piangenti. Si precipitò dentro salendo i gradini a due a due. L'edificio era andato a fuoco anni prima, ma il college l'aveva ricostruito identico alla palazzina anteguerra, con i saloni in stile e un refettorio di trenta posti. Frank lo aspettava davanti a uno dei saloni. «Capo» esordì sospingendo Jeffrey all'interno, «abbiamo cercato di chiamarti.» Jeffrey controllò il cellulare. La batteria era ancora carica, ma in alcuni punti della città non c'era ricezione. «Cos'è successo?» Frank chiuse la porta per garantirsi un po' di privacy. «Si è fatta saltare la testa.» «Cazzo» disse Jeffrey. Sapeva già la risposta, ma si costrinse a doman-
dare: «Parli della Schaffer?». Frank annuì. «Deliberatamente?» Frank abbassò la voce. «Da ieri chi ci capisce più niente?» Jeffrey sedette sul bordo del divano in preda a una strana sensazione di paura. Due suicidi in due giorni potevano anche capitare, ma l'aggressione di Tessa proiettava un'ombra di sospetto su tutto quello che stava succedendo al campus. «Ho appena parlato con Brian Keller, il padre di Andy Rosen.» «È il patrigno?» «No, il ragazzo ha preso il cognome della madre.» Quando vide che Frank rimaneva perplesso aggiunse: «Non chiedermi perché. Keller è il padre biologico». «Ho capito» disse Frank, ma senza cambiare minimamente espressione. Per una frazione di secondo Jeffrey desiderò che ci fosse Lena al suo posto. Non che fosse un cattivo poliziotto, ma Lena era più intuitiva. Frank era quello che Jeffrey definiva un piedipiatti, uno che non risparmiava le suole delle scarpe per rincorrere tutti gli indizi possibili, ma che era incapace di quei salti mentali che aiutano a risolvere un caso. Si avvicinò alla porta oscillante che conduceva in cucina per accertarsi che nessuno stesse ascoltando. «Richard Carter ha detto che...» Frank fece una smorfia di insofferenza. Jeffrey non capì se ispirata dalle tendenze sessuali di Richard o dal suo carattere insopportabile. Per quel che lo riguardava, contava solo il carattere, ma sapeva che Frank era un irriducibile conformista. «Carter sa di certi pettegolezzi che giravano nel campus.» «E cioè?» «A quanto pare Keller aveva una relazione con una studentessa.» «Capisco» disse Frank, con un tono che lasciava intendere il contrario. «Devi scovare qualche informazione su Keller. Voglio sapere tutto sul suo passato. Vediamo se i pettegoli avevano ragione.» «Secondo te il figlio ha scoperto la storia, e papà gli ha chiuso la bocca per non farlo sapere alla moglie?» «No. Richard ha detto che la moglie era al corrente.» «Ammesso che il frocio sia attendibile.» «Dacci un taglio, Frank» ordinò Jeffrey. «Se Keller aveva una relazione, quello potrebbe essere un motivo plausibile per un suicidio. Forse il figlio è saltato giù dal ponte per punire il padre per il tradimento. I genitori sta-
vano litigando, questa mattina. La Rosen diceva a Keller che non gli era mai importato niente di suo figlio.» «Forse era solo una cattiveria. Sai come sono fatte le donne.» Jeffrey non era disposto a discutere. «A me è sembrata molto lucida.» «Credi che sia stata lei?» «A che scopo?» La risposta fu identica a quella che aveva in mente Jeffrey. «Non lo so.» Fissò il caminetto e di nuovo desiderò che ci fosse Lena, o addirittura Sara, a parlare con lui. Disse a Frank: «Se scopro del marcio, li trascino in tribunale. Soprattutto se il ragazzo si è suicidato per questo». «Hai ragione.» «Mettiti in pista, scopri se Keller era davvero a Washington quando è morto Andy. Chiedi in giro, con discrezione, verifica se le voci hanno qualche fondamento.» «Per i voli, non ci vuole molto a controllare» disse Frank, tirando fuori il taccuino. «Ma la ragazza è più adatta di me a chiedere in giro e a far parlare la gente.» «Lena non è un poliziotto, Frank.» «Potrebbe darci una mano. Vive nel campus. Conosce senz'altro degli studenti.» «Non è un poliziotto.» «Sì, ma...» «Ma, un corno» lo zittì Jeffrey. Il giorno prima, in biblioteca. Lena aveva ampiamente dimostrato di non voler collaborare. Jeffrey le aveva offerto l'opportunità di parlare liberamente con Jill Rosen, ma lei aveva tenuto la bocca chiusa, non aveva neppure cercato di consolare quella povera donna. «E la Schaffer? Cosa c'entra con questa storia?» domandò Frank. «Ho visto un quadro» disse Jeffrey e gli riferì i dettagli del dipinto nel soggiorno dei Keller. «E la mamma l'ha appeso alla parete?» «Ne va fiera.» Pensò che sua madre prima gli avrebbe mollato un ceffone, poi avrebbe dato fuoco alla tela con una delle sue sigarette. «I genitori sostengono che non aveva una ragazza.» «Forse non andava a raccontarlo a loro.» «È possibile. Ma se Ellen Schaffer faceva sesso con Andy, come mai ieri non l'ha riconosciuto?» «Era col culo all'aria» disse Frank. «Fosse stato Carter a non riconoscer-
lo, allora sì che mi insospettirei.» Jeffrey gli lanciò un'occhiata di avvertimento. «D'accordo.» Frank alzò le mani in segno di resa. «Ammetti però, che la ragazza era agitata. E lui si trovava quindici metri più sotto. Difficile riconoscerlo.» «Già» ammise Jeffrey. «E se il doppio suicidio fosse una specie di patto?» «Lo avrebbero fatto insieme, non a un giorno di distanza. Hanno rilevato qualcosa dal foglio del messaggio?» «L'hanno toccato tutti, compresa la madre.» «Ci fosse stato un patto, l'avrebbero lasciato scritto.» «Forse Andy l'aveva lasciata» suggerì Frank. «E lei si è vendicata buttandolo giù dal ponte.» «Credi che sia abbastanza forte per farlo?» Frank alzò le spalle. «Non mi torna» disse Jeffrey. «Le ragazze non reagiscono così.» «Non poteva certo divorziare.» «Attento a come parli» lo avvertì Jeffrey, pensando che alludesse alla sua storia. Poi, per evitare scuse che avrebbero messo entrambi in imbarazzo, aggiunse: «Le ragazze giovani non fanno di queste cose, semmai umiliano il ragazzo, o sparlano di lui con gli amici, o rimangono incinte, o ingoiano una manciata di pillole...». «O si fanno saltare le cervella?» lo interruppe Frank. «Tu dai per scontato che Andy Rosen sia stato ucciso. Ma è sempre possibile che si sia suicidato.» «Hai qualche novità al proposito?» «Brock ha prelevato i campioni di sangue questa mattina. Avremo i risultati domani. Se non fosse per Tessa, non saremmo così sospettosi, e chi diavolo può dire se c'è un nesso tra i due episodi?» «Se non ci fosse, sarebbe una coincidenza ben strana.» «Lascerò Keller nel suo brodo ancora un giorno, poi lo affronterò di petto per scoprire cosa sa. Stamattina voleva dirmi qualcosa, ma non ha voluto parlarne davanti a sua moglie. Sara farà l'autopsia stasera, forse verrà fuori qualcosa.» «Tornerà stasera?» «Già. Vado a prenderla nel pomeriggio.» «Come sta?» «Non è facile, per lei» disse Jeffrey, ma cambiò subito argomento. «Do-
v'è la Schaffer?» «Da questa parte» fece strada Frank aprendo la porta. «Vuoi prima parlare con la sua compagna di camera?» Jeffrey stava per dire di no, ma cambiò idea quando vide la ragazza che piangeva sul sedile sotto la finestra in fondo al corridoio. Aveva accanto due amiche che cercavano di consolarla. Erano quasi identiche, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Avrebbero potuto essere sorelle di Ellen Schaffer. «Signorina» disse Jeffrey, cercando di usare un tono di circostanza. «Sono il capo della polizia Tolli...» La ragazza scoppiò in singhiozzi. «È orribile!» gridò. «Stava bene questa mattina!» Jeffrey lanciò un'occhiata a Frank. «È stata l'ultima volta che l'ha vista?» La ragazza annuì, e la testa sussultò come il sughero di una lenza. «Che ora era?» «Le otto.» Jeffrey pensò che in quel momento si trovava dai Rosen. «Dovevo andare a lezione... Ellen ha detto che voleva rimanere a dormire. Era agitata per Andy...» «Conosceva Andy Rosen?» A quel punto la ragazza scoppiò di nuovo in lacrime, squassata dai singhiozzi. «No!» gemette. «Questa è la cosa tragica. Lui era nel suo corso di pittura, e lei non lo conosceva neppure.» Jeffrey e Frank si scambiarono un'occhiata. Nel loro lavoro capitava spesso di incontrare persone che al momento del delitto avevano reazioni sproporzionate rispetto al coinvolgimento che avevano avuto con la vittima. Il caso di Andy, presunto suicida, si prestava a reazioni melodrammatiche. «Quindi» proseguì Jeffrey, «lei ha visto Ellen alle otto? Qualcun altro l'ha vista?» Rispose una delle amiche. «Abbiamo tutte lezione alla prima ora.» «Anche Ellen?» Le tre annuirono in sincronia. Una disse: «Tutte quante, qui al pensionato». «In che cosa si doveva laureare?» domandò Jeffrey, per capire se la ragazza era in qualche modo collegabile a Keller. «Biologia cellulare» rispose la terza ragazza. «Doveva consegnare la sua ricerca domani.» «Seguiva il corso del dottor Keller?»
Tutte e tre scossero la testa. Una chiese: «È il padre di Andy?». Ma Jeffrey non rispose. A Frank disse: «Procurati una copia del suo piano di studi e vedi che corsi ha frequentato da quando è arrivata qui». Poi rivolto alle ragazze: «Ellen usciva con qualcuno in particolare?». «Umh» esitò la prima ragazza, guardando nervosamente le amiche. Poi, senza che Jeffrey la incoraggiasse, disse: «Ellen usciva con un sacco di ragazzi». L'enfasi sulla parola lasciava intendere che fossero centinaia. «Qualcuno ce l'aveva con lei?» «Assolutamente no» disse la prima. «Tutti le volevano bene.» «Qualcuna di voi ha notato qualche individuo sospetto nei pressi del pensionato questa mattina?» Scossero la testa. Jeffrey si rivolse a Frank. «Avete interrogato le persone presenti?» «Erano quasi tutte fuori» rispose Frank. «Stiamo cercando di rintracciarle. Finora nessuno ha sentito lo sparo.» Jeffrey alzò gli occhi sorpreso, ma in presenza delle ragazze non fece commenti. Disse: «Vi ringrazio per il tempo che avete voluto concedermi» e consegnò a ciascuna il suo biglietto da visita, nel caso si ricordassero di qualcosa che poteva rivelarsi utile. Solo quando salirono al primo piano, diretti alla camera di Ellen, Jeffrey domandò: «Che cosa ha usato?». «Un Remington 870.» «Il Wingmaster?» Si domandò cosa ci facesse una ragazza come Ellen Schaffer con un'arma del genere. Il fucile a pompa era una delle armi più usate dalle forze di polizia. «Faceva parte della squadra di tiro al piattello» spiegò Frank. Jeffrey ricordava vagamente che il Grant Tech aveva una squadra di tiro, ma gli tornava difficile conciliare l'immagine della bionda provocante che aveva conosciuto il giorno prima con quella di una persona che praticava uno sport del genere. Frank indicò una porta chiusa. «È là dentro.» Quando entrò nella camera di Ellen Schaffer, Jeffrey non sapeva cosa avrebbe trovato, ma niente avrebbe potuto prepararlo a ciò che vide. La giovane era raggomitolata sul divano, con le gambe avvinghiate attorno alla canna del fucile. La bocca dell'arma era puntata alla testa, o meglio a quello che ne rimaneva.
Avvertì un odore acre che gli fece lacrimare gli occhi. «Cos'è questa puzza?» Frank indicò una lampadina spoglia sulla scrivania. Un pezzo di cuoio capelluto era appiccicato al vetro lattiginoso, e il calore lo cuoceva lentamente facendo salire un filo di fumo verso il soffitto. Jeffrey si coprì naso e bocca con la mano e si avvicinò alla finestra socchiusa. Guardò fuori e vide il prato sul retro, con un gazebo e una serie di panchine. Poco oltre iniziava il parco nazionale. Un sentiero, utilizzato d'abitudine dagli studenti del campus, scompariva nel folto degli alberi. «Dov'è Matt?» «Sta raccogliendo informazioni in giro» rispose Frank. «Digli di controllare se ci sono impronte fuori da questa finestra.» Frank fece la telefonata, mentre Jeffrey controllava ogni centimetro della finestra. Non trovò nulla. Solo quando fece per voltarsi, la luce catturò un filo di grasso vicino alla maniglia. «L'avevi notato?» domandò. Frank si avvicinò ed esaminò il punto, abbassandosi per vedere meglio. «Olio?» domandò, poi indicò la scrivania vicino al divano. Sul ripiano erano abbandonati uno spazzolino metallico per otturatore, una pezza e una boccetta di olio per la pulizia dei fucili. Sul pavimento era appallottolato uno straccio, evidentemente usato per pulire la canna. «Ha pulito il fucile prima di spararsi?» domandò Jeffrey. Era l'ultima cosa che lui si sarebbe sognato di fare. Frank si strinse nelle spalle. «Forse voleva essere sicura che funzionasse.» «Tu credi?» Si chinò sopra il divano. Ellen indossava un paio di jeans attillati e una maglietta corta. Era a piedi scalzi, con un alluce incastrato nel grilletto. Sotto una chiazza di sangue si intravedeva il tatuaggio col sole splendente. Le mani stringevano la bocca del fucile, probabilmente per tenerlo puntato esattamente. Utilizzando la penna che aveva in tasca, Jeffrey scostò la mano destra. La zona del palmo a contatto con la canna non era macchiata di sangue, e questo indicava che Ellen teneva la mano sull'arma nel momento in cui si era sparata. O in cui le avevano sparato. L'esame dell'altra mano diede lo stesso risultato. Incastrato tra i cuscini del divano c'era il bossolo espulso dal caricatore quando era stato tirato il grilletto. Quando lo spostò, Jeffrey notò qualcosa di insolito. Controllò la traccia lasciata nella bocca del fucile e disse a Frank: «Aveva un fucile calibro dodici e ha usato una cartuccia calibro
venti». Frank lo fissò per un istante. «Perché una calibro venti?» Jeffrey si alzò scuotendo la testa. La circonferenza della bocca del fucile era più grande di quella della cartuccia. Una delle cose più pericolose, quando si utilizza un fucile, è di caricarlo con le munizioni sbagliate. I produttori avevano standardizzato i colori delle cartucce, proprio per evitare incidenti. «Da quanto tempo era nella squadra di tiro al piattello?» domandò Jeffrey. Frank tirò fuori il taccuino e cercò l'appunto. «Da quest'anno. La sua compagna di stanza ha detto che voleva entrare nel decatlon.» «Era daltonica?» Il giallo vivo della calibro dodici non era facile da scambiare col verde della calibro venti. «Posso controllare» disse Frank prendendo nota. Jeffrey esaminò l'estremità della bocca trattenendo il fiato mentre accostava il viso. «Aveva inserito un riduttore» osservò. Il riduttore restringeva la canna facilitando lo scorrimento della cartuccia più piccola. Si rimise in piedi. «Non torna.» Frank disse: «Guarda la parete». Jeffrey si avvicinò al muro schivando la pozza di sangue sotto il bracciolo del divano. La deflagrazione aveva distrutto buona parte del cranio, scagliando pezzi di testa contro la parete. Aguzzò gli occhi, cercando di analizzare i grumi di sangue e di materia spiaccicati sull'intonaco bianco. I pallini di piombo avevano lasciato dei grossi fori, trapassando in alcuni punti la parete. «Qualcosa nella camera accanto?» domandò. Ringraziò il cielo che quando era stato tirato il grilletto non ci fosse nessuno dall'altra parte. «No» disse Frank. «Non vedi cosa c'è sulla parete?» «Aspetta.» Scrutò con insistenza il muro, fino a che non si rese conto di essere a sua volta fissato. L'occhio di Ellen Shaffer era incastrato nell'intonaco. «Cristo» esclamò voltandosi. Andò alla finestra per aprirla e fare uscire il cattivo odore. Stare in quella stanza era peggio che rimanere intrappolati in una latrina l'ultimo giorno di una fiera del bestiame. Tornò a guardare la ragazza, senza avvicinarsi troppo. Avrebbe dovuto parlarle prima. Forse, se fosse venuto subito da lei, Ellen Schaffer a quest'ora sarebbe stata ancora viva. Si domandò cos'altro avesse trascurato. La differenza di calibro tra la canna e la cartuccia era sospetta, ma chiunque
poteva commettere un errore, specialmente uno - o una - che non doveva preoccuparsi delle conseguenze. D'altro canto, poteva anche trattarsi di una messinscena. Avevano già scelto il prossimo bersaglio? «Quando l'hanno trovata?» domandò. «Circa mezz'ora fa» disse Frank. Tirò fuori il fazzoletto e si tamponò la fronte. «Nessuno ha toccato niente. Hanno chiuso la porta e ci hanno chiamato.» «Cristo» ripeté Jeffrey, prendendo a sua volta il fazzoletto. Tornò alla finestra. «Ecco Matt» disse Frank. Jeffrey guardò di sotto e lo vide che attraversava il prato con le mani in tasca e lo sguardo fisso a terra, in cerca di qualche particolare insolito. A un certo punto si fermò e si chinò per vedere meglio. «Che cosa c'è?» gli gridò Jeffrey, e in quel momento il cellulare di Frank cominciò a squillare. Matt alzò la voce per farsi sentire. «Sembra una freccia.» «Che cosa?» gridò Jeffrey, pensando che non aveva voglia di perdere tempo. «Un freccia» ripeté Matt. «È disegnata per terra.» «Capo» disse Frank, porgendogli il telefono. Jeffrey continuò a parlare con Matt. «Sei sicuro?» «Venga a vedere, se vuole. Non vedo che altro potrebbe essere.» Frank ripeté: «Capo...». «Cosa vuoi?» domandò quasi indispettito. «Una delle impronte rilevate nell'appartamento di Andy Rosen combacia con una di quelle registrate nel computer.» «Davvero?» Frank scrollò la testa. Fissò il pavimento, poi parve cambiare idea. «Non ci crederai.» 6 Lena si sdraiò sulla schiena con gli occhi fissi al soffitto, cercando di respirare e rilassarsi come le aveva insegnato Eileen, l'istruttrice di yoga. Durante la lezione riusciva a mantenere qualsiasi posizione più a lungo degli altri allievi, ma quando arrivava il momento del rilassamento era un disastro. Il concetto di «lasciarsi andare» entrava in conflitto con il suo credo personale, che le imponeva di mantenere il controllo in ogni istante
della vita, specialmente se c'era di mezzo il corpo. Alla prima seduta di psicoterapia, Jill Rosen le aveva raccomandato di fare yoga per imparare a rilassarsi e facilitare il sonno. Le aveva dato un sacco di consigli pratici, nel breve periodo in cui si erano frequentate, ma quello era l'unico che aveva seguito. Uno dei problemi di Lena, dopo la violenza subita, era quello di non sentire più il corpo come suo. Lei aveva reagito a quello stato di depressione e autocommiserazione con l'attività fisica. Il fatto di stirare e contrarre il corpo e di vedere che bicipiti e polpacci riprendevano la loro originaria elasticità, le aveva dato la speranza di poter riuscire prima o poi a recuperare l'identità di un tempo. Poi era arrivato il crollo e si era sentita come la prima volta che aveva dovuto affrontare l'algebra a scuola. E come la seconda volta, al corso estivo di recupero. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulla parte bassa della schiena e cercando di allentare la tensione, ma lo sforzo le fece alzare le spalle fino alle orecchie. Il corpo si tendeva come un elastico e lei non capiva perché Eileen continuasse a sostenere che quello era il momento più importante della lezione. Tutto il piacere che traeva dagli esercizi si dileguava nell'istante in cui la musica veniva abbassata e bisognava sdraiarsi sulla schiena a respirare. Invece di un ruscello cristallino o delle onde dell'oceano, vedeva con la mente un orologio che scandiva i secondi e pensava alle centinaia di cose che doveva fare appena uscita dalla palestra, anche se quello era il suo giorno libero. «Respirate» esortò Eileen, con un irritante tono monocorde. Era una donna sui venticinque anni, con un carattere solare che a Lena faceva venire voglia di prenderla a pugni. «Rilasciate la schiena» continuò, con la voce ridotta a un sussurro suadente. E quando venne a premerle il palmo della mano sullo stomaco, Lena spalancò gli occhi. Il contatto servì solo a irrigidirla ancora di più, ma l'altra parve non accorgersene. «Così va meglio» la incoraggiò e sorrise compiaciuta. Solo quando si allontanò, Lena poté richiudere gli occhi. Aprì la bocca, fece uscire l'aria lentamente e con continuità, ma proprio quando cominciava a sentire un vago effetto lenitivo Eileen batté le mani. «Molto bene» disse. Lena scattò in piedi all'istante, tanto che si sentì girare la testa. Il resto della classe sorrise e qualcuno andò ad abbracciare l'istruttrice, lei invece acciuffò l'asciugamano e scomparve nello spogliatoio. Girò con frenesia la combinazione del suo armadietto, soddisfatta di avere la stanza tutta per sé. Andò allo specchio e rimase a guardarsi. Da quan-
do era stata violentata aveva smesso di specchiarsi, ma per qualche ragione quel giorno si sentì attratta dalla propria immagine. Gli occhi erano cerchiati di scuro e gli zigomi erano più pronunciati del solito. Stava diventando troppo magra, sempre più di frequente la sola idea del cibo le dava la nausea. Levò il fermaglio dai capelli lasciando ricadere le ciocche castane attorno al viso e sul collo. Negli ultimi tempi preferiva tenere i capelli sciolti. Erano come una tenda protettiva che la schermava dagli sguardi altrui e la faceva sentire al sicuro. Qualcuno entrò nello spogliatoio e Lena si voltò, imbarazzata di essersi fatta sorprendere davanti allo specchio. Un ragazzo magro venne a ritirare lo zaino dall'armadietto accanto al suo. Era così vicino che lei si sentì rizzare i peli sulla nuca. Raccolse in fretta le scarpe con l'intenzione di infilarsele una volta fuori. «Salve» disse il ragazzo. Lena si fermò. Le bloccava l'uscita. «È ridicola questa smania di abbracciarsi» disse lui scuotendo la testa, come se ne avessero riso tante altre volte. Lena lo osservò, era sicura di non avergli mai rivolto la parola in vita sua. Era basso per essere un ragazzo, appena più alto di lei. Il corpo ossuto ed esile, ma sotto la maglietta a maniche lunghe si indovinavano braccia e spalle ben disegnate. Aveva i capelli rasati alla maniera militare e un paio di calze color limone, tanto sgargianti che dava fastidio guardarle. Allungò la mano. «Ethan Green. Ho cominciato il corso un paio di settimane fa.» Lena sedette sulla panca per infilarsi le scarpe. Ethan si accomodò all'estremità opposta. «Tu sei Lena, vero?» «L'hai letto sul giornale?» Prese a disfare un nodo sulla scarpa da tennis e ripensò a quel dannato articolo che avevano pubblicato su Sibyl e che le aveva reso la vita ancor più difficile di quanto non fosse già. «Noo» rispose, trascinando la parola. «Cioè, sì, so cosa ti è successo, e quando ho sentito Eileen che ti chiamava Lena, ho fatto due più due.» Le lanciò un sorriso nervoso. «E ti ho riconosciuto dalla fotografia.» «Che ragazzo intelligente» disse, lasciando perdere il nodo. Sì alzò e infilò a forza il piede nella scarpa. Anche il ragazzo si alzò e prese lo zaino. C'erano solo tre o quattro maschi che frequentavano il corso di yoga e, puntualmente, alla fine della lezione buttavano lì qualche frase sul fatto che facevano yoga per esplorare
il proprio io interiore ed entrare in contatto con le sensazioni più profonde. Era un abile stratagemma e Lena era convinta che in quel modo riuscissero a farsi un sacco di ragazze. «Devo andare.» «Aspetta un momento» disse lui, con un mezzo sorriso sulle labbra. Era un tipo attraente, probabilmente abituato alle conquiste. «Cosa vuoi?» Lo guardò, in attesa della risposta. Una gocciolina di sudore gli scese sul lato della faccia e scivolò sopra una cicatrice poco sotto l'orecchio. La ferita doveva essersi infettata prima di chiudersi, perché aveva una velatura scura che la faceva risaltare sulla mascella. Lui le rivolse un sorriso nervoso. «Ti andrebbe un caffè?» «No» rispose secca. La porta si aprì ed entrò un gruppo di ragazze che cominciarono ad aprire e chiudere gli armadietti sbattendo le antine. «Non ti piace il caffè?» «Non mi piacciono i ragazzi» disse. Agguantò la sacca e se ne andò prima che lui potesse dire qualcosa. Era agitata e indispettita per essersi lasciata prendere alla sprovvista. Nonostante la fatica improba che le costava la fase che gli altri chiamavano rilassamento, di solito usciva dalla lezione di yoga più tranquilla di quando era entrata. Adesso l'effetto era scomparso. Si sentiva di nuovo tesa, nervosa. Forse avrebbe dovuto passare in camera a lasciare la sacca e andare a fare una lunga corsa fino a sfinirsi, in modo da poter dormire per il resto della giornata. «Lena?» Si voltò, aspettandosi di vedere il ragazzo. Era Jeffrey. «Cosa c'è?» domandò, sulla difensiva. Qualcosa nel modo in cui venne a fermarsi vicino a lei, con le gambe divaricate e le spalle squadrate, le disse che non si trattava di una visita di cortesia. «Ho bisogno che tu venga con me alla centrale.» Lena rise, ma capì che non stava scherzando. «È questione di un minuto» continuò lui, infilandosi le mani in tasca. «Devo chiederti qualcosa a proposito di ieri.» «Tessa Linton? È morta?» «No.» Jeffrey si guardò alle spalle e Lena vide che a pochi metri dietro di lui c'era Ethan. Jeffrey si avvicinò di più e a voce bassa disse: «Abbiamo trovato le tue impronte nell'appartamento di Andy Rosen». Lei non riuscì a nascondere la sorpresa. «Nel suo appartamento?»
«Perché non mi hai detto che lo conoscevi?» «Per il semplice fatto che non lo conoscevo» ribatté. Fece per allontanarsi, ma Jeffrey la trattenne per il braccio. Non la strinse forte, ma lasciò capire che avrebbe potuto farlo. Disse: «Lo sai che l'analisi del DNA si può fare anche sulla biancheria intima». Lo guardò allibita. «Quale biancheria intima?» domandò, troppo sorpresa da quello che le stava dicendo per reagire al contatto fisico. «Quella che hai lasciato in camera di Andy.» «Di che cosa stai parlando?» Jeffrey allentò la presa, ma questo non l'aiutò a calmarsi. «Andiamo» le disse. Lena rispose come chiunque con un briciolo di cervello avrebbe risposto a un poliziotto con quello sguardo negli occhi. «Non ci penso neppure.» «Solo pochi minuti.» Il tono era amichevole, ma lei lo conosceva troppo bene per non capire le sue vere intenzioni. «Sono in arresto?» domandò. «Certo che no.» Sembrava quasi offeso. Cercò di mantenere la calma. «Allora lasciami andare.» «Voglio solo parlare.» «Prendi un appuntamento con la mia segretaria.» Tentò di liberare il braccio, ma Jeffrey lo strinse più forte. Fu presa dal panico. «Lasciami» sibilò, dando uno strattone. «Lena...» «Lasciami andare!» gridò. Liberò il braccio buttandosi all'indietro con un movimento cosi brusco, che cadde sul marciapiede L'osso sacro colpì il cemento e una fitta lancinante le percorse la schiena. Nello stesso istante Jeffrey barcollò in avanti. Fu sul punto di crollarle addosso, ma riprese l'equilibrio con due lunghi passi che la evitarono per un pelo. «Che diavolo...» Lena restò a bocca aperta. Ethan lo aveva spinto da dietro. Jeffrey si riprese subito e affrontò Ethan prima che lei avesse il tempo di capire cosa stava succedendo. «Che cazzo credi di fare?» Ethan rispose con un ringhio sordo. Il ragazzo ingenuo con cui Lena aveva parlato nello spogliatoio si era trasformato in un mastino. «Vai a farti fottere» borbottò. Jeffrey gli ficcò sotto il naso il distintivo della polizia. «Come hai detto, ragazzo?»
Ethan lo fissò negli occhi ignorando il distintivo. I muscoli del collo affiorarono sotto la pelle e una vena cominciò a pulsare vicino all'occhio. «Ho detto vai a farti fottere, porco maledetto.» Jeffrey tirò fuori le manette. «Il tuo nome?» «Testimone» rispose Ethan, con un tono gelido e impersonale. Evidentemente conosceva la legge e sapeva come usarla a suo favore. «Testimone oculare.» Jeffrey scoppiò a ridere. «E di cosa?» «Lei ha buttato a terra questa donna.» Gli voltò le spalle e aiutò Lena a rialzarsi tirandola per il braccio. Le ripulì i pantaloni con la mano e, continuando a ignorare Jeffrey, disse: «Andiamo via». Lei fu così colpita dal suo tono perentorio che cominciò a seguirlo. «Lena, attenta a non peggiorare la situazione» le gridò Jeffrey, come se fosse l'unico in quel momento a dimostrare un po' di buon senso. Ethan si voltò e serrò i pugni, pronto a reagire. Forse, oltre che stupido è anche matto, pensò Lena. Jeffrey pesava almeno venticinque chili più di lui e sapeva come sfruttarli. A parte il fatto che aveva la pistola. «Lascia stare» disse Lena trascinando Ethan per un braccio come fosse un guinzaglio. Quando trovò il coraggio di voltarsi a guardare, vide che Jeffrey non si era mosso. L'espressione lasciava intendere che non sarebbe finita lì. Ethan posò le due tazze sul tavolo, una col caffè, per Lena, e una col tè per se stesso. «Zucchero?» domandò, prendendo un paio di bustine dalla tasca dei pantaloni. Era ritornato il ragazzino gentile di prima. La trasformazione era così radicale, che Lena non sapeva più con chi aveva a che fare. Era stata una giornata troppo complicata, quasi non riusciva a credere a quello che era successo. «No» rispose, pensando che avrebbe fatto meglio a offrirle del whisky. Ma, comunque la pensasse Jill Rosen, Lena aveva delle regole, una delle quali era di non bere mai prima delle otto di sera. Ethan prese posto di fronte a lei senza darle il tempo di obiettare. In ogni modo fra poco sarebbe andata a casa, aveva solo bisogno di un po' di tempo per riprendersi da quello che le aveva detto Jeffrey. Il cuore le batteva a ritmo accelerato e le mani che stringevano la tazza stavano ancora tremando. Non aveva mai conosciuto Andy Rosen in vita sua. Com'era possibile che ci fossero le sue impronte nell'appartamento? E a parte le impronte,
perché Jeffrey era convinto che lui avesse le sue mutandine? «I poliziotti!» esclamò Ethan, come se dicesse: «I pedofili!». Prese un sorso di tè e scrollò la testa. «Non dovevi metterti in mezzo» disse Lena. «E non dovevi fare incazzare Jeffrey. Si ricorderà di te, la prossima volta che ti incontra.» Lui alzò le spalle. «La cosa non mi preoccupa.» «Sbagli.» Pensò che il ragazzo si stesse comportando come uno dei tanti teppistelli dei sobborghi, con i genitori troppo occupati a giocare a golf per insegnare ai figli il rispetto dell'autorità. Fossero stati nella stanza degli interrogatori, alla centrale di polizia, gli avrebbe levato dalla faccia quell'espressione compiaciuta con un ceffone. Disse: «Dovevi dare retta a Jeffrey». Gli balenò negli occhi un guizzo di rabbia, ma riuscì a controllarla. «Come hai fatto tu?» «Sai benissimo cosa voglio dire» disse Lena, prendendo un altro sorso di caffè. Il liquido era ustionante, ma lo bevve lo stesso. «Non potevo stare lì a guardare mentre ti malmenava.» «Chi sei, il mio fratello maggiore?» «Gli sbirri sono tutti uguali» disse lui, giocherellando con il filo della bustina di tè. «Pensano che gli sia permesso tutto solo perché hanno un distintivo.» Lei si incupì e rispose senza pensare a quello che era appena successo. «Non è facile fare il poliziotto, soprattutto perché c'è un sacco di gente che ha il tuo stesso atteggiamento merdoso.» «Ehi!» Alzò le mani e la guardò incredulo. «D'accordo che eri uno sbirro anche tu, ma non vorrai negare che ti ha malmenato.» «Neanche per sogno» disse, come se volesse convincerlo che nessuno poteva fare il prepotente con lei. «Almeno fino a quando non ti sei messo in mezzo tu.» Fece una pausa per dargli il tempo di afferrare il concetto. «A proposito, cosa cazzo credi di fare, mettendo le mani addosso a un poliziotto?» «Quello che fa lui» ribatté, con un lampo di furore negli occhi. Li abbassò sulla tazza e recuperò il controllo. Quando alzò di nuovo lo sguardo sorrise, come se questo fosse sufficiente ad appianare tutto. «Un testimone torna sempre utile, quando uno sbirro ti aggredisce.» «Hai esperienza in materia, eh? Quanti anni hai, dodici?» «Ne ho ventitré» rispose, senza cogliere l'ironia. «E conosco gli sbirri.» «Ah, capisco.» Quando lui alzò le spalle, aggiunse: «Fammi indovinare,
sei finito in riformatorio perché sfasciavi le cassette delle lettere? No, aspetta, la tua insegnante di inglese ti ha trovato dellerba nella cartella». Ethan sorrise di nuovo e lei notò che aveva un incisivo lievemente scheggiato. Lui disse: «Ho combinato qualche guaio, ma adesso sono cambiato. Va bene?». «Hai un brutto carattere» osservò. Più che una critica era una considerazione, perché anche a lei dicevano sempre che si scaldava per un nonnulla. Ma in confronto a Ethan Green, lei era Madre Teresa di Calcutta. «Non sono più com'ero prima» disse lui. Lena rispose con un'alzata di spalle. Non le importava sapere che tipo fosse. In quel momento voleva soltanto capire perché Jeffrey la ritenesse in qualche modo coinvolta nella storia di Andy Rosen. Jill Rosen gli aveva forse detto qualcosa? Come poteva scoprirlo? «Dunque» ricominciò Ethan, come se l'argomento fosse chiuso. «Tu conoscevi bene Andy?» Lena si rimise in guardia. «Perché me lo chiedi?» «Ho sentito quel che ha detto lo sbirro a proposito delle tue mutande.» «Per prima cosa non ha affatto detto mutande.» «E per seconda?» «Per seconda non sono fatti che ti riguardano.» Sorrise un'altra volta. Forse pensava che gli donasse, forse era affetto da una sorta di tic. Lena lo osservò senza dire nulla. Era piuttosto basso, ma riusciva a compensare la statura grazie alla muscolatura armoniosa e alla figura proporzionata. Non aveva le braccia gonfie di Chuck, ma i deltoidi risaltavano mentre giocherellava con la bustina del tè dentro la tazza. Il collo era vigoroso, ma non grosso. Anche il viso era tonico, con la mascella compatta e gli zigomi che spuntavano come granito levigato. C'era un che di affascinante nel modo in cui perdeva e recuperava il controllo. In un'altra occasione, Lena si sarebbe divertita a fargli superare il limite. Lui disse: «Sei ispida come un porcospino. Te l'ha mai detto nessuno?». Non rispose. A dire la verità, Sibyl glielo diceva sempre. Come al solito il pensiero di Sibyl le inumidì gli occhi, abbassò lo sguardo e cominciò a mescolare il caffè nella tazza, fissando la pellicola che si formava sui bordi. Alzò il viso solo quando fu certa di essere riuscita a ricacciare indietro la commozione. Ethan aveva scelto un nuovo locale in voga vicino al campus. Era piccolo e già affollato a quell'ora. Si voltò, timorosa che Jef-
frey li avesse seguiti e li stesse osservando. Si sentiva ancora addosso la sua rabbia, ma la feriva soprattutto il modo in cui l'aveva guardata, come se lei fosse passata dall'altra parte della barricata. Non essere più nella polizia era un conto, ma ostacolare un'indagine - e forse essere addirittura coinvolta e mentire - significava entrare d'un balzo nella sua lista nera. Nel corso degli anni lo aveva fatto uscire dai gangheri più di una volta, ma oggi aveva senza ombra di dubbio perduto la sola cosa per cui si era dannata l'anima: il suo rispetto. A quell'idea un sudore freddo le gelò la pelle. Jeffrey la considerava davvero un elemento sospetto? Sapeva con che durezza affrontava le indagini, ma non si era mai trovata dall'altra parte, nel ruolo dell'inquisita. Con Jeffrey si poteva finire in cella per una risposta sbagliata, anche solo per un paio di notti, ad aspettare che lui decifrasse i suoi indizi. Lena non poteva permettersi di passare neppure un secondo in una cella chiusa a chiave. Per un poliziotto - anche un ex poliziotto - stare in cella era pericoloso. Che prove aveva contro di lei? Era impossibile che ci fossero le sue impronte nell'appartamento di Andy. Non sapeva neppure dove abitava. Ethan interruppe i suoi pensieri. «Questa storia riguarda la ragazza che è stata accoltellata, vero?» Lo guardò. «Cosa stiamo facendo qui?» Parve stupito. «Volevo solo parlare un po' con te.» «E perché? Perché hai letto quell'articolo sul giornale? Ti affascina l'idea che io sia stata violentata?» Lui si guardò in giro innervosito, forse perché Lena aveva alzato la voce. Lei pensò che forse avrebbe potuto moderare il tono, ma tutti lì dentro sapevano che lei aveva subito violenza. Non poteva pagare una coca al cinema senza che il coglione dietro il banco puntasse gli occhi sulle cicatrici che aveva sulle mani. Nessuno voleva parlare con lei di quello che le era successo, ma tutti se la godevano a spettegolare alle sue spalle. «Che cosa vuoi sapere?» gli chiese. «Hai bisogno di notizie fresche per qualche maledetta tesina?» Ethan cercò di alleggerire la tensione. «Andrebbe bene per sociologia. Ma io mi occupo di scienza dei materiali. Polimeri. Metalli. Composti. Materiali da frizione.» «Sono stata inchiodata al pavimento.» Gli mostrò le mani, voltandole perché potesse vedere che i chiodi le avevano trafitte da parte a parte. Fosse stata ancora scalza, gli avrebbe mostrato anche i piedi. «Mi ha drogato e violentato per due giorni di seguito. Che altro vuoi sapere?»
Lui scosse la testa, come a dire che era stato frainteso. «Io volevo solo offrirti un caffè.» «Bene allora, adesso l'hai fatto.» Svuotò la tazza in un sorso e il liquido caldo le bruciò lo stomaco. Posò la tazza sul tavolo e fece per alzarsi. «Arrivederci.» «No.» Con un movimento fulmineo Ethan allungò il braccio e serrò con forza le dita attorno al suo polso sinistro. Il dolore, quasi insopportabile, le salì in un baleno lungo il braccio. Lena rimase in piedi, senza cambiare espressione, anche se il male le attanagliava lo stomaco. «Per favore» disse Ethan, la mano ancora stretta attorno al polso. «Rimani ancora un attimo.» «Perché?» domandò lei, cercando di non alterare la voce. Se stringeva ancora, rischiava di spezzarle le ossa. «Non voglio che tu mi creda quel tipo di persona.» «Che tipo di persona sei?» domandò e intanto si guardò la mano. Lui attese ancora un attimo poi la lasciò andare. Lena non poté trattenere un piccolo sospiro di sollievo. Lasciò ciondolare la mano lungo il fianco senza controllare se le ossa o i tendini erano lesi. Il polso cominciò a martellare quando il sangue riprese a circolare, ma non voleva dare a Ethan la soddisfazione di vederla abbassare lo sguardo. «Che tipo di persona sei?» ripeté. «Il tipo di persona a cui piace chiacchierare con le belle ragazze» rispose con un sorriso poco rassicurante. Lei fece una risatina stridula e si guardò attorno. Il locale cominciava a svuotarsi. Il cameriere dietro il banco li stava guardando, ma quando Lena incrociò il suo sguardo andò subito alla macchina dell'espresso fingendo di pulirla. «Dai, siediti» disse Ethan. Lena lo fissò. «Mi dispiace di averti fatto male.» «E chi dice che mi hai fatto male?» disse, anche se le fitte al polso non cessavano. Tentò di muovere la mano, ma il dolore la bloccò. Doveva fargliela pagare. Non l'avrebbe passata liscia, per nessuna ragione al mondo. «Non voglio che tu sia arrabbiata con me.» «Neppure ti conosco. E nel caso tu non l'abbia notato, in questo momento ho altri problemi per la testa, quindi ti ringrazio per il caffè ma...» «Io conoscevo Andy.» Le ritornò alla mente l'immagine di Jeffrey e quello che aveva detto di
lei. Cercò di capire se Ethan stava mentendo, lo guardò in faccia, ma non riuscì a decifrare la sua espressione. Le minacce di Jeffrey la fecero decidere. «Che cosa sai di Andy?» domandò. «Siediti» disse. Era un ordine, più che un invito. «Ti sento benissimo anche da qui.» «Se rimani in piedi non parlo.» Si appoggiò alla spalliera e attese. Lei rimase in piedi accanto alla sedia, indecisa sul da farsi. Ethan era uno studente. Probabilmente era al corrente di una serie di pettegolezzi a cui lei non aveva accesso. Se fosse riuscita a raccogliere qualche informazione per Jeffrey, forse poteva indurlo a ricredersi su quelle accuse assurde. Le venne da sorridere all'idea di procurargli informazioni preziose per l'indagine. Jeffrey non faceva che insistere sul fatto che lei non era più un poliziotto. Lo avrebbe fatto pentire di averla tagliata fuori. «Perché sorridi?» domandò Ethan. «Non sorrido a te.» Girò la sedia e sedette a cavalcioni appoggiando le mani sulla spalliera, anche se la pressione le provocò una fitta bruciante al polso. C'era un che di esaltante nella capacità di controllare il dolore. Per una volta si sentiva forte. Lasciò penzolare la mano come se il dolore non esistesse. «Dimmi cosa sai di Andy.» Rimase in silenzio per un attimo, come se stesse riflettendo, poi ammise: «Non ne so molto». «Mi stai facendo perdere tempo.» Stava per alzarsi, ma lui allungò la roano per trattenerla. Questa volta non la toccò, ma il ricordo della sua stretta fu sufficiente per convincerla a rimanere seduta. Domandò: «Allora?». «Conosco qualcuno che lo conosceva bene. Un amico intimo.» «Chi?» «Ti sei mai fatta?» «E tu? Vai di ecstasy o di che altro?» «No» rispose quasi avvilito. «E tu?» «Tu che ne dici?» rispose con asprezza. «E Andy?» Ethan la fissò, come se cercasse di capire che tipo era. «Sì.» «E tu come lo sai, se ne sei fuori?» «Sua madre lavora al centro di igiene mentale. E la voce che circola è che non sa dare una mano neppure a suo figlio.» Pur avendo pensato la stessa cosa, Lena sentì il bisogno di prendere le difese di Jill Rosen. «A volte non si può fare più di tanto per gli altri. Può
darsi che Andy non volesse smettere. O forse non ne aveva la forza.» Parve incuriosito. «Tu credi?» «Non saprei» rispose, anche se ora, dopo lo stupro, poteva capire il fascino delle droghe. «A volte si vuole solo scappare. Smettere di pensare.» «Sì, ma dura poco.» «Ne parli come se ne sapessi qualcosa.» Gli guardò le braccia, ancora coperte dalle maniche lunghe, nonostante dentro il locale facesse caldo. D'un tratto se lo ricordò alla lezione della settimana precedente. Anche allora portava una maglietta con le maniche lunghe. Forse aveva dei segni sulle braccia. Suo zio Hank aveva delle brutte cicatrici lasciate dagli aghi, ma lui ne andava quasi fiero, come se il fatto di avere mollato la droga lo rendesse un eroe e quei segni fossero le tracce di altrettante battaglie. Ethan notò che gli stava guardando le braccia. Si tirò giù le maniche fino ai polsi: «Diciamo solo che ho avuto qualche guaio». «D'accordo.» Lo studiò chiedendosi se potesse in qualche modo tornarle utile. Le sarebbe piaciuto scoprire i suoi precedenti penali - non c'era dubbio che uno come Ethan Green ne avesse - e sfruttarli per farsi dire quello che voleva sapere. Domandò: «Da quanto tempo sei al Grant Tech?». «Circa un anno» rispose. «Mi sono trasferito dall'università della Georgia.» «Perché?» «Non mi piaceva l'ambiente.» Alzò le spalle. Lena capì che era sulla difensiva. Forse lo avevano buttato fuori. «Volevo stare in un college più piccolo. L'università di stato è diventata una giungla. Crimini, violenza... stupri. Non è il posto che fa per me.» «E il Grant lo è?» «Preferisco i ritmi più lenti» disse. Ricominciò a giocare con il filtro del tè. «Non mi piaceva quello che ero diventato in quel campus.» Lena capì cosa intendeva, ma non disse niente. Una delle ragioni per cui aveva lasciato la polizia - oltre al fatto che Jeffrey le aveva dato un ultimatum - era stato il bisogno di una vita meno stressante. Non aveva previsto che lavorare con Chuck poteva essere per molti aspetti ancor più snervante. Avrebbe potuto raccontare qualche balla a Jeffrey e conservare il posto. Lui non le aveva mai chiesto di dimostrare che stava andando da uno strizza cervelli. Avrebbe potuto mentire e sistemare tutto senza rovinarsi la vita. Al diavolo, avrebbe finito per rovinarsela comunque. Meno di un'ora prima Jeffrey era pronto a portarsela via in manette.
Si sforzò di pensare a qualcosa che potesse metterla in relazione con Andy Rosen. Doveva esserci un errore. Forse nello studio di Jill Rosen aveva toccato qualcosa che poi era finito in camera di Andy. Era l'unica spiegazione. Quanto alle mutandine, bastava aspettare i risultati del test e Jeffrey sarebbe stato smentito. Ma cosa lo aveva spinto a credere che fossero sue? Avrebbe dovuto parlargli, invece di mandarlo al diavolo. Avrebbe dovuto dire a Ethan di farsi i fatti suoi. Era stato lui a far degenerare la situazione. Sperò con tutto il cuore che Jeffrey se ne fosse accorto. Sapeva di cosa era capace, quando ce l'aveva con qualcuno. Poteva farle passare dei guai, e non solo in città, anche al college. Si immaginò senza lavoro, senza casa e senza i soldi per mangiare. «Lena?» la richiamò Ethan. «Chi sarebbe questo amico intimo di Andy?» Lui scambiò per arroganza l'accento disperato che aveva nella voce. «Parli come un poliziotto.» «Io sono un poliziotto» rispose automaticamente. Ethan fece un sorriso malinconico, come se lei avesse appena ammesso una cosa che lo rattristava. «Ethan?» lo incalzò, perché non si accorgesse che era angosciata. «Mi piace come pronunci il mio nome» disse. «Come se lo mordessi.» Lei gli lanciò un'occhiata inferocita: «Chi è questo amico di Andy?». Lui rimase in silenzio e Lena capì che si divertiva a tenerla sulle spine. Adesso aveva la stessa espressione di quando stava per stritolarle il polso. «Smettila di prendermi per il culo» disse. «Ho già abbastanza gatte da pelare, senza che un moccioso deficiente si metta a fare il difficile con me.» Poi si calmò. Ethan era la sua unica carta per raccogliere informazioni su Andy Rosen. «Hai qualcosa da dirmi o no?» Lui serrò le labbra e non rispose. «Benissimo» disse. Fece per andarsene, sperando che non si vedesse che bluffava. «C'è una festa questa sera. Ci saranno anche degli amici di Andy. Anche il tipo di cui parlavo prima. Lui e Andy si vedevano spesso.» «Dov'è questa festa?» «Cosa credi, di potere andare lì e cominciare a fare domande?» disse lui in tono di superiorità. «E tu cosa credi di ottenere da me?» Sapeva che qualcosa doveva avere in mente. «Che cosa vuoi?» Ethan alzò le spalle, ma lei gli lesse la risposta negli occhi. Era evidente
che era attratto da lei, ma voleva avere il controllo della situazione. Lena poteva anche stare al gioco. Lo sapeva gestire molto meglio di un ragazzino di ventitré anni. Si appoggiò allo schienale della sedia. «Dimmi dov'è la festa.» «Siamo partiti col piede sbagliato. Mi dispiace per il tuo polso.» Lena se lo guardò, si stava formando un livido violaceo nei punti in cui le dita avevano compresso le ossa. Disse: «Non è niente». «Sembra che tu abbia paura di me.» Lo guardò incredula. «E perché dovrei avere paura di te?» «Perché ti ho fatto male» disse, indicando di nuovo il polso. «Non volevo. Ti chiedo scusa.» «Tu credi che, dopo quello che mi è successo l'anno scorso, io possa avere paura di un ragazzino che cerca di prendermi la mano?» Fece un risolino sprezzante. «Tu non mi fai paura, imbecille.» Di nuovo quell'espressione in bilico tra dottor Jekyll e mister Hyde. La mascella si mosse avanti e indietro come la pala di un bulldozer. «Allora?» disse Lena, chiedendosi fino a che punto poteva provocarlo. Se avesse solo provato a toccarla un'altra volta, era pronta a farlo volare a terra con un calcio. Provò a stuzzicarlo: «Ho ferito i tuoi sentimenti? Il piccolo Ethie ha voglia di piangere?». «Tu abiti nel pensionato dei docenti» disse lui con voce piatta e controllata. «Che cos'è? Una minaccia?» Rise. «Sai che roba. Hai scoperto dove vivo.» «Sarò lì questa sera alle otto.» «Davvero?» Cercò di capire cosa intendesse. «Passerò a prenderti» disse Ethan alzandosi in piedi. «Andremo al cinema, poi ti porterò alla festa.» «Ah. Tu credi?» «Io credo che tu abbia un dannato bisogno di parlare con l'amico di Andy.» «Se lo dici tu.» Non le andava di ammetterlo. «Cosa te lo fa pensare?» «Gli sbirri sono come i cani. Bisogna fare attenzione. Potresti incontrarne uno con la rabbia.» «Splendida metafora» disse con sarcasmo. «Ma io so badare a me stessa.» «A dire la verità era una similitudine.» Si passò sulla spalla lo zaino.
«Stasera raccogliti i capelli.» Lena si irrigidì. «Non ci penso neppure.» «Raccoglili» insistette. «Ci vediamo alle otto.» 7 Sara sedeva nell'atrio centrale del Grady Hospital, con lo sguardo fisso sulla marea di gente che entrava e usciva. L'ospedale era stato costruito più di cent'anni prima e da allora era in continua espansione. Una piccola struttura di una manciata di stanze, nata per assistere gli indigenti della città, ora ospitava quasi mille posti letto e formava più del venticinque percento dei medici della Georgia. Da quando ci aveva lavorato Sara, all'edificio principale si erano aggiunti nuovi reparti, ma non era stato fatto molto per armonizzare il vecchio col nuovo. Il nuovo atrio era enorme, tutto marmi e vetri, ma i vecchi corridoi avevano ancora le pareti a piastrelle verdi e i pavimenti pieni di crepe che risalivano agli anni Quaranta e Cinquanta, tanto che passare da una zona all'altra era come fare un salto nel tempo. Evidentemente la direzione era rimasta a corto di fondi prima di completare la ristrutturazione. L'atrio era privo di sedili, forse per evitare che la gente senza fissa dimora ci venisse a passare la giornata, ma Sara era riuscita a impadronirsi di una sedia vicino all'entrata. Dal punto in cui stava poteva osservare, attraverso le grandi porte a vetri, il viavai di chi terminava o dava inizio alla sua giornata. Anche se l'atrio aveva di fronte l'autosilo della Georgia State University, si riusciva ugualmente a intravedere il profilo degli edifici contro il cielo. Nuvole nere scivolavano sopra i tetti come gatti su una staccionata. C'erano gruppetti di persone sui gradini d'accesso, qualcuno fumava, altri chiacchieravano, per ammazzare il tempo in attesa dell'inizio del turno o dell'autobus che li avrebbe riportati a casa. Sara guardò l'orologio. Si domandò dove fosse finito Jeffrey. Le aveva dato appuntamento per le quattro ed erano già le cinque passate. Immaginò che fosse rimasto intrappolato nel traffico ma cominciò a temere che non venisse. Jeffrey era famoso per non saper calcolare il tempo. Sara teneva in mano il cellulare di sua madre ed era sul punto di chiamarlo, quando il telefono squillò. Rispose dicendo: «Siamo in ritardo». «Ritardo?» sospirò Hare. «Mi avevi detto che prendevi la pillola.» Sara chiuse gli occhi. L'ultima cosa di cui sentiva il bisogno in quel
momento era il suo stupido cugino. Gli voleva un bene da morire, ma Hare era affetto da un'incapacità patologica di prendere le cose sul serio. «Non ti ha detto niente la mamma?» gli chiese. «Certo» rispose, senza afferrare. «Come va in ospedale?» «Non fanno che frignare» si lamentò. «Non so come fai a sopportarlo.» «Dopo un po' ci si abitua» disse piena di comprensione. Le veniva ancora la pelle d'oca, se ripensava alla volta in cui un bimbette di sei anni che l'aveva incontrata al parcheggio del supermercato, era scappato via in lacrime riconoscendola per quella che faceva le punture. «Senza contare quell'altra che protesta di continuo.» Si mise a parlare in falsetto: «"Rimetti a posto quelle cartelle cliniche! Smettila di scarabocchiare sul ricettario! Sistemati la camicia! Tua madre lo sa che hai quel tatuaggio?" Dio del cielo, Nelly Morgan è insopportabile». Sara si lasciò sfuggire un sorriso pensando alla direttrice amministrativa. Nelly lavorava all'ospedale da un numero incalcolabile di anni, almeno da quando lei e Hare ci andavano come pazienti. «Comunque» continuò Hare. «Mi dicono che sarai di ritorno questa sera.» «Sì» ammise Sara, temendo di tirarsi la zappa sui piedi. Poi decise di non creargli difficoltà. «So che dovresti essere in vacanza. Se vuoi partire, posso riprendere domani.» «Oh, la mia piccola Pel di carota, non essere ridicola. Preferisco di gran lunga farti sentire in debito con me.» «Risultato ottenuto» disse Sara. Anche se gli era sinceramente grata, evitò di dilungarsi in ringraziamenti, per non dargli la soddisfazione di ironizzare anche su quello. «Immagino che questa sera dovrai lavorare su Greg Louganis.» Lei impiegò qualche secondo prima di capire di cosa stesse parlando. Greg Louganis era un campione di tuffi, medaglia d'oro alle olimpiadi. «Proprio così» disse. Poi, dato che Hare lavorava al pronto soccorso del Grant, domandò: «Tu hai conosciuto Andy Rosen?». «Immaginavo che me l'avresti domandato. È arrivato intorno a Capodanno con il braccio aperto come una banana split.» Hare non rinunciava mai al suo gergo da pronto soccorso che copriva tutte le possibili affezioni dell'essere umano. «Quindi?» «Quindi niente. L'arteria radiale era schizzata fuori come un elastico.» Sara lo aveva immaginato. Tagliarsi il braccio per il lungo non era il
modo migliore per suicidarsi. L'arteria radiale tendeva subito a richiudersi. C'erano modi più semplici per morire dissanguati. «Credi che fosse un tentativo serio?» «Un tentativo serio di attirare l'attenzione» disse Hare. «Mamma e papà erano sconvolti. Con quello scherzetto il nostro eroe ha potuto pascersi del loro tenero amore.» «Hai chiesto un consulto psichiatrico?» «La madre fa la strizzacervelli. Ha detto che se ne sarebbe occupata personalmente.» «È stata aggressiva?» «Certo che no. Era molto gentile. Ho pensato di calcare un po' la mano, per far sembrare la cosa più drammatica.» «Ma era veramente drammatica?» «Oh, valeva solo per i genitori. Se vuoi sapere il mio parere, il loro adorato piccolino era tranquillo come un papà.» «Credi che l'abbia fatto per attirare attenzione?» «Credo che l'abbia fatto per ricevere una macchina in regalo.» Fece schioccare la lingua. «E come volevasi dimostrare, una settimana dopo stavo portando a spasso il cane e chi ti vedo? Andy al volante di una Mustang nuova fiammante.» Sara si stropicciò gli occhi, cercando di far lavorare il cervello. Domandò: «Sei rimasto sorpreso quando hai saputo che si era suicidato?». «Molto» disse Hare. «Quel ragazzo era troppo egocentrico per suicidarsi.» Si schiarì la voce. «Che resti entre nous, mi raccomando. In francese vuol dire...» «Lo so cosa vuol dire» lo interruppe Sara, che non voleva sentire cosa le avrebbe propinato Hare. «Se ti viene in mente qualcos'altro fammelo sapere.» «D'accordo» disse in tono quasi deluso. «C'è altro?» Tirò un sospiro, come se fosse indeciso. «A proposito della tua assicurazione contro i rischi professionali...» Lasciò passare un po' di tempo, tanto per farle venire il batticuore. Sara sapeva che voleva solo stuzzicarla ma, come tutti i medici d'America, aveva un premio assicurativo superiore all'entità del debito pubblico. Alla fine disse: «Sì?». «Copre anche me?» domandò Hare. «Perché se ricorro ancora una volta alla mia, dovrò restituire il set gratuito di coltelli da cucina.»
Sara alzò gli occhi in direzione dell'entrata e con sorpresa vide Mason James che le veniva incontro, tenendo per mano un bimbo di due o tre anni. Disse a Hare: «Devo andare». «Come sempre.» «Hare» disse Sara. Mason si stava avvicinando. Notò solo allora che zoppicava. «Sì?» disse Hare. «Ascolta» cominciò, sapendo che si sarebbe pentita delle sue parole. «Ti ringrazio per avermi sostituita.» «È stato un piacere.» Ridacchiò e chiuse la linea. Mason la salutò con un sorriso caloroso che gli illuminò la faccia. «Spero di non averti interrotto.» «Era solo Hare. Mio cugino.» Fece per alzarsi, ma lui le fece segno di rimanere seduta. «So che sei molto stanca. Questo è Ned» disse, alzando la mano del piccolo. Sara sorrise al bambino. Pensò che assomigliava molto al padre. «Quanti anni hai, Ned?» Ned mostrò due ditini, Mason si chinò e gliene fece mostrare un altro. «Tre» disse Sara. «Sei alto, per tre anni.» «E ha tanto sonno» disse Mason, arruffandogli i capelli. «Come sta tua sorella?» «Meglio» rispose, ma si sentì montare le lacrime agli occhi. A parte le poche parole che aveva detto a lei, Tessa si rifiutava di parlare. Stava per gran parte del tempo sveglia, con lo sguardo inchiodato alla parete. «Ha ancora dolori, ma si sta riprendendo bene» aggiunse. «Magnifico.» Ned si avvicinò a Sara a braccia aperte. I bambini erano spesso attratti da lei e questo le facilitava il lavoro, dato che doveva spesso convincerli a farsi punzecchiare. Infilò in tasca il cellulare e lo prese in braccio. «Sa riconoscere le belle donne» fu il commento di Mason. Lei sorrise ignorando il complimento e si sistemò Ned sulle ginocchia. «Da quando sei zoppo?» «Il morso di un bambino.» Rise. «Medici senza frontiere.» «Caspita» disse lei colpita. «Stavamo facendo le vaccinazioni, in Angola. Incredibile, un bimbetto mi ha staccato un pezzo di polpaccio.» Si chinò per allacciare una scarpa a
Ned. «Due giorni dopo parlavano già di amputarmi la gamba per bloccare l'infezione.» La guardò con uno sguardo malinconico. «Ho sempre pensato che anche tu saresti finita a fare qualcosa di simile.» «Amputare gambe?» domandò, ma aveva capito cosa intendeva. «Le zone rurali sono servite male» gli ricordò. «I miei pazienti possono contare solo su di me.» «E sono fortunati,» «Grazie.» Quello era il genere di complimento che poteva accettare. «Non riesco a credere che tu faccia il medico legale.» «Mio padre mi ha preso in giro per tre anni.» Scosse la testa e rise. «Non stento a crederlo.» Ned cominciò ad agitarsi e Sara gli fece cavalluccio col ginocchio. «È un lavoro che mi piace. È una bella sfida.» Mason si guardò in giro. «Potevi trovare le tue sfide anche qui.» Fece una pausa. «Sei un medico in gamba, Sara. Dovevi fare il chirurgo.» Sorrise imbarazzata. «Lo dici come se mi stessi sprecando.» «Tutt'altro. Penso solo che è un peccato che te ne sia andata.» Ci rifletté un attimo poi aggiunse: «Qualunque sia stata la ragione». Le prese la mano e la strinse dolcemente. Lei ricambiò la stretta, poi domandò: «Tua moglie come sta?». Lui rise, ma non lasciò andare la mano. «Si gode la casa tutta per sé, adesso che abito all'Holiday Inn.» «Vi siete separati?» «Da sei mesi. Stare insieme era diventato un problema.» Sara guardò Ned. Sapeva che i bambini capivano più di quanto immaginavano gli adulti. «È definitivo?» Mason fece un sorriso forzato. «Temo di sì.» «E tu?» domandò poi, con una punta di ansia nella voce. Mason aveva cercato di mantenere il rapporto con Sara anche dopo che se n'era andata dal Grady, ma non aveva funzionato. Lei aveva preferito tagliare ogni legame con Atlanta, per non complicarsi la vita in provincia. Cercò di rispondere alla domanda di Mason, ma il suo rapporto con Jeffrey era così confuso che non sapeva come definirlo. Alzò gli occhi verso l'uscita: aveva avvertito la sua presenza prima ancora di vederlo. Si alzò e strinse Ned contro la spalla. Jeffrey non sorrise quando li raggiunse. Doveva essere sfinito quanto lei. Sara ebbe l'impressione che il numero di capelli grigi che aveva alle tempie fosse aumentato.
«Salve» disse Mason, porgendogli la mano. Jeffrey la strinse e guardò Sara di sottecchi. «Questo è Mason James» cominciò lei, passandosi Ned sull'altro braccio, «eravamo colleghi quando lavoravo qui.» Poi, senza pensarci, disse a Mason: «Questo è Jeffrey Tolliver, mio marito». Mason fece una faccia stupita, non molto diversa da quella di Jeffrey, ma nessuno dei due osò contraddirla. «Piacere» disse Jeffrey, senza fare precisazioni. Mise in mostra un sorriso così soddisfatto, che Sara fu tentata di chiarire la situazione. Jeffrey indicò il bambino. «E questo chi è?» «Ned» spiegò Sara, sorpresa che lo accarezzasse. «Ciao, Ned» disse, chinandosi a guardarlo. Sara non si aspettava tanto calore, Quando avevano cominciato a stare insieme, lei aveva subito chiarito che non poteva avere figli e si era domandata spesso se Jeffrey tendesse a ignorare i bambini per non ferirla. Ma adesso si era messo a fare le boccacce per far ridere Ned. «Bene» disse Mason, prendendo in braccio il figlio. «Sarà meglio che lo riporti a casa, prima che si trasformi in una zucca.» Sara disse: «Mi ha fatto piacere rivederti». Seguì un lungo silenzio imbarazzato, durante il quale lei ebbe modo di osservare i due uomini. I suoi gusti erano notevolmente cambiati da quando stava con Mason, che era biondo e con una corporatura robusta, frutto di un'assidua attività in palestra. Jeffrey aveva un corpo slanciato da corridore e una carnagione scura con dei bei lineamenti, che lo rendevano pericolosamente sexy. «Aspetta un momento» cominciò Mason frugandosi in tasca. «Ho fatto fare una chiave del mio ufficio. È il 1242, ala sud.» Tirò fuori la chiave e la offrì a Sara. «Ho pensato che tu e la tua famiglia potreste usarlo per riposarvi un po'. Non è facile trovare un angolo appartato in ospedale.» «Oh» fece Sara senza prendere la chiave. Jeffrey si era irrigidito. «Non vorrei disturbare.» «Non è affatto un disturbo. Davvero.» Le infilò la chiave nella mano, lasciando indugiare le dita più del necessario. «Il mio vero ufficio è alla Emory. Qui ho solo una scrivania e un divano per sbrigare il lavoro burocratico.» «Ti ringrazio» disse Sara. Non poteva rifiutare. Infilò la chiave in tasca e Mason porse di nuovo la mano a Jeffrey. «Piacere di averti conosciuto, Jeffrey» disse. Jeffrey gli strinse la mano con meno reticenza di prima. Aspettò che Sa-
ra e Mason si salutassero, senza lasciarsi sfuggire un solo gesto. Quando Mason finalmente se ne fu andato, commentò: «Simpatico» allo stesso modo in cui avrebbe potuto dire: «Rompiballe». «Sì» ammise Sara dirigendosi all'uscita. Sentiva aria di burrasca e non voleva che si scatenasse nell'atrio dell'ospedale. «Mason» disse Jeffrey, pronunciando il nome come se fosse un boccone dal sapore sgradevole. «Era quello con cui stavi quando lavoravi qui?» «Mmh» fece lei, aprendo la porta a una vecchia coppia che stava entrando. «È passato tanto tempo.» «Già» disse lui. Affondò le mani nelle tasche. «Sembra un tipo simpatico.» «Lo è» confermò lei. «Hai la macchina nell'autosilo?» Annuì. «Un bell'uomo.» Lei uscì sul piazzale. «Sì.» «Ci sei andata a letto?» Sara rimase di stucco e non rispose. Cominciò ad attraversare la strada in direzione del parcheggio sperando che la facesse finita. Lui accelerò il passo per raggiungerla. «Perché non ricordo che tu abbia fatto dei nomi, quando ci siamo scambiati l'elenco.» Lei rise, incredula. «Non riuscivi a ricordare neppure la metà delle tue, bello mio.» Le lanciò un'occhiata cattiva. «Non c'è niente da ridere.» «Oh, per l'amor del cielo» protestò, incapace di credere che facesse sul serio. «Te ne sei fatte tante, prima di sposarti, che avresti potuto candidarti al Guinness dei primati.» All'entrata dell'autosilo c'era un gruppetto di persone in attesa e Jeffrey si fece strada senza dire una parola, superando la porta senza trattenerla per Sara. «È sposato» disse lei, sgusciando dentro. La voce echeggiò su per le scale di cemento. «Anch'io lo ero» precisò lui, ma a lei non parve che la cosa deponesse a suo favore. Jeffrey si fermò al primo pianerottolo per darle tempo di raggiungerlo. «Non lo so Sara, mi faccio tutta quella strada, e ti trovo che stringi la mano a un altro e ti tieni il suo marmocchio sulle ginocchia.» «Sei geloso?» Rise, anche se era sconcertata. Non aveva mai immaginato che Jeffrey potesse essere geloso, soprattutto perché era troppo egocentrico per pensare che la donna che lui voleva potesse interessarsi a qualcun
altro. «Mi vuoi dare una spiegazione?» «Francamente no» rispose, ancora convinta che da un momento all'altro avrebbe ammesso che la stava prendendo in giro. Jeffrey continuò a salire le scale. «Se vuoi metterla così.» Sara si arrampicò dietro di lui. «Io non ti devo nessuna spiegazione.» «Sai cosa ti dico?» disse lui senza fermarsi. «Lasciami perdere.» La rabbia inchiodò Sara. «Sei talmente presuntuoso che riesci a pensare solo a te stesso.» Lui la guardò come se fosse stato colto in fallo. Sara capì di aver fatto centro e questo la rabbonì. Mosse qualche passo verso di lui. «Jeff...» Neanche una parola. «Siamo tutti e due molto stanchi» disse Sara fermandosi un gradino più sotto. Jeffrey le voltò le spalle e affrontò un'altra rampa di scale. «Io sono a casa che ti pulisco la cucina e intanto tu...» «Non ti ho mai chiesto di pulirmi la cucina.» Al pianerottolo Jeffrey si fermò, appoggiandosi alla ringhiera di fronte al finestrone che dava sulla strada. Sara capì che doveva scegliere se arroccarsi sui suoi principi, e quindi passare nel silenzio più assoluto le quattro ore di macchina che li aspettavano, oppure cercare di placare il suo ego ferito e fare un viaggio sopportabile. Stava per cedere, quando vide Jeffrey inspirare a fondo sollevando le spalle, e poi espirare lentamente. Capì che si stava imponendo di calmarsi. «Come sta Tessie?» domandò. «Meglio» rispose lei, appoggiandosi alla ringhiera. «Sta facendo progressi.» «E i tuoi?» «Non lo so.» Per la verità non aveva voglia di affrontare l'argomento. Cathy sembrava più sollevata, ma suo padre era così infuriato, che Sara si sentiva attanagliare dai sensi di colpa ogni volta che lo guardava. Un rumore di passi annunciò la presenza di almeno due persone sopra le loro teste. Rimasero zitti fino a che non videro scendere due infermiere, incuranti del fatto che, da sotto, si aveva un panorama completo della loro biancheria intima. Quando furono passate Sara disse: «Siamo tutti stanchi. E spaventati». Jeffrey fissò l'entrata del Grady, che troneggiava di fronte all'autosilo
come la caverna di Batman. «Non deve essere facile per loro stare qui.» Lei scrollò le spalle e salì gli ultimi gradini per raggiungere il pianerottolo. «Come è andata con Brock?» «Bene, credo.» Rilassò del tutto le spalle. «Certo è un tipo inquietante.» Sara salì un'altra rampa. «Dovresti conoscere il fratello.» «Sì, me ne ha parlato» la raggiunse al pianerottolo. «Roger abita ancora in città?» «Si è trasferito a New York. Credo che faccia il rappresentante o qualcosa di simile.» Jeffrey fece una smorfia di disgusto esagerata, e lei capì che stava facendo uno sforzo per dimenticare la discussione di prima. «Brock non è male» disse Sara. Si sentiva quasi in dovere di prendere le difese dell'impresario di pompe funebri. Dan aveva subito gli scherni più feroci quando erano bambini, una cosa che lei non era mai riuscita a sopportare. Anche ora, all'ospedale, arrivavano ogni mese due o tre bambini che non erano malati, ma solo logorati dalle continue prepotenze che dovevano subire a scuola. «Sono curioso di vedere i risultati dei test tossicologici» disse Jeffrey. «Il padre di Andy pare convinto che ormai fosse a posto. La madre non ne è tanto sicura.» Lei sollevò un sopracciglio, piuttosto dubbiosa. I genitori erano quasi sempre gli ultimi ad ammettere che i figli si drogavano. «Già. Neanche a me convince Brian Keller» disse Jeffrey. «Keller?» domandò Sara superando un altro pianerottolo e cominciando a salire una nuova rampa di scale. «È il padre. Il figlio aveva preso il cognome della madre.» Lei interruppe la salita, più che altro per riprendere fiato. «Dove diavolo hai messo la macchina?» «Ultimo piano. Ne manca solo uno.» Sara afferrò la ringhiera per aiutarsi a salire. «Cosa c'è che non va nel padre?» «Nasconde qualcosa. Questa mattina sembrava che mi volesse parlare, ma quando la moglie è rientrata in soggiorno si è zittito.» «Lo sentirai di nuovo?» «Domani» disse. «Frank intanto raccoglierà qualche informazione in giro.» «Frank?» domandò Sara sorpresa. «Perché non lo fai fare a Lena? È nella posizione ideale per...»
La interruppe. «Non è un poliziotto.» Sara tenne la bocca chiusa e approdò davanti alla porta dell'ultimo piano con un sospiro di sollievo. Nonostante fosse già tardi, il piano era stipato di macchine di ogni marca e modello. Fuori si preparava un temporale, il cielo era di un nero minaccioso. Quando si avvicinarono alla macchina di Jeffrey, i fanalini di sicurezza si accesero. C'era un gruppo di ragazzi nerboruti radunato intorno a una grossa Mercedes nera. Se ne stavano a braccia conserte e si scambiarono occhiate d'intesa quando Jeffrey li superò. Avevano capito che era un poliziotto. Mentre aspettava che lui aprisse la portiera, Sara ebbe un tuffo al cuore, spaventata senza ragione. Una volta in macchina si sentì protetta e al sicuro, circondata dal morbido bozzolo azzurro dei sedili. Guardò Jeffrey che passava davanti al cofano per raggiungere il suo posto, tenendo gli occhi iissi sul gruppetto di teppisti accanto alla Mercedes. Quel modo di squadrarsi aveva un significato, Sara lo sapeva. Se i ragazzi capivano che Jeffrey era spaventato, avrebbero fatto qualcosa per provocarlo. Se Jeffrey decideva che erano vulnerabili, poteva cedere alla tentazione di forzare la situazione. «La cintura» ricordò a Sara chiudendo la portiera. Lei ubbidì e fece scorrere la bretella sopra la spalla. Non disse nulla per tutta la durata della discesa. Quando furono in strada appoggiò la testa sul palmo della mano e rimase a guardare la città che scivolava via, pensando a come era tutto cambiato dall'ultima volta che era stata lì. Gli edifici erano più alti e le sembrava che le auto sulla corsia opposta passassero troppo vicino. Non era più una cittadina. Aveva voglia di tornare nella sua piccola comunità, dove tutti si conoscevano, o almeno così pensavano. Jeffrey disse: «Mi dispiace di avere fatto tardi». «Non ha importanza.» «Ellen Schaffer» cominciò. «La testimone di ieri.» «Ti ha detto qualcosa?» «No» rispose. Fece una pausa prima di continuare. «Si è uccisa questa mattina.» «Cosa? Perché non me l'hai detto?» «Te lo sto dicendo.» «Mi dovevi chiamare.» «E cosa avresti fatto?» «Sarei tornata.»
«È quello che stai facendo.» Sara cercò di trattenere l'irritazione. Non le andava di sentirsi protetta. «Chi ha stilato il certificato di morte?» «Hare.» «Hare?» ripeté, indispettita che anche il cugino si fosse ben guardato dal dire qualcosa al telefono. «Ha trovato qualcosa? Che cosa ha detto?» Jeffrey si portò l'indice al mento e imitò la voce di Hare, più acuta di un paio di ottave. «Guarda guarda, manca qualcosa.» «E cosa mancava?» «La testa.» Lei reagì con un mugugno. Odiava le ferite alla testa. «Sei sicuro che si tratti di suicidio?» «È quello che dobbiamo scoprire. Ha usato una cartuccia del calibro sbagliato.» Sara ascoltò il racconto di quello che era successo nella mattina, dal colloquio con i genitori di Andy Rosen al ritrovamento del cadavere di Ellen Schaffer. Lo interruppe alla freccia che Matt aveva notato per terra, tracciata di fronte alla finestra di Ellen. «È quello che ho fatto io» disse. «Ho marcato il sentiero, quando stavo cercando Tessa.» «Lo so» disse Jeffrey, ma non andò oltre. «Per questo non me lo hai voluto dire?» domandò. «Non mi va che tu mi tenga all'oscuro di quello che succede. Non sta a te decidere...» La interruppe con un'irruenza inaspettata: «Voglio che tu stia attenta, Sara. Non mi va che tu vada in giro per il campus da sola. E preferisco che tu non ti faccia vedere sulla scena di un crimine. Mi hai capito?». Lei non rispose, colpita dalle sue parole. «E non rimarrai in casa da sola.» A quel punto non poté trattenersi: «Aspetta un momento...». «Dormirò sul divano, se è questo che ti preoccupa. Non sto cercando di convincerti a dormire con me. Semplicemente, in questo momento non posso preoccuparmi anche di un'altra persona.» «Credi di doverti preoccupare per me?» «Tu credevi di doverti preoccupare per Tessa?» «Non è la stessa cosa.» «Quella freccia può voler dire tante cose. In modo indiretto potrebbe voler indicare te.» «Un sacco di gente fa dei segni per terra.» «Pensi che sia solo una coincidenza? La testa di Ellen Schaffer è saltata
via.» «Sempre che non se la sia fatta saltare lei.» «Non interrompermi.» Sara si sarebbe volentieri messa a ridere, ma capì che era sinceramente preoccupato per lei. «Ho detto che non ti permetterò di rimanere sola.» «Jeffrey, non siamo nemmeno sicuri che si tratti di un omicidio. A parte qualche particolare che non torna - e che peraltro si può spiegare facilmente - tutto fa pensare a un suicidio.» «Quindi tu credi che Andy si sia ucciso, che Tessa sia stata accoltellata, che questa ragazza si sia suicidata stamattina, e che fra i tre episodi non esista alcuna relazione?» Anche lei lo riteneva improbabile, ma rispose: «È possibile». «Certo, come no, tutto è possibile, però tu questa sera non rimarrai sola. È chiaro?» Lei si limitò a tacere. «Non so che altro fare, Sara. Non posso pensare che tu corra dei rischi. Non sarei più in grado di lavorare.» «Va bene.» Lo disse per dimostrargli che aveva capito, ma in quel momento la cosa che desiderava di più era di tornare finalmente a casa, a dormire nel suo letto, da sola. «Se poi verrà fuori che non esiste un nesso, potrai darmi del cretino.» «Non ti stai comportando da cretino.» Sapeva che la preoccupazione di Jeffrey era sincera. «Dimmi perché sei arrivato in ritardo. Hai scoperto qualcosa?» «Mi sono fermato alla bottega dei tatuaggi per parlare con il proprietario.» «Hal?» Jeffrey le lanciò un'occhiata e imboccò la statale. «Come mai conosci Hal?» «È stato un mio paziente tanto tempo fa» disse Sara reprimendo uno sbadiglio. Poi, tanto per dimostrargli che non sapeva tutto di lei, aggiunse: «Tessa e io avevamo deciso di farci fare un tatuaggio qualche anno fa». «Un tatuaggio?» domandò scettico. «Perché?» Lei gli lanciò un sorriso imbarazzato. «E come mai avete cambiato idea?» Sara si girò sul sedile per poterlo guardare. «Il fatto è che il tatuaggio non va bagnato per un po'. E noi il giorno dopo volevamo andare alla spiaggia.»
«Che cosa avevi scelto?» «Oh, non mi ricordo» mentì. «E dove volevi farlo?» Alzò le spalle. «Capisco» disse, ancora perplesso. «Cosa ti ha detto Hal?» Jeffrey incrociò il suo sguardo per qualche secondo prima di rispondere. «Che non fa tatuaggi a ragazzi sotto i ventun anni, se prima non ha parlato con i genitori.» «È una buona idea» disse, pensando che la decisione dipendesse dal desiderio di arginare il fiume di telefonate da parte dei genitori furibondi. Soffocò un altro sbadiglio. Il movimento della macchina la cullava dolcemente, inducendola al sonno. «Potrebbe comunque esserci una relazione» disse Jeffrey senza troppa convinzione. «Andy aveva i piercing. Ellen il tatuaggio. Forse se li erano fatti fare insieme. Esistono tremila studi dove eseguono tatuaggi tra qui e Savannah.» «Cosa hanno detto i genitori?» «È difficile fare domande dirette. A quanto pare non ne sapevano nulla.» «Non sono cose per cui un figlio chiede il permesso ai genitori.» «Immagino di no» ammise. «Se Andy Rosen fosse ancora vivo, sarebbe il mio primo sospetto. Aveva un'ossessione per Ellen.» Fece una faccia contrariata. «Ti auguro di non vedere mai quel quadro.» «Sei sicuro che non si conoscessero?» «Cosi dicono le amiche. Al pensionato tutte sostengono che molti ragazzi erano cotti di Ellen, ma lei non se ne accorgeva neppure. Ho parlato con l'insegnante di pittura. Lo aveva notato anche lui. Andy le moriva dietro, e lei non sapeva neanche chi fosse.» «Era una ragazza attraente.» Sara non ricordava molto di quello che era successo prima dell'aggressione a Tessa, ma la bellezza di Ellen Schaffer l'aveva colpita. «Potrebbe trattarsi di un rivale geloso» disse Jeffrey, con un tono tutt'altro che convinto. «Un ragazzo innamorato di Ellen che ha fatto fuori Andy.» Fece un pausa, per elaborare l'ipotesi. «Poi, visto che continuava a dargli di lungo, ha ucciso anche lei.» «È possibile» disse Sara, ma si domandò come c'entrasse l'aggressione a Tessa. «Forse Ellen Schaffer aveva visto qualcosa nel bosco» continuò Jeffrey.
«Qualcosa o qualcuno.» «Forse invece, chi aspettava nel bosco ha pensato che avesse visto qualcosa.» «Credi che Tessa ricordi qualcosa di quello che è successo?» «L'amnesia è una conseguenza abbastanza comune di quel tipo di trauma cranico. Dubito che riuscirà mai ad avere dei ricordi precisi, tutt'al più delle impressioni che non reggerebbero a un controllo incrociato.» Da parte sua si augurava che non arrivasse mai a ricordare. Era già troppo che avesse perso il bambino. Non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe stato per lei, vivere con quei particolari impressi nella memoria. Portò di nuovo il discorso su Ellen Schaffer. «Qualcuno ha notato qualcosa?» «Tutte le ragazze erano fuori.» «Neanche una che fosse a letto malata?» Cinquanta studentesse che andavano tutte diligentemente a lezione era un fenomeno così insolito da meritare di finire sui giornali. «Le abbiamo interrogate tutte» disse Jeffrey. «Ognuna aveva una spiegazione.» «Che edificio è?» «Keyes House.» «Ah, lì ci stanno le prime della classe.» Questo spiegava come mai erano tutte a lezione. «Nessun altro nel campus ha sentito lo sparo?» «Qualcuno ha ammesso di avere sentito un rumore che sembrava lo scoppio di uno scappamento.» Tamburellò con le dita sul volante. «Ha usato un fucile a pompa calibro dodici.» «Mio Dio!» esclamò Sara immaginando il risultato. Jeffrey allungò la mano sul sedile posteriore e sfilò dalla borsa una cartelletta. «Tiro ravvicinato» disse recuperando una fotografia a colori. «Probabilmente aveva il fucile in bocca. La testa potrebbe avere attutito il rumore come un silenziatore.» Sara accese la luce sopra il cruscotto per vedere la fotografia. Era peggio di quanto avesse immaginato. «Gesù» mormorò. L'autopsia sarebbe stata difficile. Guardò l'orologio sulla radio. Non sarebbero arrivati a Grant prima delle otto, traffico permettendo. Le autopsie potevano portar via tre o quattro ore ciascuna. Inviò un muto ringraziamento a Hare che si era offerto di sostituirla anche il giorno dopo. Visto come si erano messe le cose, aveva bisogno di un'intera
giornata di sonno. «Sara?» la riscosse Jeffrey. «Scusami» disse, prendendogli la cartelletta. La aprì, ma gli occhi non riuscivano a mettere a fuoco le parole. Decise di concentrarsi sulle immagini, lasciò perdere la foto con la freccia sul terreno e cercò quelle della scena del delitto. «Qualcuno potrebbe essersi infilato dalla finestra» spiegò Jeffrey. «Forse era già nella stanza, magari nascosto nell'armadio. Lei va in bagno in fondo al corridoio, ritorna e... boom! Se lo trova davanti.» «Avete trovato impronte?» «Poteva avere i guanti» disse, senza rispondere alla domanda. «Di solito le donne non si sparano in faccia» osservò Sara guardando un primo piano della scrivania di Ellen. «È più probabile che lo faccia un uomo.» Aveva sempre considerato un po' sessista quel dato statistico, ma i numeri parlavano chiaro. «C'è qualcosa che non va, in questo caso.» Jeffrey indicò la fotografia. «Non solo per la freccia. Lasciamola perdere per ora, e lasciamo fuori anche Tessa. Nella dinamica dello sparo c'è qualcosa che non torna.» «Cosa?» «Vorrei potertelo dire. È lo stesso che con Andy Rosen. Non ho elementi concreti eppure so che qualcosa non va.» Sara pensò a Tessa nel suo letto d'ospedale. Sentiva ancora le sue parole, che le ordinavano di trovare il responsabile di tanta malvagità. La fotografia della camera di Ellen le fece ripensare al giorno in cui aveva accompagnato Tessa al Vassar College, per aiutarla a sistemarsi. La sua camera era come quella di Ellen. Gli stessi poster del WWF e di Greenpeace fissati al muro con le puntine da disegno, insieme alle foto di attori strappate da qualche rivista. Il calendario tra le due scrivanie, con le date importanti cerchiate in rosso. L'unica cosa che non corrispondeva era l'occorrente per pulire il fucile abbandonato sul ripiano. Tornò a guardare il rapporto. Sapeva che leggere senza occhiali le avrebbe procurato un mal di testa, ma aveva bisogno di fare qualcosa. Quando terminò di rivedere la nota informativa di Jeffrey sulla morte di Ellen Schaffer, le martellavano le tempie e aveva lo stomaco in subbuglio. Jeffrey domandò: «Cosa ne pensi?». «Penso...» Abbassò gli occhi sulla cartelletta. «Non lo so. Entrambe le morti potrebbero essere una messinscena. La Schaffer potrebbe essere stata colta di sorpresa. Forse è stata colpita dietro la testa. Ma chissà dov'è, il
dietro della sua testa.» Tirò fuori altre fotografie e cercò di disporle con un certo ordine. «È distesa sul divano. Potrebbero avercela messa. Il braccio non è abbastanza lungo per raggiungere il grilletto, quindi usa l'alluce. Questo non è insolito. Alcuni ricorrono al gancio di un appendiabiti.» Tornò a guardare il rapporto per rileggere le annotazioni di Jeffrey sul calibro della cartuccia. «Sapeva che è pericoloso usare la munizione sbagliata?» «Ho parlato col suo istruttore. Secondo lui Ellen era molto scrupolosa col fucile. Ma che senso ha una squadra femminile di tiro in un college?» «Articolo nove» spiegò Sara. Alludeva alla legislazione che obbligava le università a garantire alle donne l'accesso a tutti gli sport praticati dagli uomini. Se il provvedimento fosse stato in vigore anche quando Sara era alle superiori, la squadra femminile di tennis avrebbe avuto a disposizione il campo, almeno per qualche ora. Invece erano costrette a tirare palle contro il muro della palestra, sempre che non ci fossero gli allenamenti della squadra maschile di pallacanestro. «Mi sembra positivo che abbiano l'opportunità di imparare un nuovo sport.» Inaspettatamente Jeffrey si dichiarò d'accordo. «È un'ottima squadra. Ha vinto un sacco di tornei.» «Quindi, chi sapeva che Ellen faceva parte della squadra, sapeva anche che possedeva un fucile.» «Può darsi.» «Lo teneva in camera?» «Già. Anche la sua compagna di stanza. È anche lei nella squadra.» Sara pensò al fucile. «Hai già preso le impronte?» «Lo ha fatto Carlos» disse. Poi anticipò la domanda successiva. «Le impronte di Ellen sono sulla canna, sulla pompa e su quel che resta della cartuccia.» «Una sola cartuccia?» domandò Sara. «Per quel che ne so, il fucile a pompa ha un caricatore per tre cartucce. Quando si pompa la prima, si inserisce automaticamente nella camera la cartuccia successiva.» «Lo so» disse Jeffrey. «Una sola cartuccia, del calibro sbagliato, e il riduttore per restringere la canna.» «L'impronta dell'alluce combacia con quella sul grilletto?» «Non mi è neanche venuto in mente di controllare» ammise Jeffrey. «Lo faremo prima dell'autopsia. Credi che qualcuno l'abbia costretta a caricare il fucile, forse qualcuno che non ne sapeva molto di armi?»
«La prima cartuccia ha buone probabilità di incastrarsi nella canna. Se non ne aveva un'altra nel caricatore, poteva guadagnare un po' di tempo. Poteva addirittura girare il fucile e usarlo per colpire l'aggressore.» «E la cartuccia non sarebbe esplosa nella canna?» «Non necessariamente. Con il caricatore pieno, la seconda avrebbe colpito la prima e sarebbero esplose entrambe vicino alla camera.» «Forse per questo ne ha inserita solo una.» «O era molto intelligente, o molto stupida.» Sara continuò a guardare le fotografie. Gran parte dei casi che esaminava erano suicidi e questo era del rutto simile agli altri. Se Andy Rosen non fosse morto il giorno prima e Tessa non fosse stata accoltellata, lei e Jeffrey non si sarebbero posti tutte quelle domande. Anche il graffio sulla schiena di Andy non sarebbe bastato ad avviare un'indagine approfondita. Sara domandò: «Quale può essere la relazione fra i tre episodi?». «Non lo so» disse Jeffrey. «Tessa è la carta spaiata. Schaffer e Rosen hanno in comune il corso di pittura, ma quello è...» «Schaffer è un cognome ebreo?» lo interruppe Sara. «Rosen lo è. Schaffer non saprei.» Sara si sentì invadere dall'angoscia. «Andy Rosen è ebreo. Ellen Schaffer potrebbe esserlo. Tessa ha una relazione con un nero. Non solo, aspetta un figlio da lui.» «Cosa vuoi dire?» esclamò Jeffrey, ma lei capì che la stava seguendo. «Andy è stato spinto o è saltato giù da un ponte su cui c'erano delle scritte razziste.» Jeffrey fissò la strada senza parlare per almeno un minuto. «Tu credi che il nesso stia lì?» «Non lo so» rispose Sara. «Sul ponte c'era una svastica.» «Ma la scritta diceva: "Crepa negro"» precisò Jeffrey. «Non alludeva agli ebrei.» «E la stella di Davide che avete trovato nel bosco?» «Forse Andy lo ha attraversato a piedi e l'ha perduta prima di suicidarsi. Non abbiamo nulla che la leghi all'aggressore di Tessa.» Si interruppe. «Resta il fatto che Rosen e Schaffer sono cognomi ebrei. Questo potrebbe essere il nesso.» «Ci sono un sacco di ragazzi ebrei nel campus.» «Questo è vero.» «Credi che in zona ci siano ancora dei fanatici che credono nella supremazia della razza ariana?»
«Chi altri potrebbe scrivere una stronzata simile vicino al campus?» Sara cercò di individuare le falle nella sua ipotesi. «La scritta però non è recente.» «Posso chiedere in giro, ma ha l'aria di essere stata fatta almeno due settimane fa.» «Quindi stiamo dicendo che due settimane fa qualcuno è venuto a scrivere quell'insulto completo di svastica, prevedendo che ieri avrebbe spinto Andy Rosen giù dal ponte e che io sarei arrivata con Tessa che doveva fare pipì e si è allontanata in modo da farsi accoltellare.» «L'ipotesi era tua» le ricordò Jeffrey. «Non ho detto che dovesse funzionare.» Si stropicciò gli occhi e aggiunse: «Sono così stanca che quasi non ci vedo». «Vuoi provare a dormire?» Ci provò, ma continuava a tornarle in mente Tessa e l'unica parola che aveva pronunciato: «Trovalo». Disse: «Lasciamo perdere l'ipotesi del razzismo. Diciamo che tutto è stato predisposto perché le morti sembrassero dei suicidi. Credi che sia giusto nascondere il fatto che due ragazzi sono stati assassinati?». «Vuoi la verità? Non lo so. Non voglio dare una falsa speranza ai genitori o scatenare il panico nel campus. Se si tratta di omicidi, cosa di cui non siamo sicuri, forse il colpevole commetterà qualche imprudenza e finirà per tradirsi.» Capì cosa intendeva dire. A dispetto di quello che comunemente si crede, è raro che un assassino voglia farsi prendere, ma uccidere è come una sfida estrema e ogni volta si tende a spostare più avanti il limite, riducendo i margini di sicurezza. Domandò: «Se fosse così, quale potrebbe essere il movente?». «L'unica cosa che mi viene in mente è la droga.» Sara stava per chiedere se la droga costituiva un problema nel campus, ma si rese conto che era una domanda stupida. Allora domandò: «Ellen si drogava?». «Ne dubito. Mi ha dato l'impressione della salutista fanatica.» Guardò nello specchietto retrovisore e passò sull'altra corsia. «Su Andy Rosen non siamo sicuri, forse si faceva, forse no.» «E quella storia del padre?» Jeffrey si accigliò. «Non so se fidarmi di Richard Carter. Lui ci sguazza nel torbido. Una cosa è certa, non sopportava Andy. Non mi stupirei se avesse messo in giro lui il pettegolezzo, per godersi le conseguenze.»
«Ma supponiamo che abbia ragione» disse Sara. «Se fosse Ellen l'amante di Keller?» «Non era una sua allieva. Non vedo come avrebbe dovuto conoscerlo. Senza contare che aveva un sacco di ragazzi della sua età pronti a buttarsi ai suoi piedi.» «Questo potrebbe essere un buon motivo per sentirsi attratta da un uomo più maturo, più affascinante.» «Non è il caso di Brian Keller. Non è esattamente Robert Redford.» «Hai chiesto in giro?» insistette. «Sei sicuro che non avessero punti di contatto?» «Non che io sappia. Comunque lo incontrerò domani. Ma era a Washington. L'ha verificato Frank questo pomeriggio.» Dopo un po' aggiunse: «Potrebbe avere assoldato qualcuno». «E il movente?» «Magari...» non terminò la frase. «Gesù, non ne ho idea. Continuiamo a ricadere sul movente. Perché uno fa una cosa simile? Cosa ci guadagna?» «Non sono molte le ragioni per cui si uccide» disse Sara. «Soldi, droga, gelosia, rabbia. Gli omicidi senza movente di solito portano a un serial killer.» «Merda» esclamò Jeffrey. «Non dirlo neppure.» «Devo ammettere che non mi sembra probabile, ma in questa storia non c'è niente che abbia un minimo di senso.» Sbuffò, era troppo stanca per capirci qualcosa. «Continua a tornarmi in mente quell'escoriazione sulla schiena di Andy. Forse troverò qualcosa con l'autopsia.» Appoggiò la testa sulla mano, rinunciando a ogni tentativo di essere logica. «Che altro c'è che ti preoccupa?» Intuì la risposta prima ancora che parlasse, dal modo in cui muoveva la mascella. «Lena.» Lei represse un sospiro e guardò dal finestrino. Essere preoccupato per Lena era una costante di Jeffrey. «Che cosa ha fatto?» chiese, trattenendosi dall'aggiungere questa volta. «Non ha fatto niente» disse. «O forse si. Non lo so.» Fece una pausa per riflettere. «Credo che conoscesse quel ragazzo, Rosen. Nel suo appartamento abbiamo trovato un libro della biblioteca con le sue impronte.» «L'avrà preso in prestito anche lei.» «No, abbiamo verificato sulla sua scheda.» «Ve l'hanno fatta vedere?» «A dire la verità non siamo passati attraverso la bibliotecaria» ammise.
Sara non voleva nemmeno immaginare che giro avesse fatto Jeffrey per dare un'occhiata alle schede degli utenti. Nan Thomas sarebbe andata in bestia se lo avesse saputo, e Sara non gliene avrebbe certo fatto una colpa. «Lena potrebbe avere preso il libro senza farlo registrare.» «Ti sembra il tipo che legge Uccelli di rovo?» «Non ne ho idea.» In effetti non era facile immaginare Lena impegnata a un'attività tanto sedentaria come la lettura, tanto più di una storia d'amore. «Glielo hai chiesto? Cosa ti ha detto?» «Niente» rispose. «Ho cercato di portarla via. Non ha voluto venire.» «Alla centrale di polizia?» Annuì. «Neppure io ci sarei venuta.» Parve sinceramente sorpreso. «E perché?» «Non essere ridicolo» disse, senza darsi la pena di rispondere. «Credi che Lena abbia qualcosa da nascondere?» «Non lo so.» Ticchettò con le dita sul volante. «Sembrava reticente. Mentre parlavamo sulla collina, dopo che tu e Tessa ve ne eravate andate, ho fatto il nome di Andy e lei ha reagito come se lo conoscesse. Quando gliel'ho chiesto, ha negato.» «Ti ricordi la sua reazione quando abbiamo girato il corpo?» «Lei non c'era» le ricordò Jeffrey. «È vero.» «Abbiamo trovato anche un'altra cosa nella camera del ragazzo. Un paio di mutandine da donna.» «Di Lena?» Si domandò come mai Jeffrey non gliene avesse parlato prima. «L'ho pensato, ma non ne sono sicuro.» «Com'erano?» «Non come quelle che porti tu. Più piccole.» Gli lanciò un'occhiata. «Grazie tante.» «Hai capito cosa voglio dire. Quelle sottili sul didietro.» «Un tanga?» «Forse. Di seta rosso scuro, con i bordi di pizzo.» «Mi sembra che con Lena c'entri quanto Uccelli di rovo.» Jeffrey alzò le spalle. «Non si sa mai.» «Sicuro che non fossero di Andy Rosen?» Parve valutare l'ipotesi. «Non possiamo escluderlo, considerando quello che si era fatto al...» non finì la frase.
«Potrebbe averle rubate alla Schaffer.» «Abbiamo trovato dei peli castani. La Schaffer era bionda.» Sara rise. «Non ci scommetterei.» Jeffrey rimase zitto per un momento. «Lena potrebbe essere andata a letto con Andy Rosen.» Le sembrava molto improbabile, ma con Lena non si poteva mai sapere. «Era con un ragazzo, quando ho cercato di portarla alla centrale. Uno stronzetto con un'aria da liceale. Forse si frequentano. Mi è sembrato che fossero insieme.» «Quindi secondo te sarebbe andata a letto con Andy Rosen mentre usciva con quel tizio?» Sara scosse la testa. «Con quello che ha patito l'anno scorso, non credo proprio che passi da un flirt all'altro. Ammesso che l'abbia mai fatto.» Incrociò le braccia appoggiandosi alla portiera. «Sei sicuro che le mutandine siano sue?» Jeffrey rimase zitto, come se fosse in dubbio se dirle o no qualcosa. «Cosa c'è?» domandò Sara. Poi ancora: «Jeff?». «C'era della... sostanza» disse. Sara non riusciva a spiegarsi come mai fosse tanto reticente. Probabilmente il fatto di conoscere Lena costituiva una sorta di tabù. Non era mai stato timido su quel genere di argomenti. Disse: «Anche se fosse sufficiente per fare un'analisi del DNA, per nessuna ragione al mondo Lena accetterebbe di farsi fare un prelievo per il confronto. Se ci desse qualcosa da analizzare, risolveremmo ogni dubbio e sarebbe finita». «Se non ha voluto venire alla centrale, figurati se si fa prelevare il sangue.» Assunse un tono indispettito. «Io voglio solo toglierla dai guai, Sara. Se non le va di farsi aiutare...» A Sara venne subito in mente la visita che aveva dovuto fare a Lena per certificare lo stupro, ma decise di non parlarne. Utilizzare il DNA ricavato dagli esami eseguiti in quel frangente, per stabilire un possibile legame tra lei e Andy Rosen, non le sembrava giusto. Sarebbe stata un'ulteriore violenza. Lena l'avrebbe considerato un tradimento. Chiunque l'avrebbe considerato un tradimento. «Sara?» Scosse la testa. «Sono solo stanca» disse, cercando di cancellare quella notte dalla sua mente. Il corpo di Lena era ridotto in un stato tale, che Sara aveva dovuto ricucirlo in molti punti. E dato che la ragazza era stata drogata, lei era stata costretta a ridurre al massimo i sedativi. Fino all'accoltella-
mento di Tessa, lo stupro di Lena era stato il momento più brutto di tutta la sua carriera. Domandò: «Che cosa potresti dimostrare, se la sostanza sul tanga fosse di Lena? Il fatto che lei sia andata a letto con Andy non prova che abbia qualcosa a che fare con la sua morte. O con le coltellate a Tessa». «E perché allora dovrebbe mentire?» «Mentire non significa essere colpevoli.» «Secondo la mia esperienza, mente soltanto chi ha qualcosa da nascondere.» «Fare sesso con uno studente significa rischiare il posto di lavoro.» «Lei odia Chuck. Dubito che gliene importi qualcosa di conservare quel posto.» «In questo momento non impazzisce neppure per te. Potrebbe aver mentito solo per farti dispetto.» «Non può essere tanto stupida da ostacolare un'indagine. Non per un caso così grave.» «Certo che può, Jeffrey. È inviperita e sta cercando un modo per ripagarti del fatto di averla cacciata...» «Io non l'ho...» Sara alzò le mani per fermarlo. Avevano già discusso tante di quelle volte, che le parve di sentire il resto della frase prima ancora che la pronunciasse. Alla fine, tutto si riduceva al fatto che Jeffrey era infuriato con Lena perché lo aveva deluso, ma questo non lo avrebbe mai ammesso. L'odio con cui lo ripagava Lena era una sorta di riflesso condizionato. Una situazione che sarebbe stata comica se Sara non si fosse sentita presa in mezzo. Disse: «Qualunque sia la ragione, Lena non mollerà di un centimetro. Mi pare che te lo abbia ampiamente dimostrato rifiutandosi di seguirti alla centrale». «Forse l'ho presa dal verso sbagliato» ammise, e Sara pensò che, per arrivare ad ammetterlo, doveva essersi proprio comportato da stronzo. Poi Jeffrey continuò. «Il tipo con cui stava. Quel ragazzo...» Sara non fece commenti e lui prese tempo prima di esprimere un giudizio. «Ha qualcosa che non va.» «In che senso?» «È pericoloso. Scommetto dieci dollari che ha dei precedenti.» Lei si guardò bene dall'accettare la scommessa. Qualsiasi poliziotto era in grado di riconoscere un ex detenuto. «Credi che Lena sappia che ha già
passato dei guai?» domandò. «Vai a capire cos'ha nella testa, quella.» Neppure Sara aveva le idee chiare su Lena. Jeffrey disse: «Mi ha spinto». «Ti ha spinto?» domandò, convinta che intendesse in modo figurato. «Mi è venuto alle spalle e mi ha spinto.» «Ti ha spinto?» ripeté. Non riusciva a credere che qualcuno potesse essere tanto stupido da fare una cosa simile. «Perché?» «Forse pensava che io avessi fatto cadere Lena.» «E lo hai fatto?» La guardò indispettito. «L'ho presa per il braccio. È andata in panico. Si è tirata indietro.» Fissò la strada e rimase zitto per un attimo. «Ha dato un tale strattone per liberarsi che è caduta per terra.» «Mi sembra una reazione del tutto comprensibile.» Lui ignorò il commento. «Quel ragazzo, era pronto a saltarmi addosso. Uno stronzetto alto così, che pesa meno di Tessa.» Scosse la testa, ma nel tono c'era una punta di ammirazione. Non capitava spesso che qualcuno lo sfidasse. «Perché non hai controllato se ha dei precedenti?» «Non so come si chiama. Ma non ti preoccupare, li ho seguiti al caffè. Lui ha lasciato sul tavolo la sua tazza. L'ho presa per rilevare le impronte.» Sogghignò. «È solo questione di tempo. Saprò tutto quello che c'è da sapere su quel teppistello.» Sara non aveva dubbi in proposito e provò quasi compassione per l'indomito cavaliere di Lena. Lui non aggiunse altro e Sara guardò dal finestrino contando le croci che indicavano gli incidenti. Alcune avevano delle corone di fiori alla base o la fotografia della vittima. Un orsacchiotto di peluche rosa appoggiato a una piccola croce la costrinse a guardare avanti, col cuore in subbuglio. Le auto che li precedevano azionarono i freni, i fanalini di coda si accesero. Si avvicinavano a Macon e il traffico stava aumentando. Jeffrey avrebbe preso la tangenziale ma, data l'ora, rischiavano di rimanere ugualmente intrappolati. «Come stanno i tuoi?» le chiese. «Sono arrabbiati. Con me. Con te. Non so. La mamma non mi rivolge la parola.» «Ti ha detto perché?» «È solo preoccupata» rispose, ma l'ostilità dei genitori la opprimeva
sempre di più. Anche Eddie si rifiutava di parlare con lei. Non capiva se era un modo per farla sentire in colpa, o se più semplicemente non ce la faceva ad affrontare nello stesso tempo due figlie in crisi. E tuttavia si rendeva conto che doveva essere molto difficile per loro dimostrarsi forti, se lei stessa non desiderava altro che rannicchiarsi in un angolo e farsi consolare. «Ci vorrà qualche giorno, vedrai che poi si riprenderanno» la rassicurò Jeffrey posandole la mano sulla spalla. Le accarezzò la nuca col pollice. Lei avrebbe voluto avvicinarsi e abbandonare la testa sul suo petto, ma qualcosa glielo impedì. Suo malgrado, la mente riandava in continuazione a Lena e a quella notte in ospedale, quando l'aveva vista tumefatta e piena di lividi, con le cosce imbrattate dal sangue scuro che continuava a sgorgare dalla zona lacerata. Lena aveva una corporatura minuta, ma di solito il suo piglio battagliero la faceva sembrare più grande di quanto non fosse in realtà. Adagiata sul lettino, con le mani e i piedi coperti dalle bende arrossate di sangue, a Sara era sembrata una bambina, più che una donna. Non aveva mai visto nessuno così devastato. Si sentì montare le lacrime agli occhi. Tornò a guardare dal finestrino perché Jeffrey non lo notasse. Stava ancora accarezzandole il collo, ma l'effetto lenitivo era svanito. Disse: «Voglio provare a dormire». Si scostò e si appoggiò alla portiera. L'Heartsdale Medical Center era molto meno imponente di quanto non suggerisse il nome. Costruito su due piani, con l'obitorio al seminterrato, l'ospedale era solo una struttura di servizio per il college, che sorgeva sul lato opposto di Main Street. Come sempre, al parcheggio c'erano poche macchine. Jeffrey superò l'entrata laterale che utilizzava di solito Sara e andò a fermarsi di fronte al pronto soccorso. Lasciò il motore acceso. «Devo sentire Frank» disse, tirando fuori il cellulare. «Ti dispiace cominciare senza di me?» «No» rispose Sara. Era quasi sollevata di poter rimanere un po' da sola. Comunque gli sorrise prima di scendere. Si conoscevano da più di dieci anni e capì che lui aveva notato la sua inquietudine. Jeffrey non era tipo da lasciare le cose in sospeso. Forse era ancora arrabbiato per quello che era successo nell'autosilo. Sara non era riuscita a dormire in macchina. Era rimasta in quel limbo tra la veglia e il sonno, con la mente ancora frastornata dagli eventi del giorno prima. Quando era riuscita ad appisolarsi, aveva sognato Lena in
ospedale e, in un capovolgimento sinistro che solo i sogni sanno operare, era come se si fossero scambiate i ruoli, così che c'era Sara sul lettino, con i piedi nelle staffe e il corpo esposto, mentre Lena inseriva il tampone vaginale e pettinava il pelo pubico per prelevare sostanze estranee. Quando la lampada ai raggi ultravioletti si era accesa per illuminare il seme e altri fluidi corporei, la parte inferiore del corpo si era illuminata come se avesse preso fuoco. Sara attraversò il parcheggio strofinandosi le braccia anche se non faceva freddo. Guardò il cielo, che era scuro e minaccioso. Mormorò: «Sta arrivando un temporale», una frase che sua nonna diceva spesso quando erano piccole. Sorrise, rivedendo la nonna sulla porta della cucina, con le mani strette al petto, che guardava il temporale in arrivo e ricordava alle bambine di prendere le candele prima di salire a dormire. Dentro il pronto soccorso salutò con la mano l'infermiera del turno di notte e Matt DeAndrea, che sostituiva Hare. Erano almeno vent'anni che non le capitava di essere così contenta all'idea di non incontrare il cugino. «Tutto bene a casa?» la apostrofò Matt senza pensare. Quando si rese conto dell'errore impallidì. «Bene» rispose lei costringendosi a sorridere. «Stanno tutti bene. Ti ringrazio.» Nessuno dei due aveva più molto da dire, così Sara proseguì verso il corridoio, in direzione delle scale che scendevano all'obitorio. Non aveva mai messo a confronto l'obitorio con il Grady Hospital, ma dopo tante ore passate ad Atlanta la similarità le saltò agli occhi. Il centro ospedaliero era stato rinnovato qualche anno prima, ma l'obitorio, situato nel seminterrato, non era molto cambiato dagli anni Trenta: mattonelle azzurro pallido alle pareti, riquadri di linoleum verde e beige sul pavimento. In alto, il soffitto conservava le tracce di varie perdite d'acqua, con chiazze più bianche nei punti riparati di recente, in netto contrasto col vecchio intonaco ingrigito. Si udiva il ronzio costante del compressore collegato ai freezer e al sistema di condizionamento, una presenza di cui Sara diventava consapevole solo dopo essere stata via per qualche tempo. Trovò Carlos appoggiato al tavolo in porcellana fissato al centro della stanza, con le braccia incrociate sul torace imponente. Era un bel ragazzo, con la carnagione scura, i lineamenti ispanici e un forte accento, che nei primi tempi aveva causato qualche difficoltà a Sara. Non parlava molto, e se lo faceva tendeva a borbottare. Carlos eseguiva il lavoro sporco - in senso letterale e metaforico - ed era molto ben pagato. Lei non sapeva granché
di lui. In tutti gli anni che aveva lavorato lì, non aveva mai raccontato nulla di personale, né mai si era lamentato del lavoro. Anche quando non c'era niente da fare, trovava sempre qualcosa con cui tenersi occupato, come spazzare il pavimento o pulire il freezer. Quando Sara entrò fu sorpresa di trovarlo semplicemente appoggiato al tavolo. Sembrava che la stesse aspettando. «Carlos?» «Non voglio più lavorare col signor Brock» disse, col tono di chi ha preso una decisione irrevocabile. Lei si stupì, e non solo per la lunghezza della frase, ma per l'enfasi che ci aveva messo. Con discrezione domandò: «C'è un motivo particolare?». Lui la guardò diritto negli occhi. «È un tipo molto strano, non dirò di più.» Sara si rassicurò. Aveva avuto paura che si volesse licenziare. «D'accordo, Carlos» disse. «Mi dispiace che ti abbia irritato.» «Non sono irritato» precisò, anche se era evidente il contrario. «D'accordo.» Annuì, sperando che la cosa finisse lì. In verità si sentiva in dovere di difendere Dan Brock dal primo giorno delle elementari, quando Chuck Gaines lo aveva buttato giù dallo scivolo in una crisi di rabbia incontrollata. Brock non era strano, era solo insicuro, un tratto inconciliabile con l'ambiente della scuola, dove valeva il principio della sopravvivenza del più forte. Grazie a Cathy ed Eddie, Sara non aveva bisogno dell'approvazione dei coetanei e non le era mai importato di trovarsi in quella specie di terra di nessuno che stava tra il gruppo dei vincenti e quello dei bambini che venivano di continuo molestati e torturati. Era sempre stata considerata la più brava della classe e, un po' per l'altezza, un po' per i capelli rossi, un po' per il quoziente d'intelligenza, ispirava una certa soggezione, Brock invece aveva sofferto fino alle superiori, quando i bulli della scuola avevano finalmente capito che era inutile accanirsi, perché lui non avrebbe mai rinunciato alla sua gentilezza. «Dottoressa Linton?» la chiamò Carlos. Nonostante glielo avesse chiesto un sacco di volte, Carlos non riusciva a chiamarla Sara. «Sì?» «Mi dispiace tanto per sua sorella.» Sara strinse le labbra e annuì in segno di ringraziamento. «Cominciamo dalla ragazza» disse, pensando che era meglio sbarazzarsi subito del caso
più difficile. «Hai già fatto le fotografie e le radiografie?» Carlos rispose con un cenno del capo senza commentare lo stato del corpo. Era il suo tratto professionale, e lei apprezzava molto la solennità con cui svolgeva il suo lavoro. Sara andò nell'ufficio, dotato di una finestra da cui si vedeva la sala anatomica. Anche se era stata in macchina per quattro ore e mezza, fu un sollievo sedere alla scrivania e liberare i piedi dal peso del corpo. Prese il telefono e formò il numero del cellulare di suo padre. Rispose Cathy al primo squillo. «Sara?» «Siamo arrivati» disse, pensando che avrebbe dovuto chiamare prima. Cathy era sicuramente stata in pensiero. «Avete scoperto qualcosa?» «Non ancora» rispose. Osservò Carlos che sospingeva il lettino a rotelle col corpo di Ellen sigillato nella custodia di plastica nera. «Come sta Tess?» Cathy non rispose subito. «Non parla ancora.» Lei continuò a guardare Carlos che apriva la cerniera e cominciava a spostare il corpo sul tavolo anatomico. Chiunque avrebbe considerato crudele quella manovra, ma per trasferire un cadavere su un tavolo era inevitabile maltrattarlo. Carlos cominciò dai piedi, li spinse sul tavolo, poi trascinò il resto. Attorno alla testa era fissato un sacchetto di plastica per non manomettere le prove. Cathy disse: «Non sono arrabbiata con te». Sara sospirò rendendosi conto di avere trattenuto il fiato «Sono contenta.» «Non è stata colpa tua.» Non rispose, anche perché non era d'accordo con sua madre «Quando eri piccola» continuò Cathy con la voce rotta, «ho sempre contato su di te per tenerla lontano dai guai. Tu eri quella responsabile.» Sara prese un fazzoletto di carta dalla scatola che teneva sulla scrivania e si tamponò gli occhi. Carlos stava cercando di levare la maglietta al cadavere, ma non riusciva a sfilarla dalla testa. Guardò Sara, che fece con le dita il gesto di tagliare. I tecnici della scientifica avevano già analizzato la maglietta. Cathy disse: «Non è colpa tua. Non è colpa di Jeffrey. È successo e basta, supereremo anche questa». Il giorno prima Sara avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire quelle parole, ma in quel momento non erano di alcun conforto. Per la prima volta in
vita sua non riusciva a credere a sua madre. «Piccola?» Si asciugò gli occhi. «Devo andare, mamma.» «D'accordo.» Fece una pausa poi aggiunse: «Ti voglio bene». «Anch'io ti voglio bene.» Riagganciò. Si prese la testa tra le mani cercando di liberare la mente. Non poteva pensare a Tessa mentre incideva il corpo di Ellen Schaffer. La cosa migliore che poteva fare per sua sorella, era scoprire qualcosa che conducesse alla cattura dell'uomo che l'aveva accoltellata. L'autopsia era un atto di violenza in se stesso, l'estrema intrusione. Ogni corpo ha una storia da raccontare, la vita e la morte di una persona possono essere esposte in tutta la loro gloria e vergogna semplicemente guardando sotto la pelle. Si alzò in piedi e tornò nella sala di dissezione nel momento in cui Carlos finiva di tagliare la maglietta lungo le cuciture, in modo che potesse essere ricomposta e studiata, se necessario. La stoffa era macchiata di sangue, un segno oblungo e netto indicava la zona in cui stava appoggiato il fucile. Sara osservò l'alluce della ragazza e notò che anche quello era macchiato di sangue. L'altro piede si trovava fuori portata ed era pulito. Un reggiseno da ragazzina, che sarebbe andato bene a una tredicenne, copriva il seno della ragazza. Carlos lo aveva sganciato e teneva in mano della carta igienica appallottolata. «E quella cos'è?» «Se l'era messa lì dentro» disse indicando il reggiseno. Infilò la mano nell'altra coppa e tirò fuori dell'altra carta. «Perché imbottire il reggiseno, se aveva deciso di uccidersi?» domandò Sara, anche se Carlos non rispondeva mai alle sue domande. Si voltarono insieme quando udirono il rumore dei passi. «Trovato niente?» domandò Jeffrey. «Abbiamo appena cominciato» rispose Sara. «Che cosa ha detto Frank?» «Niente» rispose, ma lei capì che c'era in ballo qualcosa. Non riusciva a spiegarsi la sua reticenza. Carlos era assolutamente affidabile. Al punto da far dimenticare che avesse una vita fuori dall'obitorio. «Leviamole questi» disse Sara e aiutò Carlos a sfilare i jeans. Jeffrey guardò le mutande, che erano di semplice cotone e non del tipo trovato nell'appartamento di Andy Rosen. «Hai controllato nei cassetti della sua camera?» «Ce ne sono di vario genere» rispose. «Seta, cotone, tanga.» «Tanga?»
Rispose con un'alzata di spalle. Sara continuò: «Si era imbottita il reggiseno con la carta igienica». Jeffrey alzò un sopracciglio. «Si imbottiva il reggiseno?» «Se voleva suicidarsi, sapeva che qualcuno l'avrebbe trovata, che un impresario di pompe funebri o un medico legale avrebbero esaminato il suo corpo. Perché allora imbottirsi?» «Forse per abitudine. Una specie di routine?» suggerì Jeffrey, ma senza troppa convinzione. «Il tatuaggio è vecchio» disse lei. «Potrebbe essere di tre anni fa. Sto tirando a indovinare, ma di sicuro non è recente.» Carlos sfilò le mutandine e Sara e Jeffrey notarono un altro tatuaggio. Era una parola, sembrava scritta in caratteri arabi. Jeffrey disse: «Questo sul dipinto di Andy non c'era». «Non è comunque recente» osservò Sara. «Credi che l'abbia omesso di proposito?» «No, se l'avesse visto ce l'avrebbe messo.» «Dal che si deduce che non stavano insieme.» Fece segno a Carlos di scattare una fotografia del tatuaggio. Posò accanto alla parola un righello per indicare le dimensioni. «Dovremo schedarla e trovare qualcuno che sappia che cosa vuol dire.» Carlos disse: «Shalom». «Come hai detto?» domandò Sara, stupita che avesse parlato. «È ebraico» disse. «Significa pace.» «Sei sicuro?» «L'ho imparato alle lezioni di ebraico. Mia madre è ebrea.» «Oh» fece Sara. Neanche quello aveva scoperto in tutti quegli anni. Lanciò un'occhiata a Jeffrey che stava annotando qualcosa sul taccuino con la fronte corrugata. Si domandò cosa stesse architettando la sua mente. Si voltò di scatto dimenticando dov'era e colpì con la testa la bilancia sospesa sopra il tavolo. «Merda» esclamò. Si toccò i capelli per capire se si era ferita. Non guardò Carlos o Jeffrey per avere una risposta. Andò all'armadio metallico accanto al lavello e afferrò un camice sterile e un paio di guanti. Disse a Jeffrey: «Potresti prendermi gli occhiali? Dovrebbero essere sulla scrivania». Mentre lui si occupava degli occhiali, lei si infilò il camice e i guanti. Ne prese un altro paio e lo infilò sopra il primo. Carlos avvicinò la lavagna a rotelle che Sara aveva recuperato dalla scuola, sulla quale lui aveva già ri-
portato alcune annotazioni. Nel corso dell'esame avrebbe inserito negli spazi vuoti il peso e le dimensioni dei vari organi e altri dettagli. Sara voleva avere tutto davanti agli occhi mentre eseguiva l'autopsia. Era più semplice visualizzare i risultati, quando tutto era riportato per iscritto. Azionò col piede il dittafono e cominciò: «Questo è il corpo non imbalsamato, ben sviluppato, ben nutrito, di una femmina caucasica di diciannove anni che a quanto viene riferito si è sparata alla testa con un fucile Wingmaster calibro dodici. È stata identificata come Ellen Marjory Schaffer dall'agente in servizio. Sono state eseguite fotografie e radiografie sotto la mia direzione. Come previsto dal Georgia Death Investigation Act, viene eseguita l'autopsia presso l'obitorio del Grant County Medical Examiner's Office il...». Jeffrey fornì la data e Sara proseguì: «Si dà inizio alle ore due e trentatré minuti con l'assistenza di Carlos Quinonez, tecnico patologo, e Jeffrey Tolliver, capo della polizia della contea di Grant». Si interruppe per guardare la lavagna e fornire i dati già raccolti. «Il soggetto pesa circa sessantadue chili ed è alto un metro e settantadue centimetri. Il capo presenta gravi lesioni dovute all'esplosione della cartuccia.» Sarà posò la mano sull'addome. «Il corpo è stato refrigerato e risulta freddo al tatto. Il rigor mortis è completo e generalizzato fino alle estremità superiori.» Andò avanti a descrivere i segni particolari, poi con l'aiuto delle forbici tagliò il sacchetto che copriva la testa di Ellen Schaffer. Sangue coagulato e materia grigia si erano appiccicati alla plastica e porzioni di cuoio capelluto erano rapprese in grumi gelatinosi. Carlos disse: «Il resto del cuoio capelluto è nel freezer». «Lo guarderò dopo» rispose Sara, sfilando il sacchetto da quello che rimaneva della testa di Ellen. C'era poco più di un moncone sanguinolento, con frammenti di capelli biondi e denti incastrati nella base del cervello. Vennero scattate altre foto, poi Sara prese il bisturi e diede inizio all'esame interno. Si sentiva intorpidita dalla mancanza di sonno, eseguì la classica incisione a Y e chiuse gli occhi un istante per riprendersi. Ogni organo venne asportato e pesato, catalogato e registrato, mano a mano che Sara descriveva le operazioni eseguite. Lo stomaco conteneva quello che doveva essere stato l'ultimo pasto di Ellen: fiocchi di cereali, non molto diversi da come dovevano apparire nella scatola. Sara afferrò gli intestini e li passò a Carlos per fare quello che veniva chiamato il lavaggio. Utilizzando un tubo flessibile fissato a uno dei rubi-
netti, Carlos risciacquò il tratto intestinale. Un filtro sotto il lavello tratteneva tutto quello che usciva. L'odore era intollerabile e ogni volta che Sara lo sentiva si sentiva in colpa di delegare a lui quel lavoro. Si strappò i guanti e andò in fondo alla sala dove era acceso lo schermo luminoso. Carlos aveva già sistemato le radiografie che aveva fatto prima dell'autopsia, ma Sara si era dimenticata di controllarle, forse per colpa del sonno arretrato, forse per semplice distrazione. Esaminò la serie completa due volte e notò una forma familiare nei polmoni. «Jeff» disse per farlo avvicinare. Lui osservò le lastre appese allo schermo luminoso poi domandò: «È un dente?». «Lo sapremo fra poco.» Tornò a infilare il doppio paio di guanti ed estrasse il polmone sinistro dal sacchetto dove l'aveva riposto. Il tessuto pleurico era liscio, senza tracce di ispessimento. Sara aveva tenuto da parte i polmoni per esaminarli in seguito, lo fece subito, incidendolo con il coltello seghettato. «C'è una leggera aspirazione di sangue» disse a Jeffrey. Il dente si trovava nel quadrante inferiore destro del polmone sinistro. Jeffrey domandò: «Potrebbe essere finito in gola con la deflagrazione?». «Ellen lo ha aspirato. L'ha inalato nei polmoni.» Lui si stropicciò gli occhi e tradusse in parole semplici: «Respirava ancora, quando il dente si è staccato». MARTEDÌ 8 Uscendo dal cinema con Ethan, Lena soffocò uno sbadiglio. Qualche ora prima aveva preso del Vicodin per alleviare il dolore al polso. Il dolore le era rimasto, in compenso non riusciva a tenere gli occhi aperti per il sonno. «A cosa pensi?» domandò Ethan. «Penso che questa benedetta festa farebbe meglio a cominciare» rispose con un accento di sfida nella voce. «Hai ragione» disse. «Lo sbirro si è rifatto vivo?» «No» rispose, anche se quando era tornata a casa dal caffè il suo cercapersone segnalava cinque chiamate dalla centrale di polizia. Era solo questione di tempo, poi Jeffrey si sarebbe presentato alla sua porta, e allora avrebbe fatto meglio ad avere delle risposte, se non voleva pagare le conseguenze. Durante il film, aveva stabilito che Chuck non l'avrebbe licenziata
solo perché glielo chiedeva Jeffrey, ma c'erano cose peggiori che quel ciccione cazzuto era capace di fare. A Chuck piaceva tenere Lena sulla corda e poteva renderle il lavoro ancor più insopportabile di quanto già non fosse. «Ti è piaciuto il film?» le chiese Ethan. «Non molto» rispose Lena distrattamente e intanto pensava a cosa avrebbe fatto se non fosse riuscita a incontrare l'amico di Andy. Il giorno dopo doveva trovare un po' di tempo per andare a parlare con Jill Rosen. Aveva lasciato tre messaggi, ma la dottoressa non aveva richiamato. Doveva assolutamente sapere cosa aveva detto a Jeffrey. Era perfino andata a rovistare sul fondo dell'armadio per recuperare la dannata segreteria telefonica, nel caso la dottoressa chiamasse mentre lei era fuori con Ethan. Lena guardò il cielo e respirò a pieni polmoni per schiarirsi la mente. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, ma non c'era nessuno di cui si potesse fidare. «Bella serata» disse Ethan, convinto che lei stesse ammirando le stelle. «Luna piena.» «Domani pioverà» disse lei stropicciandosi la mano. Un brutto livido bluastro le segnava il polso nel punto in cui Ethan l'aveva stretto. Era quasi certa che ci fosse una lesione. L'osso le faceva male quando spostava la mano di lato e il gonfiore le rendeva difficile allacciare il polsino della camicia. Aveva tenuto il polso fasciato fino all'arrivo di Ethan, ma per nessuna ragione al mondo avrebbe ammesso di fronte a lui che le faceva così male. Il guaio era che fino a lunedì non poteva ritirare la paga. Se fosse andata al pronto soccorso a farsi fare una lastra, i cinquanta dollari di ticket che doveva pagare nonostante la polizza di assicurazione le avrebbero prosciugato il conto corrente. Non dovevano esserci ossa rotte, perché riusciva ancora a muovere la mano. Se lunedì le avesse fatto ancora male, avrebbe preso una decisione. Non era mancina, comunque, ed era sopravvissuta a dolori più forti, durati ben più di un paio di giorni. Il dolore era quasi rassicurante: un promemoria che era ancora viva. Come se le leggesse nel pensiero, Ethan domandò: «Come va il polso?». «Bene.» «Ti chiedo scusa per quello che ho fatto. Io volevo solo...» Parve cercare le parole giuste. «Non volevo che te ne andassi.» «Bel modo di dimostrarlo.» «Mi dispiace di averti fatto male.»
«Lascia stare» borbottò lei. Parlarne la faceva stare peggio. Prima di uscire si era messa in tasca un'altra pastiglia di Vicodin e ottocento milligrammi di Motrin, nel caso il dolore peggiorasse. Mentre Ethan si era distratto a guardare un gruppo di studenti nell'area di parcheggio, ingoiò a secco il Motrin che le andò di traverso e la fece tossire. «Qualcosa non va?» domandò lui. «Tutto bene» farfugliò, picchiandosi la mano sul petto. «Ti stai prendendo un raffreddore?» «No.» Tossì di nuovo. «Quando comincia questa festa?» «Il bello dovrebbe iniziare adesso.» Imboccò un sentiero tra i cespugli. Lena conosceva la scorciatoia che attraverso il bosco portava ai pensionati della zona ovest del campus, ma non le andava di utilizzarla di notte, anche se c'era la luna piena. Quando si accorse che lei non lo seguiva, Ethan si voltò: «È la via più breve». Per ovvie ragioni Lena era riluttante a seguire chiunque in una zona buia e isolata. Ethan sembrava davvero dispiaciuto di averle fatto del male, ma aveva anche dimostrato di avere un carattere troppo mutevole. «Andiamo» disse Ethan cercando di scherzare. «Non avrai ancora paura di me.» «Fottiti» rispose lei, e si costrinse a muovere i piedi. Infilò con indifferenza la mano nella tasca posteriore. Toccò con la punta delle dita il coltello da tasca lungo dieci centimetri. Sapere che era lì la faceva sentire più al sicuro. Lui rallentò per darle modo di camminargli al fianco. Domandò: «È da molto che lavori qui?». «No.» «Quanto?» «Pochi mesi.» «Ti piace il lavoro?» «È un lavoro.» Ethan raccolse il messaggio e smise di fare domande, ma dopo qualche minuto che camminava in silenzio ci riprovò. «Mi dispiace che il film non ti sia piaciuto.» Lena non riusciva a vederlo in faccia, ma le parve sincero. «Non è colpa tua» disse. A dire la verità era stato lui a scegliere un film francese con i sottotitoli. «Pensavo che ti piacesse il genere.» «Se voglio leggere, mi prendo un libro.»
«Leggi molto?» «Non molto» rispose, anche se negli ultimi tempi si era divorata qualche romanzo succoso della biblioteca. Aveva preso l'abitudine di nascondere il libro dietro la rastrelliera dei giornali, per evitare che qualcuno lo prendesse in prestito prima che lei l'avesse terminato. Si sarebbe tagliata la gola piuttosto di confessare a Nan Thomas che tipo di schifezze leggeva. «E il cinema?» domandò Ethan imperterrito. «Che film ti piacciono allora?» Cercò di non sembrare troppo scocciata. «Non lo so, Ethan. Quelli che hanno un senso.» Alla fine Ethan si rassegnò e tacque. Lena teneva gli occhi a terra per evitare di inciampare. Quella sera si era messa gli stivaletti da cow-boy e non era abituata a camminare con i tacchi, per quanto bassi fossero. Indossava un paio di jeans con una camicia da uomo verde scuro e si era passata un filo di eyeliner sugli occhi. Aveva lasciato i capelli sciolti, per far capire a Ethan quanto le importava del suo parere. Ethan portava un paio di jeans larghi e di nuovo una maglietta nera a maniche lunghe, che gli copriva le braccia fino ai polsi. Lena notò che non era la stessa che gli aveva visto prima, perché questa profumava di bucato, misto a qualcosa che poteva essere colonia al muschio. Completava l'insieme un paio di anfibi con la punta metallica. A Lena venne da pensare che se si fossero persi di vista nel bosco, avrebbe potuto rintracciarlo dalle impronte sul terreno. Dopo qualche minuto raggiunsero lo spazio erboso di fronte al pensionato maschile. Il Grand Tech era piuttosto tradizionalista e aveva un solo pensionato misto ma, come in tutti i college, gli studenti avevano trovato il modo di aggirare il regolamento. Tutti sapevano che Mike Burke, il professore responsabile degli alloggi maschili, era sordo come una campana e non sentiva le ragazze che entravano e uscivano di nascosto a tutte le ore. Forse quella sera gli avevano addirittura nascosto l'apparecchio acustico, pensò Lena. La musica che arrivava dalla palazzina era così forte, che il terreno vibrava sotto i piedi. «Il professor Burke è da sua madre per una settimana» spiegò Ethan con un sorriso. «Ci ha lasciato il numero di telefono, nel caso avessimo bisogno di lui.» «È il tuo pensionato?» Annuì e si avviò verso l'entrata. Lei lo trattenne. «Fai finta che sto con te, quando siamo dentro» disse
alzando la voce sopra la musica. «Non è così?» Gli lanciò un'occhiata più eloquente di qualsiasi risposta. «E va bene.» Ricominciò a camminare e lei lo seguì. Quando furono vicino al pensionato, illuminato a giorno, il rumore si fece assordante. La musica era una miscela di ritmi europei e jazz acido con un pizzico di rap e Lena si sentì scoppiare le orecchie per il livello insopportabile dei decibel. «Non hanno paura che possa arrivare la sicurezza?» Ethan ridacchiò e Lena accusò il colpo. Il più delle volte, quando al mattino si presentava al lavoro, trovava il collega del turno di notte ancora addormentato sulla branda della stanzetta, con la coperta rimboccata fin sotto il mento. Sapeva dalla tabella dei turni che quella sera era di servizio Fletcher. Era il peggiore. Da quando lei lavorava al college, Fletcher non aveva mai segnalato un singolo incidente. Naturalmente buona parte dei reati commessi durante la notte non venivano neppure denunciati, o si consumavano in segretezza col favore delle tenebre. Lena aveva letto da qualche parte che meno del cinque percento delle donne che subivano violenza nei campus denunciavano il fatto alla polizia. Alzò gli occhi verso le stanze e si domandò se in quel preciso istante non fosse in corso un'aggressione. «Ehi, Green.» Un ragazzo un po' più alto e più robusto di Ethan si avvicinò e lo salutò con una pacca sulla spalla. Ethan restituì il gesto e seguì un'elaborata stretta di mano. «Lena» disse Ethan alzando la voce per farsi sentire. «Questo è Paul.» Lei si sforzò di sorridere, non sapendo se fosse l'amico di Andy Rosen. Paul la squadrò dalla testa ai piedi, come per valutare se valesse la pena di andarci a letto. Lena fece altrettanto, tanto per fargli capire che lui non era all'altezza dei suoi standard. Aveva l'aria un po' insipida, tipica dei ragazzi ancora in bilico tra adolescenza ed età adulta. Portava una visiera gialla calzata sulla nuca, con i capelli corti e ossigenati che spuntavano in cima alla testa. Attorno al collo, appesi a una catena metallica verde, aveva un succhiotto da neonato e una serie di pupazzetti, genere Hello Kitty. Quando si accorse che lei li stava guardando, si infilò in bocca il succhiotto e fece schioccare le labbra rumorosamente. «Yo» esclamò Ethan colpendogli la spalla col pugno, come per definire la proprietà. «Dov'è Scooter?» «Dentro» rispose Paul. «Starà cercando di convincerli a smetterla con questa merda da negri.» Si mise in posa e agitò le braccia al suono della
musica. Lena si irrigidì, ma cercò di non tradirsi. Paul intuì qualcosa. «Tu invece sbavi per i fratelli, vero?» domandò, in un dialetto così pesante, quale solo un vero razzista poteva usare. «Dacci un taglio, amico» disse Ethan, mollandogli un pugno molto più pesante del precedente. Paul rise e andò a raggiungere un gruppo che si dirigeva verso il bosco, canticchiando insulti razzisti che si confusero con la musica. Ethan aveva serrato i pugni e sotto la camicia affioravano i muscoli tesi. «Stronzo fottuto.» Sputò per terra. «Perché non ti dai una calmata?» disse Lena, ma quando Ethan si voltò a guardarla le venne il batticuore. La rabbia del ragazzo la penetrava come un laser. Infilò la mano nella tasca posteriore e toccò il coltello quasi fosse un talismano. Ethan disse: «Tu non gli dare retta, capito? Quello è un idiota». «Già» concordò Lena, per sdrammatizzare. «Hai ragione.» Prima che si avviassero all'entrata, Ethan le lanciò uno sguardo d'intesa, come se per lui fosse molto importante condividere quell'opinione con lei. La porta era aperta, oltre la soglia stava una coppia di studenti di sesso imprecisato, che Lena preferì ignorare. Evitò di guardarli e cercò di riconoscere l'odore particolare che aleggiava nell'aria. Dopo sette mesi di lavoro al campus conosceva bene l'odore dell'hascisc, ma non si trattava di quello. Nell'atrio una scala saliva ai piani superiori e due corridoi laterali davano accesso alle camere e ai bagni. Il pensionato era identico agli altri del campus. Anche quello in cui viveva Lena, riservato al personale, era molto simile, solo che da lei ogni stanza disponeva di un bagno privato e di un piccolo soggiorno con angolo di cottura. Gli studenti avevano camere a due letti e dovevano utilizzare i bagni comuni in fondo ai corridoi. In corridoio Lena riuscì a identificare almeno due degli odori che appestavano l'aria: piscio e vomito. «Devo fermarmi un attimo qui» disse Ethan. Si fermò di fronte a una porta con un adesivo che annunciava: RIFIUTI TOSSICI. «Ti dispiace?» «Ti aspetto» disse lei appoggiandosi al muro. Lui si strinse nelle spalle, infilò la chiave nella serratura e strattonò la porta per farla aprire. Lena non capì perché qualcuno si fosse preso la briga di chiuderla a chiave. Tutti sapevano che con quelle serrature bastava insistere sulla maniglia perché la porta si aprisse da sola. Metà dei furti su cui Lena doveva intervenire non mostravano segni di effrazione.
«Torno subito.» Entrò e chiuse. Lena guardò i pannelli per i messaggi appesi alla porta. Uno era di sughero, l'altro era una lavagna metallica per le scritte a pennarello. Su quello di sughero c'erano parecchi foglietti fissati con puntine da disegno che lei ignorò. Sulla lavagna metallica qualcuno aveva scritto: ETHAN LO SUCCHIA A MERAVIGLIA. Accanto era disegnato qualcosa di simile a una scimmia deforme che stringeva nelle uniche tre dita una mazza da baseball o un pene eretto. Sospirò, cominciava a pentirsi di essere venuta. La cosa migliore da fare era presentarsi alla centrale il giorno dopo e tentare un chiarimento con Jeffrey. Doveva pur esserci un modo per convincerlo che lei con quella storia non c'entrava. Doveva tornare subito a casa, bere qualcosa e cercare di dormire. La mattina, con la mente sgombra, avrebbe elaborato un piano d'azione. D'altro canto, parlando con l'amico di Andy poteva scovare qualcosa da offrire a Jeffrey per dimostrargli che agiva in buona fede. «Perdonami» disse Ethan quando si rifece vivo. Non sembrava diverso da quando era entrato. Le sarebbe piaciuto sapere cosa aveva fatto là dentro, ma non fece domande. Forse Ethan si aspettava che lei lo seguisse nella stanza, sopraffatta dal suo fascino adolescenziale. Lena sperò di non sembrare idiota come lui la considerava. «Oh, merda» esclamò Ethan. Cancellò con la manica il messaggio sulla lavagna. «Quelli hanno sempre voglia di scherzare.» «Vero» disse Lena annoiata. «Ti giuro che non lo faccio più dalle superiori.» Capì che era una battuta e gli concesse un sorriso. Ethan si diresse di nuovo verso l'atrio e a voce alta domandò: «Ti piace questa musica?». «Naturalmente no» rispose. Pensò di nuovo che avrebbe fatto meglio ad andarsene. Forse era sufficiente farsi dare il nome del ragazzo e lasciare che se ne occupasse Jeffrey il giorno dopo. «Che genere di musica ti piace?» domandò Ethan. «Il genere che non fa venire il mal di testa» disse. «Andiamo a parlare con questo amico o no?» «Da questa parte.» Indicò le scale. Quando arrivarono nell'atrio un pezzo di intonaco cadde dal soffitto. La ressa al piano di sopra stava mettendo a dura prova il pavimento. In cima alle scale doveva esserci la sala comune, con il televisore e i tavoli da studio, ma era da escludere che in quel momento qualcuno stesse
con un libro sotto gli occhi. Accanto alla sala c'era la grande cucina che, come negli altri pensionati, non doveva contenere altro che un frigorifero polveroso, un forno a microonde sicuramente guasto, e qualche distributore automatico di snack. Al primo piano c'erano meno camere, più piccole ma più ambite. Avendo sentito l'odore che arrivava dai bagni più frequentati del pianterreno, Lena cominciò a capire perché. «Di qua» gridò Ethan sopra la musica. Lei lo seguì e cominciarono a salire le scale zigzagando tra gli studenti seduti sui gradini. Nessuno di loro aveva più di quindici anni, ma l'intruglio rosa che stavano bevendo emanava un tasso alcolico che Lena avvertì anche solo passando. Riconobbe il terzo odore che stagnava nella casa: liquore forte. La sala era ancor più affollata delle scale e Ethan le prese dolcemente la mano perché non si perdesse. Lena deglutì al contatto imprevisto. Abbassò gli occhi sulla mano stretta nella sua: aveva lunghe dita delicate, quasi da ragazza. I polsi erano ossuti, dalla manica della maglietta spuntava il pomello dell'articolazione. Nella sala il caldo era quasi insopportabile, eppure Ethan non si tirò su le maniche. Cosa aveva di tanto importante da nascondere, per costringersi a sudare tra la folla che saltellava urtandosi? All'improvviso la musica si interruppe. La sala muggì all'unisono, poi si spensero le luci e tutti risero. Qualcuno spintonò Lena inavvertitamente facendole balzare il cuore in gola. Un ragazzo accanto a lei sussurrò qualcosa, e una ragazza rise sguaiatamente. Un altro le si strusciò addosso, questa volta con intenzione. Una voce gridò: «Ehi, rimettete la musica!». Un'altra rispose: «Un momento». In fondo alla sala si accese una torcia, il DJ si stava dando da fare con l'impianto. Gli occhi di Lena si abituarono al buio, cominciò a distinguere le sagome delle persone che aveva vicino. Si spostò un po' più avanti, ma il ragazzo alle sue spalle la seguì come un'ombra. Le posò le mani sui fianchi e le bisbigliò nell'orecchio: «Ehi, bambola!». Lena diventò di ghiaccio. «Andiamo da qualche parte» disse il ragazzo, strusciandosi di nuovo addosso a lei. Lei provò a dire: «Smettila» ma la parola le morì in gola. Si lanciò verso Ethan e d'impulso si aggrappò al suo braccio. «Cosa c'è?» domandò lui. Nonostante il buio, trovò la risposta da solo. Tese i muscoli e sferrò un pugno nello stomaco dell'intruso. «Stronzo» rin-
ghiò. Il ragazzo arretrò alzando la mano come per dire che era solo un malinteso. «Va tutto bene» disse Ethan a Lena. La prese tra le braccia per proteggerla dalla calca. Lei avrebbe potuto respingerlo, ma aveva bisogno di qualche secondo per calmare il cuore che batteva all'impazzata. Senza preavviso la musica ripartì e le luci si riaccesero. Tutti esultarono e ripresero a ballare. Sotto le luci, magliette bianche e denti si tinsero di viola. Qualcuno cominciò a sventolare bastoncini luminescenti verdi e gialli, altri tirarono fuori piccole torce tascabili da far brillare negli occhi dei vicini. «È un rave» disse Lena, o almeno pensò di averlo detto. La musica era così forte che non sentiva la propria voce. Erano tutti sotto l'eFfetto dell'ecstasy e le luci aumentavano la percezione. Capì a cosa serviva il succhiotto di Paul. Lo utilizzava per non digrignare i denti quando andava su di giri. Ethan gridò sopra la musica: «Vieni via». La sospinse facendola camminare a ritroso. Lei allungò le braccia dietro la schiena e si fermò solo quando toccò la parete. «Va tutto bene?» domandò lui accostando il viso al suo per farsi sentire. «Sì» rispose, mettendogli una mano sul petto per creare un po' di spazio tra loro. Il corpo di Ethan era solido come un muro e non si spostò di un centimetro. Le passò la mano tra i capelli e disse: «Avresti dovuto raccoglierli». «Non avevo un fermaglio» mentì. Lui sorrise, continuando a far scivolare le dita sui capelli. «Posso procurarti un elastico.» «No.» Ethan lasciò cadere la mano, evidentemente deluso. Cambiò argomento: «Vuoi che vada da quello stronzo?». «No» disse, benché una parte di lei lo desiderasse. Più di una parte, a dire il vero. Le piaceva l'idea che Ethan pestasse a sangue quel cretino. «Va bene.» «Dico sul serio» disse lei, riconoscendo che sarebbe stato uno sbaglio mettergli contro Ethan. «Va bene, va bene» tagliò corto lui. «Rimani qui. Vado a prendere qualcosa da bere.» Se ne andò prima che lei potesse rispondere. Rimase a guardarlo fino a
che non sparì tra la folla e si sentì come una scolaretta svenevole. Aveva trentaquattro anni, non quattordici, non aveva bisogno che un teppistello prendesse le sue difese. «Ehi» disse qualcuno urtandola. Una brunetta dall'aria impertinente le offrì un paio di capsule verdi, ma lei la liquidò con un gesto della mano urtando qualcun altro che aveva alle spalle. «Scusa» disse spostandosi e andando addosso a una terza persona. Ebbe la sensazione che la stanza le si stringesse addosso e capì che se non usciva subito di lì avrebbe cominciato a strillare. Si fece largo nella calca e cercò di raggiungere le scale, ma la folla premeva in senso contrario. La sala era ancora buia e lei avanzò a tentoni spingendo via la gente con le mani, finché non sentì sotto le palme un'altra parete. Si voltò e dalla luce che vide all'altro capo della stanza capì di essere andata nella direzione sbagliata. Le scale erano dalla parte opposta. «Maledizione» esclamò. Tastò la parete allungando il braccio, la mano trovò una maniglia, spalancò la porta e una luce vivida le ferì gli occhi. Quando si abituò al chiarore vide un ragazzo steso sul letto che la fissava con un sorriso ambiguo. Le fece segno di raggiungerlo mentre un'altra ragazza si adagiava su di lui. Lena richiuse la porta con un colpo, si voltò e incappò in Ethan. «Uau!» strillò lui. Reggeva un bicchiere di succo d'arancia e lo schermò con la mano per non rovesciarlo. Il volume della musica diminuì, forse per facilitare il trip dei raver. Qualunque fosse il motivo, Lena ringraziò il cielo, non ne poteva più di sentirsi martellare i timpani. «Non sapevo che cosa volevi» disse Ethan indicando il bicchiere. «Qui dentro c'è un po' di vodka. L'ho fatto io, per sicurezza.» Tirò fuori dalla tasca dei jeans una bottiglietta d'acqua. «Altrimenti c'è questa.» Lena guardò il bicchiere con una voglia tale di bere, che si sentì accartocciare la lingua. «Acqua» disse. Lui annuì come se lei avesse superato un test. «Torno subito» disse, posando il bicchiere su un tavolo vicino. «Non lo bevi?» domandò Lena. «Vado a prendermi del succo. Rimani qui, così ti ritrovo.» Lena svitò il tappo della bottiglia e lo guardò andare via. Bevve un lungo sorso tenendo gli occhi aperti, in modo che nessuno potesse coglierla di sorpresa. Tra i ragazzi che ballavano almeno la metà doveva farsi sorreggere per non crollare a terra.
Involontariamente guardò il tavolo dove Ethan aveva lasciato la vodka. Senza darsi il tempo di cambiare idea, si avvicinò e bevve l'intero bicchiere in due sorsate. Era praticamente alcol puro, con una spruzzata di succo che serviva a dare colore. La vodka le fece contrarre lo stomaco e una fiammata lenta le divampò nell'esofago, come se avesse ingoiato un fiammifero acceso. Si pulì la bocca con la mano e si sentì il polso trafitto da mille punture di spilli. Cercò di ricordare a che ora aveva preso il Vicodin. Il film era durato almeno due ore. Avevano camminato una mezz'ora per raggiungere il pensionato. Quanto tempo doveva passare tra una dose e l'altra? «Chi se ne frega» si disse, prendendo la pillola dalla tasca e infilandola in bocca. Si guardò in giro in cerca di qualcosa per inumidire la bocca e vide sul tavolo un bicchiere con l'intruglio rosa. Lo fissò per una frazione di secondo, si domandò cosa ci avessero messo, poi ne ingoiò un sorso. Sapeva soprattutto di vodka, ci avevano aggiunto dello sciroppo di ciliegia solo per colorarlo di rosa. Vuotò il bicchiere e lo posò con violenza sul tavolo. Dopo tre respiri lenti e trattenuti l'alcol la investì. Lasciò passare qualche secondo guardandosi attorno, si sentiva più rilassata ma non ubriaca. Tutto sommato era solo una festa di ragazzini innocui. Poteva anche rimanere. L'alcol aveva allentato la tensione, proprio quello di cui aveva bisogno. Fra poco anche il Vicodin avrebbe cominciato a fare effetto e si sarebbe sentita di nuovo normale. La musica passò a un ritmo lento e sensuale che non le martellava più le orecchie. Qualcuno doveva avere di nuovo abbassato il volume, questa volta a un livello tollerabile. Bevve un altro sorso d'acqua per eliminare lo zucchero appiccicoso dello sciroppo. Fece schioccare le labbra e lasciò vagare lo sguardo sui ragazzi che affollavano la sala. Rise all'idea di essere la persona più vecchia lì dentro. «Cosa c'è da ridere?» Ethan era di nuovo accanto a lei. Aveva in mano una bottiglia di succo d'arancia ancora sigillata. Lena scosse la testa e all'improvviso se la sentì girare. Aveva bisogno di muoversi, di stemperare l'effetto dell'alcol camminando. «Troviamo questo amico.» Ethan la guardò in modo strano e lei arrossì, timorosa che avesse notato i bicchieri vuoti sul tavolo. «Da questa parte» disse, cercando di guidarla.
«Ci vedo» reagì lei, allontanandogli la mano. «Questa musica ti piace di più?» Lena annuì e per poco non perse l'equilibrio. Ethan non diede segno di notarlo. Si limitò a sospingerla verso il corridoio che portava alle camere del pensionato. Da ogni stanza arrivava una musica diversa e dalle porte aperte si vedevano ragazzi che sniffavano coca o scopavano come selvaggi, a seconda del numero dei presenti. «È sempre così?» domandò. «È solo perché non c'è il dottor Burke» rispose, «ma queste cose le fanno spesso.» «Non stento a crederlo.» Lanciò un'occhiata dentro un'altra stanza, ma si pentì subito di averlo fatto. «Io mi rintano spesso in biblioteca» disse Ethan a un certo punto. Lena immaginò che mentisse perché non l'aveva mai incontrato. Naturalmente la biblioteca era piuttosto grande e lui poteva facilmente confondersi tra gli altri studenti. Forse ci andava davvero. Forse l'aveva osservata un sacco di volte. Ethan si fermò di fronte a una porta che si distingueva dalle altre solo perché non aveva adesivi e scritte oscene. «Ehi, Scooter» gridò, bussando sul legno con le nocche. Lena abbassò lo sguardo, chiuse gli occhi e cercò di riordinare le idee. «Scoot?» ripeté Ethan, questa volta picchiando col pugno. Picchiò così forte che la porta si incurvò in alto, lasciando filtrare una lama di luce. «Forza, Scooter. Apri, stupido bastardo. Lo so che sei lì.» Dall'interno non provenivano rumori riconoscibili, solo il vago tramestio di qualcuno che si muoveva nella stanza. Passò ancora qualche secondo prima che la porta si aprisse, poi una zaffata ripugnante di odori li colpì come una secchiata di liquame caldo. «Gesù» esclamò Lena mettendosi la mano sul naso. «Ecco Scooter» disse Ethan, come se questo spiegasse l'odore. Lena respirò con la bocca cercando di abituarsi al fetore. «Salve» disse, sperando di resistere alla tentazione di vomitare. Scooter era un tipo decisamente eccentrico. I ragazzi che aveva visto fino a quel momento avevano quasi tutti i capelli rasati e portavano jeans larghi e magliette, Scooter invece aveva lunghi capelli neri e indossava una canottiera azzurro pastello con un paio di pantaloncini hawaiani di un arancione sgargiante. Il bicipite sinistro era stretto da un laccio emostatico di gomma gialla che gli gonfiava la parte superiore del braccio.
«Oh, cazzo» disse Ethan strappando via il laccio. «Finiscila una buona volta.» Il laccio schizzò dal braccio e volò dentro la stanza. «Merda, amico» grugnì Scooter. Rimase immobile bloccando l'entrata, ma con un'aria per nulla minacciosa. «Quella è una dannata poliziotta. Che ci fa qui una poliziotta, amico? Perché hai portato una poliziotta nel mio covo?» «Scansati» disse Ethan, sospingendolo dentro la stanza. «Mi vogliono arrestare?» domandò. «Aspetta, amico.» Si buttò a terra in cerca del laccio emostatico. «Aspetta, prima fammi fare questo.» «Tirati su» disse Ethan. Agguantò Scooter per l'elastico dei pantaloni. «Lascia perdere, non ti vuole arrestare.» «Non posso andare in prigione, amico.» «Non ti vuole portare in prigione.» «Ah, bene» disse Scooter, lasciandosi aiutare da Ethan. Si portò una mano al collo e Lena notò che aveva una catena gialla molto simile a quella di Paul, l'amico di Ethan che avevano incontrato prima. Su quella di Scooter non era appeso un succhiotto, ma una collezione di piccole chiavi, come quelle dei diari col lucchetto che usano le ragazzine. «Siediti» disse Ethan spingendolo sul letto. «Ah sì, mi siedo» disse, senza rendersi conto di essere già seduto. Lena si era fermata poco oltre la soglia e continuava a respirare con la bocca. C'era un condizionatore alla finestra, ma non era acceso. Di solito ai tossici piace l'aria fresca perché non fa sudare e la droga non traspira troppo in fretta ma, a giudicare dalla puzza, Scooter doveva avere tanto di quel grasso sulla pelle da ostruirgli fino all'ultimo poro. La stanza era simile a tutte le altre: più lunga che larga, con un letto, una scrivania e un armadio su ogni lato. Sulla parete di fronte alla porta c'erano due grandi finestre con i vetri appannati dallo sporco. Il pavimento era ingombrato da pile di libri e di carte, su cui erano abbandonati contenitori di cibo e lattine di birra vuote. Una striscia di nastro adesivo azzurro divideva la stanza segnando il confine fra le due zone d'appartenenza. Lena si domandò come il compagno di Scooter riuscisse a sopportare il fetore. Un piccolo frigorifero fungeva da comodino accanto al letto che in quel momento era occupato da Scooter. Il compagno si era attrezzato con un più tradizionale riquadro di compensato, appoggiato su due pile di mattoni. Probabilmente li aveva rubati dal cantiere vicino al bar. Solo due settimane prima Kevin Blake aveva fatto avere a Chuck una nota informativa, in cui
gli chiedeva di rintracciare i mattoni mancanti, perché l'impresa non era disposta a rimpiazzarli gratuitamente. «Non ti preoccupare» disse Ethan facendole segno di avvicinarsi. «È completamente cotto.» «Questo lo vedo» disse lei, ma non si mosse. Scooter era più grosso di Ethan, più alto e più forte, e Lena infilò d'istinto il pollice nella tasca posteriore. Il coltello era sempre là. Ethan andò a sedersi sul letto accanto a Scooter. «Se vuoi che parli con noi, devi chiudere la porta» le disse. Lena valutò i rischi e decise che si poteva fare. Fece un passo avanti e chiuse la porta senza smettere di guardarli. «Non mi sembra nelle condizioni di parlare» disse. Stava per sedersi sul letto di fronte, ma si fermò ripensando a quello che stavano facendo nelle altre stanze. «Ti posso capire, amica» disse Scooter con una risata sincopata che ricordava il latrato di una foca. Lei diede un'occhiata in giro. C'era tutto l'occorrente per il consumo di droga. Vicino al letto, su un piccolo sgabello, erano posate due siringhe. Accanto c'era un cucchiaio ancora sporco e una bustina con qualcosa di simile a un grosso grano di sale. Si stava preparando una dose di ghiaccio, la versione più potente di metamfetamina. Era così pura che non c'era neppure bisogno di filtrarla. «Razza di idiota» disse Lena. Perfino suo zio Hank, un consumatore incallito di amfetamine, si era sempre tenuto alla larga dal ghiaccio. Era troppo pericoloso. A Ethan disse: «Non vedo cosa possiamo cavarne». «Era il migliore amico di Andy.» A sentire nominare Andy, Scooter scoppiò in singhiozzi. Piangeva come una ragazzina, senza ritegno, e a Lena suscitò nello stesso tempo disgusto e una sorta di compassione. Stranamente anche Ethan sembrava quasi commosso. «Andiamo Scoot, datti una controllata» disse, scrollandosi di dosso il ragazzo. «Cazzo, ti comporti come una checca.» Guardò Lena, forse perché all'ultimo minuto gli era venuto in mente che sua sorella era lesbica. Lei guardò l'orologio. Aveva buttato via un'intera serata per cercare di parlare con quello stupido e non si sarebbe arresa proprio adesso. Tirò un calcio violento al letto che fece sobbalzare i due ragazzi. «Scooter» disse. «Stammi bene a sentire.»
Lui annuì. «Tu e Andy eravate amici?» Annuì di nuovo. «E Andy era depresso?» Annuì una terza volta. Lena sospirò. Si pentì di avere tirato il calcio, perché adesso Scooter si sentiva minacciato e non voleva parlare. Indicò il frigorifero alzando il mento. «C'è qualcosa da bere lì dentro?» «Oh, sì.» Scooter balzò in piedi, come a dire: «Razza di maleducato che non sono altro». Barcollò un istante, poi riprese l'equilibrio e aprì il frigorifero. Lena vide parecchie bottiglie di birra e un'altra che doveva essere di una marca sconosciuta di vodka. Si domandò come mai non lo avessero ancora cacciato dal college con tutta la roba che aveva lì dentro. Scooter cominciò: «Ho della birra e della...». «Lascia fare a me» disse spingendolo da parte. Forse, bevendo qualcosa, avrebbe acquistato più sicurezza. «Bicchieri?» Scooter allungò il braccio sotto il letto e tirò fuori due bicchieri di plastica che avevano visto tempi migliori. Lena li posò sul frigorifero e prese il succo di arancia che le aveva portato Ethan. La bottiglia era piccola. Non ci sarebbe stato molto da bere per tutti. «Io non ne voglio» disse Ethan, studiandola come se fosse un libro di testo. Lena evitò di guardarlo. Versò la metà del succo in uno dei bicchieri e vi aggiunse un po' di vodka. Tenne la bottiglia per sé riempiendola fino all'orlo con l'alcolico. La tappò col pollice e l'agitò per miscelare il tutto, sempre sentendosi addosso lo sguardo di Ethan. Andò a sedersi sull'altro letto scordandosi quello che aveva pensato prima e rimase a guardare Scooter che beveva dal bicchiere. «Accidenti, che buono» disse. «Ti ringrazio.» Lei tenne la bottiglia tra le ginocchia senza bere. Voleva vedere quanto sapeva resistere. Forse non l'avrebbe neppure toccata. Forse l'avrebbe semplicemente tenuta in mano, tanto per mettere a suo agio Scooter mentre parlava. Sapeva che il primo obiettivo di un interrogatorio è stabilire un rapporto. Con i tossici come lui, il sistema più semplice era quello di far credere che anche lei avesse dei problemi. «Andy» si decise a dire. Si sentì la bocca inaridita. «Sì» disse Scooter, muovendo lentamente la testa in segno di assenso. «Era un bravo ragazzo.»
Lena si ricordò di quello che aveva detto Richard Carter. «Qualcuno sostiene che fosse un idiota.» «Già, be'... chiunque sia, è una testa di cazzo» ribatté Scooter. Su questo aveva ragione, ma si guardò bene dal farglielo sapere. «Parlami di lui. Parlami di Andy.» Scooter si appoggiò alla parete e scostò i capelli dagli occhi. Aveva le guance tempestate di brufoli. Le venne in mente di suggerirgli che tagliare i capelli, o almeno tenerli puliti, poteva essere un primo passo per combattere l'acne, ma lasciò perdere. Domandò: «Si vedeva con qualche ragazza?». «Chi? Andy?» Scosse la testa. «Non durava mai.» Porse il bicchiere per farselo riempire. Lena lo fissò, decisa a non dividere la sua parte. Disse: «Prima parli con me, poi te ne darò dell'altro». «Ho bisogno di una spinta.» Allungò il braccio verso le siringhe sul frigorifero. «Aspetta un momento» gli disse Ethan fermandogli la mano. «Hai detto che avresti parlato con lei e lo farai, ti ricordi? Hai detto che le avresti raccontato tutto quello che voleva sapere.» «L'ho detto?» domandò confuso. Guardò Lena e lei confermò con un cenno. «Certo, caro» disse Ethan. «L'hai detto eccome. Hai promesso che lo avresti fatto per Andy.» «Ah, è vero» ammise Scooter agitando la testa. I capelli erano così sporchi che non si mossero. Ethan lanciò un'occhiata a Lena. «Vedi come ti concia il cervello quella merda?» Lei lo ignorò e tornò a domandare a Scooter: «Andy vedeva qualche ragazza?». Scooter ridacchiò. «Sì, ma lei non vedeva lui.» «Chi?» «Ellen. Ellen del corso di pittura.» «Schaffer?» chiese Ethan. Sembrava sorpreso. «Sì amico, quella è una bomba. Capisci cosa voglio dire?» Diede una gomitata a Ethan. «È una strafica.» Lena cercò di rimetterlo in carreggiata. «Lei si vedeva con lui?» «Quella non lo vedeva neanche, uno come lui» disse Scooter. «Lei è una dea. I semplici mortali come Andy sono degni soltanto di annusare le sue mutandine.»
«È una stronza piena di boria» disse Ethan con disprezzo. «Probabilmente non si era neppure accorta che esistesse.» Scooter ridacchiò di nuovo. Diede a Ethan un'altra gomitata. «Forse è lassù in cielo che ruba mutandine alle belle ragazze!» Ethan si rabbuiò e spinse via Scooter. «Cosa?» domandò Lena confusa. «Porca puttana. Dicono che aveva la faccia ridotta in un modo, sembrava che avesse ingoiato una bomba a mano.» «La faccia di chi?» domandò Lena. «Di Ellen!» rispose Scooter, come se fosse ovvio. «Si è fatta saltare la testa. Ma tu dove vivi?» La notizia colpì Lena come una pietra. Era rimasta in camera sua tutto il giorno a guardare il cercapersone. Nan aveva chiamato parecchie volte, ma Lena non aveva risposto. La morte di Ellen Schaffer complicava ulteriormente l'indagine. Se era un finto suicidio come quello di Andy, Jeffrey avrebbe raddoppiato i sospetti su di lei. Senza pensarci, bevve un piccolo sorso dalla bottiglia. Trattenne il liquido in bocca, assaporandolo prima di deglutire. Quando la vodka scese giù si sentì bruciare fino allo stomaco. Espirò lentamente, adesso era più calma e più lucida. Domandò: «E che mi dici del centro di disintossicazione dove l'avevano spedito i genitori?». Scooter guardò di nuovo le siringhe e si leccò le labbra. «Ha fatto quello che doveva fare per uscire fuori, lo sai no? Andy adorava la pipa. Da quella non ti stacchi più. Te ne innamori una volta, e continui a tornare, come da un'amante.» Sembrava che gli piacesse la parola «amante», perché la ripeté parecchie volte, socchiudendo ogni volta le labbra con voluttà. Lena cercò di riportarlo all'argomento. «Quindi quando è tornato era a posto?» Scooter annuì. «Come no.» «E quanto è durato?» «Fino a domenica, credo» rispose Scooter. Rise, come se avesse azzeccato una buona battuta. «Domenica quando?» «Prima che morisse. Lo sanno tutti che gli sbirri hanno trovato una siringa in casa sua.» «Vero» disse Lena, ma pensò che Frank gliene avrebbe parlato se fosse stato vero. Ormai i pettegolezzi dilagavano nel campus con la rapidità di
una malattia a trasmissione sessuale. Domandò: «Ma non avevi detto che gli piaceva fumare?». «Sì, sì» disse. «Questo è quello che hanno trovato.» Lena lanciò un'occhiata a Ethan poi tornò a Scooter: «Hai visto Andy farsi prima di ieri?». Scooter scosse la testa. «No, ma so che si faceva.» «Come fai a esserne certo?» «Perché voleva comperare della roba da me.» Accanto a lui Ethan si irrigidì visibilmente. Scooter disse: «Sabato sera si è comprato un fottio di roba e ha detto che domenica voleva farla fuori tutta. Che voleva farsi un giro sul tappeto volante». «Pensi che avesse intenzione di uccidersi?» gli chiese Lena. Ethan si alzò e andò alla finestra. «Mah, chissà» disse Scooter. Guardò di nuovo le siringhe. «È venuto nella mia stanza e ha detto: "Ehi, amico, hai della roba?". E io ho detto: "Certo che ce l'ho, mi sto preparando perché Burke la prossima settimana se ne va", e lui ha detto, tipo: "Dammi quello che hai. Ho i soldi" e io: "Vai a farti fottere, niente da fare amico, questa è la mia merda, e mi devi ancora pagare da prima che ti chiudessero via, frocio del cazzo" e lui...» Lena lo fermò. «Aveva problemi di soldi?» «Be', sì, come sempre. Sua madre gli faceva pagare l'affitto. Squallido, no? Era suo figlio e lei gli faceva pagare i vestiti e roba varia, neanche se lui fosse Bill Gates.» Si sistemò i pantaloncini. «La macchina però era una figata.» Guardò Ethan: «Tu l'hai vista, la macchina che gli ha comprato suo padre?». Lena lo richiamò all'ordine. «Ma sabato sera aveva i soldi? Andy aveva dei soldi?» «Non lo so, cazzo. Credo di sì. La roba se l'è procurata.» «Non gliel'hai venduta tu?» «No, cazzo. Te l'ho detto, bella. Io sapevo cosa voleva fare. Io non vado a cacciarmi nella merda. Vendi della roba a uno che muore di overdose e com'è vero Dio ti ritrovi col culo in cella per omicidio, ma io in cella non ci finisco, amica. Io ho già un lavoro che mi aspetta, quando esco da qui.» «Dove?» domandò Lena. Non poteva credere che qualcuno volesse assumere quel rifiuto. Ethan non gli lasciò il tempo di rispondere. «Tu sapevi che voleva farsi fuori?»
«Lo immaginavo.» Alzò le spalle. «È quello che ha fatto l'ultima volta. Si è comprato una valigiata di merda e si è aperto in due con un rasoio.» Tracciò una linea lungo l'avambraccio. «Una scena penosa, sangue dappertutto, roba da non crederci. Pensi che dovevo dire qualcosa, amico? Non volevo metterlo nei guai, io.» «Già, bastardo che non sei altro» disse Ethan tornando verso il letto. Gli mollò uno scapaccione sulla nuca. «Sì, tu dovevi dirgli qualcosa. Tu l'hai ammazzato, testa di cazzo. Proprio così, l'hai ammazzato.» «Ethan...» azzardò Lena. «Andiamocene da qui» disse Ethan, dirigendosi alla porta. Era furioso, ma lei non riusciva a capire perché. Le disse: «Scusami se ti ho fatto perdere tempo». Rispose Scooter. «Oh, non ti preoccupare». «Andiamocene» ripeté Ethan. Spalancò la porta con tanta violenza, che la maniglia andò a sbattere contro il muro, scalfendo l'intonaco. Lena lo seguì, ma senza preavviso richiuse la porta con un colpo e lo lasciò fuori. «Lena!» Ethan cominciò a picchiare con i pugni facendo tremare la porta, ma lei la chiuse a chiave, con la speranza che reggesse almeno per qualche minuto. «Scooter» lo chiamò, accertandosi che lui la stesse a sentire. «Scooter, chi gli ha venduto la droga?» Scooter la fissò. «Cosa?» «Chi ha venduto la droga a Andy?» ripeté. «Sabato sera, dove si è procurato la droga?» «Merda» disse Scooter. «Non lo so.» Si grattò le braccia, a disagio senza più Ethan. «Mi devi lasciare in pace. D'accordo?» «Sì» disse Lena. «Ma prima me lo dici.» «Ho dei diritti.» «Sì? Vuoi che chiami la polizia?» Afferrò la bottiglia e con l'altra mano radunò le siringhe cariche. «Chiamiamo la polizia, Scooter.» «Oh, cavolo, smettila» fece un debole tentativo di prendere le siringhe, ma Lena fu più svelta di lui. «Chi ha venduto la droga a Andy?» «Lasciami perdere» frignò Scooter. Quando vide che non funzionava si arrese. «Tu dovresti saperlo, amica. Lavori con lui.» Lena lasciò cadere le siringhe e per poco la bottiglia non le sfuggì di mano. «Chuck?»
Scooter si buttò a terra a raccogliere le siringhe come fossero soldi. «Chuck?» ripeté lei. Era troppo sconcertata per riuscire a dire altro. Berve un sorso di vodka, poi tracannò d'un fiato quel che rimaneva. Era così disorientata che dovette sedersi di nuovo sul letto. «Lena!» gridava Ethan, tempestando di pugni la porta. Scooter cominciò a farsi. Lena rimase a guardarlo come ipnotizzata, mentre lui aspirava un po' di sangue con la siringa e poi iniettava la droga in vena. Stringeva tra i denti un'estremità del laccio emostatico e lo lasciò andare solo quando finì di spingere lo stantuffo. Emise un gemito, come se lo avessero colpito, il corpo sussultò. Teneva la bocca aperta e tremava, mentre la droga cominciava a fare il suo effetto. Gli occhi guizzavano di qua e di là, i denti battevano. La mano cominciò a tremare così forte che la siringa vuota cadde sul pavimento e rotolò sotto il letto. Lena continuava a guardare, incapace di staccare gli occhi da quello spettacolo, mentre il corpo di Scooter sussultava, catturato dal ghiaccio cne correva nelle vene. «Oh, mio Dio» mormorò il ragazzo. «Oh cazzo. Oh... sì.» Lena fissò pensosa l'altra siringa sul pavimento, si domandò cosa significasse abbandonarsi, lasciare che la droga prendesse per un po' il controllo del corpo. O si prendesse la vita. Scooter balzò in piedi con uno scatto così improvviso, che lei picchiò la testa contro il muro per schivarlo. «Oh, si muore di caldo qua dentro» cominciò. Le parole gli uscivano come i proiettili da una mitragliatrice e intanto camminava su e giù per la stanza. «Fa così caldo che mi sembra troppo caldo anche per respirare io non so se riesco a respirare tu ci riesci a respirare però è una figata vero?» Continuava a blaterare e si tirava i vestiti come se volesse levarseli. «Lena!» urlò Ethan. La maniglia fu spinta con violenza e la porta si spalancò d'un colpo sbattendo di nuovo contro la parete. «Deficiente!» gridò Ethan buttandosi su Scooter con una foga tale che il ragazzo cadde riverso sul frigorifero. Elettrizzato dalle amfetamine che aveva nelle vene, Scooter balzò su di nuovo, continuando a farneticare sulla temperatura della stanza. Ethan vide l'altra siringa sul pavimento e la calpestò col piede fino a che la plastica non andò in frantumi e il liquido trasparente si sparse in una piccola pozza per terra. Poi, come se prevedesse fino a che punto poteva ridursi Scooter per uno sballo in più, strofinò con la suola la pozza in mo-
do da disperderla. Afferrò la mano di Lena. «Andiamo» disse. «Merda!» strillò lei. Ethan le aveva afferrato il polso dolorante. La fitta la fece quasi svenire, ma lui non la lasciò andare fino a che non furono in corridoio. «Imbecille!» disse Lena colpendogli la spalla. «Stavo arrivando al punto.» «Lena...» Lena si voltò per andarsene. Ethan cercò di prenderla per il braccio ma lei sgusciò via. Le gridò dietro: «Dove vai?». «A casa.» Continuò a camminare in fretta pensando a quello che le aveva detto Scooter. Doveva annotarsi tutto finché aveva le cose fresche in mente. Se Chuck era coinvolto in un giro di droga, poteva avere eliminato Andy Rosen ed Ellen Schaffer per metterli a tacere. I tasselli cominciavano a ricomporsi, Doveva solo tenerli a mente il tempo necessario per annotare tutto. D'un tratto si trovò accanto Ethan. «Ti accompagno a casa.» «Non ho bisogno della scorta.» Si toccò il polso, forse questa volta si era rotto. «Hai bevuto troppo.» «E berrò ancora» rispose. Spintonò un gruppo di ragazzi che bloccavano il passaggio. Una volta messo tutto per iscritto, una bevuta per celebrare era più che giustificata. Qualche ora prima temeva di perdere il lavoro. Ora poteva aspirare al posto di Chuck. «Lena.» «Vattene a casa, Ethan» strillò. Incespicò su una pietra. Barcollò, ma continuò a camminare. Lui non si dette per vinto, accelerò il passo per starle dietro. «Cerca di calmarti.» «Non ho bisogno di calmarmi» rispose, ed era vero. L'adrenalina che aveva in corpo le teneva lucida la mente. «Lena, per favore» disse Ethan quasi implorando. Lei svoltò all'improvviso su un sentiero stretto tra due cespugli spinosi, sapeva che tagliando per il cortile interno poteva raggiungere più in fretta il suo pensionato. Ethan continuava a seguirla, ma senza parlare. «Che cosa credi di fare?» domandò lei. Lui non rispose.
«Tu in camera mia non entri» disse. Scostò un ramo basso e si diresse all'entrata principale. «Dico sul serio, Ethan.» Lui la ignorò, le rimase al fianco mentre lei cercava di aprire il portone. Non riusciva a coordinare i movimenti e non trovava la toppa. Il Vicodin stava probabilmente facendo effetto, sciolto nel mare di alcol che si agitava nel suo stomaco. Che idea le era venuta, di mischiare l'analgesico con l'alcol? Sapeva che non avrebbe dovuto farlo. Ethan le strappò di mano le chiavi e aprì il portone. Lei provò a riprenderle, ma lui era già dentro. Disse: «Dov'è la tua stanza?». «Ridammi le chiavi.» Provò di nuovo a prenderle, ma Ethan fu più svelto di lei. «Sei ubriaca fradicia. Lo sai o no?» «Dammi le chiavi» ripeté. Non voleva fare una scenata. Il pensionato era così malmesso che erano ben pochi i professori che ci abitavano, ma Lena non voleva dare spettacolo per i suoi pochi vicini. Ethan cercò il suo nome sulle cassette della posta numerate. Senza dire una parola imboccò il corridoio verso la sua stanza. «Fermati» gridò lei. «Dammi...» «Che cosa hai preso?» le domandò cercando la chiave giusta. «Cos'erano quelle pillole che hai ingoiato?» «Sparisci» disse strappandogli le chiavi. Appoggiò la testa alla porta e si concentrò per aprire. Quando sentì scattare la serratura si concesse un sorriso che svanì come Ethan la spinse dentro. «Che pillole hai preso?» ripeté. «Mi stavi spiando?» domandò lei, come se non fosse evidente. «Che cosa hai preso?» Lena si fermò al centro della stanza cercando di orientarsi. Non c'era molto da vedere. Il suo appartamento si riduceva a due stanze, con un bagno e un angolo di cottura che puzzava di bacon fritto nonostante lei avesse cercato in mille modi di pulirlo. Si ricordò della segreteria telefonica, ma la spia non segnalava chiamate. Quella puttana di Jill Rosen non si era ancora fatta sentire. Ethan tornò alla carica. «Che cosa hai preso?» Lena si diresse all'armadietto della cucina. «Motrin. Ho i crampi, va bene?» disse, sperando di zittirlo. «Solo quello?» domandò avvicinandosi. «Comunque non sono affari tuoi.» Prese dall'armadietto una bottiglia di
whisky. «E adesso vorresti bere di nuovo.» «Ti ringrazio per i sottotitoli, piccolo.» Si versò una dose abbondante e la tracannò d'un fiato. «Magnifico.» Lei si versò dell'altro whisky e voltandosi disse: «Perché non...». Si trattenne. Ethan era così vicino che quasi la sfiorava, fremeva di rabbia. Sembrava sul punto di infiammarsi, ma rimase immobile, con le mani lungo i fianchi. «Non farlo» disse. «Perché non mi fai compagnia?» «Io non bevo. E non dovresti bere neppure tu.» «Sei dell'Anonima Alcolisti?» «No.» «Sicuro?» Bevve ancora. «Ah» fece tutta soddisfatta, come se fosse la cosa più buona del mondo. «A me sembra che ti comporti come un exalcolista.» Ethan seguì con lo sguardo il bicchiere che saliva alla bocca. «Non mi piace perdere il controllo.» Lena trattenne il bicchiere sotto il naso e annusò. «Senti che profumo.» Glielo accostò alla faccia. «Toglimi di dosso quella roba» disse, ma non si mosse. Lei si leccò le labbra e fece schioccare la lingua. Era un exalcolista. Non c'era dubbio. Non c'era altra spiegazione. Lo provocò: «Non lo vuoi nemmeno assaggiare, Ethan? Andiamo, l'Anonima Alcolisti è roba per donnette. Tu non hai bisogno di andare a una stupida riunione per sapere quando devi smettere». «Lena...» «Tu sei un uomo, no? Gli uomini sanno come controllarsi. Forza, Mister Disciplina.» Gli premette il bicchiere sulla bocca e lui serrò le labbra. Anche quando lei inclinò il bicchiere facendogli colare sul mento e sulla camicia il liquido ambrato, le labbra non si aprirono. «Stai sprecando dell'ottimo whisky» disse guardando l'alcol che gli gocciolava dal mento. Lui strappò dal gancio lo strofinaccio da cucina e glielo cacciò in mano. «Adesso pulisci.» Lena rimase interdetta, poi fece quello che le veniva detto, strofinò la camicia e tamponò i jeans sul davanti. Si tesero sull'inguine e lei non poté
fare a meno di ridere. «È così che ti ecciti? Dando ordini da eseguire?» miagolò. «Taci.» Cercò di strapparle lo strofinaccio. Lena glielo lasciò prendere e continuò con la mano, aumentando la pressione sui pantaloni. Il membro si indurì al contatto. «È stato il whisky? Ti piace il profumo? Ti eccita?» «Smettila» disse, ma lei sentì che si stava eccitando ancor di più. «Piccolo stronzo perverso.» Lo disse con una voce insinuante che non si conosceva. «No» disse quando lei gli aprì la cerniera, ma non cercò di fermarla. «No cosa?» Lo prese nella mano. Era più grande di quanto avesse immaginato e trovò eccitante l'idea di potergli dare piacere o procurargli un dolore atroce. «È questo che non devo fare?» gli chiese mentre glielo accarezzava. «Oh, cazzo» bisbigliò Ethan. Si morse le labbra. «Cazzo.» Lei cominciò a muovere la mano, su e giù, per vedere la sua reazione. Prima di subire l'aggressione, Lena non era quel che si dice una verginella. Sapeva come fare boccheggiare gli uomini. «Oh...» Ethan aprì la bocca, prese fiato. Allungò il braccio. «Non mi toccare» ordinò, stringendo abbastanza forte da fargli capire che diceva sul serio. Ethan si aggrappò con la mano al frigorifero. Aveva le ginocchia molli ma riuscì a tenersi in piedi. Lena sorrise a se stessa. Gli uomini erano così stupidi. Con tutta la loro forza, si riducevano a implorare sul pavimento, pregandoti di farli venire. Domandò: «È per questo che mi hai seguito fino a casa come un cagnolino?». Ethan si protese per baciarla, ma lei girò la testa dall'altra parte. Quando gli strofinò la punta del pene col pollice lui ricominciò ad ansimare. «Era questo che volevi?» domandò fermando la mano, per costringerlo a implorare. «Dimmelo.» «No» mormorò. Provò a posarle le mani sui fianchi, ma lei lo toccò nel punto più sensibile per fargli perdere il controllo. «Dio...» Espirò lentamente, facendo sibilare l'aria tra i denti, allungò la mano in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi e fece cadere il bicchiere dal bancone. «Vuoi scoparti la vittima dello stupro?» domandò come se stesse facendo normale conversazione. «Per andarlo a raccontare ai tuoi amichetti?»
Lui scosse la testa e chiuse gli occhi per concentrarsi sulla sua mano. «Hai fatto una scommessa con qualcuno?» continuò. «È per questo che sei qui?» Ethan appoggiò la testa sulla sua spalla cercando di tenersi in piedi. Lei gli accostò le labbra all'orecchio: «Vuoi che smetta?». Rallentò il movimento della mano. «No» sussurrò lui. Cominciò a muovere i fianchi per farla accelerare. «Come hai detto? Hai detto che devo smettere?» Scosse di nuovo la testa, annaspando. «Hai detto: "Ti prego?"» domandò, portandolo al culmine. Quando il corpo cominciò a sussultare si fermò. «Hai detto: "Ti prego?".» «Sì» fece lui in un soffio. Posò la mano su quella di lei per farla continuare. «Qualcuno ha stabilito che mi puoi toccare?» Lui levò la mano, ma continuò a muovere i fianchi. Aveva il respiro affannoso, sempre più corto. «Non ti ho sentito bene. Devi dire: "Ti prego"» lo incitò. Lui fece per parlare, ma la voce si ridusse a un gemito. «Su, dillo.» Lo incitò aumentando la pressione per ricordargli cosa poteva fargli la sua mano. Ethan mosse le labbra ma non riuscì a dire una parola, forse per mancanza di fiato, forse per eccesso di orgoglio. «Come?» sussurrò lei, con le labbra che gli sfioravano l'orecchio. «Come hai detto?» Ethan emise un suono gutturale, come se dentro di lui qualcosa si spezzasse. Quando finalmente si arrese, Lena sorrise. «Ti prego...» implorò. E come se non fosse sufficiente, tornò a ripetere: «Ti prego...». Lena era di nuovo nella stanza buia, sdraiata sulla pancia. Lenti baci sensuali si facevano strada lungo la sua schiena, giù, verso il punto in cui cominciava l'osso sacro. Si stirò, sentì i pantaloni scivolare via, assaporò il piacere di lasciarsi baciare sul suo punto preferito, ma all'improvviso si rese conto che non poteva provare quelle sensazioni. Lei avrebbe dovuto essere sdraiata sulla schiena. Le mani e i piedi avrebbero dovuto essere inchiodati al pavimento. Si svegliò di soprassalto trattenendo il fiato, balzò dal letto, cadde a terra e picchiò la testa contro il muro, così forte che rimase stordita per qualche
secondo. «Che ti succede?» domandò Ethan. Lena si tirò su scivolando contro la parete, col cuore che le martellava nella testa. Si toccò i jeans. Solo il primo bottone era slacciato. Cos'era successo la sera prima? Perché Ethan era lì? «Vattene» disse, con una voce calma, anche se tutto il corpo fremeva di paura. Ethan le sorrise e stirò le braccia. Il letto era piccolo, e lui era schiacciato contro la parete. Era vestito, ma con i jeans slacciati e la cerniera aperta a metà. «Che cazzo mi hai fatto?» strillò, terrorizzata all'idea che lui l'avesse toccata, che fosse addirittura entrato dentro di lei. «Ehi» disse lui senza la minima tensione, come se stessero parlando del tempo. «Calmati, stai calma.» Si mise a sedere sul letto e protese le braccia verso di lei. «Stammi lontano» lo avvisò, respingendo le sue mani. Lui si alzò in piedi. «Lena...» «Stai lontano da me!» strillò con la voce incrinata. Ethan abbassò gli occhi, tirò su la cerniera, si abbottonò i jeans, poi disse: «Andiamo, nessuno ha detto che dobbiamo sposarci o...». Lo allontanò bruscamente, puntandogli le mani contro il petto. Lui fu sul punto di cadere all'indietro, ma ritrovò l'equilibrio. Invece di ricevere il messaggio, fece un passo verso di lei e con una faccia impenetrabile la spintonò colpendola sulle spalle. Lena andò a sbattere con la schiena contro il muro, ma si tenne in piedi, scioccata dalla sua forza brutale. Aveva sempre pensato di poter avere la meglio su di lui, ma il corpo di Ethan era d'acciaio. Lui aprì la bocca, forse per chiedere scusa, ma gli arrivò un ceffone sulla guancia. Lo schiaffo risuonò nella stanza e, prima che lei avesse il tempo di capire, lui glielo restituì ancora più forte. «Bastardo!» Si avventò su di lui, questa volta coi pugni, ma Ethan le afferrò i polsi, la paralizzò e la tenne contro la parete. «Lena...» disse, continuando a stringerla. Lei si aspettava una fitta di dolore, ma il terrore che tra loro ci fosse stato qualcosa azzerava ogni altra sensazione. Cercò di liberarsi, ma Ethan la trattenne senza fatica. Lena aveva ancora il coltello nella tasca, ma non poteva prenderlo con le mani bloccate. Gli tirò un calcio sullo stinco e lui si piegò d'istinto, offrendole l'opportunità di
tirargli un pugno in piena faccia. Finalmente Ethan cedette, si portò le mani al naso e il sangue gli colò tra le dita. Lei si precipitò in bagno e si chiuse dentro sbattendo la porta. «Oh, Dio» mormorò. «Oh Dio, Dio.» Si sbottonò i jeans con mani tremanti. Quando li abbassò per capire cosa era successo, le unghie graffiarono la pelle sulle cosce. Verificò che non ci fossero lividi o tagli, poi esaminò le mutandine in cerca di macchie sospette, le annusò addirittura, per scoprire qualche traccia di Ethan. «Lena?» chiamò lui, bussando alla porta del bagno. La voce suonò soffocata e lei sperò di avergli rotto il naso. «Vattene!» ordinò. Tirò un calcio alla porta come se lo tirasse a lui, voleva vederlo sanguinare e piangere di dolore. Ethan scagliò un pugno talmente violento che fece tremare la porta. «Lena, dannazione!» «Fuori di qui!» gridò lei con la gola in fiamme. Le era entrato in bocca? Era il suo sapore quello che sentiva? «Lena, smettila» disse lui cercando di calmarsi. «Per favore, piccola.» Lei si sentì rovesciare lo stomaco e si lanciò verso il water per vomitare, seminando schizzi di bile sul pavimento. Si chinò sopra la tazza, straziata dai conati e da crampi atroci all'intestino, come se qualcuno lo stesse strizzando. Chiuse gli occhi per non vedere cosa c'era nella tazza e cercò di respirare con la bocca per frenare la nausea. Il rumore di una porta spalancata con violenza le fece sollevare la testa di scatto, ma la porta del bagno era ancora chiusa. «Mani in alto contro il muro» intimò una voce maschile. Riconobbe all'istante Frank. «Fottiti» ringhiò Ethan per tutta risposta, ma un istante dopo Lena riconobbe il tonfo del suo corpo sbattuto contro la parete. Si augurò che Frank gli facesse del male, che lo picchiasse a sangue. Pulì la bocca e sputò nel water. Si portò le mani allo stomaco e cercò di capire cosa stava succedendo oltre la porta. Aveva un dolore lancinante alla testa, il cuore in subbuglio. «Dov'è Lena?» domandò Jeffrey con voce tesa. «Qui non c'è, bastardo» rispose Ethan, con un tono così convincente che perfino lei gli credette. «Dov'è il mandato del cazzo per sfondare quella porta?» Lena appoggiò le mani sul lavabo e lentamente si rimise diritta.
«Dov'è andata?» domandò Jeffrey con lo stesso tono angosciato. «A prendere il caffè.» Lena si guardò nello specchio. Un rivolo di sangue le scendeva dal naso, ma non sembrava rotto. Aveva un livido sotto l'occhio, alzò la mano per toccarlo, ma si bloccò a pochi centimetri dal viso. Un ricordo vivido della notte le attraversò la mente come una corrente elettrica. Con quella mano aveva toccato Ethan. L'aveva infilata dentro i suoi pantaloni e lo aveva accarezzato guardandolo negli occhi per vedere la sua reazione, per godersi quello che le era sembrato potere, ma che ora vedeva come una cosa volgare e umiliante. Aprì il rubinetto dell'acqua calda e prese la saponetta dal portasapone. Si insaponò le mani, poi si riempì di schiuma la bocca cercando di ricordare se lo aveva baciato. Si grattò la lingua con le unghie, rigurgitò il sapone sceso in gola. Lo aveva fatto perché era ubriaca. Ubriaca fradicia. Perché, altrimenti, lasciarsi andare a una cosa così stupida? Jeffrey bussò con discrezione alla porta. «Lena?» Non rispose, continuò a strofinarsi le mani fino a che non diventarono rosse. Il polso si era gonfiato, era quasi il doppio dell'altro, ma il dolore le faceva bene, perché era qualcosa che poteva controllare. L'unghia graffiò inavvertitamente la cicatrice sul dorso della mano e lei accolse con piacere il sangue. Tormentò la piccola ferita cercando di lacerare la pelle, con la voglia di strapparla via. «Lena?» Jeffrey bussò più forte, adesso la voce era seriamente preoccupata. «Lena? Stai bene?» Ethan disse: «Lasciala in pace». «Lena» ripeté Jeffrey continuando a bussare. Lei non riusciva a capire se fosse preoccupato, arrabbiato o entrambe le cose. «Rispondimi.» Alzò gli occhi. Lo specchio le mostrò quello che avrebbe visto Jeffrey: il vomito sul water, le mani che colavano sangue nel lavabo e lei, in piedi, che tremava di disgusto e di disprezzo per se stessa. Frank disse: «Forza la porta». Jeffrey la avvisò: «Lena: o esci tu, o vengo dentro io». «Solo un momento, per favore» rispose, come se avessero un appuntamento e lui aspettasse pazientemente di portarla a cena. Tirò fuori il coltello dalla tasca dei jeans prima di riabbottonarli. C'era un'assicella scollata sul fondo dell'armadietto delle medicine, vi nascose il coltello, poi chiuse il rubinetto dell'acqua. Azionò lo sciacquone e si fece un gargarismo con il collutorio che in
parte sputò e in parte ingoiò, sperando che lo stomaco lo reggesse. Si pulì sotto il naso col dorso della mano e cercò di lavare via il sangue dai jeans. Non c'era modo di allacciare il polsino della camicia, ma confidò nel fatto che la manica lunga avrebbe mascherato il livido. Quando finalmente uscì dal bagno si trovò davanti Jeffrey, pronto a buttare giù la porta. Frank era alle spalle di Ethan e gli teneva la faccia schiacciata contro il muro, dal naso colava sangue che formava un rivolo sul muro. Lena restò immobile nel riquadro della porta. Alle spalle di Jeffrey vedeva la zona giorno con il cucinino. Avrebbe voluto trovare un pretesto per mandarli tutti nell'altra stanza. Era già abbastanza difficile addormentarsi la sera, senza doversi accollare anche il ricordo di quei tre nella sua camera da letto. Jeffrey e Frank sembravano sbalorditi di vederla, quasi fosse un'apparizione e non la donna con cui avevano lavorato ogni giorno negli ultimi dieci anni. Senza badarci, Frank allentò la presa su Ethan farfugliando: «Che ti è successo?». Lei si coprì con la mano la cicatrice sanguinante e disse a Jeffrey: «Spero che tu abbia un mandato». Jeffrey domandò: «Stai bene?». «Dov'è il mandato?» «Ti ha fatto del male?» domandò a bassa voce. Lena non rispose. Stava guardando il copriletto pulito, appena spiegazzato. La stoffa era rosso scuro e se ci fossero state delle macchie sarebbero subito saltate all'occhio. Tirò il fiato appena capì che la notte prima tra lei e Ethan non era successo altro. Come se quello che era successo non fosse già abbastanza brutto. Incrociò le braccia e disse: «Fuori da casa mia. Questa è violazione di domicilio». «Ci hanno chiamato» disse Jeffrey. Adesso aveva un atteggiamento più deciso. Si avvicinò al cassettone per guardare le fotografie infilate nella cornice dello specchio. «Rumori molesti» aggiunse. Lena capì che la prendeva in giro. La sua camera era sull'angolo dell'edificio e il professore della porta accanto era via per un congresso. Anche se qualcuno avesse telefonato alla polizia, Jeffrey non avrebbe potuto arrivare tanto in fretta. Probabilmente aveva aspettato con Frank fuori dal pensionato e aveva sfruttato la rissa tra lei ed Ethan come pretesto per forzare la porta.
«Allora» disse Jeffrey. «Che diavolo è successo?» «Non so di che cosa stai parlando» disse lei guardandolo negli occhi. «Del tuo occhio, tanto per cominciare. Ti ha picchiato?» «Sono caduta contro il lavabo quando hai buttato giù la porta.» Gli fece un sorrisetto. «Il rumore mi ha spaventato.» «Capisco» disse Jeffrey. Indicò Ethan col pollice. «E lui?» Lena guardò Ethan, che riuscì a restituire l'occhiata con la coda dell'occhio. Qualunque cosa fosse successa tra loro, doveva riguardare solamente loro. «Lena?» la sollecitò Jeffrey. «Quello deve averlo fatto Frank quando è entrato» disse. Evitò di incrociare lo sguardo tagliente di Frank. Erano stati colleghi prima che lei venisse licenziata, lo conosceva troppo bene per non capire che con quelle bugie stava distruggendo gli ultimi brandelli del loro rapporto. Aveva infranto il codice. Ma dato come si sentiva in quel momento, non le importava un accidente. Jeffrey aprì il primo cassetto del cassettone, diede un'occhiata dentro e guardò Lena. Lei capì che aveva visto il fodero del coltello che metteva al polpaccio, ma la legge non proibiva di tenere coltelli nel cassetto delle calze. «Cosa stai facendo?» gli domandò, quando lui richiuse con un colpo il cassetto. Aprì il successivo, dove lei teneva la biancheria intima, vi infilò la mano e cominciò a rovistare. Tirò fuori un tanga nero che Lena non indossava da anni, tornò a guardarla e lo lasciò ricadere nel cassetto. Lei capì che stava cercando mutandine simili a quelle trovate nella camera di Andy Rosen e capì anche che non avrebbe più indossato un solo capo di quel cassetto. «Perché sei qui?» Cercò di mantenere un tono di voce normale. Jeffrey chiuse di scatto il cassetto. «Te l'ho detto ieri. Abbiamo trovato delle prove che ti collegano a un delitto.» Lena protese le mani, stupita di sentirsi tanto calma. «Arrestami.» Come aveva previsto, Jeffrey fece marcia indietro. «Vogliamo solo farti qualche domanda, Lena.» Lei si limitò a scrollare il capo. Non avevano abbastanza prove per arrestarla, altrimenti a quest'ora l'avrebbero già caricata sulla macchina di pattuglia. «Ma possiamo arrestare lui» aggiunse Jeffrey indicando Ethan. «Fatelo» lo sfidò Ethan.
«Stai zitto, Ethan» mormorò Lena fra i denti. «Arrestatemi» si ostinò Ethan. Frank lo schiacciò ancora di più contro il muro. Lui prese fiato come se volesse parlare, ma non disse nulla. Jeffrey sembrava divertito. Si avvicinò a Ethan e gli accostò le labbra all'orecchio. Disse: «Buongiorno, signor testimone oculare». Ethan si divincolò, ma Jeffrey riuscì a sfilargli con facilità il portafoglio. Trascurò le fotografie che Ethan aveva inserito e sorrise. «Ethan Nathaniel White» lesse. Lena cercò di non tradire la sorpresa, ma suo malgrado la bocca si aprì. «Allora, Ethan» disse Jeffrey, mettendogli una mano sulla nuca. «Ti andrebbe di passare una notte in galera?» Poi gli sussurrò nell'orecchio qualcos'altro che Lena non riuscì a sentire. Ethan si tese come un animale pronto a lanciarsi all'attacco. «Basta» disse Lena. «Lasciatelo in pace.» Jeffrey lo afferrò per il colletto della camicia e lo fece volare sul letto. «Mettiti le scarpe, ragazzo» ordinò, e col piede gli mise davanti gli scarponi neri da lavoro. «Non avete nulla contro di lui. Vi ho già detto che ho battuto contro il lavabo» disse Lena. «Lo porteremo alla centrale, vedremo cosa salta fuori.» Poi rivolto a Frank: «Il ragazzo sembra colpevole, non credi?». Frank ridacchiò. Lena stupidamente disse: «Non potete arrestare una persona perché sembra colpevole». «Troveremo qualcosa per incastrarlo» disse Jeffrey facendole l'occhiolino. Da quando Lena lo conosceva, non aveva mai forzato la legge fino a quel punto. Finalmente capì che era disposto a tutto pur di trascinarla alla centrale, a costo di farla pagare a un altro. «Lasciatelo andare» disse. «Io devo essere al lavoro fra mezz'ora. Possiamo parlare qui.» «No, Lena» disse Ethan alzandosi. Frank lo ributtò sul letto con uno spintone, ma Ethan scattò su di nuovo, con lo scarpone in mano. Stava per scagliarlo sulla faccia di Frank, quando Jeffrey gli sferrò un pugno sulle reni. Ethan si piegò in due con un gemito e Lena si mise in mezzo per evitare una rissa. Il polsino della camicia scivolò sul braccio e alla vista del polso Jeffrey inorridì.
Lei lasciò ricadere la mano. «Smettetela» disse. Jeffrey si chinò a raccogliere lo scarpone e lo rigirò tra le mani. Pareva interessato alla suola. «Resistenza all'arresto. Questo ti basta?» «D'accordo» cedette Lena. «Ti concedo un'ora.» Jeffrey tirò lo scarpone addosso a Ethan e ringhiò a Lena: «Tu mi concederai il cazzo di tempo che decido io». 9 Jeffrey stava aspettando Frank nel corridoio di fronte alla stanza degli interrogatori. Era stato nella saletta di osservazione a guardare Lena attraverso il falso specchio, ma il modo in cui lei fissava il vetro lo metteva a disagio, benché sapesse che Lena non poteva vederlo. Quella mattina aveva portato Frank all'appartamento di Lena, sperando insieme a lui di riuscire a condurla alla ragione. La sera prima si era preparato tutta la scena. Si sarebbero messi comodi e avrebbero parlato, magari bevendo un caffè, e tutto si sarebbe chiarito. Il piano era perfetto, ma non aveva messo in conto Ethan White. «Capo» disse Frank a bassa voce. Teneva in mano due tazze di caffè e Jeffrey ne prese una, anche se aveva già tanta di quella caffeina in corpo da far rizzare i peli sulle braccia. «È arrivato il dossier?» domandò. Le impronte rilevate dalla tazza che aveva usato Ethan non erano state di grande aiuto, ma il nome e il numero di patente avevano risolto la situazione. Non solo Ethan White era schedato, ma si trovava in libertà vigilata. Diane Sanders, l'agente che si occupava di lui, stava portando di persona l'incartamento relativo al suo caso. «Ho detto a Maria di farla venire qui» disse Frank, prendendo un sorso di caffè. «Sara ha scoperto qualcosa sul figlio dei Rosen?» «No» rispose Jeffrey. Sara aveva eseguito l'autopsia di Andy Rosen subito dopo quella di Ellen Schaffer. Dall'esame non era emerso nulla di eclatante e, a parte i loro sospetti, non c'erano elementi che facessero pensare a un omicidio. Disse a Frank: «Per la Schaffer si tratta sicuramente di omicidio. Ed è impossibile che non ci sia un collegamento tra i due casi. Solo che non riusciamo a vederlo». «E Tessa?» Jeffrey si strinse nelle spalle, ogni volta che cercava di stabilire un legame plausibile, la sua mente si confondeva. Aveva tenuto sveglia Sara quasi
tutta la notte cercando di capire che relazione potesse esserci fra le tre vittime. Si era arreso solo quando si era accorto che Sara si era addormentata sul tavolo di cucina. Frank sbirciò dalla finestrella sulla porta per dare un'occhiata a Lena. «Ha detto qualcosa?» «Non ho ancora cominciato.» Più che altro, non sapeva cosa chiederle. Non si era aspettato di trovare Ethan nella stanza quando avevano forzato la porta e si era preso una paura fottuta vedendo che Lena non rispondeva dal bagno. Per un attimo l'aveva immaginata morta sul pavimento. Non avrebbe dimenticato facilmente il panico che l'aveva assalito prima che lei si decidesse a uscire. E quando aveva capito che non solo si era lasciata picchiare da Ethan, ma lo voleva coprire, era rimasto sbigottito. Frank disse: «Non è da Lena comportarsi così». «C'è sotto qualcosa» convenne Jeffrey. «Credi che si sia lasciata menare da quel teppista?» Jeffrey bevve un sorso di caffè e gli venne in mente l'unica cosa a cui non voleva pensare. «Hai visto il polso?» «È conciato male.» «Questa storia non mi piace per niente.» «Ecco Diane» annunciò Frank. Diane Sanders era di media statura e aveva i più bei capelli grigi che Jeffrey avesse mai visto. A un primo sguardo sembrava abbastanza insignificante, ma emanava una sensualità genuina che coglieva sempre Jeffrey di sorpresa. Era molto brava nel suo lavoro e, nonostante fosse sempre piena di impegni, seguiva con scrupolo i soggetti in libertà vigilata che doveva tenere sotto sorveglianza. Venne subito al punto: «C'è White sotto interrogatorio?». «No» disse Jeffrey, anche se lo avrebbe desiderato. Lena aveva accettato di seguirli alla centrale, a patto che lasciassero andare Ethan. Diane parve sollevata. «Tre dei miei ragazzi sono finiti in cella in questo fine settimana e io sono stata sepolta dalle scartoffie. Vorrei evitare che anche questo mi desse dei problemi. Anzi, soprattutto questo.» Esibì un plico voluminoso. «Perché ce l'avete con lui?» " «Non lo sappiamo con certezza» rispose Jeffrey, passando il caffè a Frank per esaminare il dossier. Sulla prima pagina c'era una fotografia a colori di Ethan risalente al suo ultimo arresto. Allora aveva la testa e le guance perfettamente rasate, ma l'aria da criminale che aveva colpito Jeffrey al loro primo incontro era la stessa. Gli occhi erano gelidi e fissavano
l'obiettivo, come se Ethan volesse far capire a tutti che era pericoloso. Jeffrey lasciò perdere la foto e passò alla scheda segnaletica. Lesse tutto nei dettagli e fu come ricevere un pugno nello stomaco. «Già» disse Diane vedendolo turbato. «Da allora però è immacolato. Si comporta bene e fra meno di un anno finirà anche il periodo di libertà vigilata.» «Sei sicura?» domandò Jeffrey che aveva colto qualcosa nel tono della voce. «Per quel che mi risulta, sì. E gli faccio controlli a sorpresa quasi tutte le settimane.» «Si direbbe che ti aspetti qualcosa.» Il fatto che Diane si imponesse di trovare il tempo per fare visite a sorpresa a Ethan, la diceva lunga. Evidentemente cercava di sorprenderlo in flagrante. «Voglio solo essere sicura che sia pulito» disse con un'espressione pensosa. Frank domandò: «Si droga?». «Gli chiedo un campione di urina ogni settimana, ma quelli come lui la droga non la toccano neppure. Non bevono, non fumano.» Si interrupe. «Per loro tutto si riduce a una questione di forza o di debolezza. Potere, controllo, intimidazione: è da lì che gli arriva l'adrenalina, è la loro droga.» Jeffrey si riprese il caffè e passò il dossier a Frank. Pensò che le parole di Diane calzavano a pennello per Lena, più che per Ethan White. Gli era già successo di preoccuparsi per lei, ma adesso aveva paura che si fosse cacciata in qualche guaio da cui non riusciva più a tirarsi fuori. Diane disse: «Fa tutto quello che deve fare. Ha terminato il corso per il controllo dell'aggressività...». «Al college?» «No» disse. «Al servizio sanitario della contea. Non credo che al Grand Tech abbiano bisogno di un servizio come quello.» Jeffrey sospirò. Secondo lui era il contrario. «Chi c'è là dentro?» domandò Diane sbirciando dalla finestrella. Jeffrey sapeva che poteva vedere Lena solo di spalle. «Grazie per il dossier» rispose. Diane afferrò al volo e lasciò perdere. «Di nulla. Fatemi sapere se combina qualcosa. Lui dice di essere cambiato, ma quei tipi non cambiano mai.» Jeffrey domandò: «A chi potrebbe nuocere secondo te?». «Alla società?» Scrollò le spalle. «Alle donne?» Strinse le labbra poi ag-
giunse: «Leggi il dossier. È solo la punta dell'iceberg, ma non c'è bisogno che sia io a dirtelo». Indicò la porta. «Se quella è la sua ragazza, è meglio che se lo levi di torno.» Jeffrey si limitò ad annuire e Frank, che stava ancora leggendo, borbottò una bestemmia. Diane guardò l'orologio. «Ho un'udienza, devo andare.» Jeffrey le strinse la mano. «Grazie ancora.» «Se lo arrestate, fatemelo sapere. Avrò un motivo in meno per stare sveglia la notte.» Si voltò per andarsene, poi ci ripensò e disse a Jeffrey: «Tieni in riga i tuoi ragazzi, se cerchi di incastrarlo. Ha già trascinato in tribunale due capi della polizia». «E ha vinto lui?» «Hanno patteggiato» disse. «Però loro hanno dato le dimissioni.» Gli lanciò un'occhiata eloquente. «Tu mi rendi il lavoro più facile, capo. Mi spiacerebbe perderti.» «D'accordo.» Accolse di buon grado sia il complimento che l'avvertimento. Quando se ne fu andata, Jeffrey si voltò verso Frank che leggeva muovendo le labbra. «Brutta storia» disse. «Vuoi che lo arresti?» «E per che cosa?» domandò lui riprendendosi il dossier. Lo aprì e scorse di nuovo le pagine. Se Diane aveva ragione, Jeffrey aveva solo una possibilità di arrestarlo. E quando fosse successo - perché non aveva dubbi che prima poi sarebbe riuscito a sbatterlo dentro - avrebbe fatto meglio a procurarsi qualcosa di molto consistente con cui incastrarlo. Frank disse: «Vedi se riesci a convincere Lena a denunciarlo». «Credi davvero che lo farebbe?» Ebbe un moto di repulsione nel rileggere il profilo di Ethan. Diane Sanders aveva ragione anche su un altro punto: il ragazzo era bravo a smantellare le accuse. Era stato arrestato almeno dieci volte in altrettanti anni, ma era stato condannato solo una volta. «Vuoi che entri con te?» domandò Frank. «No» disse Jeffrey guardando l'orologio sulla parete. «Chiama Brian Keller. Dovevo essere da lui dieci minuti fa. Digli che passerò più tardi.» «Vuoi ancora che raccolga informazioni su di lui?» «Sì» confermò, anche se quella mattina aveva pensato di dare l'incarico a Lena. Nonostante tutto quello che era capitato dopo, voleva ancora indagare a fondo su Brian Keller. C'era qualcosa che non quadrava in quell'uomo. «Se hai delle novità, fammelo sapere.»
«Sarà fatto» disse Frank uscendo. Jeffrey appoggiò la mano sulla maniglia della porta, ma esitò. Trasse un respiro profondo per riordinare le idee, poi si decise a entrare. Lena non si mosse e rimase con gli occhi fissi alla parete. Era seduta sulla sedia dei sospetti, quella che era inchiodata al pavimento e aveva un anello sullo schienale per agganciare le manette. Il sedile metallico era duro e scomodo, ma probabilrnente a Lena non importava di stare scomoda. Quello che la faceva imbestialire era l'idea che Jeffrey avesse deciso di piazzarla lì. Jeffrey le girò intorno e si sistemò di fronte a lei posando sul tavolo il dossier di Ethan. Sotto la luce cruda le ferite spiccavano come un'auto nuova in un salone di esposizione. TI livido attorno all'occhio si stava scurendo e c'era del sangue rappreso sulla guancia. La mano era nascosta dalla manica, ma da come la teneva sul tavolo si capiva che le faceva ancora male. Jeffrey si domandò come potesse accettare di farsi ridurre in quello stato, dopo tutto quello che aveva già passato. Era una donna forte che sapeva come usare i pugni. Gli sembrava ridicolo pensare che non fosse in grado di difendersi. C'era qualcos'altro che lo disturbava, e capì cos'era solo quando ebbe preso posto di fronte a lei. Lena aveva i postumi di una sbronza, tutto il corpo trasudava puzza di alcol e di vomito. Aveva sempre mostrato istinti autodistruttivi, ma Jeffrey non aveva mai immaginato che potesse arrivare a quel punto. Era come se non le importasse più nulla di se stessa. «Come mai ci hai messo tanto?» domandò. «Ho fretta, devo andare a lavorare.» «Vuoi che avvisi Chuck?» Lei socchiuse gli occhi. «Tu che cazzo ne pensi?» Jeffrey lasciò passare qualche secondo per farle capire che doveva moderare i termini. Sapeva che con lei ci volevano le maniere forti, ma ogni volta che la guardava gli balenava nella mente l'immagine di un anno prima, quando l'aveva trovata inchiodata al pavimento, col corpo devastato e lo spirito annientato. Levare quei chiodi era stata la cosa più ardua che Jeffrey avesse fatto in vita sua. Anche adesso, al solo ricordo, sudava freddo. Eppure nel profondo sentiva anche qualcos'altro. Era arrabbiato. Non solo arrabbiato, era furioso. Dopo tutto quello che le era toccato superare, com'era possibile che fosse finita con un essere ignobile come Ethan White? Lei disse: «Non ho intenzione di stare qui tutto il giorno». «Allora vedi di non farmi perdere tempo.» Lei non rispose e lui soggiun-
se: «Si direbbe che hai fatto tardi ieri sera». «E allora?» «Hai un aspetto di merda, Lena. Ti sei messa a bere, adesso? È così?» «Non so di che cosa stai parlando.» «Non fare la scema. Puzzi come una barbona. Hai la camicia sporca di vomito.» Lei per un attimo si vergognò, ma un secondo dopo sintonizzò di nuovo la faccia sull'incazzato. «Ho visto la scorta in cucina» continuò lui. In uno degli armadietti aveva trovato due bottiglie di Jim Bean, schierate come soldatini in attesa di farsi scolare. Nella pattumiera c'era una bottiglia vuota di Maker's Mark. Nel bagno c'era un bicchiere vuoto che puzzava di alcol e un altro era rovesciato accanto al letto. Jeffrey era cresciuto con un alcolizzato. Conosceva i rituali, sapeva identificare i segni. «È così che lo affronti, eh? Nascondendoti dietro una bottiglia» le sparò addosso. «Affronto cosa?» «Quello che ti è successo» rispose Jeffrey, ma fece marcia indietro perché non se la sentiva di provocarla proprio su quell'argomento. Decise di far leva sul suo ego. «Non avrei mai pensato che fossi una codarda, Lena, ma non è la prima volta che mi sorprendi.» «Ho tutto sotto controllo.» «Come no.» Ebbe un moto di rabbia. Era quello che diceva sempre suo padre, le solite bugie pietose per negare l'evidenza. «Cosa si prova a svuotare lo stomaco tutte le mattine prima di andare al lavoro?» «Non è il mio caso.» «No? Non ancora.» Non avrebbe mai dimenticato Jimmy Tolliver, che appena sceso dal letto correva a mettersi con la testa sopra il water e poi si trascinava in cucina in cerca di qualcosa da bere per affrontare la giornata. «La mia vita non ti riguarda.» «Cosa fai per far passare il mal di testa? Correggi il primo caffè del mattino?» Serrò e rilasciò i pugni per frenare la collera e non perdere il controllo sull'interrogatorio. Tirò fuori il flacone di pillole che aveva trovato nell'armadietto delle medicine e lo sbatté sul tavolo. «O forse ti aiuti con queste?» Lena fissò il flacone e lui capì che stava cercando una risposta. «Quelle sono per il dolore.» «Piuttosto forti per un mal di testa» disse. «Per il Vicodin ci vuole una
ricetta. Forse dovrei parlare col dottore che te le fornisce.» «Non sono per quel dolore, cazzone.» Alzò le mani per mostrare le cicatrici. «Cosa credi? Che sia tutto passato appena sono uscita dall'ospedale? Che per magia tutto sia tornato come prima?» Jeffrey guardò le cicatrici, da una usciva un rivolo di sangue fresco. Cercò di mantenere un'espressione neutra mentre tirava fuori il fazzoletto. «Prendi questo» disse. «Stai sanguinando.» Lena si guardò la mano e la chiuse a pugno. Jeffrey lasciò il fazzoletto sul tavolo, allibito dalla sua indifferenza. «Che ne pensa Chuck, del fatto che ti presenti al lavoro ubriaca?» «Non bevo mai sul lavoro» rispose. Jeffrey le catturò nello sguardo un guizzo di amarezza. L'aveva toccata nel vivo. Lena prese a tormentarsi la cicatrice facendo uscire altro sangue e lui inorridì. «Smettila» disse, afferrandole le mani. Le tamponò il palmo con il fazzoletto cercando di fermare il sangue. Lena deglutì. Lui vide fremere la gola e pensò che fosse sull'orlo delle lacrime. «Lena, perché ti fai del male?» Lo disse lasciando trapelare tutta la compassione che provava in quel momento. Lei aspettò un attimo prima di ritrarre le mani, poi le nascose sotto il tavolo perché non potesse vederle. Fermò lo sguardo sul dossier. «Cos'hai portato?» «Lena.» Scrollò la testa e dal modo in cui muoveva le spalle Jeffrey capì che si stava ancora tormentando la cicatrice. «Veniamo al punto» disse, quasi rassegnato. Lasciò il dossier sul tavolo e prese dalla tasca della giacca un foglio piegato. Come lo aprì capì che Lena lo aveva subito riconosciuto. Nel corso degli anni aveva visto tante di quelle analisi di laboratorio che non si poteva sbagliare. Fece scivolare il foglio sul tavolo in modo che lei lo avesse davanti agli occhi. Disse: «È un raffronto fra un pelo pubico che abbiamo trovato nelle mutandine che Andy Rosen teneva in camera e uno tuo». Lena scosse la testa senza guardare il documento. «Tu non hai un campione mio.» «L'ho preso nel tuo bagno.» «Non oggi. Non ne hai avuto il tempo.»
«No» ammise, vedendo che lei cominciava a capire. Frank era entrato nell'appartamento con un passepartout mentre Lena si trovava al caffè con Ethan. Jeffrey non andava certo fiero di quei metodi e la sera prima aveva evitato con cura di farne cenno a Sara. Ma fino alla sera prima era convinto che nessuno ne avrebbe mai saputo nulla. Aveva agito nella convinzione di aiutare Lena, dato che lei si rifiutava di aiutare se stessa. «È una prova ottenuta illegalmente» disse con un filo di voce. Jeffrey vi colse tutta la tristezza che si prova quando ci si sente traditi. «Ti eri rifiutata di parlare» si giustificò, pur sapendo che era ingiusto addossare a lei la colpa. Cercò di spiegarsi. «Io pensavo di toglierti dai guai, Lena. Stavo solo cercando di toglierti dai guai.» Lena avvicinò il foglio per leggerlo. Lui vide che ricominciava a grattare la cicatrice e quando una goccia di sangue cadde sulla pagina bianca si sentì soffocare per il senso di colpa. Lei alzò gli occhi verso il falso specchio, forse domandandosi chi c'era dall'altra parte. Jeffrey aveva raccomandato a Frank di non seguire l'interrogatorio e di non fare entrare nessuno. «Allora?» Lena si abbandonò contro lo schienale e afferrò il sedile con le mani. Jeffrey fu quasi sollevato di vederla arrabbiata, gli sembrava di ritrovare la Lena di un tempo. «Non so cosa credi di aver concluso con quello» disse lei indicando il foglio. «È semplicemente impossibile che qualcosa di mio combaci con quello che avete trovato nella camera del ragazzo.» Drizzò le spalle. «E poi, i peli non sono prove inoppugnabili. Al massimo si potrà dire che dall'esame microscopico risultano simili, ma sai cosa ti dico io? Chi cazzo se ne frega. Prova a fare l'esame a tutte le ragazze del campus, vedrai che almeno la metà risulterà simile. Non riuscirai a fregarmi.» «E le impronte digitali?» «Dove le hai trovate?» «Secondo te?» «Vaffanculo.» Scattò in piedi, ma non fece un passo, forse perché sapeva che Jeffrey l'avrebbe fermata. La lasciò stare perché capisse da sola che il suo era un gesto stupido, poi disse: «Vogliamo parlare del tuo ragazzo?». Gli lanciò un'occhiata malevola. «Non è il mio ragazzo.» «Non pensavo che te la facessi coi razzisti.»
Le labbra si aprirono, ma Jeffrey non riuscì a decifrare se era per la sorpresa o se Lena stava solo cercando una risposta che non tradisse Ethan. «Be', vuol dire che non mi conosci abbastanza.» «È lui che va in giro a imbrattare il campus con quelle scritte di merda?» Rise. «Perché non lo chiedi a Chuck?» «Gli ho parlato stamattina. Ha detto che ha chiesto a te di individuare i responsabili, ma che tu non hai fatto niente.» «Balle» rispose. Jeffrey non sapeva se credere a Lena o a Chuck. Fino a due giorni prima non avrebbe avuto dubbi. Adesso non sapeva più cosa pensare. «Siediti, Lena.» Aspettò che si decidesse a riprendere il suo posto. «Lo sai che Ethan è in libertà vigilata?» Incrociò le braccia sul petto. «E allora?» Lui si limitò a guardarla, sperando che il silenzio la convincesse a diventare ragionevole. Lena domandò: «È tutto?». «Il tuo ragazzo ha quasi ammazzato di botte una ragazza in Connecticut» disse. «A proposito, come va l'occhio nero?» Lena si toccò il livido con un dito. «Lena?» Non tradì alcuna reazione. «Non farò causa al dipartimento, se è questo che vuoi sapere. Sono incidenti che succedono.» «Forse anche l'accoltellamento di Tessa è stato un incidente» azzardò Jeffrey. Lena si strinse nelle spalle. «Forse.» «O forse a qualcuno non andava che una ragazza bianca fosse incinta del figlio di un nero.» Lei non reagì. «Forse a qualcuno non andavano due studenti ebrei nel campus.» «Due?» «Non mentire con me, Lena. Non dirmi che non hai saputo di Ellen Schaffer.» Puntò il dito sul dossier. «Parlami del tuo ragazzo.» Lena drizzò la schiena. «Ethan non c'entra niente, e lo sai anche tu.» «Lo so? Lascia che ti dica cosa so, Lena.» Contò sulle dita. «So che sei stata nell'appartamento di Andy Rosen e so che su questo punto hai mentito. So che Andy Rosen e Ellen Schaffer sono morti e so che chi li ha uccisi ha cercato di simulare il suicidio.» Si interruppe, nella speranza che lei dicesse qualcosa. Quando vide che non ne aveva intenzione proseguì. «So che Tessa Linton è stata accoltellata
da un maschio di corporatura esile, con i capelli rasati e senza alibi per la domenica pomeriggio...» «Io ho visto l'aggressore» lo interruppe lei. «Non era Ethan. Quel tipo era più alto e più robusto.» «Davvero? La descrizione di Matt è un po' diversa dalla tua. Strano.» «Stai dicendo solo stronzate. Ethan non c'entra.» «Cerca di guardare in faccia la realtà, Lena.» Ma a lei non sfuggì l'incongruenza che la sera prima aveva notato anche Sara. «Tu credi che qualcuno abbia inscenato il suicidio di Rosen e poi sia rimasto nei paraggi, sperando che arrivasse Tessa Linton a fare pipì in modo da poterla accoltellare? È di una stupidità abissale.» Fece una pausa per riordinare le idee. «Chi cazzo vuoi che sappia chi è Tessa Linton, e tanto meno che si scopa un nero? Io di certo non lo sapevo. Tu credi che agli studenti del campus importi qualcosa di quello che fa un idraulico?» Sbuffò. «Stiamo solo perdendo tempo. Non hai in mano niente.» «Io so che stai bevendo troppo.» La vide irrigidirsi. «Hai delle amnesie? Forse c'è qualcosa che non ricordi.» «Ti ho già detto che non conoscevo Andy Rosen.» «Perché allora ti sei sorpresa, quando ho fatto il suo nome sulla collina?» «Questo non me lo ricordo.» «Ma io sì» disse, toccando la tasca dove teneva l'esame di laboratorio. «E Chuck allora?» azzardò. Lui si abbandonò sulla sedia e la fissò sconcertato, domandandosi se non si fosse bevuta anche il cervello. «Chuck era con te quando abbiamo trovato Andy Rosen, non ti ricordi?» Lei annuì appena, chinando la testa perché lui non potesse leggerle negli occhi. Jeffrey continuò a parlarle come se fosse una bambina di terza elementare. «E quando Tessa è stata accoltellata era con Andy.» Fece una pausa. «O credi che si sia fatto spuntare le ali per inseguirla e tornare giù a cose fatte?» Lena lo guardò disperata. Naturalmente la disperazione veniva dalla paura. Nascondeva qualcosa e Jeffrey pensò di sapere cosa. Prese il dossier, lo aprì e glielo mise davanti. «Ethan ti ha mai raccontato queste cose?» Lena pane indecisa, poi la curiosità ebbe il sopravvento e lei cominciò a leggere. Jeffrey rimase a guardarla mentre ricostruiva la storia degli arresti
di Ethan e del suo sordido passato scorrendo pagina dopo pagina. Quando arrivò all'ultima, lui aggiunse: «Suo padre era una specie di nazista, fermamente convinto della superiorità della razza bianca». Lei appoggiò la mano sul dossier. «Qui dice che era un predicatore.» «Anche Charles Manson lo era. Anche David Koresh. Anche Jim Jones.» «Non so...» «Ethan è cresciuto in mezzo a quella roba, Lena. È cresciuto nell'odio.» Lena incrociò le braccia. Jeffrey la studiò attentamente. Cercò di capire se quelle cose per lei erano una novità o se White gliele aveva già raccontate fornendo una sua versione dei fatti. «È stato accusato di violenza sessuale quando aveva solo diciassette anni.» «Il caso è stato archiviato.» «Perché la ragazza era troppo spaventata per testimoniare.» Lei indicò il dossier. «È in libertà vigilata per assegni scoperti in Connecticut. Capirai.» Jeffrey la squadrò non sapendo cos'altro fare. Cercò di dimostrarle l'evidenza. «Quattro anni fa, sulla scena del delitto dove una ragazza era stata violentata e uccisa, sono state rilevate le impronte del suo fuoristrada.» «Può anche avercele piazzate qualcuno, come avete fatto con me» osservò sarcastica. «La ragazza è stata violentata e poi uccisa» ripeté Jeffrey. «Lo sperma prelevato dal retto e dalla vagina ha dimostrato che almeno sei ragazzi avevano abusato di lei prima di ammazzarla di botte.» Fece una pausa. «Sei ragazzi, Lena. Sono parecchi. L'hanno immobilizzata e violentata a turno.» Rimase impassibile. «E il fuoristrada di Ethan era lì.» Lena alzò le spalle, ma Jeffrey ebbe la sensazione che faticasse a rimanere seduta. «È così che l'hanno convinto a fare la spia. Le impronte dei pneumatici combaciavano con quelle del suo fuoristrada. Sapevano dove trovarlo, perché era già schedato per prodezze simili.» Tamburellò sul dossier. «E sai cos'ha fatto? Sai cos'ha fatto il tuo ragazzo? Ha venduto i suoi amici per salvarsi il culo e, come tutti i traditori che si rispettino, ha ammesso di trovarsi lì, ma ha giurato su una pila di bibbie che lui non l'aveva toccata.» Lei rimase zitta. «Credi che sia rimasto al volante? Credi che sia rimasto lì, mentre cia-
scuno aspettava il suo turno? O credi che sia sceso a fare la sua parte? Credi che le abbia tenuto giù le mani perché non li graffiasse? Forse ha dato una mano ad allargarle le gambe per facilitare l'impresa, forse le ha messo una mano sulla bocca per non farla urlare.» Continuò a tacere. «In ogni modo, concediamogli il beneficio del dubbio. Vuoi? Diciamo che era seduto al volante. Diciamo che è rimasto là a guardare gli altri che la violentavano. Forse gli bastava quello per eccitarsi, gli bastava guardare gli altri che la massacravano e sapere che lei non poteva difendersi. Poteva salvarla, ma non l'ha fatto.» Lei ricominciò a tormentarsi la cicatrice e Jeffrey continuò a fissarla cercando di non guardarle le mani. «Sei ragazzi, Lena. Quanto ci avranno messo sei ragazzi a stuprarla, mentre il tuo stava seduto a guardare, se si è limitato a quello? Poi l'hanno picchiata a morte. Mi domando perché si siano dati la pena di farlo. Quando hanno finito di violentarla, sanguinava abbondantemente, bastava che la lasciassero lì, a morire dissanguata.» Lei si morse le labbra e si guardò le mani. Il sangue continuava uscire dal palmo, ma era come se non lo vedesse. Jeffrey abbassò la guardia per un attimo, incapace di trattenersi. «Perché lo vuoi proteggere?» domandò. «Hai fatto il poliziotto per dieci anni e adesso ti metti a proteggere un tale rifiuto umano?» Gli sembrò di avere colpito nel segno, quindi continuò. «Lena, quel ragazzo è cattivo. Non so cosa tu abbia a che fare con lui, ma... Cristo santo! Sei un poliziotto. Lo sai anche tu che riescono sempre a fregare la legge, questi stronzi. Per ogni piccola stronzata per cui si è fatto beccare, ce ne sono dodici enormi in cui l'ha fatta franca.» Andò avanti. «Suo padre ha fatto il carcere duro - il carcere federale perché vendeva armi. Non sto parlando di pistole. Trafficava in mitragliatrici e armi di precisione.» Si fermò sperando che dicesse qualcosa, ma Lena continuò nel suo silenzio. «Ethan ti ha detto di suo fratello?» «Sì» rispose, ma con tale prontezza che fu evidente che mentiva. «Allora lo sai che è in prigione?» «Sì.» «Lo sai che è nel braccio della morte perché ha ucciso un nero?» Fece un'altra pausa. «Non solo un nero, Lena, Un poliziotto nero.» Lena fissò il tavolo. Jeffrey notò che le tremava il piede, ma non riuscì a capire se era solo furiosa o se stava per cedere.
«È un ragazzo cattivo, Lena.» Lei scrollò di nuovo la testa, come se non avesse le prove sotto gli occhi. «Te l'ho già detto. Non è il mio ragazzo.» «Chiunque sia, è uno skinhead. Non ha importanza se si è fatto crescere i capelli o ha cambiato nome. È sempre un bastardo razzista, tale e quale a suo padre, tale e quale al fratello che ha ucciso un agente.» «E io sono mezza ispanica. Ti sei mai chiesto cosa ci fa con una come me, se è un razzista?» «Questa è una buona domanda. Domandalo a te stessa, la prossima volta che ti guardi allo specchio.» Finalmente Lena lasciò stare la cicatrice, giunse le mani e le posò sul tavolo. «Ascoltami» ricominciò Jeffrey. «Ti avverto per l'ultima volta. Qualunque sia il pasticcio in cui ti sei cacciata, comunque stiano le cose tra te e quel ragazzo, devi dirmi tutto. Non posso aiutarti, se continui a nasconderti.» Lei si guardò le mani e non parlò. Jeffrey avrebbe voluto prenderla per le spalle e scrollarla, costringerla a dire qualcosa che avesse un senso, farsi spiegare come fosse finita con quel pezzo di merda di Ethan White. Ma soprattutto voleva sentirsi dire che era stato solo un grosso equivoco, che era pentita. E che avrebbe smesso di bere. Invece lei osservò: «Non so di che cosa stai parlando». Lui fece un altro tentativo. «Se c'è qualcosa che non mi stai dicendo riguardo a questa...» cominciò, sperando che fosse lei a proseguire. Naturalmente non accadde. Provò con un'altra tattica. «Non potrai mai riavere il lavoro nella polizia, con quel tipo tra i piedi.» Lena alzò gli occhi e per la prima volta Jeffrey le lesse in viso un'espressione inequivocabile: era sorpresa. Si raschiò la gola, come se faticasse a trovare la voce. «Non sapevo che fosse ancora una possibilità aperta.» Jeffrey se la immaginò ora, alle dipendenze di Chuck, e si sentì rodere dentro come il giorno in cui aveva avuto la notizia dell'assunzione. «Tu non dovresti lavorare con quell'idiota.» «Sì, hai ragione» disse lei, sempre a bassa voce. «Ma l'idiota con cui lavoravo prima, mi ha fatto capire chiaramente che non mi voleva più.» Guardò l'orologio. «A proposito, sono in ritardo per il lavoro.» «No, non te ne puoi andare così.» Si accorse che la stava quasi suppli-
cando. «Ti prego Lena... Io voglio solo... ti prego.» Lena sghignazzò con insofferenza, facendolo sentire un idiota. «Ho detto che avrei parlato con te. Se non hai qualcosa di cui accusarmi, la cosa finisce qui.» Jeffrey si accasciò contro lo schienale. Non voleva rinunciare all'idea di arrivare a una spiegazione. «Arrivederci, capo» disse lei con sarcasmo. Lui prese il dossier e cominciò a sfogliarlo, leggendo ad alta voce tutti i capi d'imputazione che non avevano mai visto i banchi di un tribunale. «Incendio doloso» cominciò. «Aggressione. Furto aggravato. Stupro. Omicidio.» «Sembra l'ultimo best-seller» disse Lena alzandosi in piedi. «Grazie per la bella chiacchierata.» «La ragazza» ricominciò Jeffrey, «quella che è stata violentata e picchiata a morte mentre lui stava a guardare.» Lena non fece un passo e lui proseguì. «Sai chi era?» Tornò subito quella di prima. «Chi era, Biancaneve?» «No» disse lui chiudendo il dossier. «Era la sua ragazza.» Jeffrey era seduto in macchina di fronte alla sede dell'associazione studentesca e guardava un gruppo di ragazze che attaccavano col nastro adesivo dei manifesti ai lampioni del cortile. Erano giovani, in buona salute, vestite con completi da jogging o tute da ginnastica. Ognuna di loro avrebbe potuto essere Ellen Schaffer. Ognuna di loro poteva essere la prossima vittima. Era venuto per dire a Brian Keller che probabilmente suo figlio era stato assassinato. Voleva vedere come avrebbe reagito. E voleva anche scoprire che cos'era quello di cui non aveva voluto parlare di fronte alla moglie. Sperava che le risposte di Keller gli fornissero una pista per andare avanti. La sera prima Sara gli aveva fatto notare le differenze tra i due crimini e aveva ipotizzato che gli assassini fossero due invece che uno. Allora Jeffrey aveva scartato l'idea, ma dopo aver trovato Lena ed Ethan insieme quella mattina, non era più sicuro di nulla. Nella stanza degli interrogatori Lena era diventata una persona diversa, qualcuno che lui non aveva mai conosciuto. L'accanimento con cui aveva difeso il passato di Ethan White, e addirittura negato di essere stata picchiata, lo spingeva a dubitare di tutto quello che aveva detto fino a quel momento. Jeffrey faceva il poliziotto da troppo tempo per non sapere che
gli uomini violenti riescono a circuire anche le donne più forti. Era incredibile come fossero simili i loro metodi e come molte donne si lasciassero dominare senza opporre resistenza. C'erano migliaia di donne chiuse in cella perché avevano nascosto la droga per conto dei loro uomini. E forse altre migliaia avevano commesso dei reati solo perché stare dietro le sbarre era l'unico modo per proteggersi dai maltrattamenti. A Birmingham, quando faceva l'agente di pattuglia, Jeffrey aveva ricevuto almeno una decina di richieste di intervento a casa di una tizia. La donna era l'addetta alle pubbliche relazioni di una grande multinazionale e aveva due lauree. C'erano almeno mille impiegati in varie parti del mondo che rispondevano ai suoi ordini, eppure, ogni volta che Jeffrey andava a casa sua chiamato dai vicini, si presentava alla porta con la faccia sanguinante e i vestiti strappati sostenendo di essere caduta dalle scale. Suo marito era un buono a nulla, piccolo e magro come un chiodo, che osava definirsi un papà a tempo pieno. In realtà era un alcolizzato che non riusciva a conservare un lavoro e campava grazie ai soldi della moglie. Come quasi tutti i violenti, dopo avere abusato di lei diventava carino e premuroso e fingeva di non vedere come l'aveva ridotta. Adesso alla polizia non serve la denuncia della moglie per arrestare il marito per violenze, ma un tempo era indispensabile. Gli tornò in mente un episodio particolare. Lui era fermo sulla porta con un freddo che tagliava la faccia e vedeva il sangue che le colava dalla gamba formando una piccola pozza tra i piedi mentre lei gli raccontava che suo marito era un uomo gentile, che mai si sarebbe sognato di metterle le mani addosso. Di fatto, l'unica volta che Jeffrey aveva visto il marito toccarla era stato al suo funerale. Aveva infilato la mano nella bara e le aveva accarezzato la mano, poi aveva guardato Jeffrey con un sorriso impertinente e aveva detto: «Quell'ultimo gradino le è stato fatale». Jeffrey aveva lavorato due anni insieme al patologo per cercare di inchiodare quel verme, ma non è semplice dimostrare che una donna si è rotta Tosso del collo perché è stata spinta dalle scale. Tutto questo lo riportò a Lena e a come si era comportata quella mattina. Aveva ragione a sostenere che l'analisi del pelo pubico era solo una prova circostanziale. Le impronte sul libro potevano essere spiegate e accantonate con facilità da un buon avvocato. Lena si era formata alla scuola di Jeffrey e aveva familiarità con le alterne vicende delle indagini forensi. Sapeva che cos'era importante e sapeva esattamente come eliminare le tracce. Ma il punto era: lo aveva fatto? Era succube di Ethan White tanto da rovi-
narsi per coprirlo? Jeffrey doveva badare ai fatti, e i fatti inducevano a crederla sospetta, soprattutto visto l'atteggiamento ostile tenuto nel corso dell'interrogatorio. Aveva fatto di tutto per impedirgli di chiarire la situazione. Si costrinse suo malgrado a riprendere in considerazione l'ipotesi dei due assassini prospettata da Sara la sera prima. Il punto debole rimaneva sempre l'aggressione a Tessa nel bosco. Dopo aver letto la scheda di Ethan White e aver parlato con Lena, Jeffrey doveva prendere in considerazione anche un'altra possibilità. Ethan poteva avere ucciso Andy Rosen. Lena era arrivata tardi sulla scena del delitto. Poteva aver chiamato Ethan col cellulare per avvisarlo che nel bosco c'era Tessa. Non era possibile stabilire dove i due si trovassero quando Ellen Schaffer si era suicidata, ma Jeffrey era sicuro che Lena avrebbe notato la discrepanza tra il calibro della canna e quello della cartuccia. Di fucili ne sapeva più di qualsiasi uomo che lui conosceva. Non era molto consolante il fatto che il ruolo di Lena si riducesse a quello di semplice complice. Per la legislazione della Georgia era colpevole quanto Ethan. Si stropicciò gli occhi dicendosi che stava sfiorando il ridicolo. Lena era un poliziotto, anche se non portava più il distintivo. Per quanto Ethan potesse averla stregata, non era neppure pensabile che si fosse spinta fino all'omicidio, nemmeno nel ruolo di complice. Era una follia. L'unica ragione di sospetto era il suo atteggiamento ostile. Ma come gli aveva tatto notare Sara, Lena ci provava gusto a farlo incazzare. Prese dalla tasca il cellulare e chiamò l'ufficio di Kevin Blake. Al preside del Grant Tech piaceva dare l'impressione di essere un uomo molto occupato, ma Jeffrey sapeva che passava buona parte del suo tempo sul campo da golf. Voleva fissare un appuntamento con lui per aggiornarlo sul corso dell'indagine prima che se la filasse dal lavoro. La segretaria glielo passò all'istante. «Jeffrey» disse Blake. Aveva il vivavoce inserito e questo fu sufficiente a rivelare che c'era qualcun altro nella stanza, per quanto lo si sarebbe potuto intuire anche dalla tensione nella voce. «Da dove chiama?» «Dal campus.» Keller aveva detto a Frank che se Jeffrey voleva parlargli in privato lo poteva trovare al laboratorio. Dopo Lena, Keller continuava a essere la pista più interessante da esplorare, anche se c'era il rischio di finire in un vicolo cieco. Blake disse: «Ci sono Albert Gaines e Chuck qui con me. Stavamo per
chiamare la centrale per chiederle di venire qui». Jeffrey represse l'imprecazione che gli era venuta spontanea alle labbra. «Ehi, capo» si intromise Chuck. Jeffrey immaginò il sorrisetto compiaciuto. «C'è qui un bel caffè con le frittelle che la sta aspettando.» Seguì un borbottio che probabilmente proveniva da Albert Gaines. Blake proseguì: «Jeffrey, può fare un salto? Le devo parlare». «Posso passare fra un'ora» rispose. Se pensavano che era pronto a precipitarsi al primo schioccare di dita, si sbagliavano di grosso. «Ho un indizio che voglio verificare.» «Oh» esclamò Blake, probabilmente contrariato di dover posticipare la partita di golf. «Sicuro che non può fare un salto adesso?» Albert Gaines borbottò di nuovo qualcosa. Era un uomo burbero che esigeva obbedienza dai suoi subordinati, ma con Jeffrey era sempre stato indulgente. Blake si era sicuramente preso un rimprovero. Con un tono sbrigativo disse: «D'accordo capo, allora ci vediamo fra un'ora». Jeffrey chiuse il telefono e ci appoggiò il mento, continuando a guardare il gruppo delle ragazze che stava terminando il giro del cortile. Scese dalla macchina e si fermò a leggere un manifesto. In alto erano riportate in bianco e nero le foto sfocate di Ellen Schaffer e di Andy Rosen. Sotto c'era scritto: VEGLIA A LUME DI CANDELA. Erano indicati il luogo e l'ora, insieme a un nuovo numero verde per le emergenze-suicidio, messo a disposizione dal centro di igiene mentale. «Crede che servirà a qualcosa?» Jeffrey trasalì, colto alla sprovvista da Jill Rosen. «Dottoressa Rosen...» «Jill» lo corresse lei. «Mi spiace di averla spaventata.» «Non si preoccupi» disse. Pensò che aveva una faccia ancora più devastata del giorno prima. Gli occhi erano così gonfi di pianto che si erano ridotti a due fessure e le guance erano scavate. Indossava un maglione bianco a maniche lunghe con il collo alto, chiuso da una zip. Mentre parlava afferrò i due lembi del colletto con la mano, come per proteggersi dal freddo. «Ho una faccia da far paura» si scusò. «Stavo andando da suo marito» disse Jeffrey, convinto che a quel punto fosse sfumata ogni possibilità di parlare a quattr'occhi con lui. «Dovrebbe arrivare subito.» Mostrò un mazzo di chiavi. «È quello che tiene di scorta» spiegò. «Gli ho detto che sarei venuta. Avevo bisogno di
uscire di casa.» «Mi sorprende che sia già tornato al lavoro.» «Il lavoro lo aiuta.» Fece un sorriso sbiadito. «È un ottimo rifugio, quando ti crolla il mondo addosso.» Jeffrey capì cosa intendeva dire. Anche lui si era buttato nel lavoro quando Sara aveva chiesto il divorzio. «Sediamoci» propose indicando una panchina. «Come sta?» Lei si sedette e sospirò. «Non so cosa rispondere.» «Ha ragione, è una domanda stupida.» «No. Anch'io me la sono posta negli ultimi tempi. Come sto? Glielo farò sapere quando avrò la risposta.» Jeffrey prese posto accanto a lei e lasciò vagare lo sguardo sul prato. Gli studenti si stavano radunando a piccoli gruppi per pranzare. Stendevano le coperte e tiravano fuori i panini dai sacchetti. Anche Jill Rosen li guardava. Stringeva fra le labbra il collo del maglione e Jeffrey capì che era una specie di abitudine nervosa perché in quel punto la maglia era lisa. «Credo che lascerò mio marito» disse. Jeffrey la guardò, ma non disse nulla. Capiva che parlare le costava un notevole sforzo. «Vuole trasferirsi. Andare via dal Grant. Ricominciare. Io non posso ricominciare. Non ce la faccio.» Abbassò gli occhi. «È comprensibile che voglia andare via.» Stava cercando di incoraggiarla a parlare. Jill Rosen indicò il campus col mento. «Sono qui da quasi vent'anni. Abbiamo costruito qui la nostra vita, per quello che vale. Ho creato il centro dal nulla.» Jeffrey lasciò passare un po' di tempo. Quando vide che non diceva altro domandò: «Le ha detto perché vuole trasferirsi?». Scrollò il capo. C'era una tristezza quasi insopportabile nella sua voce, come se avesse deciso di accettare la sconfitta. «È il suo modo di reagire. Fa il prepotente, ma al primo segnale di difficoltà scappa più in fretta che può.» «Lo dice come se fosse già successo altre volte.» «Infatti.» «E da che cosa scappa?» «Da tutto» disse. «Il mio lavoro consiste nell'aiutare la gente a confrontarsi col proprio passato, eppure non riesco ad aiutare mio marito ad af-
frontare i suoi demoni.» Con più calma aggiunse: «Non riesco ad aiutare neppure me stessa». «Che demoni lo perseguitano, qui?» «Gli stessi che perseguitano me, immagino. Ovunque guardi, mi aspetto di vedere Andy. Se sono a casa e sento un rumore all'esterno, mi affaccio alla finestra aspettandomi di vederlo salire in camera sua. Per Brian deve essere ancora più difficile. Deve rispettare le scadenze. C'è in gioco una somma enorme di denaro. In fondo lo capisco.» Aveva alzato il tono della voce, come se sentisse montare la collera che covava da un po'. Jeffrey domandò: «È per quella storia?». «Quale storia?» «Mi è giunto un pettegolezzo» spiegò, e come finì la frase gli venne voglia di tirare un calcio nei denti a Richard Carter. «Qualcuno mi ha detto che Brian aveva una storia con una studentessa.» «Oh, mio Dio» sospirò. Si coprì la bocca col colletto. «Quasi quasi vorrei che fosse vero. Non le sembra orribile? Ma significherebbe che è in grado di affezionarsi a qualcosa, oltre che alla sua preziosa ricerca.» «Era affezionato a suo figlio» obiettò Jeffrey, ricordando l'alterco che aveva sentito il giorno prima. Jill Rosen aveva accusato Keller di occuparsi di suo figlio solo adesso che era morto. «Di tanto in tanto» rispose. «Gli regalava la macchina. O dei vestiti. O la televisione. Era quello il suo modo di dimostrare affetto.» Jill stava cercando di dirgli qualcos'altro, ma lui non riusciva a capire cosa. Domandò: «Dove vuole trasferirsi?». «E chi lo sa? È come una tartaruga. Quando qualcosa va storto, nasconde la testa e aspetta che passi.» Sorrise. Si era accorta di avere sprofondato la testa nel collo del maglione. «Dimostrazione visiva» ironizzò. Lui le restituì il sorriso. «Io non ci riesco. Non posso più andare avanti così.» Guardò Jeffrey di sottecchi. «Mi manda il conto per questa seduta, o preferisce che paghi subito?» Jeffrey tornò a sorridere per incoraggiarla a continuare. «Credo che il suo lavoro sia simile al mio, sotto un certo aspetto. Anche lei deve ascoltare delle persone che parlano, e deve sforzarsi di capire cosa stanno cercando di dire veramente.» «E lei cosa sta cercando di dire, veramente?» Jill Rosen considerò la domanda. «Che sono stanca» rispose. «Che vo-
glio una vita... qualsiasi vita. Sono rimasta con Brian perché pensavo che fosse la cosa migliore per Andy, ma ora che Andy non c'è più...» Cominciò a piangere e Jeffrey tirò fuori il fazzoletto. Notò il sangue di Lena solo quando glielo aveva già passato. «Mi scusi» disse. «Si è tagliato?» «Si è tagliata Lena» rispose. Voleva vedere la sua reazione. «Ho parlato con lei questa mattina. Aveva un taglio sotto l'occhio. Qualcuno l'ha picchiata.» Non disse nulla, ma sembrava preoccupata. «Si vede con un ragazzo» continuò Jeffrey. Ebbe l'impressione che la dottoressa si costringesse a tenere la bocca chiusa. «Questa mattina sono andato a cercarla nel suo appartamento e lui era là.» Jill Rosen non gli chiese di proseguire, ma lo sguardo tradiva la curiosità. Era evidentemente preoccupata per la sicurezza di Lena. «Aveva un taglio sotto l'occhio e il polso livido, come se qualcuno gliel'avesse stretto.» Fece una pausa. «Quel ragazzo ha dei trascorsi, Jill. È una persona molto pericolosa e violenta.» Lei si spostò sul bordo della panchina, ansiosa di saperne di più. «Ethan White» disse Jeffrey. «Il nome le dice qualcosa?» «No» rispose. «Dovrebbe?» «Speravo di sì» disse, perché questo avrebbe indicato un collegamento tra Andy Rosen ed Ethan White. «È ridotta male?» domandò la dottoressa. «Da quello che ho potuto vedere no. Ma continuava a tormentarsi la mano. A furia di grattarsi, aveva riaperto la cicatrice.» Jill Rosen strinse le labbra. «Non so come convincerla a liberarsi di quel tipo» proseguì Jeffrey. «Non so come aiutarla.» Lei riprese a guardare gli studenti. «Sta a lei decidere di aiutare se stessa» disse, con un tono carico di significato. «È stata una sua paziente?» domandò Jeffrey. «Lo sa che non posso fornire questo genere di informazioni.» «È vero, ma se facesse un'eccezione, potrebbe fornire la risposta a un interrogativo che riguarda l'indagine.» Lo guardò. «Quale interrogativo?» «Quando ci trovavamo al fiume, Chuck ha fatto il cognome di suo figlio e Lena mi è sembrata sorpresa, come se lo conoscesse» disse. «Ma forse
conosceva lei, non Andy.» La dottoressa ci pensò, come se cercasse il modo di rispondergli senza tradire l'etica professionale. «Dottoressa Rosen...» Lei si appoggiò allo schienale della panchina tirando su il colletto. «Sta arrivando mio marito.» Jeffrey cercò di mascherare la sua esasperazione, Keller era ancora distante e, se la donna avesse voluto, avrebbe avuto tutto il tempo di rispondere alla domanda. «Dottor Keller» lo salutò. Parve sorpreso di vedere la moglie insieme a Jeffrey. «C'è qualcosa che non va?» chiese. Jeffrey si alzò per cedergli il posto, ma Keller l'ignorò e si rivolse alla moglie: «Hai portato le chiavi?». Lei gli porse il mazzo senza quasi guardarlo. «Devo tornare al lavoro» disse lui. «Jill, è meglio che rientri a casa.» Lei fece per alzarsi, ma Jeffrey le fece segno di rimanere seduta. «C'è qualcosa che dovete sapere» annunciò. «Riguarda Andy.» Dalla faccia di Keller, fu chiaro che il figlio in quel momento era l'ultimo dei suoi pensieri. «Volevo dirvelo prima che la notizia si diffonda per il campus» spiegò Jeffrey. «Non sono sicuro che la morte di vostro figlio sia stata un suicidio.» «Cosa?» esclamò Jill Rosen sbalordita. «Non posso escludere la possibilità che sia stato assassinato.» Keller lasciò cadere le chiavi, ma non si chinò a raccoglierle. Jeffrey continuò: «Dall'autopsia di Andy non è emerso nulla di conclusivo, ma Ellen Schaffer...». «La ragazza di ieri?» lo interruppe Jill. «Sì, signora. Si tratta indubbiamente di un delitto. Tenuto conto che l'assassino ha cercato di farlo sembrare un suicidio, dobbiamo rimettere in discussione anche la dinamica della morte di suo figlio. Al momento non possiamo provare che non si è tolto la vita, ma abbiamo forti sospetti in questo senso e non intendo chiudere l'indagine finché non sapremo la verità.» Jill si abbandonò sulla panchina con la bocca aperta. «Devo parlarne col preside, ma prima volevo informare voi.» «E il messaggio che ha lasciato?» domandò Jill.
«È una delle cose per cui non ho una spiegazione. Mi dispiace potervi offrire solo dei sospetti. Stiamo seguendo tutte le piste possibili per cercare di scoprire che cos'è successo veramente, ma devo essere sincero: al momento non c'è niente di certo. Alla fine potremmo anche scoprire che Andy si è davvero suicidato.» Keller si lasciò andare a un'esplosione di collera così inattesa, che Jeffrey arretrò di un passo. «Che diavolo sta dicendo?» tuonò. «Prima ha parlato di suicidio e adesso viene a raccontarci...» «Brian...» cercò di calmarlo Jill. «Taci!» la zittì. Agitò la mano come se volesse colpirla. «È ridicolo. È...» Era troppo furioso per parlare, ma continuò a muovere la bocca come se cercasse le parole. «Non riesco a crederci...» Si chinò e afferrò le chiavi. «Il college, l'intera città...» Puntò il dito contro il viso della moglie, che si tirò indietro, quasi impaurita. Keller gonfiò il petto imponendosi in tutta la sua altezza e gridò: «Io te l'avevo detto, Jill. Te l'avevo detto che questo buco è un inferno!». Intervenne Jeffrey. «Dottor Keller, la prego, si calmi.» «Lei si faccia i fatti suoi e veda di scoprire chi ha ucciso mio figlio!» ringhiò col viso contratto dalla rabbia. «Voi, poliziotti del cazzo, credete di avere in mano la città, ma qui si vive come in un paese del terzo mondo. Siete tutti corrotti. Siete i tirapiedi di Albert Gaines.» Jeffrey ne aveva abbastanza. «Ne parleremo un'altra volta, dottor Keller, quando si sarà ripreso.» L'uomo puntò il dito contro Jeffrey. «Può giurarci che ne parleremo» disse. Si voltò e se ne andò senza salutare. Jill Rosen si scusò per il comportamento del marito. «Mi dispiace.» «Non deve scusarsi per lui» disse Jeffrey, cercando di tenere a freno la collera. Voleva seguire Keller al laboratorio, ma forse avevano entrambi bisogno di qualche minuto per calmarsi. Intuendo la sua disperazione, le disse: «Mi dispiace di non avere nulla di concreto da offrirle». Lei si strinse il colletto sotto il mento e domandò: «Quello che voleva sapere prima ha a che fare con Andy?». «Certo.» La dottoressa guardò il prato e gli studenti seduti a godersi la giornata. «In via ipotetica» disse, «Lena potrebbe avere motivo di conoscere il mio cognome.»
«La ringrazio» disse Jeffrey. Almeno uno dei suoi dubbi era risolto. «Quanto all'altro, il ragazzo che frequenta» proseguì la dottoressa continuando a guardare gli studenti. «Lo conosce?» domandò Jeffrey. «Oh, sì che lo conosco. O per lo meno conosco il tipo. Più di quanto conosca me stessa.» «Non sono sicuro di avere capito.» Scostò il colletto e abbassò la cerniera per mostrare un grosso livido sulla clavicola. Sul lato del collo erano impressi i segni violacei delle dita di una mano. Qualcuno aveva cercato di strozzarla. «Chi...» Jeffrey sgranò gli occhi senza sapere cosa dire, ma la risposta era evidente. Jill Rosen tirò su la cerniera. «Devo andare.» «La posso portare in una casa protetta» si offrì Jeffrey. «Andrò da mia madre» disse lei, sorridendo tristemente. «Vado sempre da mia madre.» «Dottoressa Rosen... Jill...» «La ringrazio per il suo interessamento» lo interruppe. «Ma ora devo proprio andare.» Lui restò a guardarla mentre si avvicinava a un gruppo di studenti. Si fermò a parlare brevemente con uno di loro come se nulla fosse accaduto. Jeffrey non sapeva se seguirla o raggiungere Brian Keller per dirgli chiaro e tondo cosa pensava di lui. Decise d'impulso di raggiungere Keller al dipartimento di scienze. Da ragazzo si era intromesso tante volte nelle liti dei suoi genitori e sapeva che l'ira serve solo ad alimentare altra ira, perciò, prima di aprire la porta del laboratorio, si impose di respirare a fondo e lentamente, per scaricare la tensione. Nella stanza c'era solo Richard Carter, in piedi dietro la scrivania di Keller, che si tamburellava il mento con la penna. Come riconobbe Jeffrey fece una smorfia di delusione. «Oh» disse. «È lei.» «Dov'è Keller?» «È quello che vorrei sapere» ribatté Richard decisamente irritato. Si chinò sulla scrivania e scarabocchiò un appunto. «Aveva appuntamento con me mezz'ora fa.» «Ho appena parlato con sua moglie a proposito di quella presunta relazione con una studentessa.» Alzò il mento e accennò un sorriso. «Davvero? E cosa le ha detto?»
«Che non era vero. Dovrebbe fare più attenzione a quello che dice.» «Io l'avevo detto, che si trattava di un pettegolezzo. Ho detto chiaramente che...» «Lei scherza con la vita della gente. Per non parlare del tempo che mi fa sprecare.» Richard sospirò e tornò a occuparsi di quello che stava scrivendo. Borbottò un «mi dispiace», come avrebbe fatto uno scolaretto. Jeffrey non gliela lasciò passare liscia. «Per causa sua ho girato a vuoto in cerca di riscontri, invece di occuparmi di cose più serie.» Vedendo che non rispondeva aggiunse: «Sono morte delle persone, Richard». «Lo so bene, signor Tolliver, ma io cosa ci posso fare?» Non gli lasciò il tempo di ribattere. «Posso essere sincero con lei? So che quello che è successo è orribile, ma noi abbiamo un lavoro da portare avanti. Un lavoro importante. In California ci sono delle persone che stanno lavorando alla stessa ricerca. E mi creda, non si limiteranno a dire: "Oh, Brian Keller sta passando un momentaccio, fermiamo tutto e aspettiamo che si riprenda". Nossignore. Quelli ci danno dentro giorno e notte - giorno e notte le dico per batterci sul tempo. La scienza non è una partita tra gentiluomini. Ci sono di mezzo molti miliardi.» Sembrava il presentatore di una televendita. Jeffrey disse: «Non sapevo che lei e Keller lavoraste insieme». «Quando si degna di farsi vivo.» Lasciò cadere la penna sulla scrivania, prese la cartella e si diresse alla porta. «Dove va?» «In aula» rispose, come se Jeffrey fosse scemo. «C'è chi si prende ancora la briga di rispettare gli impegni.» Se ne andò stizzito, come un attore che esce di scena. Invece di seguirlo, Jeffrey andò alla scrivania di Keller e lesse l'appunto: «Caro Brian, immagino che tu abbia molto da fare per Andy, ma dovremmo davvero mettere insieme tutta la documentazione. Se vuoi che lo faccia io, fammelo sapere». Accanto alla firma aveva disegnato una faccia sorridente. Jeffrey rilesse il messaggio una seconda volta, cercando di far quadrare il tono conciliante con l'evidente irritazione di Richard. Non tornava, ma Richard non era mai stato un campione di razionalità. Lanciò un'occhiata alla porta e decise di fare come se fosse a casa sua, cioè di rovistare nella scrivania di Keller. Si stava chinando per guardare nel cassetto in basso, quando il suo cellulare squillò. «Capo.» Era Frank, e dal tono Jeffrey indovinò cosa lo aspettava. «Ne
abbiamo trovato un altro.» Jeffrey parcheggiò la macchina di fronte al pensionato maschile, dicendo tra sé che il giorno in cui non avrebbe più dovuto mettere piede al Grant Tech, sarebbe stato il più bello della sua vita. Non riusciva a levarsi dalla mente l'espressione rassegnata di Jill Rosen. Non avrebbe mai immaginato che Keller fosse un violento, ma evidentemente quella era la giornata delle sorprese. Prese il telefono, in dubbio se chiamare Sara. Avrebbe preferito che non venisse sulla scena del crimine, ma sapeva che per lei era cruciale vedere il cadavere sul posto. Pensò a una scusa plausibile per tenerla lontana, ma alla fine si arrese e digitò il numero. Il telefono squillò cinque volte prima che lei farfugliasse un «pronto?» assonnato. «Ciao» la salutò Jeffrey. «Che ore sono?» Glielo disse, rincuorato di sentirla un po' più in forma della sera prima. «Mi dispiace di averti svegliato.» «Mmh... cosa?» La sentì rigirarsi nel letto. Si immaginò accanto a lei sotto le lenzuola e provò un'eccitazione che in quei giorni non aveva più sentito. Non desiderava altro che infilarsi accanto lei e ricominciare tutto da capo. Sara disse: «La mamma ha chiamato circa venti minuti fa. Tessa sta un po' meglio». Sbadigliò rumorosamente. «Devo andare all'obitorio per sbrigare le ultime pratiche e nel pomeriggio tornerò ad Atlanta.» «Ti chiamo per questo.» «Cos'è successo?» domandò allarmata. «Uno si è impiccato» rispose. «Al college.» «Cristo!» Si udì un sospiro scoraggiato. Jeffrey si sentiva allo stesso modo. In una cittadina dove il tasso di omicidi era dieci volte più basso della media nazionale, i cadaveri si stavano all'improvviso ammucchiando uno sull'altro. Lei domandò: «A che ora è successo?». «Non lo so ancora. Mi hanno appena chiamato.» Sapeva già cosa avrebbe risposto, ma ci provò comunque: «Potresti mandare Carlos». «Devo vedere il corpo.» «Non mi va l'idea che tu venga nel campus» disse. «Se dovesse succedere qualcosa...»
«Non rinuncerò a fare il mio lavoro» lo interruppe, facendogli capire che non valeva neppure la pena di discutere. Jeffrey sapeva che aveva ragione. Sara non solo doveva fare il suo lavoro, ma doveva vivere la sua vita. Pensò a come si era ridotta Lena e ai lividi sul collo di Jill Rosen. Doveva lasciare che anche loro vivessero la loro vita? «Jeff?» Si riscosse. «È al pensionato maschile. Edificio B.» «D'accordo» disse. «Sarò lì fra poco.» Jeffrey chiuse la telefonata e scese dalla macchina. Si fece strada tra i ragazzi fermi sulla porta ed entrò nell'edificio, dove un forte odore di alcol lo avvolse come una nebbia. Ad Auburn, dove studiava storia quando non era a scaldare la panchina per la sua squadra di football, non erano mancate le feste con fiumi di alcol, ma non ricordava che il suo pensionato avesse mai puzzato come una distilleria. «Ehi, capo» lo chiamò Chuck. Era fermo in cima alle scale, con le mani affondate nelle tasche anteriori dei pantaloni attillati. L'effetto era osceno, e Jeffrey si augurò che sparisse. «Chuck» lo salutò, tenendo lo sguardo fisso sui gradini mentre saliva. «Ti fai vivo, finalmente. È un pezzo che Kev e io ti aspettiamo.» Jeffrey trovò irritante quel modo di chiamare il preside, neanche fosse il suo migliore amico. Se Chuck non fosse stato il figlio di Albert Gaines, Kevin Blake non lo avrebbe degnato di uno sguardo, e tanto meno avrebbe giocato a golf con lui. A parte il fatto che Blake non avrebbe rivisto tanto presto il campo da golf: lo aspettavano centinaia di telefonate di genitori ansiosi, per nulla soddisfatti che i loro figli frequentassero un college dove erano già morti tre studenti. «Andrò a parlargli non appena avrò il tempo» disse Jeffrey. Sapeva di non potere più posticipare l'incontro. «Questa volta è chiaro come il sole» disse Chuck, alludendo al suicidio. «Chi l'ha trovato?» «Uno dei ragazzi del pensionato.» «Gli voglio parlare.» «È al piano di sotto» disse Chuck. «La Adams ha cercato di farlo parlare, ma ho dovuto intervenire.» Strizzò l'occhio in segno d'intesa. «Ci va giù un po' pesante, a volte. Bisogna usare un po' di delicatezza in queste situazioni.» «Davvero?» Jeffrey guardò verso il corridoio. Frank e Lena erano fermi
di fronte a una stanza. A giudicare da come si guardavano, non doveva essere un momento particolarmente felice. Chuck disse: «L'ha trovata lei, la siringa». «Trovata?» ripeté Jeffrey. Aveva chiamato la squadra della scientifica da non più di dieci minuti. Era impossibile che i tecnici avessero avuto il tempo di ispezionare la stanza. «Lena l'ha notata quando è entrata per verificare se il ragazzo era davvero morto» disse Chuck. «Credo che fosse rotolata sotto il letto.» Jeffrey represse un'imprecazione. Se era davvero andata così, significava che le prove erano state contaminate, soprattutto se suggerivano che Lena era già stata in quella stanza. Chuck rise: «Non se la prenda, capo». Diede a Jeffrey una pacca sulla spalla, come se la squadra della polizia avesse perso una partita contro quella della sicurezza. Jeffrey lo ignorò e si diresse verso Frank e Lena. Quando vide che Chuck lo seguiva, disse: «Me lo faresti un favore?». «Certo, capo.» «Rimani in cima alle scale. Non lasciare salire nessuno al di fuori di Sara.» Chuck fece il saluto militare e tornò sui suoi passi. «Idiota» borbottò Jeffrey. Frank stava dicendo qualcosa a Lena, ma smise di parlare quando lo vide arrivare. Jeffrey disse a Lena: «Puoi scusarci un minuto?». «Certo.» Si allontanò di qualche passo, non abbastanza da non sentire quello che si dicevano, ma Jeffrey lasciò correre. Disse a Frank: «I tecnici della scientifica saranno qui fra poco». «Ho già fatto le fotografie» disse Frank mostrando la Polaroid. «Fai venire Brad» ordinò, sapendo che Sara non voleva un lavoro improvvisato. «Digli di portare la macchina fotografica. Voglio delle foto ben fatte.» Mentre Frank telefonava, Jeffrey guardò dentro la stanza. Un ragazzo paffuto, con lunghi capelli neri, era accasciato sul letto. Sul pavimento c'era un laccio di gomma gialla simile a quelli che i tossicomani utilizzano per trovare la vena. Il corpo era gonfio e grigiastro. Il ragazzo era lì già da un po'. «Gesù Cristo» esclamò Jeffrey. La stanza puzzava più ancora di quella di Ellen Schaffer. «Che odore!»
«Non era un fanatico della pulizia» commentò Frank. Jeffrey osservò la scena. Non c'erano luci accese, ma il sole di fine mattina illuminava a sufficienza la stanza. Ai piedi del letto, di fronte al corpo, era sistemato un televisore con videoregistratore. Lo schermo, ancora acceso, era blu, a indicare che il video era terminato. Il bagliore dava al corpo un riflesso strano. La pelle sembrava quasi ammuffita, e l'impressione era rafforzata dal fetore che ristagnava nell'aria. Nel locale c'era un disordine indescrivibile. Jeffrey notò i contenitori di cibo abbandonati sul pavimento, in buona parte responsabili dell'odore di marcio. Ovunque c'erano carte e libri che ostacolavano il passaggio. Il ragazzo aveva la testa reclinata sul petto, con i capelli sudici che gli coprivano la faccia e il collo. Indossava solo un paio di boxer bianchi dall'aria piuttosto sporca. La mano era infilata nell'apertura e non si faticava a indovinare il perché. C'era un livido inequivocabile sul braccio sinistro, anche se stava a Sara stabilirne con certezza l'origine. Da come stava in posizione, Jeffrey dedusse che era già subentrato il rigor mortis, il che collocava il decesso tra le due e le dodici ore precedenti, a seconda della temperatura della stanza. Il momento del decesso non era mai facile da stabilire e immaginò che nemmeno Sara sarebbe stata in grado di valutarlo con minor approssimazione. «Il condizionatore è acceso?» domandò, allentando il nodo della cravatta. Le striscioline di plastica davanti alla ventola dell'apparecchio erano immobili. «No» rispose Frank. «La porta era aperta quando sono arrivato, ho pensato di lasciarla com'era per fare uscire un po' la puzza.» Jeffrey annuì e pensò che la stanza doveva essere stata piuttosto calda, se il condizionatore era rimasto spento e la porta chiusa tutta la notte. I vicini di camera dovevano essere talmente abituati al cattivo odore, che non avevano notato nulla di insolito. Domandò: «Abbiamo il nome?». «William Dickson» disse Frank. «Da quel che ho capito nessuno lo chiamava così.» «E come lo chiamavano?» Frank sorrise quasi divertito. «Scooter.» Jeffrey inarcò le sopracciglia, ma non era nella posizione di poter fare commenti. Non gli andava che si sapesse in giro come lo chiamavano da ragazzo. Proprio il giorno prima Sara aveva riesumato quel nomignolo per
provocarlo. «Il suo compagno di stanza è tornato a casa per le vacanze di Pasqua» aggiunse Frank. «Gli voglio parlare.» «Mi farò dare il numero dall'amministrazione.» Jeffrey entrò nella stanza e notò sul pavimento la siringa di plastica calpestata. Il contenuto si era prosciugato, ma si vedeva ancora l'impronta di una suola di gomma nel punto in cui il liquido era stato disperso. Osservò l'impronta e disse: «Assicurati che Brad faccia una foto anche di questa». Frank annuì e Jeffrey si chinò accanto al corpo. Stava per chiedere i guanti, ma il vecchio poliziotto lo anticipò e gliene porse un paio. «Grazie» disse Jeffrey infilandoli. Le mani sudate complicarono l'operazione perché la gomma si appiccicava. La luce era troppo debole e Jeffrey si guardò in giro in cerca di una lampada. Ne vide una sul frigorifero accanto al letto, ma il filo elettrico era tagliato e all'estremità i cavi di rame erano scoperti. «Fai in modo che nessuno tocchi l'interruttore fino a quando non abbiamo controllato questo» avvisò Frank. Spostò di lato la testa di Scooter e gli sollevò il mento dal petto. Attorno al collo aveva una cintura di cuoio che Jeffrey dalla soglia non aveva notato. I capelli di Scooter erano così lunghi e impastati di grasso che la mascheravano anche da vicino. Quando Jeffrey li scostò, si sollevarono in una massa compatta. La cintura era allacciata intorno al collo, così stretta che la fibbia penetrava nella pelle. Decise di non slacciarla. Da sotto spuntava un pezzo di spugna sottile. L'estremità della cintura era allacciata ad un'altra, questa volta di stoffa, passata in un grosso gancio a occhiello inchiodato alla parete. Le due cinture erano tese dal peso del corpo sostenuto dal gancio. Jeffrey osservò il televisore in fondo al letto. Era un apparecchio economico, del genere che si trova ai discount per meno di cento dollari. Accanto c'era un barattolo di balsamo di tigre col bordo incrostato di scaglie bianche di origine incerta. Tirò fuori la penna e schiacciò il tasto per fare uscire la cassetta dal videoregistratore. Sull'etichetta era disegnata una scena erotica, il titolo era: Le imprese della donzella nuda. Jeffrey si sfilò i guanti e Frank lo seguì in corridoio dove li aspettava Lena. «Hai chiamato qualcuno?» le domandò Jeffrey. «Cosa?» rispose lei accigliandosi. Naturalmente si aspettava un terzo grado, ma quella domanda la colse di sorpresa.
«Quando sei arrivata qui» si spiegò Jeffrey, «hai chiamato qualcuno col tuo cellulare?» «Io non ho un cellulare.» «Sei sicura?» Era convinto che Sara fosse l'unica nella contea di Grant a non possederne uno. «Hai idea di quanto mi pagano? Riesco a malapena a mangiare.» Jeffrey cambiò argomento. «Ho saputo che hai trovato tu la siringa.» «Ci hanno telefonato circa mezz'ora fa» disse, e Jeffrey capì che le stava dando risposte preconfezionate. «Sono entrata nella stanza per vedere se la vittima era ancora viva. Non aveva battito cardiaco e non respirava. Il corpo era rigido e freddo al tatto. È stato allora che ho trovato la siringa.» «È stata di grande aiuto» disse Frank, con un tono che lasciava intendere l'esatto contrario. «L'ha vista sotto il letto e per risparmiarci la fatica l'ha raccolta per noi.» Jeffrey fissò Lena. «Immagino che adesso sarà piena di impronte tue.» Non era un domanda ma un rimprovero. «Immagino.» «E immagino che non ricordi cos'altro hai toccato mentre eri lì.» «Immagino di no.» Jeffrey lanciò un'occhiata dentro la stanza e tornò a guardare Lena. «Mi puoi spiegare come mai l'impronta della scarpa del tuo ragazzo è finita su quel pavimento?» Non parve affatto preoccupata. Rispose con un sorriso. «Non te l'hanno detto? È stato lui a trovare il corpo.» Jeffrey lanciò un'occhiata a Frank, che annuì in segno di conferma. «Ho saputo che hai cercato di interrogarlo.» Alzò le spalle. «Frank. Fallo venire su.» Frank si allontanò, mentre Lena andò alla finestra e rimase a guardare il prato di fronte al pensionato. C'erano rifiuti dappertutto e accanto alla rastrelliera per le biciclette si era accumulata una montagna di lattine di birra vuote. Jeffrey disse: «Hanno fatto festa, si direbbe». «Si direbbe.» «Forse quel ragazzo» indicò la stanza «si è lasciato prendere la mano.» «Forse.» «Mi pare che il campus abbia qualche problema con la droga.» Lena si girò a guardarlo. «Dovresti parlarne con Chuck.»
«Già, lui ha il controllo della situazione» disse Jeffrey sarcastico. «Potresti chiedergli dov'era nel fine settimana.» «Al torneo di golf?» Gli tornò in mente la prima pagina del «Grant Observer». Immaginò che Lena alludesse al padre di Chuck, per ricordargli che Albert Gaines lo teneva per il collo. «Perché mi metti i bastoni tra le ruote, Lena? Che cosa nascondi?» «Sta arrivando il tuo testimone» rispose. «Io vado dal mio capo.» «Che fretta c'è?» domandò Jeffrey. «Hai paura che ti picchi un'altra volta?» Lei strinse le labbra e non rispose. «Rimani qui» disse, lasciando intendere che non aveva alternative. Ethan White stava arrivando a passo lento dal corridoio, con Frank che gli camminava al fianco. Era vestito con la solita maglietta nera a maniche lunghe e un paio di jeans. Aveva i capelli bagnati e teneva un asciugamano appeso al collo. «Hai fatto la doccia?» domandò Frank. «Sì» rispose Ethan. Si asciugò un orecchio con il lembo dell'asciugamano. «Ho lavato via tutte le tracce, dato che ho appena strozzato Scooter.» «Si direbbe una confessione.» Ethan gli lanciò un'occhiata feroce. «Ho già parlato con la sua pupilla» disse fissando Lena. Lei resse il suo sguardo cercando di non tradire la tensione. «Dimmi un po'» proseguì Jeffrey. «Tu abiti al piano terreno?» Ethan annuì. «E perché sei salito?» «Dovevo farmi prestare gli appunti del corso da Scooter.» «Quale corso?» «Biologia molecolare.» «Che ora era?» «Non lo so» rispose. «Diciamo due minuti prima che telefonassi a lei.» Lena ne approfittò per intromettersi. «Mi trovavo nell'ufficio della sorveglianza. Non ha telefonato a me, per caso ho risposto io al telefono.» Ethan strinse tra le mani l'asciugamano, come se volesse strozzarlo. «Me ne sono andato quando sono arrivati loro. È tutto quello che so.» «Cos'hai toccato nella stanza?» «Non ricordo» rispose. «Ero piuttosto sconvolto, non è roba da poco trovare un compagno di corso morto stecchito.» «Non è la prima volta che vedi un cadavere» gli ricordò Jeffrey.
Ethan sollevò le sopracciglia, come a dire: «E allora?». «Voglio che tu venga alla centrale per una deposizione ufficiale.» Ethan scrollò la testa. «Non se ne parla.» «Ostacoli le indagini?» lo minacciò Jeffrey. «No, signore» rispose con prontezza. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un foglio di quaderno e lo porse a Jeffrey. «Questa è la mia deposizione. L'ho firmata. Posso firmarla di nuovo, se vuole essere testimone. Credo di non avere alcun obbligo legale di rilasciarla alla centrale di polizia.» «Ti credi in gamba, eh?» disse Jeffrey ignorando il foglio. «Credi di farla sempre franca.» Indicò Lena. «Magari usando i pugni.» Ethan strizzò l'occhio a Lena, come se condividessero un segreto speciale. Lena si irrigidì ma non disse nulla. «Riuscirò a incastrarti» disse Jeffrey. «Non adesso, forse, ma se hai in ballo qualcosa, prima o poi ti incastro. Mi hai sentito?» Ethan lasciò andare il foglio che volteggiò fino al pavimento. «Se è tutto» disse, «io devo correre a lezione.» 10 Sara guidò dal campus all'obitorio come se avesse inserito il pilota automatico, rimuginando sui risultati delle autopsie fatte la sera prima. La morte di Andy Rosen la lasciava ancora perplessa ma, a differenza di Jeffrey, aveva bisogno di qualcosa di più di una coincidenza per firmare una dichiarazione di omicidio. Al massimo poteva certificare che si trattava di una morte sospetta. L'esame tossicologico era risultato negativo e dall'autopsia non era emerso nulla di insolito. William «Scooter» Dickson era tutt'altra storia. La cassetta pornografica, il pezzo di spugna inserito sotto la cintura perché non restassero segni sulla pelle, l'anello fissato alla parete: tutto induceva a pensare a un'asfissia da autoerotismo. Sara aveva visto solo un caso simile nel corso della sua carriera, ma aveva letto molti articoli in materia. «Merda» sbottò, rendendosi conto di avere oltrepassato l'ospedale. Proseguì per un tratto lungo Main Street, poi fece una inversione a U proprio di fronte alla centrale di polizia. Brad Stephens, che stava smontando dall'auto di pattuglia, si coprì gli occhi fingendo di non vedere. Superò la clinica pediatrica con l'insegna esterna sbiadita e corrosa dal tempo. In fondo era tutta colpa di Jeffrey, che per commettere adulterio aveva scelto l'unica disegnatrice di scritte disponibile in città. Guardò con
un sospiro l'insegna in rovina e si domandò se non dovesse attribuire un significato più profondo alle sue penose condizioni. Chissà, forse era un presagio di quello che sarebbe successo tra lei e Jeffrey. Cathy Linton diceva sempre che indietro non si torna. Buttò il piede sul freno rischiando ancora una volta di mancare la svolta per l'ospedale. Lanciò un paio di parolacce, cosa che, lavorando con i bambini, di solito non faceva mai e inserì la retromarcia. Parcheggiò nello spazio laterale e scese a due a due i gradini che portavano all'obitorio. Carlos non era ancora arrivato con il corpo, e Jeffrey stava cercando di rintracciare i genitori di William Dickson, così Sara aveva lo spazio tutto per sé. Si diresse verso l'ufficio, ma di fronte alla porta si fermò. Su un angolo della scrivania troneggiava una grande composizione floreale. Erano anni che Jeffrey non le mandava dei fiori. Girò attorno al mazzo variopinto e sorrise stupefatta. Si era dimenticato che non andava pazza per i garofani, ma c'erano tanti altri fiori, di cui non ricordava il nome, che riempivano l'ufficio della loro fragranza. «Oh, Jeffrey» esclamò, senza smettere di sorridere. Doveva averli ordinati quella mattina, prima che succedesse il finimondo. Sfilò il bigliettino e il sorriso svanì. La firma era quella di Mason James. Si guardò intorno, in cerca di un posto dove metterli perché Jeffrey non li vedesse, ma cambiò idea. Non sopportava i sotterfugi e non avrebbe cominciato ora a nascondersi. Si sedette e posò il biglietto accanto al cesto. C'erano tante altre cose sulla scrivania che chiedevano la sua attenzione. Molly, l'infermiera della clinica pediatrica, le aveva lasciato una tale pila di carte, che ci sarebbe voluto un giorno intero per guardarle tutte. Inforcò gli occhiali e siglò una sessantina di formulari prima di accorgersi che Carlos era arrivato. Attraverso la finestra lo vide preparare con scrupolo gli strumenti per l'autopsia. Era lento e metodico, controllava ogni ferro per sincerarsi che fosse in perfette condizioni. Mentre lo guardava, le venne in mente di ascoltare i messaggi in segreteria. Il primo era di Brock. Voleva sapere quando poteva passare a ritirare il corpo di Andy Rosen. Sollevò il ricevitore e fece il numero dell'impresa di pompe funebri. Rispose la madre e Sara dedicò qualche minuto ad aggiornarla sulle condizioni di Tessa, ben sapendo che entro l'ora di pranzo l'intera città ne sarebbe stata informata. Brock sembrava del suo solito umore gioviale quando venne al telefono. «Salve Sara» disse. «Stai cominciando a informarti delle tariffe?»
Lei rise, sorvolando sulla battuta. «Voglio sapere quanto tempo mi rimane. Il funerale è oggi?» «È stato fissato per domani mattina alle nove» disse Brock. «Pensavo di prepararlo stasera. È molto conciato?» «Non molto» rispose Sara. «Il solito.» «Se finisci per le tre, avrò tutto il tempo necessario.» Sara guardò l'orologio. Erano già le undici e mezza. Non sapeva neppure perché si ostinava a trattenere il corpo di Andy Rosen. Era già stata fatta la biopsia di tessuti e organi e Brock aveva prelevato parecchie fiale di sangue e urina che lei avrebbe potuto analizzare con comodo. Non c'era altro che potesse fare. «Senti, vieni pure a prenderlo adesso.» «Sei sicura?» «Sì» disse. Con un altro corpo in arrivo, c'era bisogno di spazio nel freezer. «Puoi sempre riaverlo dopo il servizio, se ti dovesse venire in mente qualcosa» suggerì Brock. «Pensavo di portarlo al crematorio verso l'ora di pranzo.» Abbassò la voce. «Sai, adesso preferisco assistere, per essere sicuro che facciano le cose per bene, sai cosa voglio dire. Di questi tempi non si è più tranquilli con la cremazione, dopo quello che ha combinato quel farabutto su in Georgia.» «Hai ragione» convenne Sara. Ricordava anche lei il caso di un crematorio a gestione familiare dove i cadaveri finivano nei bauli delle macchine e sotto gli alberi della proprietà invece di essere cremati. Lo Stato aveva speso quasi dieci milioni di dollari per recuperare e identificare i resti. Brock disse: «È una vergogna, davvero. È un modo così pulito di sbrigare la faccenda. Non che mi dispiacciano i soldi che si guadagnano con l'inumazione, ma alcuni parenti arrivano così sconvolti che la cosa migliore è farla finita in fretta». «Stai parlando dei suoi genitori?» domandò Sara, chiedendosi se Keller avesse minacciato la moglie di fronte a Brock. «Sono venuti per gli ultimi accordi ieri pomeriggio e devo dire che...» si trattenne. Brock era una persona molto discreta, ma di solito Sara riusciva a farlo parlare. A volte le veniva il sospetto che avesse un debole per lei. Lo incoraggiò: «Sì?». «Be'» cominciò, a voce più bassa. Sapeva meglio di chiunque altro che sua madre era il principale canale di propagazione dei pettegolezzi nella contea di Grant. «La madre aveva dei dubbi sulla cremazione, dato che c'e-
ra stata l'autopsia. Pensava che non fosse possibile. Mio Dio, dove va a prenderle certe informazioni la gente?» Sara aspettò. «Io ho avuto l'impressione che lei non fosse proprio dell'idea, ma poi si è messo in mezzo il padre dicendo che il ragazzo voleva così e così avrebbero fatto.» «Se quello era il suo desiderio, è giusto che venga rispettato» disse Sara. Per quanto fosse sempre a contatto con la morte, non le era mai venuto in mente di lasciare detto a qualcuno come voleva essere sepolta. Al pensiero rabbrividì. «C'è gente che lascia disposizioni molto precise» disse Brock sogghignando. «Non sai quante storie ti potrei raccontare sulle cose che vogliono portarsi nella bara.» Sara chiuse gli occhi, sperando che non lo facesse. Brock intuì il significato del suo silenzio e passò oltre. «A dire la verità, visto che sono ebrei, Dio li benedica, pensavo che volessero una cosa rapida, invece hanno fatto tutto normalmente. Non credo che siano proprio praticanti.» «No» confermò Sara. Nella sua carriera di medico legale, le era capitato solo una volta che una famiglia di ebrei ortodossi avesse sollevato obiezioni sull'autopsia. Pur apprezzando tanta devozione, era convinta che alla fine la famiglia avesse accolto con sollievo la notizia che il padre era morto di infarto e non si era lanciato di proposito nel lago con la macchina. «Be'...» Brock si raschiò la gola, imbarazzato per quel nuovo silenzio. «Sarò lì in un baleno.» Sara riagganciò e ascoltò gli altri messaggi. Il ronzio dei frigoriferi era inframmezzato dagli scatti della macchina fotografica che riprendeva il cadavere. L'ultimo messaggio era di un rappresentante farmaceutico che, essendo in zona, chiedeva di incontrarla. Fu dispiaciuta di avere perso quell'occasione. Di solito Sara approfittava di quelle visite per farsi lasciare campioni gratuiti in abbondanza che lei poi distribuiva ai pazienti. In quell'istante Jeffrey entrò nell'ufficio. «Ehi» salutò, buttando sulla scrivania una busta gialla. Vi lasciò cadere sopra un grosso sacchetto di carta. Lei si alzò per recuperare un foglio, ma lui le afferrò il braccio. «Ma...» La baciò sulla bocca, cosa che d'abitudine non faceva in pubblico. Era un bacio casto, quasi un saluto amichevole o, visto come si era comportato
il giorno prima con Mason James, un modo di marcare il territorio, come fanno i cani agli angoli delle strade. «Ehi» fece Sara, guardandolo incuriosita. Quando si voltò, Jeffrey stava accarezzando un garofano. «Ma a te questi non piacciono.» Fu contenta che ricordasse quel dettaglio, più che se le avesse mandato i fiori. «È vero» confermò, mentre lui sfilava il biglietto dalla busta. «Leggilo pure» disse, cosa che Jeffrey aveva già pensato di fare per conto suo. Lui rimise con calma il biglietto nella busta. «Carino» disse, poi citò dal biglietto: «Sono qui, se hai bisogno di me». Sara incrociò le braccia, sulla difensiva. «Una mattina lunga» disse lui e chiuse la porta. L'espressione era neutra e lei capi che avrebbe lasciato correre. «Tessa è sempre uguale?» le domandò. «Sta un po' meglio, in realtà.» Inforcò gli occhiali e tornò a sedersi. «Di che cosa volevi parlare?» Stuzzicò un fiore col dito. «Lena si è fatta male questa mattina.» Sara si drizzò sulla sedia. «Ha avuto un incidente di macchina?» «No» rispose. «È stato Ethan White, quel teppista di cui ti ho parlato. Quel tipo che frequenta. Quello che ha cercato di buttarmi a terra.» «Si chiama proprio così?» domandò Sara, perché per qualche ragione le sembrava un nome innocuo. «Uno dei tanti» rispose Jeffrey. «Questa mattina Frank e io siamo andati a parlarle...» lasciò morire la voce e guardò i fiori. Sara si appoggiò alla spalliera della sedia e ascoltò la cronaca della mattinata che si concludeva con la scoperta dei lividi sul collo di Jill Rosen. «Vuoi dire che lui la maltratta?» «Sì.» «Non ho trovato segni di violenza sul corpo di Andy.» «È possibile picchiare qualcuno senza lasciare segni.» «Comunque sia, non è da escludere che Andy si sia suicidato per mettere fine alle aggressioni» disse Sara. «Il messaggio era indirizzato alla madre, non al padre. Forse non ce la faceva più.» «È possibile» ammise Jeffrey. «Se non fosse per Tessa, non avremmo avuto dubbi su di lui.» «Comunque, non abbiamo prove che Andy Rosen sia stato assassinato. Tanto vale ricominciare da quello che sappiamo.»
«Vale a dire?» «Ellen Schaffer è stata assassinata. Forse qualcuno ha deciso di sfruttare il suicidio di Andy, per far credere che lei lo abbia imitato. Come una reazione a catena. Non è inconsueta nei campus universitari. Qualche anno fa, al Massachusetts Institute of Technology, ci sono stati dodici casi di suicidio.» «E Tess?» le ricordò. Tessa era sempre la carta spaiata, la vittima che non entrava nel quadro. «Forse, tutto sommato, la sua aggressione non ha niente a che vedere con gli altri» disse Sara. «Se non troviamo qualche punto di contatto, forse dovremmo trattarli come due incidenti separati.» «E questo?» Jeffrey indicò il corpo sul tavolo anatomico. «Non ne ho idea» disse. «Come l'hanno presa i genitori?» «Come puoi immaginare» rispose, senza aggiungere particolari. «Direi che possiamo cominciare» osservò Sara, tirando fuori il rapporto. C'erano le fotocopie degli appunti di Jeffrey e la descrizione della scena del delitto. Mentre Sara dava una scorsa ai fogli, vide con la coda dell'occhio che Jeffrey toccava incuriosito un fiore viola a forma di campanula. Terminata la lettura, Sara indicò la pila di giornali sull'unica altra sedia dell'ufficio. «Se vuoi sederti, puoi metterli per terra.» «Sono stufo di stare seduto» disse lui, chinandosi sulla scrivania. Le accarezzò la gamba. «Hai dormito abbastanza?» Lei appoggiò la mano su quella di lui e pensò che avrebbe dovuto farsi mandare dei fiori tutti i giorni, visto l'effetto che avevano. «Sto bene» rispose, tornando a occuparsi del rapporto. «Le hai avute in fretta» aggiunse, alludendo alle fotografie della scena del delitto. «Le ha sviluppate Brad in camera oscura, A proposito. La prossima volta che fai una inversione a U, non metterti di fronte alla centrale.» Sara rispose con un sorrisetto innocente, poi indicò il sacchetto. «E questo cos'è?» «Farmaci.» Rovesciò il contenuto sulla scrivania. Sara capì che avevano già rilevato le impronte dalla polvere nera rimasta sui flaconi. Dovevano essere almeno venti. «È tutta roba della vittima?» «C'è il suo nome su tutti.» «Antidepressivi» considerò Sara, allineando le boccette. «Si faceva di ghiaccio. Metamfetamine.» «Che bella idea.» Continuò a sistemare i medicinali, cercando di classi-
ficarli per gruppi. «Valium. Non è proprio il massimo con gli antidepressivi.» Studiò le etichette, le prescrizioni provenivano dallo stesso medico. Il nome non le disse nulla, ma la grafia le fece scattare nella testa un campanello d'allarme. Cominciò a leggere le etichette. «Prozac, vecchio di due anni. Paxil, Elavil.» Si interruppe per studiare le date. «Si direbbe che li ha provati tutti e poi ha deciso per lo Zoloft, che è...» Si interruppe di nuovo. «Uau!» «Che c'è?» «Trecentocinquanta milligrammi di Zoloft al giorno! È una botta.» «Qual è il dosaggio medio?» Sara alzò le spalle. «Io non dò questa roba ai bambini. Un adulto dovrebbe stare fra i cinquanta e i cento milligrammi al massimo.» Passò ad altri flaconi. «Ritalin, naturalmente. La sua generazione è cresciuta con questa merda. Dell'altro Valium, litio, amantadina, Paxil, Xanax, cyproeptadina, busiprone, Wellbutrin, Buspar, Elavil. Altro Zoloft. E ancora un altro.» Avvicinò i tre flaconi di Zoloft notando che erano stati preparati in tre farmacie diverse e in date diverse. «A cosa servono?» «Depressione, insonnia, ansia. Curano tutti gli stessi sintomi, ma agiscono in modo diverso.» Fece scivolare la sedia fino allo scaffale accanto all'archivio e trovò il formulario farmaceutico. «Voglio controllare» disse riportando la sedia davanti alla scrivania. «Alcuni li conosco, altri meno. Uno dei miei bambini, che ha il Parkinson, viene trattato con il busiprone per neutralizzare le crisi d'ansia. A volte questi farmaci si possono prendere insieme, ma di sicuro non tutti. Per evitare di intossicarsi.» «Forse li vendeva» disse Jeffrey. «Aveva le siringhe. Gli abbiamo trovato nell'armadio una scorta di hascisc e dieci pasticche di acido.» «Non esiste un mercato per gli antidepressivi» rispose Sara. «Ormai chiunque può farseli prescrivere. Basta trovare il medico giusto. O quello sbagliato, nel nostro caso.» Indicò due flaconi che aveva messo da parte. «Il Ritalin e lo Xanax si possono spacciare.» «Ormai li trovi anche fuori dalle scuole elementari» precisò Jeffrey. Afferrò un grosso barattolo di plastica. «Se non altro prendeva le vitamine.» «Yocon» disse lei leggendo la composizione. «Cominciamo da questo.» Sfogliò il libro e trovò la voce. Diede una scorsa alla descrizione e riassunse: «È il nome commerciale per la yohinbine, che è un'erba. Dovrebbe sviluppare la libido». Jeffrey prese il flacone. «È un afrodisiaco?»
«Non tecnicamente» rispose Sara continuando a leggere. «In teoria serve un po' a tutto, dall'eiaculazione precoce all'erezione.» «Com'è che non ne so niente?» Sara gli lanciò un'occhiata. «Non ne hai mai avuto bisogno.» Lui sorrise e rimise lo Yocon al suo posto. «È un ragazzo di vent'anni. Che bisogno aveva di questa roba?» «Forse lo Zoloft l'ha reso anorgasmico.» Jeffrey socchiuse gli occhi. «Vuoi dire che non riusciva a venire?» «Be', quello è un altro modo di dirlo» concesse Sara. «Riusciva ad avere un'erezione, ma aveva difficoltà a eiaculare.» «Sfido io che si è strangolato!» Lei ignorò il commento e controllò la descrizione sul formulario per essere sicura. «Effetti collaterali: anorgasmia, angoscia, aumento dell'appetito, riduzione dell'appetito, insonnia...» «Questo spiegherebbe lo Xanax.» Sara alzò gli occhi dal libro. «Nessun medico sano di mente prescriverebbe tutte queste pillole insieme.» Jeffrey confrontò le etichette. «Utilizzava almeno quattro farmacie diverse.» «Non credo che un solo farmacista sarebbe disposto a fornire tutta questa roba. Sarebbe un'imprudenza.» «Abbiamo bisogno di qualcosa di concreto per ottenere un mandato per controllare le farmacie» disse. «Il nome del medico ti dice nulla?» «No» disse aprendo l'ultimo cassetto della scrivania. Tirò fuori l'elenco telefonico della Contea di Grant. Una rapida indagine rivelò che il medico non era registrato. «Non sarà qualcuno del centro sanitario o dell'ambulatorio del college?» «No» disse Jeffrey. «Potrebbe essere di Savannah. Una delle farmacie si trova lì.» «Non ho l'elenco telefonico di Savannah.» «Ci sarebbe quella nuova invenzione» cominciò Jeffrey in tono ironico. «Mi sembra che si chiami Internet.» «E va bene» disse lei, prevedendo una lezioncina sulle meraviglie della tecnologia. Poteva capirne l'utilità per qualcuno come Jeffrey, ma per quel che la riguardava vedeva troppi bambini pallidi e in sovrappeso, per apprezzare i vantaggi di stare tutto il giorno davanti a un computer. «Magari non è un medico» suggerì Jeffrey. «A meno che il farmacista non ti conosca, devi avere un codice di ri-
scontro quando presenti una ricetta. È registrato su un database.» «Forse si sono rubati il numero di un medico che è andato in pensione.» «Non sono narcotici. Questi farmaci non violano le norme governative» disse Sara accigliandosi. «Io stessa non capisco cosa se ne facesse. Non sono stimolanti. Non si sballa con questa roba. Lo Xanax può dare qualche effetto di questo tipo, ma aveva già le metamfetamine e l'hascisc che funzionano molto meglio.» Carlos avrebbe contato e classificato le pillole in seguito, ma Sara aprì d'impulso uno dei flaconi di Zoloft. Senza tirarle fuori, confrontò le compresse gialle con l'immagine riportata sul libro. «Sono identiche.» Jeffrey aprì un altro flacone e lei ne prese un terzo. Jeffrey disse: «Le mie no». Sarà sbirciò dentro. «No» ammise. Aprì il primo cassetto della scrivania, trovò una pinzetta e la usò per estrarre una delle capsule trasparenti. Conteneva della polvere bianca. «Possiamo mandarla in laboratorio, così sapremo di che si tratta.» Jeffrey cominciò a controllare tutte le confezioni. «Il budget ci permette di chiedere la precedenza?» «Non credo» disse Sara facendo scivolare la capsula in una bustina. Lo aiutò a controllare il contenuto degli altri flaconi, ma tutte le capsule avevano un piccolo marchio che identificava la casa produttrice o il nome del farmaco. Jeffrey disse: «Però potrebbe averle svuotate per infilarci altre sostanze». «Prima di tutto facciamo analizzare quelle non identificabili» suggerì lei, che conosceva il costo di un'indagine al buio. Fossero stati ad Atlanta, avrebbe trovato i fondi, ma il budget della contea di Grant era così risicato che certi mesi le toccava prendere in prestito dalla clinica i guanti di lattice. Domandò: «Da dove viene Dickson?». «Da qui.» Provò a rifare la domanda che aveva già fatto prima: «Come hanno preso la notizia i genitori?». «Meglio di quanto immaginassi» disse Jeffrey. «Da quel che ho capito era un ragazzo difficile.» «Come Andy Rosen» fece notare lei. Nel viaggio di ritorno da Atlanta gli aveva raccontato le impressioni di Hare sulla famiglia Rosen. «Se l'unico elemento in comune tra i due casi è che abbiamo a che fare
con due ventenni viziati, significa che una buona metà dei ragazzi del college si trova in pericolo.» «Andy era un maniaco-depressivo» gli ricordò Sara. «Secondo i genitori, Dickson non lo era. Non ha mai accennato a una terapia. Per quel che ne sanno loro, il figlio era sano come un pesce.» «Forse con loro non si confidava.» «Non mi sono sembrati particolarmente coinvolti, ma il padre ha tenuto a precisare che pagava lui tutti i conti. Una terapia sarebbe saltata all'occhio.» «Forse era in cura presso il centro del campus. È un servizio gratuito.» «Non credo sia facile avere accesso alla documentazione del centro.» «Potresti chiedere di nuovo a Jill Rosen.» «Jill è distrutta» disse Jeffrey rabbuiandosi. «Abbiamo interrogato tutto il pensionato e nessuno sapeva niente di quel ragazzo.» «Dalla puzza che c'era nella stanza, direi che passava tutto il tempo chiuso là dentro.» «Se Dickson spacciava, nessuno ammetterà mai di averlo conosciuto. Quando si è sparsa la voce che andavamo in giro a fare domande, sono entrati in funzione tutti gli sciacquoni del pensionato.» Sara cercò di fare il punto della situazione. «Quindi, sia lui che Rosen erano tipi isolati e solitari. Ed entrambi facevano uso di droghe.» «Il test tossicologico di Rosen era negativo.» «Forse è un caso» gli ricordò Sara. «Il laboratorio cerca solamente le sostanze che io indico. Ci sono migliaia di altre droghe che lui potrebbe avere usato e che io non ho elencato.» «Credo che qualcuno abbia cancellato delle impronte nella camera di Dickson.» Sara non disse nulla e attese il seguito. «C'era una bottiglia di vodka nel frigorifero, piena solo a metà, ma senza impronte. Alcune lattine di birra e altre bibite avevano le impronte della vittima e un paio di altre, forse del commesso del supermercato o di chiunque gliele abbia vendute.» Fece una pausa. «Cercheremo di capire cosa contenevano le siringhe. Quella sul pavimento è ridotta in frantumi. Hanno grattato il parquet, ma non so se riusciranno a recuperare un campione utilizzabile.» Fece un'altra pausa, come se fosse in dubbio se aggiungere qualcosa. «È stata Lena a trovare la siringa.» «E come?» «L'ha vista sotto il letto.»
«L'ha toccata?» «In abbondanza.» «Ha un alibi?» «È rimasta con me tutta la mattina» disse Jeffrey. «La notte l'ha passata con White. Si sono forniti l'alibi a vicenda.» «Non mi sembri convinto.» «Al momento, di loro due non mi posso fidare, visti anche i trascorsi criminali di Ethan White. Non ci si sveglia un bel mattino scoprendo di non essere più razzisti. L'unica cosa che li accomuna tutti quanti, e parlo anche di Tess, è qualcosa che ha a che fare con la razza.» Sara capì dove voleva arrivare. «Ne abbiamo già discusso. Come potevano sapere che avrei portato Tessa sulla scena del delitto? È inverosimile.» «Intanto continua a saltare fuori Lena, non è pensabile che non abbia un ruolo in questa storia.» Capì cosa intendeva dire. Era come col presunto suicidio di Andy Rosen. Le coincidenze non sono quasi mai delle semplici coincidenze. «Quel White» continuò Jeffrey, «è un gran pezzo di merda, Sara. Spero che tu non lo debba mai incontrare.» La voce si inasprì. «Che diavolo ci fa Lena con un tipo simile?» Sara si appoggiò allo schienale. «Considerato quello che ha passato, non c'è da stupirsi che frequenti un tipo come Ethan White. È un uomo pericoloso. Tu continui a definirlo un ragazzo, ma non direi che si comporta da ragazzo. Lena potrebbe sentirsi attratta dal pericolo. Ricerca le esperienze che conosce.» Lui scrollò la testa come se non riuscisse ad accettare l'idea. A volte Sara si chiedeva se avesse mai capito Lena. Jeffrey tendeva a vedere le persone come lui le voleva, e non come erano nella realtà. Era stato un problema ricorrente anche nel loro matrimonio, ma non era quello il momento di pensarci. Disse: «A parte il caso di Ellen Schaffer, potrebbe trattarsi di una serie di coincidenze, rafforzate dal fatto che tu e Lena siete in continua competizione». Gli mise un dito sulle labbra per zittirlo. «So cosa stai per dire, ma non puoi negare che c'è dell'astio tra te e Lena. Al punto che potrebbe aver deciso di proteggere White solo per farti incazzare.» «È possibile» ammise, lasciando di stucco Sara. «Sei davvero convinto che si sia messa a bere? Voglio dire, al punto che sta diventando un problema?»
Jeffrey si strinse nelle spalle, e Sara si ricordò di quanto odiasse gli alcolisti. Suo padre era stato un alcolizzato e un violento e anche se lui sosteneva di avere superato quei traumi, succedeva ancora che un alcolizzato gli suscitasse più repulsione di un assassino. Sara disse: «Avere i postumi di una sbronza non significa essere alcolisti, significa semplicemente che la sera prima hai bevuto troppo». Lasciò passare qualche istante per dargli il tempo di riflettere. «E questa?» domandò. Gli porse la fotografia con la siringa calpestata. «Non credo che sia stata lei» ammise. «A occhio direi che l'impronta è identica a quella della scarpa di White.» «No» disse Sara. «Trascuri l'aspetto principale. Dickson aveva due siringhe con la metamfetamina più pura che esista sul mercato. Se avesse voluto suicidarsi - o se qualcuno avesse inscenato un suicidio - perché non usare la seconda siringa? Quella droga è tanto forte, che una seconda dose lo avrebbe ucciso quasi all'istante.» «Morire strangolati in quella situazione è piuttosto imbarazzante come uscita di scena» osservò Jeffrey. «L'assassino, nel caso che ci sia, doveva veramente odiarlo.» «Il gancio era nel muro già da parecchio tempo» disse Sara. Cercò la fotografia. «Le cinghie sono consumate, il che significa che sono state usate molte altre volte. La spugna serve a impedire che il cuoio lasci il segno sul collo. Era tutto predisposto con cura, compresa la cassetta porno nel videoregistratore.» Continuò a cercare tra le fotografie. «Probabilmente pensava di non correre rischi stando seduto. Succede spesso così. Mettono i piedi contro una sedia per appoggiarsi, poi la sedia scivola via, ed è fatta». Indicò i flaconi. «Se era anorgasmico, è ovvio che abbia cercato un sistema migliore per costruirsi la sua trappola.» Jeffrey non riusciva a togliersi dalla testa Lena. «Perché Lena avrebbe dovuto inquinare la scena del crimine se non aveva niente da nascondere? Non ha mai fatto una cosa simile.» Sara non seppe dare una risposta. «Se è White il colpevole, che movente poteva avere per uccidere Scooter?» «Non ne ho idea.» «Droga?» «White è in libertà vigilata, gli fanno il test tutte le settimane, è pulito, ma Lena aveva del Vicodin nel suo appartamento.» «Le hai chiesto il perché?» «Dice che è per i dolori, conseguenza delle lesioni dell'anno scorso.»
Alla mente di Sara si presentò un'immagine indesiderata di Lena, durante la visita eseguita dopo lo stupro. «Comunque aveva la ricetta» disse Jeffrey. Sara aveva perso il filo della conversazione. Domandò: «La Schaffer non faceva uso di droghe?». «No.» «Dickson non mi sembra un nome ebreo.» «È un battista, nato e cresciuto nel sud.» «Frequentava qualche ragazza?» «Con quella puzza?» le ricordò Jeffrey. «Ottima osservazione.» Si alzò, domandandosi che fine avesse fatto Brock. «Possiamo cominciare? Ho detto alla mamma che sarei partita il più presto possibile.» «Tessa come sta?» «Fisicamente? Si riprenderà. Ma non mi chiedere del resto. D'accordo?» «Certo. D'accordo.» Sara aprì la porta e passò nella sala delle autopsie. «Carlos» disse, «Brock sarà qui tra poco. Quando arriva ti puoi prendere qualche minuto di pausa.» Jeffrey parve incuriosito, ma non fece domande. Disse a Carlos: «Complimenti per il tatuaggio. Avevi ragione». Carlos sorrise, cosa che non faceva mai quando era Sara a complimentarsi con lui. Sara si legò il camice attorno alla vita e si avvicinò allo schermo luminoso per guardare le radiografie che Carlos aveva già eseguito. Analizzate con cura tutte le lastre, tornò al cadavere. La bilancia ondeggiava sopra l'estremità del tavolo anatomico e, anche se Carlos non lo scordava mai, controllò che il peso fosse di nuovo sullo zero. Non voleva cominciare l'autopsia prima che Brock se ne fosse andato. «Darò un'occhiata, in attesa che arrivi Brock.» Infilò un paio di guanti e tirò indietro il lenzuolo esponendo William Dickson alla luce cruda proveniente dal soffitto. Il segno nero della cintura, impresso sul collo, sembrava una striscia. La mano sinistra stringeva ancora il pene. Domandò a Jeffrey: «Era mancino?». «Non è detto.» «Davvero?» domandò sorpresa. Non ci aveva mai pensato, ma era sempre stata convinta che un uomo usasse la mano dominante.
Quando le scostò, le dita rimasero piegate, ma il rigor mortis stava lentamente scomparendo dalla parte superiore del corpo, dove aveva avuto inizio. Le punte delle dita erano viola scuro e sul pene si vedeva ancora la traccia della mano. «Auch» si lasciò sfuggire Carlos. Era la prima volta che commentava quello che vedeva, ma il suo sguardo era stato colpito dai due rilievi brunastri che circondavano i testicoli. «Sono fatti da un coltello?» domandò Jeffrey. «Assomigliano di più a ustioni elettriche» disse Sara riconoscendo il colore. «Sono recenti, forse di qualche giorno fa. Questo spiegherebbe il filo elettrico scoperto.» Prese un tampone e lo passò sulla bruciatura per recuperare un grumo viscido che sembrava unguento. Lo annusò: «Odora di vaselina». Carlos le porse un sacchetto per infilarci il tampone. «Si usa la vaselina per le bruciature?» domandò Jeffrey. «No, ma con tutta la roba che ingurgitava, non credo fosse il tipo da leggere le istruzioni.» Osservò le bruciature. «Potrebbe averla usata come lubrificante.» Carlos e Jeffrey si scambiarono un'occhiata dubbiosa. «Probabilmente usava il balsamo di tigre» disse Jeffrey. «Ce n'era un barattolo accanto al televisore.» Sara si ricordò di aver notato il barattolo in una delle fotografie, ma non le aveva suggerito nulla. «Non si usa per i dolori muscolari?» Nessuno dei due rispose e lei tornò a concentrarsi sulle bruciature. «Forse usava anche la stimolazione elettrica per raggiungere l'orgasmo.» «Non è esattamente la prima cosa che mi verrebbe in mente per risolvere il problema.» «Non dimenticare che si sparava in vena metamfetamina pura. Dubito che fosse in grado di ragionare con lucidità.» Domandò a Carlos: «Puoi aiutarmi a girarlo?». Il giovane si infilò un paio di guanti e insieme sistemarono Dickson sullo stomaco. C'erano dei lividi evidenti sui glutei e un lungo segno orizzontale sulla schiena, nel punto in cui era rimasto appoggiato alla testiera del letto. Esaminò il corpo del ragazzo senza sapere bene cosa stesse cercando. Alla fine trovò un particolare rilevante. «Ha delle abrasioni intorno all'ano» disse a Jeffrey, che stava guardando il lavello.
«Era gay?» domandò. «Non necessariamente» rispose Sara sfilandosi i guanti. Andò a prenderne un nuovo paio e disse: «Non si può stabilire come e quando se le sia fatte. Anche i maschi eterosessuali indulgono in queste pratiche». Jeffrey si guardò come a dire: «Non questo maschio eterosessuale». «Se era gay, potrebbe trattarsi di omicidio passionale» osservò. «Hai qualche elemento che provi che era gay?» «Nessuno dice niente di lui.» «E il video che stava guardando?» «Etero.» «Potresti dare un'altra occhiata alla stanza e vedere se trovi qualcosa che poteva usare allo scopo. Date le premesse, non mi stupirebbe che si servisse di qualche strumento...» Jeffrey la interruppe. «Qualcosa di simile a un succhiotto gigante?» Sara annuì e lui la guardò sbalordito, forse perché gli era venuto in mente che lo aveva toccato. Sara tornò al suo lavoro. Scattò delle fotografie di quello che aveva trovato e chiese a Carlos di aiutarla a rigirare il corpo. Dickson si stava ammorbidendo, ma il rigor mortis ancora presente complicò la manovra. Esaminò di nuovo il corpo frontalmente, controllando tutti i punti nascosti. La mascella era abbastanza allentata e le permise di forzare la bocca per aprirla. Non vide nulla che ostruisse le vie respiratorie. I solchi impressi sul collo e le macchioline viola attorno agli occhi iniettati di sangue erano effetto dello strangolamento. Spiegò a Jeffrey: «La pressione sulle arterie carotidee che portano il sangue ossigenato al cervello produce una temporanea anossia cerebrale. Dopo dieci o quindici secondi subentra la perdita di coscienza dovuta all'occlusione». «Sii più chiara.» «L'obiettivo è quello di bloccare il flusso sanguigno alla testa per aumentare il piacere ottenuto con la masturbazione. Forse ha sbagliato i calcoli, forse si è fatto trascinare, oppure è svenuto per la mancanza di ossigeno...» Si interruppe per dare il tempo a Jeffrey di vagliare tutte le ipotesi, poi proseguì: «Controllerò l'osso ioide e le cartilagini tiroidee quando inciderò il collo, ma dubito che ci siano fratture. La pressione si è esercitata soprattutto sulla carotide. Dal gancio e dall'imbottitura sotto la cintura si direbbe che sapeva quel che stava facendo». «Si direbbe» ripeté Jeffrey, ma Sara non era tanto scettica.
«Credo che sia meglio cominciare.» Prevedeva che l'esame interno avrebbe fornito elementi più decisivi. «Non volevi aspettare Brock?» «Sarà stato trattenuto» disse. «Faremo una pausa quando arriva.» Azionò il dittafono e procedette all'autopsia di William Dickson, annunciando ad alta voce tutto quello che trovava, esaminando ogni organo e ogni pezzo di pelle sotto la lente, fino a che non fu certa che non rimaneva altro da rilevare. Oltre a un fegato ingrossato e un rammollimento cerebrale dovuto all'uso prolungato di droghe, non c'era nulla di atipico nel ragazzo, a parte il modo in cui era morto. Terminò la dettatura con le conclusioni che aveva già preannunciato a Jeffrey. «Il decesso è dovuto all'occlusione dell'arteria carotidea con conseguente anossia cerebrale.» Chiuse il microfono e si levò i guanti. «Niente» fu il riassunto di Jeffrey. «Niente» confermò Sara, infilando un nuovo paio di guanti. Stava ricucendo il torace con il solito punto a croce, quando l'ascensore di servizio accanto alle scale tintinnò. Carlos scomparve prima che si aprissero le porte. «Ehi, signora» disse Brock spingendo il carrello di acciaio dentro la sala. «Perdona il ritardo. Sono arrivati i parenti di un defunto per definire certi particolari. Avrei dovuto dire a mamma di chiamarti, ma sai.» Sorrise a Jeffrey e poi di nuovo a Sara, non osava confessare che non poteva fidarsi della propria madre. «In ogni modo, ho immaginato che avevate di che tenervi occupati.» «Non ti preoccupare» disse Sara dirigendosi al freezer. «Questo non tocca a me» disse Brock indicando Dickson. «Se l'è preso Parker, quello sulla Madison.» Una ruota del carrello cozzò contro una piastrella rotta e Brock incespicò. «Serve una mano?» domandò Jeffrey. Brock ridacchiò e si rimise diritto. «Ho patente e libretto, capo» disse, come se Jeffrey lo avesse sorpreso in mezzo al traffico. Sara trascinò fuori il carrello col corpo di Andy Rosen e aiutò Brock a trasferirlo sull'altro. «Vuoi che ti lasci il sacco?» domandò Brock. «Riportamelo domani» disse. Poi, pensando a Carlos, cambiò idea: «Ci ho ripensato, potresti usare il tuo?». «Tutto per farti felice» disse lui. Allungò il braccio sotto il carrello e prese un sacco verde con l'emblema della Brock & Sons stampata a lettere
d'oro sul lato. Sara aprì la cerniera mentre lui stendeva il sacco sul carrello. «Bella incisione» osservò Brock. «Basterà incollarla e stendere un velo di cotone, niente di complicato.» «Bene» disse Sara, non sapendo che altro dire. «Gli ho dato un'occhiata quando sono venuto ieri, per vedere come sarebbe venuta l'imbalsamazione.» Fece un sospiro rassegnato. «Sarà meglio che sulla testa ci metta un po' di stucco. Per evitare che il marmocchio cominci a colare.» Sara smise di fare quello che stava facendo: «E da dove dovrebbe colare?». Lui indicò la fronte. «Da quel buco. Pensavo che l'avessi visto, Sara.» «No.» Prese la lente di ingrandimento, tirò indietro i capelli di Andy Rosen e trovò una piccola trafittura sul cuoio capelluto. La pelle intorno al foro si era contratta e Sara lo individuò prima ancora di accostare la lente. Disse: «Non capisco come ho fatto a non vederlo». «Gli hai esaminato la testa» disse Jeffrey. «Ti ho visto io.» «Ieri sera ero così stanca» si giustificò, ma pensò che fosse debole come scusa. «Porca puttana!» Brock restò visibilmente turbato da quell'uscita. Sara sapeva che non era da lei imprecare, ma era troppo arrabbiata per preoccuparsene. Il piccolo foro in cima alla fronte di Andy Rosen era ovviamente stato prodotto da un ago. Qualcuno gli aveva praticato un'iniezione tra i capelli, sperando che avrebbero nascosto la piccola ferita. Se Brock non gliel'avesse fatta notare, non l'avrebbe mai vista. Disse a Jeffrey: «Ho bisogno di Carlos. Dobbiamo prendere altri campioni di sangue e tessuti». «È rimasto ancora del sangue?» domandò Jeffrey. «Noi non...» cominciò Brock. «Certo che ne è rimasto» lo interruppe Sara. Poi, rivolta più che altro a se stessa. «Voglio asportare questa parte sopra la fronte. Chissà cos'altro ho trascurato.» Si levò gli occhiali. La rabbia le appannava la vista. «Dannazione» ripeté. «Come ho fatto a non notarlo?» «Neppure io l'ho visto» disse Jeffrey. Lei si morse il labbro per non esplodere. Disse a Brock: «Ho bisogno di trattenerlo per altre due ore almeno». «D'accordo» disse lui, ansioso di andarsene. «Dammi un colpo di telefono quando hai finito.»
Sara sedeva al bancone della cucina e fissava il forno a microonde chiedendosi se le sarebbe venuto il cancro a stare così vicino. Era talmente sfinita che non le importava nulla, e così furiosa di non aver visto il foro sulla testa di Andy Rosen, che le sarebbe sembrata una giusta punizione. Le tre ore supplementari di indagini, minuziose come non le era mai capitato, non avevano rivelato altro. Da Rosen era di nuovo passata ad esaminare in tutti i dettagli il corpo di William Dickson, facendosi seguire passo passo da Carlos e da Jeffrey, per avere la garanzia di un triplo controllo su tutto quello che faceva. Aveva passato un'altra ora con gli occhi incollati al microscopio per studiare i frammenti del cuoio capelluto di Ellen Schaffer recuperati sulla scena del delitto. A quel punto Jeffrey era riuscito a convincerla che, se anche fosse rimasto qualche indizio non individuato, lei era troppo stanca per trovarlo. Doveva andare a casa e concedersi un po' di sonno. Le aveva promesso che dopo l'avrebbe riportata lui stesso all'obitorio, per controllare ancora una volta tutti i risultati. Al momento le era sembrata una proposta ragionevole, ma il senso di colpa e il bisogno di trovare delle risposte le avevano impedito di chiudere gli occhi. Si era lasciata sfuggire una prova cruciale per l'indagine e, non fosse stato per Brock, Andy Rosen sarebbe stato cremato, il che avrebbe reso vana ogni speranza di dimostrare che era stato assassinato. Il timer del forno suonò e Sara tirò fuori il pasto a base di pollo e pasta, sapendo prima ancora di eliminare la pellicola che non sarebbe riuscita a mangiarlo. Perfino i cani arricciarono il naso all'odore. Pensò di buttare tutto nel bidone di fuori, ma la stanchezza la vinse e rovesciò il cibo nel tritarifiuti del lavello. Il frigorifero non aveva molto da offrire, a parte un mandarino avvizzito che si era incollato al ripiano di vetro e due pomodori freschi dei quali ignorava l'origine. Rimase a fissare stranita il frigo aperto, indecisa sul da farsi, finché lo stomaco cominciò a reclamare. Alla fine si decise e preparò un tramezzino con i pomodori, che mangiò seduta al bancone della cucina per godersi la vista sul lago. La raggiunse il rombo di un tuono. Il temporale li aveva seguiti da Atlanta. Notò la fila di piatti e bicchieri lavati e sistemati da Jeffrey sullo scolapiatti e, come una stupida, si commosse fino alle lacrime. Tutti i fiori del mondo e i complimenti più galanti perdevano valore di fronte un uomo disposto a sbrigare i lavori di casa.
«Oh, povera me.» Si asciugò gli occhi e rise, pensando che la mancanza di sonno e lo stress la stavano trasformando in una vecchia rimbambita. Stava accarezzando l'idea di fare una doccia per lavare via le brutture della giornata quando udì bussare alla porta. Si alzò brontolando, convinta che qualche vicina premurosa fosse venuta per avere notizie di Tessa. Per un attimo pensò di fingere di non essere in casa, ma la prospettiva remota che la vicina avesse portato un bello stufato o almeno un pezzo di torta la spinse ad aprire. «Devon» esclamò, sorpresa di vedere il fidanzato di Tessa alla sua porta. «Salve» disse lui, ficcando le mani in tasca. C'era una sacca da viaggio ai suoi piedi. «Che ci fa qui un poliziotto?» Sara agitò la mano in direzione di Brad, che stava di guardia in macchina sull'altro lato della strada da quando lei era rientrata. «È una storia lunga» disse. Non le andava di raccontargli dei timori di Jeffrey. Devon appoggiò il piede sulla sacca. «Sara io...» «Cosa?» Le balzò il cuore in gola al pensiero che fosse successo qualcosa a Tessa. «È...?» «No» la rassicurò Devon. Protese le mani, come se fosse pronto a sorreggerla. «No, mi dispiace. Dovevo dirtelo subito. Sta bene. Sono solo venuto a...» Sara si portò una mano sul cuore. «Mio Dio, mi hai spaventato a morte.» Gli fece segno di entrare. «Vuoi qualcosa da mangiare? Ho solo...» Si fermò quando vide che lui non la seguiva. «Sara» cominciò Devon, poi abbassò gli occhi sulla borsa da viaggio. «Ti ho portato qualcosa per Tessa. Sono cose che voleva da casa.» Lei si appoggiò allo stipite e un lieve brivido le percorse la nuca. Aveva capito perché era venuto, e a cosa serviva quella sacca. Stava lasciando Tessa. Disse: «Non puoi farlo, Devon. Non ora». «È lei che mi ha detto di andarmene» spiegò. Sara non dubitava che fosse la verità, come non dubitava che Tessa avesse inteso l'esatto contrario. «È l'unica cosa che è riuscita a dirmi in questi due giorni.» Le lacrime gli rigavano le guance. «"Vattene." Solo questo. "Vattene."» «Devon...» «Io non riesco a stare là, Sara. Non posso vederla così,» «Aspetta almeno un paio di settimane» disse quasi implorando. Qualunque cosa avesse detto Tessa, se Devon la lasciava in quelle con-
dizioni le conseguenze potevano essere devastanti. «Devo andare» disse lui. Prese la sacca e la buttò nell'atrio. «Aspetta» disse Sara, cercando di farlo ragionare. «Ti ha detto di andare via solo per avere la certezza che tu volessi restare.» «Sono così stanco.» Guardò oltre la spalla di Sara, fissando con lo sguardo vuoto il corridoio. «A quest'ora potevo avere il mio bambino. Potevo essere a casa a fargli le foto e a distribuire sigari agli amici.» «Siamo tutti stanchi. Dai tempo al tempo, Devon» disse, pensando che non aveva la forza necessaria per affrontare anche questo. «Vedi, voi siete così uniti. Vi date da fare per aiutarla e assisterla... è una cosa molto bella, ma...» Si trattenne e scrollò la testa. «Io non faccio parte del gruppo. Voi siete come un muro attorno a lei. Un muro spesso e impenetrabile che la protegge e la fa sentire più forte.» Si interruppe di nuovo e guardò Sara negli occhi. «Io non ne faccio parte. Non ne farò mai parte.» «Certo che ne fai parte.» «Lo pensi davvero?» «Lo penso eccome. Devon, per due anni sei venuto a tutti i nostri pranzi domenicali. Tessa ti adora. Mamma e papà ti trattano come un figlio.» «Ti ha mai detto dell'aborto?» domandò Devon. Sara non sapeva cosa rispondere. Quando Tessa aveva scoperto di essere incinta aveva considerato l'ipotesi di abortire, ma poi aveva scelto di tenere il bambino e di metter su famiglia con Devon. «Sì» disse lui, interpretando la sua espressione. «L'avevo immaginato.» «Era confusa.» «Tu eri appena tornata da Atlanta» disse Devon. «E lei aveva già rotto con quel tipo.» Sara non aveva idea di cosa stesse parlando. «Dio punisce le persone. Le punisce quando non seguono i suoi precetti.» «Devon, non dire così» lo pregò, sempre più confusa. Tessa non le aveva mai parlato di un aborto. «Entra, stai dicendo cose senza senso.» Lo prese per mano. «Poteva lasciare il college» disse senza muoversi dal portico. «Diavolo, Sara, non serve una laurea in giurisprudenza per fare l'idraulico. Poteva tornare qui e tirare su il bambino da sola. I vostri genitori non l'avrebbero mica cacciata di casa.» «Devon... per favore.» «Non cercare di scusarla» disse. «Noi tutti subiamo le conseguenze delle
nostre azioni.» Lo sguardo si velò di tristezza. «E certe volte anche altri restano coinvolti.» In quel momento l'auto di Jeffrey imboccò il vialetto e Devon si voltò a guardare. Sara notò che aveva parcheggiato il suo pulmino sulla strada, evidentemente aveva già in programma di andarsene in fretta. «Ci vediamo» disse con un gesto frettoloso della mano, come se quella decisione non gli costasse nulla. «Devon» lo richiamò Sara andandogli dietro. Lo seguì sul prato, ma si fermò quando lo vide accelerare il passo. Non era disposta a rincorrerlo. Doveva a Tessa almeno questo. Jeffrey la raggiunse e guardò Devon allontanarsi. «Che succede?» «Non lo so» rispose lei, anche se lo sapeva. Come mai Tessa non le aveva mai parlato dell'aborto? Il senso di colpa era stato troppo forte, o Sara in quel periodo era troppo presa dalla sua vita per accorgersi di quello che stava passando la sorella? Jeffrey la ricondusse verso la casa. «Hai già cenato?» domandò. Lei annuì e si appoggiò a lui, desiderando che potesse cancellare gli ultimi tre giorni. Era esausta, e stava male al pensiero che l'aborto era un'altra occasione in cui la sorella non aveva potuto contare su di lei. «Sono così...» cercò la parola, ma non riuscì a trovare un modo per descrivere il suo stato d'animo. Si sentiva completamente svuotata. Jeffrey l'aiutò a salire i gradini. «Hai bisogno di dormire.» «No.» Lo fermò. «Devo tornare all'obitorio.» «Non questa sera» disse lui, scansando la sacca con un calcio. «Non riesci neppure a tenere gli occhi aperti.» Sara sapeva che aveva ragione e si arrese. «Prima devo farmi un bagno» disse. «Mi sento così...» «Va tutto bene» la rassicurò, baciandola sui capelli. La condusse in bagno e lei rimase immobile mentre lui la spogliava e poi si spogliava a sua volta. Lo guardò in silenzio mentre faceva scendere l'acqua e controllava la temperatura prima di farla entrare nella doccia. Quando si sentì toccare, provò una reazione familiare, ma il sesso era l'ultima cosa che Jeffrey aveva in mente mentre inzuppava la spugna sotto lo scroscio d'acqua calda. Rimase immobile anche sotto la doccia, lasciando a Jeffrey il compito di lavarla, finalmente sollevata da ogni responsabilità. Fu come il risveglio da un sogno orribile. Il tocco delle sue mani era così consolante, che Sara cominciò a piangere.
Jeffrey notò il cambiamento. «Va tutto bene?» Sara si sentiva così disarmata che non riuscì a rispondere, ma si lasciò andare contro il suo corpo, perché capisse quanto aveva bisogno di lui. Jeffrey esitò, allora lei gli prese la mano e se la fece scivolare lentamente addosso fino a quando raggiunse il seno e lei sentì i muscoli tendersi mentre le dita risvegliavano in lei le sensazioni più profonde. L'altra mano l'accarezzò più sotto e il piacere le mozzò il fiato. Diventò bramosa, vogliosa di avere tutto di lui, ma Jeffrey mantenne un ritmo lento e sensuale, prendendo tempo, toccando ogni parte con sapiente partecipazione. Quando alla fine la sospinse contro le piastrelle fredde della doccia, Sara si sentiva di nuovo viva, come se per giorni si fosse persa in un deserto e solo ora avesse ritrovato la sua oasi. 11 «Ce l'hai fatta?» domandò Chuck per l'ennesima volta. «Ce l'ho fatta» ribatté Lena, facendo ruotare nella mano destra il temperino, mentre con la sinistra teneva la grata del condizionatore. Il bagliore di un lampo penetrò dalla finestra e lei incurvò le spalle al rombo del tuono che seguì. Il laboratorio si illuminò, come se qualcuno avesse scattato una fotografia col flash. «Posso procurarti un cacciavite» disse Chuck, mentre la grata cominciava a cedere. Lena tirò fuori dalla tasca la torcia elettrica e diresse la luce dentro il condizionatore. Qualche coglione aveva scelto proprio quel giorno per lasciare aperta una delle gabbie nel laboratorio. Erano scappati fuori quattro topi che valevano più di quanto Lena riuscisse a mettere insieme in un anno, di conseguenza erano state mobilitate nella ricerca tutte le persone disponibili nel campus. Questo succedeva verso mezzogiorno, ma ormai erano quasi le sei e solo due di quelle fottute creature con gli occhietti lustri erano state recuperate. Uscita dalla centrale di polizia, Lena era andata a casa a cambiarsi, ma dopo una giornata di caccia ai topi era di nuovo tutta sudata. Sentiva la camicia appiccicata alla schiena ed era ancora scossa dai tremori per i postumi della notte. La testa era sul punto di spaccarsi in due e la bocca era impastata come mai le era successo. Un buon sorso avrebbe risolto la situazione, o almeno l'avrebbe alleviata, ma nella stanza degli interrogatori
aveva fatto una solenne promessa a se stessa: non avrebbe mai più toccato una goccia d'alcol. Adesso vedeva quanti errori aveva commesso, in buona parte per colpa del whisky. Gli altri avevano a che fare con Ethan e a questo riguardo aveva preso un altro impegno con se stessa: Ethan doveva uscire dalla sua vita. Aveva funzionato per almeno due ore. Poi, mentre si trovava nell'ufficio della sicurezza, Chuck le aveva chiesto di rispondere al telefono e all'altro capo del filo c'era Ethan in preda al panico, che con una voce tremante si era messo a raccontare come aveva trovato Scooter. L'idiota aveva perfino eliminato le impronte nella stanza, come se non ci fossero buone ragioni per spiegare la sua presenza là dentro. Come se Lena non sapesse come pararsi il culo da sola. Prima di andarsene dal pensionato, Lena aveva detto a Ethan di togliersi dai piedi, ma lui non l'aveva lasciata in pace. Si era perfino offerto di aiutarla nella ricerca dei topi e nelle ultime sei ore aveva fatto di tutto per attirare la sua attenzione. Per quel che la riguardava, quella mattina aveva già detto tutto quello che aveva da dire a Ethan Green, o White, o come diavolo si chiamava. Con lui aveva chiuso. Se Jeffrey la riprendeva nella polizia, per prima cosa avrebbe fatto rinchiudere quella testa di cazzo nella prigione più vicina. E avrebbe personalmente buttato via la chiave. «Infila dentro la testa, così puoi vedere meglio» disse Chuck, incombendo come una madre dispotica. Come tutte le volte che delegava a Lena un lavoro ingrato, Chuck si prodigava in consigli, ma si guardava bene dal dare una mano. Lena si mise il coltello in tasca e fece come le era stato detto, infilando la testa nella cassetta metallica piena di polvere. Si rese conto troppo tardi di avere il sedere per aria e dovette rassegnarsi alla sgradevole sensazione che Chuck si stesse godendo lo spettacolo. Stava per dirgli qualcosa, quando una voce furiosa gridò: «La vogliamo finire con questa storia? Io ho un lavoro importante da sbrigare». Lena si tirò su di scatto e picchiò la testa contro il condizionatore. Brian Keller era a due centimetri da Chuck, con la faccia paonazza di rabbia. Chuck disse: «Stiamo facendo tutto il possibile, dottor Keller». Quando Keller si trovò davanti Lena fece una faccia sbalordita. Succedeva spesso ai professori che avevano lavorato con Sibyl, e Lena ci aveva fatto l'abitudine. Lena accennò un saluto con la mano nel tentativo di mostrarsi gentile. Keller aveva la sfortuna di lavorare nel laboratorio attiguo. Verso l'una il
rumore e le continue interruzioni avevano cominciato a dargli sui nervi e aveva sospeso il resto delle lezioni, lanciando imprecazioni colorite all'indirizzo di Chuck. Era il tipo di persona che poteva ispirarle simpatia. A differenza di Richard Carter, che scelse proprio quel momento per infilare la testa dentro l'aula. «Come sta andando?» disse. Chuck non si lasciò sfuggire l'occasione. «Vietato l'accesso alle signorine» proclamò. Per tutta risposta Richard sbatté le palpebre e gli lanciò un'occhiata maliziosa. Chuck stava per aggiungere qualcos'altro, ma Richard si era già rivolto a Keller. «Salve, Brian» disse sorridendo come un neonato con la pancia piena. «Posso sostituirti, se vuoi andare. Io ho finito per oggi. Non mi costa nulla.» «Le lezioni sono finite due ore fa, idiota» borbottò Keller. Richard si sgonfiò come un pallone. «Volevo solo...» cominciò con un accento petulante nella voce. Keller girò sui tacchi dando le spalle a Richard e puntò l'indice contro Chuck. «Le devo parlare, subito. Non posso tollerare di essere interrotto sul lavoro.» Chuck annuì senza battere ciglio e prima di allontanarsi con Keller si sfogò su Lena. «Adams, tu non te ne vai finché non hai controllato ogni centimetro di quel condizionatore.» Quando i due uscirono dalla stanza, Lena borbottò: «Stronzo». Si aspettava da Richard un commento di approvazione, ma l'assistente aveva un'aria abbattuta. Non fece in tempo a chiedergli: «Che ti prende?» che Richard aveva già iniziato la litania di lamentele. «Io sono un suo collega, non un suo merdoso studente» disse a denti stretti, sibilando in maniera quasi incomprensibile. Puntò il dito verso la porta e alzò la voce. «Non ha il diritto di parlarmi così davanti ad altre persone. Mi merito almeno un briciolo di rispetto da quell'uomo. Me lo sono guadagnato.» «Lascia stare» disse Lena, chiedendosi come mai fosse così alterato. Per quel che ne sapeva, Brian si rivolgeva a tutti nello stesso modo. «Ha una lezione, questa sera. Mi ero solo offerto di sostituirlo al corso serale.» «Ah, quello. Credo che l'abbia annullato.» Richard continuava a fissare la porta come un pitbull aizzato contro un
intruso. Lena non lo aveva mai visto in quello stato. Gli occhi sporgevano dalle orbite e la faccia era paonazza, fatta eccezione per le labbra, pallide e strette in una linea sottile. Lei non sapeva se assecondarlo o ridere. Disse: «Non te la prendere, mandalo al diavolo» e si domandò quale fosse il vero problema. Se aveva a che fare con i gusti sessuali di Richard, le importava poco, ma forse poteva rivelare qualcosa sul suo comportamento negli ultimi tempi. Richard si mise le mani sui fianchi. «Non sono disposto ad accettare un trattamento simile. Non da lui. Siamo allo stesso livello in questo dipartimento e non tollero che...» Lena ci riprovò. «Andiamo, ha appena perso un figlio.» Richard liquidò l'argomento con un gesto brusco della mano. «Non chiedo altro che di essere trattato come un adulto. Come un essere umano.» Lena non aveva tempo per le sue lagne, ma capì che non se ne sarebbe andato se non gli concedeva un po' di compassione. «Hai ragione. È un coglione.» Finalmente Richard la guardò in faccia, come se si fosse accorto solo allora della sua presenza. «Chi ti ha picchiato?» La domanda la colse alla sprovvista, benché fosse prevedibile. «Cosa dici?» chiese, come se non sapesse che alludeva al taglio sotto l'occhio. «Macché. Sono caduta. Ho picchiato contro la porta. A volte sono sbadata.» Provò un bisogno impellente di aggiungere altre giustificazioni, ma si trattenne. Sapeva dalla sua esperienza di poliziotto che i bugiardi non sanno frenare la lingua. Eppure non poté fare a meno di aggiungere: «Non è niente». Lui strizzò l'occhio con aria sorniona, per farle capire che non la beveva. Improvvisamente più calmo, disse: «Sai Lena, mi sono sempre sentito molto vicino a te. Sibyl mi parlava sempre di te. Non diceva che bene». Lena si schiarì la voce, ma non disse nulla. «Faceva di tutto per aiutarti. Per farti contenta. Era l'unica cosa che le importasse al mondo.» Lena avvertì uno spiacevole formicolio alle piante dei piedi. «Già» disse, sperando che lui cambiasse argomento. «Che ti è successo all'occhio?» insistette, ma il tono era gentile. «Sembra che qualcuno ti abbia picchiato.» «Nessuno mi ha picchiato.» Senza volerlo aveva alzato la voce. Altro errore comune tra i bugiardi. Dentro di sé si maledisse. Un tempo era brava a
mentire. «Se hai bisogno di aiuto...» Si trattenne, forse perché sapeva che era stupido offrire aiuto a una persona come Lena. Cambiò tattica. «Se vuoi parlarne... Che tu lo creda o no, io so cosa provi.» «Certo» disse. Ma era del tutto improbabile che scegliesse Richard Carter per confidarsi. L'uomo andò a sedersi su un tavolo lasciando penzolare le gambe. Dall'occhiata pensosa che le lanciò, Lena si aspettava che rinnovasse la sua offerta, invece domandò: «Avete scoperto chi ha aperto la gabbia?». «No» rispose. «Perché?» «Ho sentito in giro che un paio di studenti del secondo anno erano in ritardo sulla consegna di una relazione, così si sono inventati una... manovra diversiva.» Lena rise con una smorfia di disprezzo. «Non mi sorprenderebbe.» «Ehi, questa sera io vado a cena con Nan» disse. «Perché non vieni con noi? Sarebbe divertente.» «Devo lavorare» disse lei. E per dare più credibilità alla risposta aprì il coltello. «Dio onnipotente.» Scese dal tavolo per vedere meglio. «A che ti serve quello?» Lei stava per rispondere che era un ottimo sistema per sbarazzarsi dei rompiscatole che non si fanno i fatti loro, quando il cellulare di Richard cominciò a squillare. Lui si frugò nelle tasche del camice da laboratorio e finalmente lo trovò. Guardò lo schermo e la faccia si allargò in un sorriso. Disse a Lena: «Ti cercherò più tardi. Ne riparleremo». Si toccò sotto l'occhio per farle capire a cosa alludeva. Lei avrebbe voluto rispondere che non era il caso, ma si limitò a dire: «Ci vediamo». Fiato sprecato, comunque, perché Richard volò fuori dall'aula prima che lei avesse il tempo di finire la frase. Tornò a occuparsi del condizionatore usando il coltello per risistemare le viti al loro posto. Chuck aveva ragione, avrebbe fatto più in fretta con un cacciavite, ma non aveva voglia di andare a chiederne uno. Era rimasta sola nella stanza ed era la prima volta in tutta la giornata che poteva concedersi quel lusso. Aveva assolutamente bisogno di riflettere su cosa fare per rientrare nelle grazie di Jeffrey. Aveva cercato di offrirgli Chuck su un piatto d'argento, ma Jeffrey l'aveva fraintesa. Così Chuck nel fine settimana era stato a un torneo di golf.
Questo però non escludeva che fosse coinvolto in qualche traffico di droga all'interno del college. Scooter aveva detto chiaramente che l'ufficio della sicurezza faceva la sua parte. Chuck era idiota, ma non del tutto. Era impossibile che non si fosse accorto di cosa succedeva sotto il suo naso. Ma conoscendolo, Lena era sicura che non fosse direttamente coinvolto. Era più nel suo stile stare pacificamente seduto sul suo grosso culo e pretendere una quota dei proventi. Si udì un altro rombo di tuono e Lena sobbalzò. La lama del coltello scivolò e le tagliò l'indice della mano sinistra. Mormorando tra i denti un'imprecazione, si sfilò la camicia dai pantaloni per avvolgerne il fondo attorno alla ferita. Ogni mese Chuck le prometteva che le avrebbe ordinato un'uniforme della sua misura, ma non lo faceva mai. Era un altro stratagemma per farla sentire precaria. «Lena.» Non alzò gli occhi. Frequentava Ethan da meno di una settimana, ma aveva riconosciuto la sua voce. Strinse la camicia attorno al dito per cercare di fermare il sangue. La ferita era profonda e la stoffa si impregnò subito. Almeno si era tagliata la mano già infortunata. Se andava all'ospedale, forse se la cavava con due medicazioni al prezzo di una. Come se lei non avesse sentito, Ethan ripeté: «Lena». «Ti ho già detto che con te non voglio parlare.» «Sono preoccupato per te.» «Non mi conosci abbastanza per preoccuparti di me.» Rifiutò la mano che le aveva teso per aiutarla a rimettersi in piedi. «L'hai detto anche tu, non dobbiamo mica sposarci.» Ethan fece una faccia contrita. «Lo so, avrei potuto risparmiarmelo.» Lei abbandonò la mano lungo il fianco e sentì il sangue pulsare nella ferita. «Non me ne frega un cazzo di quello che hai detto.» «Non devi sentirti in imbarazzo per quello che è successo ieri notte.» «Non sono io che grufolo come un maiale quando vengo.» Gli afferrò il braccio e gli tirò su la manica prima che lui riuscisse a fermarla. Ethan fece un balzò indietro e cercò di coprirsi, ma lei era riuscita a vedere il tatuaggio di un filo spinato attorno al polso e qualcosa di simile a un soldato che imbracciava un fucile sull'avambraccio. «Che cos'è quella roba?» «È solo un tatuaggio.» «Il tatuaggio di un soldato» precisò lei. «So tutto Ethan. So che belle co-
se combini.» Rimase assolutamente immobile, come un cervo abbagliato dai fari di una macchina. «Non sono più quella persona.» «Ah, davvero?» Si toccò l'occhio. «E questo chi l'ha fatto?» «È stata solo una reazione, ho agito d'impulso» disse. «Non mi piace essere colpito.» «Oh, e a chi piace?» «Non è come credi, Lena. Io qua dentro sto cercando di darmi una regolata.» «E come va con la libertà vigilata?» Lui cadde nella trappola. «Hai parlato con Diane?» Lena non rispose, ma le sfuggì un sorriso di soddisfazione. Conosceva bene Diane Sanders. Scoprire il resto della storia di Ethan sarebbe stato un gioco da ragazzi. «Che ci facevi nella stanza di Scooter questa mattina?» «Volevo vedere come stava.» «Oh, che amico sei.» «Si era fatto un sacco di metamfetamine. Non sa quando è il momento di fermarsi.» «Certo, non è bravo a controllarsi come sei tu.» Questa volta non abboccò. «Mi devi credere, Lena. Io non c'entro niente.» «Be', sarà meglio che ti trovi un alibi convincente, Ethan, perché Andy Rosen ed Ellen Schaffer erano ebrei e Tessa Linton scopava con un nero...» «Io non sapevo...» «Non ha importanza, amico. Sei finito nel mirino, grazie alle stronzate che hai combinato con Jeffrey. Ti avevo detto di non impicciarti.» «Io ne sono fuori» disse. «Per questo mi sono trasferito qui, per tirarmi fuori.» «Tu sei venuto qui perché gli amici che hai mandato in galera ti cercavano per pareggiare il conto.» «Non ho conti in sospeso con loro» disse con amarezza. «Ti dico che ne sono fuori, Lena. Cosa credi, che non abbia pagato un prezzo?» «E qual era il prezzo da pagare? La tua ragazza? E adesso ronzi attorno a me, una lurida ispanica.» Fece una pausa a effetto. «O forse preferisci parlare della mia sorellina lesbica? O della sua fidanzata, quella zotica della bibliotecaria?» Lo vide irrigidirsi e gli rise in faccia. «Mi chiedo cosa pen-
seranno i tuoi, Ethan White.» «Io mi chiamo Green» disse. «Zeek White è il mio patrigno. Il mio vero padre ci ha abbandonato,» La voce era ferma, convinta. «Io sono Ethan Green, Lena. Ethan Green.» «Chiunque tu sia, levati dai piedi.» «Lena» disse con un tono così disperato che lei non poté fare a meno di guardarlo negli occhi. Da quando era stata violentata evitava d'istinto lo sguardo degli altri e si rese conto solo allora di non avere mai guardato negli occhi Ethan, neppure la sera prima, quando erano stati insieme. I suoi occhi erano di un azzurro sorprendente e lei pensò che, se si fosse avvicinata di più, in quegli occhi avrebbe visto l'oceano. Lui disse: «Non sono più quella persona. Mi devi credere». Lena lo fissò, voleva capire perché ci tenesse tanto. «Lena, c'è qualcosa tra noi.» «No che non c'è» negò, ma senza la convinzione che avrebbe voluto dimostrare. Ethan le portò i capelli dietro l'orecchio, poi con delicatezza le passò il dito sul taglio sotto l'occhio. «Non volevo farti del male» disse. Lei si raschiò la gola. «Però l'hai fatto.» «Ti prometto... ti prometto... che non succederà mai più.» Voleva dirgli che non ne avrebbe mai avuto l'opportunità, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, non riusciva a rompere l'incantesimo. Lui sorrise, forse compiaciuto per l'effetto che sortivano le sue parole. «Sai, non ti ho neppure baciata» disse, seguendo col dito la linea delle sue labbra. Parti di Lena che lei credeva morte reagirono alla carezza e gli occhi luccicarono di lacrime. Doveva fermarlo prima che la situazione le sfuggisse di mano. Doveva trovare il modo di farlo uscire dalla sua vita. «Ti prego» disse lui, lasciando affiorare un sorriso alle labbra. «Ricominciamo tutto daccapo.» Lena disse l'unica cosa con cui era certa di poterlo fermare. «Voglio tornare nella polizia.» Ethan ritrasse la mano come se avesse ricevuto uno sputo in faccia. «È il mio mestiere» disse lei. «Non è vero. Tu sei diversa, Lena, non hai niente a che fare con quella gente.» Chuck ritornò, giocherellando con le chiavi appese alla cintura. Lena era così sollevata di vederlo che gli sorrise. «Cosa c'è?» domandò insospettito.
Ethan disse a Lena: «Ci vediamo più tardi». «Va bene» disse lei purché se ne andasse. Lui non si mosse. «Allora, a dopo.» «D'accordo.» Avrebbe detto qualsiasi cosa pur di mandarlo vìa. «Ci vediamo più tardi. Promesso. Vai.» Finalmente se ne andò e Lena abbassò gli occhi per darsi il tempo di riprendere il controllo. Vide il sangue per terra. Il taglio sul dito colava come un rubinetto difettoso. Chuck incrociò le sue grosse braccia sul petto. «Che cosa è successo?» «Niente che ti riguardi» rispose lei, strisciando con la scarpa il sangue sul pavimento. «Sei in servizio, Adams, non perdere tempo.» «Non preoccuparti, faccio sempre più ore di quelle che devo» disse per provocarlo. Il college non pagava le ore di straordinario, le compensava con altrettante ore libere, che Chuck trascurava regolarmente di mettere in conto, quando toccavano a Lena. Gli mostrò il dito. «Devo tornare in ufficio a medicarlo.» «Fai vedere» disse, quasi che lei volesse imbrogliarlo. «Arriva quasi all'osso.» Scoprì il taglio. Il dolore insistente le dava una sensazione di caldo e di freddo al tempo stesso. «Forse ci vorranno dei punti.» «Ma no» disse lui, come se Lena fosse una bambina. «Torna in ufficio. Ti raggiungo fra qualche minuto.» Lena se ne andò prima che lui cambiasse idea o si rendesse conto che l'armadietto bianco fissato alla parete con la scritta PRONTO SOCCORSO doveva contenere come minimo dei cerotti. Quando Lena era a metà del cortile, la pioggia che incombeva da tutta la settimana cominciò a scrosciare, accompagnata da un vento così forte che le gocce le sferzarono la faccia come scaglie di vetro. Strinse gli occhi, protese le mani in avanti e proseguì a tentoni fino all'ufficio della sicurezza. Dopo parecchi secondi passati a cercare la chiave e a tentare di infilarla nella serratura, la porta si spalancò con violenza. Lena entrò e per riuscire a chiudere dovette spingere con forza puntando i piedi. Premette l'interruttore svariate volte, ma non c'era corrente. Borbottando una bestemmia tirò fuori la torcia e trovò la scatola del pronto soccorso. Come se non bastasse, la scatola non voleva saperne di aprirsi e Lena fu costretta a ricorrere al coltello che teneva al polpaccio per
forzare il coperchio di plastica. Il coltello le scivolò dalle mani bagnate, la scatola cadde a terra e il contenuto si rovesciò sul pavimento. Trovò con la torcia quello che le serviva e lasciò il resto per terra. Poteva pensarci Chuck a rimettere tutto a posto, se ci teneva tanto. Con i soldi extra che accumulava ogni settimana poteva anche pagarsi qualcuno per le pulizie. Lena versò dell'alcol sulla ferita. «Merda» borbottò, quando il sangue misto ad alcol colò sulla scrivania. Cercò di ripulirla con la manica, ma riuscì solo a peggiorare la situazione. «Cazzo.» Nel suo armadietto teneva un poncho impermeabile che non aveva mai usato. Il colletto aveva l'automatico solo su un lato, un difetto di fabbricazione che Chuck aveva considerato trascurabile quando lei glielo aveva fatto notare. Naturalmente il poncho di Chuck era perfetto e Lena decise di penderlo in prestito per tornare a casa. L'armadietto di Chuck si aprì con un paio di colpi ben assestati sulla serratura. Vide subito l'impermeabile sul ripiano in alto, ancora avvolto nella plastica, ma l'occasione era troppo propizia per rinunciare a un'ispezione più completa. A parte una rivista di pesca subacquea con abbondanza di modelle mezze nude che sfoggiavano le ultime novità in materia di mute scosciate e una scatola ancora sigillata di barrette energetiche, non c'era nulla d'interessante. Prese il poncho ed era sul punto di richiudere l'armadietto, quando la porta si spalancò ed entrò Chuck. «Che cazzo stai facendo?» domandò. Attraversò la stanza a grandi passi e chiuse lo sportello con un colpo così violento che si riaprì. «Volevo prendere in prestito il tuo poncho.» «Non hai il tuo?» Glielo strappò di mano e lo buttò sulla scrivania. «Lo sai che il mio ha l'automatico che non funziona.» «Sei tu che hai qualcosa che non funziona, Adams.» Le stava troppo vicino e Lena ebbe un moto di insofferenza. Fece un passo indietro e in quell'istante tornò la corrente. Il neon tremolò proiettando luci e ombre su di loro. Anche sotto l'illuminazione ancora incerta, Lena vide che Chuck era pronto a litigare. Andò al suo armadietto. «Prenderò il mio.» Chuck si appoggiò alla scrivania. «Fletcher si è dato malato. Mi servi per il turno di notte.» «Non se ne parla neppure. Io dovevo smontare due ore fa» protestò.
«Così è la vita, Adams.» Lena aprì l'armadietto e fissò il contenuto senza riconoscere nulla. «Che cavolo stai facendo?» inveì Chuck richiudendolo con un colpo. Lena ritrasse la mano appena in tempo per non farsela schiacciare. Aveva aperto per errore l'armadietto di Fletcher. Sul ripiano superiore aveva visto due pacchetti di plastica sul cui contenuto non si potevano avere dubbi. I due erano talmente sicuri di non essere scoperti, che lasciavano in giro la droga come se niente fosse. «Adams?» ripeté Chuck. «Ti ho fatto una domanda.» «Niente» rispose. Adesso cominciava a capire perché Fletcher non denunciava mai incidenti quando faceva il turno di notte. Era troppo occupato a vendere droga ai ragazzi. «Allora siamo d'accordo» disse Chuck, convinto che lei si fosse rassegnata. «Ci vediamo domani mattina. Se hai bisogno telefona.» «Niente affatto» disse prendendosi il poncho di Chuck. «Ti ho detto che io il turno non lo faccio. Dovrai lavorare tu, per una volta.» «Che diavolo vuoi dire?» Lena tirò fuori dalla busta l'impermeabile e se lo mise addosso. Le stava larghissimo, ma non le importava. Il temporale continuava a infuriare e, vista la fortuna che aveva, non sarebbe cessato prima che lei mettesse piede in casa. Doveva trovare un modo per bloccare la porta dell'appartamento. Jeffrey aveva forzato la serratura per entrare e non era detto che il negozio di ferramenta fosse ancora aperto. Chuck disse: «Dove credi di andare, Adams?». «Io questa sera non lavoro. Devo andare a casa.» «La bottiglia chiama, eh?» la provocò con un sorriso maligno sulle labbra. Si mise di fronte alla porta per bloccarle il passaggio. «Togliti di mezzo.» «Posso fermarmi un po' con te, se vuoi.» Lo disse con un'espressione che mise Lena in allerta. «Ho una bottiglia nel cassetto» continuò. «Possiamo metterci comodi e familiarizzare un po'.» «Stai scherzando.» «Sai che potresti essere carina, se ti truccassi un po' e facessi qualcosa per quei capelli?» Allungò la mano per accarezzarla, ma lei girò la testa dall'altra parte. «Tieni le mani a posto» lo minacciò. «Allora non è vero, che ci tieni a conservare il lavoro» disse lui con un
sogghigno malevolo. Lena si morse il labbro, angosciata dalla minaccia. «Ho letto cosa ti ha fatto quel tipo» disse. «Sul giornale.» Sentì un tuffo al cuore. «Non sei l'unico.» «Già, ma io l'ho letto più di una volta.» «Ti sarai stancato le labbra.» «Vediamo se si stancano anche le tue» disse, e prima che lei avesse il tempo di capire, l'afferrò alla nuca con la sua grossa mano e la trascinò giù, contro l'inguine. Lena serrò il pugno e lo colpì tra le gambe con tutta la forza che aveva. Chuck si piegò in due e lei si precipitò fuori. La porta della stanza di Lena si aprì prima che lei la raggiungesse. «Dove sei stata?» le domandò Ethan. Le battevano i denti. Era così bagnata che i vestiti frusciavano a ogni passo. Non le importava come lui fosse entrato nell'appartamento o cosa ci facesse lì. Andò sparata in cucina per servirsi da bere. «Cos'è successo?» domandò Ethan. «Lena, cos'è successo?» Le tremavano troppo le mani per riuscire a versarsi da bere, così lui le prese la bottiglia e riempì un bicchierino fino all'orlo. Glielo portò alla bocca come aveva fatto lei la sera prima. Lena lo bevve in un sorso. «Va tutto bene?» le chiese con dolcezza. Lei scrollò la testa e cercò di versarsi ancora da bere, benché avesse lo stomaco contratto. Chuck l'aveva toccata. Le aveva messo le mani addosso. «Lena?» la chiamò Ethan, prendendole il bicchiere. Versò un'altra dose, questa volta meno generosa, e glielo passò. Lena bevve, e l'alcol le serrò la gola. Posò le mani sul bordo del lavello cercando di controllare le emozioni. «Piccola» disse Ethan. «Parlami.» Le scostò i capelli dal viso e Lena provò la stessa repulsione che le aveva ispirato Chuck. «No» disse, e lo spinse via. Lo sforzo di parlare la fece tossire, si sentì soffocare come se la stessero strangolando. «Calmati» disse Ethan, strofinandole la schiena col palmo della mano. «Quante volte ti devo dire di non toccarmi?» La voce le uscì a fatica e come finì la frase si ritrasse di scatto. «Si può sapere che ti prende?»
«Perché sei qui?» domandò, sentendosi un'altra volta violentata. «Cosa ti fa pensare che hai il diritto di rimanere?» «Ti volevo parlare.» «Di che cosa? Della ragazza che hai picchiato a morte?» Lui rimase assolutamente immobile, ma Lena vide i muscoli tendersi. Voleva farlo sentire come Chuck aveva fatto sentire lei. In trappola. Senza via di scampo. «Ho già spiegato che...» «Sei rimasto sul fuoristrada?» domandò, girandogli intorno. Ethan rimase come una statua al centro della stanza. «Era un buon punto di osservazione? Li hai visti mentre se la scopavano, la picchiavano a sangue?» «Non fare così» la avvisò, con una voce gelida come l'acciaio. «Altrimenti?» domandò lei, sforzandosi di ridere. «Mi sistemerai allo stesso modo?» «Io non ho fatto niente.» I muscoli erano ancora in tensione, la mascella si era serrata, sembrava che avesse bisogno di tutto il suo autocontrollo per rimanere calmo. «Non hai stuprato quella ragazza? Sei rimasto al volante, ignaro, mentre i tuoi amichetti se la spassavano?» Lo spinse per le spalle, ma era come spingere una montagna. Non si mosse di un centimetro. «Ti sei eccitato a guardarli?» domandò. «Eh, Ethan? Ti eccitava vederla soffrire, vedere che non poteva fare altro che subire?» «No.» «E com'era, stare seduto là dentro, sapendo che lei sarebbe morta? Ti piaceva, Ethan?» Lo spinse di nuovo. «Sei sceso e ti sei unito a loro? Le hai tenuto ferme le braccia mentre gli altri se la scopavano? Te la sei scopata anche tu? E sei stato tu a ferirla? Il sangue ti ha eccitato?» «Ti avverto, Lena, smettila» la mise in guardia. «Vediamo cosa c'è qua sotto» disse afferrandogli la maglietta. Lui l'anticipò e se la strappò. Lena rimase sbalordita alla vista dei grandi tatuaggi che gli ricoprivano il torso. «Era questo che volevi? È questo che volevi vedere, troia?» ringhiò. Lena gli tirò uno schiaffo e visto che non reagiva gliene tirò un altro e poi un altro ancora. Continuò a schiaffeggiarlo fino a che lui non la scaraventò contro il muro e caddero insieme sul pavimento. Si azzuffarono, ma lui era più forte, le montò sopra e le tirò giù i pantaloni affondandole le unghie nella pancia. Lena gridò, ma lui le chiuse la
bocca con la sua e le infilò la lingua fino in gola, tanto in profondità che lei ebbe un conato di vomito. Cercò di colpirlo all'inguine col ginocchio, ma lui fu più rapido e le divaricò le gambe con le sue. Con una mano le tenne le braccia immobilizzate sopra la testa, inchiodandole i polsi al pavimento. Era in trappola. «È questo che vuoi?» gridò, con la saliva che schiumava dalla bocca. Con l'altra mano si aprì la cerniera. Lena sentì la testa che le girava, fu attanagliata dalla nausea, tutto intorno a lei si tinse di rosso. Annaspò, si tese quando lui la penetrò, strinse i muscoli per opporre resistenza. D'un tratto Ethan si fermò, si trattenne dentro di lei, aprì la bocca sgomento. Lei sentiva il suo fiato sulla faccia e il dolore ai polsi, nel punto in cui lui si appoggiava con tutto il peso, ma era come indifferente. Sentiva tutto e non sentiva nulla. Poi lo guardò negli occhi - nel profondo degli occhi - e vide l'oceano. Mosse lentamente i fianchi per fargli sentire che era bagnata, che il suo corpo lo voleva. Lui rabbrividì nello sforzo di rimanere fermo. «Lena...» «Ssh...» lo zittì. «Lena...» Deglutì, il pomo d'Adamo scivolò su e giù e lei vi posò le labbra, lo baciò, lo succhiò. Salì fino alla bocca, gli diede un bacio, lo penetrò con la lingua. Ethan provò a lasciarle andare i polsi, ma lei gli afferrò le mani perché continuasse a tenerla ferma. Lui la implorò inutilmente. «Ti prego... non così...» Lei chiuse gli occhi, inarcò il corpo contro il suo, lo fece penetrare più a fondo. MERCOLEDÌ 12 Kevin Blake camminava su e giù per l'ufficio e ogni due minuti guardava l'orologio. «È orribile» disse. «Orribile.» Jeffrey si spostò sulla sedia cercando di dimostrare che gli prestava attenzione. Mezz'ora prima aveva comunicato a Blake che Andy Rosen ed Ellen Schaffer erano stati assassinati e da quel momento il preside non a-
veva più chiuso la bocca. Non aveva fatto una sola domanda sui due studenti e sull'indagine. La sua unica preoccupazione erano le possibili conseguenze sul college e, per estensione, su di lui. Agitò le mani con studiata teatralità. «Non c'è bisogno che le dica, Jeffrey, che uno scandalo di questa portata può significare la fine della nostra scuola.» Jeffrey era convinto che lo scandalo avrebbe messo a repentaglio non tanto l'esistenza del Grant Tech, ma l'incarico di Kevin Blake. Per quanto abile a stringere mani e chiedere soldi, Blake era troppo superficiale per gestire un'istituzione come il Grant Tech. I tornei di golf e le raccolte annuali di fondi potevano andare, ma ci voleva ben altra grinta per trovare nuovi finanziamenti per la ricerca. Jeffrey era pronto a scommettere che entro un anno Blake sarebbe stato liquidato e sostituito da una donna matura ed energica, in grado di portare la scuola nel ventunesimo secolo. «Che fine ha fatto quell'idiota?» domandò Blake alludendo a Chuck Gaines. Chuck era già in ritardo di dieci minuti per la riunione delle sette. «Ho degli impegni importanti che mi aspettano.» Jeffrey non espresse opinioni in proposito, ma avrebbe volentieri passato quella mezz'ora a letto con Sara, invece di perdere tempo nell'ufficio di Blake per una riunione che si prospettava noiosa e sicuramente improduttiva. Aveva un sacco di cose da fare, prima fra tutte interrogare Brian Keller. «Posso andare a cercarlo» si offrì. «No» disse Blake, prendendo dalla scrivania una palla da golf di vetro. La lanciò in aria e l'agguantò. Jeffrey emise un flebile fischio di ammirazione, benché non avesse mai capito il golf né avesse mai avuto la pazienza di impararlo. «Ho partecipato al torneo, questo fine settimana» disse Blake. «Già» lo assecondò Jeffrey. «L'ho vista sul giornale.» Doveva avere azzeccato la risposta perché Blake si illuminò in viso. «Ho fatto due lanci eccezionali. Le ho suonate ad Albert.» «Fantastico» disse Jeffrey, pensando che forse non era saggio battere il presidente della banca. Naturalmente Blake aveva il coltello dalla parte del manico nei confronti di Albert Gaines. Poteva licenziare Chuck in qualsiasi momento e appioppare a papà la grana di trovargli un altro lavoro. «Sono sicuro che Jill Rosen sarà contenta per la notizia.» «Perché?» domandò Jeffrey, cogliendo una punta di disprezzo nel modo in cui Kevin aveva pronunciato il nome della dottoressa. «Non ha visto il titolo sul giornale? La psicologa del college fa cilecca
con il figlio. Davvero di cattivo gusto. Certo che...» «Che cosa?» «Oh, niente.» Prese una mazza da golf dalla sacca appoggiata nell'angolo. «L'altro giorno Brian Keller mi ha fatto capire che si vuole dimettere.» «Davvero?» domandò Jeffrey. Blake sospirò e rigirò la mazza tra le mani. «Ha succhiato dalla tetta dell'università per vent'anni e, adesso che finalmente potrebbe portare qualche soldo alla scuola, parla di dare le dimissioni.» «Ma le sue ricerche non restano di proprietà della scuola?» Blake fece un smorfia di insofferenza. «Gli basta un buon avvocato per tenersi tutto e sono sicuro che qualsiasi casa farmaceutica sarà felice di procurarglielo.» «Che cosa ha scoperto?» «Un antidepressivo.» Jeffrey pensò alla scorta di farmaci di William Dickson. «Ce ne sono già a tonnellate sul mercato.» «Ma questo è top secret» disse abbassando la voce, anche se erano soli nell'ufficio. «Brian ha tenuto la bocca cucita.» Rise. «Forse per garantirsi un fetta più grossa di utili, il bastardo.» Jeffrey rimase zitto per incoraggiarlo a proseguire. «È un cocktail farmacologico a base di erbe. Qui sta la chiave per commercializzarlo: al consumatore darà l'idea di un preparato non nocivo. Brian sostiene che non ha effetti collaterali, ma è una stronzata. Perfino l'aspirina ha effetti collaterali.» «Suo figlio non lo prendeva?» Blake fece una faccia allarmata. «Non aveva cerotti addosso, dico bene? Come quelli che si usano per smettere di fumare? È così che si somministra, attraverso la pelle.» «No, non aveva cerotti» ammise Jeffrey. «Pfui.» Si passò il dorso della mano sulla fronte per sottolineare lo scampato pericolo. «Non è ancora pronto per la sperimentazione sugli esseri umani, ma un paio di giorni fa Brian è andato a Washington per mostrare i suoi dati ai pezzi grossi. Erano pronti a staccare un assegno sui due piedi.» Abbassò la voce. «A dire la verità, un paio d'anni fa ho preso anch'io del Prozac. Non ho notato nessuna differenza.» «Davvero?» Era la sua risposta standard quando non voleva dare una risposta. Blake si appoggiò alla mazza come se si trovasse sul campo da golf e
non nel suo ufficio. «Però non mi ha detto che Jill andrà via con lui. Mi domando se abbiano qualche problema.» «Che problemi dovrebbero avere?» Blake roteò la mazza con un gesto ampio e guardò fuori dalla finestra come se seguisse il percorso della pallina. «Kevin?» «Oh, solo che lei si prende un sacco di congedi.» Tornò a guardare Jeffrey e si appoggiò alla mazza. «Da quando è arrivata qui non è passato un solo anno senza che si sia presa tutti i giorni di malattia e di ferie disponibili. Abbiamo dovuto farle delle trattenute più di una volta, perché il numero delle ore superava la soglia consentita.» Jeffrey non faticò a immaginare come mai Jill Rosen restasse spesso a casa, ma si guardò bene dal dirlo a Kevin Blake. Blake guardò fuori dalla finestra, preparandosi a un'altra battuta immaginaria. «O è ipocondriaca, o è allergica al lavoro.» Jeffrey si strinse nelle spalle. «Ha preso la laurea solo dieci o quindici anni fa» disse Blake. «È una di quelle che si decidono tardi. Ce n'è un sacco di questi tempi. I figli crescono e mammina si annoia, così comincia a frequentare qualche corso al college locale e quando meno te l'aspetti te la ritrovi a lavorare qui.» Strizzò l'occhio a Jeffrey. «Non che a noi dispiaccia qualche entrata in più. L'educazione permanente è stata per anni la spina dorsale dei nostri corsi serali.» «Non sapevo che il campus offrisse anche questa opportunità.» «Ha preso il master in terapia familiare» continuò Blake. «Ma ha fatto il dottorato in letteratura inglese.» «E come mai non ha scelto l'insegnamento?» «Ne abbiamo fin troppi, di insegnanti di inglese. Basta che ti volti e te ne trovi davanti sei in cerca di un incarico. Vanno a dieci centesimi la dozzina.» «Come è stata assunta al college?» «A dire la verità, avevamo bisogno di una maggiore presenza femminile e, quando si è liberato un posto di consulente, lei ha fatto l'esame di stato per diventare terapista. È abbastanza brava.» Si accigliò e aggiunse: «Quando si ricorda di venire al lavoro». «E Keller?» «Accolto a braccia aperte.» Allargò le braccia per dare l'idea. «Lui veniva dal settore privato, lo sa anche lei.»
«No, non lo sapevo.» Di solito i professori abbandonavano l'università per passare al settore privato, dove li aspettavano più soldi e una posizione più prestigiosa. Non aveva mai sentito di un professore che avesse fatto viceversa e lo disse a Kevin Blake. «Sì, noi abbiamo perso metà del corpo insegnante negli anni Ottanta. Si rifugiavano tutti nelle grosse società.» Eseguì un'altra battuta e grugnì, come se avesse mancato la pallina. Tornò ad appoggiarsi alla mazza e guardò Jeffrey. «Naturalmente dopo qualche anno una buona metà è tornata indietro strisciando, perché aveva perso il lavoro.» «E Keller in che società lavorava?» «Sa che non me lo ricordo?» Impugnò la mazza. «Mi ricordo soltanto che qualche tempo dopo che se n'era andato, è stata assorbita dalla AgriBrite.» «La Agri-Brite dei prodotti agricoli?» «Esatto.» Simulò un'altra battuta. «Brian poteva fare una fortuna. Oh...» Si avvicinò al tavolo e prese la stilografica d'oro. «Questo mi fa venire in mente che li devo chiamare per vedere se sono interessati a una visita del college.» Schiacciò un tasto sul telefono. «Candy?» disse rivolto alla segretaria. «Mi potresti procurare il numero della Agri-Brite?» Sorrise a Jeffrey. «Mi deve scusare. Che cosa stava dicendo?» Jeffrey si alzò pensando che aveva già perso abbastanza tempo. «Vado a cercare Chuck.» «D'accordo» disse Blake e prima che potesse cambiare idea Jeffrey lasciò l'ufficio. Nella stanza accanto trovò Candy Wayne che quando lo vide passare interruppe il lavoro al computer. «Se ne va di già, capo? Deve essere stata la riunione più corta che il preside ha tenuto da quando è arrivato qui.» «È un nuovo profumo?» domandò Jeffrey con un sorriso. «Odora come un intero roseto.» Lei rise e buttò indietro i capelli. Un gesto che poteva essere seducente, se la signora non fosse stata vicina agli ottanta. «Vecchia volpe» disse con un sorriso deliziato che fece risaltare tutte le sue rughe. Probabilmente Blake era seccato di non poter assumere una ventenne procace a cui dettare le sue lettere, ma Candy lavorava al college da tempo immemorabile. Era più facile che il consiglio di facoltà si sbarazzasse di Blake piuttosto che lui riuscisse a liberarsi di Candy. Alla centrale Jeffrey si trovava in una situazione simile con Maria Simms, ma lui era più che soddisfatto di avere vicino una donna piena di esperienza.
Candy domandò: «Cosa posso fare per lei, tesoro?». Jeffrey si appoggiò alla scrivania, attento a non urtare le trenta e più fotografie incorniciate dei nipotini. «Perché pensa che io abbia bisogno di qualcosa?» «Perché se mi fa un complimento, significa che vuole qualcosa» rispose. Poi aggiunse imbronciata: «Ma non è mai la cosa giusta». Jeffrey le sorrise di nuovo. «Potrei avere il numero della Agri-Brite?» Lei tornò al computer con fare professionale. «Che settore?» «Di chi dovrei chiedere, per avere informazioni su qualcuno che lavorava in una delle loro società una ventina di anni fa?» «Quale società?» «Questo non lo so. Ci lavorava Brian Keller.» «Perché non me l'ha detto prima?» disse con un sorriso sornione. «Aspetti un attimo.» Si alzò dalla scrivania, sorprendentemente agile nella minigonna di velluto con top in lycra. Attraversò la stanza su tacchi che avrebbero spezzato le caviglie a una ventenne e andò ad aprire un cassetto buttando indietro i capelli platinati. Aveva una linea perfetta, ma una striscia di pelle ondeggiò sotto il braccio mentre scorreva le cartelle dell'archivio. «Eccolo qui» disse, estraendone una. «Non ce l'ha sul computer?» domandò Jeffrey avvicinandosi. «Non quello che cerca lei» rispose. Gli passò un foglio. Lui lesse la domanda di assunzione di Keller, con le annotazioni di Candy scritte a margine in bella calligrafia. La società assorbita dalla AgriBrite era la Jericho Farmaceuticals e Candy aveva contattato Monica Patrick, il capo del personale di allora, per verificare la posizione di Keller e appurare che non si fosse licenziato perché era caduto in disgrazia. «Lavorava per una società farmaceutica?» domandò Jeffrey. «Era aiuto dell'aiuto direttore della ricerca. Ha rinunciato a un aumento di stipendio per venire qui.» «Avrebbe fatto più soldi se fosse rimasto là.» «Chi può dirlo? Le grosse concentrazioni degli anni Ottanta hanno tagliato le gambe a tutti.» Scrollò le spalle. «Forse ha fatto bene ad andarsene proprio allora. Niente premia la mediocrità come il mondo dell'educazione.» «Lo definirebbe un mediocre?» «Non mi sembra che abbia fatto faville.» Jeffrey lesse ad alta voce i commenti scritti a macchina da Keller. «È
mio desiderio ritornare alle basi della ricerca scientifica. Sono stufo delle maldicenze dell'ambiente della grande industria.» «E così è venuto all'università.» Candy scoppiò a ridere. «Ah, l'ignoranza della gioventù.» «Come faccio a contattare questa Monica Patrick?» Candy si portò un dito alle labbra e ci pensò su. «Non credo che lavori ancora là. Quando ho parlato con lei mi è sembrata vecchia come le montagne.» Lanciò a Jeffrey un'occhiata che era un invito a non fare commenti. «Scommetto che con due o tre telefonate riesco a trovarle il numero giusto.» «Oh, non voglio che si disturbi per me.» «Sciocchezze. Lei non sa come parlare a quei palloni gonfiati. Si troverebbe come un mutilato in una partita di campionato.» «Forse ha ragione» ammise Jeffrey. «Apprezzo la sua disponibilità, ma...» Candy sbirciò oltre le spalle di Jeffrey per sincerarsi che la porta di Blake fosse ancora chiusa. «Detto tra noi, quell'uomo non mi è mai piaciuto.» «Come mai?» «Ha qualcosa che non mi convince» disse. «È solo una sensazione, ma col tempo ho imparato che la prima impressione di solito è quella giusta, e la prima impressione che ho avuto di Brian Keller è stata quella di una persona viscida, di cui è meglio non fidarsi.» «E sua moglie?» domandò Jeffrey, pensando che avrebbe dovuto parlare con Candy il giorno prima. «Be'» cominciò, tamburellando le labbra col dito fresco di manicure. «Non saprei. Sono insieme da tanto tempo. Forse lui ha qualcosa che io non riesco a vedere.» «Forse» disse Jeffrey. «Ma credo che mi affiderò al suo istinto. Lo sanno tutti chi è la persona più in gamba qui dentro.» «Lei è un demonio» disse Candy lusingata. «Se avessi quarant'anni di meno...» «Non mi degnerebbe di uno sguardo» la interruppe baciandole la guancia. «Se trova quel numero, me lo faccia sapere.» Candy si schiarì la voce producendo un suono molto simile alle fusa. «Non mancherò, capo. Non mancherò.» Jeffrey la lasciò prima che dicesse qualcosa di imbarazzante per entrambi e prese le scale per non aspettare l'ascensore. L'ufficio della sicurezza non era lontano dall'amministrazione e decise di recarvisi a piedi. Da quasi
una settimana non andava a correre e si sentiva i muscoli indolenziti. Il temporale della notte aveva fatto qualche danno, c'erano detriti disseminati su tutto il cortile centrale. Gli addetti alla manutenzione erano un po' dappertutto, raccoglievano i rifiuti e ripulivano con le pompe a pressione i marciapiedi, usando acqua clorata che a Jeffrey faceva bruciare il naso. Avevano cominciato dalla zona attorno agli edifici principali, approfittando del fatto che tutti erano già al lavoro e non potevano lamentarsi per la baraonda. Jeffrey tirò fuori il taccuino e rilesse gli appunti per decidere le priorità della giornata. A quel punto l'unica cosa che poteva fare era parlare con i genitori di Dickson e raccogliere altre informazioni nei dormitori. Prima di tornare da Brian Keller voleva parlare anche con Monica Patrick, sempre che fosse ancora viva. Nessuno abbandona un lavoro ben pagato nel settore privato per andare a insegnare con uno stipendio più basso. Forse Keller aveva falsificato i dati o preso troppe scorciatoie. Doveva chiedere a Jill Rosen come mai suo marito aveva abbandonato quel lavoro. Jill aveva detto che non se la sentiva di ricominciare tutto da capo, probabilmente perché lo aveva già fatto una volta e sapeva cosa significava. Anche se non serviva più ai fini dell'indagine, Jeffrey voleva parlarle. Forse poteva aiutarla a liberarsi del marito. Infilò in tasca il taccuino e aprì la porta dell'ufficio della sicurezza. I cardini cigolarono rumorosamente, ma quasi non se ne accorse. «Cristo santo» mormorò. Si guardò alle spalle per vedere se qualcuno lo stava osservando. Chuck Gaines giaceva riverso sul pavimento, con le suole delle scarpe verso la porta. Il collo era aperto come una seconda bocca e quello che rimaneva dell'esofago ciondolava fuori come un'altra lingua. C'era sangue dappertutto: sulle pareti, sul pavimento, sulla scrivania. Jeffrey alzò gli occhi, ma il soffitto era pulito. Evidentemente era stato accoltellato mentre si trovava chinato o seduto alla scrivania. La sedia si era ribaltata. Jeffrey si inginocchiò in modo da vedere sotto la scrivania senza manipolare la scena del crimine. Sotto la sedia luccicava un lungo coltello da caccia. «Cristo santo» ripeté. Conosceva quel coltello. Apparteneva a Lena. Frank era furibondo e Jeffrey lo poteva capire. «Non può essere stata lei» disse. Jeffrey tamburellò con le dita sul volante. Erano fermi davanti al pensio-
nato di Lena, ancora indecisi su come procedere. «Hai visto il coltello, Frank.» Frank alzò le spalle: «E allora?». «Chuck aveva la gola squarciata.» Frank sospirò facendo sibilare l'aria tra i denti. «Lena non è un'assassina.» «Però a questo punto si stabilisce un legame con quello che è accaduto a Tessa Linton.» «E quale? La ragazza era con noi quando è successo. Ha rincorso quel tipo nel bosco.» «E l'ha lasciato scappare.» «Matt non ha avuto l'impressione che lei rallentasse di proposito.» «Lo ha fatto quando si è slogata la caviglia.» Frank scosse la testa. «Quel White... di quello potrei sospettare.» «Forse Lena l'ha riconosciuto nel bosco e ha finto di incespicare per dargli il tempo di scappare.» Frank continuava a scuotere la testa. «Non mi sono arruolato per ritrovarmi in questa situazione.» Jeffrey avrebbe voluto dirgli che neppure lui era entusiasta di quello che stavano per fare, invece osservò: «L'hai visto anche tu il coltello che Lena portava alla caviglia. Vorresti sostenere che non è uguale a quello che abbiamo trovato sotto la sedia?». «Potrebbe non essere lo stesso.» Jeffrey gli ricordò le prove di laboratorio che li avevano condotti lì. «Ci sono le sue impronte sul coltello, Frank. O lei era lì quando è stato sgozzato e ha toccato il coltello, oppure lo aveva in mano quando è successo. Non ci sono altre spiegazioni.» Frank fissava il pensionato senza battere ciglio. Jeffrey capì che stava cercando di trovare qualcosa che scagionasse Lena. Lui stesso aveva reagito a quel modo un'ora prima, quando il computer aveva dato esito positivo sul riscontro di tre impronte. Non aveva voluto rassegnarsi e aveva chiesto al tecnico di eseguire il confronto punto per punto. Alzò gli occhi e vide un professore uscire dall'edificio. «Non si è mossa per tutta la mattina?» Frank fece segno di no con la testa. «Dammi una spiegazione plausibile che giustifichi la presenza delle sue impronte insanguinate su quel coltello e ce ne andiamo via subito.» Frank storse la bocca in un'espressione risentita. Era seduto in macchina
da più di un'ora e probabilmente non aveva fatto altro che cercare un particolare capace di offrire a Lena una scappatoia. «Non è giusto» disse, ma senza aggiungere altro aprì la portiera e smontò dalla macchina. Il pensionato dei docenti era quasi vuoto, buona parte di loro era già a lezione. Come in quasi tutti i college, le attività si diradavano verso la fine della settimana e, con le vacanze di Pasqua in arrivo, molti studenti erano già tornati a casa. Jeffrey e Frank percorsero il corridoio che conduceva all'appartamento di Lena senza incontrare nessuno. Si fermarono davanti alla porta e Jeffrey vide che la serratura mostrava ancora i segni del calcio con cui l'avevano forzata. Se il giorno prima fosse riuscito a trovare un pretesto per arrestarla, o si fosse convinto che era colpevole, forse Chuck Gaines si sarebbe salvato. Frank si fermò sul lato della porta con la mano sul calcio della pistola. Jeffrey bussò due volte e chiamò: «Lena?». Passò qualche secondo, accostò l'orecchio per sentire se nella stanza c'era qualcuno. Provò ancora: «Lena?». Poi aprì. «Merda» disse Frank estraendo la pistola. Jeffrey fece lo stesso d'impulso, prima di rendersi conto che Lena si stava solo infilando i pantaloni e non cercava un'arma. «Che diavolo ti è successo?» domandò, sapendo che Frank si stava chiedendo la stessa cosa. Lena si raschiò la gola, il collo era segnato da lividi scuri. Quando parlò la voce uscì arrocchita. «Sono caduta.» Indossava soltanto mutandine e reggiseno, il tessuto bianco spiccava sulla pelle olivastra. In un soprassalto di pudore si coprì con le mani. Sulle braccia c'erano dei lividi, come se qualcuno l'avesse stretta con troppa forza. Sulla spalla spiccava il segno di un morso. «Capo» disse Frank. Aveva ammanettato Ethan White e lo teneva per il braccio. Il ragazzo era vestito, gli mancavano solo le calze e le scarpe. La faccia era tumefatta, il labbro era spaccato al centro. Jeffrey raccolse una camicia da terra con l'intenzione di passarla a Lena perché si coprisse. Si fermò quando si rese conto che stava toccando una prova. Su un lembo c'erano macchie scure di sangue. «Gesù» mormorò, cercando di attirare lo sguardo della ragazza. «Che cosa hai fatto?»
13 Sara si fermò di fronte all'Heartsdale Medical Center e parcheggiò accanto all'auto di Jeffrey. Non le aveva fornito informazioni dettagliate, le aveva solo detto che aveva bisogno di lei all'ospedale per un esame su due sospetti. Al telefono non aveva fatto nomi, ma Sara lo conosceva abbastanza bene per sapere che alludeva a Ethan White e Lena. Come al solito, il pronto soccorso era vuoto. Si guardò in giro in cerca dell'infermiera di turno, ma doveva essersi allontanata per la pausa. In fondo al corridoio vide Jeffrey che stava parlando con un uomo più anziano, di media altezza e corporatura massiccia. Dietro di loro c'era Brad Stephens, fermo di fronte alla porta chiusa di un ambulatorio, con la mano posata sul calcio della pistola. Avvicinandosi, Sara sentì l'uomo in compagnia di Jeffrey, che parlava a voce alta e con prepotenza. «Mia moglie ha già dovuto sopportare abbastanza.» «Questo lo so» disse Jeffrey. «E mi fa piacere vedere che si preoccupa per la sua salute.» «Certo che mi preoccupo» ribatté l'uomo. «Cosa vuole insinuare?» Jeffrey vide Sara e le fece segno di avvicinarsi. «Questa è Sara Linton» disse all'uomo. «Si occuperà dell'esame clinico.» «Dottor Brian Keller» disse l'uomo, guardando appena Sara. Teneva in mano una borsetta da donna, e lei immaginò che fosse della moglie. «Il dottor Keller è il marito di Jill Rosen» spiegò Jeffrey. «Lena mi ha chiesto di farla venire qui.» Sara cercò di mascherare la sua sorpresa. Jeffrey disse a Keller: «Se mi vuole scusare» e condusse Sara qualche metro più in là, verso un altro ambulatorio. «Che succede?» domandò Sara. «Ho detto alla mamma che sarei arrivata ad Atlanta nel pomeriggio.» Jeffrey chiuse la porta e poi disse: «Hanno tagliato la gola a Chuck». «Chuck Gaines?» domandò lei, come se potesse trattarsi di un altro Chuck. «Abbiamo trovato le impronte di Lena sull'arma del delitto.» Sara ebbe un attimo di smarrimento, faticava a capire quello che Jeffrey le stava dicendo. Lui disse: «Non mi hai parlato dei referti dello stupro». Per un po' Sara non capì a che cosa si riferisse.
«Quando ti ho detto che volevamo rilevare il DNA dalle mutandine, non ti sono venuti in mente i referti di Lena, che certificavano lo stupro dell'anno scorso?» Lei si sforzò di trovare la risposta adatta, ma capì subito di non avere alternative al di là di un sì o un no, quindi rispose: «Sì». La faccia di Jeffrey diventò il ritratto della collera. «Perché non me lo hai detto, Sara?» «Perché non era giusto» disse. «Non era giusto usarli contro di lei.» «Vallo a dire ad Albert Gaines. Vallo a dire alla mamma di Chuck.» Lei non aprì bocca, non riusciva ancora ad accettare l'idea che Lena fosse in qualche modo implicata nei delitti. «Prima occupati di White» disse Jeffrey con un tono tagliente. «Sangue, saliva, peli. Esame completo del corpo. Come per un'autopsia.» «Che cosa cerchiamo?» «Qualsiasi cosa che lo leghi alla scena del delitto» rispose Jeffrey. «Abbiamo già le impronte delle suole di Lena nel sangue.» Scrollò la testa. «C'era sangue dappertutto.» Aprì la porta e guardò lungo il corridoio. Non se ne andò e Sara capì che aveva altro da dirle. «Cosa c'è ancora?» Il tono rabbioso si smussò. «Lei è conciata male.» «Conciata quanto?» Jeffrey tornò a guardare il corridoio, poi disse. «Non so se ci sia stata una collutazione o cos'altro. Forse Chuck l'ha aggredita e lei si è difesa. Forse White ha dato i numeri.» «Lo dice lei?» «Lei non dice un bel niente. Nessuno dei due parla.» Fece una pausa. «Be', White sostiene che sono rimasti nell'appartamento tutta la notte, ma alcuni studenti hanno detto che ha lasciato il laboratorio dopo Lena.» Indicò il corridoio. «Brian Keller è stato l'ultimo a vederla.» «Lena ha chiesto di far venire sua moglie?» «Sì. Ho messo Frank nella stanza attigua, nel caso dica qualcosa.» «Jeffrey...» «Risparmiami la lezione sul rapporto medico paziente, Sara. Si stanno accatastando un po' troppi cadaveri.» Sara capì che fare obiezioni sarebbe stata solo una perdita di tempo. «In che stato è Lena?» «Può aspettare» rispose, per farle capire di evitare altre domande.
«Hai un mandato almeno?» «Adesso ti metti a fare l'avvocato?» Non le diede il tempo di rispondere. «L'ha firmato questa mattina il giudice Bennett.» E dato che lei non rispondeva, aggiunse: «Cosa c'è? Lo vuoi vedere? Adesso pensi anche che non ti dica la verità?». «Io non ho chiesto...» «Tieni!» Tirò fuori il mandato dalla tasca e lo buttò sul bancone. «Lo vedi, Sara? Vedi che ti dico la verità? Cerco solo di facilitarti il lavoro, per evitare altre vittime.» Lei fissò il documento, riconobbe la grafia regolare di Billie Bennett. «Sbrighiamoci» disse. Jeffrey fece un passo indietro per lasciarla passare e Sara fu assalita da una sensazione di paura che non provava da tempo. Brian Keller stava ancora aspettando in corridoio, con in mano la borsa della moglie. Quando Sara gli passò vicino la guardò con occhi inespressivi. Aveva un'aria così innocua, che lei dovette ricordare a se stessa che era un violento. Brad la salutò toccandosi il berretto e aprì la porta. Ethan White era in piedi al centro della stanza. Aveva addosso il camicione verde dell'ospedale e teneva le braccia muscolose incrociate sul petto. Era stato colpito al naso di recente e il sangue rappreso tracciava una linea sottile fino alla bocca. Una grossa chiazza rossa sotto l'occhio si stava lentamente trasformando in un livido. Sulla parte scoperta delle braccia comparivano tatuaggi intricati con scene di battaglia. Le caviglie nude avevano disegni geometrici e fiamme che salivano sulle gambe. Aveva l'aspetto di un ragazzo qualunque, con i capelli corti e un corpo che lasciava intendere quanto tempo trascorresse in palestra. I muscoli pulsavano sulle spalle tendendo il tessuto del camice. Era piccolo, un bel po' più basso di Sara, ma a modo suo imponente. Sembrava furioso, sul punto di scattare da un momento all'altro. Sara fu contenta che Jeffrey avesse pensato a non lasciarli soli nella stanza. «Ethan White» disse Jeffrey. «Questa è la dottoressa Linton. Preleverà dei campioni su richiesta del tribunale.» White serrò la mascella e parlò tra i denti. «Voglio vedere il mandato.» Mentre White leggeva il mandato, Sara si infilò i guanti. Sul bancone c'erano dei vetrini e l'occorrente per il test del DNA insieme a un pettine di plastica nero e alle fiale per il prelievo del sangue. Probabilmente Jeffrey aveva fatto preparare tutto dall'infermiera, ma Sara non capiva come mai
non l'avesse fatta rimanere a dare una mano. Si domandò se c'era qualcosa che nessun altro doveva vedere. Inforcò gli occhiali e decise che poteva chiedere a Jeffrey di far venire l'infermiera. Prima che avesse il tempo di aprire bocca, Jeffrey ordinò a White: «Levati il camice». «Non è nec...» Sara si bloccò a metà frase. White aveva lasciato scivolare a terra il camice. Sullo stomaco c'era una grossa svastica tatuata. Sulla parte superiore destra del petto c'era una faccia vagamente somigliante a Hitler. Sulla sinistra una schiera di SS omaggiava l'immagine col saluto nazista. Sara rimase a guardare con occhi sgranati. White ringhiò: «Ti piaccio?». La mano di Jeffrey volò sulla faccia del ragazzo e lo inchiodò al muro. Sara balzò indietro e andò a sbattere contro il bancone. Vide il naso di Ethan muoversi e del sangue fresco colare sulla bocca. Jeffrey parlò con un tono basso e minaccioso che Sara si augurò di non sentire mai più. «Quella è mia moglie, fottuto bastardo. Hai capito bene?» La testa di White era bloccata tra la mano di Jeffrey e la parete. Annuì una volta, ma non c'era paura nei suoi occhi. Era come un animale in gabbia, sicuro di trovare prima o poi una via d'uscita. «Così va meglio» disse Jeffrey e lo lasciò andare. White guardò Sara. «Lei è testimone, vero dottoressa? Comportamento brutale da parte di un membro delle forze dell'ordine.» «Lei non ha visto niente» disse Jeffrey. Sara dentro di sé lo maledì. Non voleva fargli da spalla. «Davvero?» domandò White. Jeffrey gli andò più vicino. «Non darmi un pretesto per farti del male.» «Sissignore» rispose sprezzante. Pulì il sangue che colava dal naso con il dorso della mano senza levare gli occhi da Sara. Cercava di intimidirla, e lei dovette ammettere che ci stava riuscendo. Sara aprì la confezione per il test orale del DNA. Si avvicinò a White con in mano la spatola e disse: «Apra la bocca, per favore». Lui fece come gli veniva detto, spalancò la bocca in modo che lei potesse passare la spatola all'interno. Sara utilizzò parecchi tamponi, ma quando cercò di trasferirli sui vetrini le tremavano le mani. Trasse un respiro profondo, cercando di riconaliarsi col compito che l'aspettava: Ethan White non era che un semplice paziente. E lei era un medico nello svolgimento
delle sue funzioni, niente di più e niente di meno. Mentre etichettava i campioni, si sentiva sulla schiena il suo sguardo. L'odio riempiva la stanza come un gas nocivo. Disse: «Ho bisogno della sua data di nascita». Lui attese un istante, poi decise di rispondere. «Ventuno novembre, 1980.» Sara trascrisse l'informazione sull'etichetta insieme al nome del paziente, il proprio, il luogo, la data e l'ora. Ogni campione andava catalogato in quel modo, poi riposto nella busta di carta riservata alle prove o raccolto su un vetrino. Prese con la pinzetta un dischetto di carta sterile e glielo tenne di fronte alla bocca. «Lo deve inumidire con la saliva.» «Non sono una ghiandola secretoria.» Sara non si mosse e finalmente White tirò fuori la lingua in modo che lei potesse introdurgli il dischetto in bocca. Dopo qualche tempo levò il dischetto e lo infilò in una bustina. Come previsto dalla procedura domandò: «Vuole dell'acqua?». «No.» Proseguì nelle operazioni sentendosi sempre addosso il suo sguardo. Anche quando andava al bancone e gli voltava le spalle, gli occhi di Ethan la seguivano come quelli di una tigre pronta ad attaccare. Si sentì serrare la gola quando si rese conto che era arrivato il momento di toccarlo. La pelle era calda sotto i guanti, i muscoli tesi. Da anni Sara non faceva prelievi di sangue su un paziente vivo e non riusciva a trovare la vena. «Mi dispiace» si scusò al secondo tentativo. «Non è nulla» disse lui con tono garbato, in netto contrasto con l'espressione di odio che aveva negli occhi. Utilizzando una macchina fotografica da trentacinque millimetri, documentò quelle che sembravano ferite da difesa. Sul collo e sulla testa c'erano quattro graffi superficiali e dietro l'orecchio sinistro un'incisione semicircolare, probabilmente inferta da un'unghia. La zona attorno ai genitali era tumefatta, il glande era rosso e irritato. Un graffio d'unghia abbastanza corto gli segnava il gluteo sinistro e uno più lungo la parte bassa della schiena. Mentre scattava con il teleobiettivo, Sara chiese a Jeffrey di tenere il righello accanto a ogni ferita. Disse: «Deve sdraiarsi sul tavolo». Ethan ubbidì senza smettere di guardarla.
Sara gli voltò le spalle e andò al bancone. Spiegò un piccolo foglio di carta bianca, si voltò di nuovo a disse: «Si sollevi, devo infilarle sotto questo pezzo di carta». Lui fece di nuovo quello che gli veniva detto senza smettere di fissarla. Quando Sara gli passò il pettine sul pube, parecchi peli rimasero tra i denti. Erano visibili le radici, il che indicava che i peli erano stati strappati. Con un paio di forbici tagliò una ciocca di peli incrostati nell'interno della coscia, la infilò nella busta e la etichettò con le solite informazioni. Utilizzò un tampone umido per prelevare i fluidi secchi dal pene e dallo scroto. Irrigidì talmente la mascella che sentì male ai denti. Gli raschiò le unghie delle mani e dei piedi e fotografò un'unghia spezzata sull'indice destro. Quando terminò la visita il bancone era disseminato di campioni. I tamponi erano nell'essiccatoio ad aria fredda, il resto nelle buste che aveva etichettato e sigillato, questa volta con mano ferma. «Ecco fatto» disse. Si levò i guanti e li lasciò cadere sul ripiano. Lasciò la stanza più in fretta che poteva. Brad e Keller erano ancora nel corridoio, ma li superò senza dire una parola. Tornò nell'ambulatorio vuoto, mentre paura e rabbia le invadevano ogni centimetro del corpo. Si chinò sopra il lavello, aprì al massimo il rubinetto e si spruzzò la faccia con l'acqua fredda. Aveva la gola impastata di bile e buttò giù qualche sorso d'acqua per imporsi di non vomitare. Sentiva ancora gli occhi di Ethan che la seguivano e le entravano nella pelle come un ferro per marchiare. Chiuse gli occhi e rivide la lieve erezione che aveva avuto quando lei gli aveva tamponato il pene e pettinato il pube. L'acqua continuava a scorrere e Sara chiuse il rubinetto. Si stava asciugando le mani con la salvietta di carta, quando si rese conto di trovarsi nella stessa stanza in cui un anno prima aveva visitato Lena reduce dallo stupro. Quello era lo stesso bancone su cui aveva appoggiato i campioni di Lena, come aveva appena fatto per Ethan White. Si strinse le braccia e rimase a guardare la stanza cercando di non farsi inghiottire dai ricordi. Dopo qualche istante Jeffrey bussò ed entrò. Si era levato il giaccone e lei vide la pistola nella fondina. «Mi potevi avvisare» lo aggredì con la voce rotta. «Me lo potevi dire.» «Lo so.» «Ti volevi vendicare?» disse. Si rese conto che stava per mettersi a piangere o a urlare. «No, non c'è nulla di cui mi devo vendicare» rispose, ma lei non sapeva
se credergli o no. Si portò la mano alla bocca per reprimere un singhiozzo. «Gesù Cristo, Jeff.» «Lo so.» «No, che non lo sai» lo rimbeccò. La voce risuonò nella stanza. «Mio Dio, li hai visti i tatuaggi?» Non lo lasciò rispondere. «Ha una svastica...» non riuscì a continuare. «Perché non mi hai avvisato?» Jeffrey rimase zitto. Dopo un po' disse: «Volevo che li vedessi da te. Volevo che capissi con chi hai a che fare». «E non me lo potevi dire?» domandò aprendo un'altra volta il rubinetto. Raccolse l'acqua nel palmo della mano per sciacquarsi il cattivo sapore dalla bocca. «Perché ci hai messo tanto?» lo incalzò. Le tornò in mente come aveva schiacciato la testa di Ethan contro la parete. «L'hai picchiato di nuovo?» «Io non l'ho picchiato, tanto per cominciare.» «Non l'hai colpito all'occhio?» domandò. «Gli sanguinava il naso, Jeffrey. Il sangue era fresco.» «Ti ho detto che non l'ho picchiato.» Gli afferrò le mani per vedere se le nocche erano escoriate o arrossate. Non c'era niente, ma domandò lo stesso: «Dov'è il tuo anello?». «Me lo sono levato.» «Non te lo levi mai.» «Domenica» disse. «Me lo sono levato domenica, prima di parlare con i tuoi genitori.» «Perché?» Rispose con più calma. «C'era del sangue, Sara. Capisci? C'era il sangue di Tess.» Sara gli lasciò andare la mano e fece la domanda a cui non si era concessa di pensare in presenza di White. «Credi che abbia accoltellato Tessa?» «Non ha un alibi per domenica. Non un buon alibi.» «Dov'era?» «In biblioteca, dice. Ma nessuno si ricorda di lui. Poteva essere nel bosco. Potrebbe avere ucciso Andy e potrebbe essersi fermato per vedere come si mettevano le cose.» Sara annuì per incoraggiarlo a continuare. «Non stava aspettando Tessa, Sara. Lei è capitata lì per caso e lui ha approfittato della situazione.» Sara si aggrappò al bancone, chiuse gli occhi e cercò di associare l'uomo
nella stanza accanto al ferimento della sorella. Le era già capitato di trovarsi in presenza di un assassino, e la cosa che più l'aveva colpita era che fosse un uomo così normale, così comune. Con gli abiti addosso, Ethan le aveva fatto la stessa impressione. Poteva essere uno dei tanti ragazzi del campus. Poteva essere stato uno dei suoi pazienti. Da qualche parte, nella città in cui era cresciuto, c'era un pediatra come lei che l'aveva visto crescere e diventare un uomo. Quando fu in grado di parlare domandò: «E come entra in questa storia Lena?». «Lo frequenta» rispose Jeffrey. «È la sua ragazza.» «Non posso credere...» «Quando la vedrai» cominciò Jeffrey, «voglio che ti ricordi che ha una storia con White. Lo sta proteggendo.» Puntò il dito alla parete per indicare la stanza attigua. «Quella roba che hai visto là dentro, quell'animale... lei lo protegge.» «Lo protegge da cosa?» domandò Sara. «Le impronte sul coltello sono le sue. Era lei a lavorare con Chuck.» «Capirai quando la vedrai.» «È un'altra sorpresa?» Pensò che non poteva reggerne un'altra, specialmente se aveva a che fare con Lena. «Ha anche lei una svastica?» «Se devo essere sincero, non so cosa pensare. Ha un brutto aspetto.» «In che senso?» «Non lo so» ripeté. «Qualcuno l'ha riempita di botte.» «Chi?» «Frank pensa che Chuck ci abbia provato.» «A fare cosa?» domandò Sara, spaventata dalla possibile risposta. «Forse l'ha aggredita» disse Jeffrey. «O forse l'ha solo fatta incazzare. Lei l'ha detto a White, e White ha dato fuori di matto.» «Ma tu come credi che sia andata?» «Francamente non ne ho idea» disse. «Con me lei non parla.» «L'hai interrogata come hai fatto con White? A forza di ceffoni?» Capì dal suo sguardo che era davvero amareggiato e si pentì, ma chiedere scusa non sarebbe servito a nulla. Aspettò che rispondesse alla sua domanda, invece Jeffrey disse: «Che idea ti sei fatta di me?». «L'idea che...» Non sapeva cosa dire. «L'idea che dovremmo metterci a lavorare. Non è il momento di discutere.» «Io invece voglio parlarne. Ho bisogno di sapere da che parte stai, Sara. Non posso combattere anche contro di te.»
«Adesso non è il momento» disse lei. «Dov'è Lena?» Jeffrey uscì in corridoio, come a dire che poteva trovarsela da sola. Sara si avviò asciugandosi le mani sui pantaloni, superò Brad e raggiunse l'ambulatorio successivo. Allungò la mano per abbassare la maniglia, ma in quel momento Frank aprì la porta per uscire. «Ehi» disse Frank. Fece un cenno con la testa indicando il locale alle sue spalle. «Vuole dell'acqua.» Sara entrò. La prima cosa che vide non fu Lena, ma l'occorrente per accertare una violenza sessuale predisposto sul bancone. Si raggelò e non riuscì a fare un passo fino a che Jeffrey non le posò una ninno sulla schiena e la sospinse con dolcezza. Avrebbe voluto inveire contro di lui, tempestarlo di pugni e maledirlo perché la costringeva a rifare tutto un'altra volta, ma non aveva più la forza di reagire. Si sentiva svuotata di tutto, non le rimaneva altro che una profonda sensazione di tristezza. Jeffrey disse: «Sara Linton, questa è Jill Rosen». Una donna piccola, vestita di nero, era in piedi appoggiata alla parete. Disse qualcosa, ma Sara udì solo un tintinnio metallico. Lena era seduta sul letto con i piedi che ciondolavano dalla sponda. Aveva addosso il camicione verde dell'ospedale allacciato sulla nuca. Muoveva la mano avanti e indietro in una sorta di compulsione nervosa e la manetta attorno al polso picchiava sulla barra ai piedi del letto. Sara si morse il labbro così forte che sentì il sapore del sangue. Disse: «Levale subito quelle manette». Jeffrey esitò, ma fece come voleva lei. Quando eliminò le manette Sara gli disse: «Vai fuori» con una voce che non lasciava margini di discussione. Di nuovo lui esitò. Sara lo guardò diritto negli occhi e scandì le due parole con durezza. «Vai. Fuori.» Jeffrey uscì e la porta si chiuse alle sue spalle. Lei rimase ferma con le mani sui fianchi a pochi metri da Lena. Anche se non era più ammanettata, la mano continuava a muoversi avanti e indietro, meccanicamente. Sara aveva pensato che l'uscita di Jeffrey avrebbe fatto sentire la stanza meno piccola, ma le pareti le incombevano ancora addosso. La paura era palpabile e si sentì invadere da un gelo paralizzante. Domandò: «Chi ti ha ridotto così?». Lena si raschiò la gola e fissò il pavimento. Quando cercò di parlare le uscì poco più di un sussurro: «Sono caduta». Sara si portò una mano al petto. «Lena» disse, «sei stata violentata.»
«Sono caduta» ripeté, continuando a muovere la mano. Jill Rosen andò al lavabo e inumidì una salvietta di carta. Si avvicinò a Lena e le tamponò il viso e il collo. Sara domandò: «È stato Ethan?». Mentre Jill cercava di ripulirla dal sangue, scrollò la testa. Disse: «Ethan non ha fatto nulla». Jill Rosen le posò la salvietta sulla nuca. Rischiava di eliminare delle prove, ma in quel momento a Sara non importava. «Lena» disse Jill. «Va tutto bene. Non può più farti del male.» Lena chiuse gli occhi, ma lasciò che Jill Rosen la pulisse sotto il mento. «Lui non mi ha fatto del male.» «Non è stata colpa tua» continuò Sara. «Non lo devi proteggere.» Lena tenne gli occhi chiusi. «È stato Chuck?» domandò Sara. Jill Rosen la guardò sconcertata. Sara ripeté: «È stato Chuck?». Lena bisbigliò: «Io non ho visto Chuck». Sara sedette sul bordo del letto, voleva capire. «Lena, ti prego.» Voltò la testa dall'altra parte. Il camicione scivolò giù dalla spalla e Sara vide il segno di un morso sopra il seno destro. Finalmente Jill Rosen parlò. «Chuck ti ha fatto del male?» «Non avrei dovuto chiamarla» disse Lena alla dottoressa. Con le lacrime agli occhi Jill Rosen le sistemò i capelli dietro l'orecchio. Forse vedeva se stessa vent'anni prima. Lena le disse: «Per favore, se ne vada». Jill Rosen guardò Sara come se non si fidasse fino in fondo di lei. «Hai il diritto di avere qualcuno presente» disse a Lena. Lavorando al college doveva essere stata chiamata altre volte in circostanze simili. Conosceva la procedura, anche se non l'aveva mai utilizzata per se stessa. «Per favore, se ne vada» ripeté Lena, con gli occhi ancora chiusi, come se servisse a far scomparire la donna. Jill Rosen aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci rinunciò. Lasciò in fretta la stanza, come un prigioniero in fuga. Gli occhi di Lena rimasero chiusi. La gola si mosse e lei tossì. «Forse c'è un danno alla trachea» disse Sara. «Se la laringe è...» si trattenne, non sapendo se Lena la stava ascoltando. Continuava a tenere gli occhi chiusi come se avesse voluto escludere il mondo. «Lena» insistette Sara. «Fai fatica a respirare?» Le tornò in mente Tessa nel bosco.
In modo quasi impercettibile, Lena mosse la testa per dire di no. «Ti dispiace se controllo?» Non aspettò la risposta e con tutta la delicatezza di cui era capace toccò la pelle intorno alla laringe di Lena in cerca di sacche d'aria. «È solo tumefatta» disse. «Non ci sono fratture, ma per un po' ti farà male.» Lena tossì un'altra volta e Sara le offrì un bicchiere d'acqua. «Piano» disse Sara inclinando il bicchiere. Tossì ancora e si guardò attorno come se non riuscisse a ricordare com'era finita lì. «Sei all'ospedale» disse Sara. «Chuck ti ha aggredito ed Ethan l'ha saputo? È andata così, Lena?» Deglutì con una smorfia di dolore. «Sono caduta.» «Lena» mormorò Sara, oppressa da una tale tristezza da non riuscire quasi a parlare. «Per favore, dimmi che cosa è successo.» Lena farfugliò qualcosa a occhi chiusi, abbassando la testa. «Come hai detto?» Si raschiò la gola e riaprì gli occhi. I capillari si erano rotti e il bianco era pieno di piccole macchie rosse. Disse: «Voglio fare una doccia». Sara guardò il bancone con tutto il necessario per la visita. Pensò che non ce l'avrebbe fatta a ripetere quel rituale una seconda volta. Era troppo. Il modo in cui Lena se ne stava seduta lì, inerme, ad aspettare che lei facesse quel che doveva fare, le spezzava il cuore. Lena dovette notare la sua apprensione. «Per favore, sbrighiamoci» bisbigliò. «Mi sento sporca. Devo fare una doccia.» Sara scivolò giù dal letto e andò al bancone. Era intontita, ma controllò con cura che nella macchina fotografica ci fosse la pellicola. Come previsto dalla procedura, domandò: «Hai avuto rapporti sessuali consensuali con qualcuno, nelle ultime ventiquattr'ore?». Lena annuì. «Sì.» Sara chiuse gli occhi. «Consensuali?» ripeté. «Sì.» Sara cercò di mantenere un tono fermo. «Hai fatto irrigazioni o docce dopo l'aggressione?» «Io non sono stata aggredita.» Sara si avvicinò e si mise di fronte a lei. «Ti posso dare una pillola» disse. «Come quella che ti ho dato l'altra volta.» La mano di Lena continuava a oscillare strofinando il lenzuolo sul letto.
«È per la contraccezione d'emergenza.» Lena mosse le labbra senza parlare. «La chiamano anche pillola del giorno dopo. Ti ricordi come funziona?» Lena annuì, ma Sara glielo spiegò lo stesso. «Devi prenderne una adesso e un'altra fra dodici ore. Ti darò qualcosa per la nausea. Hai avuto molta nausea l'altra volta?» Forse annuì, ma Sara non ne fu sicura. «Potrebbe darti i crampi, un po' di capogiro, qualche reazione cutanea.» Lena la bloccò. «Va bene.» «Va bene?» «Va bene» ripeté. «Sì, dammi le pillole.» Sara sedeva alla scrivania dell'obitorio, la testa fra le mani, il telefono stretto tra l'orecchio e la spalla, e ascoltava gli squilli del cellulare di suo padre. «Sara?» Fu Cathy a rispondere con voce preoccupata. «Dove sei?» «Non hai trovato il mio messaggio?» «Ma noi non sappiamo leggerli, i messaggi» disse la madre, come se fosse ovvio. «Cominciavamo a preoccuparci.» «Mi dispiace, mamma.» Guardò l'orologio appeso nella sala anatomica. I suoi genitori aspettavano la telefonata da un'ora. «Hanno ucciso Chuck Gaines.» Cathy ne fu talmente colpita che dimenticò ogni preoccupazione: «Il bambino che ti ha mangiato la scultura di maccheroni in terza elementare?». «Sì» disse Sara. Sua madre ricordava le persone che la figlia conosceva sin dall'infanzia in base a qualche sciocchezza che avevano combinato da bambini. Disse: «Be', è orribile», senza pensare che la morte di Chuck potesse avere qualche relazione con il ferimento di Tessa. «Devo fare l'autopsia, e poi ci sono altre cose.» Non voleva parlarle di Lena Adams e di quello che era successo in ospedale. Anche se ci avesse provato, non sarebbe riuscita a tradurre in parole quello che aveva dentro. Si sentiva dolorante e indifesa, e in quel momento non desiderava altro che essere con la sua famiglia. «Puoi venire domani mattina?» domandò Cathy con uno strano tono di voce. «Verrò stasera, appena possibile» disse, pensando che non aveva mai
desiderato tanto di andarsene dalla città. «Tess sta bene?» «È qui» disse Cathy. «Sta parlando con Devon.» «Capisco» disse Sara. «Promette bene o male?» «Direi la prima ipotesi» rispose Cathy sibillina. «E papà?» Cathy ci mise un po' a rispondere. «Sta bene» rispose, in tono non troppo convincente. Sara si sforzò di trattenere le lacrime. Era consapevole di andare avanti solo per forza d'inerzia, e l'angoscia supplementare che le procurava il rapporto col padre rischiava di farla crollare. «Piccola?» la richiamò Cathy. Sara riconobbe Jeffrey dall'ombra proiettata sulla scrivania. Alzò gli occhi, ma non su di lui. Attraverso la finestra interna vide Frank e Carlos che parlavano accanto al cadavere. «Mamma, è arrivato Jeffrey. Devo mettermi al lavoro.» Cathy aveva la voce ancora tesa, ma disse: «D'accordo». «Verrò appena possibile» disse Sara e chiuse la comunicazione. Jeffrey domandò: «Qualcosa non va con Tess?». «Ho solo bisogno di vederla» rispose Sara. «Ho bisogno di stare con la mia famiglia.» Jeffrey afferrò il significato implicito, e cioè che lui non era incluso. «Vuoi che ne parliamo adesso?» «L'hai ammanettata» disse Sara, in bilico tra amarezza e rabbia. «Non riesco a credere che tu le abbia messo le manette.» «È un elemento sospetto, Sara.» Si guardò alle spalle. Frank era intento a guardare il suo taccuino, ma Sara sapeva che poteva sentire tutto quello che dicevano. Tuttavia, per sicurezza, alzò la voce. «È stata violentata, Jeffrey. Non so da chi, ma è stata violentata, e tu non dovevi metterle le manette.» «È coinvolta in un'indagine per omicidio.» «Dove temevi che andasse, in quella stanza?» «Non era questo il punto.» «E allora qual era il punto?» domandò, abbassando la voce. «Torturarla? Farla crollare?» «È il mio lavoro, Sara. Spingo la gente a confessare.» «Chissà quante cose ti raccontano, purché tu smetta di picchiarli.» «Forse non lo sai, Sara, ma i tipi come Ethan White capiscono solo una cosa.»
«Oh, mi sono persa la parte in cui ha spifferato quello che volevi sapere.» Jeffrey prese fiato per non mettersi a gridare. Poi domandò: «Non potremmo tornare a come stavano le cose questa mattina?». «Questa mattina non avevi ammanettato la vittima di uno stupro a un letto d'ospedale.» «Non sono stato io a occultare le prove.» «Quello non è occultare delle prove, deficiente. È proteggere una paziente. Come la prenderesti, se fossi stata stuprata e qualcuno utilizzasse i referti dello stupro per incastrarmi?» «Incastrarti? Le sue impronte sono sull'arma del delitto. Lei ha l'aspetto di una che è stata massacrata di botte e il suo ragazzo ha la fedina penale lunga un chilometro. Che cavolo dovrei pensare?» Si sforzò di mantenere il controllo. «Non posso impormi di lavorare come piace a te.» «No» disse lei alzandosi in piedi. «E neppure come impone il comune senso del rispetto.» «Io non sapevo...» «Non essere stupido» sibilò, chiudendo la porta con un colpo. Non voleva più che Frank li sentisse. «Hai visto com'era ridotta, hai visto cosa le hanno fatto? Dovresti avere già le fotografie. Hai visto le lacerazioni sulle gambe? Il segno del morso sul seno?» «Si» disse lui. «Ho visto le fotografie. Le ho viste, certo.» Scosse la testa come se desiderasse di non averle mai guardate. «Credi davvero che Lena abbia ucciso Chuck?» «Non c'è niente che leghi White alla scena del crimine» disse. «Dammi qualcosa che lo comprometta. Qualcosa che non siano le fottute impronte di Lena sull'arma del delitto.» C'era un punto su cui Sara non era disposta a retrocedere. «Non dovevi ammanettarla.» «Secondo te, dovrei lasciar perdere il fatto che forse è un'assassina, solo perché sono dispiaciuto per lei?» «Lo sei?» «Certo che lo sono. Credi che mi diverta a vederla così?» «Forse ha agito per legittima difesa.» «Questo lo deciderà il suo avvocato» disse Jeffrey e, per quanto il tono fosse rude, Sara sapeva che aveva ragione. «Non devo permettere che quello che provo interferisca col mio lavoro, e anche tu dovresti starci attenta.»
«Vorrà dire che ho un atteggiamento meno professionale del tuo.» «Non intendevo questo.» «L'ottanta percento delle donne stuprate subisce una seconda aggressione a un certo punto della vita. Lo sapevi?» La risposta fu un silenzio eloquente. «Invece di accusare lei di omicidio, dovresti cercare chi l'ha stuprata.» Jeffrey alzò le mani e scrollò le spalle. «Non l'hai sentita?» domandò. E con una sfrontatezza che fece prudere le mani a Sara aggiunse: «Non è stata violentata. È caduta». Sara spalancò la porta, decisa a non parlargli più. Andò nell'altra stanza sentendosi addosso il suo sguardo, ma non si voltò. Qualunque cosa avesse rivelato l'autopsia, non poteva perdonare a Jeffrey di avere ammanettato Lena al letto. In quel momento era così delusa, che anche l'idea di non rivolgergli mai più la parola la lasciava del tutto indifferente. Si diresse allo schermo luminoso e guardò le radiografie, senza quasi riuscire a vederle. Si concentrò sul respiro, cercando di fecalizzare la mente su quello che doveva fare. Chiuse gli occhi, cacciò dalla mente Tessa e Lena, cancellò dalla memoria Ethan White. Quando sentì di essersi ripresa, tornò al tavolo. Chuck Gaines era un uomo massiccio, con le spalle larghe e una spruzzata di peli sul petto. Sulle braccia Sara non trovò ferite prodotte da un tentativo di difesa e ne dedusse che doveva essere stato colto di sorpresa. Il collo era squarciato, rosso fiammante, con le arterie e i tendini che penzolavano fuori come i tralci di un rampicante. Si vedeva anche la parte cervicale della colonna, dislocata fuori dalla sua posizione naturale. «L'ho già esaminato con gli ultravioletti» disse Sara. I raggi ultravioletti mettevano in evidenza i fluidi corporali e permettevano di stabilire se c'era stata attività sessuale recente. «È pulito.» «Potrebbe avere usato un preservativo» obiettò Jeffrey. «Ne avete trovato uno sulla scena del delitto?» «Lena avrà pensato a farlo sparire.» Indispettita, Sara abbassò con un gesto nervoso la lampada sopra il tavolo. La orientò sulla ferita per vedere meglio. «È come se l'assassino avesse avuto un attimo di incertezza» disse, indicando un taglio che si interrompeva a un certo punto. Chiunque avesse sgozzato Chuck, aveva fatto almeno un tentativo prima di riuscire ad aprirgli la gola. «Il che significa che non doveva essere molto robusto» riepilogò Jeffrey. «Ci vuole molta forza per tagliare la cartilagine e l'osso» gli fece notare
Sara. Avrebbe preferito che Jeffrey si risparmiasse i commenti, ma evitò di rimbrottarlo di fronte a Frank. Probabilmente Jeffrey se l'era portato dietro proprio per questo. Domandò: «Avete l'arma?». Jeffrey le mostrò la busta di plastica che conteneva un coltello da caccia insanguinato, lungo quindici centimetri. «Il fodero vuoto era nella sua camera da letto. Il coltello combacia alla perfezione» disse. «Non avete cercato altro?» Jeffrey raccolse la provocazione. «Abbiamo perquisito la sua stanza e quella di White. Non c'erano altre armi.» Poi aggiunse: «Di nessun tipo». Sara osservò il coltello. La lama era seghettata da una parte e affilata dall'altra. Sul manico si vedeva la polvere nera lasciata dal rilevamento delle impronte e il contorno sbiadito dell'impronta insanguinata, prelevata con il nastro adesivo. Sul resto del coltello non c'era molto sangue. O l'assassino l'aveva ripulito, o Jeffrey era in possesso del coltello sbagliato. Sara si fece un suo parere basato sull'esperienza, ma non volle dire nulla prima di avere delle certezze. Si infilò due paia di guanti. L'unico altro segno sul cadavere era una profonda ferita di lama sul petto, in alto a sinistra. Probabilmente l'aggressore di Chuck gli aveva prima tagliato la gola e poi l'aveva pugnalato al petto. La ferita penetrava in diagonale, il che stava a indicare che l'assassino era in piedi sopra la vittima quando aveva infetto il colpo. Jeffrey domandò: «Non è lo stesso punto in cui è stata pugnalata Tess?». Sara ignorò la domanda. «Puoi darmi una mano a metterlo sul fianco?» Jeffrey andò a prendere un paio di guanti dal contenitore appeso alla parete. «Serve una mano?» si offrì Frank. «No» disse Sara. «Ti ringrazio.» Frank si portò una mano sul petto, visibilmente sollevato. Lei notò che la pelle sulle nocche era escoriata e livida. Frank si accorse di essere osservato e infilò la mano in tasca con un sorriso accomodante. Jeffrey disse: «Pronta?». Sara annuì e aspettò che lui si mettesse in posizione. Dato che la testa di Chuck era quasi mozzata dal collo, spostarlo non era un lavoro semplice. A complicare il problema si aggiungeva il fatto che il corpo era ancora rigido. Le gambe scivolarono verso il bordo del tavolo e solo grazie a una presa rapida di Sara il cadavere non rotolò a terra. «Scusami» disse Jeffrey.
«Non importa» rispose lei. La rabbia cominciava a sbollire. Indicò il vassoio. «Mi puoi passare quel bisturi?» «Che cosa vuoi cercare?» domandò Jeffrey, sapendo che quello non era un intervento di routine. Sara calcolò la traiettoria della lama dentro il torace, poi fece una piccola incisione sulla schiena di Chuck, appena sotto la scapola sinistra. «Il coltello è stata l'unica arma reperita?» domandò. Indicò un altro strumento sul vassoio. «Sì» rispose Jeffrey, porgendole una pinza di acciaio inossidabile. Sara la introdusse nell'incisione e scavò con le punte finché trovò quello che stava cercando. Jeffrey disse: «Che succede?». Per tutta risposta lei estrasse un pezzo di metallo. Frank disse: «Che cos'è?». Jeffrey fece una smorfia contrariata. «La punta del coltello.» Sara aggiunse: «Si è rotta contro la scapola». Frank era visibilmente sconcertato. «Ma la lama di Lena non era rotta.» Prese la busta di plastica. «La punta non è neppure scalfita.» Jeffrey era sbiancato e Sara, leggendogli negli occhi lo sgomento, si pentì di tutto quello che gli aveva detto. Frank disse: «Cosa significa?». «Che il suo coltello non è l'arma del delitto» disse Jeffrey, con la voce incrinata dalla commozione. «Non è stata Lena.» 14 Lena si svegliò di soprassalto sollevandosi sulle mani. Le costole le dolevano a ogni respiro e il polso batteva, anche se ora, finalmente, era imprigionato nel gesso. Si mise seduta e guardò la piccola cella cercando di ricordare come fosse finita lì. «Va tutto bene» disse Jeffrey. Era seduto sulla branda di fronte alla sua, con i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate sotto il mento. La cella era buia, l'unica luce proveniva dalla postazione con i monitor in fondo al corridoio. La porta era aperta, e lei non sapeva come interpretare quel particolare. «Devi prendere l'altra pillola» disse Jeffrey. Sulla branda, accanto a sé, aveva un vassoio di metallo con un bicchiere di plastica e due pillole. Lo prese e glielo porse come un cameriere. «Quella piccola serve a bloccare la
nausea.» Lena si mise in bocca le pillole e le butto giù con un sorso d'acqua fredda. Cercò di riporre il bicchiere sul vassoio, ma le tremava la mano e Jeffrey dovette farlo per lei. Si versò dell'acqua sui pantaloni ma non ci badò. Lena si raschiò la gola parecchie volte prima di riuscire a parlare: «Che ore sono?». «Quasi un quarto a mezzanotte.» Quindici ore, pensò Lena. Era in stato di fermo da quasi quindici ore. «Vuoi qualcosa?» domandò Jeffrey. La luce gli catturò il viso quando si chinò per posare il vassoio per terra, e lei si accorse che era teso. «Ti senti bene?» le domandò di nuovo. Lei tentò di alzare le spalle, ma era come se non le sentisse. Le parti del corpo che non erano intorpidite erano rigide e doloranti. Perfino le palpebre le facevano male, quando le abbassava. «Come va il taglio sulla mano?» Lena chinò gli occhi sull'indice che spuntava dal gesso. Si domandò quanto tempo era passato da quando si era tagliata cercando di riavvitare la grata del condizionatore. Le sembrava un'eternità. Era un'altra persona adesso. «È così che il sangue è finito sul coltello?» domandò Jeffrey protendendosi in avanti, dentro il fascio di luce. «Quando ti sei tagliata?» Lei si raschiò di nuovo la gola, col solo risultato di aumentare il dolore. La voce uscì roca, poco più di un sussurro. «Posso avere ancora dell'acqua?» «Vuoi qualcosa di più forte?» domandò Jeffrey. Lei lo studiò, cercando di capire dove voleva arrivare. Adesso faceva la parte del poliziotto buono e lei aveva talmente bisogno di qualcuno che si dimostrasse gentile, che era disposta a cedere. Moriva dalla voglia di raccontare quello che era successo, ma la mente non riusciva a elaborare le parole. Porgendole il bicchiere Jeffrey disse: «Cominciamo con l'acqua, d'accordo?». Lena bevve, contenta che fosse fredda. Jeffrey doveva averla presa dal recipiente termico nell'atrio, invece che dal rubinetto. Gli restituì il bicchiere e si appoggiò alla parete. Sentì male alla schiena, ma il muro di cemento era solido e rassicurante. Si guardò il gesso che le copriva quasi tutta la mano e una buona metà dell'avambraccio. Mosse le dita e un tremito le percorse il braccio. «Probabilmente l'effetto dell'analgesico sta svanendo» disse Jeffrey. «Ne
vuoi ancora? Posso dire a Sara di prescriverti qualcosa.» Lena scosse la testa, anche se non desiderava altro che stordirsi. «Chuck è del gruppo B negativo» disse. «Tu sei del gruppo A.» Lei annuì. Il test del DNA avrebbe richiesto una settimana, ma il gruppo sanguigno era stato individuato rapidamente all'ospedale. «Sangue del gruppo A era sul coltello, sulla scrivania e sul lembo della tua camicia.» Lena aspettò che continuasse. «Non abbiamo trovato il B negativo da nessuna parte, tranne che nell'ufficio.» Lei aveva trattenuto il fiato e continuò a trattenerlo, domandandosi quanto avrebbe resistito. «Lena...» cominciò. Gli si incrinò la voce e abbassò lo sguardo sulle mani, ma lei fece in tempo a vedere che era molto scosso. «Non dovevo ammanettarti» disse. Lena si domandò cosa intendesse dire. Non ricordava molto di tutto quello che era successo dopo essere stata con White. «Mi sarei comportato in modo completamente diverso se solo...» La guardò e gli occhi gli brillarono nella luce proveniente dal corridoio. «Io non sapevo.» Lena represse un colpo di tosse, voleva bere ancora. «Dimmi cosa è successo» riprese. «Dimmi chi ti ha conciato così, perché io possa punirlo.» Lena restò con lo sguardo fisso nel vuoto. Era lei la colpevole. Che altro poteva fare lui per punirla? «Non dovevo metterti le manette» ripeté Jeffrey. «Ti chiedo scusa.» La ragazza espirò lentamente e sentì un forte dolore alle costole. Domandò: «Dov'è Ethan?». Il corpo di Jeffrey entrò in tensione. «È ancora in arresto.» «L'accusa?» «Violazione della libertà vigilata» rispose, senza spiegare altro. «È morto davvero Chuck?» domandò. Le era tornata in mente l'ultima volta che l'aveva visto. «Sì» disse Jeffrey. «È morto.» Si guardò di nuovo le mani. «È stato lui, Lena? È stato lui a farti del male?» Ancora una volta lei si schiarì la voce e lo sforzo le procurò una fitta al collo. «Posso andare a casa?» Lui parve riflettere, ma lei sapeva, da quello che le aveva raccontato, che
non aveva motivo di trattenerla. «Voglio solo andare a casa» disse, ma la casa a cui stava pensando non era la topaia in cui stava adesso, era quella che aveva posseduto un tempo, dove aveva vissuto un'altra vita. E non lei, ma la Lena buona, quella che non aggrediva le persone e non le costringeva a fare cose che non volevano fare. La Lena che era stata prima che morisse Sibyl. Jeffrey disse: «Nan Thomas è qui. L'ho chiamata perché venisse a prenderti». «Non voglio vederla.» «Mi dispiace, Lena. È fuori che ti aspetta e io non posso... non voglio... lasciarti andare a casa da sola.» Nan rimase in silenzio per tutto il tragitto. Impossibile dire quanto sapesse di quello che era successo, ma in quel momento a Lena non importava. Non c'era più niente che le importasse, dopo la bufera della notte passata. Guardò dal finestrino e pensò che da tanto tempo non faceva un giro in macchina di notte. Di solito a quell'ora era a letto, a volte a dormire, a volte a guardare dalla finestra in attesa che si facesse giorno, ma mai per le strade. Mai in un posto dove non si sentisse al sicuro. Nan imboccò il vialetto di casa e spense il motore. Infilò la chiave sotto l'aletta parasole e lanciò a Lena un sorriso imbarazzato. Nan si fidava troppo degli altri. Anche Sibyl era fatta così, poi un maniaco l'aveva assassinata. La casa che Sibyl e Nan avevano comperato qualche anno prima era un piccolo bungalow, come ce n'erano tanti a Heartsdale. Su un lato del corridoio due camere da letto con il bagno e la cucina, sull'altro la sala da pranzo e il soggiorno. La seconda camera da letto era stata trasformata in uno studio per Sibyl, ma ora forse Nan l'aveva adibita ad altro. Arrivata di fronte all'entrata, mentre Nan apriva la porta con tutta calma, dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Essere stremata era diventato il tratto distintivo della sua esistenza. Un altro aspetto nuovo. Quando Nan aprì la porta furono accolte dai tre brevi trilli dell'antifurto. Considerata l'indifferenza di Nan per le misure di sicurezza, Lena fu sorpresa che si fosse data la pena di istallare un sistema di allarme. Nan dovette leggerle nel pensiero. «Lo so» disse, digitando la data di nascita di Sibyl sul pannello. «Ma dopo quello che è successo a Sybil, mi fa sentire più sicura...»
«Sarebbe meglio un cane» suggerì Lena, poi si sentì in colpa vedendo lo sguardo preoccupato di Nan. «Ma è vero che il rumore dell'allarme può spaventarli.» «I primi tempi partiva in continuazione. La signora Mousey, che abita di fronte, a momenti si faceva venire un infarto.» «Sono sicura che funziona» la rassicurò Lena. «Speriamo.» Lena appoggiò la mano sullo schienale del divano e pensò che non aveva la forza di reggere una conversazione così insensata. Nan parve accorgersene. «Hai fame?» domandò accendendo le luci, mentre attraversava il soggiorno diretta in cucina. Lena scosse la testa, ma Nan non poteva vederla. «Lena?» «No, non ho fame» rispose. Lasciò correre le dita lungo la spalliera del divano e andò in bagno. I farmaci le davano i crampi e si sentiva bruciare come se avesse un'infezione urinaria. Il bagno era stretto, con il pavimento a piastrelle bianche e nere. Una cornice in legno laccato contornava le piastrelle bianche che salivano fino a metà parete. Sullo specchio dell'armadietto sopra il lavabo c'era una fotografia di Sibyl. Lena si guardò nello specchio e poi guardò Sibyl per confrontare le due immagini. Lei sembrava più vecchia di dieci anni, anche se la fotografia era stata scattata circa un mese prima che Sibyl venisse assassinata. Il suo occhio sinistro era gonfio, il taglio sottostante era rosso vivo e sensibile al tatto. Il labbro era spaccato al centro, e attorno al collo c'erano dei graffi e un livido gigantesco. Non c'era da meravigliarsi che facesse fatica a parlare. La gola doveva essere rossa come un pezzo di carne cruda. «Lena?» chiamò Nan bussando alla porta. Lena aprì, non voleva che Nan si preoccupasse. «Ti va del tè?» Stava per dire di no, ma poi decise che poteva farle bene. Annuì. «Menta relax o Tisana sogni d'oro?» Avrebbe voluto ridere perché le sembrava assurdo che, dopo tutto quello che era successo, Nan se ne stesse sulla porta del bagno a chiederle se voleva la Menta relax o la Tisana sogni d'oro. «Decido io» disse Nan sorridendo. «Ti vuoi cambiare?» Aveva ancora addosso l'uniforme della prigione che le avevano dato alla centrale, perché i suoi abiti erano stati prelevati come prove. Nan disse: «Ho ancora degli abiti di Sibyl se vuoi...». Ma si resero conto
entrambe che indossare gli abiti di Sibyl non era forse la cosa più opportuna. «Ho un pigiama che ti può andare bene» disse Nan. Andò in camera sua e Lena la seguì. Accanto al letto c'erano altre fotografie di Sibyl e il suo orsetto di quando era bambina. Nan rimase impalata a guardare Lena. «Cosa c'è?» domandò lei, cercando di non aprire troppo le labbra perché il taglio non si riaprisse. Nan andò all'armadio e si sollevò sulle punte per frugare sul ripiano in alto. Tirò giù una piccola scatola di legno. «Questa era di mio padre» disse aprendo la scatola. All'interno, posata sul velluto, c'era una piccola pistola Glock con un caricatore pieno. «Che ci fai con questa?» domandò Lena, desiderosa di prendere in mano l'arma per saggiare il peso. Non teneva in mano una pistola da quando si era dimessa dalla polizia. «Me l'ha data mio padre dopo la morte di Sibyl» spiegò Nan, e Lena si rese conto di non sapere neppure che Nan avesse un padre ancora vivo. «È un poliziotto. Come era tuo padre» aggiunse. Lena toccò il metallo freddo che sentì gradevole sotto le dita. «Io non la so usare» continuò Nan. «Non sopporto le pistole.» «Anche Sibyl le odiava» disse Lena. Calvin Adams, loro padre, era morto in una sparatoria a un incrocio. Nan chiuse la scatola e la porse a Lena. «Tienila, se ti dà sicurezza.» Lei prese la scatola e se la strinse al petto. Nan aprì un cassetto del comò e tirò fuori un pigiama azzurro pastello. «So che non è il tuo stile, ma almeno è pulito.» «Ti ringrazio» disse Lena apprezzando lo sforzo. Nan se ne andò chiudendo la porta. Lena avrebbe voluto chiuderla a chiave, ma pensò che Nan poteva sentire il rumore e prenderla come un'offesa personale. Sedette sul letto e aprì la scatola tenendola sulle ginocchia. Passò il dito sulla canna della pistola come lo aveva passato sul sesso di Ethan. Poi prese in mano l'arma e armeggiò per inserire il caricatore. Il gesso sul braccio sinistro la impacciava e quando cercò di tirare l'otturatore per inserire la pallottola nella camera, per poco la pistola non le sfuggì di mano. «Dannazione» disse, premendo il grilletto parecchie volte per il piacere di sentire il clic. Per abitudine levò il caricatore prima di riporre la pistola nella scatola.
Con qualche difficoltà riuscì a infilarsi il pigiama azzurro. Le facevano così male le gambe che avrebbe preferito non muoverle, ma sapeva che il movimento era l'unico modo per combattere la rigidità e il dolore. Quando arrivò in cucina, Nan stava versando il tè e come la vide le sorrise cercando di non ridere. Lena si guardò e vide il cagnetto blu applicato sulla tasca del pigiama. «Scusami, ma non è proprio il tuo stile.» Lei abbozzò un sorriso e sentì che il labbro si riapriva. Posò la scatola di legno sul tavolo. La pistola non era di alcuna utilità se non riusciva a caricarla, ma averla accanto la faceva sentire meglio. Nan aveva notato la pistola, ma disse: «Be', quel pigiama sta meglio a te che a me». Lena si sentì vagamente a disagio e decise di chiarire subito le cose. «Io non sono gay, Nan.» Lei si sforzò di sorridere. «Oh, Lena, anche se lo fossi, non potrei mai sostituire tua sorella.» Lena si aggrappò alla sedia, non voleva parlare di Sibyl. Provava una vergogna feroce al pensiero che Sibyl potesse scoprire cosa le era capitato. Per la prima volta la rincuorò l'idea che sua sorella fosse morta. «È tardi» disse, guardando l'orologio sulla parete. «Mi dispiace di averti trascinato in questa storia.» «Oh, non ti preoccupare. È gradevole essere in piedi dopo mezzanotte, per una volta. Mi sono abituata ad andare a letto alle nove e mezza come una vecchia signora, da quando Sibyl...» «Per favore. Non mi va di parlare di lei. Non così.» «Siediti» disse Nan. Le passò un braccio attorno alle spalle e cercò di guidarla verso la sedia, ma Lena non si mosse. «Lena?» Lena si morse il labbro, aprendo ancora di più il taglio. Lo leccò con la punta della lingua, ricordando come aveva leccato il collo di Ethan. All'improvviso scoppiò a piangere e Nan la strinse tra le braccia. Rimasero così, abbracciate, finché Lena esaurì le sue lacrime. 15 Ron Fletcher sembrava il diacono di una chiesa. I capelli castani erano divisi con cura da una parte e tenuti a posto da un gel luccicante. Era vestito con un abito formale, come se si aspettasse un colloquio di lavoro, an-
che se Jeffrey gli aveva spiegato al telefono che avevano bisogno di lui per alcune informazioni relative a Chuck Gaines. Dall'odore che emanava si capiva che era un fumatore, ma a giudicare da quello che gli avevano trovato nell'armadietto dell'ufficio era ovvio che la nicotina era il minore dei suoi problemi. «Buon giorno, signor Fletcher» disse Jeffrey. Si accomodò al tavolo di fronte a lui. Fletcher abbozzò un sorriso nervoso, poi si voltò e guardò con intenzione Frank, che era fermo accanto alla porta come se fosse di guardia. «Io sono il capo Tolliver» continuò Jeffrey. «Questo è il detective Wallace.» Fletcher annuì e si lisciò i capelli. Era un fumatore d'erba impenitente, un quarantenne fermo all'adolescenza. «Salve, come va?» «Non c'è male» rispose Jeffrey. «Grazie per essere venuto così presto.» «Faccio i turni di notte» spiegò Fletcher, con la parlata lenta e difficoltosa di chi passa la vita a farsi canne. «Di solito a quest'ora vado a letto.» «Bene» sorrise Jeffrey, «apprezziamo la sua disponibilità.» Si appoggiò alla spalliera della sedia e abbandonò le mani sul tavolo. Fletcher si voltò e tornò a guardare Frank. Il vecchio poliziotto sapeva essere grintoso quando voleva, e se ne stava tutto impettito per non lasciare dubbi sulle sue intenzioni. Fletcher spostò gli occhi su Jeffrey e sorrise di nuovo nervosamente. Jeffrey gli restituì il sorriso. «Io... ehm...» cominciò Fletcher, buttandosi avanti, con il gomito sul tavolo. «Immagino che abbiate trovato la roba.» «Già» fece Jeffrey. «Non è mia» azzardò Fletcher, ma dal modo in cui lo disse Jeffrey capì che neppure lui la considerava una buona scusa. Ron Fletcher aveva oltrepassato da un bel po' la quarantina e da quel che si poteva dedurre dalla sua scheda personale non aveva mai avuto un lavoro stabile per più di due anni. «Be', come si spiega che c'erano le sue impronte?» «Dannazione» bofonchiò Fletcher, picchiando la mano sul tavolo. Jeffrey vide che Frank sorrideva. Avevano rilevato le sue impronte sui sacchetti, ma Fletcher non era schedato alla polizia e non avevano potuto confrontarle. «Dovremo perquisire il suo appartamento, Ron.» «Oh, no.» Appoggiò la testa sul tavolo. «Che rogna.» Alzò gli occhi,
implorante. «Io non ho mai avuto guai con la legge. Mi deve credere.» «Ho già controllato» disse Jeffrey. Fletcher stortò la bocca. La sua fedina penale era pulita, avevano trovato solo una multa per divieto di sosta, ma poteva esserci dell'altro che non era mai saltato fuori solo perché non c'erano state denunce. Fletcher apparteneva a quella generazione che considerava la polizia molto più potente di quanto non fosse in realtà. «A chi vendeva dentro la scuola?» domandò Jeffrey. «Solo a qualche ragazzo» rispose Fletcher. «Poca roba alla volta, tanto per arrotondare, capisce? Mica roba grossa.» «Chuck lo sapeva?» «Chuck? No, no. Certo che no. Non è uno che controlla molto, capisce cosa voglio dire, ma se lo venisse a sapere...» «Lo sa che è morto?» Fletcher impallidì e rimase a bocca aperta. Jeffrey lasciò passare un po' di tempo, fino a che Fletcher cominciò ad agitarsi nervosamente. «Lei ha pestato i piedi a qualcuno dentro la scuola?» «Cosa significa?» chiese Fletcher. Jeffrey stava per spiegarglielo, quando Fletcher rispose. «No, no. Non so se c'è qualcun altro che spaccia, ma a me nessuno ha mai detto niente. Io combinavo poco, non rovinavo il mercato a nessuno. Glielo assicuro.» «Nessuno è mai venuto a dirle che non gli garbava quello che faceva?» «Mai. Io stavo attento, capisce? Vendevo a una manciata di ragazzini. Mica volevo arricchirmi, mi bastava tirare su qualcosa per qualche canna.» «Solo canne?» «Qualche volta anche altra roba» ammise. Non era del tutto stupido. Sapeva che l'hascisc era un reato minore, in confronto ai narcotici pesanti. «Chi erano i suoi clienti?» «Non tanti, tre o quattro.» «William Dickson?» domandò Jeffrey. «Scooter?» «Ah, no. Scooter no. Lui è morto. Non gli vendevo io quella merda. È per questo che mi avete chiamato?» Cominciò ad agitarsi e Jeffrey gli fece segno di stare calmo. «Lo sappiamo che Scooter spacciava. Non si preoccupi di Scooter.» «Meno male!» Si mise una mano sul petto. «Mi ha fatto spaventare.» Jeffrey decise di giocare d'azzardo. «Sappiamo che lei vendeva ad Andy Rosen.»
Fletcher mosse la bocca, ma non parlò. Guardò Frank, poi Jeffrey e poi di nuovo Frank. «Niente da fare» disse alla fine. «Voglio un avvocato.» «Un avvocato cambierà completamente il tono di questo colloquio, Ron. Se lei fa venire il suo avvocato, io devo far venire il mio.» «Niente da fare, ho detto.» «Se faccio partire la denuncia, è finita. Verrà schedato. Niente patteggiamenti. Solo la galera.» «Non è giusto. È una trappola.» «Non è una trappola» disse Jeffrey. Tecnicamente, dato che Fletcher aveva chiesto un avvocato, era semplicemente una violazione dei suoi diritti. «Non stiamo cercando di incastrarla, Ron. Vogliamo solo sapere che cosa ha venduto ad Andy Rosen.» «Niente da fare, ho detto. Lo so come funziona. Se lui si era fatto una canna prima di saltar giù dal ponte, voi darete la colpa a me... voglio dire, a chiunque gli abbia venduto la roba.» Jeffrey si sporse sopra il tavolo. «Andy non è saltato giù, lo hanno spinto.» «Sul serio?» domandò Fletcher, passando lo sguardo da Jeffrey a Frank. «Mio Dio... non è giusto. Non è giusto per niente. Andy era un bravo ragazzo. Aveva dei casini, ma... cazzo. Era un bravo ragazzo.» «Che casini aveva?» «Non riusciva a smettere» disse Fletcher agitando le mani. «È quello che capita a tanti. Vogliono smettere, ma non ne sono capaci.» «E lui voleva davvero?» «Ero convinto di sì. Insomma, ero sicuro che avesse smesso.» «E poi?» Fletcher sorrise. «Oh, che ne so.» «Ha provato a comprare qualcosa da lei?» «Non aveva mai soldi» disse Fletcher. «Era uno di quelli che arrivano e attaccano la solita solfa.» Incurvò le spalle e cominciò a strofinarsi le mani. «Dammi un po' di roba, dammela adesso e martedì ti pago.» «E lei gliel'ha data.» «No, cazzo. Andy aveva cercato di fregarmi altre volte. Cercava sempre di fregare tutti.» «Si era fatto nei nemici?» Fletcher scosse la testa. «No, in realtà era una pappamolla. Mi faceva anche pena, poveretto. Cercava di fare il duro, ma bastava strapazzarlo un
po' e lui subito: "D'accordo. Eccoti i soldi. Non mi picchiare".» Si interruppe, rendendosi conto di quello che aveva detto. «Non che io lo picchiassi. Non è il mio stile. Io sostengo che bisogna essere rilassati, bisogna...» Cercò la parola. «Ecco, aprirsi. Espandere la mente.» «Giusto» disse Jeffrey, pensando che se la mente di Fletcher si espandeva ancora un po' finiva in poltiglia. «Mi è anche dispiaciuto. Gli era successo qualcosa di bello e voleva festeggiare.» Jeffrey lanciò un'occhiata a Frank. «Che cosa voleva festeggiare?» «Non l'ha detto» rispose Fletcher. «Lui non l'ha detto e io non gliel'ho chiesto. Andy era fatto così. Aveva i suoi segreti. Anche se doveva solo andare al cesso, per lui era un gran segreto, come se si inculasse James Bond.» Fece finta di ridere. «Ah, ah. Non che scopasse molto, l'amico.» «E Chuck?» domandò Jeffrey. «Che parte aveva?» Fletcher alzò le spalle. «Non voglio parlar male del...» «Allora?» Brontolò, accarezzandosi lo stomaco. «Magari si prendeva qualcosina. Sa, tipo per l'affitto e tutto il resto.» Jeffrey si appoggiò allo schienale cercando di immaginare in che modo Chuck potesse essere collegato agli altri omicidi. Gli spacciatori ammazzavano solo quelli che si mettevano in mezzo, e allora lo facevano in modo spettacolare, perché servisse da ammonimento a futuri rivali. Camuffare da suicidio un omicidio era contrario alla logica degli affari. Fletcher si stava innervosendo. «Ho bisogno di un avvocato?» domandò. «No, se collabora.» Jeffrey estrasse un blocco per gli appunti e una penna. Li passò a Fletcher e disse: «So che questo è il suo primo reato, Ron. Cercheremo di evitarle la galera, ma ci deve dire che cosa ha in casa. Se vado a vedere e trovo qualcosa di cui non mi ha parlato, dirò al giudice di darle il massimo della pena». «D'accordo» disse Fletcher. «D'accordo. Metamfetamine. Ne ho un po', sotto il materasso.» Jeffrey indicò il blocco e la penna. Fletcher cominciò a scrivere fornendo una relazione dettagliata di quello che aveva da parte. «C'è un po' di hascisc nel frigorifero, dove si tiene il burro. Come diavolo si chiama?» «Lo scomparto del burro?» suggerì Jeffrey. «Ah. Già.» Annuì e ricominciò a scrivere. Jeffrey si alzò. Aveva cose più importanti da fare che stare lì a guardar-
lo. Lasciò la porta aperta per poterlo osservare dal corridoio. Frank domandò: «Che si fa?». Jeffrey abbassò la voce: «Io vado da Jill Rosen, voglio parlarle di nuovo, forse ha qualcos'altro da dirmi». «Come va la ragazza?» Jeffrey si incupì al pensiero di Lena. «Ho parlato con Nan Thomas questa mattina. Non lo so. Forse farò un salto da lei per vedere se vuole sporgere denuncia.» «Non lo farà» disse Frank, e Jeffrey sapeva che aveva ragione. «Potresti parlarle tu.» Frank reagì come se gli avesse proposto di picchiare la madre. Da quando era stata violentata, Frank non sapeva più come comportarsi con la sua ex collega. Per certi versi Jeffrey poteva anche capirlo, ma non riusciva a immaginare che si potesse abbandonare un collega nei guai. C'erano dei poliziotti che lui non vedeva da anni, eppure, se lo chiamavano, saltava in macchina e si metteva in viaggio. «Non ti sto ordinando di andare a trovarla, ma se tu le dessi una mano...» Frank tossì per non rispondere. Ci riprovò: «Di te si fida, Frank. Forse potresti riportarla sulla retta via». «A me sembra che abbia già deciso che strada prendere,» Aveva uno sguardo gelido e Jeffrey si ricordò del giorno prima, quando aveva dovuto faticare per toglierli dalle mani Ethan White. Se lo avesse lasciato fare, White rischiava di lasciarci la pelle. «A te darà retta» insistette Jeffrey. «Potresti essere la nostra ultima occasione per convincerla.» Frank lo ignorò, come se neanche avesse parlato. Indicò Fletcher che stava già lavorando alla seconda pagina della sua confessione. «Vuoi che perquisisca il suo appartamento?» «Sì» disse Jeffrey. Non era da escludere che Fletcher fosse un bugiardo molto convincente. «Procedi e denuncialo per l'hascisc che teneva nell'armadietto. Vediamo cos'altro si becca entro la fine della giornata.» «E White? Pensi di farlo rilasciare?» Jeffrey lo aveva fatto rinchiudere a Macon, perché non si fidava di lasciarlo in balia dei suoi uomini. «Lo farò trattenere il più a lungo possibile, ma se Lena non lo denuncia, non c'è molto da fare.» «E il DNA?» «Prima di tutto ci vorrebbe almeno una settimana» gli ricordò Jeffrey. «E anche se desse risultati, non servirebbe a niente, se lei continua a sostenere di aver avuto un rapporto consensuale.»
Frank annuì rassegnato. «Vai ad Atlanta stasera?» «Sì, è probabile» disse, anche se la sera prima Sara gli aveva chiesto di lasciarla in pace per un po'. Forse sarebbe arrivato il giorno in cui glielo avrebbe chiesto in maniera definitiva. Sperava che fosse il più tardi possibile. Jeffrey andò a piedi fino alla casa dei Rosen-Keller, aveva bisogno di tempo per schiarirsi le idee. Dal ferimento di Tessa alla violenza subita da Lena, i suoi sensi di colpa si stavano accumulando in modo insostenibile. La sera prima, in cella, avrebbe tanto voluto abbracciarla e fare pace con Lena, ma aveva capito che era l'ultima cosa di cui lei aveva bisogno. La cosa più importante, ora, era scoprire chi aveva dato inizio a tutta la storia. All'ufficio della sicurezza non avevano trovato tracce di effrazione. Non c'era nessuno che ce l'avesse in modo particolare con Chuck e, a parte un consenso generalizzato sul fatto che fosse uno stronzo, nessuno riusciva a immaginare una ragione plausibile per farlo fuori. Anche se si prendeva una tangente sull'attività di Fletcher, sarebbe stato questi semmai da eliminare, non lui. La mustang rossa era ancora parcheggiata sul vialetto dove Jeffrey l'aveva vista l'ultima volta. Andò alla porta e bussò, si ficcò le mani in tasca e aspettò. Passato qualche secondo sbirciò dalla finestra, chiedendosi se Jill Rosen non avesse già lasciato il marito. Bussò un altro paio di volte, poi rinunciò. Era già a metà del vialetto quando cambiò idea. Andò sul retro per raggiungere l'appartamento di Andy. Fletcher aveva detto che Andy voleva festeggiare. Forse sarebbe riuscito a scoprire perché il ragazzo era tanto contento. Bussò, nel caso Jill Rosen stesse già impacchettando le cose di suo figlio. Girò la maniglia. La porta era aperta. «C'è nessuno?» chiamò ed entrò. Dall'atmosfera generale si intuiva che l'appartamento di Andy non era più stato toccato da quando il ragazzo era andato ad abitarvi. La moquette arancione era logora e i pannelli di pino scuro che rivestivano le pareti erano staccati in molti punti. A destra dell'entrata c'era il bagno e più in là il soggiorno. Vecchi poster di gruppi rap erano appesi a casaccio alle pareti con del nastro adesivo. Due piramidi di lattine di birra fiancheggiavano un enorme schermo televisivo. Su un cavalietto accanto alla finestra c'era il bozzetto di un'altra donna nuda. Jeffrey frugò nella cassetta dei colori sul pavimento e notò parecchi barattoli di diluente e un paio di bombolette di vernice spray. Sul fondo
trovò due tubi di colla e uno straccio usato. Lo annusò e quasi svenne per l'odore forte di prodotti chimici. «Cristo» disse. Sotto il lavello scoprì altre bombolette spray. Nel piccolo bagno ben quattro prodotti spray per la pulizia dei sanitari. O Andy era un maniaco dell'igiene, oppure sniffava, inalava colla e bombolette spray per sballarsi. Sara non avrebbe trovato traccia di quelle sostanze nel test tossicologico, a meno che non avesse indicato espressamente di cercarle. Controllò tutta la stanza in cerca di altri segni. Sparsi sul pavimento c'erano svariati videogame e molti CD senza custodia. Notò un lettore DVD, un videoregistratore e un sofisticato impianto stereo, con amplificatori a distanza. O Andy spacciava, o i suoi genitori avevano acceso un secondo mutuo per soddisfare le sue esigenze nel campo dell'elettronica. La zona letto era isolata da un paravento in legno. Il letto era disfatto e le lenzuola stazzonate. L'aria puzzava di sudore e di lozione per le mani al burro di cacao. Il paralume della lampada accanto al letto era coperto da un drappo rosso, probabilmente per creare atmosfera. I cassetti e l'armadio erano già stati perquisiti, ma Jeffrey si sentì in dovere di controllare un'altra volta. Nella cabina armadio erano appese tre o quattro camicie e una quantità di magliette traboccava dagli scaffali. Sul ripiano più alto c'erano tre paia di jeans consunti. Li tirò giù per controllare se c'era qualcosa nelle tasche e li ributtò sul ripiano. Sul pavimento della cabina erano allineate alcune scatole, contenenti scarpe da ginnastica nuove di zecca. Una era piena di fotografie e di vecchie pagelle di Andy. Jeffrey lesse le pagelle, che risultarono molto più lusinghiere di quanto erano state le sue, poi diede una scorsa alla fotografie. Jill Rosen e Brian Keller comparivano più o meno in tutte, cambiava solo lo sfondo alle loro spalle, dalle montagne russe agli scivoli di acqua, dallo Smithsonian al Grand Canyon. Andy compariva di rado e Jeffrey ne dedusse che si era eletto a fotografo di famiglia. Sul fondo della scatola c'era un pacchetto separato di fotografie in bianco e nero. Jeffrey lo prese. L'elastico che le legava era così vecchio che si spezzò tra le dita. La prima fotografia ritraeva una giovane donna seduta su una sedia a dondolo con in braccio un neonato. I capelli disegnavano un casco compatto, un taglio molto simile a quello che portava la madre di Jeffrey quando lui era alle superiori. In altre fotografie la donna giocava con il bambino. I capelli erano più lunghi e il bambino più grande. C'erano in tutto dieci fotografie e si esaurivano quando il bambino aveva circa tre anni. Jeffrey osservò con cura l'ul-
timo scatto, che mostrava la donna seduta da sola sulla sedia a dondolo. Fissava l'obiettivo e l'ovale del viso e le ciglia lunghe gli parvero familiari. Girò la foto e lesse la data. Tornò a guardare la donna, sicuro di averla già vista. Aprì il cellulare e digitò il numero dell'ufficio di Kevin Blake. Candy rispose al terzo squillo. «Ciao, tesoro» disse. Sembrava contenta di sentire la sua voce. «Stavo proprio per chiamarti.» «Sei riuscita a rintracciare Monica Patrick?» «Sì» rispose, senza troppo entusiasmo. «È morta da tre anni.» Jeffrey quasi se l'aspettava. «Be', grazie per averci provato.» «Di nulla» rispose. «Comunque credo che non sarebbe stata di grande utilità. Mi sembra di capire che stai cercando qualche irregolarità.» «Qualcosa del genere» ammise Jeffrey, continuando a guardare la fotografia come se potesse rivelargli qualcosa. «Avevo già controllato io quando ho seguito la selezione» disse. «Brian non sarà Einstein, ma è senza dubbio uno sgobbone. Fa il lavoro che nessun altro vuol fare. Tira mezzanotte per finire tutto a puntino. Adesso si chiama ritenzione anale, ma allora si chiamava etica del lavoro.» Jeffrey si infilò in tasca le fotografie e rimise a posto la scatola. «Da quello che mi ha raccontato la moglie, ho avuto l'impressione che non sia cambiato.» «Be', dovrebbe saperlo» disse Candy. «Anche se è un po' tardi per cominciare a lamentarsi.» Jeffrey chiuse la porta della cabina armadio e si guardò intorno. «Cosa intendi dire?» «È così che si sono conosciuti. Jill era la sua segretaria alla Jericho.» «Stai scherzando.» «E perché dovrei?» domandò. «Non c'è niente di male a fare la segretaria.» «No, non intendevo questo. Solo che nessuno dei due ne ha mai accennato.» «E perché avrebbero dovuto?» domandò Candy. «Non si è mai chiesto perché hanno mantenuto due cognomi diversi?» «In realtà no» rispose, Sentì sbattere la portiera di una macchina sul vialetto. Passò nel soggiorno e guardò dalla finestra. Vide Brian Keller con la testa infilata in un Impala beige, che trafficava sul sedile posteriore. Tirò fuori due scatoloni bianchi che si appoggiò sulla coscia per chiudere la
portiera. «Capo?» «Sono qui» disse Jeffrey, cercando di riprendere il filo della conversazione. «Cosa stavi dicendo?» «Che probabilmente a quest'ora avrà già divorziato.» «Divorziato da chi?» domandò Jeffrey, guardando Keller che veniva verso il garage reggendo a fatica gli scatoloni. «Dalla ragazza con cui era sposato quando ha cominciato a frequentare Jill Rosen» disse. Poi aggiunse: «Adesso non sarà più una ragazza. Eh sì, sarà anche lei sulla cinquantina. Mi domando che fine abbia fatto il figlio.» «Il figlio?» ripeté Jeffrey sentendo i passi di Keller sulle scale. «Quale figlio?» «Il figlio nato dal primo matrimonio» disse. «Mi stai ascoltando?» «Ha avuto un figlio dal primo matrimonio?» Jeffrey tirò fuori la fotografia. «Sì, te l'ho appena detto. Lui ha preso e se n'è andato. Di loro non ha mai parlato neppure a Bert. Si ricorda Bert Winger? Era il nostro preside prima che arrivasse Kevin. Non che Bert fosse tipo da scomporsi per la situazione familiare di Brian. Aveva anche lui due figli da un precedente matrimonio e, lasci che glielo dica, quei ragazzi erano le creature più adorabili che io...» «Devo andare» tagliò corto Jeffrey e chiuse il telefono. Finalmente aveva capito perché il bambino nella fotografia gli sembrava familiare. Era vero quello che si diceva. Una fotografia vale mille parole... o meglio, nel caso specifico, un viaggio gratis alla centrale di polizia, sul sedile posteriore dell'auto di pattuglia. Keller entrò e guardò sbigottito Jeffrey, rischiando di lasciar cadere gli scatoloni. «Che ci fa lei qui?» «Davo un'occhiata.» «Questo lo vedo.» «Dov'è sua moglie?» Keller impallidì. Si chinò in avanti e lasciò cadere gli scatoloni con un tonfo. «È andata da sua madre.» «Non quella» disse Jeffrey mostrando la fotografia. «L'altra.» «La mia...» «La sua prima moglie» chiarì Jeffrey, mostrandogli un'altra fotografia. «La madre di suo figlio maggiore.»
GIOVEDÌ 16 Lena arrivò in cucina trascinando i piedi. Nan era seduta al tavolo, mangiava fiocchi di cereali e leggeva il giornale. «Dormito bene?» domandò. Lena annuì e si guardò attorno in cerca della macchina per il caffè. Il bollitore sul fornello era fumante. Sul bancone c'era una tazza con accanto una bustina di tè. «Hai del caffè?» chiese con la voce ridotta a un bisbiglio. «Ho quello istantaneo» disse Nan, «ma è decaffeinato. Posso fare un salto al supermercato prima di andare al lavoro.» «Non importa» disse, anche se prevedeva l'arrivo di un mal di testa per carenza di caffeina. «Mi pare che la tua voce vada meglio stamattina.» Nan si sforzò di sorridere. «Adesso sussurri invece di gracchiare.» Lei si lasciò cadere su una sedia, si sentiva le ossa rotte per la stanchezza. Nan le aveva ceduto il letto e si era presa il divano, ma Lena non era riuscita comunque a dormire. Il letto di Nan era sistemato sotto una fila di finestre che davano sul retro. Erano basse, senza imposte né tende, e Lena non aveva chiuso occhio per paura che qualcuno potesse introdursi e aggredirla. Si era alzata parecchie volte a controllare le chiusure, cercando di vedere se fuori c'era qualcuno. Il cortile era immerso nel buio, così aveva finito col mettersi seduta contro la porta, con la pistola in grembo. Si schiarì la voce. «Devo chiederti un prestito.» «Ma certo» disse Nan. «Ti ho già detto che volevo darti la tua parte...» «Ho detto un prestito. Te li restituirò.» «D'accordo.» Nan si alzò per lavare la scodella. «Hai deciso di prenderti un po' di tempo? Qui puoi rimanere quanto vuoi.» «Devo trovare un avvocato per Ethan.» Nan lasciò cadere la scodella nel lavello. «Che razza di idea è?» «Non posso lasciarlo in prigione» rispose. Sapeva che le bande di neri lo avrebbero ucciso, appena avessero scoperto i tatuaggi. Nan tornò a sedersi al tavolo. «Se è così, non so se posso darti i soldi.» «Me li farò dare da qualcun altro» disse Lena, anche se non sapeva da chi. Nan rimase a guardarla a bocca aperta. Alla fine annuì. «D'accordo. An-
dremo alla banca quando rientro dal lavoro.» «Ti ringrazio.» «Non ho avvisato Hank.» «Non voglio che lo avvisi. Non voglio che mi veda conciata così.» «Ti ha già visto conciata così.» Lei le lanciò un'occhiata minacciosa per farle capire che non era il caso di discutere. «D'accordo» ripeté Nan, dando a Lena l'impressione che lo dicesse più che altro a se stessa. «Adesso devo andare. Se vuoi uscire, c'è una chiave appesa alla porta.» «Non ho nessuna intenzione di uscire.» «Meglio così» disse, scrutandole il collo. Lena non si era ancora guardata allo specchio, ma era sicura di non avere un bell'aspetto. Il taglio sulla guancia scottava, come se si stesse infettando. Nan disse: «Tornerò per l'ora di pranzo. La prossima settimana cominceremo l'inventario e ho delle cose da preparare». «Va bene.» «Sei sicura che non vuoi venire con me? Potresti stare in ufficio. Nessuno ti vedrà.» Scosse la testa. Non voleva più rimettere piede in quel campus. Nan prese la borsa dei libri e il mazzo di chiavi. «Oh, dimenticavo. Potrebbe passare Richard Carter.» Lena borbottò una bestemmia che Nan non aveva mai sentito in bocca a una donna. «Caspita, che lingua!» «Sa che sono qui?» «No, come facevo a sapere che saresti venuta? Gli ho dato la chiave ieri sera a cena.» «Gli hai dato la chiave di casa tua?» domandò incredula. «Ha lavorato con Sibyl per anni» si difese Nan. «Di lui si fidava.» «Che cosa vuole?» «Vedere certi suoi appunti.» «Sa leggere il Braille?» Nan giocherellò con le chiavi. «Abbiamo un apparecchio per la traduzione in biblioteca.» «Che cosa cerca?» «Lo sa Dio.» Roteò gli occhi. «Sai che fa sempre il misterioso.» Su questo Lena era d'accordo, ma le parve un comportamento strano per-
fino per Richard. Doveva scoprire cosa aveva in testa, prima che osasse anche solo avvicinarsi agli appunti di Sibyl. «Devo scappare» disse Nan. Indicò il polso ingessato. «Devi tenerlo sollevato.» Lena alzò il braccio. «Hai il mio numero al college.» Si avvicinò all'antifurto. «Puoi schiacciare l'avvio, se vuoi.» «Va bene» disse Lena, ma non aveva intenzione di inserire l'allarme. Un cucchiaio battuto su una padella poteva essere più efficace. «Ti lascia venti secondi per richiudere la porta» spiegò Nan. Poi, visto che Lena non rispondeva, schiacciò lei stessa il tasto di avvio. «Il codice è la tua data di nascita.» L'antifurto cominciò a emettere una serie di bip. «Magnifico» disse Lena. «Se hai bisogno chiama. Ti saluto.» Lena chiuse la porta col catenaccio, poi trascinò con la mano sana una sedia e la puntò sotto la maniglia, così che Richard non potesse entrare di sorpresa. Scostò la tenda e dal piccolo oblò guardò Nan che usciva in retromarcia. Si sentiva un po' stupida per essersi lasciata andare con lei la sera prima, ma in fondo era contenta di averla vicino. Dopo tanti anni, cominciava a capire cosa aveva visto Sibyl nella bibliotecaria col muso da topo. Nan Thomas non era così male, dopo tutto. Prese il cordless dal tavolino del soggiorno e tornò in cucina. Trovò le pagine gialle nel cassetto accanto al lavello e sedette al tavolo. Le pubblicità degli avvocati prendevano ben cinque pagine, tutte a colori. Le scritte esortavano le vittime di incidenti stradali e quelli che miravano a una pensione di invalidità a chiamare subito per un consiglio. Il riquadro di Buddy Conford era il più grande. La foto dello spudorato bastardo aveva un fumetto che gli usciva dalla bocca con una frase stampata a grosse lettere: «Chiamate me prima di chiamare la polizia!». Rispose al primo squillo. «Buddy Conford.» Lena si morse il labbro e il taglio si riaprì. Buddy era un bastardo incallito, convinto che tutti i poliziotti fossero disonesti e in varie occasioni aveva accusato Lena di usare metodi illegali. Le aveva mandato all'aria più di un'indagine, sfruttando futili risvolti tecnici. «Pronto?» disse Buddy. «E va bene, conto fino a tre. Uno... due...» Lena si costrinse a parlare: «Buddy». «Sì, sono io.» Dato che lei continuava a stare zitta, la esortò: «Avanti,
parla». «Sono Lena.» «Puoi ripetere? Mia cara, non ti sento.» Lei si raschiò la gola cercando di alzare la voce. «Sono Lena Adams.» L'avvocato fece un fischio sommesso. «Oh, eccoti qui. Ho sentito dire che sei finita in gattabuia.» Lei si schiacciò le labbra fino a farsi male. «Come ci si sente a stare dall'altra parte della barricata, collega?» «Vai a farti fottere.» «Delle mie tariffe discuteremo dopo» disse Buddy ridacchiando. Era deliziato, più di quanto lei avesse previsto. «Di che cosa ti accusano?» «Di niente» rispose, pensando che da un momento all'altro poteva non essere più vero. Tutto dipendeva da come Jeffrey passava la giornata. «Ti chiamo per qualcun altro.» «E chi è?» «Ethan Green. Anzi, White» si corresse. «Ethan White.» «Cos'ha combinato?» «Non lo so con precisione.» Chiuse l'elenco telefonico, stufa di vedersi davanti le pubblicità. «Ha a che fare con la violazione della libertà vigilata. È stato condannato per assegni a vuoto.» «E quanto l'hanno tenuto dentro?» «Non lo so.» «A meno che non abbiano qualcosa di preciso di cui accusarlo, dovrebbero averlo già rilasciato.» «Jeffrey non lo farà» disse Lena. Almeno di questo era sicura. Lui conosceva Ethan White solo dai rapporti d'archivio. Non aveva mai visto la parte buona di Ethan, la parte che lo spingeva a cambiare. «Tu non mi stai dicendo tutto» disse Buddy. «Come mai ha fatto rizzare le antenne al capo?» Lena passò il dito lungo le pagine dell'elenco. Si domandò quanto doveva raccontare a Buddy Conford. Si domandò se non fosse il caso di lasciar perdere. Buddy capì d'istinto cosa le passava per la testa. «Se mi racconti frottole, finirai per complicarmi il lavoro.» «Lui non ha ucciso Chuck Gaines» disse. «È innocente.» Buddy sospirò. «Dolcezza, lascia che ti dica una cosa. Tutti i miei clienti sono innocenti. Anche quelli che finiscono nel braccio della morte.» Fece un verso di disgusto. «Specialmente quelli che finiscono nel braccio della
morte.» «Questo è davvero innocente, Buddy.» «Certo. Forse dovremmo parlarne a quattr'occhi. Vuoi passare da me in ufficio?» Lena chiuse gli occhi cercando di immaginarsi fuori di casa. Non ce l'avrebbe fatta. «Ho detto qualcosa che non va?» fece Buddy. «No. Non potresti venire tu?» «Dove sei?» «A casa di Nan Thomas.» Gli diede l'indirizzo e lui le ripeté il numero. «Sarò lì tra un paio d'ore» disse. «Ti trovo?» «Sì.» «Allora ci vediamo.» Lena interruppe la comunicazione, poi fece il numero della centrale di polizia. Sapeva che Jeffrey avrebbe fatto il possibile per prolungare il fermo di Ethan, ma sapeva anche che Ethan conosceva bene i meccanismi della legge. «Polizia di Grant» rispose Frank. Lena si fece forza per rispondere. Si schiarì la voce, cercando di assumere un tono normale. «Frank? Sono Lena.» Silenzio. «Cerco Ethan.» «Davvero? Be', qui non c'è.» «Sai dove...» Frank buttò giù il ricevitore. Il colpo le risuonò nell'orecchio. «Merda» esclamò, poi fu assalita da violenti colpi di tosse, come se i polmoni volessero schizzar fuori dalla bocca. Andò al lavello e bevve un bicchiere d'acqua. Ci volle un po' prima che l'attacco passasse. Cominciò ad aprire i cassetti in cerca di uno sciroppo o di qualche emolliente, ma non trovò nulla. Nel pensile sopra il lavello scovò un flacone di Advil e ne estrasse tre pillole che si mise in bocca. Ne sfuggirono altre che cercò di catturare prima che cadessero a terra e urtò il frigorifero con il braccio infortunato. Il dolore le fece vedere le stelle, ma riuscì a calmarlo respirando lentamente. Tornò a sedersi al tavolo e cercò di immaginare dove poteva andare Ethan se lo rilasciavano. Non conosceva il suo numero al pensionato e si guardò bene dal chiamare la segreteria del college. Considerando che ave-
va passato la notte in cella, dubitava che qualcuno fosse disposto a darle una mano. Due sere prima aveva attivato la segreteria telefonica nel suo appartamento, nella speranza che Jill Rosen la richiamasse. Prese il telefono e fece il numero di casa. Dopo tre squilli la salutò la sua voce, diversa e troppo alta. Digitò il codice per sentire i messaggi. Il primo era di suo zio Hank, che voleva solo sapere come stava e si congratulava che avesse finalmente deciso di procurarsi una segreteria. Il successivo era di Nan. Con tono preoccupato le chiedeva di richiamare appena possibile. L'ultimo era di Ethan. «Lena» diceva. «Non andare via. Ti sto cercando.» Schiacciò il tasto tre per risentire i messaggi. La macchina non dava indicazioni sul giorno e l'ora delle chiamate, perché Lena aveva voluto risparmiare i dieci dollari di differenza di un apparecchio più sofisticato. Il tasto tre fece ripartire il nastro dall'inizio e dovette ascoltare un'altra volta anche Hank e Nan. «Non andare via. Ti sto cercando.» Schiacciò una terza volte il tre, si sorbì i primi due messaggi e finalmente risentì la voce di Ethan. Pigiò il telefono contro l'orecchio cercando di interpretare il tono. Sembrava arrabbiato, ma questa non era una novità. Stava ascoltando il messaggio una quarta volta, quando sentì bussare alla porta. «Richard» borbottò con un filo di voce. Si guardò e vide che aveva ancora addosso il pigiama azzurro. «Merda.» Il cordless segnalò con due bip e con l'accensione della spia rossa che la batteria si stava scaricando. Lena schiacciò subito il tasto apposito nella speranza di salvare il messaggio di Ethan. Andò in soggiorno e posò il telefono sulla centralina. Di fronte alla porta d'entrata aspettava una sagoma scura, attraverso la tenda si indovinava il contorno del corpo. «Un minuto» tentò di gridare, con la gola dolorante per lo sforzo. Cercò qualcosa per coprirsi nella camera di Nan. L'unica cosa a portata di mano era una vestaglia rosa con una fantasia di orsetti, assurda quanto il pigiama. Andò alla cabina armadio e tirò fuori una giacca che si infilò andando alla porta. «Aspetta» disse. Allontanò la sedia e aprì la porta, ma non vide nessuno. «Chi è?» chiamò Lena, facendo qualche passo sul portico. Il vialetto era vuoto. Sentì il bip dell'antifurto dentro casa e si ricordò che Nan lo aveva atti-
vato prima di andarsene. L'allarme scattava dopo venti secondi. Corse dentro e digitò il codice appena in tempo. Stava entrando in cucina, quando un rumore di vetri rotti la fermò. La tenda della finestra sopra il lavello si mosse, ma non per il vento. Comparve una mano, cercò a tentoni la maniglia. Lena restò paralizzata per qualche istante, poi fu sopraffatta dal panico e si rifugiò nel corridoio. Udì i passi in cucina. Andò a nascondersi nella seconda stanza, si infilò tra la porta aperta e la parete e sbirciò in corridoio dalla fessura tra i cardini. L'intruso si fece strada con passo deciso, facendo rimbombare il pavimento di legno. A metà corridoio si fermò, guardò a destra, poi a sinistra. Lena non riusciva a vederlo in faccia, ma notò che indossava una camicia nera e un paio di jeans. Chiuse gli occhi strizzando le palpebre e trattenne il fiato sentendolo arrivare nella stanza. Si schiacciò ancor di più contro la parete, cercando di rendersi invisibile dietro la porta. Quando trovò il coraggio di riaprire gli occhi, l'intruso le voltava le spalle. Rimase a guardarlo sbigottita. Era convinta che l'uomo fosse Ethan, ma aveva le spalle troppo larghe e i capelli troppo lunghi. La cabina armadio era stipata di scatole fino al soffitto. L'intruso cominciò a tirarle fuori una alla volta leggendo le etichette e impilandole con cura. Dopo quella che a lei parve un'eternità, l'uomo trovò quello che cercava. Inginocchiandosi di fronte alla scatola mostrò a Lena il profilo. Lei riconobbe Richard Carter. Pensò subito alla pistola nella stanza di Nan. Richard le dava le spalle. Forse, muovendosi con cautela, sarebbe riuscita a sgattaiolare via per correre a chiudersi in camera di Nan. Trattenne il fiato e scivolò fuori da dietro la porta. Stava lentamente indietreggiando verso l'uscita, quando Richard avvertì la sua presenza. Voltò la testa di scatto e balzò in piedi. Gli balenò negli occhi un lampo di rabbia, subito sostituita da un'espressione di sollievo. «Lena!» «Che ci fai qui?» domandò lei, cercando di suonare imperiosa. Ogni parola le raschiò la gola, tradendo la paura. Richard aggrottò la fronte, evidentemente confuso dalla sua reazione. «Che ti è successo?» Lena si portò una mano alla faccia ricordandosi del suo aspetto. «Sono caduta.» «Di nuovo?» domandò con un sorriso amaro. «Anche a me capitava spesso di cadere a quel modo. Te l'ho detto, so cosa si prova.»
«Non capisco di cosa stai parlando.» «Sibyl non te l'ha mai raccontato? No.» Sorrise. «Lei non rivelava i segreti. Non era il tipo.» «Che segreti?» domandò Lena. Annaspando con la mano dietro la schiena, stava cercando di trovare il vano della porta. «Segreti di famiglia.» Fece un passo verso di lei e Lena indietreggiò «È un fatto strano, in certe donne» disse. «Si sbarazzano di un uomo che le picchia e vanno a buttarsi tra le braccia di un altro che fa lo stesso. Come se nel profondo volessero proprio quello. Non è amore, se non le ammazzano di botte.» «Ma di che parli?» «Non parlo di te, naturalmente.» Fece una pausa per farle capire che diceva sul serio. «Parlo di mia madre» continuò. «O dei miei patrigni. Ne ho avuti parecchi.» Lena si allontanò di un passo, strisciando contro lo stipite. Piegò il braccio sinistro per evitare che sbattesse contro la maniglia. «Ti picchiavano?» «Tutti quanti» disse Richard. «Cominciavano con lei, e poi se la prendevano con me. Sapevano che avevo qualcosa che non andava.» «Tu non hai nulla che non va.» «Invece sì» disse Richard. «E gli altri ne accorgono. Capiscono quando tu hai bisogno di loro e sai cosa fanno? Ti puniscono per questo.» «Richard...» «E lo sai qual era la cosa più buffa? Mia madre li proteggeva sempre. Mi faceva capire senza mezzi termini che loro erano più importanti di me.» Fece una risata malinconica. «Il migliore di tutti è stato quello che se n'è andato.» «Chi?» domandò Lena. «Chi se n'è andato?» Si avvicinò di un passo. «Brian Keller.» La vide sorpresa e rise. «Non dobbiamo dirlo a nessuno.» «Perché?» «Quel verme del figlio che ha avuto dal primo matrimonio?» disse Richard. «Ha detto che se lo dicevo a qualcuno mi toglieva la parola. Mi escludeva dalla sua vita.» «Quanto mi dispiace» disse lei e arretrò di un altro passo. Ormai era sulla soglia, ma represse l'impulso a scappare. Dall'espressione di Richard capì che l'avrebbe rincorsa. «L'avvocato sarà qui tra poco. Devo andare a vestirmi.»
«Non ti muovere, Lena.» «Ma...» «Dico sul serio» la avvertì. Era a un passo da lei, aveva raddrizzato le spalle e Lena capì che poteva davvero farle del male, se solo lo avesse voluto. Era almeno il doppio di lei. Non aveva mai notato quanto fosse robusto, forse perché non lo aveva mai considerato una minaccia. Si limitò a ripetere: «L'avvocato sarà qui tra poco». Richard allungò la mano dietro di lei e accese la luce in corridoio. La guardò dalla testa ai piedi studiando tagli e lividi. «Guardati» disse. «Tu sai cosa vuol dire stare con qualcuno che ti maltratta.» Le lanciò un sorriso sornione. «Come Chuck.» «Che ne sai tu di Chuck?» «Solo che è morto» disse Richard. «E che il mondo è un posto migliore senza di lui.» Lena cercò di deglutire, ma aveva la gola troppo secca. «Cosa vuoi da me?» «Collaborazione» disse. «Possiamo aiutarci a vicenda. Possiamo aiutarci molto.» «Non vedo come.» «Tu sai cosa significa venire sempre dopo gli altri» disse. «Sibyl non me ne ha mai parlato, ma io so che era lei la prediletta di vostro zio.» Lena non rispose, ma nel profondo del cuore sentì che era la verità. «Andy è sempre stato il prediletto di Brian. È per colpa sua che se ne sono andati. Per colpa sua mi hanno abbandonato con la mamma e Kyle e Buddy e Jack e Troy e tutti gli altri stronzi che trovavano divertente sbronzarsi e massacrare di botte quel piccolo verme del figlio di Esther Carter.» «L'hai ucciso tu?» domandò Lena. «Sei stato tu a uccidere Andy?» «Andy lo ricattava. Sapeva che non era stato Brian ad avere l'idea di quel farmaco e tanto meno a condurre la ricerca. L'idea era di Sibyl. Stava per presentare la ricerca in commissione, quando è stata assassinata.» Lena guardò le scatole. «E quelli sono i suoi appunti?» «Già. L'unica prova che è roba sua.» Il viso si incupì. «Era geniale, Lena. Vorrei che tu ti rendessi conto di quanto era dotata.» Lena non riuscì a celare il risentimento. «Le hai rubato l'idea.» «Ho lavorato con lei senza interruzioni» si difese. «E quando se n'è andata, io ero l'unico a saperne qualcosa. Ero l'unico in grado di garantire che il suo lavoro andasse avanti.»
«Come hai potuto farle un torto simile?» Sapeva quanto Richard fosse legato a sua sorella. «Come hai potuto prenderti il merito del suo lavoro?» «Ero stanco, Lena. Non ne potevo più di essere l'ultima ruota del carro. Non ne potevo più di vedere Brian che faceva tutto per Andy, quando c'ero io che avrei dato la vita per lui.» Picchiò la mano sul pugno. «Ero io il figlio buono. Ero io quello che gli traduceva gli appunti di Sibyl. Ero io quello che glieli portava perché potessimo lavorare insieme e creare qualcosa che...» Si trattenne, strinse le labbra per frenare la commozione. «Andy se ne fregava di lui. A lui importava solo di farsi comprare la macchina, o l'impianto stereo, o i videogiochi. Per lui Brian era solo questo, un bancomat.» Cercò di suonare convincente. «Ci ricattava, Lena. Tutti e due. Sì, l'ho ucciso. L'ho ucciso per amore di mio padre.» Lena non poté fare a meno di chiedere: «E come?». «Lui sapeva che Brian non era in grado di escogitare niente del genere» indicò le scatole. «Brian non è un uomo di grande inventiva.» «Questo lo sanno tutti. Ma Andy che prove aveva?» Voleva arrivare al nocciolo della questione. Richard parve colpito dalla sua perspicacia. «La prima regola della ricerca scientifica. Annotare tutto.» «Brian teneva degli appunti?» «Un diario» disse Richard. «Riportava tutte le riunioni, tutte le telefonate, tutte le idee balzane che non portavano a nulla.» «Andy aveva trovato il diario?» «Non solo il diario. Tutti gli appunti, tutti i dati preliminari. Le trascrizioni della ricerca di Sibyl.» Fece una pausa, visibilmente alterato. «Brian scriveva tutto su quel dannato diario e lo lasciava in giro, a disposizione di Andy. E naturalmente la prima reazione di Andy non è stata: "Oh, papi, guarda cosa ho trovato". È stata: "Vediamo se con questo riesco a mungergli altri soldi".» «E così l'hai convinto a incontrarsi con te sul ponte.» «Sei intelligente» disse. «Sì. Gli ho detto che gli avrei portato i soldi. Sapevo che non avrebbe mai smesso. Che avrebbe continuato a chiederne sempre di più, e forse avrebbe spifferato tutto.» Sospirò, esasperato. «Andy pensava solo a se stesso e a come procurarsi il prossimo sballo. Non era affidabile. Non avrebbe fatto altro che prendere, prendere e ancora prendere. E tutto quello per cui io avevo lavorato, tutti i sacrifici che avevo fatto per aiutare mio padre, per dargli qualcosa su cui lavorare, qualcosa di cui lui poteva andare fiero - di cui noi potevamo andare fieri - rischiava di
finire in fumo per colpa di quel piccolo stronzetto ingrato.» L'odio che mise in quelle parole lasciò Lena senza fiato. Riuscì solo a immaginare cosa doveva aver provato Andy, intrappolato sul ponte insieme a Richard. «Avrei potuto farlo soffrire.» Moderò il tono perché tutto sembrasse più ragionevole. «Avrei potuto punirlo per quello che aveva fatto a me e al rapporto che volevo costruire con mio padre, ma ho deciso di essere umano.» «Sarà stato terrorizzato.» «Aveva sniffato tanta di quella merda che neanche ci vedeva» disse disgustato. «L'ho tenuto in piedi con la mano. Qui.» Portò la mano a pochi centimetri dal petto di Lena. «L'ho appoggiato alla ringhiera e gli ho iniettato della succinilcolina. Sai cos'è?» Scosse la testa, desiderando soltanto che levasse quella mano. «La usiamo in laboratorio per far secchi gli animali. Ti paralizza. Mi è caduto tra le braccia come una bambola di pezza e ha smesso di respirare. Tutto qui.» Inspirò a fondo e sbarrò gli occhi per descrivere la reazione di Andy. «Avrei potuto farlo soffrire. Avrei potuto fargli delle cose orribili, invece no.» «Scopriranno tutto, Richard.» Finalmente allontanò la mano. «Non lascia tracce.» «Lo scopriranno lo stesso.» «E chi?» «La polizia. Sanno che si tratta di omicidio.» «L'ho sentito dire» ammise, ma non sembrava affatto preoccupato. «Risaliranno fino a te.» «Come? Non hanno motivo di sospettare di me. Brian non ammetterebbe mai che sono suo figlio, e anche se Jill tirasse fuori la testa dalla sabbia, ha troppa paura per dire qualcosa.» «Paura di che?» «Paura di Brian» disse Richard, come se fosse una cosa ovvia. «Paura dei suoi pugni.» «Picchia la moglie?» domandò Lena. Non riusciva ad accettare l'idea. Jill Rosen era una donna forte. Non era tipo da lasciarsi maltrattare. «Naturale che la picchia» disse Richard. «Jill Rosen?» disse, ancora incredula. «Picchia Jill?» «La picchia da anni. Ed è rimasta con lui perché nessuno l'ha aiutata, come invece io posso aiutare te.»
«Non ho bisogno d'aiuto.» «Sì che ne hai bisogno. Cosa credi, che lui sia disposto a lasciarti andare?» «Di chi stai parlando?» «Lo sai. È difficile liberarsi» disse mettendosi la mano sul petto. «Non ce la puoi fare da sola.» Lei scrollò la testa. «Lascia che me ne occupi io.» «No.» Fece un passo indietro. «Sembrerà un incidente» disse. Eliminò lo spazio che li separava. «Certo, finora hai fatto un ottimo lavoro.» «Potresti darmi qualche consiglio.» Alzò la mano per non farsi interrompere. «Solo un piccolo consiglio. Possiamo darci una mano a risolvere la situazione.» «E come vorresti aiutarmi?» «Sbarazzandomi di lui» disse. Forse lesse qualcosa nel suo sguardo, perché sorrise tristemente. «Lo sai anche tu, non è vero? Lo sai che è l'unico modo per farlo uscire dalla tua vita.» Lena lo guardò. «Perché hai ucciso Ellen Schaffer?» «Lena.» «Dimmi perché. Ho bisogno di sapere perché.» Richard tergiversò, poi disse. «Mi ha visto in faccia quando ero nel bosco. Mi guardava, mentre chiamava la polizia. Sapevo che era solo questione di tempo e poi avrebbe spifferato tutto.» «E Scooter?» «Perché continui con le domande?» le chiese. «Vuoi arrestarmi?» «Sappiamo entrambi che non posso farlo.» «Davvero?» «Guardami» disse allargando le braccia per costringerlo a osservare il suo corpo malconcio. «Sai meglio di me in che guaio mi sono cacciata. Credi che mi ascolterebbero?» Appoggiò la mano sul collo livido. «Non stanno neanche a sentire quello che dico.» Lui fece un mezzo sorriso e scrollò il capo, come a dire che non si lasciava infinocchiare. «Devo saperlo, Richard. Devo sapere tutto per potermi fidare di te.» Le lanciò un'occhiata guardinga, indeciso se continuare o no. Alla fine disse: «Scooter non è roba mia». «Sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro.» Roteò gli occhi e per un attimo ridiventò il Richard di un tempo. «Mi hanno detto che si strozzava per godere di più. Chi è tanto scemo da fare ancora questi giochini?» Lena non abbassò la guardia. «E Tessa Linton?» «Aveva quel sacchetto» disse, improvvisamente agitato. «Raccoglieva della roba su quella collina. Io non riuscivo a trovare il ciondolo. Volevo quel ciondolo. Era un simbolo.» «La stella di Davide?» Si ricordò di come Jill l'aveva stretta, quando Jeffrey gliel'aveva mostrata. Le sembrava passata una vita da quel giorno. «Ne avevano una ciascuno. Le aveva comperate Jill l'anno scorso, una per Brian e una per Andy. Padre e figlio.» Sospirò. «Brian la teneva sempre al collo.» «Hai accoltellato Tessa Linton perché pensavi che avesse trovato la stella?» «Deve avermi riconosciuto. Deve avere intuito qualcosa. Sapeva perché ero lì. Sapeva che avevo ucciso Andy.» Si interruppe, come se volesse riordinare le idee. «Si è messa a strillare. Ho dovuto farla tacere.» Si asciugò la faccia con le mani, stava perdendo il controllo. «Oh Gesù. È stata dura.» Abbassò gli occhi tormentato dal rimorso. «Non riesco a credere di averlo fatto. È stato orribile. Ero rimasto lì per vedere come si mettevano le cose e...» lasciò morire la voce e rimase in silenzio, come se si aspettasse di essere rincuorato. «Cosa devo fare?» domandò all'improvviso. Lena non rispose. «Come vuoi che mi sbarazzi di lui?» domandò di nuovo. «Posso farlo soffrire, Lena. Posso fargli del male, come lui ha fatto del male a te.» Lena non poteva rispondere. Si guardò le mani, ripensò a Ethan nel caffè e alla rabbia che aveva provato quando le aveva stritolato il polso. Aveva giurato di fargliela pagare, di vendicarsi e di farlo soffrire. Richard toccò il gesso con il dito. «Ho avuto anch'io la mia parte, da piccolo.» Lena si strofinò il braccio. La cicatrice sulla mano era ancora rossa, c'era del sangue rappreso sui bordi. Mentre Richard le illustrava il suo piano cominciò a tormentarla. «Tu non dovrai fare niente» disse lui. «Penserò io a tutto. Ho già aiutato altre donne come te, Lena. Basta che tu dica una parola e io lo toglierò di torno.» Sentiva la cicatrice cedere sotto le unghie, la pelle staccarsi come il bol-
lino di un'arancia. «E come?» sussurrò, giocherellando con il lembo di pelle. «Come pensi di fare?» Anche Richard stava guardando le sue mani. «Smetterai di farti del male?» Lei strinse la mano destra attorno al gesso e lo abbassò davanti alla vita, scosse la testa e disse: «Devo solo farlo uscire dalla mia vita. Devo solo liberarmene». «Oh, Lena.» Le prese il mento fra le dita e cercò di farle alzare gli occhi. Quando vide che non si muoveva, le mise le mani sulle spalle e avvicinò il viso al suo. «Ce la faremo» disse. «Te lo prometto.» Lena strinse il gesso e con tutta la forza che aveva gli sferrò un colpo sotto il mento. Il gesso si ruppe contro la mascella facendo affondare i denti nella lingua e la testa scattò all'indietro come una frusta. Richard barcollò, arretrò, agitò le braccia e andò a sbattere contro lo stipite. Lena si lanciò nel corridoio, raggiunse la stanza di Nan, si chiuse la porta alle spalle e riuscì a tirare il vecchio catenaccio prima che l'altro avesse il tempo di abbassare la maniglia. La pistola di Nan era sotto il letto. Lena si buttò in ginocchio e tirò fuori la scatola. Usando tutte e due le mani inserì il caricatore e levò la sicura prima che lui forzasse la porta. Quando questa si spalancò, Richard rovinò dentro con tale impeto da travolgere Lena, facendo volare la pistola. Lei strisciò verso l'arma, ma lui la anticipò, puntandogliela contro. Lena si alzò lentamente e levò le mani in alto. «Mettiti sul letto» ordinò Richard, col sangue e la saliva che gli colavano dalla bocca. La lingua ferita gli impastava le parole e il respiro era affannato, come se gli mancasse l'aria. Si portò la mano libera alla gola dando un colpo di tosse. «Avrei potuto aiutarti, stupida sgualdrina.» Lena rimase immobile. Nonostante la ferita alla lingua, lui riuscì a gridare: «Mettiti su quel fottuto letto!». Lena non si mosse, lui alzò la mano minacciando di colpirla. Allora ubbidì, si sdraiò sulla schiena con la testa sul cuscino. Richard montò sul letto e si mise a cavalcioni sopra di lei per tenerla ferma. Si asciugò il sangue con la manica. «Dammi la mano.» «Non farlo.» «Non posso tramortirti» disse, e Lena capì che, con lei sveglia, tutto diventava più difficile. «Metti la mano sulla pistola.» «Non dirai sul serio.»
«Metti quella dannata mano sulla pistola!» Poiché lei si rifiutava, Richard le afferrò la mano e la costrinse a stringere la pistola. Lena cercò di scostare l'arma, ma lui aveva il vantaggio del peso. Le schiacciò la bocca della canna contro la tempia. «Ti prego, non farlo» ripeté lei. Richard esitò un secondo poi tirò il grilletto. Piovvero schegge di vetro, Lena si prese la testa fra le mani per proteggersi, mentre la finestra sopra di lei esplodeva. Richard era crollato sul pavimento. La finestra era finita in frantumi e lui giaceva a terra. Lei riusciva a vedere solo lo spazio vuoto sopra la sua testa, nel suo campo visivo c'era il ventilatore appeso al soffitto. Si tirò su per guardarlo. Aveva un grosso foro sul petto e attorno si allargava una pozza di sangue. Lena girò la testa e si guardò alle spalle. Fuori dalla finestra in frantumi c'era Frank, con la pistola ancora puntata su Richard. Una precauzione inutile, perché l'uomo era morto. 17 Sara era seduta alla scrivania di Mason, reggeva il telefono tra la spalla e l'orecchio e ascoltava Jeffrey che raccontava quello che era successo a casa di Nan Thomas. «Quando Lena ha chiamato la centrale, Frank ha riagganciato. Poi si è sentito in colpa e ha deciso di andare a parlarle» spiegò Jeffrey. «Arrivato lì, ha sentito Richard gridare e si è precipitato sul retro.» «Lena sta bene?» «Sì» rispose, ma lei capì dal tono della voce che non era vero. «Se Richard avesse saputo caricare una pistola a quest'ora sarebbe morta.» Sara si appoggiò allo schienale e cercò di riordinare i particolari che lui le aveva raccontato. «Brian Keller ha detto niente?» «Niente» disse Jeffrey con un tono disgustato. «Era in stato di fermo per l'interrogatorio e un'ora dopo è arrivata la moglie con l'avvocato.» «La moglie?» chiese Sara. Non riusciva a credere che l'autolesionismo potesse spingersi a tanto. «Già» fece Jeffrey, altrettanto sconcertato. «Non posso trattenerlo senza un capo d'accusa.» «Ha rubato la ricerca a Sibyl.» «Ho un incontro col procuratore distrettuale in mattinata, per vedere di
cosa lo possiamo accusare. Credo che approderemo al furto, forse alla truffa. Non sarà semplice, ma in un modo o nell'altro lo manderemo dentro. Deve pagare per quello che ha fatto.» Sbuffò. «Io mi intendo di poliziotti e rapinatori. Non ho dimestichezza con questi reati da intellettuali.» «Non puoi provare che ha avuto un ruolo di complice negli omicidi?» «Questo è il punto. Non credo che l'abbia avuto. A quel che dice Lena, Richard ha confessato tutto: Andy, Ellen Schaffer, Chuck.» «Perché Chuck?» «Richard non l'ha spiegato. Lui voleva soltanto tirarla dalla sua parte. Credo che gli piacesse. Forse era convinto di poterla aiutare.» Sara pensò che Richard non era stato il primo a cercare di aiutare Lena, fallendo in modo plateale. Domandò: «E William Dickson?». «Morte accidentale, a meno che tu non trovi il modo di appiopparlo a Richard.» «Direi di no. E non ha mai tirato in ballo Keller?» «Mai.» «Perché allora si era inventato quella storia sulla relazione con la studentessa?» Jeffrey sospirò di nuovo, chiaramente esasperato. «Per intorbidare le acque, suppongo. O forse sperava che Brian gli chiedesse aiuto. Chi lo sa.» «La succinilcolina viene tenuta sotto chiave in laboratorio. Dovrebbe esserci un registro che riporta tutte le dosi prelevate. Potresti controllare e vedere chi aveva l'autorizzazione a farne uso.» «Me ne occuperò» disse. «Ma se erano entrambi autorizzati, non sarà facile dimostrare qualcosa.» Si interruppe. «Secondo me, se Keller avesse avuto intenzione di uccidere uno dei suoi figli, la scelta sarebbe caduta su Richard, e sicuramente non avrebbe usato una siringa.» «È un modo orribile di morire.» Immaginò gli ultimi istanti di vita di Andy Rosen. «Prima si paralizzano gli arti, poi il cuore e i polmoni. Non agisce sul cervello, quindi fino all'ultimo minuto il ragazzo ha avuto piena coscienza di quello che gli stava capitando.» «Quanto tempo impiega ad agire?» «Dipende dalla dose. Venti, trenta secondi.» «Gesù.» «Lo so. Ed è quasi impossibile rintracciarla sul cadavere. Il corpo la assimila troppo in fretta. Fino a cinque anni fa non esisteva neppure il test per rilevarla.» «Costerà un sacco.»
«Se riesci a dimostrare che Keller ha messo le mani sulla succinilcolina, troverò i fondi per eseguire il test. A costo di farlo a mie spese, se necessario.» «Speriamo» disse Jeffrey, ma non pareva troppo fiducioso. «So che darai la notizia ai tuoi genitori, puoi aspettare che arrivi anch'io, prima di parlarne con Tessa?» «Va bene» rispose Sara, dopo un attimo di esitazione. Jeffrey prese tempo prima di rispondere: «Sai che ti dico? In realtà ho un sacco di cose da fare. Lascia stare, ci vediamo un'altra volta». «Jeffrey...» «No» disse. «Rimani con la tua famiglia. È quello che vuoi in questo momento.» «Questo non significa che...» «Andiamo, Sara» disse pieno di amarezza. «Dove vogliamo arrivare?» «Non lo so. Io...» Cercò qualcosa da dire, ma non trovò le parole. «Ti ho detto che ho bisogno di tempo.» «Il tempo non cambierà nulla. Se non riusciamo a venirne a capo adesso, se pesa ancora quello che ho fatto cinque anni fa...» «Vorresti dire che esagero?» «No, non è questo» disse. «E non sto cercando di forzarti. Solo che...» Sospirò. «Io ti amo, Sara. Sono stufo di vederti scappare via la mattina, sono stufo di giocare a rimpiattino, con te che entri e esci dalla mia vita. Voglio stare con te. Ti voglio sposare.» «Mi vuoi sposare?» Rise, come se le avesse chiesto di fare quattro passi sulla luna. «Non vedo perché ti sorprendi tanto.» «Non sono sorpresa. È che...» Di nuovo non trovò le parole. «Jeff, siamo già stati sposati. E non è stato un gran successo.» «Già. C'ero anch'io, ricordi?» «Non potremmo lasciare le cose come stanno?» «Voglio qualcosa di più, Sara. Dopo una giornata di merda al lavoro, voglio tornare a casa e trovare te, che mi chiedi cosa c'è per cena. Voglio inciampare nella scodella di Bubba nel cuore della notte. Voglio svegliarmi la mattina e sentirti imprecare, perché ho lasciato la fondina appesa alla porta.» Suo malgrado lei sorrise. «Detto così sembra romantico.» «Io ti amo.» «Lo so che mi ami» disse, e per quanto anche lei lo amasse, non trovò il
coraggio di dirlo. «Quando pensi di arrivare?» «Lasciamo perdere.» «Voglio che sia tu a dirglielo.» Jeffrey non rispose, allora aggiunse: «Avranno delle domande a cui io non saprei rispondere». «Sai esattamente quello che so io.» «Non credo di riuscirci, da sola. Non ne ho la forza in questo momento.» Jeffrey tergiversò e alla fine disse: «Tenuto conto del traffico, ci vorranno circa quattro ore e mezza». «D'accordo.» Sara gli diede il numero della camera di Tessa. Stava per chiudere, ma poi disse: «Ehi, Jeff?». «Sì?» Adesso che l'aveva trattenuto, non sapeva più cosa dire. «Niente. Ci vediamo dopo.» Lui le lasciò qualche secondo sperando che aggiungesse qualcosa, poi si rassegnò. «Va bene» disse. «Ci vediamo lì.» Quando Sara riappese, si sentiva come se avesse camminato su una fune sopra un lago infestato dagli alligatori. Erano successe tante cose in quella settimana, che non riusciva neppure ad assimilare quello che le aveva detto Jeffrey. Una parte di lei avrebbe voluto prendere il telefono per dirgli che le dispiaceva e che lo amava, l'altra avrebbe voluto richiamarlo per dirgli che se ne stesse a casa. Fuori dalla porta sentiva gli altoparlanti che davano direttive e convocavano i medici. Sagome indistinte passavano dietro il vetro, comparivano per un attimo come luci intermittenti e scivolavano via, verso i loro compiti. Le sembrava che fosse passato un secolo da quando aveva fatto l'internato. Neppure da giovane aveva avuto una vita semplice, ma non poteva fare a meno di pensare a quei giorni con nostalgia. Imparare a fare il chirurgo e trattare casi critici che esigevano tutta la sua concentrazione era stato intossicante quanto l'eroina. Le bastava pensare al lavoro al Grady per provare una strana eccitazione. A un certo punto della sua vita l'ospedale era diventato più importante dell'aria. Perfino la sua famiglia impallidiva al confronto. Decidere di ritornare a Grant le era sembrato semplice. Voleva stare con la famiglia, aveva bisogno di ritrovare le radici, di tornare a essere una figlia e una sorella. Era stato gratificante assumere il ruolo di pediatra e restituire qualcosa alla città che le aveva dato tanto nell'infanzia. Eppure, da quando aveva lasciato Atlanta, non c'era settimana in cui non si domandasse come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasta lì. Fino a quel momento
non si era resa conto di quanto le mancasse. Guardò l'ufficio di Mason e si chiese che effetto le avrebbe fatto tornare a lavorare con lui. Mason era stato un interno incredibilmente scrupoloso e questo lo aveva reso un ottimo chirurgo. A differenza di Sara, lasciava che questo tratto invadesse anche la sua vita privata. Era il tipo di uomo che non riusciva a lasciare un piatto sporco nel lavello, o un carico di biancheria nell'essiccatore. La prima volta che era venuto nel suo appartamento, era rimasto sconvolto alla vista della cesta piena di capi non piegati, abbandonata sul tavolo di cucina da due settimane. Quando Sara si era svegliata la mattina dopo, Mason aveva piegato tutto prima di uscire per il turno delle cinque. Un colpo alla porta la risvegliò dalle fantasticherie. «Avanti» disse alzandosi. Mason James aprì la porta reggendo in una mano la scatola della pizza e nell'altra due lattine di Coca-Cola. «Ho pensato che dovevi essere affamata» disse. «Come sempre» rispose prendendo le lattine. Mason stese dei tovaglioli di carta sul tavolino tenendo sollevata la pizza. «Ne ho portata una anche ai tuoi genitori.» «Sei un tesoro» disse Sara, posando le lattine. Mason le passò la scatola con la pizza e mise due tovagliolini sotto le lattine. «Quando lavoravi qui adoravi questa pizzeria.» «Scroomies» lesse dal coperchio. «Dici sul serio?» «Andavi sempre lì.» Si fregò le mani. «E voilà.» Sara abbassò lo sguardo. Aveva sistemato i tovaglioli in un quadrato perfetto. Gli passò la scatola. «La lascio posare a te, non vorrei fare pasticci.» Rise. «Certe cose non cambiano mai.» «No.» «Tua sorella fa progressi» disse lui, posando la scatola al centro del quadrato. «Cammina molto meglio di ieri.» Sara prese posto sul divano. «Credo che mia madre la incoraggi non poco.» «Me la posso immaginare.» Spiegò un tovagliolo e glielo mise sulle ginocchia. «Hai ricevuto i fiori?» «Sì» disse. «Ti ringrazio. Erano stupendi.» Aprì le lattine. «Solo per farti capire che ti penso.» Sara giocherellò col tovagliolo. Non sapeva cosa dire.
«Sara» cominciò Mason, stendendo il braccio sullo schienale dietro le sue spalle. «Io non ho mai smesso di amarti.» Si sentì arrossire per l'imbarazzo, ma prima che avesse il tempo di rispondere lui si chinò e la baciò. Sorprendendo se stessa, Sara rispose istintivamente al bacio. Mason si spostò più vicino e la sospinse dolcemente sui cuscini fino anche non le fu sopra. Fece scivolare la mano sotto la camicetta e si strinse a lei. Sara lo abbracciò, ma al posto della serena euforia che di solito provava a quel punto, la colpì il pensiero che la persona che teneva tra le braccia non era Jeffrey. «Aspetta» disse, fermandogli la mano. Lui si tirò su di scatto, tanto che picchiò la testa sul muro. «Ti chiedo scusa.» «No» disse lei. Si risistemò la camicetta sentendosi come un'adolescente colta in fallo nelle ultime file di un cinema. «Sono io che devo chiedere scusa.» «Non ti devi affatto scusare» disse, appoggiando la caviglia sul ginocchio. «No, io...» «Non dovevo farlo.» «Non te la prendere. Io ho risposto al bacio.» «Me ne sono accorto» disse. Sospirò per riprendersi. «Dio, quanto ti desidero.» Lei deglutì, aveva troppa saliva in bocca. «Sei magnifica, Sara. Temevo che te lo fossi dimenticato.» «Mason...» «Sei semplicemente straordinaria.» Si sentì arrossire. Lui allungò la mano e le sistemò una ciocca dietro l'orecchio. «Mason» ripeté lei, prendendogli la mano. Lui si protese per baciarla, ma Sara allontanò la testa. Mason si ritrasse con la stessa rapidità di prima. Sara disse: «Mi dispiace. Io...». «Non devi spiegare nulla.» «Invece sì, Mason. Voglio dire che...» «Davvero, non è necessario.» «Smettila di dirmi che non devo parlare.» Tentò una spiegazione. «Io sono stata solo con Jeffrey. Voglio dire, da quando ho lasciato Atlanta.» Si scostò, temendo che lui potesse baciarla un'altra volta, ma soprattutto, che
a lei venisse voglia di restituirgli il bacio. «Da allora c'è stato solo lui.» «Una specie di abitudine.» «Può darsi» disse. Gli prese la mano. «Può darsi... non lo so. Ma non è questo il modo di liberarsene.» Mason si guardò le mani. Lei disse: «Mi ha tradito». «Allora è un idiota.» «Sì» ammise. «A volte lo è, ma quello che voglio dire è che so come ci si sente, e non voglio ricambiarlo allo stesso modo.» «Rendere la pariglia è lecito.» «Non è un gioco. E tu sei ancora sposato» gli ricordò. «Hai ragione.» Non si aspettava una capitolazione tanto repentina, ma Sara era abituata alla cocciutaggine di Jeffrey e non alla compostezza flemmatica di Mason. Adesso capiva perché era stato così facile lasciarselo alle spalle, insieme a tutto il resto. Non era scattata la scintilla. Mason non aveva mai dovuto lottare per qualcosa nella vita. Le venne perfino il dubbio che anche in quel momento la volesse solo perché era a portata di mano. Disse: «Vado a vedere come sta Tess». «Ti posso telefonare?» L'avesse detto in un altro modo, forse avrebbe acconsentito. Invece disse: «Direi di no». «D'accordo» convenne con uno dei suoi sorrisi concilianti. Sara si alzò per andarsene e lui non aggiunse altro finché non raggiunse la porta. «Sara?» Aspettò che si voltasse. Era ancora seduto sul divano, col braccio allungato sullo schienale e le gambe accavallate. «Di' ai tuoi che li saluto tanto.» «Non mancherò» rispose e chiuse la porta. Sara era in piedi di fronte alla finestra della stanza di sua sorella e guardava il traffico che procedeva lento sulla tangenziale. In quel momento il respiro regolare di Tessa era la musica più dolce che avesse mai sentito. Ogni volta che si voltava a guardarla doveva resistere all'impulso di infilarsi nel letto con lei, solo per abbracciarla e farla sentire al sicuro. Entrò Cathy portando due tazze di tè. A Sara tornò in mente la scena di fronte alla gelateria, poco meno di una settimana prima. Sua sorella era stata insopportabile. Provò una tale nostalgia per quel momento, da sentir-
ne quasi il sapore. Domandò: «Papà sta bene?». Il padre era rimasto molto colpito dalle rivelazioni su Richard Carter. Se n'era andato prima ancora che la figlia finisse di raccontare tutti i particolari. «È in fondo al corridoio» disse Cathy evitando di entrare nel merito. Sara bevve un sorso di tè con una smorfia, «È forte» ammise Cathy. «Jeffrey sarà qui tra poco?» «Dovrebbe.» Cathy accarezzò Tessa sui capelli. «Mi ricordo quando eravate piccole e io vi guardavo dormire.» Di solito a Sara piaceva ascoltare la madre che raccontava della loro infanzia, ma adesso la percezione del prima e del poi era così netta, che la metteva a disagio. Cathy domandò: «Come sta Jeffrey?». Sara bevve il tè amaro. «Bene.» «Non sarà stato facile neppure per lui» disse, prendendo dalla borsa un tubo di crema per le mani. «È stato come un fratello maggiore per Tessa.» Sara non ci aveva pensato in quei giorni, ma era la verità. Nel bosco lei era terrorizzata, ma anche Jeffrey era rimasto sconvolto. «Comincio a capire perché non riesci a serbargli rancore» disse Cathy, spalmando la crema sulla mano di Tessa. «Ti ricordi quella volta che ha guidato fino in Florida per andare a prenderla?» Sara rise, sorpresa di avere dimenticato quella storia. Anni prima, durante le vacanze di primavera, Tessa aveva fatto un viaggio e un camion di birra che era stato rubato le aveva sfasciato la macchina. Jeffrey aveva guidato nel cuore della notte fino a Panama City per parlare con i poliziotti del posto e riportarla a casa. «Non voleva che ci andasse papà» disse Cathy. «Non ha sentito ragioni.» «Papà non avrebbe fatto che ripetere: "Te l'avevo detto" per tutto il viaggio di ritorno» le ricordò Sara. Eddie aveva sostenuto che solo un idiota sarebbe andato con una MG decappottabile fino in Florida, tra ventimila sbarbati ubriachi. «Be', aveva ragione» disse Cathy, spalmando la crema sul braccio di Tessa. Sara sorrise e non fece commenti. «Mi fa piacere che venga» disse Cathy, più a se stessa che a Sara. «È importante che sia lui a dire a Tessa che è tutto finito.»
Sara sapeva che la madre non poteva immaginare quel che era successo tra lei e Mason James, ma si sentì ugualmente scoperta. «Che cosa'hai?» domandò Cathy, messa in allerta dal suo intuito. Sara confessò senza reticenze. Aveva troppo bisogno di levarsi quel peso di dosso. «Ho baciato Mason.» Cathy non si scompose. «Solo baciato?» «Mamma!» Si finse indispettita per mascherare l'imbarazzo. «Dimmi, allora.» Spremette dell'altra crema sul palmo e sfregò le mani per riscaldarla. «Com'è stato?» «Piacevole all'inizio, poi...» Portò le mani sulle guance accaldate. «Poi?» «Poi non molto» ammise. «Continuavo a pensare a Jeffrey.» «Questo dovrebbe dirti qualcosa.» «Che cosa?» Voleva tanto che sua madre le suggerisse cosa fare. «Sara» sospirò Cathy. «L'intelligenza è sempre stata la tua rovina.» «Magnifico. Lo dirò ai miei pazienti.» «Non fare l'arrogante con me» la redarguì Cathy a voce bassa, come faceva sempre quando si innervosiva. «Sei così irrequieta ultimamente, sono stufa di vederti smaniare per tutto quello che hai perso andandotene da qui.» «Ti sbagli» disse, ma non era mai stata capace di mentire, specialmente con sua madre. «Hai una vita ricca adesso, tante persone che ti vogliono bene e che ti rispettano. Che cosa ti manca?» Qualche ora prima Sara avrebbe potuto fare un elenco, ma in quel momento riuscì soltanto a scrollare la testa. «Faresti bene a ricordare che alla fine della giornata, nonostante il bel cervello che hai nella testa, è il cuore a reclamare un po' di attenzione.» Le lanciò un'occhiata. «E tu sai che cosa vuole il tuo cuore, non è vero?» Sara annuì, anche se in tutta sincerità non ne era sicura. «Non è vero?» insistette Cathy. «Sì, mamma» rispose, e all'improvviso le parve di saperlo davvero. «Bene» disse, strizzando altra crema sulla mano. «Adesso vai a parlare con tuo padre.» Sara diede un bacio a Tessa, poi a sua madre, e uscì. Vide il padre in fondo al corridoio. Era in piedi di fronte alla finestra e guardava il traffico come aveva fatto lei nella camera di Tessa. Aveva ancora le spalle incurvate, ma la maglietta bianca e i jeans logori lo identificavano in pieno. Sara
era talmente simile a suo padre in certi aspetti, che la cosa la spaventava. Disse: «Ehi, papà». Lui non la guardò, ma Sara sentì la sua sofferenza come se fosse tangibile. Eddie Linton era un uomo che si definiva attraverso la famiglia. Il suo mondo erano la moglie e le figlie, e Sara si era talmente concentrata sul proprio dolore, che non si era accorta dello strazio che lui aveva dovuto sopportare. Eddie aveva dedicato tutte le sue energie a costruire un nido sicuro e sereno per le sue bambine e, se in quella settimana si era mostrato reticente con lei, non era certo perché l'accusava, ma perché accusava se stesso. Eddie indicò la finestra. «Vedi quel tipo che sta cambiando la ruota?» Sara notò il camioncino verde limone delle squadre di soccorso organizzate dalla città di Atlanta per facilitare lo scorrimento del traffico. Intervenivano per cambiare una ruota, per far ripartire una macchina o per rifornire di benzina gli sprovveduti bloccati sulla strada. In una città dove i pendolari affrontavano in media due ore di tragitto, e dove era perfettamente legale viaggiare con una pistola nascosta nel cruscotto, quel servizio rappresentava un ottimo investimento per i soldi dei contribuenti. «Vicino al camioncino?» «È un servizio gratuito. Non chiedono un centesimo.» «Mica male, no?» «Certo.» Sospirò. «Tessie dorme ancora?» «Sì.» «Jeffrey sta arrivando?» «Se non vuoi che...» «No» la interruppe Eddie con decisione. «È giusto che sia qui.» Sara si sentì il cuore leggero, come se le avessero levato un grosso peso. Disse: «La mamma mi stava ricordando di quella volta che ha guidato fino in Florida per riportare a casa Tess». «Io l'avevo detto a tua sorella di non andare con quella macchina.» Lei guardò il traffico per nascondere il sorriso. Eddie si schiarì ripetutamente la voce, come se non avesse già la piena attenzione di sua figlia. «Un tipo entra in un bar con un tordo sulla spalla.» «E va bene...» disse lei, trascinando le parole. «Il barista fa: "Come si chiama il tordo?".» Eddie fece una pausa. «Il tipo fa: "Minuscolo". Il barista si gratta la testa.» Eddie si grattò la testa. «Alla fine il barista domanda: "Perché minuscolo?".» Altra pausa ad effetto. «Il tipo risponde: "Perché è il mio uccello".»
Sara ripeté la battuta ad alta voce e finalmente capì. Rise tanto che le vennero le lacrime agli occhi. Eddie si limitò a sorridere e si illuminò in viso, felice di vederla allegra. «Mio Dio, papà» disse Sara asciugandosi gli occhi. «Era pessima.» «Sì» ammise, passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola a sé. «Era davvero pessima.» VENERDÌ 18 Lena era seduta al centro della stanza, circondata da scatoloni che contenevano tutto quello che possedeva al mondo. Buona parte di quella roba sarebbe finita da zio Hank, in attesa che lei trovasse un nuovo lavoro. Il letto andava a casa di Nan, avrebbe dormito nella seconda stanza fino a che non avesse racimolato abbastanza soldi per poter vivere da sola. Il college le aveva offerto il lavoro di Chuck ma, date le circostanze, non aveva intenzione di rimettere piede in quell'ufficio. Quel bastardo di Kevin Blake le aveva rifiutato l'indennità di buonuscita. La sua unica consolazione era che il consiglio di facoltà aveva annunciato la sostituzione di Blake entro breve tempo. La porta cigolò ed entrò Ethan. La serratura non era stata ancora riparata da quando Jeffrey l'aveva forzata. Quando la vide sorrise: «Ti sei raccolta i capelli». Lena fu tentata di scioglierli. «Credevo che avessi deciso di andartene.» Ethan alzò le spalle. «Non mi è mai stato facile lasciare i posti in cui non sono desiderato.» Lei accennò un sorriso. «In questo momento, poi» aggiunse, «con l'università sotto inchiesta, il trasferimento diventa problematico.» «Troveranno una soluzione, vedrai» disse Lena. Aveva lavorato al college solo per qualche mese, ma sapeva come andava a finire con gli scandali. Si decidevano sanzioni e si faceva un gran baccano sui giornali per un po', poi nel giro di un anno tutto veniva messo a tacere, nessuno sganciava un soldo, e qualche altro docente accoltellava il collega alla schiena - letteralmente o metaforicamente - per procurarsi soldi e celebrità. «Allora» cominciò Ethan. «Immagino che avrai chiarito tutto con la polizia.»
Lena rispose con un'alzata di spalle, perché non aveva idea di come stessero le cose con Jeffrey. Dopo averla interrogata su Richard Carter le aveva raccomandato di presentarsi alla centrale lunedì, di primo mattino. Non si poteva prevedere cosa le avrebbe detto. Ethan domandò: «Hanno scoperto qualcosa riguardo alle mutandine?». «Jeffrey si era sbagliato. Succede.» Alzò di nuovo le spalle. «Rosen era un maniaco. Le avrà rubate a qualche ragazza.» Se lo immaginò ad annusare qualcosa di più della colla, in un solitario venerdì sera. Quanto al libro, Lena doveva averlo letto in una delle sue serate in biblioteca, quando cercava un po' di pace, in attesa che arrivasse l'ora di tornare nella sua topaia a cercare di dormire. Ethan si appoggiò allo stipite della porta. «Volevo farti sapere che non parto» disse. «Nel caso tu abbia bisogno di me.» «Perché vuoi rimanere?» «Non lo so, Lena. Qui sto davvero cercando di cambiare.» Lei si guardò le mani, si sentiva un mostro. «Capisco.» «Voglio continuare a vederti» disse. «Ma in modo diverso.» «Certo» «Tu potresti trasferirti e ricominciare da capo.» Dopo un po' aggiunse: «Magari, quando mi danno il trasferimento, potremmo andare via insieme». «Io non posso andarmene da qui» disse, pur sapendo che Ethan non poteva capire. Lui aveva lasciato la famiglia e la sua vita di un tempo senza guardarsi indietro. Lena non poteva fare lo stesso, non poteva abbandonare Sibyl. Lui disse: «Se cambi parere...». «Nan sarà qui tra poco. Ti conviene andare.» «Hai ragione» convenne, capendo la situazione. «Ci vediamo. D'accordo?» Non rispose. Le parole rimasero sospese nell'aria come una nebbia. Finalmente Lena lo guardò, passò lo sguardo dai jeans larghi alla maglietta nera, all'incisivo scheggiato, agli occhi. Quegli occhi azzurri. «Va bene. Ci vediamo.» Lui chiuse la porta, ma la serratura non scattò. Lena si alzò e trascinò una sedia sotto la maniglia per mettersi al sicuro. Non avrebbe mai più compiuto quel gesto senza pensare a Richard Carter. Andò in bagno. L'immagine che vide nello specchio le parve un po' mi-
gliorata. I lividi sul collo avevano assunto un colore giallo verdognolo e il taglio sotto l'occhio cominciava a cicatrizzarsi. «Lena?» chiamò Nan. Lei sentì il battente che urtava contro la sedia. «Solo un momento» rispose, aprendo l'armadietto delle medicine. Sollevò la tavoletta sul fondo ed estrasse il suo coltello da tasca. C'erano ancora tracce di sangue sul manico, ma la pioggia l'aveva quasi completamente ripulito. Quando estrasse la lama, vide che la punta si era spezzata. Con un po' di rammarico si rassegnò all'idea di doverlo buttare. La sedia picchiò di nuovo contro la maniglia. «Lena?» chiamò Nan allarmata. «Sto arrivando.» Chiuse il coltello, lo infilò nella tasca posteriore e andò ad aprire. Ringraziamenti La prima cosa che leggo sempre in un libro sono i ringraziamenti e mi indispettisco quando vedo una lista troppo lunga di persone a me ignote, che vengono ringraziate per cose che non hanno nulla a che fare con me. Ora che sono arrivata al mio terzo libro, capisco perché questi elenchi sono indispensabili. Le persone che seguono sono andate ben oltre il loro dovere professionale nel promuovere la serie della Contea di Grant negli Stati Uniti e all'estero, e sarò loro eternamente grata per il magnifico lavoro che hanno fatto. Alla Morrow/Harper: George Bick, Jane Friedman, Lisa Gallagher, Kim Gombar, Kristen Green, Brian Grogan, Cathy Hemming, Libby Jordan, Rebecca Keiper, Michael Morris, Michael Morrison, Juliette Shapland, Virgina Stanley, Debbie Stier, Eric Svenson, Charlie Trachtenbarg, Rome Quezada e Colleen Winters. Alla Random House, Regno Unito: Ron Beard, Faye Brewster, Richard Cable, Alex Hippisley-Cox, Vanessa Kerr, Mark McCallum, Susan Sandon e Tiffany Stansfield. Ce ne sono numerosi altri, mi scuso per tutti quelli che ho trascurato di nominare. La mia agente, Victoria Sanders, mi incoraggia a mete sempre più elevate. Gli editor Meaghan Dowling e Kate Elton sono il Duo Dinamico. È stato un privilegio poter lavorare così bene con loro. I medici David Harper, Patrice Iacovoni e Damien van Carrapiett mi hanno aiutato a descrivere i particolari clinici nel modo più verosimile, per quel che è possibile nell'in-
venzione letteraria. Cantor Isaac Goodfriend ha scritto per me «Shalom» in venti lingue diverse. Beth e Jeff della CincinnatiMedia.com sono tra i migliori e più autorevoli creatori/gestori di siti web. James Locastro mi ha fornito risposte molto schiette su non vi dico cosa. Rob Hueter mi ha spiegato tutto sulle pistole Clock e mi ha portato a sparare. Il sito Remington.com fornisce informazioni online su omicidi e sicurezza in materia di armi, che mi hanno tenuto piacevolmente occupata per ore. A proposito, ringrazio tutti gli amici online che col loro canto di sirene mi distraggono dal lavoro. Per favore, non lo fate. Vi imploro. I colleghi autori V.M., F.M., L.L., J.H., E.C. ed E.M. meritano i più sentiti ringraziamenti per avere ascoltato le mie lagne. (Ascoltavate, vero?) Mio padre mi ha sempre sostenuto, e non solo con prestiti senza interessi. Judy Jordan è la migliore madre e amica che potrei desiderare. Billie Bennet, la mia insegnante d'inglese delle medie, merita tutte le lodi possibili, e non saranno mai abbastanza. Su un piano più personale ringrazio il Boss, Diane, Cubby, Pat, Cathy e Deb per avere reso New York un posto non proprio orribile da visitare le ultime volte che ci sono venuta. Non potrete mai capire. Da ultimo, D.A., che non dimenticherò fino alla fine dei miei giorni. FINE