J.D. ROBB DOPPIO DELITTO (Glory In Death, 1995) «A quei tempi la fama era una merce a buon mercato... E da allora essi n...
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J.D. ROBB DOPPIO DELITTO (Glory In Death, 1995) «A quei tempi la fama era una merce a buon mercato... E da allora essi ne godono, in virtù della loro morte.» JOHN DRYDEN «Soffocato dall'ambizione nella sua forma più squallida.» WILLIAM SHAKESPEARE 1 Ogni morte violenta era affar suo. Lei conviveva con le vittime, ci lavorava, le studiava. Le sognava. E poiché tutto questo non sembrava bastarle, in un oscuro recesso della sua mente provava per loro una profonda pena. Un decennio trascorso nelle file della polizia l'aveva indurita, le aveva dato una visione fredda, scientifica e spesso cinica della morte e delle sue molte cause. Una visione che rendeva quasi fin troppo banali scene come quella che lei aveva ora davanti agli occhi, in una notte piovosa e in una strada buia, invasa dal tanfo dell'immondizia. Ciò nonostante, lei provava qualcosa. I delitti non la sconvolgevano più, ma continuavano a farle ribrezzo. Un tempo quella donna doveva essere stata attraente. Lunghe ciocche dei suoi capelli dorati si allargavano sul lurido marciapiede come raggi di sole. Gli occhi, sbarrati e immoti, con quell'espressione attonita che la morte spesso vi imprime, spiccavano come macchie purpuree sul pallore delle guance esangui, rigate di pioggia. L'abito che indossava, dello stesso squillante colore degli occhi, aveva l'aria di essere costato parecchio. La giacca, accuratamente abbottonata, creava uno strano contrasto con la gonna arrotolata verso l'alto, che metteva in mostra le cosce snelle. I gioielli che ornavano le dita, le orecchie e lo smilzo bavero della giacca mandavano vividi bagliori. Accanto alla mano aperta giaceva una borsetta di cuoio, con un fermaglio d'oro. La gola era stata brutalmente recisa da parte a parte. Il tenente Eve Dallas si inginocchiò accanto al cadavere e lo esaminò attentamente. L'aspetto e l'odore le erano familiari, ma ogni volta c'era sempre qualcosa di nuovo. Tanto la vittima quanto il carnefice lasciavano la
propria impronta, un qualcosa di personale che rendeva unico il delitto. La polizia era già giunta sul luogo dell'omicidio e aveva provveduto a installare gli strumenti per le rilevazioni sensoriali e a montare le transenne di tela che, quasi a voler tutelare l'intimità della morte, tenevano alla larga i curiosi e impedivano che la scena del delitto venisse contaminata. Il traffico stradale, quale che fosse in quel quartiere, era stato dirottato. Il traffico aereo, invece, già scarso a quell'ora della notte, non creava grandi inconvenienti. Il rimbombo della musica suonata nello strip-club sul lato opposto della strada si diffondeva nell'aria, punteggiato di tanto in tanto da scoppi di festose acclamazioni da parte dei clienti del locale. Le luci colorate dell'insegna rotante si riflettevano sulle transenne, proiettando sul corpo della vittima pulsanti macchie dalle tonalità chiassose. Eve avrebbe potuto ordinare la chiusura del locale per quella notte, ma pensò che tale intervento le avrebbe soltanto procurato grane a non finire. Anche nel 2058, con le armi da fuoco ormai messe al bando e con i test genetici che consentivano spesso di sradicare sul nascere le peggiori tendenze ereditarie alla violenza, i delitti continuavano a verificarsi. E con tale regolarità che le persone in cerca di divertimento sul lato opposto della strada si sarebbero risentite all'idea di dover togliere il disturbo per un fatto così insignificante come un omicidio. Un agente seguitava a riprendere la scena con la sua videocamera munita di sonoro. Accanto alle transenne due tecnici della Scientifica, con le spalle chine per proteggersi dalla pioggia battente, passavano al setaccio la scena del delitto, chiacchierando nel frattempo di acquisti fatti o da fare e di eventi sportivi. Tutti e tre non si erano neppure preoccupati di dare un'occhiata al cadavere, non avevano ancora riconosciuto la donna uccisa. Non è forse peggio, quando si conosce la vittima? si chiese Eve, mentre l'espressione dei suoi occhi si induriva nel vedere la pioggia che dilavava il sangue. Lei aveva avuto solo un breve rapporto professionale con il pubblico ministero Cicely Towers, ma sufficiente per ricavarne la netta impressione che fosse una donna forte. Una donna che si stava facendo strada, piena di grinta, che lottava caparbiamente per far trionfare la giustizia, pensò. Ci provava anche qui, in questo miserabile quartiere? Con un sospiro, allungò la mano e aprì l'elegante e costosa borsetta per trovare conferma all'identificazione visiva. «Cicely Towers», disse a voce alta, rivolta al proprio registratore. «Femmina, età quarantacinque anni, divorziata. Risiedeva al 2132 della
83rd Est, interno 61B. Non è rimasta vittima di un'aggressione a scopo di rapina, perché i suoi gioielli non sono stati rubati. Quanto al denaro...» Frugò nel portafoglio. «Una ventina di dollari in banconote, cinquanta in gettoni bancari, sei carte di credito, il tutto lasciato sulla scena del delitto. Nessun segno apparente di colluttazione o tentativo di violenza carnale.» Tornò a fissare la donna riversa sul marciapiede. Che diavolo stavi facendo da queste parti, Towers? Qui, lontana dai centri di potere, dalla tua elegante abitazione? E vestita in modo professionale... aggiunse fra sé. Conosceva bene il guardaroba che Cicely Towers sfoggiava in pubblico, l'aveva ammirato nelle aule di tribunale e in municipio. Colori squillanti per essere sempre pronta a bucare il video - con accessori coordinati, mai privi però di un tocco femminile. Si alzò e si sfregò distrattamente i jeans bagnati all'altezza delle ginocchia. «Omicidio», disse in tono laconico. «Portatela via.» Non fu una sorpresa per Eve che i media avessero immediatamente fiutato l'odore del delitto e si fossero subito messi in caccia, arrivando prima di lei allo sfavillante edificio in cui aveva abitato Cicely Towers. Un folto gruppo di avidi cronisti e inviati speciali si era accampato sull'immacolato marciapiede. Il fatto che fossero le tre di mattina e che piovesse a dirotto non era bastato a scoraggiarli. Nei loro occhi Eve vide sguardi da lupo. Quella storia era la loro preda e il gradimento del pubblico un trofeo di caccia. Riuscì a ignorare le telecamere prontamente puntate verso di lei e a schivare le domande che le fioccarono addosso come dardi acuminati. Si era quasi abituata a rinunciare al proprio anonimato. Il caso che aveva seguito e risolto il precedente inverno l'aveva esposta di colpo all'attenzione della gente. E non tanto quel caso, si disse mentre lanciava una gelida occhiata a un reporter che aveva avuto il coraggio di tagliarle la strada, quanto la sua relazione con Roarke. Il caso riguardava una serie di omicidi, ma le morti violente, benché fossero un argomento eccitante, non ci mettevano molto a perdere interesse agli occhi del pubblico. Roarke, invece, faceva sempre notizia. «Quali elementi ha in mano, tenente? C'è già un indiziato? C'è un movente? Può confermare che al pubblico ministero Towers è stata tagliata la testa?»
Eve rallentò per un attimo la sua andatura spedita e fece correre lo sguardo sulla calca di giornalisti zuppi di pioggia, che la guardavano con i loro occhi famelici. Era bagnata, stanca e nauseata, ma cercò di controllarsi. Aveva imparato che, se davi ai media una parte di te, loro la spremevano, la storcevano, la strizzavano fino a inaridirla. «Momentaneamente il Dipartimento non ha nulla da dire, se non che le indagini sulla morte del pubblico ministero Towers sono in corso.» «Il caso è stato affidato a lei?» «Sì, conduco io le indagini», tagliò corto Eve, poi si infilò fra i due agenti che sorvegliavano l'ingresso all'edificio. L'atrio era pieno di fiori: lunghe distese e cascate di fragranti e colorati boccioli che le fecero venire in mente la primavera in qualche località esotica... le ricordarono l'isola in cui aveva trascorso tre esaltanti giornate con Roarke per guarire dalla ferita causata da un proiettile e riprendersi dalla fatica. Non si attardò a sorridere di quel ricordo, come avrebbe fatto in altre circostanze, ma fece balenare il distintivo e si avviò sul pavimento di piastrelle di terracotta verso il primo ascensore. All'interno dell'edificio c'erano numerosi agenti. Due dietro la consolle della guardiola a controllare le apparecchiature di sorveglianza, altri a guardia dell'entrata, altri ancora accanto alle porte degli ascensori. Uno schieramento di forze superiore al necessario, ma la Towers, in quanto procuratore distrettuale, era un pezzo grosso. «L'appartamento è stato isolato?» chiese Eve al primo poliziotto che trovò a portata di mano. «Sì, tenente. Dopo la sua telefonata delle due e dieci, nessuno vi è entrato o ne è uscito.» «Desidero una copia dei CD della videosorveglianza.» Entrò nella cabina dell'ascensore. «Quelli riguardanti le ultime ventiquattro ore, tanto per cominciare.» Sbirciò il nome del poliziotto sulla targhetta attaccata all'uniforme. «Desidero anche, Biggs, le riprese ravvicinate, dalla porta della vittima alle altre dello stesso piano, a partire dalle sette di pomeriggio e nelle sei ore successive. Sessantunesimo piano», comunicò poi a voce alta e i pannelli trasparenti dell'ascensore si chiusero silenziosamente. Si incamminò sulla lussuosa moquette del sessantunesimo piano, in un silenzio da museo. Il corridoio era stretto, come nella maggior parte degli edifici multiresidenziali costruiti nell'ultimo mezzo secolo. Le pareti erano di un bianco cremoso immacolato, con specchiere poste a intervalli regola-
ri per dare un'illusione di spazio. Gli appartamenti invece non dovevano certo usare simili accorgimenti per sembrare più grandi, si disse Eve, dal momento che ce n'erano soltanto tre sull'intero piano. Fece scattare la serratura del 61 B usando il passepartout elettronico in dotazione alla polizia e alla sorveglianza ed entrò in un ambiente di una silenziosa eleganza. Cicely Towers non doveva certo avere problemi economici, notò immediatamente, e amava vivere nel lusso. Mentre estraeva la videocamera miniaturizzata dal kit degli strumenti in dotazione e se l'agganciava alla giacca, diede un'occhiata al salotto. Riconobbe due dipinti di un famoso artista del ventunesimo secolo, appesi a una parete dalla pallida tonalità rosata sopra un enorme divano a U dalla tappezzeria a righe, in tinte chiare rosa e verde. E dovette ringraziare mentalmente il suo rapporto con Roarke se era riuscita a identificare al primo colpo d'occhio i due dipinti e a intuire dietro la semplicità dei mobili e degli arredi una consolidata ricchezza. Quanto può guadagnare all'anno un procuratore distrettuale? si chiese mentre riprendeva la scena con la videocamera. Ogni cosa era in perfetto ordine, un ordine fin troppo meticoloso. Ma, rifletté Eve, per quanto lei ne sapeva la Towers era stata una donna meticolosa. Nel modo di vestire, sul lavoro, nel tutelare la propria privacy. Che cosa dunque stava facendo una donna elegante, intelligente e scrupolosa in un fetido quartiere nel bel mezzo di un'orrenda notte? Eve attraversò il salotto. Il pavimento, di legno chiaro, scintillava come uno specchio sotto i graziosi tappeti i cui colori richiamavano quelli della stanza. Su un tavolo c'erano alcuni ologrammi incorniciati raffiguranti due bambini in vari stadi della crescita, dalla prima infanzia agli anni dell'università. Un maschio e una femmina, entrambi belli, con un'espressione radiosa. Che strano, pensò Eve. Nel corso degli anni le era capitato di lavorare varie volte con la Towers in questo o quel caso. Si era mai resa conto che la donna avesse figli? Scuotendo il capo, si avvicinò al piccolo computer inserito in un'elegante postazione di lavoro, in un angolo della sala. Usò di nuovo il proprio passe-partout elettronico per avviarlo. «Elencare gli appuntamenti di Cicely Towers, il 2 maggio.» Mentre leggeva quanto era apparso sul monitor, Eve corrugò le labbra. Un'ora in un prestigioso salone di bellezza privato all'inizio di una giornata piena di impegni in tribunale, conclusa da un incontro con un noto avvocato difensore e da una cena. A quel punto inarcò le sopracciglia. La cena era con George
Hammett. Roarke stava trattando affari con Hammett, le venne in mente. Lei stessa l'aveva incontrato un paio di volte e si era fatta l'idea che fosse un uomo affascinante e abile, che conduceva con una certa enfasi un'esistenza piuttosto insolita. E Hammett era l'uomo con cui Cicely Towers aveva preso l'ultimo appuntamento della giornata. «Stampare», mormorò e infilò nella borsa la copia su carta. Passò quindi al videotelefono, verificando tutte le chiamate in arrivo e in partenza delle ultime quarantotto ore. Probabilmente avrebbe dovuto scavare più a fondo, ma per il momento chiese che tutte quelle chiamate venissero registrate su dischetto, infilò nella borsa anche quest'ultimo e cominciò una lunga e minuziosa perlustrazione dell'appartamento. Alle cinque di mattina gli occhi le bruciavano, come se fossero pieni di sabbia, e la testa le doleva. Il fatto di essersi potuta concedere un'unica ora di sonno dopo il rapporto sessuale e prima di essere chiamata sulla scena del delitto cominciava a pesarle. «Secondo le informazioni di cui siamo in possesso», dettò stancamente al registratore, «la vittima viveva sola. Le ricerche iniziali non hanno evidenziato nulla in contrario. Nessun indizio che la vittima abbia lasciato l'appartamento contro la propria volontà e nessun appuntamento, fra quelli registrati, che spieghi perché la vittima si sia recata sul luogo del delitto. La responsabile delle indagini ha raccolto i dati estratti dal computer e dalla memoria dell'apparecchio telefonico, per ulteriori approfondimenti. Verranno passate al setaccio le registrazioni della videosorveglianza dell'edificio, di cui sono stati intanto confiscati i CD, a partire dalle sette del pomeriggio. La responsabile delle indagini sta per lasciare la residenza della vittima e recarsi nell'ufficio della vittima, in municipio. Tenente Dallas, Eve. Ore cinque e otto minuti.» Spense quindi l'audio e il video, recuperò il kit degli strumenti e uscì dall'appartamento. Erano le dieci passate quando raggiunse la centrale di polizia. Per mettere a tacere lo stomaco vuoto, fece un salto in mensa, dove si accorse, con una certa delusione, ma senza che ciò la sorprendesse più di tanto, che a quell'ora i piatti migliori erano spariti da tempo. Ripiegò su un muffin alla soia e su una brodaglia che in quel locale veniva spacciata per caffè. Per pessimi che fossero, ingollò l'uno e l'altro prima di recarsi nel proprio uffi-
cio. Vi aveva appena messo piede quando il suo videotelefono iniziò a lampeggiare. «Tenente.» Eve represse un sospiro mentre fissava sullo schermo la larga faccia di Whitney e i suoi occhi dall'espressione torva. «Salve, comandante.» «Venga da me, subito.» Lo schermo si spense prim'ancora che lei riuscisse a chiudere la bocca. Che vada al diavolo, pensò Eve. Si sfregò il volto con le mani, poi si ravviò con le dita i capelli castani, crespi e corti. Non le restava neppure il tempo per controllare i messaggi ricevuti e per chiamare Roarke e informarlo del nuovo caso in cui si trovava coinvolta, o per schiacciare quel pisolino di dieci minuti che stava sognando. Si alzò di nuovo, cercando di sciogliere i crampi alle spalle. Si attardò lo stretto necessario per togliersi la giacca di pelle. Questa le aveva protetto la camicia, ma i jeans erano ancora umidi. Decise di prenderla con filosofia e, ignorando la sensazione di disagio, raccolse i pochi dati di cui disponeva. Se la fortuna fosse stata dalla sua parte, avrebbe potuto bere un'altra tazza di quel caffè da poliziotti nell'ufficio del comandante. Ci mise solo dieci secondi a capire che per il caffè avrebbe dovuto aspettare. Whitney non era seduto dietro la scrivania, com'era suo solito. Stava in piedi, a guardare fuori della vetrata che prendeva l'intera parete e che gli permetteva di avere un personale colpo d'occhio sulla città che lui serviva e proteggeva da più di trent'anni. Teneva le mani allacciate dietro la schiena, ma quella posa rilassata era smentita dal biancore delle nocche. Eve esaminò brevemente le spalle larghe, gli scuri capelli brizzolati e la massiccia schiena dell'uomo che, solo qualche mese prima, aveva rifiutato di diventare capo della polizia per restare al suo solito posto di comando. «Eccomi, comandante.» «Ha smesso di piovere.» Eve socchiuse le palpebre, stupita, prima di assumere cautamente un'espressione vacua. «Sì, signore.» «In complesso questa è una città abitata da brava gente, Dallas. Da quassù è facile dimenticarsene, ma, nell'insieme, sono tutte persone perbene. E adesso mi sto sforzando di tenerlo a mente.» Eve non aprì bocca, perché non c'era nulla da dire. Attese. «Ho affidato a lei le indagini relative a questo caso. Teoricamente spet-
tavano alla Deblinsky, perciò voglio sincerarmi che fra voi due non sia sorto qualche screzio.» «La Deblinsky è un bravo poliziotto.» «Sì, non c'è dubbio, ma lei, Dallas, è meglio.» Eve non riuscì a trattenersi dall'inarcare le sopracciglia e fu ben contenta che Whitney le volgesse ancora la schiena. «Apprezzo la sua fiducia, comandante.» «Se l'è guadagnata. Se ho infranto il regolamento per affidare a lei questo caso, l'ho fatto per motivi personali. Ho bisogno della persona migliore, che sia pronta a dare l'anima pur di affrontare e superare ogni ostacolo.» «La maggior parte di noi conosceva il procuratore Towers, comandante. A New York non c'è poliziotto che non si sforzerebbe di impegnarsi anima e corpo pur di scoprire chi l'ha uccisa.» Prima di voltarsi, Whitney trasse un respiro e la profonda inspirazione parve gonfiargli gradatamente tutta la figura massiccia. Per un lungo istante non disse nulla, limitandosi a scrutare la donna a cui aveva affidato quell'importante incarico. Una creatura dall'aria fragile, ma solo apparentemente, perché lui aveva avuto modo di appurare come in quel lungo corpo snello ci fosse una forza di volontà che le apparenze non lasciavano intuire. In quel momento lei aveva l'aria affaticata, come denunciavano gli occhi nocciola pesantemente cerchiati e il pallore del volto spigoloso. Ma Whitney non poteva preoccuparsene, non in quel momento. «Cicely Towers era una mia amica... un'amica intima.» «Capisco.» Eve si chiese se capiva davvero. «Mi dispiace, comandante.» «La conoscevo da anni. Avevamo cominciato insieme, io un poliziotto che non mollava mai l'osso e lei un'avvocatessa penalista fin troppo zelante. Mia moglie e io siamo stati padrini del suo primogenito.» Esitò un attimo e parve lottare per mantenere l'autocontrollo. «Ho comunicato io stesso la notizia ai figli. Mia moglie è andata a prenderli. Resteranno a casa nostra fino a che non saranno state celebrate le esequie.» Si schiarì la voce, poi strinse le labbra. «Cicely era una delle mie più vecchie amiche e, al di là del rispetto professionale e dell'ammirazione che provavo per lei, l'amavo molto. Mia moglie è rimasta sconvolta da questa storia e i figli di Cicely sono distrutti dal dolore. A loro non posso dire altro che farò il possibile, tutto quanto è in mio potere, per trovare chi l'ha così barbaramente uccisa, per darle ciò che lei, per buona parte della sua vita, si era sempre sforzata di ottenere: giustizia.»
A quel punto si sedette, una mossa dettata non dal peso della sua carica, ma dalla stanchezza. «Le dico tutto ciò, Dallas, perché si renda pienamente conto che in questo caso non potrò dimostrarmi obiettivo. Da nessun punto di vista. Perciò dipendo da lei.» «Apprezzo la sua franchezza, comandante.» Eve esitò solo un attimo. «Quale amico personale della vittima, sarà necessario che io la interroghi al più presto.» Vide gli occhi di Whitney fremere e indurirsi. «Il che vale anche per sua moglie, comandante. Se lo ritiene più opportuno, potrò condurre gli interrogatori a casa sua, anziché qui.» «Capisco.» Trasse un altro respiro. «Per questo ho scelto lei come responsabile delle indagini, Dallas. Non sono molti i poliziotti che hanno il coraggio di partire alla carica in modo così diretto. Le sarei grato se prima di interrogare mia moglie aspettasse fino a domani, o lasciasse anche passare un paio di giorni, e lo facesse a casa mia. Sistemerò io le cose.» «Sì, signore.» «Che cos'ha scoperto, al momento?» «Ho fatto una ricognizione nell'appartamento della vittima e nel suo ufficio. Ho raccolto la documentazione relativa ai casi che stava seguendo e a quelli chiusi negli ultimi cinque anni. Ho bisogno di eseguire un controllo incrociato dei nomi per vedere se qualcuno fatto condannare da Cicely Towers sia stato rimesso da poco in libertà, senza trascurare eventuali familiari e complici. Prendendo particolarmente in considerazione i reati violenti. La Towers aveva una percentuale di cause vinte molto alta.» «Cicely era una vera tigre nelle aule di tribunale e non mi risulta che avesse mai fatto un passo falso. Fino a questo momento.» «Perché si era recata in quel posto, comandante, nel cuore della notte? Dal reperto autoptico preliminare risulta che l'ora della morte risalirebbe all'una e un quarto circa. E il quartiere in cui la Towers si trovava è popolato da una gran brutta fauna: delinquenti che vanno in giro a estorcere denaro, spacciatori di droga, magnaccia. A un paio di isolati dal punto in cui è stato rinvenuto il cadavere c'è un noto centro di spaccio di droghe chimiche.» «Non lo so. Era una che procedeva con i piedi di piombo, ma era anche... presuntuosa.» Sorrise lievemente. «Nel senso migliore del termine. Era pronta ad affrontare ad armi pari il peggio che questa città avesse da offrire. Ma mettersi deliberatamente in una situazione così rischiosa... Non capisco.» «Stava istruendo un caso, Fluentes, omicidio preterintenzionale. Stran-
golamento di un'amica. Il legale dell'accusato ha impostato la propria difesa sul movente passionale, ma corre voce che la Towers fosse intenzionata a picchiare duro. Sto verificando.» «L'uomo è a piede libero o in galera?» «A piede libero. Siccome inizialmente era stato accusato soltanto di atti di violenza, la cauzione era risultata paurosamente bassa. Quando l'accusa è diventata di omicidio, a Fluentes è stato imposto di restare agli arresti domiciliari con un braccialetto elettronico, una misura totalmente inefficace se ci si intende di simili aggeggi. È possibile che la Towers abbia voluto incontrarsi con lui?» «No, assolutamente. Se si incontra un imputato al di fuori delle aule del tribunale si rischia di inquinare il caso.» Nel pensare a Cicely, nel ricordarla, Whitney scosse il capo. «Lei non si sarebbe mai azzardata a fare una cosa del genere. Ma lui potrebbe aver escogitato qualche trucco per attirarla in quel luogo.» «Come le ho detto, sto verificando. L'ultima sera la Towers aveva un appuntamento per cena con George Hammett. Lo conosce?» «Superficialmente. Loro due si incontravano di tanto in tanto in occasione di qualche evento mondano. Nulla di serio, secondo mia moglie, che da sempre si sforzava di trovare l'uomo adatto a Cicely.» «Comandante, è meglio che le faccia subito questa domanda, ufficiosamente. Lei ha mai avuto rapporti sessuali con la vittima?» Un muscolo della guancia di Whitney si contrasse, ma lo sguardo restò fermo. «No, mai. Eravamo amici e la nostra era un'amicizia molto stretta. In altre parole, lei era come una di famiglia. E questa è una cosa che lei, Dallas, non può capire.» «No», replicò Eve con voce piatta. «Credo di no.» «Mi scusi.» Whitney chiuse gli occhi e si passò le mani sul viso. «Un commento gratuito, il mio, oltre che ingiusto. E la sua domanda era pertinente.» Allontanò le mani dal viso. «Lei non ha mai perso una persona cara, Dallas?» «No, per quanto mi ricordi.» «È una cosa che ti strazia l'animo», mormorò Whitney. Lei gli credette. Conosceva il comandante da una decina d'anni e l'aveva visto furioso, spazientito, persino freddamente crudele. Ma non l'aveva mai visto con il cuore così a pezzi. Se l'avere una persona cara, per poi perderla, provocava una reazione del genere in un uomo tanto forte di carattere, pensò Eve, meglio essere come
lei, che non aveva mai posseduto una famiglia e che della propria infanzia non ricordava nulla se non, a sprazzi, qualche orrida scena. La sua attuale esistenza era cominciata quando lei aveva otto anni ed era stata trovata in una località del Texas, seviziata e sbattuta in mezzo a una strada. Che cosa fosse accaduto prima di quel giorno, ormai non aveva più importanza. Che non importasse, lei se lo ripeteva in continuazione. Se era diventata ciò che era, la donna che era, il merito era solo suo. Quanto agli amici, erano pochi quelli nei cui confronti lei provasse un sufficiente interesse, di cui si fidasse abbastanza. E, per qualcosa di più di un'amicizia, c'era Roarke. Lui aveva continuato a circuirla finché lei non gli aveva dato quel di più. Un di più che a volte la spaventava... una paura dettata dal fatto di aver capito che lui non sarebbe stato soddisfatto finché non avesse ottenuto tutto. Se lei gli si fosse concessa completamente, e se poi l'avesse perso, anche il suo cuore sarebbe andato in pezzi? Per non pensarci, Eve sorseggiò la sua tazza di caffè e mangiò il resto di uno snack dolce che aveva scovato in un cassetto della scrivania. L'idea di fare un pasto regolare era un sogno tanto irrealizzabile quanto quello di trascorrere una settimana ai tropici. Sospirando e masticando, lesse sul monitor del suo computer il rapporto definitivo del medico legale. L'ora del decesso rimaneva la stessa indicata nell'esame autoptico preliminare, così come la causa, che era il taglio di una giugulare, con conseguenti emorragia e anossia, cioè mancato afflusso di ossigeno al cervello. La vittima era reduce da un pasto a base di pettini di mare e insalata di campo, vino, caffè vero e macedonia di frutta fresca con panna montata. Il tutto era stato ingerito cinque ore prima della morte. La polizia era stata avvertita tempestivamente. Cicely Towers aveva esalato l'ultimo respiro da non più di dieci minuti quando un tassista, molto coraggioso o così al verde da arrischiarsi a entrare in un simile quartiere, aveva notato il cadavere e fatto rapporto. La prima volante era arrivata tre minuti dopo. L'assassino si era dileguato in tutta fretta, meditò Eve. D'altra parte in un quartiere come quello era facile svanire, infilandosi in un'auto, in una casa, in un club. L'emorragia doveva essere stata copiosa: da una giugulare recisa il sangue esce a fiotti, schizza dappertutto. Ma la pioggia scrosciante aveva probabilmente aiutato l'assassino, lavandogli le mani. Lei avrebbe dovuto passare al setaccio il quartiere, porre domande che con ogni probabilità non avrebbero ricevuto alcun genere di risposta utile. Ma spesso, quando la procedura standard o le minacce non funzionavano,
si poteva ottenere qualcosa allungando una mazzetta. Eve stava studiando le foto che la polizia aveva scattato a Cicely Towers, con la sua collana di sangue, quando il videotelefono lampeggiò. «Dallas, Omicidi.» Un volto apparve sul suo schermo. Apparteneva a un giovane, con l'aria radiosa e scaltra. «Tenente, che cos'ha di bello da dirmi?» Eve si trattenne dall'imprecare, come avrebbe voluto. La stima che aveva dei giornalisti non era molto alta, ma C.J. Morse si situava sul gradino più basso della scala. «Non le farebbe piacere sentire ciò che vorrei dirle, Morse.» Il volto del giovane si aprì in un sorriso. «Suvvia, Dallas, la gente ha diritto di sapere. Se l'è dimenticato?» «Non ho nulla per lei.» «Nulla? Vuole che io vada in onda a dire che il tenente Eve Dallas, che è in cima alla lista dei migliori agenti investigativi di New York, non sa che pesci pigliare nelle indagini sull'omicidio di una delle più rispettate, importanti e note figure pubbliche della città? Potrei sempre farlo, Dallas», e, nel pronunciare quelle parole, fece schioccare la lingua, «perché nessuno potrebbe impedirmelo, ma mi sembrerebbe di renderle un cattivo servizio.» «E lei è convinto che ciò mi seccherebbe molto.» Gli sorrise a denti stretti, roteando un dito sul pulsante di spegnimento. «La sua è una convinzione errata.» «Forse a lei personalmente non darebbe fastidio, ma la cosa si rifletterebbe sul Dipartimento.» Batté rapidamente le lunghe ciglia da ragazza. «Sul comandante Whitney, per aver smosso varie pedine allo scopo di affidare a lei le indagini. E a pagarne le spese sarebbe anche Roarke.» Il dito si contrasse, poi si ripiegò verso il palmo della mano. «L'assassinio di Cicely Towers è una priorità per il Dipartimento, per il comandante Whitney e per me.» «Citerò queste sue parole.» Fottuto piccolo bastardo. «E il mio lavoro con il Dipartimento non ha nulla a che vedere con Roarke.» «Ehi, occhi nocciola, ormai qualunque cosa in cui lei si trovi coinvolta riguarda pure Roarke e viceversa. E il fatto che il suo uomo fosse in rapporti d'affari con la vittima, con l'ex marito di costei e con l'ultimo corteggiatore, cosa che non può certo ignorare, offre il destro a ogni sorta di illazioni.» Per la frustrazione Eve serrò le mani a pugno. «Roarke ha rapporti d'af-
fari con un'infinità di persone. Non sapevo che lei, C.J., fosse stato rispedito a curare la rubrica dei pettegolezzi.» Quelle parole fecero sparire dal volto del giornalista il suo sorrisetto untuoso. Non c'era nulla che C.J. Morse odiasse di più del sentirsi rammentare che aveva iniziato la propria carriera occupandosi di chiacchiere e indiscrezioni mondane. Specialmente ora che era riuscito a intrufolarsi nella cronaca giudiziaria. «Ho i miei informatori, Dallas.» «Già. E ha anche un foruncolo in mezzo alla fronte. Io me lo farei vedere da un medico.» Dopo quella frecciata a buon mercato, ma gratificante, Eve interruppe la comunicazione. Balzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro nel suo minuscolo ufficio, continuando a infilarsi le mani in tasca e a sfilarle. Accidenti, perché era saltato fuori il nome di Roarke in relazione a quel caso? Fino a che punto lui era coinvolto negli affari della Towers e dei suoi soci? Si lasciò ricadere sulla sedia e fissò con espressione accigliata gli incartamenti che aveva sulla scrivania. Doveva appurarlo, e alla svelta. Stavolta, se non altro, sapeva che lui aveva un alibi perfetto. Mentre la gola di Cicely Towers veniva tagliata, Roarke stava avendo un travolgente rapporto sessuale proprio con il funzionario di polizia incaricato delle indagini. 2 Eve avrebbe preferito tornare nel proprio appartamento, che continuava a tenere anche se trascorreva la maggior parte delle notti in quello di Roarke, perché lì le sarebbe riuscito più facile pensare, spremersi le meningi, dormire e ripercorrere mentalmente l'ultimo giorno di vita di Cicely Towers, ma finì invece per dirigersi verso la dimora di Roarke. Era tanto stanca che scelse di non guidare l'auto nel traffico del tardo pomeriggio, affidando i comandi al pilota automatico. La prima cosa di cui aveva bisogno, decise, era un buon pasto. E, se fosse anche riuscita a ritagliarsi dieci minuti per mettere un po' a fuoco le idee, tanto meglio. La primavera si era decisa ad arrivare e a mettersi graziosamente in mostra. Eve fu tentata di aprire i finestrini, senza badare al frastuono di quel traffico forsennato, al ronzio dei maxibus, alle proteste dei pedoni e ai sibili dei mezzi da trasporto aerei che sfrecciavano sulla sua testa. Per evitare il rimbombante vocio delle guide turistiche che si trovavano a bordo di piccoli dirigibili, svoltò verso la 10th Avenue. Ci avrebbe messo
molto meno se invece fosse schizzata attraverso il centro e avesse risalito rapidamente il parco, ma in tal caso avrebbe dovuto fare i conti con la cantilenante esposizione delle attrattive di New York, della storia e delle tradizioni di Broadway, dello splendore dei musei, della varietà di negozi... e sarebbe stata costretta ad ascoltare gli slogan pubblicitari degli empori di souvenir che sponsorizzavano i vari dirigibili. Poiché la rotta seguita da questi ultimi passava proprio sopra il suo appartamento, Eve si era dovuta sorbire innumerevoli volte quegli imbonimenti da fiera di paese. Non ne poteva più di sentir dire meraviglie del tapis roulant che collegava gli sfavillanti negozi di moda dalla 5th alla Madison e della recentissima passeggiata aerea attorno all'Empire State Building. Grazie al traffico meno congestionato che scorreva sulla 52nd, poté rimirare un tabellone pubblicitario sul quale un uomo e una donna, entrambi straordinariamente belli, si scambiavano baci appassionati, addolciti - come esclamavano ogni volta che staccavano le labbra per prendere fiato dal collutorio Mountain Stream. Due tassisti, con le rispettive vetture strette l'una contro l'altra, si lanciavano reciprocamente invettive e insulti. Il guidatore di un maxibus rigurgitante di passeggeri continuava a suonare il clacson, emettendo anche di tanto in tanto uno stridio che forava i timpani e che faceva scuotere la testa o i pugni ai pedoni sulle rampe e sui marciapiedi. Un hovercraft dei vigili addetti al traffico si abbassò per intimare fragorosamente di procedere con la massima speditezza, perché in caso contrario i guidatori avrebbero rischiato di finire in tribunale. Il traffico si mosse impercettibilmente verso uptown, in un ribollire di suoni e scatti di rabbia. Via via che Eve si allontanava dal centro, dirigendosi verso la zona in cui abitavano le persone ricche e privilegiate, la città cambiava aspetto. Le strade erano più ampie e più pulite, gruppi di alberi si ergevano in giardinetti simili a isole. Le vetture procedevano silenziose, emettendo solo vaghi fruscii, e le persone che camminavano per strada indossavano eleganti abiti di sartoria e scarpe di lusso. Eve superò un dog-sitter che teneva al guinzaglio alcuni eleganti segugi dal pelo dorato con la ferma eleganza di un droide prima maniera. Quando raggiunse il cancello della proprietà di Roarke, mentre attendeva in auto che il congegno elettronico di apertura le permettesse di entrare, vide che gli alberi erano in fiore. Boccioli bianchi e rosa, gli uni accanto agli altri, con tocchi di rosso e blu, vividi e squillanti, su un vasto tappeto
d'erba color smeraldo. La grande casa si stagliava contro il cielo che cominciava a scurirsi, con l'erba dell'immenso prato che luccicava sotto gli ultimi raggi del sole, e i grigi muri di pietra avevano un aspetto possente. Erano trascorsi mesi da quando lei aveva visto per la prima volta tale spettacolo, eppure non si era ancora abituata a quell'imponenza, quello splendore, quel semplice e incontaminato sfoggio di ricchezza. Doveva ancora fare forza su se stessa per non chiedersi che cosa lei stesse facendo lì: in quel luogo, con lui. Lasciò l'auto alla base della rampa di granito e salì i gradini. Non avrebbe bussato. Si rifiutava di farlo, per un cocciuto orgoglio. Il maggiordomo di Roarke nutriva nei suoi confronti un profondo disprezzo e non si preoccupava di non darlo a vedere. Come c'era da aspettarsi, Summerset comparve immediatamente nell'atrio, simile a una nuvoletta di fumo nero, con la chioma che mandava bagliori argentei e un'accigliata aria di disapprovazione già stampata sul lungo viso. «Tenente.» I suoi occhi la scrutarono, rendendola consapevole di indossare gli stessi abiti con cui era uscita al mattino, che per di più erano molto sgualciti. «Noi non sapevamo a che ora lei sarebbe tornata, o, meglio, se avesse intenzione di tornare.» «Noi?» Eve si strinse nelle spalle, poi, proprio perché sapeva che il maggiordomo se la sarebbe presa a male, si tolse la giacca di pelle piena di graffi e gliela posò sulle mani ben curate. «Roarke è in casa?» «È impegnato in una comunicazione spaziale.» «Per l'Olympus Resort?» La bocca di Summerset si raggrinzì come una prugna secca. «Non mi impiccio degli affari di Roarke.» Invece sai perfettamente che cosa fa e quando, pensò Eve, girando le spalle al vasto atrio scintillante e avviandosi verso lo scalone ricurvo. «Salgo. Ho bisogno di fare un bagno.» Si lanciò un'occhiata dietro le spalle. «Quando Roarke avrà finito, digli dove può trovarmi.» Salì nell'appartamento padronale. Al pari di Roarke, usava raramente l'ascensore. Subito dopo essersi richiusa fragorosamente alle spalle la porta della camera da letto, iniziò a spogliarsi e, mentre si avviava verso la stanza da bagno, si lasciò dietro una scia di stivali, jeans, camicia e biancheria intima. Dopo aver chiesto all'apparecchio di far uscire l'acqua a trentanove gradi centigradi, ebbe un ripensamento e gettò nella vasca una manciata dei sali
marini che Roarke le aveva portato da Silas Tre. La schiuma che si formò, verdastra, aveva un profumo che evocava i boschi dei racconti di fate. Le bastò immergersi nell'immensa vasca di marmo, bagnarsi appena la pelle, perché il calore si irradiasse fino alle sue ossa doloranti. Fece una sola profonda inspirazione e si immerse completamente, restò così per trenta secondi contati, poi riemerse, con un sospiro di mero piacere sensuale. Tenendo gli occhi chiusi, si lasciò galleggiare. Fu così che lui la trovò. La maggior parte delle persone avrebbe detto che lei si stava rilassando, ma, pensò Roarke, la maggior parte delle persone non conosceva realmente Eve Dallas e tanto meno la capiva. Lui aveva una maggiore intimità con quella donna, era più vicino alla sua mente e al suo cuore di quanto gli fosse mai successo con un'altra, eppure in lei avvertiva ancora abissi oscuri che dovevano essere sondati. Eve era, sempre, un'affascinante esperienza cognitiva. Era nuda, immersa fino al mento nell'acqua fumante e nelle bolle di schiuma profumate. Aveva il volto arrossato dal calore, teneva gli occhi chiusi, ma non era rilassata. Roarke notò la tensione nella mano stretta a pugno sul largo bordo della vasca e nella lieve ruga fra gli occhi. No, Eve stava pensando, decise. Era preoccupata da qualcosa. Ed era intenta a progettare le sue future mosse. Roarke le si avvicinò silenziosamente, come aveva imparato a fare nelle strade di Dublino e sulle banchine portuali e nei puzzolenti vicoli di ogni altra città. Dopo essersi seduto sul bordo della vasca, rimase per alcuni minuti perfettamente immobile. Si rese conto del preciso istante in cui lei avvertì la sua presenza. Eve spalancò gli occhi, di un nocciola chiaro con riflessi dorati, che assunsero un'espressione di allerta nell'attimo stesso in cui incontrarono quelli azzurri e divertiti di lui. Come sempre, le bastava scorgerlo per provare un sobbalzo interiore. Il volto di Roarke sembrava uscito dal pennello di un sommo artista che avesse voluto raffigurare un angelo caduto dal cielo. Ogni volta che osservava quegli splendidi lineamenti, incorniciati dalla folta chioma nera, lei provava un senso di stupore. Inarcò un sopracciglio, piegò la testa di lato. «Pervertito.» «La vasca è mia.» Continuando a fissarla, Roarke allungò una delle sue eleganti mani nell'acqua, in mezzo alle bolle di schiuma, e le sfiorò il seno, di lato. «Finirai lessa, qui dentro.» «Mi piace l'acqua bollente. Ne sento il bisogno.» «Devi aver avuto una giornata difficile.»
Dovresti saperlo, pensò Eve, sforzandosi di non darlo a vedere. Sai sempre tutto. Si limitò a stringersi nelle spalle mentre lui si alzava e si avvicinava al bar automatizzato inserito fra le piastrelle. L'apparecchio, dopo aver emesso un lieve gorgoglio, servì due bicchieri di cristallo molato pieni di vino. Roarke tornò accanto alla vasca, si sedette nuovamente sul bordo e tese a Eve uno dei due bicchieri. «Non avrai né dormito né mangiato.» «È sempre così, in casi come questi.» Sorseggiò il vino e le parve di bere oro liquido.» «Ciò nonostante mi preoccupi, tenente.» «Ti preoccupi troppo facilmente.» «Perché ti amo.» Lei si irrigidì nel sentirlo pronunciare tali parole con quella sua adorabile voce dal vago accento irlandese, nel rendersi conto che chissà come, incredibilmente, quell'affermazione era sincera. Non sapendo che cosa replicare, chinò il viso accigliato sul bicchiere di vino. Anche Roarke rimase in silenzio finché non riuscì a soffocare l'irritazione suscitata in lui da quella mancata risposta. «Puoi raccontarmi che cos'è successo a Cicely Towers?» «La conoscevi», contrattaccò Eve. «Di sfuggita. Ci vedevamo di tanto in tanto in occasione di qualche evento mondano e abbiamo anche avuto rapporti d'affari, in genere attraverso il suo primo marito.» Sorseggiò il vino, fissando il vapore che saliva dalla vasca. «La consideravo una persona ammirevole, saggia e pericolosa.» Eve si sollevò a sedere così bruscamente che l'acqua le schiaffeggiò i capezzoli. «Pericolosa? Per te?» «Non per me in particolare.» Roarke incurvò leggermente le labbra prima di portarsi il bicchiere alla bocca. «Ma per le attività illecite, per le illegalità grandi e piccole, per le menti criminali. Da questo punto di vista ti assomigliava. È una fortuna che io mi sia ormai messo sulla retta via.» Quanto a questo, Eve non ne aveva un'assoluta certezza, ma lasciò correre. «Grazie ai vostri rapporti d'affari e ai fuggevoli incontri in società, hai idea di chi potesse desiderare di vederla morta?» Lui bevve un altro sorso di vino, più abbondante. «È un interrogatorio, tenente?» Fu la lieve canzonatura che risuonò nella sua voce a farle rizzare il pelo. «Forse», tagliò corto.
«Come vuoi.» Roarke si alzò, posò di lato il bicchiere e cominciò a sbottonarsi la camicia. «Che cosa stai facendo?» «Mi adeguo alla situazione, se così si può dire.» Gettò da un canto la camicia e si sfilò i pantaloni. «Se devo essere interrogato da un funzionario di polizia nudo, nella mia stessa vasca, il minimo che io possa fare è mettermi al suo livello.» «Maledizione, Roarke, stiamo parlando di un omicidio.» Lui trasalì nel sentirsi scottare dall'acqua bollente. «Se lo dici tu.» La guardò attraverso quel mare di schiuma. «Che cosa c'è in me di così perverso da renderti tanto grintosa? E», proseguì, non lasciandole il tempo di esporre le proprie ragioni con poche e sentite parole, «che cosa c'è in te che mi attrae tanto, anche quando te ne stai lì seduta con un invisibile distintivo appuntato al tuo adorabile petto?» Poi allungò una mano nell'acqua e gliela fece scorrere sulla caviglia, sul polpaccio, su quel punto nell'incavo dietro il ginocchio che, come lui ben sapeva, era fin troppo sensualmente ricettivo. «Ti voglio», mormorò. «Qui, ora.» Eve, nel sentire che la mano con cui stringeva lo stelo del bicchiere stava già per perdere la presa, si sforzò di ritrarsi. «Parlami di Cicely Towers.» Prendendo la cosa con filosofia, Roarke si tirò indietro. Non aveva intenzione di lasciar uscire Eve dalla vasca senza averla prima posseduta sessualmente, ma poteva pazientare ancora un po'. «Lei faceva parte, assieme al suo primo marito e a George Hammett, del consiglio d'amministrazione di una mia società, la Mercury, così chiamata in omaggio a Mercurio, il dio con le ali ai piedi, e la cui attività principale consiste nell'import-export, anche se controlla compagnie di navigazione, corrieri, trasporti celeri.» «So tutto della Mercury», tagliò corto Eve, stizzita, cercando di contenere la propria irritazione per essersi lasciata sfuggire che anche quel complesso industriale apparteneva a Roarke. «Quando acquistai la società, circa dieci anni fa, l'organizzazione faceva acqua da tutte le parti e le attività erano fallimentari. Una parte delle azioni fu comprata da Cicely e anche da suo marito, Marco Angelini. A quei tempi erano ancora sposati, mi pare, oppure divorziati da poco. Apparentemente il loro matrimonio si era sciolto all'insegna dell'amicizia, nei limiti in cui ciò è possibile. Anche Hammett investì nella Mercury. Credo che il suo coinvolgimento sentimentale con Cicely risalga ad alcuni anni dopo.»
«E in questo triangolo Angelini-Towers-Hammett i rapporti erano tutti amichevoli?» «A giudicare dalle apparenze, sì.» Roarke batté pigramente la mano su una piastrella. Quando questa scivolò di lato rivelando un pannello nascosto, lui vi scelse un motivo musicale. Dal ritmo lento e romanticheggiante. «Se ti preoccupi di come sia finita questa storia per me, ti dico subito che si è risolta bene: è stato un ottimo affare, molto vantaggioso.» «Quanta attività di contrabbando c'è dietro la Mercury?» Sul volto di Roarke lampeggiò un sorriso. «Suvvia, tenente!» L'acqua schiaffeggiò i bordi della vasca quando lei si rizzò di colpo. «Non prendermi per il culo, Roarke.» «Eve, non c'è nulla che io desideri più ardentemente.» Lei digrignò i denti e sferrò un calcio alla mano che si stava insinuando lungo la sua gamba. «Cicely Towers era famosa per essere un procuratore distrettuale tutto d'un pezzo, dedito al suo lavoro, senza la minima macchia. Se avesse scoperto che qualche affare della Mercury era illecito, non avrebbe esitato a trascinarti in tribunale.» «Allora, secondo te, lei avrebbe scoperto i miei misfatti e io, dopo averla attirata in un quartiere malfamato, le avrei fatto tagliare la gola.» Fissava Eve negli occhi, con uno sguardo impenetrabile. «È questo che credi, tenente?» «No, dannazione, sai benissimo che non è così, ma...» «Altri potrebbero pensarlo», concluse Roarke per lei. «Il che ti metterebbe in una posizione delicata.» «Non è questo a preoccuparmi.» Al momento, era in ansia soltanto per lui. «Roarke, ho bisogno di sapere. Ho bisogno che tu mi dica se c'è qualcos'altro, di qualsiasi genere, che possa coinvolgerti nelle indagini.» «E se ci fosse?» Eve si sentì raggelare. «Dovrò chiedere che il caso venga affidato a qualcun altro.» «Non ti sei già trovata in una situazione simile?» «Questo non è come il caso DeBlass. La situazione è completamente diversa. Tu non rientri nella rosa dei sospetti.» Nel vederlo inarcare un sopracciglio, si sforzò di dare alla propria voce un tono di ragionevolezza invece che di esasperazione. Perché tutto diventava sempre così complicato quando c'era di mezzo Roarke? «Non credo che tu abbia nulla a che vedere con l'omicidio di Cicely Towers. Sono stata abbastanza chiara?» «Non hai espresso completamente il tuo pensiero.»
«D'accordo. Sono un poliziotto. Ci sono domande che devo porre. E le devo rivolgere a te come a chiunque altro abbia avuto rapporti, anche se irrilevanti, con la vittima. Non posso cambiare questo stato di cose.» «Ti fidi di me?» «La fiducia che posso avere in te non c'entra con tutto questo.» «Non hai risposto alla mia domanda.» I suoi occhi erano diventati gelidi, distanti, e lei capì di aver compiuto un passo falso. «Se ancora non ti fidi di me, allora, credimi, il rapporto che c'è fra noi, anche se abbastanza coinvolgente, è fatto solo ed esclusivamente di sesso.» «Stai travisando la situazione.» Eve si sforzò di rimanere calma perché lui le faceva paura. «Non ti sto accusando di nulla. Se avessi preso in mano questo caso senza conoscerti o preoccuparmi per te, ti avrei inserito subito nella lista degli indiziati, ma ti conosco, perciò finiamola con questa manfrina. Dannazione.» Chiuse gli occhi e si fregò il viso con le mani bagnate. Si trovava sempre a disagio quando doveva mettere a nudo i propri sentimenti. «Sto cercando di ottenere risposte che mi aiutino a tenerti quanto più possibile fuori da questa storia perché mi stai a cuore. E al tempo stesso non riesco a smettere di pensare quanto mi potrebbe essere utile conoscere il tuo rapporto personale con la Towers. E gli altri tuoi rapporti personali, punto. Mi riesce difficile fare le due cose contemporaneamente.» «Non capisco dove stia la difficoltà nel dire una cosa così semplice», mormorò Roarke, poi scosse la testa. «La Mercury opera nella più completa legalità - attualmente - perché non ha motivo di agire diversamente. Va a gonfie vele, i suoi bilanci sono ragionevolmente in attivo. E, se anche tu puoi considerarmi tanto presuntuoso da impegnarmi in attività criminali con un procuratore distrettuale nel mio consiglio di amministrazione, dovresti sapere che non sono così stupido.» Eve gli credette e sentì sciogliersi la morsa che da molte ore le attanagliava il petto. «Va bene. Ma dovrò farti altre domande. Anche perché i media ti hanno già ricollegato a questo caso.» «Lo so. Mi dispiace. Ti stanno rendendo la vita molto dura?» «Non hanno ancora cominciato.» Abbandonandosi a una delle sue rare manifestazioni d'affetto, gli prese la mano e gliela strinse. «Dispiace anche a me. A quanto pare, siamo di nuovo in ballo.» «Posso aiutarti.» Scivolò in avanti, così da potersi portare alle labbra le loro due mani allacciate. Vedendo Eve sorridere, capì che lei era finalmente pronta a rilassarsi. «Non è necessario che tu mi tenga fuori da tutto. Me
la posso cavare da me. E non c'è bisogno di sentirsi in colpa o a disagio al solo pensiero che io potrei esserti utile in questa indagine.» «D'ora in poi, quando riterrò di potermi servire di te, te lo dirò.» E stavolta, nel sentire la mano di lui serpeggiarle lungo la coscia, si limitò a inarcare le sopracciglia. «Sei hai intenzione di provarci qui dentro, avremo bisogno di un equipaggiamento da sub.» Roarke le si avvicinò fino a sovrastarla, con l'acqua che arrivò a lambire pericolosamente il bordo della vasca. «Oh, credo che potremo cavarcela a meraviglia anche così.» E, per provarglielo, coprì con la propria bocca quella sorridente di lei. Più tardi, quella notte, mentre lei gli dormiva accanto, Roarke rimase sveglio a osservare, attraverso il lucernario sopra il letto, le stelle che roteavano in cielo. Aveva negli occhi uno sguardo preoccupato, che qualche ora prima era riuscito a nascondere a Eve. I destini di loro due si erano strettamente intrecciati, tanto nella vita privata quanto in quella professionale. Era stato un omicidio a farli incontrare e il delitto avrebbe continuato a insinuarsi nelle loro esistenze. La donna accanto a lui difendeva le vittime. Come tante volte aveva fatto anche Cicely Towers, pensò e si chiese se fosse stato quello il motivo per cui era stata uccisa. Si era imposto di non preoccuparsi troppo o troppo spesso di come Eve avesse impostato la propria esistenza. Lei e la sua carriera erano tutt'uno. E lui lo sapeva perfettamente. Entrambi avevano costruito - o, meglio, ricostruito - la propria personalità, partendo da quel poco o nulla che erano. Lui era diventato un uomo che comprava e vendeva, che aveva in pugno molte cose e godeva del potere che gliene derivava. E del profitto. Tuttavia si rendeva conto che nelle sue attività c'erano alcuni lati oscuri che, se fossero venuti alla luce, avrebbero potuto mettere Eve in grosse difficoltà. Che la Mercury fosse pulita era un fatto innegabile, ma non era stato sempre così. Ed esistevano altre sue società, altri suoi interessi, che avevano a che fare con quelle zone grigie. Dopotutto era in queste che lui era cresciuto, nei loro angoli più bui. Ci si trovava perfettamente a suo agio. Il contrabbando, sia terrestre sia interstellare, era un affare lucroso e divertente: gli ottimi vini prodotti su Taurus Cinque, gli straordinari diamanti azzurri provenienti dalle miniere di Refini, le preziose porcellane trasparenti fabbricate su Marte nella Colonia delle Arti.
Era vero che lui non aveva più bisogno di infrangere la legge per vivere, perché viveva già nel lusso. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. E in ogni caso il problema restava: che cosa sarebbe accaduto se lui non avesse già da tempo tramutato la Mercury in un'impresa che operava legalmente? Quella che a lui pareva un'innocua scorciatoia affaristica sarebbe pesata su Eve come un macigno. A questo andava poi aggiunto l'umiliante fatto che, nonostante quanto loro due avevano cominciato a costruire in comune, Eve era ancora ben lontana dal fidarsi ciecamente di lui. Lei mormorò qualcosa, si agitò. Persino nel sonno, notò Roarke, esitava prima di girarsi verso di lui. E questo lo teneva sulle spine. Sarebbe stato necessario apportare al più presto qualche radicale cambiamento nella vita di entrambi. Per il momento lui si sarebbe occupato di ciò che era in grado di gestire. Sarebbe stato molto semplice, per lui, contattare qualcuno e rivolgere un paio di domande concernenti Cicely Towers. Sarebbe stato meno semplice, e avrebbe richiesto più tempo, convertire in chiaro quelle zone grigie che tanto lo preoccupavano. Abbassò lo sguardo e fissò Eve, che dormiva placidamente, con una mano distesa sul guanciale in una posa rilassata. Roarke sapeva che lei di tanto in tanto sognava, sogni che in realtà erano incubi. Ma questi al momento non la stavano turbando. Augurandosi che la situazione restasse tale per tutta la notte, scivolò fuori dal letto per mettersi all'opera. Eve fu svegliata dal profumo del caffè. Caffè autentico, fragrante, prodotto dai semi coltivati nella piantagione che Roarke aveva in Sudamerica. Da quando abitava in casa di Roarke, Eve fu costretta a confessare a se stessa, quello era stato uno dei primi lussi a cui si era via via abituata, fin quasi al punto di restarne schiava. Prim'ancora di aprire gli occhi, incurvò le labbra in un sorriso. «Cristo, il paradiso non può essere meglio di così.» «Sono felice di sentirtelo dire.» Benché i suoi occhi fossero ancora annebbiati dal sonno, riuscì a focalizzare lo sguardo su Roarke. Era già vestito di tutto punto e indossava uno di quei suoi completi scuri che gli davano un'aria efficiente e al tempo stesso inquietante. Nella zona adibita a salottino che si trovava al di là della piattaforma sopraelevata sulla quale si trovava il letto, lui sembrava intento a fare una piacevole colazione e a passare rapidamente in rassegna,
come ogni giorno, le ultime notizie che scorrevano sul suo monitor. Il gatto grigio che Eve aveva ribattezzato Galahad era disteso come un grasso lumacone sul bracciolo della poltroncina e fissava il piatto di Roarke con i suoi avidi occhi bicolori. «Che ore sono?» chiese lei e l'orologio sul comodino le sussurrò la risposta: le sei in punto. «Cristo, è da molto che sei alzato?» «Da un po'. Non mi avevi detto quando volevi essere svegliata.» Eve si passò le mani sul viso e anche fra i capelli, a mo' di pettine. «Ho ancora un paio d'ore di tempo.» Riscuotendosi a fatica, si trascinò fuori dal letto e si guardò in giro, con aria stordita, in cerca di qualcosa da indossare. Roarke le lanciò un'occhiata. Era sempre un piacere osservare Eve di mattina, nuda e con gli occhi gonfi di sonno. Le indicò la vestaglia che il droide addetto al servizio in camera da letto aveva raccolto dal pavimento e appeso ordinatamente ai piedi del letto. Eve se l'infilò, ancora troppo addormentata per avvertire l'inquietante sensazione della seta sulla pelle. Roarke le versò una tazza di caffè e attese che lei si sedesse sulla poltroncina di fronte a lui e lo sorseggiasse. Il gatto, pensando che la fortuna potesse finalmente girare dalla sua parte, le saltò in grembo, così pesantemente da strapparle un grugnito. «Hai dormito bene.» «Sì.» Eve ingollò un sorso di caffè quasi fosse una boccata d'aria pura e trasalì leggermente quando Galahad, dopo essersi accoccolato comodamente sul suo grembo, cominciò a farle la pasta sulle cosce con gli artigli appuntiti. «Ho quasi l'impressione di essere tornata a far parte del consesso umano.» «Hai fame?» Lei grugnì di nuovo. Sapeva già quali artisti popolassero la cucina di Roarke. Prese dal vassoio d'argento una pasta a forma di cigno e la trangugiò in tre estatici bocconi. Quando allungò la mano verso la caffettiera, aveva ormai gli occhi aperti e limpidi. In un empito di generosità, staccò la testa a un altro cigno e la diede a Galahad. «È sempre piacevole osservare il tuo risveglio», commentò Roarke. «Anche se a volte mi chiedo se tu non stia con me solo per il mio caffè.» «Be'...» Gli sorrise e bevette un altro sorso. «In realtà mi piace anche il cibo. E, per quanto riguarda il sesso, non ho nulla da ridire.» «Questa notte mi è sembrato che ti andasse piuttosto a genio. Oggi devo recarmi in Australia. Potrei non tornare prima di domani o dopodomani.»
«Oh.» «Vorrei che tu restassi qui comunque.» «Ne abbiamo già parlato. Non mi sento a mio agio.» «Non sarebbe così, forse, se tu considerassi questa casa come tua, oltre che mia. Eve...» Prima che lei potesse aprire bocca, posò una mano sulle sue. «Quando ti deciderai ad accettare ciò che provo per te?» «Ascolta, sto meglio a casa mia quando tu sei in viaggio. E in questo momento ho molto lavoro.» «Non hai risposto alla mia domanda», mormorò Roarke. «Non importa. Ti farò sapere quando torno.» Aveva parlato con voce tagliente, gelida, voltando poi verso di lei il monitor. «A proposito del tuo lavoro, potrebbe interessarti vedere che cosa dicono i media.» Eve lesse il primo titolo con una sorta di stanca rassegnazione. Mordicchiandosi le labbra, passò da un giornale all'altro. Dicevano più o meno tutti la stessa cosa: che un noto procuratore distrettuale di New York era stato assassinato e che la polizia annaspava. Il tutto corredato, ovviamente, da foto della Towers. Nelle aule di giustizia, di fronte al tribunale, assieme ai figli, con tanto di commenti e citazioni. Eve emise un leggero ringhio nel vedere la propria foto con una didascalia in cui veniva definita il funzionario di punta della Omicidi di New York. «Me lo faranno pagare caro, questo», mormorò. C'era anche altro, naturalmente. Alcuni giornali riportavano un breve resoconto del caso da lei risolto durante l'inverno appena trascorso, riguardante un noto senatore degli Stati Uniti e, come vittime, tre prostitute. Ovviamente la sua relazione con Roarke era menzionata ovunque. «Perché mai alla gente dovrebbe interessare chi sono io o con chi sto?» «Sei finita sotto le luci dei riflettori del pubblico, tenente. Il tuo nome fa vendere.» «Sono un poliziotto, non un personaggio mondano.» Schiumante di rabbia, si voltò verso l'elaborata griglia che prendeva tutta la parete opposta. «Aprire lo schermo», ordinò. «Channel 75.» La griglia scivolò di lato, mettendo a nudo lo schermo. I suoni del programma televisivo mattutino riempirono la stanza. Eve strinse le palpebre e digrignò i denti. «C'è quello stronzo tutto denti e niente palle.» Divertito, Roarke sorseggiò il proprio caffè guardando C.J. Morse che conduceva il suo programma delle sei. Aveva già capito che negli ultimi
due mesi l'insofferenza di Eve nei riguardi dei media si era tramutata in totale disprezzo. Un disprezzo che nasceva dal semplice fatto che lei era ormai costretta a rendere conto a quella gente di ogni istante della sua vita professionale e privata. Anche se, a prescindere da quel particolare, lui non riteneva di poterla biasimare se provava disgusto per Morse. «E così una grande carriera è stata tranciata di netto, crudelmente, brutalmente. Una donna dalle ferree convinzioni, tutta dedita al proprio lavoro, di una specchiata integrità, è stata uccisa per strada nella nostra metropoli, lasciata in un lago di sangue sotto la pioggia. Cicely Towers non sarà dimenticata, perché tutti la ricorderanno come una persona che lottava per la giustizia in un mondo in cui noi ci affanniamo per averla. Neppure la morte potrà gettare un'ombra sull'eredità che lei ci lascia. «Ma il suo assassino sarà consegnato a quella giustizia per cui lei si è battuta in ogni attimo della sua vita? Ora come ora dal Dipartimento di polizia e sicurezza di New York non ci arriva il minimo barlume di speranza. L'ufficiale incaricato delle indagini, il tenente Eve Dallas, il fiore all'occhiello della Omicidi, non è riuscita a dare una risposta a questa domanda.» Eve emise un ringhio quando vide la propria immagine riempire lo schermo. La voce di Morse continuò a risuonare. «Raggiunta telefonicamente, Eve Dallas si è rifiutata di parlare dell'omicidio e delle indagini in corso. Non ha neppure smentito l'ipotesi che sia in atto un tentativo di insabbiamento...» «Ma senti che cosa dice questo bastardo ipocrita! Non mi ha chiesto nulla a proposito di un insabbiamento. E insabbiamento di che cosa?» Il pugno che sferrò al bracciolo della poltroncina indusse Galahad a balzare via dal suo grembo, per trovare un rifugio più sicuro. «Non sono trascorse neanche trenta ore da quando ho preso in mano questo caso.» «Ssst», la zittì pacatamente Roarke, lasciando però che saltasse in piedi e cominciasse a camminare avanti e indietro nella stanza. «... il lungo elenco di noti personaggi che avevano stretti rapporti con il procuratore distrettuale Towers, fra cui il comandante Whitney, ai cui ordini risponde il tenente Dallas. Il comandante ha recentemente rifiutato la nomina a capo della polizia e della sicurezza. Intimo amico da lungo tempo della vittima...» «Come osa?» In uno scatto di rabbia, Eve spense manualmente lo schermo. «Lo farò a pezzi, quel verme. Dove diavolo è Nadine Furst? Se dobbiamo proprio avere un giornalista incollato al sedere, lei almeno è in-
telligente.» «Credo che si trovi nella stazione penale di Omega, a scrivere una serie di articoli sulla riforma carceraria. Dovresti organizzare una conferenza stampa, Eve. Il modo più semplice per smorzare un rogo di questo genere consiste nel gettare sul fuoco un ciocco ben scelto.» «Al diavolo. Che cos'era quella trasmissione, un servizio di cronaca o un editoriale?» «Da quando, trent'anni fa, è stata approvata la nuova legge sui media, non c'è molta differenza. Un cronista non è più tenuto a riferire i fatti in modo impersonale, ma ha ormai il diritto di esprimere la propria opinione, purché lo dica chiaramente.» «Conosco quella dannata legge.» Mentre si voltava, la lussureggiante vestaglia le avviluppò le gambe. «Quell'uomo non può permettersi di insinuare che sia in atto un insabbiamento. Whitney dirige la Omicidi in modo limpido, così come io conduco le indagini. E Morse non può neppure permettersi di usare il tuo nome per offuscare tale limpidezza», proseguì. «Con la scusa di riferire un fatto di cronaca, era lì che voleva arrivare. In seconda battuta.» «Morse non mi preoccupa, Eve. E tu non dovresti prendertela così a cuore.» «Non me la piglio. Ma quell'uomo mi manda su tutte le furie.» Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, per calmarsi. Poi, lentamente, molto lentamente, e con un'espressione maligna, iniziò a sorridere. «Mi è venuta in mente una mossa perfetta per fargliela pagare.» Riaprì gli occhi. «Come credi che la prenderà, quel piccolo bastardo, se contattassi la Furst e le concedessi un'esclusiva?» Roarke posò da un canto la sua tazza. «Vieni qui.» «Perché?» «Non importa.» Si alzò lui, invece, e le si avvicinò. Le prese il viso fra le mani e la baciò appassionatamente. «Sono pazzo di te.» «Ne deduco che la mia idea ha riscosso la tua approvazione.» «Dal mio defunto e non rimpianto padre ho ricevuto una sola lezione veramente utile. 'Ragazzo', mi diceva con la sua voce impastata da bevitore incallito, 'c'è un unico modo per vincere un combattimento ed è quello di giocare sporco. Devi colpire sempre sotto la cintola.' Ho la sensazione che prima di sera costringerai Morse a massaggiarsi le palle.» «No, non potrà farlo.» Soddisfatta di se stessa, Eve gli restituì il bacio. «Perché gliele avrò affettate.»
Roarke fece scherzosamente finta di rabbrividire. «Le donne crudeli sono affascinanti. Non avevi detto di avere un paio d'ore di tempo?» «Non più, ormai.» «Lo temevo.» Arretrò di un passo e si tolse di tasca un dischetto. «Ti potrà essere utile.» «Che cos'è?» «Contiene alcune informazioni che ho raccolto, sul primo marito della Towers e su Hammett. C'è anche qualcosa sulla Mercury.» Eve prese il dischetto con dita diventate esangui. «Non ti avevo chiesto di farlo.» «No, non me l'avevi chiesto. Ci saresti riuscita da te, comunque, a ottenere queste informazioni, ma ci avresti messo più tempo. Se hai bisogno delle mie apparecchiature, sono a tua disposizione, lo sai.» Eve capì che stava parlando delle apparecchiature elettroniche che lui teneva chiuse in un locale praticamente inaccessibile, così sofisticate da sfuggire ai sensori del Compuguard, l'organo federale di controllo sulle comunicazioni informatiche. «Per il momento preferisco utilizzare canali regolari.» «Come vuoi. Se, in mia assenza, tu dovessi cambiare idea, Summerset sa che puoi andare in quella stanza.» «Summerset si augura che io vada all'inferno», mormorò Eve. «Scusa?» «Nulla. Devo vestirmi.» Fece per voltarsi, ma si bloccò. «Roarke, ci sto provando.» «A fare che cosa?» «Ad accettare i sentimenti che tu sembri nutrire per me.» Lui assunse un'espressione ironica. «Mettici un maggiore impegno», suggerì. 3 Eve non perse tempo. Appena arrivata in ufficio, come prima cosa contattò Nadine Furst. Il collegamento con il canale galattico si rivelò pieno di fruscii e rumori gracchianti. Che fosse colpa delle macchie solari, di qualche sovrapposizione di satelliti o, più semplicemente, delle apparecchiature antiquate, fatto sta che ci vollero parecchi minuti prima che la trasmissione iniziasse. Finalmente sullo schermo apparve un'immagine, dapprima sfocata, poi, di colpo, chiara.
Nel vedere il volto pallido e sonnacchioso di Nadine, Eve si rese conto di non aver considerato la differenza di ora. «Dallas.» La voce della giornalista, di solito melodiosa, era debole e rauca. «Cristo, qui è notte fonda.» «Mi dispiace. Sei sveglia, Nadine?» «Quel che basta per odiarti.» «Lassù dove ti trovi, hai ricevuto le ultime notizie dalla Terra?» «Ho avuto parecchio da fare.» Nadine si ravviò i capelli scarmigliati e allungò la mano a prendere una sigaretta. «Da quando in qua fumi?» Con un sussulto, Nadine tirò una prima boccata. «Se mai a voi poliziotti terrestri capitasse di venire quassù, non riuscireste a farne a meno. In questa maledetta tana di topi puoi comprare tutto il tabacco che vuoi. E ci trovi qualunque altra schifezza. È un vero obbrobrio.» Inspirò altro fumo. «In una stessa cella ci sono fino a tre ergastolani, quasi tutti tossicodipendenti. Droghe chimiche, arrivate quassù di contrabbando. La situazione sanitaria non è molto diversa da quella del ventesimo secolo. Qui i chirurghi usano ancora il filo di refe per ricucire le ferite.» «E ai detenuti non è concesso vedere la televisione a proprio piacimento», concluse Eve. «Incredibile, gli assassini trattati come criminali. Mi si spezza il cuore, a pensarci.» «Nell'intera colonia non riesci a trovare da nessuna parte un pasto decente», brontolò Nadine. «Che diavolo vuoi da me?» «Strapparti un sorriso, Nadine. Quando concluderai la tua inchiesta lassù e tornerai sul nostro pianeta?» «Dipende.» Nadine, ormai quasi completamente sveglia, prese a rizzare le antenne. «Hai qualcosa per me.» «Non più di trenta ore fa è stata assassinata Cicely Towers, il procuratore distrettuale.» Senza badare all'esclamazione di raccapriccio sfuggita a Nadine, Eve proseguì rapidamente. «Le hanno tagliato la gola e il suo cadavere è stato trovato sulla 144th, tra la 9th e la 10th.» «La Towers. Cristo santo. Le avevo fatto un'intervista due mesi fa, dopo il caso DeBlass. Hai detto la 144th?» La sua mente stava già lavorando a pieno regime. «È stata vittima di una rapina?» «No. Non le hanno portato via né i gioielli né le carte di credito. E in quel quartiere un rapinatore non le avrebbe lasciato neppure le scarpe.» «No, certo.» Nadine chiuse per un attimo gli occhi. «Maledizione. Era una donna formidabile. Le indagini sono state affidate a te?»
«Brava, hai fatto subito centro.» «Va bene.» Nadine si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Mi chiedo allora per quale motivo la responsabile di quello che sarà il caso giudiziario più importante del nostro Paese abbia voluto contattarmi.» «Lo sai perfettamente, Nadine. I tuoi illustri colleghi. Morse mi sta sbavando sul collo.» «Quel farabutto», mormorò la giornalista, schiacciando la sigaretta con gesti rapidi e nervosi. «Ora capisco perché non ho avuto sentore di questa storia. Ha fatto in modo di tenermi all'oscuro.» «Se giochi con me a carte scoperte, Nadine, io farò altrettanto.» Negli occhi di Nadine balenò uno sguardo tagliente e un fremito le percorse le narici. «Mi concedi l'esclusiva?» «Discuteremo i termini dell'accordo non appena sarai di ritorno. Spicciati a rientrare sulla Terra.» «Fa' conto che sia già lì.» Eve sorrise allo schermo vuoto. Sarà un boccone duro da ingoiare, questo, per il tuo vorace stomaco, C.J., pensò. Mentre si alzava dalla scrivania, canticchiava fra sé. Doveva andare a fare visita a un po' di gente. Alle nove di mattina, Eve stava facendo anticamera nell'elegante salotto dell'appartamento di George Hammett, nei quartieri alti di Manhattan. I gusti di quell'uomo tendevano al melodrammatico, notò. Nonostante gli stivali, avvertiva il gelo del pavimento, coperto da enormi piastrelle quadrate rosso scuro e bianco. Dall'audio dell'ologramma, che raffigurava una scena tropicale e copriva un'intera parete, usciva un musicale fruscio di acque che si infrangevano sulle rocce. I cuscini del lungo e basso divano mandavano riflessi argentei e Eve, quando vi affondò un dito, ebbe l'impressione che fossero rivestiti di un cuoio morbido come seta. Decise perciò di continuare a restare in piedi. Nella stanza erano volutamente sparsi parecchi manufatti artistici. Una torre intagliata che ricordava le rovine di qualche antico castello, una maschera dai tratti femminei inserita in un vetro opalino rosato, un oggetto a forma di bottiglia che, non appena veniva a contatto con il calore della mano, mandava lampi colorati, vividi e cangianti. Quando Hammett entrò da una stanza adiacente, Eve lo giudicò tanto melodrammatico quanto i suoi arredi. Il marcato pallore e le palpebre pesanti rendevano ancora più affascinante il suo aspetto. Era alto ed elegantemente dinoccolato. Le guance incava-
te davano un'aria poetica al suo viso. Diversamente da molti dei suoi coetanei (Eve sapeva che doveva avere una sessantina d'anni), aveva scelto di non tingersi i capelli brizzolati. Un'ottima decisione, pensò Eve, dal momento che i bagliori argentei della sua folta criniera leonina ricordavano i candelabri di epoca georgiana che lei aveva ammirato in casa di Roarke. Gli occhi avevano quello stesso fascinoso colore, anche se al momento erano offuscati da qualcosa che poteva essere dolore o stanchezza. Hammett le si avvicinò e le prese la mano fra le sue. «Eve.» Quando le sue labbra le sfiorarono la guancia, lei trasalì. Quell'uomo tentava di dare al loro colloquio un'impronta personale. Ed entrambi ne erano consapevoli, si disse. «George», ribatté, ritraendosi abilmente. «La ringrazio di avermi concesso un po' del suo tempo.» «Non lo dica neppure. Mi scusi se l'ho fatta attendere. Ero impegnato in una telefonata che non potevo lasciare a metà.» Le indicò il divano e, nel compiere quel gesto, fece fluttuare le maniche della sua camicia sportiva. «Che cosa posso offrirle?» «Nulla, grazie.» «Neppure un caffè?» Abbozzò un sorriso. «Se non ricordo male, lei ne va matta. Ho la stessa miscela che usa Roarke.» Premette un pulsante sul bracciolo del divano, facendo comparire di colpo un piccolo schermo. «Una caffettiera di Argentine Gold», ordinò, «con due tazze.» Poi, sempre con quel leggero e discreto sorriso sulle labbra, si voltò verso Eve. «Mi aiuta a rilassarmi», le spiegò. «Non sono rimasto assolutamente sorpreso da questa sua visita mattutina, Eve. Forse dovrei chiamarla tenente Dallas, date le circostanze.» «Allora sa perché sono qui.» «Ovviamente. Per Cicely. Non riesco ancora a crederci.» La sua voce vellutata si incrinò leggermente. «Ho sentito un'infinità di commenti in televisione, ne ho parlato con i suoi figli e con Marco. Ciò nonostante, non riesco ad accettare il fatto che lei non ci sia più.» «Vi eravate visti, la sera in cui fu uccisa.» Un muscolo della sua guancia si contrasse. «Sì, a cena. Cenavamo spesso insieme, quando i reciproci impegni ce lo permettevano. Una volta alla settimana, come minimo. Anche di più, se era appena possibile. Eravamo buoni amici.» Si interruppe perché nella stanza era silenziosamente entrato un piccolo droide che veniva a servire il caffè. Hammett lo versò personalmente,
compiendo quel gesto con una concentrazione quasi eccessiva. «Soltanto buoni amici?» mormorò, e Eve, nel vederlo sollevare la tazza, si accorse che la mano gli tremava impercettibilmente. «Dovrei dire piuttosto amici intimi. Eravamo amanti, amanti appassionati, da parecchi anni. Io l'amavo moltissimo.» «Eppure non abitavate insieme.» «Sì, lei... entrambi avevamo deciso così. I nostri gusti, esteticamente parlando, erano assai diversi, ma la semplice verità è che tutti e due non potevamo rinunciare alla nostra indipendenza e a uno spazio personale. Il piacere reciproco era reso ancora più intenso, credo, dal fatto di mantenere una certa distanza.» Inspirò profondamente. «Ma la nostra relazione non era certo un segreto, almeno per parenti e amici.» Esalò lentamente il fiato. «In pubblico preferivamo entrambi tenere nascosta la nostra vita privata. Ora prevedo che non sarà più possibile.» «Lo credo anch'io.» Lui scrollò il capo. «Non importa. L'unica cosa importante è trovare il colpevole. Personalmente non me la sento di mettermi in gioco. Nulla può cambiare il fatto che lei non ci sia più. Cicely», aggiunse lentamente, «era la donna più straordinaria che io abbia mai conosciuto.» Istintivamente, come essere umano e come poliziotto, Eve capì che quell'uomo era in preda a un'autentica e profonda sofferenza, il che però non le fece dimenticare che persino gli assassini piangono per le loro stesse vittime. «Ho bisogno che lei mi dica a che ora vi siete visti per l'ultima volta. Sto registrando, George.» «Sì, certo. Erano circa le dieci di sera. Avevamo cenato da Robert's, sulla 12th Est. Dopo, siamo saliti insieme in un taxi e lei è scesa per prima. Erano più o meno le dieci», ripeté. «So di essere rientrato verso le dieci e un quarto perché avevo diversi messaggi in attesa.» «Qual era la vostra normale routine?» «Cosa? Oh.» Si strappò a fatica da un intimo mondo di ricordi. «In realtà non avevamo precise abitudini. Spesso venivamo qui o andavamo nel suo appartamento. Di tanto in tanto, quando ci sentivamo particolarmente temerari, affittavamo per una notte una suite al Palace.» Si interruppe bruscamente e si alzò dal morbido divano argenteo, con lo sguardo diventato di colpo vacuo e l'aria sconvolta. «Oh, mio Dio, mio Dio!» «Mi dispiace.» Parole inutili, lo sapeva bene, che non potevano lenire il dolore. «Mi dispiace molto.» «Sto iniziando a crederci», riprese Hammett con voce bassa e rauca. «È
ancora peggio, me ne rendo conto, quando si comincia ad accettare la realtà. Nello scendere dal taxi lei rideva e con la punta delle dita mi ha lanciato un bacio. Aveva mani così belle. E io sono tornato a casa e mi sono dimenticato di lei perché avevo quei messaggi in attesa. Sono andato a dormire verso mezzanotte, ho preso un blando tranquillante perché la mattina seguente avevo un appuntamento di buon'ora. Mentre io ero a letto, al sicuro, lei giaceva morta sotto la pioggia. Non so se riuscirò a reggere a tutto questo.» Si voltò, con il volto già pallido diventato esangue. «Non so se ce la farò.» Eve non poteva aiutarlo. Anche se lo strazio di quell'uomo era così tangibile che lei stessa aveva l'impressione di riuscire a toccarlo con mano, non poteva fare nulla per aiutarlo. «Avrei voluto procrastinare questo incontro, darle il tempo di riprendersi, ma è semplicemente impossibile. Per quanto ne sappiamo, lei è stato l'ultimo a vedere Cicely Towers viva.» «A parte l'assassino.» Raddrizzò le spalle. «A meno che, ovviamente, non sia stato io a ucciderla.» «Sarà meglio per tutti se mi darà la possibilità di scartare il più rapidamente possibile questa ipotesi.» «Già, certo, sarebbe meglio... tenente.» Eve accettò l'amarezza nella sua voce e andò avanti imperterrita. «Se lei fosse in grado di dirmi a quale compagnia apparteneva il taxi, potrei accertare i suoi movimenti.» «È stato il ristorante a chiamarlo. Mi pare che fosse un Rapid.» «Nell'arco di tempo compreso fra mezzanotte e le due, lei ha visto o parlato con qualcuno?» «Gliel'ho già detto, ho preso un tranquillante e a mezzanotte dormivo già. Da solo.» Eve avrebbe potuto verificarlo attraverso le registrazioni delle apparecchiature di videosorveglianza dell'edificio, anche se aveva avuto modo di appurare di persona con quale facilità quei congegni potessero essere manomessi. «Può dirmi di che umore fosse la Towers quando vi siete lasciati?» «Era vagamente distratta, per il caso che stava istruendo. Ma era ottimista al riguardo. Abbiamo parlato un po' dei suoi figli, in particolare della femmina. Mirina aveva intenzione di sposarsi il prossimo autunno. Cicely ne era entusiasta ed era anche eccitata, perché Mirina voleva un matrimonio in grande stile, con tutti gli annessi e connessi che andavano di moda nei tempi andati.»
«Ha accennato a qualcosa che la preoccupava? Qualcosa o qualcuno con cui aveva a che fare?» «Nulla che possa avere una qualche attinenza. L'abito da sposa più adatto, gli ornamenti floreali. Le sue speranze di riuscire a far infliggere la pena più severa al criminale il cui caso lei stava seguendo.» «Ha mai accennato a minacce o a qualche comunicazione, messaggio, contatto fuori del normale?» «No.» Per un attimo si coprì gli occhi con una mano, lasciandola poi ricadere lungo il fianco. «Crede forse che, se potessi anche solo minimamente sospettare il motivo per cui è avvenuto tutto questo, non glielo direi?» «Perché la Towers è andata nell'Upper West Side a quell'ora di notte?» «Non ne ho idea.» «Aveva l'abitudine di incontrare informatori, gole profonde?» Hammett aprì la bocca, ma la richiuse. «Non so», mormorò quindi, pensieroso. «Non avrei mai pensato... ma lei era così testarda, così sicura di sé.» «Mi parli dei rapporti della Towers con il primo marito. Lei come li definirebbe?» «Amichevoli. Cicely stava un po' sulle sue, ma in modo gentile. A unirli c'era il comune amore per i figli. Marco si era un po' seccato quando lei si era messa con me, ma...» Si interruppe e fissò Eve. «Non starà mica ipotizzando...» Emise un verso che ricordava una risata e si coprì il viso. «Marco Angelini che gira armato di coltello in quel quartiere, con l'intenzione di uccidere la sua ex moglie? No, tenente.» Lasciò nuovamente ricadere le mani. «Marco ha i suoi difetti, ma non ha mai fatto del male a Cicely. E la vista del sangue offenderebbe il suo senso della proprietà. È troppo freddo, troppo cauto per ricorrere alla violenza. E non aveva ragione, non aveva il minimo motivo per desiderare che lei morisse.» Ma quello, pensò Eve, toccava a lei stabilirlo. Quando lasciò l'appartamento di Hammett e raggiunse il West End, fu come passare da un mondo a un altro. Niente più cuscini argentei né tintinnanti cascatelle, bensì marciapiedi sconnessi, ignorati dall'ultima campagna Abbelliamo-la-città, e facciate di edifici sconciate da graffiti che invitavano i passanti alle più innominabili pratiche sessuali umane e bestiali. Le vetrine dei negozi erano coperte da griglie di sicurezza, molto più a buon mercato, ma meno efficaci dei campi magnetici usati nelle zone fre-
quentate dalla gente altolocata. Eve non si sarebbe stupita se le fosse capitato di vedere qualche roditore tenuto a bada dai droidi felini che vagavano nei vicoli. Di roditori a due gambe ne scorse parecchi. Un tossico le sorrise, mettendo in mostra le gengive sdentate, e si massaggiò con aria fiera i testicoli. Uno spacciatore, dopo averla squadrata rapidamente, ma accuratamente, e aver riconosciuto in lei un poliziotto, nascose la testa sotto la corona di piume che cingeva la sua chioma color rosso magenta e si allontanò frettolosamente, in cerca di pascoli più sicuri. Alcune droghe particolari erano ancora fuori legge e qualche agente della Narcotici si preoccupava di verificare che non venissero spacciate. Ma Eve, almeno per il momento, non era uno di quegli agenti. A meno che una piccola storta al braccio non potesse aiutarla a trovare le risposte che cercava. La pioggia aveva cancellato buona parte del sangue e gli uomini della Scientifica, dopo aver passato al setaccio le immediate vicinanze della scena del delitto, dovevano aver portato via ogni minima cosa che potesse tornare utile come prova. Ciò nonostante Eve indugiò un attimo nel punto preciso in cui la Towers aveva esalato l'ultimo respiro e non le fu difficile immaginare la scena. Ma ora aveva bisogno di visualizzare gli attimi precedenti. Cicely era ferma qui, in piedi, si chiese, di fronte alla persona che stava per ucciderla? È molto probabile. Ha visto il coltello prima che questo le tagliasse la gola? È possibile. Ma non ha avuto il tempo sufficiente per una reazione diversa dal semplice sussultare o ansimare. Sollevato lo sguardo, esaminò la strada. Pur avendo i nervi a fior di pelle, fece finta di non notare le occhiate di alcuni individui fermi contro i muri delle case o che vagavano attorno ad auto dalle carrozzerie arrugginite. Cicely Towers era arrivata fin lì, ma non in taxi. Fino a quel momento dall'esame dei registri di tutte le compagnie di taxi non risultava che lei fosse montata su una vettura pubblica o ne fosse scesa. Eve dubitava che fosse stata così folle da prenderne una priva della regolare licenza. È venuta in metropolitana, concluse. Un mezzo rapido e, grazie ai controlli elettronici e alla sorveglianza di agenti droidi, sicuro quanto una chiesa, almeno finché non si risaliva in strada. E, a meno di mezzo isolato di distanza, scorse l'insegna di una stazione della sotterranea. Sì, è venuta in metropolitana, decise. Forse perché aveva fretta? Era
certamente seccata all'idea di dover uscire in una notte così piovosa. Ma sicura di sé, come ha detto Hammett. E tutt'altro che impaurita. Ha salito le scale che portavano in strada, vestita elegantemente, con scarpe di lusso ai piedi. Lei... Eve si interruppe, socchiudendo le palpebre. Senza ombrello? Dov'è finito il suo dannato ombrello? Una donna così meticolosa, pratica, ben organizzata, non esce sotto la pioggia senza proteggersi in qualche modo. Estrasse rapidamente il registratore e mormorò qualche parola, per ricordarsi di controllare quel dettaglio. L'assassino l'aspettava in strada? In una stanza? Esaminò le facciate degli edifici circostanti, dall'aria abbandonata, con i mattoni semisgretolati. In un bar? In un club di prostitute? «Ehi, ragazza bianca.» Con le sopracciglia aggrottate, Eve si voltò verso l'uomo che le aveva rivolto la parola. Era grande come un armadio e, a giudicare dal colorito decisamente scuro, un autentico nero. Come molti degli abitanti di quel quartiere, portava alcune penne infilate nei capelli. Aveva su una guancia un tatuaggio, di un verde acceso, che raffigurava un teschio umano ghignante. Indossava un panciotto rosso, aperto, e pantaloni dello stesso colore, così attillati da mettere in evidenza il suo pene turgido. «Ehi, ragazzo nero», replicò Eve, nello stesso tono di blando disprezzo. Sul viso incredibilmente brutto di quell'uomo balenò un largo sorriso radioso. «Hai voglia di muovere un po' le chiappe?» Piegò la testa verso la sgargiante insegna del club di spogliarello che si trovava sull'altro lato della strada. «Mi sembri tutta pelle e ossa, ma in quel locale ti accoglieranno a braccia aperte. Non ne hanno molte, di bianche come te. Sono quasi tutte sanguemisto.» Le diede un buffetto sotto il mento, con dita grosse come salsicciotti di soia. «Io sono il loro buttafuori e posso mettere una buona parola per te.» «Perché dovresti farlo?» «Per bontà di cuore e per il cinque per cento della tua paga, dolcezza. Una spilungona bianca come te può ricavare parecchio dai suoi ancheggiamenti.» «Apprezzo il pensiero, ma ho già un lavoro.» Quasi senza rimpianti, Eve tirò fuori il distintivo. L'omone fischiò a denti stretti. «Come ho fatto a non accorgermene? Ragazza bianca, non puzzi come uno sbirro.» «Dipenderà dal mio nuovo sapone. Hai un nome?»
«Tutti mi chiamano semplicemente Crack. È il rumore che faccio quando spacco un cranio.» Sorrise di nuovo e illustrò il concetto picchiando una contro l'altra le sue enormi mani. «Crack! Mi sono spiegato?» «Perfettamente. L'altroieri notte ti trovavi sulla porta del tuo locale, Crack?» «Be', mi dispiace, ma ero occupato altrove e mi sono perso tutto il divertimento. Era la mia serata di libertà e l'ho trascorsa assistendo ad alcuni spettacoli culturali.» «Quali spettacoli?» «La rassegna di film sui vampiri, al Grammercy. Ci sono andato con la mia attuale pollastrella. Mi piace un sacco vedere quei tipi che succhiano il sangue. Ma ho sentito dire che pure qui c'era stato uno spettacolo coi fiocchi. Hanno fatto fuori un magistrato. Importante e famoso, per giunta. Una donna bianca, non è così? Proprio come te, dolcezza.» «Esatto. Che cos'altro hai sentito dire?» «Io?» Si fece scorrere un dito sul davanti del panciotto. L'unghia del dito indice, coperta di smalto nero, era tanto lunga e affilata da sembrare uno stiletto. «Non sono il tipo che si abbassa ad ascoltare le chiacchiere di strada.» «Ci avrei scommesso.» Conoscendo le regole, Eve si sfilò di tasca un gettone equivalente a cento crediti. «E se io comprassi un po' della tua dignità?» «Be', il prezzo mi sembra giusto.» La sua grossa mano inglobò il gettone e lo fece sparire. «Ho sentito dire che verso mezzanotte quella tizia si è trattenuta a lungo al Five Moons. È tutto quello che so. Lei sembrava in attesa di qualcuno, che però non si è fatto vedere. Alla fine se n'è andata.» Lanciò un'occhiata al marciapiede. «Ma non ha fatto molta strada, eh?» «No, non è andata lontano. Ha chiesto di qualche persona in particolare?» «Non mi risulta.» «Qualcuno l'ha vista in compagnia di altri?» «Era una brutta notte. Con un tempo simile la gente se ne sta rintanata. Fatta eccezione per qualche tossico, ma gli affari vanno a rilento.» «Conosci qualcuno della zona a cui piaccia usare il coltello?» «Ragazza bianca, qui sono in molti a girare armati di coltelli e pugnali.» Roteò gli occhi con aria divertita. «E perché se li dovrebbero portare dietro, se non prevedono di usarli?» «Intendo dire uno che ci provi gusto», ribadì Eve. «Uno che non ci pensi
due volte a commettere un delitto.» Sul viso di Crack apparve di nuovo un largo sorriso, che sembrò far annuire il teschio tatuato sulla sua guancia. «Ci pensano tutti due volte. Che cosa credi?» Eve non insistette. «Ti risulta che qualcuno di qui sia uscito di prigione da poco?» Crack scoppiò in una risata crepitante come un fuoco di mortaretti. «Faresti meglio a chiedermi se conosco qualcuno che non sia appena uscito di prigione. E ho parlato fin troppo per il denaro che mi hai dato.» «Va bene.» Con grande disappunto di Crack, invece di estrarre altri gettoni dalla tasca Eve tirò fuori un biglietto da visita. «Ci saranno altri soldi per te, se verrai a sapere qualcosa che possa essermi utile.» «Tu intanto non dimenticare quanto ti ho detto: se ti salta il ticchio di guadagnare un piccolo extra mettendo in mostra le tue tettine bianche, fammelo sapere.» Attraversò quindi la strada con lunghi balzi aggraziati, sorprendentemente simile a un'enorme gazzella nera. Eve si voltò e si diresse verso il Five Moons, sperando di avere almeno lì un colpo di fortuna. Si disse che il locale poteva aver conosciuto tempi migliori, ma ne dubitava. Non era altro che una bettola: niente pista da ballo, nessuno schermo, nessuna cabina munita di video. La clientela che frequentava il Five Moons non ci andava per socializzare. Dal tanfo che le inondò di colpo le narici, nell'istante stesso in cui varcò la soglia, Eve capì che la gente si recava in quel posto al solo scopo di bruciarsi le budella con qualche intruglio. Persino a quell'ora la piccola sala quadrata era piena zeppa di avventori che, in silenzio, se ne stavano in piedi accanto a squallidi piedistalli a trangugiare il veleno che si erano scelti. Alcuni si accalcavano davanti al bancone del bar, per avere le bottiglie più a portata di mano. Eve attirò su di sé qualche occhiata mentre attraversava il pavimento appiccicoso, ma la gente tornò subito a rivolgere la propria attenzione al ben più serio impegno di soddisfare la propria sete. Il barista era un droide, come la maggior parte del personale utilizzato nei locali pubblici di quel genere, ma Eve dubitò che quello in particolare fosse stato programmato per ascoltare allegramente le tristi storie raccontate dai clienti. Con ogni probabilità fungeva soprattutto da buttafuori, pensò, scrutandolo, mentre si avvicinava al bancone. La ditta che l'aveva fabbricato ne aveva fatto un sanguemisto, con gli occhi a mandorla e la pelle dorata. Diversamente dalla maggior parte degli avventori intenti a bere, il
droide non era adorno di piume o perline, ma indossava un semplice camiciotto bianco su un corpo da lottatore. I droidi non accettavano mazzette, si disse Eve con un certo dispiacere. E con loro non si potevano usare minacce che fossero sciocche o illogiche. «Qualcosa da bere?» domandò l'automa. La sua voce aveva un leggero sibilo, una vaga risonanza da cui si poteva intuire che da troppo tempo il droide non veniva sottoposto a revisioni. «No.» Eve voleva salvaguardare la propria salute. Mostrò il distintivo, inducendo parecchi avventori a ritrarsi in un angolo. «Due notti fa è stato commesso un omicidio.» «Non in questo locale.» «Ma la vittima è passata di qui.» «Allora era viva.» Rispondendo a un segno che Eve non era riuscita a cogliere, il droide ritirò un lurido bicchiere dal tavolino di un avventore, vi versò un liquido dall'aspetto malsano e lo restituì. «C'eri tu, di servizio?» «Io lavoro qui ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette», rispose il droide, intendendo dire che era programmato per restare sempre in attività, senza pause di riposo o periodi di ferie. «Prima dell'altroieri avevi mai visto la vittima qui nel locale oppure da queste parti?» «No.» «Con chi si è incontrata la vittima?» «Con nessuno.» Eve tamburellò le dita sul ripiano appannato del bancone. «Va bene, mettiamola in modo più semplice. Ora mi dici a che ora quella donna è entrata, che cosa ha fatto, quando e come se n'è andata.» «Non rientra nei miei compiti tenere d'occhio gli avventori.» «Giusto.» Lentamente, Eve passò un dito sul bancone. Quando lo sollevò, fissò, corrugando le labbra, la sporcizia che si era accumulata sul polpastrello. «Io faccio parte della Omicidi e non rientra nei miei compiti prendere nota delle violazioni delle norme sanitarie. Però, sai, sono convinta che se facessi venire qui gli addetti alla tutela della salute pubblica, e se costoro dessero un'occhiata in giro con i loro sensori, salterebbero fuori cose da far rizzare i capelli. Così gravi da indurli a toglierti la licenza di vendita di alcolici.» Mentre pronunciava quelle parole, si disse che era una minaccia un po' sciocca, ma tutt'altro che illogica.
Il droide esitò un attimo, valutando le probabilità. «La donna è entrata a mezzanotte e sedici. Non ha bevuto. Se n'è andata all'una e dodici. Da sola.» «Ha parlato con qualcuno?» «Non ha aperto bocca.» «Aspettava qualcuno?» «Non gliel'ho chiesto.» Eve inarcò un sopracciglio. «L'hai osservata. Hai avuto l'impressione che stesse aspettando qualcuno?» «Apparentemente sì, ma nessuno è venuto a cercarla.» «È rimasta qui quasi un'ora. Che cosa ha fatto in tutto questo tempo?» «Stava ferma in piedi, a guardarsi attorno, con aria accigliata. Ha controllato spesso l'ora sul suo orologio. Alla fine se n'è andata.» «Qualcuno l'ha seguita fuori?» «No.» Con aria meditabonda, Eve si fregò sui jeans il dito insudiciato. «Aveva un ombrello?» Il droide parve sorpreso dalla domanda, nei limiti in cui un automa riusciva a manifestare un'emozione. «Sì, rosso, la stessa tonalità dell'abito.» «Quando è uscita, l'aveva con sé?» «Sì. Stava ancora piovendo.» Eve assentì, poi fece il giro del bar, per interrogare anche gli infelici avventori. Quando tornò alla centrale di polizia, non desiderava altro che farsi una lunga doccia. Dopo l'ora trascorsa al Five Moons aveva l'impressione che la sua pelle fosse coperta da un sottile strato di melma. E non solo la pelle, ma anche i denti, pensò, passandovi sopra la lingua. Prima di tutto, però, doveva stendere il rapporto. Irruppe nel proprio ufficio, ma si fermò di colpo nel vedere l'uomo dai capelli ispidi seduto davanti alla sua scrivania e intento a pescare mandorle glassate da un sacchetto. «Fortunati, quelli che riescono ad avere un lavoro come il tuo.» Feeney incrociò i piedi che aveva appoggiato sul bordo della scrivania di Eve. «Mi fa piacere rivederti, Dallas. Sei una donna molto impegnata.» «Alcuni di noi poliziotti sono costretti a lavorare per vivere. Altri si limitano a trascorrere le loro giornate trastullandosi con i computer.» «Avresti dovuto seguire i miei consigli e diventare un'esperta di infor-
matica.» Con un gesto più affettuoso che infastidito, Eve gli tolse i piedi dalla scrivania e posò le proprie natiche nello spazio rimasto vuoto. «Sei qui solo di passaggio?» «Sono venuto a offrirti i miei servizi, cara vecchia collega.» In un empito di generosità le porse il sacchetto con le mandorle. Eve se ne mise in bocca una e, mentre la masticava, osservò Feeney. Aveva un volto segnato da rughe cascanti, che gli davano un'aria da cane rassegnato a non essere preso in considerazione. Palpebre gonfie, un inizio di pappagorgia, orecchie leggermente troppo grandi rispetto al cranio. Ma a Eve piaceva così com'era. «Perché?» «Be', per tre motivi. Uno, il comandante ha richiesto in via ufficiosa il mio intervento; due, ammiravo molto la vittima.» «Ti ha chiamato Whitney in persona?» «È stata una richiesta informale», ribadì Feeney. «Mi è parso convinto che, se tu avessi avuto al tuo fianco una persona con le mie straordinarie capacità nella ricerca dei dati, avresti concluso le indagini più rapidamente. Non fa mai male avere una linea diretta con la Electronic Detection Division.» Eve meditò un istante, poi, ben sapendo quanto fossero davvero notevoli le capacità tecniche di Feeney, assentì. «Intendi partecipare alle indagini in modo ufficiale o ufficioso?» «Questo dipende da te.» «Allora in modo ufficiale, Feeney.» Lui sorrise e ammiccò. «Ci avrei giurato, che avresti deciso così.» «Come prima cosa, ho bisogno che tu ricostruisca tutti i contatti telefonici della vittima. Né sulla sua agenda né sulle registrazioni del circuito di videosorveglianza ho trovato alcuna indicazione su una visita ricevuta la sera della sua morte. Perciò qualcuno deve averle telefonato, per combinare un incontro.» «Consideralo già fatto.» «E ho bisogno di un rapporto su tutte le persone che lei aveva fatto condannare...» «Tutte?» la interruppe Feeney, con una punta, per quanto minima, di sgomento. «Tutte.» Sul volto di Eve balenò un sorriso radioso. «Credo che tu ci possa riuscire in metà del tempo che impiegherei io. Mi servono informa-
zioni anche su parenti, amanti, soci di queste persone. E prendi in considerazione pure i casi ancora pendenti.» «Cristo, Dallas» Ma roteò le spalle e si sgranchì le dita come un pianista sul punto di iniziare un concerto. «Mia moglie non mi vedrà per un pezzo.» «Gran brutta rogna, essere sposati con un poliziotto», replicò Eve, battendogli la mano sulla spalla. «È quello che dice Roarke?» Lei ritirò la mano. «Noi non siamo sposati.» Feeney ridacchiò in silenzio. Si divertiva a vedere i rapidi cipigli di Eve, i suoi scatti di nervi. «Come sta, a proposito?» «Bene. Per il momento è in Australia.» Le sue mani trovarono la via delle tasche. «Sta bene.» «Uh-uh. Qualche settimana fa vi ho visti entrambi in televisione. Fra gli invitati a un fantastico ricevimento al Palace. In abito da sera eri veramente uno schianto, Dallas.» Lei si agitò nervosamente, poi riuscì a controllarsi e si strinse nelle spalle. «Non sapevo che guardassi i programmi in cui ci si diverte a spettegolare sulla gente.» «Li adoro», replicò Feeney con aria impenitente. «Dev'essere interessante frequentare l'alta società.» «A volte», mormorò Eve. «Vuoi che parliamo della mia vita mondana, Feeney, o che indaghiamo su un delitto?» «Avremo il tempo per fare entrambe le cose.» Si alzò e si stirò le membra. «Andrò a verificare i tabulati telefonici della vittima prima di iniziare a fare lo spoglio dei delinquenti che lei ha mandato in galera in tutti questi anni. Mi farò vivo.» «Feeney.» Quando lui si girò, sulla soglia dell'ufficio, Eve piegò la testa. «Mi avevi detto che i motivi per cui sei qui erano tre. Hai dimenticato il terzo.» «Tre, mi sei mancata, Dallas.» Sorrise. «Mi sei mancata molto.» Quando si sedette a lavorare, Eve sorrideva. Anche a lei era mancato molto Feeney. 4 Il Blue Squirrel si trovava a pochi passi dal Five Moons. Era un locale al quale Eve era affezionata, seppure con le debite cautele. C'erano stati mo-
menti in cui lei aveva persino apprezzato il frastuono, l'accalcarsi dei corpi, il fantasioso abbigliamento della gente che lo frequentava. E il più delle volte aveva assistito con piacere allo spettacolo che vi si svolgeva. La cantante che si esibiva sul palcoscenico era una dei pochi amici veri che Eve ritenesse tali. Un'amicizia che risaliva a molti anni prima, quando Mavis Freestone era stata tratta in arresto dalla stessa Eve, e che con il tempo si era consolidata. Mavis poteva anche aver messo la testa a posto, ma non aveva rinunciato alle sue stravaganze. Quella sera l'esile ed esuberante donna declamava a gran voce le proprie liriche cercando di sovrastare una stridula tromba e altri ottoni suonati da un trio femminile sullo sfondo di uno schermo olografico. Quello e la qualità del vino che Eve si era arrischiata a ordinare furono più che sufficienti a farle venire le lacrime agli occhi. Per lo spettacolo serale Mavis aveva scelto di tingersi i capelli di un incredibile verde smeraldo, perché, come Eve ormai ben sapeva, amava i colori delle pietre preziose. E, tanto per restare in argomento, si era drappeggiata su uno dei suoi generosi seni e sull'inguine un unico velo, di uno strano materiale compatto e luccicante, blu come gli zaffiri. L'altro seno era decorato con pietre scintillanti e il capezzolo era coperto strategicamente da una stella d'argento. Sarebbe bastato infatti che un ornamento o il velo finissero fuori posto e i proprietari del Blue Squirrel avrebbero ricevuto una pesante multa per non aver rispettato i limiti imposti dalla licenza d'esercizio. E loro erano decisamente restii a sborsare l'esorbitante cifra necessaria per rientrare nella categoria dei locali di nudo. Quando Mavis roteò su se stessa, Eve notò che su entrambe le natiche del suo sedere magro, a forma di cuore, c'era una decorazione simile a quella del seno. Ci mancava poco, pensò, perché venissero superati i limiti fissati per legge. La gente che affollava il locale andava matta per Mavis. Quando lei si fece avanti sul palco, una volta terminato il suo numero, si levarono clamorosi applausi e acclamazioni da ubriachi. I clienti che occupavano i séparé in cui era permesso fumare picchiarono entusiasticamente i pugni sui loro minuscoli tavolini. «Come fai a metterti a sedere, con quella roba sulle natiche?» chiese Eve quando Mavis la raggiunse nel suo séparé. «Devo sedermi piano, con circospezione, e con grande disagio», rispose la cantante, dandogliene una dimostrazione, poi sospirò. «Come ti è sem-
brato l'ultimo numero?» «Roba da mandare la gente in visibilio.» «È farina del mio sacco.» «Scherzi?» Eve non aveva capito una sola parola, eppure provò un empito d'orgoglio. «Sei formidabile, Mavis. Sono senza parole.» «Mi è stato proposto un provino per un contratto di registrazione.» Sotto lo scintillante cerone, le guance di Mavis si coprirono di rossore. «E ho ottenuto che qui mi aumentassero la paga.» «Be', complimenti.» Eve sollevò il bicchiere, per brindare al suo successo. «Non sapevo che stasera saresti venuta.» Mavis digitò il proprio codice sul menu e ordinò un bicchiere d'acqua frizzante. Doveva stare attenta a non irritarsi la gola, in previsione del numero successivo. «Ho dato appuntamento qui a una persona.» «Roarke?» Gli occhi di Mavis, che al momento erano verdi, mandarono lampi. «Viene qui? Dovrò ripetere per lui l'ultimo numero.» «È in Australia. La persona che aspetto è Nadine Furst.» Il disappunto di Mavis all'idea di non poter fare impressione su Roarke lasciò subito il posto allo stupore. «Ti incontri con una giornalista? Di proposito?» «Di lei mi posso fidare», replicò Eve, scrollando le spalle. «E posso servirmene.» «Se lo dici tu. Ehi, senti un po', questa Furst non potrebbe magari fare un pezzo su di me?» Per nulla al mondo Eve avrebbe voluto spegnere quel brillio negli occhi dell'amica. «Gliene parlerò.» «Fantastico. Ascolta, domani è la mia serata di riposo. Ceniamo insieme o andiamo in qualche posto?» «Se riesco a liberarmi. Ma credevo che tu ti vedessi con quell'artista... quello con la scimmietta.» «L'ho liquidato.» Per chiarire meglio il concetto, Mavis si fece scorrere un dito sulla spalla nuda. «Era semplicemente troppo statico. Ora devo andare.» Scivolò fuori dal séparé, facendo stridere leggermente le pietre che le ornavano il sedere. Mentre avanzava in mezzo alla calca, le luci che vorticavano trassero bagliori dalla sua chioma color smeraldo. Eve decise che non voleva sapere che cosa Mavis intendesse dire con quel «troppo statico». Sentendo ronzare il cellulare, lo tirò fuori e digitò il proprio codice. Nel
vedere il volto di Roarke riempire il minischermo, la sua prima reazione, spontanea, fu un enorme sorriso di piacere. «Tenente, ti ho rintracciata.» «A quanto pare.» Riuscì a mitigare il sorriso. «Questo è un canale riservato, Roarke.» «Davvero?» Inarcò un sopracciglio. «Non mi pare che l'ambiente in cui ti trovi abbia alcunché di riservato. Il Blue Squirrel.» «Devo incontrarmi con una persona. Com'è l'Australia?» «Affollata. Se la fortuna mi assiste, sarò di ritorno fra trentasei ore. Ti troverò.» «Non sarà un'impresa difficile.» Sorrise di nuovo. «Per te, ovviamente. Ascolta un po'.» Per rendere pure lui partecipe del suo divertimento, inclinò l'apparecchio affinché sentisse Mavis che si stava esibendo nel nuovo numero. «È unica», commentò Roarke dopo qualche battuta. «Falle i miei complimenti.» «Lo farò. Io... ehm... ti vedrò quando torni.» «Contaci. E pensa a me.» «Certo. Buon viaggio, Roarke.» «Eve, ti amo.» Quando la sua immagine si dissolse, Eve esalò finalmente il fiato. «Bene, bene.» Nadine Furst si spostò da dietro la spalla di Eve, infilandosi nel posto davanti. «Che cosa carina da dire, non ti pare?» Combattuta fra irritazione e imbarazzo, Eve si rimise in tasca il cellulare. «Non mi sembravi il tipo di donna così poco di classe da mettersi a origliare.» «Ogni giornalista si guadagna il salario aguzzando le orecchie, tenente. Proprio come ogni bravo poliziotto.» Nadine si abbandonò mollemente sul sedile. «Allora, come ci si sente ad avere un uomo come Roarke innamorato cotto?» Anche se fosse stata in grado di spiegarlo, Eve non l'avrebbe mai fatto. «Hai forse intenzione di lasciare la cronaca giudiziaria per passare a quella rosa, Nadine?» La giornalista si limitò ad alzare una mano, poi si guardò in giro e sospirò. «Non riesco a credere che tu abbia voluto incontrarmi in un posto simile. Il cibo è orrendo.» «Ma pensa all'atmosfera, Nadine, all'atmosfera.» Nel sentire Mavis emettere una nota tremendamente stridula, Nadine
rabbrividì. «Be', se piace a te.» «Hai fatto in fretta a tornare sulla Terra.» «Sono riuscita a trovare un posto su un supersonico. Uno di quei velivoli spaziali di proprietà del tuo amichetto.» «Roarke non è il mio amichetto.» «Se lo dici tu. Anche se...» Sventolò una mano, come per tagliar corto. Era chiaramente stanca e risentiva del jet-lag. «Ma devo mangiare qualcosa, a costo di morire avvelenata.» Diede un'occhiata al menu e si fermò, con aria dubbiosa, su uno sformato di cozze gratinate. «Che cosa stai bevendo?» «Numero cinquantaquattro, presumibilmente uno chardonnay.» Per verificarlo, Eve ne bevve un altro sorso. «È almeno tre gradini più su del piscio di cavallo. Te lo raccomando.» «Va bene.» Nadine digitò l'ordine e tornò a mettersi sdraiata. «Durante il viaggio di ritorno sono riuscita ad avere accesso a tutti i dati disponibili sull'omicidio Towers. Tutto quanto hanno trasmesso finora i media.» «Morse sa che sei tornata?» Nadine abbozzò un sorriso perfido. «Oh, sì che lo sa. Ho io la titolarità della rubrica giudiziaria. Quando ci sono io, lui deve lasciare il campo. Così adesso è fuori gioco!» «Allora la mia mossa ha colpito nel segno.» «Ma non è completa. Hai promesso di concedermi l'esclusiva.» «E intendo farlo.» Eve lanciò un'occhiata al piatto di spaghettini di soia scivolato fuori dall'apposita fessura nell'apparecchiatura di servizio. Aveva un'aria tutt'altro che ributtante. «Ma decido io i termini, Nadine. Ciò che ti farò sapere, dovrai renderlo pubblico solo quando ti darò il via libera.» «C'è qualcos'altro?» chiese la giornalista, assaggiando una cozza e decidendo che era abbastanza gustosa. «Farò in modo che tu venga a conoscenza di tutti i dettagli che avrò via via appurato, prima che giungano alle orecchie del branco dei cronisti.» «E quando avrai individuato un sospetto?» «Sarai la prima a conoscerne il nome.» Nadine assentì, perché si fidava della parola di Eve, e infilzò con la forchetta un'altra cozza. «Devi concedermi anche un'intervista personale con l'indiziato e una con te.» «Per quanto riguarda l'indiziato, non te lo posso garantire. Sai benissimo che non sta a me deciderlo», aggiunse, prima che Nadine potesse interromperla. «Il presunto colpevole ha diritto di scegliere i media a cui rila-
sciare interviste o anche di rifiutarsi di parlare con chicchessia. Il massimo che io possa fare è suggerire, magari anche incoraggiare.» «Voglio le foto. E non dirmi che non sei in grado di garantirmele. Puoi trovare un modo per far sì che io riprenda la scena dell'arresto. Voglio essere presente.» «Ci penserò al momento opportuno. In cambio, ti chiedo di riferirmi tutto ciò che possa arrivarti alle orecchie, ogni soffiata, ogni indiscrezione, ogni minimo indizio. Niente scoop giornalistici.» Nadine risucchiò fra le labbra un filo di pasta. «Non posso impegnarmi in questo senso», replicò in tono pragmatico. «I miei soci procedono per conto loro.» «Devi dirmi ciò che sai, nel preciso istante in cui lo vieni a sapere», ribatté seccamente Eve. «E riferirmi ogni informazione captata dalla rete di spionaggio che collega i vari media.» Nel vedere che l'espressione di Nadine si era fatta vacua, sbuffò. «Ogni network spia i concorrenti, così come ogni giornalista spia i colleghi. Il gioco consiste nel riuscire a diffondere per primi la notizia. E la tua percentuale di colpi messi a segno è piuttosto alta, Nadine, altrimenti non mi sarei mai sognata di contattarti.» «Posso dire lo stesso per quanto ti riguarda.» Nadine sorseggiò il suo vino. «In genere mi fido di te, anche se hai un pessimo gusto in fatto di alcolici. Questo è appena un gradino sopra il piscio di cavallo.» Eve si appoggiò allo schienale della sedia e scoppiò a ridere. Tutto stava andando bene, tutto filava liscio, e il sorriso che Nadine le rivolse a mo' di risposta fu il segno che tra loro il patto era stato siglato. «Fammi vedere le carte che hai in mano», disse Nadine, «e io farò altrettanto.» «La carta più importante che ho», iniziò Eve, «è un ombrello scomparso.» La mattina seguente, alle dieci, Eve incontrò Feeney nell'appartamento della Towers. Le bastò un'occhiata alla sua espressione da cane bastonato per capire che da lui non poteva aspettarsi novità entusiasmanti. «Contro che cosa sei andato a sbattere?» «Contro il videotelefono.» Feeney attese che Eve disattivasse il sigillo che la polizia aveva messo alla porta dell'appartamento, poi la seguì all'interno. «Conteneva un'infinità di messaggi, perché la Towers teneva la segreteria sempre accesa, registrando automaticamente ogni cosa. C'era il tuo contrassegno sul nastro.»
«Esatto, l'ho preso perché mi serviva come prova. Stai cercando di dirmi che nessuno l'ha contattata per combinare un incontro al Five Moons?» «Sto cercando di dirti che non sono in grado di dirtelo.» Con aria disgustata, Feeney si passò una mano nei capelli ispidi. «L'ultima chiamata è delle undici e trenta di sera, terminata alle undici e quarantatré.» «E allora?» «La Towers ha cancellato la registrazione. Sono riuscito a ricostruire l'ora dell'inizio e quello della fine, ma nient'altro. La comunicazione, sia audio sia video, è sparita. È stata lei a eliminarla», concluse. «Dal suo apparecchio.» «Ha cancellato la chiamata», mormorò Eve, cominciando a camminare avanti e indietro. «Perché l'ha fatto? Aveva l'apparecchio che registrava automaticamente, com'è consuetudine per i tutori della legge, anche in caso di telefonate personali. Ma lei ha fatto sparire questa. Dunque non voleva che si venisse a sapere chi si era messo in contatto con lei e perché.» Si voltò. «Sei sicuro che nessuno abbia manomesso il nastro dopo che è stato tolto dall'apparecchio?» Feeney assunse un'espressione addolorata e, subito dopo, indignata. «Non scherziamo, Dallas», si limitò a replicare. «Va bene, va bene, allora la Towers ha cancellato la registrazione prima di uscire. Ne deduco che non aveva paura, personalmente, ma voleva proteggere se stessa... o qualcun altro. Se quella chiamata avesse avuto a che fare con un caso giudiziario, avrebbe certamente voluto conservarne la registrazione. Anzi, si sarebbe assicurata che non andasse assolutamente persa.» «Lo credo anch'io. Se a chiamarla fosse stato un informatore, lei avrebbe protetto la registrazione con il suo codice privato, però mai e poi mai l'avrebbe cancellata, perché sarebbe stata una cosa priva di senso.» «Verificheremo comunque quali casi stesse seguendo, senza tralasciarne nessuno.» Non ebbe bisogno di vedere Feeney in faccia per capire che stava roteando gli occhi. «Fammi pensare», mormorò. «La Towers ha lasciato il municipio alle diciannove e ventisei. È segnato sulla sua agenda e a confermarcelo ci sono svariati testimoni oculari. Prima di uscire ha fatto un salto nella toilette delle donne dove si è rinfrescata in previsione della cena e ha scambiato quattro chiacchiere con una collega. Costei mi ha detto che la Towers era di buon umore, anzi addirittura allegra. In aula le era andato tutto a meraviglia.» «Il procedimento contro Fluentes andrà avanti comunque. Lei ne aveva
già messo le basi. Il fatto che sia stata tolta di mezzo non cambierà la situazione.» «Magari Fluentes la pensava diversamente. Lo verificheremo. Tornando alla Towers, lei non è ripassata di qui.» Aggrottando la fronte, Eve osservò la stanza. «Non ne aveva il tempo. È invece andata direttamente al ristorante, dove ha incontrato Hammett. Sono stata in quel locale. Il personale ha confermato le dichiarazioni rese da Hammett, anche per quanto riguarda l'ora dell'arrivo e quella della partenza.» «Ti sei data molto da fare.» «Il tempo stringe. È stato il maitre a chiamare loro un taxi, un Rapid. I due sono saliti in vettura alle ventuno e quarantotto. Stava cominciando a piovere.» Eve si immaginò la scena. Quella bella coppia seduta dietro, nel taxi, intenta a chiacchierare e magari a carezzarsi le dita, mentre l'auto correva velocemente verso uptown, con le gocce di pioggia che tamburellavano sul tettuccio. La donna indossava un abito rosso e una giacca dello stesso colore, secondo il personale del ristorante. Un colore vistoso, per fare effetto nell'aula del tribunale, che lei a cena aveva mitigato con una bella collana di perle e un paio di scarpe con il tacco, grigio argento. «È stata la Towers a scendere per prima dal taxi», proseguì Eve. «Ha detto a Hammett di restare in auto, perché non c'era motivo che si bagnasse. Quando si è avviata di corsa verso casa, stava ridendo e a un tratto si è voltata e ha mandato un bacio al suo amico.» «Secondo il tuo rapporto, erano più che amici.» «Lui l'amava.» Più per abitudine che per fame, Eve affondò una mano nel sacchetto che Feeney le porgeva. «Il che non esclude che sia stato lui a ucciderla, però l'amava. A detta di Hammett, erano entrambi contenti di come avevano sistemato le rispettive esistenze, ma...» Si strinse nelle spalle. «Ammesso che in realtà lui non fosse soddisfatto della situazione, e l'abbia detto solo per procurarsi un buon alibi, ha comunque creato una bella messinscena romantica, intima. Che a me non sembra molto convincente, però è troppo presto per stabilirlo. Dunque, lei è salita quassù», proseguì, avvicinandosi alla porta. «Il suo abito era un po' umido, perciò è andata in camera da letto a toglierselo.» Mentre parlava, Eve seguì il presunto tragitto e, camminando sui graziosi tappeti, entrò nella spaziosa camera da letto, con i suoi colori smorzati e un bel letto antico. Ordinò alle luci di illuminare la stanza. Gli schermi che la polizia aveva
messo alle finestre non solo frustravano la curiosità dei piloti che ronzavano attorno all'edificio, ma impedivano anche a buona parte dei raggi solari di entrare. «Si è avvicinata all'armadio», continuò Eve, premendo il pulsante che faceva scorrere di lato le lunghe ante ricoperte da specchi, «e ha appeso il vestito.» Indicò l'abito rosso con relativa giacca, ordinatamente sistemato in mezzo ad altri, suddivisi a seconda del colore. «Si è tolta le scarpe, poi si è infilata una vestaglia.» Si voltò verso il letto, sul quale era distesa una lunga tunica color avorio. Non ripiegata e neppure disposta in modo ordinato, lo stesso ordine che regnava in tutta la stanza, ma gettata alla rinfusa, come per un'impaziente fretta. «Ha messo i gioielli nella cassaforte a parete accanto all'armadio, ma non è andata a letto. Forse è tornata di là per sentire le ultime notizie o per bere il bicchierino della staffa.» Seguita da Feeney, Eve tornò in salotto. Una ventiquattrore, accuratamente chiusa, era posata sul tavolo davanti al divano, sul quale c'era anche un bicchiere vuoto. «Si sta rilassando, magari ripensando alla serata appena conclusa, riesaminando la strategia che intende adottare l'indomani in tribunale o meditando sul matrimonio della figlia. Il suo videotelefono lampeggia. Chiunque sia, qualunque cosa le dica, la induce a uscire di nuovo. Lei è già pronta per andare a dormire, ma torna in camera da letto, dopo aver cancellato la registrazione, e si riveste. Indossa di nuovo un abito elegante. Deve recarsi nel West End e non vuole passare inosservata, vuole sprizzare autorità, incutere fiducia. Non chiama un taxi. Sarebbe una traccia. Decide di prendere la metropolitana. Ma sta piovendo.» Eve si avvicinò all'armadio a muro accanto alla porta d'ingresso e, premendo l'apposito pulsante, l'aprì. Dentro c'erano giacche, soprabiti, un cappotto da uomo che lei sospettò fosse di Hammett, e un'infinità di ombrelli, nelle tinte più svariate. «Afferra l'ombrello che aveva comprato proprio perché il suo colore si adattava a quello dell'abito che indossa. È un gesto automatico, perché la sua mente è tutta concentrata sull'incontro che l'aspetta. Non prende con sé molti soldi, quindi non prevedeva alcuna transazione di denaro. Non mette nessuno al corrente di quanto sta per fare, perché vuole risolvere tutto da sé. Ma, quando arriva al Five Moons, non trova nessuno ad attenderla. Aspetta quasi un'ora, spazientita, controllando più volte l'orologio. Esce dal
locale pochi minuti dopo l'una, riaffrontando la pioggia, ma ha con sé l'ombrello e si dirige verso la stazione della metropolitana. Mi immagino quanto fosse furiosa.» «Una donna di classe, costretta a restare in una simile bettola per un'ora, inutilmente.» Feeney ingoiò un'altra mandorla. «Sì, furiosa mi sembra la parola giusta.» «Dunque, esce dal locale. Sta piovendo a dirotto. Lei apre l'ombrello, ma fa solo pochi passi. C'è qualcuno, che probabilmente è rimasto sempre nei paraggi, in attesa di vederla comparire.» «Non voleva incontrarsi con lei nel locale», si intromise Feeney. «Non voleva essere visto.» «Esattamente. Parlano solo un paio di minuti, a giudicare dall'ora della morte. Forse litigano... ma non è un vero e proprio alterco, non ne hanno il tempo. Per strada non c'è anima viva... non c'è nessuno, quantomeno, che presti loro attenzione. Un paio di minuti più tardi, lei viene sgozzata e cade sul marciapiede in un lago di sangue. È stato un omicidio premeditato?» «In quel quartiere sono in molti a girare armati di coltello.» Feeney si fregò il mento con aria pensierosa. «Perciò non possiamo dare per scontata la premeditazione. Tuttavia c'è la scelta dei tempi e del luogo. Sì, è questa scelta a insospettirmi.» «Insospettisce anche me. Per non parlare della coltellata, una sola. Sul corpo della Towers non sono state trovate lesioni da difesa, dal che si deduce che lei non ha avuto il tempo di sentirsi in pericolo. L'assassino non le porta via i gioielli, la borsa di cuoio, le scarpe, neppure il denaro. Prende soltanto l'ombrello e se ne va.» «Perché l'ombrello?» si chiese Feeney. «Be', sta piovendo a dirotto. Non lo so, l'avrà fatto impulsivamente, per tenerselo come ricordo. Per come vedo io la cosa, è stato l'unico errore che ha commesso. Ho perso un sacco di tempo a controllare una decina di isolati per scoprire se l'aveva abbandonato da qualche parte.» «Ammesso che se ne sia sbarazzato in zona, un giorno o l'altro vedremo qualche drogato girare con un ombrello rosso.» «Già.» Nell'immaginarsi la scena, Eve abbozzò un sorriso. «Come poteva l'assassino essere sicuro che lei avesse cancellato la registrazione della telefonata? Perché doveva averne la certezza.» «L'avrà minacciata?» «Un procuratore distrettuale è abituato alle minacce. E la Towers era tipo da farsene un baffo.»
«Se la minaccia l'avesse riguardata personalmente», convenne Feeney. «Ma c'erano i figli.» Indicò con la testa gli ologrammi incorniciati. «Lei non era soltanto un magistrato. Era anche una madre.» Eve, con la fronte aggrottata, si avvicinò agli ologrammi. Incuriosita, prese in mano quello in cui comparivano insieme i due figli, un maschio e una femmina, ancora adolescenti. Picchiò un dito sul retro della cornice, azionando il sonoro. Ciao, fenomeno. Tanti auguri per la Festa della mamma. Questo durerà più a lungo di un mazzo di fiori. Con tutto il nostro amore. In preda a uno strano disagio, Eve rimise l'ologramma a posto. «Adesso sono due adulti. Non sono più bambini inermi.» «Dallas, una madre resta tale per sempre. Non smette mai di preoccuparsi.» La mia, invece, ha smesso, pensò Eve. Da molto tempo. «Allora la prossima persona da interrogare sarà, suppongo, Marco Angelini.» Angelini aveva l'ufficio nello stesso edificio in cui si trovava quello di Roarke, sulla 5th. Eve entrò nell'atrio che le era ormai fin troppo familiare, con la pavimentazione a enormi riquadri e i lussuosi negozi. Le voci metalliche delle guide elettroniche aiutavano i visitatori a rintracciare questa o quella società. Eve consultò una delle mappe semoventi e, ignorando il tapis roulant, si incamminò verso gli ascensori all'estremità sud. La cabina di vetro la trasportò in un soffio al cinquantottesimo piano, aprendo le porte su un pianerottolo con una solenne moquette grigia e pareti di un bianco accecante. La Angelini Exports disponeva su quel piano di un complesso di cinque uffici, ma Eve notò, dopo una rapida occhiata, che quella società era nulla in confronto alle Roarke Industries. C'era da aspettarselo, pensò, con un sorriso tirato. Quando mai mi è capitato di vedere il contrario? L'addetta alla reception, nel salottino d'attesa, si dimostrò estremamente rispettosa e parve quasi atterrita alla vista del distintivo di Eve. Continuava ad armeggiare con le mani e a deglutire, tanto che Eve si chiese se nel cassetto della scrivania non nascondesse magari un mucchio di sostanze illegali.
Ma la paura fece sì che la donna introducesse Eve nell'ufficio di Angelini dopo meno di novanta secondi di attesa. «Mr Angelini, la ringrazio per avermi ricevuta. Come prima cosa vorrei esprimerle le mie condoglianze.» «Grazie, tenente Dallas. La prego, si sieda.» Non era elegante come Hammett, ma aveva l'aria dell'uomo di potere. Piuttosto basso e tarchiato, con lucenti e lisci capelli neri pettinati all'indietro, così da mettere in mostra l'attaccatura a triangolo in mezzo alla fronte, aveva la carnagione di un bruno dorato chiaro, gli occhi simili a dure e luccicanti palline azzurre sotto le folte sopracciglia, il naso lungo, le labbra sottili. Sul dito di una mano gli scintillava un diamante. Se soffriva per la perdita dell'ex moglie, nascondeva la propria pena molto meglio dell'amante di Cicely. Sedeva a una scrivania in stile consolle, con il ripiano tanto liscio da sembrare di raso e completamente sgombro, fatta eccezione per le sue mani allacciate e immote. Alle sue spalle c'era una vetrata con le lastre offuscate, per impedire l'ingresso ai raggi ultravioletti, ma permettere comunque di ammirare il panorama di New York. «Lei è venuta a parlarmi di Cicely.» «Sì, spero che mi possa dedicare un po' del suo tempo e possa rispondere ad alcune domande.» «Ha la mia piena collaborazione, tenente. Cicely e io, pur avendo divorziato, eravamo rimasti soci, tanto in affari quanto nella gestione dei figli. Io l'ammiravo e la rispettavo.» Nella sua voce c'era un vago accento del suo Paese d'origine, anche se quasi impercettibile, che tuttavia fece tornare in mente a Eve il dossier relativo a Marco Angelini, in cui si diceva che quell'uomo aveva trascorso buona parte della sua vita in Italia. «Mr Angelini, può dirmi quando ha visto per l'ultima volta il procuratore Towers o le ha parlato?» «L'ho vista il diciotto marzo, a casa mia, a Long Island.» «La sua ex moglie è venuta da lei.» «Sì, per festeggiare il venticinquesimo compleanno di nostro figlio. Avevamo organizzato insieme una festa, nella mia proprietà di Long Island, perché era il luogo più adatto. David, mio figlio, vi dimora spesso quando non è sulla East Coast.» «Da allora non l'ha più vista?» «No, avevamo entrambi molti impegni, ma avevamo combinato di in-
contrarci la prossima settimana o quella successiva per pianificare le nozze di Mirina. Nostra figlia.» Si schiarì delicatamente la voce. «Per quasi tutto il mese di aprile io sono stato in Europa.» «Lei ha telefonato alla sua ex moglie la sera della sua morte.» «Sì, le ho lasciato un messaggio in cui le chiedevo se potevamo trovarci per pranzo o per un aperitivo, come preferiva.» «Per parlare delle nozze», specificò Eve. «Sì, le nozze di Mirina.» «Dal diciotto marzo alla sera della morte del procuratore Towers, lei ha avuto modo di parlarle qualche volta?» «Molte volte.» Angelini allargò le dita, poi tornò ad allacciarle. «Come lo ho già spiegato, fra noi c'erano ancora forti legami. Per via dei figli e anche di qualche affare in cui eravamo entrambi interessati.» «Per esempio la Mercury.» «Sì.» Le sue labbra si incurvarono leggermente. «Lei è una... conoscente di Roarke.» «Esatto. Fra lei e la sua ex moglie c'era qualche motivo di disaccordo a proposito di questi vostri legami di natura sia personale sia professionale?» «Ovviamente sì, in entrambi i campi. Ma avevamo ormai imparato ad apprezzare i compromessi, cosa che non c'era riuscita durante il nostro matrimonio.» «Mr Angelini, chi erediterà le azioni della Mercury di proprietà di Cicely Towers, ora che lei è morta?» Lui inarcò un sopracciglio. «Io, tenente, secondo i termini del nostro contratto d'affari. Anche alcune compartecipazioni in un fondo immobiliare passeranno a me. È previsto da una delle clausole del nostro accordo di divorzio, secondo la quale io avrei gestito il patrimonio di Cicely e suggerito quali investimenti fare. Alla morte di uno di noi due, il patrimonio e i profitti, o le perdite, sarebbero stati ereditati da chi era rimasto in vita. Un accordo, deve sapere, che avevamo sottoscritto entrambi di buon grado, fiduciosi che, alla fine, le eventuali ricchezze di entrambi sarebbero andate ai nostri figli.» «E il resto - cioè l'appartamento, i gioielli, tutti i beni che non venivano menzionati nel vostro accordo - a chi va?» «Ai nostri figli, presumibilmente. A parte qualche lascito, immagino, ad amici o enti benefici.» Eve si ripromise di indagare al più presto su quella questione, per appurare quanto la Towers avesse messo da parte. «Mr Angelini, lei era a cono-
scenza dell'intima relazione della sua ex moglie con George Hammett?» «Certo.» «E questo era... questo non rappresentava per lei un problema?» «Un problema? Vuol forse insinuare, tenente, che io, pur avendo divorziato da quasi dodici anni, avrei nutrito nei confronti della mia ex moglie una gelosia omicida? Che avrei tagliato la gola alla madre dei miei figli, lasciandola agonizzante in mezzo a una strada?» «In tutta sincerità, sì, Mr Angelini.» L'uomo borbottò a mezza bocca qualcosa in italiano. Qualcosa, sospettò Eve, di ben diverso da un complimento. «No, non ho ucciso io Cicely.» «Può dirmi come ha trascorso la notte in cui lei è morta?» Eve notò la tensione nella sua mascella e quanto gli ci volle per tornare a rilassarsi, mantenendo però lo sguardo fermo. Con quegli occhi avrebbe potuto forare l'acciaio, si disse. «Dalle otto di sera in poi sono rimasto a casa, nell'abitazione che ho qui in città.» «Da solo?» «Sì.» «Ha visto o parlato con qualcuno che possa confermarlo?» «No. Ho due domestici, ma quella sera entrambi erano in libera uscita, che è poi il motivo per cui sono rimasto a casa. Una volta tanto, volevo godermi una silenziosa intimità.» «Non ha fatto telefonate e non ne ha ricevute?» «Ne ho ricevuta una verso le tre di mattina: era il comandante Whitney che mi informava della morte di mia moglie. E io ero a letto, solo, quando è giunta la chiamata.» «Mr Angelini, all'una di quella notte la sua ex moglie si trovava in un locale malfamato del West End. Perché?» «Non ne ho idea. Non ne ho la minima idea.» Poco più tardi, mentre entrava nella cabina di vetro dell'ascensore per ridiscendere a pianterreno, Eve chiamò Feeney. «Voglio sapere se Marco Angelini si trova finanziariamente nei guai e, se è così, fino a che punto questi guai potrebbero essere appianati dall'improvvisa scomparsa della sua ex moglie.» «Hai fiutato qualcosa, Dallas?» «Qualcosa», mormorò lei. «Ma non so che cosa.» 5
Eve entrò nel proprio appartamento verso l'una di notte. Aveva le gambe malferme e la testa rintronata, perché uscire a cena con Mavis, nella sua serata di libertà, voleva dire recarsi in un altro locale identico al Blue Squirrel. Consapevole che la mattina successiva avrebbe pagato caro quel frastornante divertimento serale, iniziò a spogliarsi già mentre si trascinava verso la camera da letto. Se non altro, però, la cena con Mavis le aveva impedito di pensare al caso Towers. Le aveva magari fuso completamente il cervello, ma al momento lei era troppo esausta per preoccuparsene o anche solo pensarci. Cadde bocconi sul letto, nuda, e si addormentò di colpo. A risvegliarla furono i suoi sensi, completamente eccitati. Le mani di Roarke la stavano carezzando. Eve le riconobbe al tatto, riconobbe il ritmo dei loro movimenti. Il cuore le balzò nel petto, poi le salì in gola quando la bocca di lui si incollò alla sua. Le labbra di Roarke erano avide, roventi, non le lasciavano alternative, non le permettevano di fare altro che rispondere a tono. Mentre lei annaspava goffamente, cercandolo, lui la penetrò con le lunghe e sapienti dita, stimolandola a tal punto da farle inarcare la schiena in un frenetico orgasmo. Poi la bocca di lui le scese su un seno, succhiandolo, rigandolo con i denti, mentre le eleganti mani non smettevano di muoversi, strappandole grida soffocate di piacere e gratitudine. E un altro travolgente orgasmo si sovrappose al primo. Eve cercò di ancorarsi con le mani alle lenzuola aggrovigliate, ma non trovò alcun valido appiglio. Mentre raggiungeva un nuovo climax, si aggrappò a Roarke, facendogli scorrere le unghie sulla schiena fino ad agguantare ciocche dei suoi capelli. «Dio!» Fu l'unica parola coerente che le uscì di bocca mentre lui la possedeva, così violentemente, così a fondo, che Eve si stupì di non morire letteralmente di piacere. Inarcò il corpo, inutilmente, freneticamente, e continuò a tremare anche dopo che Roarke era piombato esausto su di lei. Lui emise un lungo sospiro soddisfatto e con il naso le titillò pigramente un orecchio. «Scusa se ti ho svegliata.» «Roarke? Oh, eri tu?» Lui le morse l'orecchio. Eve sorrise sorniona nel buio. «Ero convinta che non saresti tornato prima di domani.» «Ho avuto un colpo di fortuna. Poi ho seguito le tue tracce fino in came-
ra da letto.» «Ho trascorso la serata con Mavis. Siamo andate in un locale chiamato Armageddon. Le mie orecchie stanno appena ricominciando a udire qualcosa.» Gli carezzò la schiena, sbadigliando rumorosamente. «Non è ancora mattina, vero?» «No.» Avvertendo la stanchezza nella sua voce, Roarke si spostò di lato, l'attirò accanto a sé e le baciò la tempia. «Rimettiti a dormire, Eve.» «Va bene.» Gli obbedì in meno di dieci secondi. Roarke si svegliò alle prime luci dell'alba e lasciò Eve raggomitolata in mezzo al letto. In cucina programmò l'Auto-Chef affinché gli servisse un caffè e un bagel tostato, che risultò stantio, com'era prevedibile. Del tutto a suo agio, quasi quella fosse casa sua, si sedette davanti al monitor della cucina e passò in rassegna le notizie del giorno, nel settore finanziario. Ma non riusciva a concentrarsi. Si sforzava di tenere a bada l'irritazione per il fatto che Eve avesse scelto di dormire nel proprio letto invece che nel loro. O, meglio, quello che lui voleva indurla a considerare come il loro. Non le rimproverava quel bisogno di avere uno spazio privato, perché capiva perfettamente il suo desiderio di privacy. Ma lui disponeva di una casa sufficientemente spaziosa da permetterle di occupare da sé sola un'intera ala, se l'avesse desiderato. Allontanatosi dal monitor, si avvicinò alla finestra. Non era abituato a quella lotta, quella sorta di scontro armato per trovare un perfetto equilibrio fra le proprie necessità e quelle di un'altra persona. Era cresciuto mettendo se stesso in primo piano, davanti a chiunque altro. Aveva dovuto farlo, dapprima per sopravvivere e, in un secondo momento, per raggiungere le vette del successo. Due cose che, ai suoi occhi, avevano pari importanza. Un'abitudine, quella di pensare soprattutto a sé, difficile da cancellare... o che tale gli era parsa, finché non aveva conosciuto Eve. Era umiliante dover confessare, persino a se stesso, che ogni volta che si allontanava per occuparsi di qualche affare sentiva nel proprio cuore germogliare la paura di scoprire, al ritorno, di essere stato piantato. Il fatto, semplicissimo, era che lui aveva bisogno dell'unica cosa che Eve non gli aveva mai concesso: un impegno affettivo serio. Si staccò dalla finestra e tornò a sedersi davanti al monitor, sforzandosi di leggere. «Buongiorno», disse Eve dalla soglia. Sul volto le balenò un radioso sor-
riso, suscitato sia dal piacere di vedere Roarke sia dalla constatazione che le conseguenze della visita all'Armageddon non erano così terribili come aveva temuto. Si sentiva in ottima forma. «I tuoi bagel sono stantii.» «Mmm.» Eve lo verificò dando un morso a quello posato sul tavolo. «Hai ragione.» Il caffè invece sarebbe stato, come sempre, più che apprezzabile. «Hai trovato qualche notizia di cui io mi debba preoccupare?» «Hai per caso qualcosa da ridire sulla scalata alla Treegro?» Eve si sfregò un occhio, bevendo un primo sorso di caffè. «Che cos'è la Treegro e chi intende acquisirla?» «La Treegro, come si può capire dal suo grazioso nome, è una società che si occupa di riforestazione e chi vuole entrarne in possesso sono io.» Eve sbuffò. «C'era da aspettarselo. In realtà io alludevo al caso Towers.» «Le esequie di Cicely sono previste per domani. In considerazione dell'importanza della defunta, e del non trascurabile fatto che era di fede cattolica, la cerimonia si svolgerà nella cattedrale di St. Patrick.» «Ci andrai?» «Se riesco a spostare alcuni appuntamenti, sì. E tu?» «Di sicuro.» Eve si appoggiò al bancone della cucina, con aria pensierosa. «Magari ci sarà anche il suo assassino.» Poi osservò Roarke, intento a fissare il monitor. Con quella costosa camicia di lino dal taglio perfetto e la folta chioma tirata all'indietro che metteva in risalto lo splendido volto, le sarebbe dovuto sembrare fuori posto nella sua cucina, si disse. Continuò a tentare di persuadersi che lui fosse davvero fuori posto, lì, con lei. «Qualche problema?» mormorò Roarke, che si rendeva perfettamente conto dello sguardo di Eve fisso su di lui. «No. Stavo meditando. Conosci bene Angelini?» «Marco?» Roarke aggrottò la fronte per qualcosa che aveva visto sul monitor e tirò fuori la sua agenda elettronica, per digitarvi un appunto. «Le nostre strade si incrociano abbastanza spesso. È, di solito, un cauto e scrupoloso uomo d'affari e, sempre, un ottimo padre. Preferisce passare il suo tempo in Italia, ma l'essenza del suo potere è qui, a New York. Versa generosi contributi alla Chiesa cattolica.» «Guadagnerà parecchio, finanziariamente, dalla morte della Towers. Forse sarà solo una goccia nel mare, ma Feeney sta controllando la sua situazione economica.»
«Bastava che tu lo chiedessi a me», mormorò Roarke. «Ti avrei detto che Marco è nei guai. Però la sua situazione è tutt'altro che disperata», aggiunse, vedendo che Eve aguzzava lo sguardo. «In quest'ultimo anno o giù di lì si è fatto coinvolgere in alcune speculazioni sballate.» «Hai appena detto che non è tipo da correre rischi.» «Ho detto che di solito è così. Ha acquistato un gran numero di opere d'arte d'argomento religioso senza averle fatte prima autenticare in modo ineccepibile. La sua fede ha oscurato il suo senso degli affari. Le presunte opere d'arte erano croste e lui ci ha rimesso un bel po' di soldi.» «Quanti soldi?» «Oltre tre milioni di dollari. Se lo ritieni necessario, posso farti sapere la cifra esatta. Ma è una perdita che lui non ci metterà nulla a ripianare», aggiunse con noncuranza, come se tre milioni di dollari fossero una bazzecola. Quel suo atteggiamento nei confronti del denaro era una cosa che Eve continuava a trovare insopportabile. «Deve solo escogitare un modo per ridurre i propri investimenti un po' qui e un po' là. Secondo me, a risentirne è stato il suo orgoglio, più che il suo portafoglio.» «A quanto ammontava, in moneta sonante, la quota della Towers nella Mercury?» «Sulla base delle quotazioni di Borsa odierne?» Estrasse l'agenda elettronica tascabile, digitò qualche numero. «Tra i cinque e i sette, più o meno.» «Milioni di dollari?» «Sì», rispose Roarke con una lieve parvenza di sorriso. «Ovviamente.» «Cristo. Ora capisco perché poteva permettersi di vivere come una regina.» «Marco le aveva consigliato alcuni ottimi investimenti. Voleva che la madre dei suoi figli avesse un'esistenza confortevole.» «Tu e io intendiamo in modo radicalmente diverso il concetto di esistenza confortevole.» «A quanto pare.» Roarke mise via l'agenda e si alzò per versare altro caffè nella sua tazza e in quella di Eve. Un airbus sfrecciò fragorosamente di fronte alla finestra, inseguito da un nugolo di aerei privati. «Sospetti che Marco abbia ucciso la sua ex moglie per ripianare le perdite subite?» «Il denaro è un movente che non passa mai di moda. Quando ho interrogato Angelini, ieri, ho avuto l'impressione che qualcosa non quadrasse. Ora comincio a vederci più chiaro.» Prese la tazza di caffè che Roarke le aveva nuovamente riempito e si av-
vicinò alla finestra, dove il livello di frastuono continuava a crescere, poi tornò indietro. La vestaglia le stava scivolando dalle spalle e Roarke, come se niente fosse, gliela rimise a posto. Qualche pendolare annoiato portava spesso con sé un cannocchiale a lunga gittata, proprio per godersi uno spettacolo del genere. «Angelini mi ha anche detto che il loro era stato un divorzio amichevole», proseguì Eve, «ma com'è possibile? Per i cattolici divorziare è complicato, quando ci sono figli di mezzo. Non devono ottenere una sorta di autorizzazione?» «Una dispensa», la corresse Roarke. «È un procedimento complesso, ma tanto Cicely quanto Marco erano ben ammanicati con le gerarchie ecclesiastiche.» «Lui non si è più risposato», fece notare Eve, posando da un canto la tazza con il caffè. «Non sono riuscita a trovare nemmeno l'ombra di una relazione stabile o seria. La Towers invece aveva da molto tempo un rapporto intimo con Hammett. Che cosa pensava Angelini quando immaginava la madre dei suoi figli intenta ad amoreggiare con un suo socio d'affari?» «Se ci fossi stato io al posto suo, avrei ucciso il socio d'affari.» «Sarebbe proprio da te fare una cosa del genere», replicò Eve, fulminandolo con un'occhiata. «Immagino che avresti ucciso tutti e due gli amanti.» «Mi conosci bene.» Le si avvicinò e le posò le mani sulle spalle. «Per quanto riguarda l'aspetto finanziario, non dimenticare che, per notevole che fosse la quota azionaria della Mercury di proprietà di Cicely, quella di Angelini non è da meno. Avevano acquistato lo stesso numero di titoli.» «Al diavolo.» Eve ebbe un moto di rabbia. «Eppure, il denaro è denaro. Devo seguire questa pista, finché non ne troverò un'altra.» Vide che Roarke continuava a starle davanti, con le mani posate sulle sue spalle e gli occhi fissi nei suoi. «Che cosa stai guardando?» «Il dardeggiare delle tue pupille.» Avvicinò le proprie labbra a quelle di lei, una volta, due. «Provo una certa compassione per Marco, sai, perché ricordo bene che cosa vuol dire diventare il bersaglio di quei dardi, così tenaci.» «Tu non hai ucciso nessuno», gli ricordò Eve. «Ultimamente.» «Ah, ma per un certo tempo non ne hai avuta la certezza ed eri... tesa come la corda di un violino. Oggi siamo...» Il suo orologio mandò un ronzio. «Maledizione.» La baciò di nuovo, ma in modo frettoloso e distratto. «Dobbiamo rimandare a più tardi le nostre reminiscenze. Ho un appunta-
mento.» Tanto meglio, pensò Eve. Il ribollire del sangue le obnubilava la mente. «A stasera, allora.» «A casa?» Lei giocherellò con la tazza. «Sì, da te.» Un lampo d'impazienza brillò negli occhi di Roarke, mentre lui si infilava la giacca. Il lieve rigonfiamento nella tasca gli fece tornare in mente una cosa. «Me ne stavo dimenticando. In Australia ti ho preso un regalo.» Eve accolse con un po' di riluttanza il sottile cofanetto dorato, ma, non appena l'aprì, sentì la riluttanza sparire, cancellata da una scioccante sensazione di panico. «Cristo santo, Roarke. Sei impazzito?» Era un diamante. Eve ne sapeva a sufficienza per esserne sicura. La pietra impreziosiva una catena d'oro dalle maglie attorcigliate, mandando bagliori infuocati. A forma di lacrima, era lunga e larga quanto la prima falange di un pollice maschile. «Lo chiamano 'Lacrima del gigante'», replicò Roarke, estraendo disinvoltamente il monile dal cofanetto e infilandolo al collo di Eve. «È stato trovato in una cava di diamanti centocinquant'anni fa. Per puro caso è stato messo all'asta a Sydney proprio quando io ero lì.» Fece un passo indietro e osservò la scintillante pietra sulla semplice vestaglia blu che Eve indossava. «Sì, ti si adatta. Ne ero sicuro.» Poi rialzò lo sguardo sul volto di lei e sorrise. «Oh, vedo che avresti preferito un kiwi. Be', sarà per la prossima volta.» Quando si chinò per salutarla con un bacio, fu costretto a raddrizzarsi a causa della brusca manata che lei gli vibrò sul petto. «Qualcosa non va?» «È una follia. Non ti aspetterai mica che io accetti un regalo del genere?» «Qualche gioiello lo porti, di tanto in tanto.» A mo' di conferma, con un dito diede un colpetto all'orecchino d'oro che le pendeva dal lobo. «Sì, li compro in un botteghino sulla Lexington.» «Io no», replicò lui con aria disinvolta. «Riprenditelo.» Fece per togliersi la catena, ma lui le bloccò le mani con le sue. «Non è mia abitudine. Eve, un regalo non dovrebbe rendere le tue guance esangui.» In preda a un'improvvisa esasperazione, la scosse bruscamente. «Questa pietra ha attirato la mia attenzione mentre stavo pensando a te. Cioè sempre, accidenti. L'ho comprata perché ti amo. Cristo santo, quand'è che te lo metterai in testa?»
«Tu non mi farai questo.» Si disse di stare calma, molto calma. Perché aveva ragione lei, aveva perfettamente ragione. L'ira di Roarke non la preoccupava, altre volte l'aveva vista erompere. Ma la pietra le pesava al collo e ciò che lei temeva potesse rappresentare la preoccupava molto di più. «Non ti farò che cosa, Eve? Spiegamelo.» «Non mi regalerai alcun diamante.» Impaurita e rabbiosa, si allontanò da lui. «Non mi costringerai a prendere ciò che non voglio o a essere ciò che non posso essere. Tu credi che io non abbia capito che cosa hai fatto in questi ultimi mesi. Mi hai preso per una stupida?» Gli occhi di Roarke lampeggiarono, duri come la pietra posata sul petto di lei. «No, non ti ritengo stupida. Ti ritengo codarda.» La mano di Eve si contrasse meccanicamente. Oh, quanto le sarebbe piaciuto sferrargli un pugno in faccia per far sparire quel sorrisetto di superiorità! Avrebbe potuto farlo, se lui non avesse avuto ragione. Così ricorse ad altre armi. «Tu credi di potermi indurre a dipendere da te, ad abituarmi a vivere in quel tuo glorioso fortilizio e a vestirmi di seta. Be', a me tutto questo non interessa minimamente.» «Ne sono perfettamente consapevole.» «Non ho bisogno del tuo fantastico cibo o dei tuoi meravigliosi regali o delle tue affascinanti frasi. Ho capito il tuo gioco, Roarke. Diciamole di amarla, a intervalli regolari, finché lei non impara a reagire nel modo giusto. Come un cagnolino ben addestrato.» «Come un cagnolino», ripeté Roarke, mentre la sua collera si tramutava in un blocco di ghiaccio. «Ora capisco di aver commesso un errore, ritenendo che tu non fossi stupida. Credi davvero che io nutra desideri di potere e controllo? Pensala come vuoi. Sono stanco di sentirmi rinfacciare i miei sentimenti. È colpa mia, se te l'ho finora permesso, ma la situazione può mutare.» «Io non ho mai...» «No, mai», la interruppe lui in tono gelido. «Mai una volta hai messo in gioco il tuo orgoglio dicendo a me quelle parole. Ti sei tenuta questo appartamento come via di fuga invece di impegnarti a stare con me. Io ho lasciato che fossi tu, Eve, a stabilire le regole, ma adesso intendo cambiarle.» Ormai a farlo parlare così non era più semplicemente la rabbia, non era il dolore che provava. Era la consapevolezza che quella era la verità. «Voglio tutto», aggiunse con voce piatta, «o nulla.» Lei non si sarebbe lasciata prendere dal panico. Non gli avrebbe permes-
so di farle tremare le gambe dalla paura, come una recluta alla prima spedizione notturna contro il nemico. «Che cosa intendi dire con questo?» «Voglio dire che il sesso non mi basta.» «Non è soltanto sesso. Lo sai...» «No, non lo so. Ora tocca a te scegliere... è sempre toccato a te. Ma stavolta dovrai meritarmi.» «Gli ultimatum mi mandano su tutte le furie.» «Peccato.» Le lanciò un'ultima lunga occhiata. «Addio, Eve.» «Non puoi semplicemente andartene...» «Oh, sì.» Non si voltò a guardarla. «Sì che posso.» Nel sentire la porta che si richiudeva violentemente, Eve rimase a bocca aperta. Per un attimo restò ferma, rigida, con il sole che traeva scintillanti riflessi dalla pietra appesa al suo collo. Poi cominciò a tremare. Di rabbia, ovviamente, si disse, strappandosi il prezioso diamante e gettandolo sul bancone della cucina. Se Roarke credeva che lei si sarebbe trascinata carponi dietro di lui, supplicandolo di restare, si sbagliava di grosso. Avrebbe potuto continuare a pensarlo fino al millennio successivo. Eve Dallas non era tipo da strisciare e non supplicava nessuno. Chiuse gli occhi, attanagliata da un dolore più sconvolgente di una sferzata laser. Chi diavolo è Eve Dallas? si chiese. Non è questo il succo del problema? Si costrinse a non pensarci. Quale altra scelta aveva? Prima di tutto veniva il lavoro, per forza. Se lei non fosse stata un buon poliziotto, non sarebbe stata nulla. Era vuota e inerme come la bambina di un tempo, trovata riversa in un vicolo buio di Dallas, con il corpo a pezzi e in stato di shock. Poteva seppellirsi nel lavoro. Nelle sue esigenze e nei suoi obblighi pressanti. Quando si recò nell'ufficio del comandante Whitney, era soltanto un poliziotto con un omicidio fra le mani. «La vittima aveva molti nemici, comandante.» «Non è così per tutti?» Lo sguardo di Whitney era tornato limpido, tagliente. Il dolore non poteva mai avere la meglio sul senso del dovere. «Feeney ha compilato una lista delle persone che la Towers aveva fatto condannare. Le stiamo controllando tutte, concentrandoci prevalentemente sulla cerchia degli intimi: parenti e soci, almeno quelli che conosciamo. Soprattutto chi si è beccato l'ergastolo potrebbe aver covato un fortissimo desiderio di vendetta. Subito dopo vengono i pervertiti sessuali impeniten-
ti, che a volte scivolano fra le maglie della giustizia. La Towers ne aveva fatti rinchiudere molti negli istituti psichiatrici, ma alcuni riescono inevitabilmente a uscirne.» «Tutto questo comporterà un lungo lavoro al computer, Dallas.» Era un velato avvertimento di non sforare il budget di spesa, ma Eve preferì ignorarlo. «La ringrazio per avermi affiancato Feeney in questa indagine. Senza di lui rischierei di non farcela. Comandante, questi controlli rientrano nella procedura investigativa standard, però io non credo che il movente dell'omicidio vada cercato nell'attività professionale della vittima.» Whitney si appoggiò alla spalliera della sedia e inclinò la testa, in attesa. «Credo che vada cercato nella sfera privata. La vittima stava nascondendo qualcosa. Per proteggere se stessa o qualcun altro. Ha cancellato una registrazione telefonica.» «Ho letto il suo rapporto, tenente. Mi sta dicendo che, secondo lei, il procuratore distrettuale Towers era coinvolta in qualcosa di illecito?» «Me lo chiede in veste di amico o di comandante?» Whitney le mostrò i denti, prima di riuscire a controllarsi. Dopo una breve lotta interiore, annuì. «Ben detto, tenente. In veste di comandante.» «Non so se c'è sotto qualcosa di illecito. A questo stadio delle indagini ho maturato la convinzione che la vittima volesse mantenere segreta un'informazione che le era stata fornita da qualcuno. Un'informazione così importante da indurla a rivestirsi e uscire sotto la pioggia per recarsi a un appuntamento. Chiunque fosse la persona che doveva incontrare, lei doveva vederla da sola e non lasciare dietro di sé il minimo indizio. Comandante, ho bisogno di parlare con il resto della famiglia della vittima, con gli amici più intimi e anche con sua moglie.» Whitney accettò la richiesta, o, almeno, ci provò. Durante tutta la sua carriera si era sforzato di tenere i propri cari lontani dall'atmosfera spesso pestifera del suo lavoro. Stavolta si trovava costretto a esporli. «Conosce il mio indirizzo, tenente. Contatterò subito mia moglie e le dirò di aspettarla.» «Sì, signore. Grazie.» Anna Whitney aveva trasformato in un'accogliente dimora l'edificio a due piani che sorgeva in una strada silenziosa nei sobborghi di White Plains. Vi aveva allevato i suoi figli e li aveva allevati bene, rinunciando a una carriera di insegnante per dedicarsi alla professione di madre. A in-
fluenzare la sua scelta non era stato il salario statale destinato a chi faceva il genitore a tempo pieno, ma il palpitante desiderio di seguire da vicino i figli in ogni stadio del loro sviluppo. Si era meritata il suo salario. Ora che i bambini erano diventati adulti, si stava meritando la pensione dedicandosi con lo stesso entusiasmo alle incombenze domestiche e al marito e mantenendo viva la propria reputazione di ottima padrona di casa. Ogni volta che le era possibile, organizzava festicciole per una nidiata di nipoti e, di sera, cene per un'orda di ospiti. Anna Whitney odiava la solitudine. Ma, quando arrivò Eve, era sola. Come sempre, era perfettamente in ordine: i cosmetici erano stati scelti con attenzione e applicati con mano esperta, i capelli di un biondo chiaro erano raccolti sulla nuca in una pettinatura che ben si adattava alle squisite fattezze del suo volto. Indossava un semplice tubino, di un ottimo cotone americano, e salutò Eve tendendole una mano adorna soltanto della fede. «Tenente Dallas, mio marito mi ha avvertita del suo arrivo.» «Mi dispiace disturbarla, Mrs Whitney.» «Si figuri. Sono la moglie di un poliziotto. Si accomodi. Ho preparato una brocca di limonata. L'ho fatta con le bustine, purtroppo, perché è difficilissimo trovare limoni freschi o surgelati. È un po' presto per bere limonata, ma oggi me n'era venuta una gran voglia.» Eve lasciò che Anna continuasse a chiacchierare del più e del meno mentre si avviavano verso il salotto, con le sue sedie dallo schienale rigido e il divano spigoloso. La limonata era ottima, come Eve si affrettò a dire dopo la prima sorsata. «Lei sarà già stata informata che le esequie si terranno domani, alle dieci.» «Sì. Ci sarò.» «Stanno arrivando mazzi e mazzi di fiori. Abbiamo già preso accordi affinché dopo la cerimonia vengano distribuiti... ma non è per parlare di questo che lei è qui.» «Mi risulta che la Towers fosse una sua buona amica.» «Una carissima amica, tanto per me quanto per mio marito.» «I figli stanno qui con lei?» «Sì, sono... sono appena andati via con Marco, per parlare con l'arcivescovo della funzione di domani.» «I loro rapporti con il padre sono buoni?» «Sì.»
«Per quale motivo, allora, Mrs Whitney, stanno qui con lei, invece che con il padre?» «È parso a tutti noi che fosse la soluzione migliore. La casa - quella di Marco - è piena di ricordi. Cicely vi aveva vissuto a lungo quando i suoi figli erano ancora piccoli. E poi ci sono i media. I giornalisti non conoscono il nostro indirizzo e noi volevamo impedire che piombassero come avvoltoi su quei poveri ragazzi, come hanno fatto con Marco. Domani, ovviamente, sarà diverso.» Le sue graziose mani, posate sulle ginocchia, tormentarono la stoffa dell'abito, poi si calmarono e tornarono immobili. «Saranno obbligati ad affrontarli. E sono ancora sotto shock. Anche Randall. Randall Slade, il fidanzato di Mirina. Si era affezionato molto a Cicely.» «È qui anche lui?» «In un momento del genere non lascerebbe mai sola Mirina. Lei è giovane e forte, tenente, ma di tanto in tanto anche le donne forti hanno bisogno di avere un braccio a cui aggrapparsi.» Eve lottò per respingere l'immagine di Roarke che le era balenata all'improvviso in mente. Quale conseguenza di quello sforzo, la sua voce risuonò un po' più formale del solito mentre rivolgeva ad Anna le consuete domande. «Mi sono chiesta più volte che cosa possa averla indotta ad andare in quel quartiere», concluse Anna. «Cicely poteva essere molto ostinata e certamente aveva una volontà di ferro, ma solo raramente si dimostrava impulsiva e non commetteva mai imprudenze.» «Le parlava, si confidava con lei?» «Eravamo come due sorelle.» «Se si fosse trovata in un guaio, di qualsiasi tipo, gliel'avrebbe detto? O se nei guai si fosse trovato qualcuno che le era intimamente legato?» «Penso proprio di sì. Sulle prime avrebbe preso in pugno lei la situazione o avrebbe tentato di farlo.» Gli occhi le si riempirono di lacrime, che però non sgorgarono. «Ma prima o poi si sarebbe sfogata con me.» Se ne avesse avuto il tempo, pensò Eve. «Non sa dirmi se c'era qualcosa che la preoccupava, prima della morte?» «Nulla di importante. Le nozze della figlia... l'approssimarsi della vecchiaia. Noi la prendevamo un po' in giro, all'idea che diventasse nonna. No», si affrettò ad aggiungere con una risata, avendo notato l'espressione di Eve, «Mirina non è incinta, anche se sua madre ne sarebbe stata solo contenta. Si preoccupava anche per David: avrebbe mai messo la testa a
posto? Era felice?» «E lo è, felice?» Un'ombra scese sugli occhi di Anna, prima che lei li abbassasse. «David assomiglia molto al padre. Gli piace fare affari, di ogni tipo, e per questo viaggia in continuazione, sempre in cerca di nuovi settori da conquistare, di nuove opportunità. Non c'è dubbio che, se e quando Marco dovesse decidere di tirare i remi in barca, prenderebbe lui il timone.» Esitò, come se volesse aggiungere qualcosa, poi cambiò bruscamente argomento. «Mirina, invece, è una sedentaria. Ha una boutique a Roma. È lì che ha conosciuto Randall. Lui è uno stilista e adesso la boutique di Mirina vende esclusivamente le sue creazioni. È un giovane di grande talento. Questo è suo», disse, indicando il tubino che indossava. «È molto grazioso. Dunque, per quanto lei ne sa, il procuratore Towers non aveva motivo di preoccuparsi per i figli. Non c'era qualcosa che lei potesse sentirsi obbligata ad appianare o nascondere?» «Nascondere? No, assolutamente. Entrambi i figli sono persone in gamba, di successo.» «E il suo ex marito? Lei saprà che si trova in difficoltà economiche.» «Marco? Davvero?» Anna liquidò l'argomento scrollando le spalle. «Sono sicura che riuscirà a riprendersi, anche se non mi intendo di affari, diversamente da Cicely.» «Mi conferma dunque che la Towers invece se ne occupava. Direttamente?» «Certo. Cicely pretendeva di conoscere esattamente gli estremi delle varie transazioni e di poter dire la sua. Non ho mai capito come potesse tenere a mente tutto. Se Marco si trova in difficoltà economiche, lei ne era senza dubbio al corrente e con ogni probabilità gli aveva già suggerito una mezza dozzina di modi per ripianare la situazione. Era una donna veramente geniale.» Anna pronunciò le ultime parole con voce rotta e si portò una mano alle labbra. «Mi dispiace, Mrs Whitney.» «No, non si preoccupi. Ora va meglio. La presenza in questa casa dei figli di Cicely mi ha aiutato molto. Con loro accanto, ho la sensazione di riuscire ancora a tirare avanti. Non posso mettermi a cercare l'assassino, come lei, tenente, ma posso fare da madre ai due ragazzi.» «Sono molto fortunati a poter contare su di lei», mormorò Eve, sorpresa dalle sue stesse parole e dalla consapevolezza che erano sincere. Strano, aveva sempre pensato che la moglie del suo comandante fosse solo una
rompiscatole. «Mrs Whitney, che cosa può dirmi della relazione del procuratore Towers con George Hammett?» Anna si irrigidì. «Erano soltanto buoni amici.» «Mr Hammett mi ha riferito che erano amanti.» Anna sbuffò lievemente. Aveva idee molto all'antica e non se ne vergognava. «Sì, è vero, l'ammetto. Ma non era l'uomo adatto a lei.» «Perché?» «George è fatto a modo suo. Io gli sono molto affezionata e non posso negare che lui fosse un ottimo cavaliere per Cicely, ma è difficile che una donna sia completamente felice quando la maggior parte delle sere torna nel proprio appartamento vuoto e va a letto da sola. Cicely aveva bisogno di un compagno, ma George voleva mantenere il piede in due scarpe e lei si illudeva di condividere tale scelta.» «Mentre non era così.» «Non sarebbe dovuto essere così», scattò Anna, riprendendo ovviamente quella che era stata un'annosa discussione. «Il lavoro non basta, come le avevo fatto notare fin troppe volte. La verità è che lei non provava per George sentimenti così seri da indurla a rischiare.» «Rischiare?» «Emotivamente, intendo dire», replicò Anna in tono spazientito. «Voi poliziotti prendete tutto in senso letterale. Cicely preferiva di gran lunga una vita ordinata al caos di una relazione a tempo pieno.» «Ho avuto l'impressione che proprio questo dispiacesse a Mr Hammett, perché lui invece l'adorava.» «In tal caso, perché non le ha forzato la mano?» chiese Anna, con le lacrime agli occhi. «Cicely non sarebbe morta sola, non crede? Non sarebbe stata sola.» Eve stava per allontanarsi da quel silenzioso quartiere quando, d'impulso, accostò l'auto al marciapiede e affondò la testa nello schienale. Aveva bisogno di pensare. Non a Roarke, si rassicurò. Per quanto riguardava quell'uomo, non c'era nulla su cui rimuginare. Quello era un argomento chiuso. Spinta da un'improvvisa intuizione si collegò al computer che aveva in ufficio e predispose una ricerca su David Angelini. Se assomigliava tanto al padre, forse anche lui aveva fatto qualche investimento sballato. E, visto che c'era, ordinò una ricerca anche su Randall Slade e sulla boutique romana.
Se da lì fosse saltato fuori qualcosa, avrebbe subito controllato la lista dei passeggeri sui voli dall'Europa a New York. Perché diavolo una donna che non aveva preoccupazioni di sorta aveva lasciato in piena notte il proprio appartamento caldo e asciutto? Eve si obbligò a ripercorrere mentalmente tutti gli avvenimenti, un passo dietro l'altro, e, mentre ci ragionava sopra, esaminò i dintorni. Splendidi alberi secolari che ombreggiavano il terreno, costruzioni a uno o due piani molto distanti l'una dall'altra e con giardinetti ben tenuti, grandi quanto una cartolina postale. Come sarebbe stato crescere in una comunità tanto tranquilla e curata? Avrebbe indotto un senso di sicurezza, di fiducia, così come il doversi trascinare da una lurida stanza a un'altra lurida stanza, da un vicolo fetido a un altro vicolo fetido aveva fatto di lei una creatura nervosa e lunatica? Forse anche lì c'erano padri che entravano di soppiatto nelle camere da letto delle loro figliolette. Ma era difficile crederlo. In quel quartiere i padri non puzzavano di liquori scadenti e di sudore rancido e non avevano grosse dita che penetravano con brutalità nella carne innocente. Eve si accorse di ondeggiare avanti e indietro nel sedile dell'auto e represse un singhiozzo. Non l'avrebbe fatto. Non avrebbe lasciato che quei ricordi riaffiorassero. Non avrebbe permesso a se stessa di evocare quel volto che incombeva sul suo nell'oscurità o il sapore di quella mano che le premeva la bocca per soffocare le grida. No, non l'avrebbe fatto. Erano tutte cose accadute a un'altra, a una bambinetta di cui lei non riusciva neanche a ricordare il nome. Se ci avesse provato, se si fosse lasciata andare a ricordare ogni cosa, sarebbe tornata a essere quella bimba indifesa e avrebbe perso Eve. Tornò a posare la testa sullo schienale e si concentrò per ritrovare la calma. Se non fosse stata così intenta a crogiolarsi nell'autocompatimento, avrebbe visto la donna spaccare il vetro della finestra laterale di un cottage che si trovava dalla parte opposta della strada prima che le schegge toccassero terra. Comunque stessero le cose, Eve si chiese, accigliata, perché le fosse venuto in mente di parcheggiare proprio in quel punto. E se avesse veramente voglia di accollarsi il fastidio di compilare l'intricato rapporto per un intervento al di fuori della zona di sua competenza. Poi pensò alla simpatica famigliola che, nel rientrare a casa quella sera, avrebbe scoperto di aver subito un furto.
Con un lungo sospiro rassegnato, uscì dall'auto. La donna era per metà dentro e per metà fuori della finestra quando Eve la raggiunse. Lo scudo di sicurezza era stato disattivato con una banalissima e tutt'altro che costosa apparecchiatura usata di solito per impedire azioni di pirateria informatica, disponibile in qualsiasi rivendita di materiale elettronico. Scrollando la testa per l'ingenuità degli abitanti di quei sobborghi, Eve mollò un rapido buffetto al sedere della ladra che si dimenava per passare attraverso il pertugio. «Ha dimenticato il suo codice?» Per tutta risposta si sentì colpire alla spalla sinistra da un calcio, violento quanto quello di un mulo. Si reputò fortunata per non averlo ricevuto in faccia, ma crollò comunque a terra, schiacciando alcuni tulipani in boccio. La svaligiatrice schizzò via dalla finestra come un tappo e si lanciò di corsa sul prato. Se la spalla non le avesse fatto male, Eve avrebbe potuto lasciarla andare. Invece afferrò la preda con un placcaggio volante che mandò lei e l'altra a gambe all'aria in una ridente aiuola di viole del pensiero. «Toglimi di dosso quelle fottute mani se non vuoi che ti ammazzi.» Eve pensò per un attimo che quella era una possibilità da non prendere sotto gamba. La donna pesava almeno una decina di chili più di lei. Per assicurarsi che ciò non avvenisse, le affondò un gomito nella trachea e tirò fuori il proprio distintivo. «Sei in arresto.» La donna roteò gli occhi scuri, con aria disgustata. «Che diavolo ci fa da queste parti uno sbirro cittadino? Non sai dove si trova Manhattan, carogna?» «Devo essermi smarrita.» Eve mantenne premuto il gomito, aumentando anzi leggermente la pressione, tanto per togliersi una soddisfazione personale, quindi estrasse il cellulare e chiese l'intervento della macchina della polizia locale più vicina. 6 La mattina seguente Eve si svegliò con la spalla che mandava stilettate lancinanti, come gli ululati di Mavis nell'ultimo numero del suo spettacolo. Fu costretta ad ammettere che le ore in più di lavoro con Feeney e la notte trascorsa a rivoltarsi nel letto, da sola, avevano certamente contribuito a peggiorare la situazione. Siccome era restia a riempirsi di analgesici, se
non i più blandi, ne ingoiò una minima dose prima di vestirsi per la cerimonia funebre. Lei e Feeney avevano trovato una succosa chicca. Negli ultimi sei mesi David Angelini aveva prelevato dai suoi conti bancari tre grosse somme, il cui totale dava la sbalorditiva cifra di un milione e seicentotrentadue dollari, in valuta americana. Una cifra che equivaleva ai tre quarti dei suoi risparmi personali e che era stata prelevata in parte sotto forma di assegni circolari non intestati e in parte in contanti. Le ricerche su Randall Slade e Mirina continuavano, ma per il momento i due risultavano puliti. Apparentemente erano solo una giovane coppia felice in procinto di convolare a nozze. Dio solo sa come qualcuno possa sentirsi felice all'idea di compiere un simile passo, pensò Eve, tirando fuori il suo completo grigio. Mentre stava per chiudersi la giacca, notò che mancava un bottone. Quel dannato bottone. E ricordò che l'aveva ancora Roarke, il quale lo portava sempre con sé, neanche fosse un talismano. Lei indossava quel completo la prima volta in cui loro due si erano incontrati: a un funerale. Si ravviò frettolosamente i capelli con un pettine e fuggì dall'appartamento e dai ricordi. La cattedrale di St. Patrick era già piena di gente quando lei vi arrivò. Agenti nelle loro migliori uniformi erano schierati lungo tre isolati della 5th, da una parte e dall'altra della strada. Una specie di picchetto d'onore, si disse Eve, per un magistrato che si era guadagnato il rispetto delle forze dell'ordine. Tanto il traffico stradale quanto quello aereo erano stati dirottati lontano da quell'arteria di solito così congestionata, in cui si accalcavano ora soltanto i giornalisti, riuniti in un gruppo chiassoso. Dopo essere stata fermata per ben tre volte da un poliziotto, Eve si attaccò il distintivo alla giacca ed entrò senza altri intoppi nell'antica cattedrale, rimbombante di canti funebri. Non le capitava spesso di mettere piede in una chiesa. Gli edifici religiosi suscitavano in lei un vago senso di colpa, per motivi che non si preoccupava di indagare. L'odore delle candele e dell'incenso prendeva quasi alla gola. Alcuni riti, pensò mentre si infilava in un banco laterale, risalivano alla notte dei tempi, come la luna. Rinunciò definitivamente alla speranza di poter scambiare qualche parola con i familiari di Cicely, quella mattina, e si limitò a osservare la scena.
Nell'ultimo decennio, di punto in bianco, le autorità religiose cattoliche avevano ripristinato l'uso del latino. Forse perché, ipotizzò Eve, i riti acquistavano così una sorta di aura mistica comune a tutti. Certamente nella messa funebre l'antica lingua risultava quanto mai appropriata. La voce del prete riecheggiò, poderosa, rimbombando fino all'alto soffitto, suscitando un coro di risposte dai fedeli riuniti. Silenziosa e attenta, Eve scrutò la navata piena zeppa di gente, dove fra gli altri sedevano dignitari e politici, a capo chino. Si spostò quindi in modo da poter vedere i parenti della defunta. Quando Feeney le scivolò accanto, indicò con la testa una persona. «Angelini», mormorò. «E quella al suo fianco dovrebbe essere la figlia.» «Con il fidanzato alla sua destra.» «Già.» Eve scrutò la coppia: giovane, affascinante. La donna era di corporatura snella, con i capelli chiari, come la madre. L'abito completamente nero che indossava partiva dalla base di un lungo collo, copriva le braccia fino ai polsi e scendeva a lambire le caviglie. Niente velo né occhiali neri a nascondere gli occhi gonfi e cerchiati di rosso. Un dolore semplice, basilare, totale, sembrava irradiarsi da quella figura. Al suo fianco, l'alta sagoma di Randall Slade, con un lungo braccio attorno alle spalle della fidanzata. L'uomo aveva un viso di una bellezza che faceva colpo, quasi sfacciata, e che Eve ricordava bene, per averlo visto sullo schermo del suo computer: mascella larga, naso lungo, occhi a mandorla. Emanava una sensazione di forza e di durezza, ma il braccio si posava teneramente sulle spalle di Mirina. Accanto ad Angelini, dalla parte opposta, c'era il figlio, David, che si teneva però un po' in disparte. Nel linguaggio del corpo, quella mancata vicinanza lasciava intuire che fra i due ci fosse qualche screzio. Il giovane aveva lo sguardo fisso davanti a sé, con un'espressione impenetrabile sul volto. Era leggermente più basso del padre e tanto scuro di capelli quanto la sorella era chiara. Ed era solo, si disse Eve. Molto solo. Nel banco di famiglia aveva preso posto anche George Hammett. In quello immediatamente successivo si trovavano il comandante Whitney, sua moglie e la sua famiglia. Eve sapeva che in chiesa c'era anche Roarke. L'aveva già intravisto per un attimo, in fondo alla navata, accanto a una bionda con gli occhi lacrimosi. Ora, nel girarsi a lanciargli un rapido sguardo, lo vide chinarsi sulla donna e mormorarle qualcosa, al che la sconosciuta gli affondò il volto nella spalla.
Furiosa con se stessa per la fitta di gelosia provata nel vedere quella scena, Eve tornò a scrutare la folla. I suoi occhi incontrarono quelli di C.J. Morse. «Come diavolo ha fatto, quel bastardo, a venire a romperci le palle anche qui?» Feeney, da fervido cattolico qual era, trasalì nel sentir usare in chiesa un simile linguaggio. «Di chi parli?» «Di Morse... Sono appena le otto di mattina.» Feeney girò attorno lo sguardo e riuscì a scorgere il cronista. «Con una calca come questa, credo che saranno stati in molti a sgusciare fra le maglie del cordone di sicurezza.» Eve si chiese se non fosse il caso di trascinarlo fuori dalla chiesa, tanto per togliersi uno sfizio, poi però decise che il trambusto che ne sarebbe derivato avrebbe attirato su di lui proprio l'attenzione che desiderava. «Che vada a farsi fottere.» Feeney emise un singulto, come se avesse ricevuto un pizzicotto. «Santo cielo, Dallas, siamo in una cattedrale.» «Se Dio si mette a creare viscide creature come Morse, non può che aspettarsi qualche lagnanza.» «Dallas, un po' di rispetto!» Eve tornò a fissare Mirina, che si era portata una mano al volto. «Io ne ho, di rispetto», mormorò. «Ne ho moltissimo.» Detto questo, superò Feeney e si avviò nella navata laterale verso l'uscita. Quando Feeney riuscì a raggiungerla, lei stava già dando istruzioni a uno degli agenti. «Qual è il problema?» «Ho bisogno di un po' d'aria.» In chiesa Eve si sentiva sempre prendere alla gola da un tanfo di morte o d'agonia. «E volevo incastrare quel viscido individuo.» Aveva di nuovo un sorriso sul volto quando si girò verso Feeney. «Ho dato ordine agli agenti di piombargli addosso e di confiscare ogni cellulare o registratore in suo possesso. Per la legge sulla privacy.» «Non otterrai altro che mandarlo su tutte le furie.» «Bene. Perché è lui che fa infuriare me.» Emise un lungo sospiro, osservando l'orda dei cronisti dalla parte opposta della strada. «Non credo che l'opinione pubblica abbia il diritto di conoscere ogni cosa. Ma, se non altro, quei giornalisti si comportano secondo le regole e dimostrano un po' di quel rispetto nei confronti della famiglia a cui accennavi tu.» «Ne deduco che a questo punto intendi andartene.»
«Non c'è nulla che io possa fare, qui.» «Mi aspettavo di trovarti seduta accanto a Roarke.» «Ti sbagliavi.» Feeney assentì lentamente e fece per infilarsi la mano in tasca, per prendere il sacchetto di mandorle, quando si ricordò dov'era. «È questo il motivo per cui hai il pelo così ritto, figliola?» «Non capisco che cosa tu intenda dire.» Si incamminò, senza nessuna meta precisa in mente, ma si fermò di botto e si voltò. «Chi diavolo è la bionda che gli si struscia addosso?» «Non saprei.» Feeney risucchiò l'aria tra i denti. «Ma è una gran bella donna. Vuoi che io faccia una scenata a Roarke, a nome tuo?» «Piantala.» Si infilò le mani in tasca. «La moglie del comandante mi ha detto che dopo il funerale si terrà a casa sua una piccola cerimonia commemorativa, per soli intimi. Secondo te, queste esequie quanto potranno durare?» «Un'altra ora, come minimo.» «Torno alla centrale di polizia. Fra due ore ti aspetto a casa del comandante.» «Agli ordini, capo.» La piccola cerimonia per soli intimi si rivelò essere una riunione di oltre un centinaio di persone, tutte stipate nella dimora del comandante alla periferia della città. Per confortare gli ospiti e lenire il loro lutto c'erano cibi e liquori. Da perfetta padrona di casa, Anna Whitney si precipitò verso Eve nel momento stesso in cui la vide comparire. Parlò a voce bassa, con un'aria di riluttante comprensione. «Tenente, deve per forza intervenire adesso, qui?» «Mrs Whitney, farò il possibile per usare la massima discrezione. Quanto prima concludo gli interrogatori, tanto prima scoprirò chi ha ucciso il procuratore Towers.» «I figli sono sconvolti. La povera Mirina non si regge quasi in piedi. Non sarebbe meglio se lei...» «Anna.» Il comandante Whitney posò una mano sulla spalla della moglie. «Lascia che il tenente Dallas faccia il suo dovere.» Anna non replicò; si limitò a voltarsi e si allontanò, con un'espressione altera. «Oggi abbiamo detto addio a una carissima amica.» «Lo capisco, comandante. Cercherò di concludere il più rapidamente
possibile.» «Faccia attenzione con Mirina, Dallas. In questo momento è estremamente fragile.» «Sì, signore. Forse sarebbe meglio se le parlassi subito, in privato.» «Ci penso io.» Dopo che Whitney se ne fu andato, Eve si voltò per tornare nell'atrio e si trovò davanti Roarke. «Salve, tenente.» «Salve, Roarke.» Guardò il bicchiere di vino che lui teneva in mano. «Sono in servizio.» «Lo vedo. Il bicchiere non è per te.» Eve seguì il suo sguardo e scorse, seduta in un angolo, la donna bionda. «Bene.» Ebbe l'impressione che il midollo nelle ossa le si fosse tramutato in ghiaccio. «Non hai perso tempo.» Prima che lei potesse farsi da parte, Roarke le posò una mano sul braccio. Tanto la sua voce quanto i suoi occhi non tradirono alcuna emozione. «Suzanna è un'amica mia e lo era anche di Cicely. È la vedova di un poliziotto, ucciso nell'esercizio delle sue funzioni. Cicely aveva fatto condannare l'assassino.» «Suzanna Kimball», replicò Eve, lottando per soffocare la vergogna. «Suo marito era un bravo poliziotto.» «Così mi hanno detto.» Mentre la bocca gli si piegava quasi impercettibilmente in un sorriso divertito, fece scorrere lo sguardo sul completo di Eve. «Speravo che tu l'avessi bruciato, quell'orrore. Il grigio non ti si confà, tenente.» «Non sto partecipando a una sfilata di moda. Ora, se vuoi scusarmi...» Le dita sul suo braccio accentuarono la presa. «Dovresti indagare sulle perdite al gioco di Randall Slade. Deve somme considerevoli a svariate persone. Al pari di David Angelini.» «È vero?» «È verissimo. Io sono una di quelle svariate persone.» Lo sguardo di Eve si indurì. «E hai appena deciso che questo poteva interessarmi.» «Ho appena scoperto che ci sto rimettendo anch'io. Si è pesantemente indebitato con uno dei casinò che possiedo su Vegas II. Poi c'è la storia di un piccolo scandalo che risale ad alcuni anni fa, che riguarda il gioco della roulette, un tizio con i capelli rossi e un fatale incidente avvenuto in un oscuro satellite nel Settore 38.»
«Quale scandalo?» «Il poliziotto sei tu», rispose Roarke, sorridendo apertamente. «Scoprilo.» E la lasciò per andare a raggiungere la vedova del poliziotto e tenerle la mano. «Mirina l'aspetta nel mio studio», sussurrò Whitney all'orecchio di Eve. «Le ho promesso che non sarà una cosa lunga.» «Cercherò di fare in fretta.» Sforzandosi di riabbassare le penne che Roarke aveva arruffato, seguì nel corridoio la larga schiena del comandante. Sebbene lo studio di casa avesse un'aria decisamente meno spartana di quella dell'ufficio nella centrale di polizia, era evidente che Whitney vi aveva tenuto a bada lo sfarzoso gusto femminile della moglie. Le pareti erano di un semplice color beige, la moquette di un marrone appena più caldo e le sedie erano ampie e di una pratica tonalità scura. Al centro della stanza si trovava la postazione di lavoro, con relativa consolle. Nell'angolo accanto alla finestra c'era Mirina Angelini, nel suo lungo abito nero da lutto. Whitney le si avvicinò per primo e le parlò sottovoce, stringendole la mano, poi, con un'ultima occhiata d'avvertimento a Eve, se ne andò, lasciando sole le due donne. «Ms Angelini», iniziò Eve, «io ho conosciuto sua madre, ho lavorato con lei e l'ammiravo. La sua morte mi ha addolorato profondamente.» «È stato uno strazio per tutti», replicò Mirina con voce rotta ed esangue, come le sue gote. I suoi occhi erano scuri, quasi neri, e vitrei. «Tranne che per la persona che l'ha uccisa, immagino. Mi scuso anticipatamente se non potrò esserle di grande aiuto, tenente Dallas. Lo shock è stato troppo forte per me e ho accettato di prendere un tranquillante. Come tutti potranno confermarle, per me questo è stato un colpo tremendo.» «Fra lei e sua madre c'era un fortissimo legame, suppongo.» «Era la donna più straordinaria che io abbia mai conosciuto. Come potrei avere un atteggiamento calmo e composto, avendo perso mia madre in questo modo?» Eve le si avvicinò e si sedette su una delle ampie poltroncine scure. «Non vedo il motivo per cui lei dovrebbe essere calma e composta.» «Mio padre vuole che io dia una pubblica dimostrazione di forza.» Mirina voltò il viso verso la finestra. «Gli sto dando una grande delusione. Papà tiene molto alle apparenze.» «Teneva molto anche a sua madre?» «Sì. Le loro esistenze private e professionali erano intimamente legate. Il
divorzio non aveva cambiato questo stato di cose. Anche lui ha l'animo straziato.» Trasse un breve respiro interrotto dai singhiozzi. «Non lo dà a vedere, perché è troppo orgoglioso, ma soffre tremendamente. L'amava. Noi tutti l'amavamo.» «Ms Angelini, mi dica dell'ultima volta in cui ha visto o udito sua madre: di che umore era, di che cosa e di chi avete parlato?» «Il giorno prima che lei morisse ci siamo sentite al telefono e abbiamo chiacchierato per un'ora, se non di più. Su come organizzare le nozze.» Le lacrime le sgorgarono dagli occhi e le rigarono le gote esangui. «Avevamo entrambe un'infinità di idee. Io le avevo mandato in visione i bozzetti di alcuni vestiti: da sposa, da madre della sposa. Li aveva disegnati Randall. Abbiamo discusso di abiti. Non le sembra squallido, tenente, che l'ultima volta in cui ho parlato con mia madre il mio unico argomento di conversazione sia stato la moda?» «No, non mi sembra squallido. Amichevole, piuttosto. Amorevole.» Mirina si premette una mano sulle labbra. «Lo crede davvero?» «Sì, davvero.» «Di che cosa parla, lei, con sua madre?» «Io non ho una madre. Non l'ho mai avuta.» Mirina batté le palpebre, poi tornò a mettere a fuoco lo sguardo. «Che strano. Come ci si sente?» «Io...» Non c'era modo di descrivere quella realtà. «Per lei, Ms Angelini, sarebbe diverso», disse semplicemente, in tono gentile. «Mentre parlavate, sua madre ha accennato a qualcosa o a qualcuno che la preoccupava?» «No. Se pensa a qualcosa che riguardasse il suo lavoro, le dico subito che non ne parlavamo quasi mai. Io non sono molto interessata alle questioni giuridiche. Lei era felice, eccitata all'idea che di lì a pochi giorni ci saremmo riviste. Abbiamo riso molto. So che in pubblico lei adottava un'aria severa, professionale, ma con me, con tutta la famiglia, si comportava in modo... più sciolto, più spontaneo. Ho scherzato sul suo legame con George, dicendo che Randy avrebbe potuto disegnare anche per lei un abito da sposa, mentre preparava il mio.» «E sua madre come ha reagito?» «Ha riso. Alla mamma piaceva ridere», aggiunse, con voce un po' sognante, segno che l'ansiolitico cominciava a fare effetto. «Ha detto che si divertiva troppo come madre della sposa per rovinare tale piacere con gli inevitabili grattacapi di una futura moglie. Era molto affezionata a George e credo che insieme stessero benissimo, ma sono convinta che lei non l'a-
masse veramente.» «Come mai?» «No, non era amore, il suo.» Le labbra le si incurvarono in un lieve sorriso, gli occhi mandarono bagliori vitrei. «Quando si ama qualcuno, si desidera di condividerne l'esistenza, non le pare? Di far parte della sua vita e viceversa. Mia madre non aspirava a nulla di simile, con George. Né con altri.» «Mr Hammett, invece, l'avrebbe voluto?» «Non lo so. Ammesso che fosse così, tollerava comunque che la loro relazione andasse alla deriva. Come ci sto andando io», mormorò. «Mi pare di star fluttuando in aria.» Eve aveva bisogno che Mirina tenesse duro ancora un po', così si alzò e andò alla consolle a ordinare un bicchier d'acqua. Lo prese e, tornata indietro, lo cacciò in mano a Mirina. «Quella relazione era motivo di screzio fra Mr Hammett e suo padre? O fra i suoi genitori?» «Era una situazione... imbarazzante, ma non tale da mettere a disagio.» Mirina sorrise di nuovo. Aveva un'aria sonnolenta, così rilassata ormai che avrebbe potuto incrociare le braccia sul davanzale della finestra e addormentarsi. «Può sembrare un'affermazione contraddittoria, ma lei dovrebbe conoscere mio padre. Lui rifiutava di farsene un cruccio o, quanto meno, di lasciarsi condizionare. È ancora in rapporti amichevoli con George.» Batté le palpebre fissando il bicchiere che aveva in mano, come se si fosse resa conto solo in quel momento della sua presenza, e bevve un piccolo sorso. «Non so quale reazione lui avrebbe potuto avere se loro avessero deciso di sposarsi, ma questo ormai è acqua passata.» «È coinvolta negli affari di suo padre, Ms Angelini?» «Sì, ma solo nel settore moda. Mi occupo io di tutti gli acquisti per le boutique di Roma e Milano, ho l'ultima parola sulle forniture ai nostri negozi di Parigi e New York e così via. Di tanto in tanto viaggio, per andare ad assistere alle sfilate, anche se non mi piace molto spostarmi. E odio uscire dal nostro pianeta, pensi un po'.» Eve si rese conto che la stava perdendo. «Non ho mai viaggiato nello spazio.» «Oh, un'esperienza orrenda. A Randy piace. Dice che è una splendida avventura. Di che cosa stavamo parlando?» Si passò una mano fra gli splendidi capelli dorati, mentre Eve recuperava il bicchiere prima che finisse in mille pezzi sul pavimento. «Quanto agli acquisti, mi piace com-
prare abiti. Gli altri aspetti dell'attività commerciale non mi interessano.» «Sia i suoi genitori sia Mr Hammett possiedono azioni di una società chiamata Mercury.» «Ovviamente. Ci serviamo solo della Mercury per le nostre spedizioni via mare.» Le palpebre le stavano crollando. «È veloce e affidabile.» «Che lei sappia, erano insorti problemi in questa o in altre società di cui la sua famiglia è azionista?» «No, in nessuna.» Era arrivato il momento di sferrare un colpo basso. «Sua madre era al corrente dei debiti di gioco di Randall Slade?» Per la prima volta Mirina ebbe un guizzo di vitalità, perché un lampo di rabbia le balenò negli occhi chiari. Parve risvegliarsi di colpo. «Non toccava a mia madre preoccuparsi dei debiti di Randall, perché ci pensavamo già lui stesso e io. Stiamo rimettendo le cose a posto.» «Lei non aveva accennato nulla a sua madre?» «Non c'era motivo di preoccuparla per qualcosa che era già in via di risoluzione. Randall aveva il vizio del gioco, ma è riuscito a buttarsi il problema alle spalle. Non ci ricadrà più.» «I debiti sono considerevoli?» «Sono stati tutti saldati», rispose Mirina con voce sorda. «Abbiamo raggiunto un accordo.» «Sua madre era una donna ricca, personalmente. Lei erediterà una larga parte del suo patrimonio.» Che fosse stato il tranquillante, o il dolore, a ottunderle il cervello, fatto sta che Mirina parve non rendersi conto dell'allusione insita in quelle parole. «Sì, ma non avrò più mia madre, non le pare? Non avrò più la mia mamma. Quando sposerò Randall, lei non ci sarà. Non ci sarà», ripeté, e cominciò a piangere silenziosamente. David Angelini era tutt'altro che fragile. Le sue emozioni si manifestavano sotto forma di una rigida impazienza con sotterranee venature di rabbia contenuta. A giudicare dalle apparenze, la sola idea di essere costretto a parlare con un poliziotto era per lui un insulto. Quando si trovò seduto davanti a Eve, nello studio di Whitney, rispose alle domande in modo brusco, con un tono di voce tagliente e scegliendo con cura le parole. «A ucciderla è stato chiaramente qualche pazzo criminale che lei aveva fatto condannare», esordì. «La professione che esercitava la metteva fin
troppo a contatto con la violenza.» «Secondo lei, sua madre non avrebbe dovuto svolgere quel lavoro?» «Non capivo perché l'amasse tanto. Perché ne sentisse il bisogno.» Sollevò il bicchiere che aveva portato con sé e bevve un sorso. «Ma era così e quel lavoro, alla fine, l'ha uccisa.» «Quando l'ha vista per l'ultima volta?» «Il diciotto marzo. Il giorno del mio compleanno.» «Da allora non ha avuto più contatti con lei?» «Le ho parlato una settimana prima che morisse. Una semplice telefonata familiare. Non lasciavamo passare più di una settimana senza sentirci.» «Come descriverebbe il suo stato d'animo?» «Ossessionato... dalle nozze di Mirina. Mia madre non faceva mai le cose a metà. Stava pianificando il matrimonio con la stessa meticolosità con cui si occupava dei suoi casi criminali. Si augurava che potesse contagiarmi.» «Che cosa?» «La febbre del matrimonio. Sotto la sua corazza da procuratore, mia madre era una donna romantica. Si augurava che io incontrassi la compagna giusta e mettessi su famiglia. Le ho detto che per questo c'erano già Mirina e Randy e che io sarei rimasto ancora per un po' sposato con i miei affari.» «Lei opera attivamente nell'Angelini Exports. Dovrebbe essere al corrente delle difficoltà finanziarie della società.» Il volto del giovane si indurì. «Cose da nulla, tenente. Una montatura. Niente di serio.» «Dalle informazioni che ho raccolto risulta che si trova in difficoltà ben più serie delle cose da nulla e delle montature.» «La società è solida. C'è semplicemente bisogno di riorganizzarla in parte, di operare una certa diversificazione, il che è già in corso.» Agitò in aria una mano dalle dita eleganti, che mandarono un brillio dorato. «Alcuni soci di maggioranza hanno commesso sfortunati errori che possono essere - e lo saranno - corretti. E questo non ha nulla a che vedere con la morte di mia madre.» «Il mio lavoro consiste nell'esplorare tutti i punti oscuri, Mr Angelini. Sua madre ha lasciato un patrimonio cospicuo. Suo padre entrerà in possesso di un buon numero di titoli, il che vale anche per lei.» David balzò in piedi. «Sta parlando di mia madre. Se lei sospetta che a farle del male sia stato un membro della famiglia, il comandante Whitney ha commesso un mostruoso errore di valutazione nell'affidarle l'incarico di
condurre le indagini.» «Lei può avere tutte le opinioni che vuole. Le piace il gioco, Mr Angelini?» «Sono forse affari suoi?» Vedendo che lui accennava ad andarsene, Eve si alzò a sua volta e lo fronteggiò. «È una semplice domanda.» «Sì, di tanto in tanto gioco, come fanno moltissimi altri. È un passatempo che mi rilassa.» «A quanto ammontano i suoi debiti?» Le dita con cui teneva il bicchiere si irrigidirono. «Credo che a questo punto mia madre mi avrebbe consigliato di chiedere l'intervento di un legale.» «È un suo indiscutibile diritto, anche se io non la sto accusando di nulla, Mr Angelini. So perfettamente che la notte in cui sua madre è morta lei si trovava a Parigi.» Come era anche perfettamente consapevole che ogni ora un jet di linea varcava l'Atlantico. «È mio dovere farmi un'idea precisa della situazione, inquadrarla in modo chiaro e completo. Lei non è obbligato a rispondere alla mia domanda. Ma io riuscirò comunque, e con estrema facilità, ad appurare questo dato.» Per un attimo i muscoli della mascella del giovane Angelini si contrassero. «Ottocentomila, dollaro più, dollaro meno.» «Si trova nell'impossibilità di coprire tale debito?» «Non sono il tipo che fugge senza pagare e non sono neppure uno squattrinato, tenente Dallas», rispose lui altezzosamente. «Il debito può essere rimborsato e fra poco lo sarà.» «Sua madre ne era al corrente?» «E non sono neppure un bambino, tenente, che corre dalla mamma a farsi consolare ogni volta che si taglia un dito.» «Lei e Randall Slade giocate insieme?» «Lo facevamo, ma, siccome mia sorella è contraria, Randy ha rinunciato a questo passatempo.» «Non prima di aver contratto pure lui pesanti debiti.» I suoi occhi, molto simili a quelli del padre, assunsero un'espressione gelida. «Non ne so nulla e non intendo discutere di queste cose con lei.» Oh, sì che lo farai, pensò Eve, ma per un attimo glissò. «E lo scandalo avvenuto nel Settore 38 qualche anno fa? Era coinvolto anche lei?» «Il Settore 38?» Il suo sguardo vacuo parve a Eve abbastanza convincente.
«Un satellite adibito a casinò.» «Vado spesso a trascorrere il fine settimana a Vegas II, ma non mi ricordo di aver mai frequentato una sala da gioco su quel satellite. E non so a quale scandalo lei si riferisca.» «Gioca alla roulette?» «No, è da incoscienti. Randy ci va matto, ma io preferisco il blackjack.» Randall Slade non sembrava un incosciente. Fece a Eve l'impressione di essere un uomo disposto a travolgere qualunque ostacolo trovasse sulla propria strada senza rallentare il passo. E non assomigliava minimamente all'immagine che lei si era fatta di uno stilista di moda. Era vestito in maniera semplice, con un completo nero privo delle borchie e dei galloni che andavano tanto per la maggiore in quel momento. E le grandi mani facevano venire in mente un operaio più che un artista. «Spero che lei non mi faccia perdere molto tempo», disse con il tono di chi è abituato a impartire ordini. «Mirina è andata a stendersi al piano di sopra. Non voglio lasciarla sola troppo a lungo.» «Sarò breve.» Eve non obiettò quando lui estrasse un astuccio d'oro che conteneva dieci sottili sigarette nere. In teoria avrebbe potuto farlo, ma attese che lui se ne accendesse una. «In quali rapporti era con il procuratore Towers?» «Amichevoli. Lei stava per diventare mia suocera. Condividevamo un profondo amore per Mirina.» «La sua futura suocera nutriva della stima per lei.» «Non ho motivo di credere altrimenti.» «La sua carriera è stata molto avvantaggiata da quando lei è entrato in stretti rapporti con la Angelini Exports.» «È vero.» Espirò una boccata di fumo che sapeva leggermente di mentolo. «Ma mi piace pensare che anche la società di Angelini abbia tratto beneficio dai suoi rapporti con me.» Scrutò attentamente l'abito grigio di Eve. «Il taglio e il colore del suo completo sono incredibilmente mostruosi. Le consiglio di dare un'occhiata alla mia collezione in vendita qui a New York.» «Lo terrò a mente, grazie.» «Mi irrita vedere una donna attraente con indosso un brutto abito.» Sorrise, un sorriso così affascinante che Eve fu colta di sorpresa. «Lei dovrebbe portare colori più audaci, linee più aderenti. Si adatterebbero alla perfezione a un corpo come il suo.»
«Me l'hanno già detto», mormorò Eve, pensando a Roarke. «Lei sta per sposare una donna molto ricca.» «Io sto per sposare la donna che amo.» «Che, per una felice coincidenza, è anche ricca.» «Già.» «E il denaro è una cosa di cui tutti abbiamo bisogno.» «Non dovrebbe essere così?» Disinvolto, tutt'altro che offeso, anzi divertito. «Lei ha grossi debiti, Mr Slade. Debiti imponenti in un campo che non promette nulla di buono a chi non è in grado di pagarli.» «Esatto.» Espirò un'altra boccata di fumo. «Ho il vizio del gioco, tenente. Ma ne sto uscendo. Con l'aiuto e il sostegno di Mirina, sto seguendo una terapia. Sono due mesi e cinque giorni che non mi siedo a un tavolo da gioco.» «Ama la roulette, non è così?» «Purtroppo.» «A quanto ammontano i suoi debiti, in cifra tonda?» «Cinquecentomila dollari.» «E a quanto ammonta l'eredità della sua fidanzata?» «Probabilmente il triplo, a grandi linee. Anche di più, se consideriamo i titoli e le proprietà immobiliari che non sono stati convertiti in denaro sonante. L'uccisione della madre della mia fidanzata sarebbe stata certamente un modo per risolvere le mie difficoltà finanziarie.» Spense accuratamente il mozzicone della sigaretta. «Tenga presente, però, che queste verranno azzerate dal contratto che ho appena firmato per le mie creazioni autunnali. Per me il denaro non ha una tale importanza da indurmi a uccidere per ottenerlo.» «Ma il gioco ha una tale importanza?» «Il gioco è come una splendida donna. Desiderabile, eccitante, capricciosa. Ho dovuto scegliere: o il gioco o Mirina. E non c'è nulla che non farei per non perdere Mirina.» «Nulla?» Slade capì l'allusione e inclinò la testa. «Nulla, nel modo più assoluto.» «Mirina è al corrente dello scandalo nel Settore 38?» La sua espressione divertita e leggermente compiaciuta si raggelò, il volto divenne terreo. «È una cosa che risale a circa dieci anni fa. Non ha nulla a che vedere con Mirina. Nulla a che vedere con tutto il resto.» «Lei non gliene ha fatto parola.»
«Non la conoscevo, ai tempi. Ero giovane, stupido, e ho pagato per il mio errore.» «Perché non mi spiega, Mr Slade, com'è giunto a commettere quell'errore?» «Non ha nulla a che vedere con tutto questo.» «Mi accontenti.» «Dannazione, è stata la sbandata di una notte. L'unica. Avevo bevuto troppo e fui così idiota di mescolare i liquori con alcune droghe chimiche. La donna morì, ma fu provato che aveva ingerito da sé la dose letale.» Interessante, pensò Eve. «Ma lei era presente», azzardò. «Ero obnubilato dalla droga. Avevo perso alla roulette più di quanto potessi permettermi e fra noi era scoppiato un violento litigio. Come le ho già detto, ero molto giovane, allora. Accusai la donna di essere la causa della mia sfortuna. Forse la minacciai anche, ora non ricordo. Sì, litigammo pubblicamente, lei mi colpì e io la colpii a mia volta. Non ne sono fiero. Poi non rammento più nulla.» «Non ricorda davvero, Mr Slade?» «Come testimoniai al processo, la prima cosa che ricordo fu il risveglio in una piccola stanza lurida. Eravamo a letto, nudi, e lei era morta. Io avevo ancora la mente annebbiata. Arrivarono gli agenti della sorveglianza, dovevo averli chiamati io. Scattarono una serie di foto. Quando il caso fu chiuso e io fui completamente scagionato, mi assicurarono che le foto erano state distrutte. Conoscevo appena quella donna», continuò, accalorandosi. «Ci eravamo incontrati al bar per caso... o, almeno, così avevo creduto. Il mio avvocato scoprì in seguito che era in realtà una prostituta, priva però di regolare licenza, che lavorava nei casinò.» Chiuse gli occhi. «Crede che io voglia far sapere a Mirina di essere stato accusato, anche solo per breve tempo, di aver ucciso una puttana senza licenza?» «No», rispose piano Eve. «Non lo credo. E, per usare le sue stesse parole, Mr Slade, non c'è nulla che lei non farebbe per non perdere Mirina. Sarebbe disposto a fare qualunque cosa, nel modo più assoluto.» Quando uscì dallo studio del comandante, Eve trovò Hammett ad attenderla. Le sue guance sembravano ancora più incavate, la pelle ancora più grigiastra. «Mi auguravo che potesse concedermi un attimo del suo tempo, tenente... Eve.»
Lei gli indicò la stanza alle sue spalle, lasciò che lui vi entrasse per primo, poi chiuse la porta tagliando fuori il brusio delle conversazioni. «Per lei questa è una giornata penosa, George.» «Sì, molto penosa. Volevo chiederle... Ho bisogno di sapere... C'è qualcosa di nuovo? Un minimo indizio?» «Le indagini procedono. Non c'è nulla che io possa aggiungere a ciò che i media hanno già reso noto.» «Ci dev'essere qualcos'altro.» La voce gli divenne stridula, prima che lui riuscisse a controllarla. «Qualcosa.» Eve poteva provare compassione, anche quando nutriva un sospetto. «È stato fatto tutto il possibile.» «Lei ha interrogato Marco, i figli, persino Randy. Se loro sono a conoscenza di qualche fatto, se le hanno raccontato qualche particolare che possa essere di aiuto alle indagini, io ho il diritto di saperlo.» Una crisi di nervi? si chiese Eve. O il dolore? «No», rispose pacatamente, «lei non ha alcun diritto. Non posso rivelarle nessuna informazione che sia frutto di un interrogatorio o di un'indagine investigativa.» «Stiamo parlando dell'assassinio della donna che amavo!» esplose Hammett, con il volto pallido diventato paonazzo. «Avremmo potuto sposarci.» «Lei aveva intenzione di sposarla, George?» «Ne avevamo discusso.» Si passò una mano sulla faccia, una mano che tremava leggermente. «Continuavamo a discuterne», ripeté, mentre la pelle tornava del solito pallore. «Ma c'era sempre un nuovo caso, una nuova arringa da preparare. E ci sembrava d'avere tanto tempo davanti a noi.» Con le mani strette a pugno, voltò le spalle a Eve. «Mi scuso per aver alzato la voce con lei. Non sono in me.» «Non si preoccupi, George. Mi dispiace molto.» «Se n'è andata.» Lo disse in un soffio, con la voce rotta. «Se n'è andata.» A Eve non restava altro da fare che concedergli un po' d'intimità. Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle, poi con una mano si massaggiò la nuca, in cui si era accumulata tutta la tensione. Nell'andarsene da quella casa, fece un cenno a Feeney. «Ho bisogno che tu mi tiri fuori una vecchia storia», gli disse mentre uscivano insieme. «Avvenuta circa dieci anni fa, in uno degli inferni del gioco nel Settore 38.» «Che cosa c'è sotto, Dallas?» «Sesso, scandalo e un probabile suicidio. Accidentale.»
«Maledizione», replicò Feeney con aria tetra, «e io che speravo di poter vedere in televisione una partita, stasera.» «Questo potrebbe essere altrettanto divertente.» Spiò Roarke che aiutava la bionda a salire nella sua auto, esitò, poi cambiò strada e gli passò accanto. «Grazie per la soffiata, Roarke.» «Sempre a tua disposizione, tenente. Salve, Feeney.» Poi salutò entrambi con un breve cenno del capo, prima di montare a sua volta in macchina. «Ehi», esclamò Feeney dopo che l'auto si fu allontanata. «È veramente arrabbiato con te.» «A me è sembrato come al solito», mormorò Eve, spalancando la portiera della propria vettura. Feeney sbuffò. «A volte il tuo fiuto da poliziotto fa cilecca, figliola.» «Limitati a tirarmi fuori quel caso, Feeney. Sul banco degli accusati c'era Randall Slade.» Sbatté la portiera, con aria imbronciata. 7 Feeney capì che Eve non sarebbe stata contenta delle informazioni che lui aveva raccolto. Prevedendo la sua reazione, e da uomo saggio qual era, invece di comunicargliele di persona gliele inviò via e-mail. «Ho rintracciato i particolari di quella storia con Slade», disse non appena il suo volto flaccido lampeggiò sul monitor di Eve. «Ora te li mando. Io... ehm... sono bloccato qui. Dalla lista delle persone fatte condannare dalla Towers ho spuntato solo un venti per cento. È un controllo che richiede tempo.» «Cerca di affrettarlo, Feeney. Dobbiamo restringere il campo delle indagini.» «Va bene. Pronto per la trasmissione dati.» Il suo volto sparì, lasciando il posto al rapporto della polizia del Settore 38. Via via che i dati scorrevano, Eve assumeva un'espressione sempre più accigliata. C'era poco più di quanto Randall Slade le avesse già detto di persona. Uno strano decesso, una overdose. La vittima si chiamava Carolle Lee, aveva ventiquattro anni, era nata nella New Chicago Colony e non aveva un regolare lavoro. L'immagine di lei apparsa sullo schermo mostrò una giovane donna dai capelli neri, di sangue misto, con un esotico taglio d'occhi e una carnagione color caffè. Nella foto segnaletica Randall aveva l'aria pallida, gli occhi vitrei. Eve passò in rassegna tutto quel materiale, cercando un minimo detta-
glio che lo stilista potesse averle taciuto. Non che la posizione di lui non fosse già abbastanza grave, pensò. L'accusa di omicidio era caduta, ma erano rimaste quelle di favoreggiamento della prostituzione irregolare, possesso di droghe chimiche vietate e mancato soccorso. Randall era stato fortunato, decise Eve, molto fortunato, perché il decesso era avvenuto su un satellite poco conosciuto, in un buco d'inferno che sfuggiva alle attenzioni dei più. Ma se qualcuno - chiunque - fosse venuto a conoscenza dei dettagli, se avesse minacciato di metterne al corrente la graziosa e fragile fidanzata, per Slade sarebbe stato un bel guaio. La Towers sapeva? si chiese Eve. Era questo il punto. E, se avesse saputo, come si sarebbe comportata? In veste di procuratore distrettuale avrebbe potuto passare in rassegna i fatti, soppesarli e liquidare il caso come risolto. Ma in veste di madre? La madre amorosa che chiacchierava di moda con la figlia per un'ora, la devota genitrice che riusciva a trovare il tempo per dare una mano a organizzare nozze perfette, avrebbe accettato di considerare quello scandalo alla stregua di una sciocca sbandata giovanile? O si sarebbe messa di mezzo, come un possente ostacolo, fra il responsabile di quella sbandata, anche se ormai più adulto e meno sciocco, e ciò che lui desiderava a tutti i costi? Stringendo le palpebre, Eve continuò a esaminare i documenti. Ma a un tratto si raggelò, perché le era balzato agli occhi il nome Roarke. «Figlio di puttana», mormorò, sferrando un pugno al tavolo. «Bastardo.» Non era passato neanche un quarto d'ora e già lei stava percorrendo a grandi passi il lucido pavimento di piastrelle dell'atrio dell'edificio nel centro di Manhattan in cui si trovava l'ufficio di Roarke. Aveva la mascella tesa quando inserì il proprio codice e appoggiò violentemente la mano sul pannello per la rilevazione dell'impronta palmare dell'ascensore privato. Non si era preoccupata di avvisare del suo arrivo, ma lasciò che la sua giusta collera la trascinasse all'ultimo piano. La receptionist nella sua elegante uniforme iniziò a sorridere nel vederla, ma le bastò dare un'occhiata al suo volto perché la cordialità lasciasse il posto all'imbarazzo. «Tenente Dallas.» «Comunichi a Roarke che sono qui e che devo parlargli subito, qui o in centrale.» «È... è in riunione.» «Subito.» «Lo avviserò.» Roteò sulla sedia, premette il pulsante per la comunica-
zione privata e mormorò il messaggio, con un'infinità di scuse, mentre Eve aspettava schiumando di rabbia. «Se può attendere un attimo nel suo ufficio, tenente...» disse infine la receptionist, accennando ad alzarsi. «Conosco la strada», scattò Eve, incamminandosi sulla lussuosa moquette verso le enormi doppie porte che davano nel sancta sanctorum neyworkese di Roarke. C'era stato un periodo in cui si sarebbe servita una tazza di caffè o avrebbe gironzolato nell'ufficio per ammirare il panorama che si scorgeva da quel centocinquantesimo piano. Ora invece rimase ferma, in piedi, con ogni muscolo vibrante di rabbia. E, sotto la rabbia, c'era la paura. Il pannello sulla parete a est scivolò di lato silenziosamente e Roarke si fece avanti. Indossava ancora l'abito scuro che aveva scelto per la cerimonia funebre. Mentre il pannello si richiudeva alle sue spalle, giocherellò con il bottone che teneva in tasca, il bottone che mancava alla giacca grigia di Eve. «Sei stata fulminea», disse in tono disinvolto. «Ero convinto che sarei riuscito a concludere la mia riunione prima del tuo arrivo.» «Ti ritieni molto furbo», scattò Eve. «Mi hai fornito solo un piccolo appiglio per indurmi a indagare su quella vecchia storia, mentre tu, Roarke, dannazione, ci sei dentro fino al collo.» «Davvero?» Con aria impassibile raggiunse una sedia e si accomodò, allungando le gambe. «In che modo, tenente?» «Era di tua proprietà quel dannato casinò in cui Slade giocava. Era tuo il pulcioso albergo in cui è morta la donna. Ed era in quel tuo buco infernale che lavorava la prostituta priva di licenza.» «Prostitute irregolari nel Settore 38?» Roarke abbozzò un sorriso. «Caspita, la cosa mi sconvolge.» «Non fare il furbo con me. Sei implicato in questa storia. Il tuo coinvolgimento nella Mercury era un fatto già abbastanza scabroso, ma questo è molto peggio. Le tue dichiarazioni sono agli atti.» «Ovviamente.» «Perché mi stai rendendo così difficile il tentativo di tenere il tuo nome fuori da questo caso?» «Non mi interessa renderti le cose difficili o facili, tenente.» «Bene. Benissimo.» Se lui intendeva mostrarsi gelido, lei poteva fare altrettanto. «Allora io mi limiterò a fare domande e tu a rispondere, senza altri indugi. Conoscevi Slade già da allora?»
«In realtà, no. Non personalmente. Anzi, mi ero completamente dimenticato di quel vecchio caso, e che ci fosse coinvolto lui, finché non ho fatto alcune ricerche per conto mio. Non vorresti una tazza di caffè?» «Avevi dimenticato di essere stato coinvolto in un'indagine per omicidio?» «Sì.» Congiunse pigramente i polpastrelli delle mani. «Non era la prima volta che avevo a che fare con la polizia e non sarebbe stata neppure l'ultima. Nel quadro generale dei fatti di questo mondo, tenente, mi sembrava una cosa trascurabile.» «Ti sembrava una cosa trascurabile», ripeté Eve. «Buttasti Slade fuori dal tuo casinò.» «Se ne occupò il direttore della casa da gioco, se non ricordo male.» «Ma tu c'eri.» «Sì, c'ero, o, meglio, ero nei paraggi. I giocatori insoddisfatti diventavano spesso turbolenti. A quei tempi non prestavo loro molta attenzione.» Eve inspirò profondamente. «Se quel fatto ti era sembrato tanto trascurabile da farti uscire di mente l'intera vicenda, perché hai venduto il casinò, l'albergo e tutto ciò che possedevi nel Settore 38 a non più di quarantotto ore dall'assassinio di Cicely Towers?» Per un attimo Roarke rimase in silenzio, con gli occhi fissi in quelli di lei. «Per motivi personali.» «Roarke, dimmi qualcosa di più, in modo che io possa mettere un punto fermo a tutta questa storia. Lo so che la vendita non ha nulla a che vedere con il delitto Towers, ma può scatenare una ridda di sospetti. I 'motivi personali' non mi bastano.» «A me bastano e avanzano. Per il momento. Dimmi, tenente Dallas, stai forse pensando che io, avendo deciso di ricattare Cicely grazie alla giovanile sbandata del suo futuro genero, abbia ordinato a un mio scagnozzo di attirarla nel West End e, se lei si fosse rifiutata di pagare, di tagliarle la gola?» Eve fu sul punto di odiarlo per averla messa in condizione di dover dare lei una risposta. «Come ti ho già detto, e non mentivo nel dirtelo, non credo che tu abbia qualcosa a che fare con la morte della Towers. Però mi stai costringendo a indagare su una certa ipotesi, indagine che sottrarrà tempo e personale a quella sull'assassinio del procuratore.» «Va' al diavolo, Eve.» Lo disse in un soffio: così piano, con tale calma, che lei si sentì ribollire internamente. «Che cosa vuoi da me, Roarke? Avevi detto che mi avresti dato una ma-
no, che avresti messo a mia disposizione i tuoi contatti. Ora, siccome sei arrabbiato per tutt'altro motivo, mi intralci la strada.» «Ho cambiato idea», tagliò corto lui, alzandosi e mettendosi dietro la scrivania. «Su diverse cose», aggiunse, fissando Eve con uno sguardo che le trafisse il cuore. «Devi soltanto spiegarmi il motivo per cui hai venduto. È una coincidenza che non può passare inosservata.» Per un attimo Roarke ripensò alla sua decisione di riorganizzare alcune delle sue società che agivano ai margini della legalità e di liberarsi di quelle che non potevano essere emendate. «No», mormorò, «non credo che lo farò.» «Perché mi metti in questa situazione?» lo tallonò lei. «È un modo per punirmi di qualcosa?» Roarke si sedette, si appoggiò allo schienale, congiunse le dita. «Se vuoi.» «Verrai trascinato in questo caso, proprio come l'altra volta. E senza motivo.» In preda alla frustrazione batté le mani sulla sua scrivania. «Non riesci a capirlo?» Lui le fissò il volto, i cupi occhi ansiosi, i capelli dal taglio ridicolo. «So quello che faccio.» Si augurò che fosse vero. «Roarke, cerca di capirlo una buona volta: a me non basta sapere che tu non hai nulla a che vedere con questo caso. Ora devo provarlo.» Era tale la voglia di accarezzarla che le dita gli dolevano. In quel momento Roarke desiderò, più di ogni altra cosa, di poterla odiare per l'effetto che aveva su di lui. «Lo sai davvero, Eve?» Lei si raddrizzò, lasciando ricadere le mani lungo i fianchi. «Non ha importanza», disse, poi si voltò e uscì. Ha importanza, invece, pensò Roarke. Al momento era l'unica cosa che importasse veramente. Si piegò in avanti, sconvolto. Ora poteva imprecare contro di lei, ora che quei grandi occhi color whiskey non fissavano più i suoi. Poteva maledirla per averlo talmente depresso da essere quasi disposto a implorarla di condividere con lui una parte della sua esistenza, una qualsiasi, anche la più piccola che lei volesse concedergli. Tuttavia, se l'avesse supplicata, se si fosse arreso, avrebbe finito probabilmente per odiarla quasi quanto avrebbe odiato se stesso. Sapeva come mettere alle corde un rivale, come avere la meglio su un avversario. Sapeva certamente come lottare per ottenere ciò che desiderava o che intendeva avere. Ma non era più sicuro di essere in grado di mettere
alle corde, vincere o contrastare Eve. Si tolse di tasca il bottone e ci giocherellò, studiandolo come se fosse un intrigante enigma da risolvere. Si stava comportando da idiota, concluse. Era umiliante dover riconoscere fino a che punto l'amore potesse fare di un uomo un incredibile sciocco. Si alzò, rimettendosi il bottone in tasca. Aveva una riunione da concludere, una serie di affari di cui occuparsi. E, pensò, doveva fare una ricerca per appurare se i particolari dell'arresto di Slade fossero usciti dal Settore 38. E, se così era stato, come e perché. Eve non riuscì a cancellare il suo appuntamento con Nadine. Il fatto di essere obbligata a incontrarla la irritava, così come quello di dover concludere in fretta la serata con la giornalista per darle il tempo di partecipare in diretta al programma serale. Si lasciò cadere su una sedia davanti a un tavolino di Images, un piccolo caffè nei pressi della sede di Channel 75. Il locale, con i suoi tranquilli séparé sotto alberi frondosi, era tutt'altra cosa rispetto al Blue Squirrel. Trasalendo nel vedere i prezzi segnati sul menu (i giornalisti televisivi erano pagati molto meglio dei poliziotti), ordinò una Pepsi Classic. «Dovresti provare i muffin», le disse Nadine. «Sono una famosa specialità di questo locale.» «Ci credo.» Cinque dollari per qualche mirtillo reidratato, pensò. «Non ho molto tempo.» «Neanch'io.» Il trucco di scena di Nadine era ancora perfetto. Eve poté soltanto chiedersi come facesse una persona a resistere per ore e ore di fila con i pori della pelle soffocati dal cerone. «Comincia tu», disse alla giornalista. «D'accordo.» Nadine spezzò in due il suo muffin, che mandò un profumo fragrante. «Ovviamente la cerimonia funebre è la notizia del giorno. Chi c'era, chi ha parlato e che cosa ha detto. Molti aneddoti sulla famiglia, a fare da contorno, e i riflettori puntati sulla figlia in lacrime e il suo fidanzato.» «Perché?» «Perché il pubblico va matto per queste cose. I preparativi di un sensazionale sposalizio interrotti da una morte violenta. Si è sparsa la voce che le nozze saranno rimandate all'inizio del prossimo anno.» Detto questo, addentò il suo muffin. Eve ignorò l'invidiosa reazione dei suoi succhi gastrici. «Non mi interessano i pettegolezzi, Nadine.»
«Ma aggiungono colore. E poi, bada bene, l'indiscrezione è dilagata, più che filtrare goccia a goccia. Qualcuno voleva che i media sapessero del rinvio delle nozze. Perciò mi chiedo se questo matrimonio si farà veramente. Il mio fiuto mi dice che il paradiso puzza di guai. Perché Mirina dovrebbe lasciare Slade in un momento come questo? Secondo me, dovrebbero invece sposarsi in privato, senza tanto clamore, in modo che lui possa confortarla.» «Probabilmente è questo che hanno in mente, il che smentirebbe il tuo fiuto.» «È possibile. Comunque, si mormora che Angelini e Hammett scioglieranno i loro rapporti d'affari, ora che non c'è più la Towers a fare da cuscinetto. Fra i due c'è un reciproco gelo e durante la cerimonia funebre, come anche prima e dopo, non si sono mai rivolti la parola.» «Come fai a saperlo?» Nadine le rivolse un sorriso felino e compiaciuto. «Ho le mie fonti d'informazione. Angelini ha bisogno di liquidi, e in fretta. Roarke gli ha fatto un'offerta per le sue azioni della Mercury, in cui adesso sono comprese anche quelle della Towers.» «Roarke ha fatto una cosa del genere?» «E tu non ne sei al corrente. Interessante.» Con un'aria da gatta sorniona, Nadine si leccò le briciole dai polpastrelli. «Mi è parso interessante anche il fatto che tu non fossi accanto a Roarke durante la cerimonia funebre.» «Ero in chiesa in veste ufficiale», tagliò corto Eve. «Non divaghiamo.» «Altri guai in paradiso», mormorò Nadine, poi il suo sguardo si addolcì. «Ascolta, Dallas, tu mi vai a genio. Non so perché, ma è così. Se fra te e Roarke è sorto qualche screzio, me ne dispiace.» Gli scambi di confidenze fra amiche erano una cosa che da sempre metteva Eve a disagio. Nel rendersi conto con una certa sorpresa di essere stata tentata, anche se solo per un attimo, di confidarsi, si agitò sulla sedia. Poi attribuì il tutto all'abilità di Nadine come giornalista. «Torniamo al punto», insistette. «Va bene.» Nadine si strinse nelle spalle e diede un altro morso al muffin. «Brancoliamo tutti nel buio», tagliò corto. «Per il momento si tratta soltanto di ipotesi: le difficoltà finanziarie di Angelini, il vizio del gioco del figlio, il caso Fluentes.» «Questo te lo puoi dimenticare», l'interruppe Eve. «La situazione di quell'uomo si sta facendo critica e lui e il suo avvocato lo sanno. Le prove parlano chiaro. Anche ora che la Towers è stata messa fuori gioco, per lui
le cose non cambiano.» «Potrebbe essere stata la rabbia a indurlo ad agire.» «Potrebbe, ma avrebbe avuto troppo poco tempo. E non ha gli appigli o il denaro necessari per organizzare l'assassinio di un pezzo grosso come la Towers. No, non mi torna. Stiamo controllando tutte le persone che lei aveva fatto condannare, ma finora abbiamo fatto cilecca.» «Escluderesti dunque la teoria della vendetta, non è così?» «Sì. Credo che il movente vada cercato in una cerchia più intima.» «Hai in mente qualcuno in particolare?» «No.» Eve scosse la testa sotto lo sguardo indagatore di Nadine. «No», ripeté. «Per ora non ho in mano nulla di concreto. Quindi vorrei che tu ti muovessi in un certo ambito, ma ho bisogno che la cosa resti riservata finché non avrò le idee più chiare.» «È quanto abbiamo pattuito.» Eve le raccontò brevemente l'incidente avvenuto nel Settore 38. «Cristo, questa è roba che scotta. Ed è materiale pubblico, Dallas.» «Dovrebbe, ma, se io non ti avessi detto nulla, non avresti saputo dove guardare. Occupati di questa storia. Senza far trapelare nulla, caccia il naso ovunque. Vedi se ti riesce di scoprire se qualcuno ne fosse al corrente e fosse preoccupato. Se trovo il modo di ricollegare quello scandalo al delitto Towers, te lo farò sapere. In caso contrario, sta alla tua coscienza, immagino, decidere se parlare o no nel tuo programma di un fatto che potrebbe rovinare la reputazione di un uomo e i suoi rapporti con la fidanzata.» «È un colpo basso, Dallas.» «Dipende da dove stai. Mantieni la più stretta riservatezza, Nadine.» «Um-hmm.» La sua mente lavorava a pieno ritmo. «Slade si trovava a San Francisco la notte dell'omicidio.» Attese una frazione di secondo. «È vero o no?» «Così risulta.» «E ogni ora ci sono dozzine di jet, pubblici e privati, che volano da costa a costa, avanti e indietro.» «Esatto. Contattami al più presto, Nadine», disse Eve, alzandosi. «E non aprire bocca.» Quella notte, Eve dormì poco. All'una, quando il suo videotelefono ronzò, stava cercando di uscire urlando da un incubo. Madida di sudore, tremante, si strappò di dosso le lenzuola che le si erano aggrovigliate attorno
al corpo, come se stesse lottando per sfuggire alle mani che la palpavano. Soffocò un altro urlo, si premette le dita sugli occhi e si ordinò di non dare di stomaco. Rispose alla chiamata senza accendere le luci, a video spento. «Dallas.» «Ordine di servizio. Impronta vocale verificata. Probabile omicidio. Vittima di sesso femminile. Luogo del delitto Central Park South, cinque trentadue, sul retro dell'edificio. Codice giallo.» «Ricevuto.» Eve mise fine alla conversazione e, ancora tremante per gli sconvolgenti residui del sogno, si trascinò fuori dal letto. Per arrivare sul posto impiegò una ventina di minuti. Aveva avuto bisogno del conforto di una doccia bollente, anche solo per trenta secondi. Era un quartiere alla moda, popolato da residenti che frequentavano eleganti negozi e club privati e aspiravano a salire di un altro gradino nella scala sociale ed economica. Le strade erano silenziose, anche se il predominio dei taxi pubblici non era stato così completamente abolito da lasciare il posto solo a quello delle vetture private. In ogni caso vi abitava gente di ceto medio-alto, si disse Eve, mentre si dirigeva verso il retro di una slanciata costruzione in acciaio, con una piacevole vista sul parco. Come sempre, gli omicidi accadevano ovunque. E lì se n'era verificato uno. La parte posteriore dell'edificio non poteva vantare la vista sul parco, ma la società immobiliare aveva provveduto a ovviare a quella mancanza piantando una bella e ben tenuta macchia di verde. Al di là di quegli alberi si innalzava un muro di sicurezza che separava la costruzione dalla successiva. Sullo stretto sentiero lastricato di pietre che attraversava un'aiuola di petunie dorate c'era il cadavere, riverso al suolo, bocconi. Una donna, notò Eve, facendo balenare il proprio distintivo davanti agli agenti che sorvegliavano la scena del delitto. Capelli neri, pelle scura, un abito elegante. Osservò la raffinata scarpa con il tacco rosso e bianco che giaceva nel vialetto, rivolta verso l'alto. La morte aveva lasciato la vittima a piedi nudi. «Avete già scattato le foto?» «Sì, tenente. Il medico legale sarà qui fra un attimo.» «Chi ha avvisato la polizia?» «Un vicino. Era uscito a far passeggiare il cane. L'abbiamo fatto rientra-
re in casa.» «Avete già appurato come si chiama la vittima?» «Yvonne Metcalf, tenente. Abitava all'undici ventisei.» «Un'attrice», mormorò Eve, perché quel nome le aveva rammentato qualcosa. «Nel pieno del successo.» «Sì, tenente.» Uno dei poliziotti guardò il corpo a terra. «L'anno scorso aveva vinto un Emmy. Partecipava a un mucchio di talk show. Era più che famosa.» «Be', ora è più che morta. Continuate a riprendere il cadavere. Devo rigirarlo.» Ancora prima di spruzzarsi sulle mani la sostanza che vi formava sopra un velo protettivo e di inginocchiarsi a voltare il corpo sulla schiena, Eve sapeva già che cosa avrebbe trovato. La vittima era in un lago di sangue. Quando fu girata a faccia in su, qualcuno emise uno stridente sibilo, ma non fu Eve. Lei se l'aspettava. La gola era tagliata e lo squarcio era profondo. Gli splendidi occhi verdi di Yvonne fissarono Eve: due vitree domande. «Che diavolo c'entri, tu, con Cicely Towers?» mormorò Eve. «Stesso modus operandi: una sola ferita alla gola, che ha reciso la giugulare. Nessun indizio di un tentativo di rapina, nessun segno di violenza carnale o colluttazione.» Sollevò delicatamente una delle mani inerti di Yvonne e con la propria torcia elettrica le illuminò le unghie, sopra e sotto. Lo scintillante strato di smalto scarlatto con sottili righe bianche che le copriva era ancora perfetto. Niente frammenti o scheggiature e, al di sotto, nessun lembo di pelle o macchie di sangue. «Vestita di tutto punto, solo per finire qui», commentò Eve, osservando il raffinato abito a righe rosse e bianche della vittima. «Cerchiamo di scoprire dove fosse stata o dove avesse intenzione di andare», iniziò, poi girò la testa perché aveva sentito avvicinarsi dei passi. Ma non era il medico legale con la sua squadra e non erano neppure gli agenti della Scientifica. Era, come notò con disgusto, C.J. Morse, seguito da una troupe televisiva di Channel 75. «Via di qui quella macchina da presa.» Vibrando di rabbia, balzò in piedi, schermando istintivamente il cadavere. «Questa è la scena di un delitto.» «Non è stata ancora transennata», replicò Morse, con un sorriso mellifluo. «Finché non lo sarà, l'accesso è pubblico. Sherry, fa' un primo piano di quella scarpa.»
«Che venga subito recintata la zona», ordinò Eve a un agente, «e che siano confiscati la macchina da presa e i registratori.» «Finché non saranno state poste le transenne, lei non ha il diritto di confiscare l'equipaggiamento della troupe», le rammentò C.J., cercando di allungare il collo sopra la spalla di Eve per vedere meglio il corpo. «Sherry, fammi una bella ripresa panoramica, poi metti a fuoco il bel visino del tenente.» «Sto per buttarla fuori di qui a calci, Morse.» «Oh, vorrei che ci provasse, Dallas.» Una punta dell'astio che ribolliva in lui affiorò nel suo sguardo. «Mi piacerebbe poterla trascinare in tribunale e mandare in onda la notizia, dopo quel brutto scherzo che mi ha giocato.» «Se la vedrò ancora sulla scena del delitto, una volta che questa sia stata transennata, sarà lei a finire in tribunale.» Il cronista si limitò a sorridere, arretrando. Calcolò che aveva ancora a sua disposizione quindici secondi di riprese, prima di trovarsi nei guai. «Channel 75 dispone di una schiera di ottimi legali.» «Fermate lui e la sua troupe», ringhiò Eve ai poliziotti. «Teneteli lontani da qui, finché non avrò finito.» «Interferire con l'operato dei media...» «Vaffanculo, Morse.» «Il suo, di culo, dev'essere gustoso, ci scommetterei.» Continuò a sorridere mentre veniva scortato da un'altra parte. Quando Eve tornò sull'altro lato dell'edificio, il giornalista stava trasmettendo in diretta un sobrio resoconto dell'omicidio appena avvenuto e, senza fare una piega, si voltò verso di lei. «Tenente Dallas, conferma che Yvonne Metcalf, la star di Tune In, è stata assassinata?» «Il Dipartimento non può fare alcuna dichiarazione, almeno per ora.» «Ma non è forse vero che Ms Metcalf abitava in questo edificio e che il suo cadavere è stato appena scoperto nel patio sul retro? Con la gola tagliata?» «No comment.» «Il nostro pubblico vuole essere informato, tenente. Due donne molto note sono state brutalmente uccise nello stesso modo, e con ogni probabilità dalla stessa persona, a meno di una settimana l'una dall'altra. E lei non ha nulla da dichiarare?» «Diversamente da certi irresponsabili cronisti, la polizia procede con cautela, basandosi sui fatti più che su ipotesi fantasiose.»
«Non sarà invece che la polizia non sa da che parte cominciare per risolvere questi due omicidi?» Con una mossa brusca, si spostò di lato e fronteggiò Eve. «Non teme per la sua reputazione, tenente, a causa dei legami fra le due vittime e il suo intimo amico Roarke?» «Qui non stiamo parlando della mia reputazione, ma delle indagini.» Morse tornò a girarsi verso la telecamera. «In questo momento le indagini, condotte dal tenente Eve Dallas, sembrano aver imboccato un vicolo cieco. A meno di cento metri dal punto in cui mi trovo è stato commesso un altro omicidio. Una giovane donna, piena di talento, bella e con un promettente futuro ha trovato la morte, con la gola recisa da una violenta coltellata. Proprio come Cicely Towers, ben nota come strenuo alfiere della giustizia, che non più di una settimana fa è stata barbaramente uccisa. Forse ciò che dobbiamo domandarci non è quando verrà preso l'assassino, ma quale sarà la prossima vittima illustre. Chi vi parla è C.J. Morse di Channel 75, in diretta da Central Park South.» Fece un cenno con il capo all'operatore con la telecamera, poi si voltò verso Eve, con aria raggiante. «Se lei si decide a collaborare, Dallas, potrei metterla in buona luce agli occhi del pubblico.» «Vada a farsi fottere, Morse.» «Oh, be', me lo dovrebbe chiedere più gentilmente.» Il suo sorriso non vacillò neppure quando Eve l'afferrò per il bavero. «Suvvia, mi tolga le mani di dosso se non vuole pagarne le conseguenze.» Eve, che lo sovrastava di un'intera testa, meditò seriamente se non fosse il caso di mandarlo a gambe levate sul marciapiede. «Ecco che cosa voglio sapere, Morse. Voglio sapere come mai un reporter di terz'ordine arriva sulla scena del delitto, con la sua troupe televisiva, dieci minuti dopo il responsabile delle indagini.» Il cronista si lisciò lo sparato della camicia. «Ho le mie fonti d'informazione, tenente, che, come lei ben sa, non sono tenuto a rendere note.» Il suo sorriso si trasformò in un ghigno. «E a questo punto direi che, se c'è qualcuno di terz'ordine, costui è il responsabile delle indagini. Lei avrebbe fatto meglio a contattare me invece di Nadine. Mi ha giocato un brutto scherzo, aiutandola a escludermi dalla storia della Towers.» «Davvero? Be', sono felice di apprenderlo, C.J., perché la sua presenza mi dà il voltastomaco. Lei non ha esitato un solo istante a precipitarsi qui, riprendere la scena e mandare in onda le immagini di quella povera donna, non è così? Non ha pensato che avesse diritto a un po' di dignità o che qualcuno che le vuole bene potesse non essere stato ancora informato. I
suoi familiari, per esempio.» «Ehi, lei fa il suo lavoro, io il mio. E non mi è sembrato che lei si facesse tanti scrupoli a guardarla.» «A che ora ha ricevuto la soffiata?» chiese bruscamente Eve. Lui esitò, come se ci stesse pensando. «Credo di poterglielo dire, questo, senza nuocere a nessuno. Ho ricevuto una chiamata sulla mia linea personale a mezzanotte e trenta.» «Da parte di chi?» «Non glielo posso rivelare. Proteggo i miei informatori. Ho chiamato in sede e ho chiesto una troupe. Non è così, Sherry?» «Esatto.» L'operatore si strinse nelle spalle. «Il funzionario che fa la notte ci ha mandati qui, dove C.J. ci stava aspettando. È così che funziona l'industria dello spettacolo.» «Farò tutto il possibile per confiscare le sue agende, Morse, la trascinerò in centrale per interrogarla e le renderò la vita un inferno.» «Oh, ci spero proprio.» Il suo viso rotondo era raggiante. «In tal modo farà raddoppiare la durata delle mie presenze in televisione e schizzare alle stelle il mio quoziente di popolarità. E sa che cosa c'è di buffo? Che come contorno a questa storia tirerò in ballo Roarke e la sua relazione amorosa con Yvonne Metcalf.» Eve sentì che lo stomaco le si rimescolava, ma riuscì a mantenere la voce impassibile. «Stia attento a come si muove, C.J., perché Roarke non è gentile quanto me. Tenga la sua troupe lontana dalla scena del delitto», l'avvisò quindi. «Ci metta anche solo un dito del piede e le confisco tutto l'equipaggiamento.» Si voltò e, quando fu abbastanza lontana, tirò fuori il cellulare. Avrebbe infranto una regola, rischiando una reprimenda o peggio. Ma doveva farlo. Quando Roarke le rispose, lei capì che non lo stava tirando giù dal letto. «Oh, tenente, quale sorpresa.» «Ho pochissimo tempo. Dimmi quali rapporti avevi con Yvonne Metcalf.» Lui inarcò un sopracciglio. «Siamo amici e per un certo periodo siamo stati molto intimi.» «Amanti.» «Sì, per essere brevi. Perché?» «Perché è morta, Roarke.» Il suo pallido sorriso svanì. «Oh, Cristo, come?» «Le hanno tagliato la gola. Devi restare a disposizione della polizia.»
«È una richiesta ufficiale, tenente?» le chiese, con la voce dura come roccia. «Per forza, Roarke...» Esitò. «Mi dispiace.» «Dispiace anche a me.» E interruppe la comunicazione. 8 Eve non ebbe difficoltà a stabilire una serie di elementi in comune fra il caso di Cicely Towers e quello di Yvonne Metcalf. Anzitutto la morte violenta, inferta nello stesso modo e con ogni probabilità dalla stessa mano. Poi il fatto che fossero entrambe donne note al grande pubblico, molto rispettate e amate. Nella professione che si erano scelte erano riuscite ambedue a imporsi con successo, anche per il profondo impegno profuso nel loro lavoro. Tanto l'una quanto l'altra avevano una famiglia che le amava e che ora ne piangeva la scomparsa. Eppure le rispettive attività si erano svolte in ambiti sociali e professionali nettamente diversi. Gli amici di Yvonne erano artisti, attori e musicisti, mentre Cicely aveva socializzato con magistrati, uomini d'affari e politici. Cicely era stata una donna in carriera metodica e dotata di un gusto impeccabile, che aveva protetto a spada tratta la propria privacy. Yvonne un'attrice allegramente confusionaria, che conduceva un'esistenza sbrigliata e caotica, cercando sempre di attirare l'attenzione della gente. Ma qualcuno le aveva conosciute entrambe a fondo e aveva maturato nei loro confronti un tale odio da essere indotto a ucciderle. L'unico nome che Eve trovò tanto nella rubrica telefonica di Cicely, perfettamente ordinata, quanto in quella di Yvonne, totalmente disordinata, fu Roarke. Per la terza volta in un'ora, fece scorrere quegli elenchi sullo schermo del suo computer, cercando disperatamente un collegamento. Un nome che ne richiamasse un altro o rimandasse a un indirizzo, una professione, un interesse personale. I pochi legami che riuscì a individuare erano così fragili da impedirle quasi di trovarvi una giustificazione per un successivo interrogatorio. Ma doveva compiere quel tentativo, perché altrimenti come alternativa le restava solo Roarke. Mentre il computer le stampava la breve lista, tornò a rileggere il diario elettronico di Yvonne.
«Perché diavolo questa donna non ha indicato i nomi per esteso?» mormorò quasi tra sé. Erano segnati gli appuntamenti con la relativa ora, ma dei nomi c'erano - e non sempre - solo le iniziali; il tutto corredato da alcune note a margine o simboli che rispecchiavano l'umore di Yvonne. All'una - pranzo con B.C., alla Crown Room. Evviva! Non arrivare in ritardo, Yvonne, e indossa l'abito verde con la minigonna. Lui va matto per le donne puntuali che mostrano le gambe. Tutta la giornata al Paradise, a farmi bella. Grazie a Dio. Dalle dieci in poi. Tentare di arrivare al Fitness Palace alle otto per allenarmi un po' in palestra. Puah. Niente male, meditò Eve: andare a pranzo nel ristorante più prestigioso della città a rimpinzarsi di leccornie, sudare un po' in una palestra di lusso. Gran bella vita. Chi aveva voluto darci un taglio? Alle otto di mattina - colazione d'affari: abitino blu con scarpe ontonate. CRISTO, YVONNE, DIMOSTRA LA TUA PROFESSIONALITÀ! Alle undici di mattina - appuntamento con P., nel suo ufficio, a discutere le clausole del contratto. Prima, fare una capatina in qualche negozio. DA SAKS C'È UNA SVENDITA DI SCARPE. Fa un caldo cane. Pranzo - meglio rinunciare al dessert. Forse. Dire a quell'idiota che la sua prestazione è stata fantastica. Nulla da eccepire per aver mentito a quelli là sul loro modo di recitare. Dio mio, lui non era uno strazio? Telefonare a casa. Passare da Saks, se prima non ce l'ho fatta. Niente bevande alcoliche. Meglio limitarsi all'acqua di fonte, pupa. Parli troppo quando sei brilla. Devi essere brillante, fare faville. Insistere su Tune In. $$$***. Ricordarsi di prendere l'album con le foto, domattina, e stare alla larga da quel vino. Poi andare a casa a fare un pisolino. Incontro a mezzanotte. Potrebbe essere solo un fuoco di paglia. Indossare l'abito a righe rosse e bianche e sorridere, sorridere, sorridere. Il passato è passato, giusto? Mai chiudere completamente una porta. Il mondo è piccolo, eccetera eccetera. Che stronzo. Il diario non diceva altro su quell'incontro a mezzanotte. Non con chi, né dove, né perché, solo che lei aveva scelto di mettersi in tiro. Per qualcuno che aveva conosciuto in altri tempi, con cui aveva magari avuto una relazione. Il passato. Una vecchia storia con chi? Un suo ex amante? pensò Eve. Ma non lo credeva. Yvonne non aveva postillato la frase con piccoli cuori né si era detta di essere sexy, sexy, sexy. A Eve sembrava di star cominciando a comprendere quella donna.
Yvonne era compiaciuta di se stessa, decisa a divertirsi, contenta del proprio stile di vita. Ed era ambiziosa. Di fronte all'opportunità di fare carriera, non si sarebbe detta di sorridere, sorridere, sorridere? Sì, se la posta in gioco fosse stato un provino, un articolo lusinghiero, un nuovo copione, un ammiratore influente. Che cosa avrebbe detto se si fosse trattato di Roarke? si chiese Eve. Molto probabilmente l'avrebbe indicato con una grossa R., maiuscola e in grassetto. Tutt'attorno all'annotazione avrebbe inserito cuoricini o simboli del dollaro o faccine sorridenti. Come aveva fatto diciotto mesi prima di morire. Non dovette guardare di nuovo i precedenti diari di Yvonne. Eve ricordava perfettamente l'ultimo appunto su Roarke scritto dalla donna. A cena con R. alle otto e trenta. GNAM-GNAM. Indossare l'abito di raso bianco... con la biancheria intima abbinata. Prepararsi a tutto, potrebbe essere un colpo di fortuna. Lui ha un fisico fantastico, vorrei solo sapere come funziona la sua testa. Oh, be', cercare di essere sexy e vedere che cosa succede. Eve non era particolarmente desiderosa di sapere se la fortuna avesse arriso a Yvonne. Ovviamente l'attrice era finita a letto con Roarke, lui stesso l'aveva ammesso. Ma perché, dopo l'appuntamento in cui si era vestita di raso bianco, non ne aveva segnati altri? C'era qualcosa, immaginò, che lei doveva scoprire... esclusivamente ai fini dell'indagine che stava conducendo. Nel frattempo sarebbe andata a dare un'altra occhiata all'appartamento di Yvonne, per tentare di nuovo di ricostruire l'ultimo giorno della sua vita. Aveva anche in programma di interrogare svariate persone. E, poiché i genitori di Yvonne le telefonavano almeno una volta al giorno, sapeva di dover parlare ancora con loro, sforzandosi di non farsi travolgere dal loro tremendo e incredulo dolore. Non si preoccupava di dover lavorare fino a sedici ore al giorno. Anzi, in quella fase della sua vita ne era contenta. Quattro giorni dopo l'assassinio di Yvonne Metcalf, Eve stava girando a vuoto. Aveva interrogato più di tre dozzine di possibili indiziati, a lungo, minuziosamente. Non solo non era riuscita a scoprire un solo movente accettabile, ma fra le persone da lei interrogate non ne aveva trovata neanche una che non avesse adorato la vittima. Non c'era nulla che lasciasse pensare a un ammiratore folle. La corri-
spondenza che Yvonne riceveva era sconfinata, tanto che Feeney e il suo computer la stavano ancora esaminando, ma in quella già vagliata non era stato scoperto il minimo indizio di minacce, plateali o velate, o di proposte strane o ambigue. Erano invece numerosissime le proposte di matrimonio e altre offerte simili. Eve le passò in rassegna, con scarso entusiasmo e senza nutrire grandi speranze, anche se non era da escludere la possibilità che uno di quelli che avevano scritto a Yvonne avesse contattato anche Cicely, per lettera o a voce. Con il passare del tempo, tale ricerca cominciò a sembrare sempre più un'impresa disperata. Eve fece ciò che diventava inevitabile quando un caso di pluriomicidio restava irrisolto, ciò che il regolamento di polizia prevedeva a quello stadio delle indagini. Fissò un appuntamento con lo strizzacervelli. Mentre aspettava di essere ricevuta dalla dottoressa Mira, Eve lottò con i contrastanti sentimenti che nutriva nei confronti di quella psichiatra: una donna brillante, intuitiva, che senza tante chiacchiere colpiva nel segno e sapeva dimostrarsi compassionevole. Era precisamente quello il motivo per cui Eve era andata da lei, seppure di malavoglia. Dovette ricordarsi per l'ennesima volta che non era lì per ragioni personali o perché il Dipartimento le aveva imposto una seduta a scopo terapeutico. Non doveva sottoporsi a un controllo psichico, mettere a nudo i propri pensieri o sentimenti... o ricordi. Era lì per dissezionare con l'aiuto della psichiatra la mente di un assassino. Ciò nonostante doveva fare forza su se stessa per impedire al battito cardiaco di accelerare troppo e mantenere le mani ferme e asciutte. Quando la dottoressa Mira le fece cenno di entrare nel suo studio, Eve si disse che le gambe le tremavano a causa della stanchezza e di nient'altro. «Tenente Dallas», la salutò la psichiatra, scrutando con i limpidi occhi azzurri il volto di Eve, notando i segni della fatica, «mi dispiace di averla fatta attendere.» «Si figuri.» Anche se avrebbe preferito restare in piedi, Eve si accomodò sulla rotondeggiante sedia blu di fronte a quella di Mira. «Le sono grata per la rapidità con cui ha accettato di discutere del caso.» «In questo lavoro cerchiamo tutti di fare del nostro meglio», replicò la dottoressa con la sua voce suadente. «E nutrivo grande stima e affetto per Cicely Towers.» «La conosceva personalmente?»
«Eravamo coetanee e lei aveva chiesto più volte la mia consulenza. Sono comparsa spesso in tribunale in veste di perito dell'accusa... oltre che della difesa», aggiunse, con un lieve sorriso. «Ma lei questo lo sa benissimo.» «Stavo solo facendo conversazione.» «Ammiravo anche il talento di Yvonne Metcalf. Era una fonte di felicità per tutti. Ne sentiremo la mancanza.» «A qualcuno non mancheranno né l'una né l'altra.» «È abbastanza vero.» Con gesti morbidi e aggraziati, Mira programmò il suo AutoChef. «Mi rendo conto che lei ha i minuti contati, ma io lavoro meglio sotto lo stimolo di una tazza di tè. E lei ha l'aria di averne bisogno.» «Sto benissimo.» Avvertendo nella voce di Eve un'ostilità fortemente controllata, Mira fece un sorrisetto. «Sovraccarica di lavoro, come al solito. Succede a chi è particolarmente bravo nella sua professione.» Tese a Eve una graziosa tazzina di porcellana piena di tè. «Dunque, ho letto il suo rapporto, le prove raccolte e le ipotesi da lei formulate. Qui c'è il profilo psichiatrico che ne ho tratto», disse, battendo un dito su un dischetto sigillato, posto sul tavolo in mezzo a loro. «L'ha già completato.» Eve non si preoccupò di nascondere l'irritazione. «Avrebbe potuto inviarmelo per via telematica, risparmiandomi un viaggio.» «Avrei potuto farlo, ma ho preferito discuterne con lei, faccia a faccia. Eve, lei ha di fronte qualcosa e qualcuno di assai pericoloso.» «Credo di averlo fatto notare io per prima, dottoressa. Due donne sono morte con la gola squarciata.» «Due donne, per ora», replicò piano Mira, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Temo purtroppo che capiterà ad altre. E non ci sarà da attendere molto.» Dal momento che quella era anche la sua opinione, Eve ignorò il brivido gelido che le corse lungo la schiena. «Perché?» «Vede, è stato tutto così facile. E così semplice. Un lavoro perfetto. E questo crea soddisfazione. Inoltre non va trascurato il fattore notorietà. Chiunque, uomo o donna, abbia compiuto quei due omicidi ora può starsene seduto a casa propria a godersi lo spettacolo. I servizi televisivi, gli editoriali, le scene di dolore, le cerimonie funebri, le indagini che la polizia è costretta a condurre alla luce del sole.» Si interruppe per sorseggiare il tè. «Lei ha una sua teoria, Eve. Ed è qui
per sentirmi rafforzare o mettere in discussione tale teoria.» «Ne ho parecchie, di teorie.» «Ma soltanto una la convince.» Mira le rivolse il suo saggio sorriso, consapevole che avrebbe fatto rizzare il pelo a Eve. «La fama. Che cos'altro avevano in comune queste due donne se non il fatto di essere entrambe personaggi famosi? Non frequentavano la stessa cerchia sociale o professionale. Le conoscenze che avevano in comune erano pochissime e spesso si trattava di rapporti solo casuali. Non si servivano degli stessi negozi, centri estetici o esperti di cosmesi. Ciò che le accomunava consisteva nel trovarsi alla ribalta, sotto gli occhi della gente, e nel poter disporre di un certo potere.» «Che l'assassino invidiava.» «Sono perfettamente d'accordo. E che, anche, non sopportava e di cui voleva, grazie agli omicidi, godere di riflesso. L'esecuzione dell'uno e dell'altro delitto è feroce e, al tempo stesso, insolitamente controllata. Il volto delle vittime non è stato sfigurato, così come il loro corpo. Un rapido taglio attraverso la gola, secondo il medico legale, praticato dal davanti. Faccia a faccia. Un coltello è un'arma personale, un'estensione della mano. Non agisce da lontano, come il laser, o di nascosto, come il veleno. L'assassino a cui lei sta dando la caccia voleva sperimentare la sensazione dell'uccidere, la vista del sangue, il suo odore. Un'esperienza completa, il che ci fa ritenere che lui o lei sia una persona che ama mantenere il controllo di sé e agire secondo un piano preciso.» «Anche lei dunque non crede che a uccidere possa essere stato un sicario, dietro ordine di un mandante.» «Un'eventualità che non è completamente da escludere, Eve, ma io sono più propensa a vedere l'assassino come coinvolto personalmente nel delitto piuttosto che come sicario prezzolato. Non dimentichi i souvenir.» «L'ombrello della Towers.» «E la scarpa destra della Metcalf. Un particolare che lei è riuscita a tenere nascosto ai media.» «Per un pelo.» Eve si accigliò al ricordo di Morse e della sua troupe che piombavano sulla scena del delitto. «Un sicario non si sarebbe mai portato via un ricordo del proprio crimine ed entrambi i delitti erano stati concepiti troppo minuziosamente per essere stati compiuti da un killer di strada.» «Sono d'accordo. Ci troviamo a fare i conti con una mente fredda e calcolatrice, per di più ambiziosa. L'assassino che lei sta cercando si diverte a uccidere ed è per questo che continuerà a farlo.»
«Assassino o assassina», intervenne Eve. «Il fattore invidia vale anche per una donna, che vedeva nelle due vittime ciò che lei avrebbe voluto essere. Bella, di successo, ammirata, famosa, forte. Capita spesso che a uccidere sia il debole.» «Sì, molto spesso. Ma non è possibile determinare il sesso dell'omicida in base ai dati di cui disponiamo in questo momento, dai quali possiamo soltanto dedurre che, con tutta probabilità, a essere prese di mira sono donne che hanno fortemente richiamato su di sé l'attenzione generale.» «Che cosa dovrei fare, dottoressa Mira? Mettere sotto controllo, con un cercapersone di sicurezza, ogni donna importante, famosa o di successo che vive in questa città? Inclusa lei?» «Strano, è a lei, Eve, che io stavo invece pensando.» «A me?» Eve giocherellò con la tazza del tè che non aveva neppure assaggiato, poi la posò bruscamente sul tavolo. «È ridicolo.» «Non mi pare proprio. Lei è diventata un volto familiare, Eve. Per il lavoro che svolge, ovviamente, ma soprattutto per il caso che ha risolto l'inverno scorso. Nel suo campo gode della massima stima. Per non parlare poi del fatto», proseguì, prima che Eve riuscisse a interromperla, «che lei ha anche un rilevante punto in comune con entrambe le vittime. Tutt'e tre avete avuto rapporti con Roarke.» Eve si rese conto di essere impallidita. Era una reazione che non riusciva a controllare. Mantenne però la voce ferma e il tono incisivo. «Con la Towers, Roarke aveva solo un rapporto d'affari, e di scarsa importanza. Con la Metcalf, il lato intimo della loro relazione si era concluso da tempo.» «Eppure lei si sente obbligata a difenderlo davanti a me.» «Non lo sto difendendo», scattò Eve. «Riferisco i fatti. Roarke è più che in grado di difendersi da sé.» «Non ho dubbi in proposito. È un uomo forte, vitale e intelligente. Però lei si preoccupa per lui.» «La sua opinione professionale è che sia Roarke l'assassino?» «Assolutamente no. Non ho dubbio, tuttavia, che se mi capitasse di averlo in analisi scoprirei che il suo istinto omicida è fortemente sviluppato.» In realtà Mira sarebbe stata entusiasta di poter studiare la psiche di Roarke. «Ma in lui il movente dovrebbe avere un'estrema rilevanza. Un grande amore o un grande odio. Dubito che ci sia molto altro che possa indurlo a varcare certi limiti. Si rilassi, Eve», aggiunse pacatamente, «lei non è innamorata di un assassino.» «Non sono innamorata di nessuno. E i miei sentimenti personali non
c'entrano con questa storia.» «Al contrario, lo stato mentale dell'investigatore c'entra sempre. E, se posso esprimere la mia opinione su di lei, devo dire che la trovo sull'orlo di un esaurimento nervoso, emotivamente a pezzi e profondamente sconcertata.» Eve raccolse dal tavolo il dischetto con il profilo psichiatrico e si alzò. «Allora è una fortuna che nessuno le abbia chiesto di esprimere un parere su di me. Sono perfettamente in grado di svolgere il mio lavoro.» «Non ne ho mai minimamente dubitato. Ma a quale prezzo per lei stessa?» «Il prezzo sarebbe più alto se io non mi impegnassi in queste indagini. Riuscirò a trovare la persona che ha ucciso le due donne. Poi toccherà a qualcuno come Cicely Towers farla condannare.» Infilò il dischetto nella borsa. «C'è un punto che lei ha trascurato, dottoressa Mira. Un'altra cosa che le due donne avevano in comune.» Fissò la psichiatra con uno sguardo duro e freddo. «La famiglia. Entrambe avevano un'intima cerchia familiare che rappresentava una grande e importante parte della loro vita. Direi che questo mi esclude come possibile bersaglio. Non lo crede pure lei?» «Forse. Non pensa mai alla sua famiglia, Eve?» «Non giochi con me.» «È stata lei a tirarla in ballo», le fece osservare la psichiatra. «E, poiché lei valuta sempre con estrema attenzione cosa dirmi o non dirmi, ne devo dedurre che ci sta pensando.» «Io non ho una famiglia», proruppe Eve. «E ciò a cui sto pensando è questo duplice delitto. Se intende riferire al comandante che non sono adatta a condurre queste indagini, lo faccia pure.» «Quando si deciderà a fidarsi di me?» In quella voce tanto pacata risuonò, per la prima volta a memoria di Eve, un tono spazientito. «È mai possibile che lei non riesca a credere che io le sono affezionata? Sì, lei mi è cara», aggiunse, vedendo Eve battere le palpebre per la sorpresa, «e la comprendo più di quanto lei voglia ammettere.» «Non ho bisogno che lei mi comprenda.» Ma nella voce di Eve non c'era più tensione. Lei stessa se ne rese conto. «Non sono qui per un controllo psichiatrico o per una seduta terapeutica.» «In questo studio non c'è alcun registratore.» Mira posò la sua tazza con un colpo così secco che le mani di Eve, sprofondate nelle tasche, si contrassero. «Crede di essere l'unico essere umano che nella sua infanzia ha conosciuto orrendi abusi? La sola donna che ha lottato per venirne fuori?»
«Non devo venir fuori da nulla. Non ricordo...» «Il mio patrigno mi ha ripetutamente violentata da quando avevo dodici anni a quando ne avevo quindici», disse Mira con calma e bloccò freddamente le proteste di Eve. «In quei tre anni ho vissuto senza sapere quando mi avrebbe stuprata, ma con la sola certezza che ciò sarebbe avvenuto. E nessuno mi prestava ascolto.» Sconvolta, nauseata, Eve si strinse le braccia al petto. «Non voglio saperlo. Perché me lo sta dicendo?» «Perché, quando guardo nei suoi occhi, vedo me stessa. Ma lei ha qualcuno disposto ad ascoltarla, Eve.» Eve, ferma dov'era, si umettò le labbra aride. «Perché le violenze sono finite?» «Perché ho finalmente trovato il coraggio di andare in un centro antistupro, di raccontare ogni cosa al consulente e di sottopormi agli esami, sia fisici sia psichici. Il terrore che quegli esami mi ispiravano, l'umiliazione di doverli subire erano ben poca cosa in confronto all'unica alternativa che mi restava.» «Perché dovrei ricordare?» chiese Eve. «È acqua passata.» «Perché lei non riesce a dormire?» «Le indagini...» «Eve.» Il tono gentile fece chiudere gli occhi a Eve. Era così difficile, così penoso, lottare contro quella silenziosa compassione. «Ricordi che balenano all'improvviso» mormorò, odiandosi per la propria debolezza. «Incubi.» «Relativi a prima del suo ritrovamento nel Texas?» «Semplici sprazzi, frammenti confusi.» «Posso aiutarla a rimetterli insieme.» «Perché dovrei volerlo?» «Non è una cosa che ha già iniziato?» A quel punto Mira si alzò. «Lei riesce a impedire che questi ricordi assillino in continuazione il suo inconscio. Sono anni che glielo vedo fare. Ma non riesce a essere felice e continuerà così finché non arriverà a convincersi di meritarla, la felicità.» «Non è stata colpa mia.» «No.» Mira posò gentilmente la mano sul braccio di Eve. «No, lei non ha nessuna colpa.» Eve sentì che le stavano salendo le lacrime agli occhi e provò un senso di stordimento e d'imbarazzo. «Non posso parlarne.» «Mia cara, ha già cominciato a farlo. Quando sarà pronta a continuare,
mi troverà qui.» Attese che Eve raggiungesse la porta. «Posso rivolgerle una domanda?» «Lei non fa altro.» «Perché dunque dovrei smettere proprio ora?» ribatté Mira e sorrise. «Roarke la rende felice?» «A volte.» Eve chiuse gli occhi e imprecò fra sé. «Sì, sì, mi rende felice. Quando non mi strazia l'animo.» «Bene. Ne sono contenta per entrambi. Cerchi di dormire un po', Eve. Se non vuole ingerire sonniferi, può sempre ricorrere a una semplice visualizzazione.» «Lo terrò a mente.» Eve aprì la porta e, dando la schiena alla stanza, aggiunse: «Grazie». «Lei è sempre la benvenuta.» La visualizzazione non le sarebbe stata di grande aiuto, decise Eve. Non dopo aver passato di nuovo in rassegna i rapporti delle due autopsie. L'appartamento era troppo silenzioso, troppo vuoto. Eve si rammaricò di aver lasciato il gatto a casa di Roarke. Se non altro, Galahad le avrebbe fatto compagnia. Poiché gli occhi le bruciavano per aver passato tanto tempo davanti al monitor a studiare quei rapporti, si allontanò dalla scrivania. Non aveva la forza di cercare Mavis e ciò che lo schermo del televisore le offriva era di una noia mortale. Ordinò un po' di musica, ascoltò per trenta secondi, poi spense. Di solito mangiare qualcosa le faceva bene, ma, dopo aver messo il naso in cucina, si ricordò che da settimane non approvvigionava il suo AutoChef. La scelta dei cibi si era drasticamente ridotta e lei non aveva tanto appetito da farsi portare qualcosa da fuori. Decisa a rilassarsi, provò con gli occhiali che creavano immagini virtuali, un regalo natalizio di Mavis. Ma, siccome era stata l'amica a usarli per ultima, erano impostati su Nightclub, per di più a tutto volume. Dopo essersi affrettata a sistemarli diversamente, imprecando più volte fra sé, scelse l'argomento Tropici, Spiaggia. Sentì i piedi nudi posarsi su quella sabbia bianca e rovente, avvertì il riverbero del sole sulla sua pelle e la lieve brezza oceanica. Era piacevole stare fra le leggere onde, osservare i gabbiani scendere in picchiata, sorseggiare una bevanda gelida che sapeva di rum e frutta. Sulle sue spalle nude c'erano due mani che la massaggiavano. Con un
sospiro, Eve si abbandonò all'indietro e sentì contro la schiena una ferma presenza maschile. In lontananza, sul mare blu, una vela bianca navigava verso l'orizzonte. Fu facile girarsi verso le braccia che l'aspettavano, sollevare la bocca verso quella che lei voleva. E sdraiarsi sulla sabbia rovente accanto a un corpo che aderiva perfettamente al suo. L'eccitazione era dolce come la pace. Il ritmo così ancestrale come quello delle onde che le lambivano la pelle. Eve si lasciò possedere, rabbrividendo quando lo stimolo si dilatò fino a diventare orgasmo. Lui le alitava sul volto, il corpo allacciato al suo, quando lei pronunciò gemendo il suo nome. Roarke. Furiosa con se stessa, Eve si strappò gli occhiali e li gettò da un canto. Lui non aveva alcun diritto di intromettersi, persino lì, nella sua mente. Nessun diritto di procurarle sofferenza o piacere quando lei non voleva altro che intimità. Oh, lui sapeva ciò che stava facendo, pensò mentre balzava in piedi. Lo sapeva perfettamente. E quella questione andava risolta, una volta per tutte. Si chiuse violentemente la porta di casa alle spalle. Mentre superava di gran carriera il cancello della proprietà di Roarke, non sospettò neppure per un istante che lui potesse non essere solo. Un simile dubbio era così sconvolgente, così straziante, da farle salire i gradini di pietra a due alla volta e bussare alla porta con uno scoppio di energica violenza. Summerset la stava aspettando. «Tenente, è l'una e venti del mattino.» «So benissimo che ore sono.» Eve gli mostrò i denti quando il maggiordomo le tagliò la strada per impedirle di imboccare le scale. «Cerchiamo di capirci, amico. Io ti detesto e tu detesti me. La differenza sta nel fatto che io ho un distintivo. Perciò togliti dai piedi o ti farò sbattere in galera per resistenza a pubblico ufficiale.» L'uomo si ammantò di dignità, come una cappa di seta. «Devo dedurne che lei è qui, a quest'ora, nell'esercizio delle sue funzioni, tenente?» «Deduci ciò che ti pare. Dov'è Roarke?» «Se mi spiega che cosa vuole, sarò lieto di verificare in quale parte della casa si trovi attualmente Roarke e se sia disposto a parlarle.» Completamente spazientita, Eve gli sferrò una gomitata nello stomaco e superò il maggiordomo piegato in due, senza fiato. «Lo troverò da me»,
disse, lanciandosi su per le scale. Nel suo letto non c'era, né solo né in compagnia. Eve non era sicura di come avrebbe potuto reagire emotivamente o fisicamente se l'avesse sorpreso abbracciato a qualche bionda. Rifiutandosi di pensarci, girò sui tacchi e si diresse verso lo studio, con Summerset alle calcagna. «Intendo inoltrare una protesta.» «Va' all'inferno», ringhiò Eve da sopra la spalla. «Lei non ha alcun diritto di irrompere in una proprietà privata nel cuore della notte. Non disturberà Roarke.» Appoggiò violentemente una mano sulla porta che lei aveva raggiunto. «Non glielo permetterò.» Eve si sorprese nel vedere quanto fosse paonazzo e ansante, con gli occhi che strabuzzavano dalle orbite. Era molto meno impassibile di quanto lei l'avesse giudicato. «Così rischi di rimetterci le palle, lo sai?» E, prima che lui riuscisse a impedirglielo, azionò il pulsante d'apertura, facendo scivolare di lato il pannello della porta. Summerset tentò di impedirle comunque di entrare nello studio e Roarke, girandosi, vide la strana e sorprendente scena dei due avvinghiati l'uno all'altra. «Provaci ancora a mettermi le mani addosso, lurido figlio di puttana, e ti concio per le feste.» Per rendere meglio il concetto sollevò un pugno. «Una soddisfazione che vale la perdita del distintivo.» «Summerset», intervenne pacatamente Roarke, «credo che non stia scherzando. Lasciaci soli.» «Non ha l'autorità...» «Lasciaci soli», ripeté Roarke. «Ci penso io.» «Come desidera.» Summerset si sistemò la giacca stropicciata e uscì con aria impettita... senza quasi zoppicare. «Se vuoi impedirmi di entrare», proruppe Eve mentre si avviava verso la scrivania, «dovrai cercare qualcosa di meglio di quel cane da guardia smidollato.» Roarke si limitò a intrecciare le mani sul ripiano della scrivania. «Se avessi voluto tenerti fuori di qui, la fotocellula al cancello non ti avrebbe lasciata entrare.» Osservò di proposito il proprio orologio. «È un po' tardi per un interrogatorio ufficiale.» «Sono stufa di sentirmi dire che ore sono.» «Va bene.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Che cosa posso fare per te?»
9 Scelse, emotivamente, di partire subito all'attacco, anche se attribuì un fondamento logico a quella scelta. «Avevi una relazione con Yvonne Metcalf.» «Te l'ho già detto, eravamo amici.» Aprì una scatola d'argento dall'aria antica che teneva sulla scrivania e ne trasse una sigaretta. «Per un certo periodo siamo stati in rapporti intimi.» «Chi ha deciso di impostare diversamente la vostra relazione e quando?» «Chi? Hmmm.» Roarke ci pensò un attimo, mentre si accendeva la sigaretta ed espirava un sottile sbuffo di fumo. «Se non ricordo male, fu una decisione di entrambi. Nella sua carriera lei stava avendo grandi successi e doveva perciò dedicare al lavoro sempre più tempo ed energie. Si potrebbe dire che abbiamo imboccato strade diverse senza quasi accorgercene.» «Avevate litigato?» «Non mi pare. Yvonne non era un'attaccabrighe. Trovava la vita troppo... divertente. Vuoi un goccio di brandy?» «Sono in servizio.» «Già, ovviamente. Ma io no.» Quando Roarke si alzò, Eve vide il gatto saltare giù dal suo grembo e scrutarla con gli occhi bicolori prima di cominciare a leccarsi il pelo. Proprio perché era troppo intenta a fissare con un certo cipiglio Galahad, non si accorse del lieve tremore delle mani di Roarke quando, fermo di fronte all'armadietto dei liquori, versò il brandy dalla bottiglia di cristallo nel bicchiere panciuto. «Bene», disse lui, facendo roteare il bicchiere, con metà della lunghezza della stanza fra di loro, «abbiamo finito?» No, pensò Eve, non ho neppure cominciato. Se lui non intendeva aiutarla volontariamente, lei avrebbe continuato a indagare, pungolandolo e scavando in quell'astuto cervello senza pietà e senza scrupoli. «L'ultima volta in cui vieni citato nel diario della Metcalf risale a un anno e mezzo fa.» «Quanto tempo», mormorò Roarke. Era dispiaciuto, e molto, per la tragica fine di Yvonne, ma al momento aveva da pensare ai propri problemi, uno dei quali, il più serio, era lì in quella stanza e lo osservava con occhi che non promettevano nulla di buono. «Non me n'ero reso conto.» «È stata quella l'ultima volta in cui l'hai vista?» «No, certamente no.» Fissò il suo brandy, ripensando all'attrice. «Mi ri-
cordo di aver ballato con lei a una festa, il capodanno scorso. Poi venne qui, con me.» «Te la sei portata a letto», disse Eve con voce piatta. «A voler essere precisi, no.» Nella sua voce risuonò una punta di fastidio. «Abbiamo fatto sesso, chiacchierato e mangiato un boccone.» «Avete riallacciato la relazione di un tempo?» «No.» Prese una sedia e intimò a se stesso di godersi il brandy e la sigaretta. Inavvertitamente incrociò le gambe all'altezza delle caviglie. «Avremmo potuto farlo, ma eravamo entrambi troppo coinvolti nei rispettivi impegni. Non l'ho più sentita per sei o anche sette settimane.» «E allora?» Lui l'aveva respinta, ricordò Roarke. Con disinvoltura, senza tante storie. Forse senza pensarci troppo. «Le dissi che non ero... non ero disponibile.» Fissò la punta incandescente della sigaretta. «In quel periodo mi stavo innamorando di un'altra donna.» Eve sentì il cuore perdere un battito. Fissò Roarke, con le mani affondate nelle tasche. «Non posso cancellarti dalla lista degli indiziati se non mi aiuti.» «Non puoi? Pazienza.» «Dannazione, Roarke, sei l'unico che avesse rapporti con entrambe le vittime.» «E quale motivo avrei avuto per ucciderle, tenente?» «Non usare questo tono con me. Non lo sopporto. Gelido, controllato, superiore.» Arrendendosi, prese a camminare avanti e indietro. «Lo so che non hai a che fare con questi delitti e non c'è alcuna prova di un tuo coinvolgimento. Ma questo non cancella il legame fra te e le vittime.» «Il che ti mette in una posizione piuttosto scabrosa perché il mio nome è legato anche al tuo. O, meglio, lo era.» «Questo non mi preoccupa.» «Perché allora sei dimagrita?» chiese Roarke. «Perché hai gli occhi così infossati? E quell'aria così infelice?» Eve tirò fuori il registratore e lo posò violentemente sulla scrivania. A formare una barriera fra loro. «Ho bisogno che tu mi dica tutto ciò che sai di quelle due donne. Ogni piccolo, insignificante dettaglio. Maledizione, maledizione, ho bisogno d'aiuto. Devo capire perché la Towers si è recata nel West End in piena notte, perché la Metcalf si è vestita di tutto punto ed è scesa nel patio a mezzanotte.» Roarke spense la sigaretta, poi si alzò lentamente. «Tu, Eve, mi attribui-
sci un'importanza maggiore di quella che ho. Non conoscevo tanto a fondo Cicely. Facevamo qualche affare insieme, ci frequentavamo, ma nel più superficiale dei modi. Non dimenticare l'ambiente da cui provengo io e la posizione che occupava lei. Quanto a Yvonne, siamo stati amanti e io stavo bene con lei, ne apprezzavo l'energia, l'entusiasmo. So che era ambiziosa. Voleva sfondare nel mondo dello spettacolo e se lo meritava. Ma non sono in grado di spiegarti che cosa l'una e l'altra avessero in mente.» «Conosci le persone», l'incalzò Eve. «Sai come entrare nella loro testa. Non ti fai mai cogliere di sorpresa.» «Da te sì», mormorò lui. «Continuamente.» Eve si limitò a scrollare il capo. «Dimmi per quale motivo, secondo te, Yvonne Metcalf scese nel patio a incontrare qualcuno.» Roarke sorseggiò il brandy e si strinse nelle spalle. «Per ottenere un nuovo successo, la gloria, l'eccitazione dei sensi, l'amore. Probabilmente in quest'ordine. Si sarà vestita di tutto punto perché era vanesia, in modo delizioso. L'ora dell'incontro potrebbe non aver significato nulla per lei. Era impulsiva, piacevolmente impulsiva.» Eve si lasciò sfuggire un leggero sospiro. Era proprio quello ciò che le serviva. Lui poteva aiutarla a comprendere il carattere delle vittime. «C'erano altri uomini nella sua vita?» Roarke si rese conto di star ricadendo nel passato e si sforzò di restare con i piedi per terra. «Yvonne era deliziosa, divertente, vivace, un'ottima amante. Immagino che di uomini nella sua vita ce ne fossero molti.» «Gelosi, violenti?» Roarke inarcò un sopracciglio. «Stai forse pensando che qualcuno potrebbe averla uccisa perché non riusciva a ottenere da lei ciò che voleva? Ciò di cui aveva bisogno?» I suoi occhi indugiarono su Eve, con lo sguardo fermo. «È un'idea da prendere in considerazione. Un uomo può fare molto male a una donna che gli si rifiuta, se la desidera ardentemente, se crede di averne bisogno per vivere. Io però non ti ho ucciso. Per ora.» «Questa è un'indagine su due omicidi, Roarke. Risparmiami la solita manfrina.» «Manfrina?» Fece restare di sasso sia Eve sia se stesso lanciando il bicchiere semivuoto verso l'estremità opposta della stanza. Dalla parete caddero frammenti di vetro, il liquore schizzò da tutte le parti. «Irrompi qui come una furia, senza avvisare, senza essere invitata, e ti aspetti che io me ne stia seduto a rispondere, come un cane bene addestrato, mentre mi interroghi? Mi fai domande su Yvonne, una donna a cui ho voluto bene, e ti a-
spetti che io ti racconti tutto allegramente, mentre nel frattempo tu mi immagini a letto con lei.» Altre volte Eve aveva assistito ai suoi bruschi scatti di rabbia. Di solito lei li preferiva al suo gelido autocontrollo, ma in quel momento sentì che i propri nervi si erano spezzati insieme con il bicchiere. «Questo non è un colloquio intimo e non è neppure un interrogatorio. È un consulto con una fonte bene informata. Sto facendo il mio lavoro.» «Questo non ha nulla a che vedere con il tuo lavoro e lo sappiamo entrambi. Se in te c'è anche solo il germe del sospetto che io possa essere in qualche modo coinvolto nel barbaro omicidio di quelle due donne, ho commesso l'errore più madornale della mia vita. Se vuoi scavare in me, tenente, perdi pure il tuo tempo, ma non farlo perdere a me.» Sollevò il registratore dalla scrivania e glielo porse. «La prossima volta, presentati con un mandato.» «Sto cercando di scagionarti completamente.» «Non l'avevi già fatto?» Tornò dietro la scrivania e si sedette stancamente. «Vattene. Per me il colloquio è concluso.» Eve, nell'avviarsi verso la porta, si sorprese nel constatare di non star barcollando, benché il cuore le battesse all'impazzata e le ginocchia le tremassero. Proseguì, senza fiato, in cerca d'aria. Seduto alla scrivania, Roarke si diede dell'idiota mentre premeva il pulsante per far scattare la serratura. Al diavolo lei e al diavolo se stesso, ma non le avrebbe permesso di andarsene. Stava aprendo la bocca per parlare quando Eve, a un passo dalla porta, si voltò. Aveva un'espressione furibonda. «Va bene. Maledizione, va bene, hai vinto. Sono infelice. Non è questo che volevi? Non riesco a dormire, non riesco a mangiare. È come se dentro di me si fosse rotto qualcosa e riesco a stento a fare il mio lavoro. Sei contento, ora?» Roarke sentì la prima fitta di sollievo allentare la morsa che gli stringeva il cuore. «Dovrei esserlo?» «Sono qui, no? Sono qui perché non posso più starti lontana.» Si afferrò la catena che portava sotto la camicia e tornò verso di lui. «Ho messo il tuo dannato monile.» Roarke fissò il diamante che lei gli sventolava davanti alla faccia. La pietra scintillò, piena di fuoco e di segreti. «Come ti avevo detto, ti dona.» «Sai sempre tutto», mormorò Eve, girandosi bruscamente. «Mi fai sentire un'idiota. Tutta questa storia mi fa sentire un'idiota. Va bene, allora: mi comporterò da idiota. Mi trasferirò qui. Sopporterò quell'insultante robot
che tu chiami maggiordomo. Mi metterò addosso i diamanti. Ma non...» Crollò. Si coprì il volto, scoppiando in singhiozzi. «Non potrei più sopportarlo.» «No. Santo cielo, non piangere.» «Sono soltanto stanca.» Ondeggiò avanti e indietro, come per confortarsi. «Sono esausta, tutto qui.» «Insultami.» Roarke si alzò, sconvolto e quasi atterrito da quello scoppio di pianto. «Lanciami addosso qualcosa. Picchiami.» Quando lui cercò di stringerla a sé, Eve si ritrasse. «No. Quando mi comporto da stupida, ho bisogno di un attimo per riprendermi.» Roarke non le diede retta e l'abbracciò. Eve si tirò indietro un paio di volte, ma ogni volta lui la trattenne con forza. Alla fine, con un gesto carico d'angoscia, lei lo circondò con le braccia, gli si aggrappò. «Non andartene.» Gli affondò il viso nella spalla. «Non andare via.» «Non sto andando da nessuna parte.» Delicatamente le carezzò la schiena, le cullò la testa. Cosa poteva esserci per un uomo di più sconvolgente, o di più terrificante, di una donna dal carattere forte che piangeva come una fontana? «E sono sempre rimasto qui. Ti amo, Eve, in un modo che mi riesce quasi insopportabile.» «Ho bisogno di te. Non ci posso fare nulla, anche se non voglio.» «Lo so.» Si scostò leggermente e le infilò una mano sotto il mento per sollevarle il viso verso il suo. «È un problema che dovremo risolvere.» Le baciò le guance bagnate di lacrime, prima l'una e poi l'altra. «Non riesco a vivere senza di te.» «Mi avevi intimato di andarmene.» «Avevo anche chiuso la porta.» Le sue labbra si incurvarono lievemente verso l'alto prima di posarsi su quelle di lei. «Se tu avessi aspettato qualche altra ora, sarei venuto io da te. Ho passato la serata seduto qui, cercando di persuadermi a mettere la parola fine a questa storia, ma senza successo. Poi sei entrata tu. Sono stato pericolosamente vicino a gettarmi in ginocchio davanti a te.» «Perché?» Gli carezzò il viso. «Potresti avere qualsiasi altra donna. E probabilmente ne hai a bizzeffe.» «Perché?» Roarke inclinò la testa. «È una domanda a cui non è facile rispondere. Che dipenda dalla tua serenità, dai tuoi modi tranquilli, dal tuo infallibile gusto nella scelta degli abiti?» Si sentì rinfrancato nel veder apparire sul volto di lei un rapido sorriso divertito. «No, devo avere in mente una persona diversa. È più probabile che dipenda dal tuo coraggio, dal tuo
strenuo impegno nel lottare contro le ingiustizie, dalla tua infaticabile mente e da quella punta di dolcezza annidata nel tuo animo che ti induce a prenderti così a cuore la sorte di tante persone.» «Non sono io, questa.» «Oh, sì che lo sei, mia adorata Eve.» Posò le proprie labbra sulle sue. «Così come sei questo sapore, il profumo, l'aspetto, il suono. Mi hai stregato. Ne parleremo», mormorò, asciugandole le lacrime con i pollici. «Troveremo un modo per far sì che questo valga per entrambi.» Eve inspirò il fiato con una serie di piccoli singulti. «Ti amo.» Poi espirò di colpo. «Dio.» Roarke si sentì travolgere da un'emozione simile a un temporale estivo: brusco, violento, ma che dietro di sé lascia il sereno. Sconvolto, reclinò la fronte su quella di lei. «Non ti sei strozzata nel dirlo.» «Mi pare di no. Forse mi ci sto abituando.» E forse la prossima volta non avrebbe sentito lo stomaco sobbalzare come uno stagno pieno di rane. Sollevò il viso e trovò la sua bocca. Il bacio fu subito ardente, bramoso, carico di un bisogno estremo. Eve sentì il sangue rombarle nella testa, con tale forza e irruenza da impedirle di sentirsi pronunciare ancora quelle parole, ma le udì attraverso il cuore, che sobbalzava e si gonfiava. Senza fiato e già eccitata, gli strattonò i pantaloni. «Ora. Subito.» «Sì, sì, ora.» Roarke le sfilò la camicia dalla testa, poi entrambi si gettarono sul pavimento. Si rotolarono, cercandosi reciprocamente, formando un groviglio di arti. In preda a un desiderio così spasmodico da darle le vertigini, Eve gli piantò i denti in una spalla mentre lui le strappava i pantaloni. Roarke indugiò solo la frazione di secondo necessaria per avvertire sotto le mani la pelle di lei, le sue forme, il suo calore, poi piombò nella palude dei sensi, un miscuglio di sensazioni tattili e olfattive che si scontrava con l'urgente bisogno di possedere il suo corpo. La buona creanza avrebbe dovuto indurli ad attendere un attimo, e così pure la tenerezza. Ma in loro si scatenò un istinto animalesco, che continuò a divorarli anche quando lui penetrò profondamente dentro di lei, con selvaggi affondi. Roarke sentì il corpo di Eve irrigidirsi e inarcarsi, udì il lungo e basso gemito di un orgasmo travolgente. E lasciò erompere da sé tutto: cuore, anima e sperma. Eve si svegliò nel letto di Roarke, con la luce del sole che filtrava appe-
na dalle persiane della finestra. Senza aprire gli occhi, allungò la mano e sentì che il posto accanto a lei era tiepido, ma vuoto. «Come diavolo sono arrivata fin qui?» si chiese a voce alta. «Ti ci ho portato io.» Lei spalancò di colpo gli occhi e li mise a fuoco su Roarke. Era seduto accanto alle sue ginocchia, con le gambe incrociate, e la fissava. «Mi hai portato tu?» «Ti eri addormentata sul pavimento.» Si piegò in avanti e con un pollice le carezzò una guancia. «Non puoi lavorare fino allo sfinimento, Eve.» «Mi hai portato tu», ripeté Eve, troppo ubriaca di sonno per decidere se si sentiva o no in imbarazzo. «Mi dispiace di non essermene accorta, credo.» «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo per ripetere simili prestazioni. Ma sono preoccupato per te.» «Sto bene. Mi sento soltanto...» Lo sguardo le cadde sulla sveglia sul comodino. «Cristo santo, le dieci! Di mattina?» Roarke allungò una mano e la trattenne prima che lei balzasse dal letto. «È domenica.» «Domenica?» Completamente disorientata, si sfregò gli occhi. «Ho perso la nozione del tempo.» Non era in servizio, ricordò, e tuttavia... «Avevi bisogno di dormire», disse Roarke, leggendole nel pensiero. «E hai bisogno di tirarti su, con qualcosa di meglio del caffè.» Prese un bicchiere dal comodino e glielo porse. Eve esaminò con aria dubbiosa il liquido dalla lieve tinta rosata. «Che cos'è?» «Una cosa che ti farà bene. Bevi.» Per assicurarsi che lo facesse, tenne il bicchiere accostato alle sue labbra. Avrebbe potuto darle uno stimolante in compresse, ma sapeva quanto lei odiasse tutto ciò che assomigliava a un farmaco. «È un prodotto uscito da uno dei miei laboratori. Dovremmo metterlo in commercio fra sei mesi.» Eve socchiuse le palpebre. «Un prodotto non certificato?» «È sicuro.» Sorrise e appoggiò di lato il bicchiere vuoto. «Nessuno che l'abbia ingerito è ancora morto.» «Ah-ah.» Si mise seduta, sentendosi incredibilmente rilassata, stranamente vigile. «Devo andare alla centrale di polizia per lavorare un po' agli altri casi che sto seguendo.» «Hai bisogno di tirare il fiato.» Sollevò una mano, prima che lei potesse obiettare. «Per l'intera mattinata. O, anche, il pomeriggio. Mi piacerebbe
che tu passassi questo tempo con me, ma, se preferisci, trascorrilo da sola, però ne hai assolutamente bisogno.» «Credo di potermi prendere un paio d'ore.» Si rizzò e gli circondò il collo con le braccia. «Che cosa avevi in mente?» Sorridendo, Roarke la fece rotolare di nuovo sul letto. Stavolta fu rispettata la buona creanza, e anche la tenerezza ebbe la sua parte. Eve trovò ad attenderla un mucchio di messaggi, cosa che non la sorprese. Da decenni ormai la domenica aveva smesso di essere un giorno di riposo. Il nastro con i messaggi ronzò a lungo, riportando le comunicazioni inviate da Nadine Furst, dall'arrogante e viscido Morse, una anche dai genitori di Yvonne Metcalf (e Eve l'ascoltò massaggiandosi le tempie) e una, brevissima, da Mirina Angelini. «Non puoi farti carico del loro dolore, Eve», disse Roarke, fermo alle sue spalle. «Cosa?» «Intendo il dolore dei Metcalf. Lo vedo dalla tua faccia.» «Io sono l'unico appiglio a cui possano ancora aggrapparsi.» Appose le proprie iniziali ai messaggi, per certificarne la ricezione. «Devono sapere che qualcuno si preoccupa della sorte toccata alla loro figlia.» «Vorrei dirti qualcosa.» Eve roteò gli occhi, preparandosi a una predica sulla necessità del riposo, sull'obiettività o sul distacco professionale. «Sputa fuori, poi lasciami lavorare.» «In altri tempi ho avuto a che fare con un mucchio di poliziotti. Li ho schivati, corrotti, manovrati o semplicemente lasciati alle spalle.» Divertita, Eve si sedette di sbieco sullo spigolo della sua scrivania. «Ho la vaga impressione che non dovresti dirmi queste cose. La tua fedina penale è stranamente pulita.» «Come potrebbe non esserlo?» Le baciò impulsivamente la punta del naso. «Ho pagato per averla così.» Lei sobbalzò. «Su, Roarke, piantala. Preferisco non sapere, piuttosto che star male.» «Come ti stavo dicendo», riprese lui con voce pacata, «nel corso degli anni ho conosciuto molti poliziotti, ma non ne ho incontrato nessuno migliore di te.» Colta assolutamente alla sprovvista, Eve batté le palpebre. «Oh.» «Tu dedichi tutta te stessa, Eve, a chi è morto e a chi soffre. Mi lasci
senza fiato.» «Dai, smettila.» Tremendamente imbarazzata, si agitò nervosamente. «E non sto scherzando.» «È a Morse che dovrai dire di smetterla, quando lo richiamerai e lo sentirai emettere i suoi irritanti piagnucolii.» «Non intendo richiamarlo.» «Hai siglato i messaggi.» «Ma il suo l'avevo già cancellato.» Sorrise. «Oops.» Roarke scoppiò in una risata e la sollevò dalla scrivania. «Mi piace il tuo stile.» Prima di tentare di sciogliersi dalla sua presa, Eve indugiò un attimo a ravviargli i capelli con le dita. «Ma in questo momento lo stai ostacolando. Perciò sparisci, mentre appuro che cosa voleva dirmi Mirina Angelini.» Allontanandolo da sé, digitò il numero e attese. Fu Mirina in persona a rispondere, fu il suo volto pallido e tirato ad apparire sullo schermo. «Sì? Oh, tenente Dallas. Grazie per avermi richiamata così prontamente. Temevo di non riuscire a sentirla prima di oggi pomeriggio.» «Che cosa posso fare per lei, Ms Angelini?» «Ho bisogno di parlarle il prima possibile. Non voglio coinvolgere il suo comandante. Whitney ha fatto già fin troppo per me e la mia famiglia.» «È qualcosa che riguarda le indagini?» «Sì, o, almeno, così credo.» Eve fece segno a Roarke di uscire dall'ufficio, ma lui si limitò ad appiattirsi contro la parete. Lei gli fece una smorfia, poi tornò a fissare lo schermo. «Sarò lieta di incontrarla dove più le farà comodo.» «Temo, tenente, che sarò proprio costretta a scomodare lei. I miei medici curanti non vogliono che io intraprenda un viaggio, ora come ora. Perciò sarà lei a dover venire da me.» «Vuole che la raggiunga a Roma? Ms Angelini, anche se il Dipartimento mi autorizzasse a partire, ho bisogno di un motivo concreto per giustificare il tempo che dovrò perdere e le spese che dovrò sostenere.» «Ti accompagnerò io», si intromise Roarke. «Sta' zitto.» «Chi c'è lì con lei? C'è qualcun altro?» La voce di Mirina tremò. «C'è Roarke, qui con me», rispose Eve a denti stretti. «Ms Angelini...» «Oh, perfetto. Stavo giusto cercando di mettermi in contatto con lui. Non potreste venire insieme? Mi rendo conto che le sto chiedendo molto,
tenente. Di solito sono contraria a smuovere qualche pezzo grosso, ma lo farò, se è necessario. Il comandante sistemerà tutto.» «Ne sono sicura», mormorò Eve. «Partirò non appena lui l'avrà fatto. La terrò al corrente.» Interruppe la comunicazione. «I ricchi viziati mi fanno venire i nervi.» «Il dolore e l'ansia non conoscono barriere economiche», replicò Roarke. «Oh, taci.» Eve, stizzita, sferrò un calcio rabbioso alla scrivania. «Roma ti piacerà, tesoro», disse Roarke, sorridendo. Ed effettivamente Roma piacque molto a Eve. Almeno così le parve nell'intravederla di sfuggita durante il rapidissimo viaggio dall'aeroporto all'appartamento di Mirina che dava su piazza di Spagna: un'infinità di fontane, traffico convulso, rovine talmente antiche da lasciare increduli. Dal sedile posteriore della limousine privata, osservò con una specie di confuso timore reverenziale gli eleganti pedoni. In quella stagione, a giudicare dalle apparenze, andavano di moda gli abiti lunghi fino a terra. Bustini aderenti, stoffe impalpabili, gonne voluminose, in tinte che andavano dal bianco ghiaccio al marrone scuro. Cinture coperte di gemme appoggiate sui fianchi, scarpe piatte cosparse di altre gemme e piccole borse, anch'esse ingioiellate, portate indifferentemente da uomini e donne. Sembrava che la città ospitasse solo membri di famiglie reali. Roarke non sapeva che lei potesse restare così a bocca aperta. Gli fece un enorme piacere constatare come Eve fosse in grado di dimenticare lo scopo di quel viaggio almeno per il tempo sufficiente a guardarsi intorno e meravigliarsi. Era un vero peccato, si disse, non potersi prendere uno o due giorni di vacanza, così che lui potesse mostrarle la città, la sua magnificenza e le incredibili testimonianze di una continuità millenaria. Provò un certo dispiacere quando l'auto si accostò bruscamente al marciapiede, facendo ripiombare Eve nel mondo reale. «Sarà bene che questa trasferta si dimostri utile.» Senza attendere che l'autista le spalancasse la portiera, Eve balzò fuori dalla limousine. Quando Roarke la prese per un gomito, guidandola all'interno dell'edificio, lei voltò la testa e gli lanciò uno sguardo accigliato. «Non ti dà minimamente fastidio il fatto di aver dovuto attraversare un oceano per scambiare quattro parole?» «Mia cara, spesso io vado anche più lontano di così per molto meno. E senza un'affascinante compagna come te.»
Eve sbuffò e stava già per estrarre il suo distintivo e farlo balenare in faccia al droide addetto alla sorveglianza quando si rammentò di dov'era. «Eve Dallas e Roarke per Mirina Angelini.» «Siete attesi, Eve Dallas e Roarke.» Il droide si avviò fluidamente verso un ascensore dalle sbarre dorate e digitò un codice. «Potresti prenderne uno simile», disse Eve, indicando con la testa l'automa prima che le porte dell'ascensore si chiudessero, «e sbarazzarti di Summerset.» «Summerset ha un fascino tutto suo.» Lei sbuffò di nuovo, più forte. «Già. Ci avrei scommesso.» Le porte dell'ascensore scivolarono di lato, rivelando un atrio in oro e avorio, con una piccola fontana gorgogliante a forma di sirena. «Cristo», bisbigliò Eve, osservando le palme e i dipinti sparsi nel locale. «Ero convinta che nessuno, a parte te, si concedesse simili lussi.» «Benvenuti a Roma.» Randall Slade si fece avanti. «Grazie per essere venuti. Prego, accomodatevi. Mirina è in salotto.» «Non ci aveva detto che ci sarebbe stato anche lei, Mr Slade.» «Abbiamo preso insieme la decisione di telefonarle.» Ritenendo che non fosse ancora il momento di fare domande, Eve lo superò. Il salotto prendeva tutta la facciata dell'edificio e la parete che dava all'esterno era di vetro. Un vetro a specchio, immaginò Eve, perché l'edificio aveva solo sei piani. Nonostante l'altezza relativamente trascurabile, la vetrata offriva una vista sulla città che catturava lo sguardo. Mirina era aggraziatamente seduta su una sedia dalle forme arrotondate e sorseggiava il tè, con la mano scossa da un lieve tremito. Sembrava ancora più pallida, se possibile, e ancora più fragile nel suo elegante abito azzurro ghiaccio. Aveva i piedi nudi, con lo smalto delle unghie nello stesso colore dell'abito. Si era raccolta i capelli in una severa crocchia, tenuta ferma da un pettinino ingioiellato. Faceva venire in mente un'antica dea romana, si disse Eve, ma la sua conoscenza della mitologia era troppo scarsa per poter specificare quale. Mirina non si alzò e non abbozzò neppure un sorriso, ma posò la propria tazza per riempirne altre due, versando il tè da una piccola teiera bianca. «Spero che vogliate farmi compagnia.» «Non sono venuta fin qui solo per bere un tè con lei, Ms Angelini.» «No, ma è venuta e gliene sono grata.» «Su, lascia fare a me.» Con molta disinvoltura, riuscendo quasi a non far notare il tintinnio delle tazze che Mirina stava reggendo, Slade gliele tolse
di mano. «Prego, sedetevi», aggiunse rivolto ai nuovi arrivati. «Non vi tratterremo più a lungo del necessario, ma mettetevi almeno comodi.» «Qui non ho alcuna autorità», esordì Eve sedendosi su una sedia imbottita con lo schienale basso, «ma vorrei registrare ciò che ci diremo, se non avete nulla in contrario.» Mirina lanciò un'occhiata a Slade, mordicchiandosi un labbro. «Sì, certo.» Si schiarì la voce, mentre Eve estraeva il registratore e lo appoggiava sul tavolino in mezzo a loro. «Lei sarà a conoscenza dei... guai in cui è finito Randy, svariati anni fa, nel Settore 38.» «Sì», confermò Eve, «ma mi era stato detto che lei ne era all'oscuro.» «Randy mi ha raccontato tutto ieri.» Mirina allungò una mano, alla cieca, e Slade gliela strinse. «Lei, tenente, è una donna forte, sicura di sé. Potrebbe riuscirle difficile capire le persone che non hanno la sua stessa forza. Randy non mi aveva mai parlato di questa storia perché temeva che io la prendessi male. I miei nervi.» Scrollò le esili spalle. «Riesco a reagire energicamente alle crisi nel campo degli affari, ma quelle nella mia sfera privata mi distruggono. Secondo i medici, tendo a rimuoverle. Preferisco non affrontare i problemi personali.» «Sei delicata», intervenne Slade, stringendole la mano. «Non ti devi vergognare ad ammetterlo.» «In ogni caso, questa è una cosa che devo affrontare. Lei c'era», disse rivolta a Roarke, «quando si è verificato l'incidente.» «Ero nella stazione planetaria, probabilmente nel casinò.» «E gli uomini della sicurezza dell'albergo, quelli chiamati da Randy, erano alle sue dipendenze.» «Esatto. Tutti dispongono di guardie private. I casi criminali vengono trasmessi al magistrato... a meno che non si riesca a trovare privatamente una soluzione.» «Allude alle bustarelle.» «Ovvio.» «Randy avrebbe potuto corrompere gli uomini della sicurezza, ma non l'ha fatto.» «Mirina.» Slade le impose il silenzio con un'altra stretta di mano. «Non li ho corrotti perché avevo la mente troppo confusa e non ci ho pensato. Se l'avessi fatto, tutta la storia sarebbe stata messa a tacere e oggi non ci troveremmo qui a discuterne.» «Le accuse gravi sono cadute», gli fece notare Eve. «Per quelle rimaste lei ha avuto una pena minima.»
«E mi era stato assicurato che sull'intera faccenda sarebbe calato il silenzio. Il che non è stato. Roarke, preferisce qualcosa di più forte del tè?» «Due dita di whiskey, se ne ha.» «Diglielo, Randy», sussurrò Mirina mentre Slade ordinava due whiskey al bar incassato nella parete. Lui annuì, porse a Roarke un bicchiere, poi trangugiò di colpo il contenuto del suo. «La notte in cui fu uccisa, Cicely mi telefonò.» La testa di Eve si rizzò, come quella di un segugio nell'avvertire l'odore della preda. «Nei tabulati telefonici della Towers non ce n'è la minima traccia. Non risultano telefonate verso l'esterno.» «Mi chiamò da una cabina pubblica. Dove si trovasse, non lo so. Era passata da poco la mezzanotte, ora di New York. Cicely era agitata, furiosa.» «Mr Slade, durante l'interrogatorio da me condotto lei aveva ufficialmente dichiarato di non aver avuto alcun contatto con il procuratore Towers, quella notte.» «Ho mentito. Avevo paura.» «E ora desidera ritrattare la sua precedente deposizione.» «Desidero fare alcune rettifiche. Senza l'ausilio di un legale, tenente, e con la piena consapevolezza della pena che spetta a chi dichiara il falso durante un interrogatorio di polizia. Le sto dicendo ora che Cicely mi contattò poco prima di essere uccisa. Questo, ovviamente, mi fornisce un alibi, deve ammetterlo. Per me sarebbe stato praticamente impossibile, in quell'arco di tempo, attraversare gli Stati Uniti da una costa all'altra e ucciderla. Può ovviamente controllare i miei tabulati telefonici.» «Lo farò, non dubiti. Che cosa voleva Cicely da lei?» «Mi chiese se fosse vero. Soltanto questo, sulle prime. Io ero distratto, con la mente rivolta al lavoro, così non mi resi conto subito di quanto lei fosse sconvolta e solo quando divenne più precisa capii che si stava riferendo all'incidente avvenuto nel Settore 38. Fui preso dal panico, balbettai qualche scusa. Ma a Cicely non si poteva mentire. Mi inchiodò. Io mi infuriai, così litigammo.» Si interruppe, volgendo lo sguardo verso Mirina. La osservava, si disse Eve, come se si aspettasse di vederla andare in frantumi come un vetro. «Litigaste, Mr Slade?» lo incalzò. «Sì. Di ciò che era accaduto, del perché. Io volevo sapere come lei fosse riuscita a scoprire ogni cosa, ma Cicely tagliò corto. Sa, tenente, era furibonda. Mi disse che avrebbe sistemato lei la questione, per il bene della fi-
glia. Poi avrebbe fatto i conti con me. Interruppe di colpo la comunicazione e io rimasi lì a rimuginare e a bere.» Si avvicinò a Mirina, le posò una mano sulla spalla, la carezzò. «Era mattina presto, poco dopo l'alba, quando sentii il telegiornale e venni a sapere che era morta.» «Prima di allora non le aveva mai parlato di quella brutta storia?» «No. I nostri rapporti erano ottimi. Lei sapeva che avevo il vizio del gioco e disapprovava, ma blandamente. Anche perché giocava pure David. Non credo avesse capito fino a che punto entrambi fossimo schiavi di quel vizio.» «Invece l'aveva capito», intervenne Roarke. «Mi aveva chiesto di impedire a tutti e due l'accesso nei miei casinò.» «Ah.» Slade incurvò in un sorriso le labbra appoggiate al bordo del bicchiere ormai vuoto. «È questo il motivo per cui non ho potuto varcare la soglia della casa da gioco di Vegas II.» «Esattamente.» «Perché ha deciso di parlare soltanto ora?» chiese Eve. «Che cosa l'ha indotta a rettificare la sua precedente dichiarazione?» «Avevo l'impressione che il cerchio si stesse chiudendo attorno a me. Sapevo quanto sarebbe stato straziante per Mirina apprenderlo da qualcun altro. Dovevo confessarglielo. È stata lei a decidere di contattarla, tenente.» «L'abbiamo deciso insieme.» Mirina gli cercò di nuovo la mano. «Non posso far tornare in vita mia madre e so quanto si infurierà mio padre quando gli diremo che la mamma era tanto crucciata a causa di Randy. Sono cose con cui dovrò imparare a convivere. Posso riuscirci, ma solo sapendo che chiunque si sia servito di Randy, e di me, pagherà caro ciò che ha fatto. Mia madre non sarebbe mai andata in quel posto, mai, assolutamente, se a spingerla non fosse stato il desiderio di proteggermi.» Mentre volavano verso occidente, Eve continuò a camminare avanti e indietro nella confortevole cabina dell'aereo. «Le famiglie.» Si infilò i pollici nelle tasche posteriori dei pantaloni. «Ci pensi mai, Roarke?» «A volte.» Intuendo che Eve aveva voglia di parlare, fece sparire dal suo monitor personale i bollettini finanziari. «Se diamo per buona questa teoria, Cicely Towers uscì di casa in quella notte piovosa perché era una madre. Qualcuno stava minacciando la felicità della figlia. Intendeva sistemare le cose. Anche se era intenzionata a da-
re il benservito a Slade, prima voleva mettere tutto a posto.» «È quello che chiamiamo istinto naturale di un genitore.» Lei gli lanciò un'occhiata in tralice. «Tu e io sappiamo che non sempre esiste.» «Non mi azzarderei mai a sostenere che le nostre due esperienze rientrino nella norma, Eve.» «D'accordo.» Pensierosa, si sedette sul bracciolo del sedile di Roarke. «Dunque, se è normale che una madre si precipiti a proteggere la figlia da un guaio, la Towers fece esattamente ciò che il suo assassino si aspettava. Lui doveva sapere com'era fatta, aver capito bene il suo carattere.» «Più che bene, direi.» «Però la Towers era anche al servizio della legge. Sarebbe stato per lei un atto doveroso, e certamente anche istintivo, mettere al corrente le autorità, riferire ogni minaccia o tentativo di ricatto.» «L'amore materno è più forte della legge.» «Il suo, di sicuro. E chiunque l'abbia uccisa lo sapeva. Chi la conosceva così bene? Il suo amante, l'ex marito, il figlio, la figlia, Slade.» «E molti altri, Eve. Cicely era un'appassionata paladina, almeno a parole, della maternità a tempo pieno, dei diritti familiari. Nel corso degli anni sono circolate dozzine di storie che mettevano in risalto quanto lei fosse personalmente devota alla propria famiglia.» «È rischioso credere ai media, che possono essere - e sono - prevenuti, o presentano una storia in modo tendenzioso per soddisfare certi loro intenti particolari. Io dico che l'assassino la conosceva di persona: non si basava su supposizioni, ma su fatti concreti. Grazie a un contatto diretto o a una scrupolosa ricerca.» «Questo non restringe molto il campo.» Eve accantonò quel commento con un brusco sventolio della mano. «E lo stesso vale per la Metcalf. Viene fissato un appuntamento, del quale tuttavia non resta alcun riscontro specifico nel diario dell'attrice. Come fa l'assassino a saperlo? Lo sa perché conosce a fondo la futura vittima. Mentre, per quanto riguarda l'assassino, o l'assassina, io nel mio lavoro posso solo tentare di intuire come sia fatto, per impedire un nuovo omicidio.» «Ne sei tanto sicura?» «Sì, e la dottoressa Mira me l'ha confermato.» «Allora le hai parlato.» Irrequieta, Eve si alzò di nuovo. «L'assassino - uso il maschile solo perché è più semplice - prova invidia e risentimento nei confronti delle donne
potenti, ma al tempo stesso ne è affascinato. Donne famose, che lasciano il segno. Secondo Mira, l'omicida uccide a mente lucida e fredda, ma io ho qualche dubbio in proposito. Forse lo stiamo sopravvalutando. Forse a spingerlo è il brivido che dà la vista del sangue. L'eccitazione che si prova nell'inseguire la preda, nell'adescarla, nel pianificare l'attacco finale. Chi sta inseguendo in questo momento?» «Ti sei guardata nello specchio?» «Cosa?» «Ti rendi conto di quanto spesso il tuo viso compaia sugli schermi, nelle pagine dei giornali?» Sforzandosi di ricacciare indietro la paura, Roarke si alzò e le posò le mani sulle spalle. Le lesse la verità in faccia. «Ci avevi già pensato?» «L'ho desiderato», lo corresse Eve, «perché sono pronta.» «Mi spaventi», balbettò Roarke. «Hai detto che non esiste poliziotto migliore di me.» Sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. «Rilassati, Roarke. Non commetterò sciocchezze.» «Oh, ora posso dormire tranquillo.» «Quanto manca all'atterraggio?» Impaziente, si voltò e si avviò verso lo schermo televisivo. «Una trentina di minuti, direi.» «Ho bisogno di parlare con Nadine.» «Che cosa hai in mente, Eve?» «Io? Oh, ho in mente di attirare l'attenzione di una folla di cronisti.» Si passò le dita fra i capelli scarmigliati. «Non mi potresti suggerire qualche strepitoso avvenimento mondano, di quelli che attirano i media come le mosche, a cui possiamo partecipare?» Roarke si lasciò sfuggire un sospiro. «Credo di potertene proporre alcuni.» «Perfetto. Passiamoli in rassegna.» Si lasciò cadere in un sedile e prese a tamburellare le dita su un ginocchio. «Suppongo di poter persino comprare qualcosa di nuovo da mettermi.» «Sopra e sotto.» Roarke la prese fra le braccia e si sedette con lei in grembo. «Ma io ti resterò appiccicato, tenente.» «Non lavoro con i civili.» «Sto parlando dei nuovi acquisti.» Eve socchiuse gli occhi mentre la mano di lui le si infilava sotto la camicia. «È una frecciata?»
«Sì.» «Va bene.» Si girò in modo da mettersi a cavalcioni su di lui. «Era tanto per sapere.» 10 «Prima di tutto mettiamoci a nostro agio.» Nadine si guardò attorno nell'ufficio di Eve e fece una smorfia. «Non ha proprio l'aria del santuario.» «Come?» Con un gesto distratto Nadine girò leggermente il monitor di Eve, strappandogli un cigolio. «Finora hai protetto quest'ufficio come se fosse un pezzo di terra consacrata, così mi aspettavo qualcosa di più di una stanzetta grande quanto un ripostiglio, con solo una scrivania e un paio di sedie sgangherate.» «La casa è dove batte il cuore», replicò pacatamente Eve, appoggiandosi allo schienale di una delle due sedie sgangherate. Nadine avrebbe escluso a priori di poter soffrire di claustrofobia, ma lo spazio fra le pareti tinte di un marroncino industriale era terribilmente angusto, tanto da indurla a mettere in discussione quella sua certezza. E l'unica finestra, piccola anch'essa, pur avendo i vetri insonorizzati era priva di tendine e offriva un ristretto scorcio del caotico traffico aereo che si svolgeva al di sopra della locale stazione di smistamento merci. Oltre che minuscola, pensò Nadine, quella stanza era ingombra di roba. «Dopo che avevi risolto il caso DeBlass, l'inverno scorso, avevo creduto che ti sarebbe stato assegnato un ufficio più elegante. Con una vera finestra e, magari, un piccolo tappeto.» «Sei qui per parlare di decorazione d'interni o per fare un'intervista?» «E le tue apparecchiature sono patetiche.» Divertendosi un mondo, Nadine fece schioccare la lingua mentre passava in rassegna gli strumenti di lavoro di Eve. «Quanto al computer, un relitto del genere dovrebbe essere appioppato a un tirapiedi di ultimo livello o, meglio ancora, sbattuto in un centro di riabilitazione per nullatenenti.» Non ti arrabbiare, si disse Eve. Non prendertela. «Ricordatelo, la prossima volta in cui ti chiederanno di donare qualcosa al Fondo per la polizia e la sicurezza.» Nadine sorrise, chinandosi sulla scrivania. «A Channel 75, persino i tirapiedi hanno un loro AutoChef personale.»
«Comincio a odiarti, Nadine.» «Sto solo cercando di mandarti su di giri in attesa di partire con l'intervista. Sai che cosa mi piacerebbe, Dallas, dal momento che sei in vena di metterti in mostra? Un botta e risposta, un colloquio a tutto campo con la donna che sta dietro il distintivo. La vita e gli amori di Eve Dallas, del Dipartimento di polizia criminale di New York. L'aspetto privato del pubblico servitore.» Eve non ce la fece più. Si arrabbiò. «Non tirare troppo la corda, Nadine.» «Tirare la corda è la cosa che mi riesce meglio.» Nadine si lasciò cadere su una sedia, si spostò leggermente. «L'angolatura è giusta, Pete?» L'operatore sollevò all'altezza del viso la telecamera grande quanto il palmo di una mano. «Sì.» «Pete non è un tipo molto loquace», commentò Nadine. «È così che mi piacciono gli uomini. Vuoi darti una sistemata ai capelli?» Eve riuscì a stento a trattenersi dal pettinarli con le dita. Odiava essere ripresa da una telecamera, l'odiava profondamente. «No.» «Come vuoi», replicò Nadine, estraendo da un'immensa borsa un piccolo portacipria con lo specchio, picchiettandosi qualcosa sotto gli occhi e controllando che i denti non fossero sbavati di rossetto. «Okay.» Lasciò ricadere il portacipria nella borsa, accavallò elegantemente le gambe, con un lieve fruscio di seta contro seta, e si voltò verso la telecamera. «Parti.» «Partito.» Il volto di Nadine si trasformò, sotto gli occhi interessati di Eve. Nell'attimo stesso in cui la luce rossa si accese, i lineamenti della giornalista divennero più marcati, più intensi. Come per chiedere attenzione, la voce, che poco prima era acuta, si abbassò di tono e l'eloquio da rapido divenne lento. «Qui Nadine Furst, che vi parla in diretta dall'ufficio del tenente Eve Dallas nella divisione Omicidi della centrale di polizia. In questa intervista in esclusiva parleremo delle morti violente e finora irrisolte del procuratore distrettuale Cicely Towers e della nota attrice Yvonne Metcalf. Tenente, c'è un legame fra questi due omicidi?» «Le prove raccolte ci fanno propendere in tal senso. In base agli accertamenti del medico legale abbiamo la certezza che entrambe le vittime sono state uccise dalla stessa arma, vibrata dalla stessa mano.» «Non c'è alcun dubbio?» «Nessuno. Tutt'e due le donne sono state sgozzate da una sottile lama
dai bordi taglienti, lunga circa ventitré centimetri, che si assottiglia leggermente a partire dall'impugnatura fino a chiudersi bruscamente, in punta, a forma di V. In entrambi i casi le vittime sono state attaccate di fronte e hanno ricevuto una sola pugnalata alla gola, inferta da destra a sinistra, con una lieve angolatura.» Eve prese dalla scrivania una penna e la fece scorrere a un paio di centimetri dal collo di Nadine, che sobbalzò violentemente e batté le palpebre. «Più o meno così.» «Capisco.» «Il colpo ha reciso la giugulare, causando un'immediata e violenta perdita di sangue, togliendo istantaneamente le forze alla vittima e impedendole di chiamare aiuto o di tentare di difendersi in qualche modo. La morte è sopraggiunta dopo pochi secondi.» «In altre parole, l'assassino ha avuto bisogno di pochissimo tempo. Lei, tenente, ha parlato di attacco frontale. Questo può significare che le vittime conoscevano l'aggressore?» «Non necessariamente, ma l'ipotesi che le vittime conoscessero chi le ha aggredite o stessero quanto meno aspettando qualcuno è convalidata da altri indizi. La mancanza di lesioni che indichino un tentativo di difesa, per esempio. Se io le balzassi addosso...» Nel dirlo, Eve scattò di nuovo in avanti con la penna e Nadine sollevò una mano all'altezza della gola. «Vede, è una sorta di riflesso condizionato.» «Interessante», commentò Nadine, costringendosi ad assumere un'espressione accigliata. «Disponiamo di informazioni dettagliate sulle modalità dei due delitti, ma non sul movente e neppure sull'assassino. Che cosa ricollega il procuratore Towers a Yvonne Metcalf?» «Stiamo seguendo diverse linee di indagine.» «La Towers è stata uccisa tre settimane fa, tenente, e lei non ha ancora un indiziato?» «Al momento non abbiamo prove tali da giustificare un arresto.» «Dunque avete qualche sospetto?» «Le indagini procedono con tutta la rapidità possibile.» «E il movente?» «Alla base dei delitti, Ms Furst, c'è una vasta gamma di motivi. Gli esseri umani hanno cominciato a uccidere i loro simili fin da quando si sono sollevati dal fango.» «Se ci riferiamo al testo biblico, l'omicidio è il crimine più antico», replicò Nadine.
«Si può dire che abbia una lunga tradizione. L'umanità può anche essere riuscita a eliminare alcune tendenze indesiderate grazie a interventi di tipo genetico, terapie chimiche, scansioni a raggi beta, e a tenerle a bada con le colonie penali e la limitazione delle libertà personali. Ma la natura umana è sempre la stessa.» «In altre parole, la scienza non può nulla contro i motivi che stanno alla base della violenza: amore, odio, bramosia, invidia, rabbia.» «Sentimenti che ci differenziano dai droidi, non le pare?» «E ci consentono di provare gioia, dolore, passione. Ma lasciamo tale argomento di discussione agli scienziati e agli intellettuali e torniamo a noi. Quale di questi motivi ha ucciso Cicely Towers e Yvonne Metcalf?» «A ucciderle è stato un essere umano, Ms Furst. Il perché rimane al momento sconosciuto.» «Lei si sarà certamente procurata un profilo psichiatrico dell'assassino.» «Sì», confermò Eve. «Che verrà utilizzato, al pari degli altri strumenti a disposizione della polizia, per scoprire il colpevole. Lo troverò», aggiunse, volgendo deliberatamente gli occhi verso la telecamera. «E, una volta che le porte del carcere si saranno richiuse sull'assassino, il movente non avrà più importanza. A contare sarà solo la giustizia.» «Questa mi suona come una promessa, tenente. Una promessa personale.» «Lo è.» «La popolazione di New York si aspetta che lei mantenga questa promessa. Qui è Nadine Furst, che vi parla da Channel 75.» Attese un attimo, poi assentì. «Niente male, Dallas. Nient'affatto male. Trasmetteremo di nuovo l'intervista alle sei e alle undici, oltre che nelle notizie in breve di mezzanotte.» «Bene. Vada a fare quattro passi, Pete.» L'operatore scrollò le spalle e uscì dalla stanza. «Che resti fra noi», riprese Eve, «ma quanto spazio mi puoi concedere nel tuo programma?» «Per che cosa?» «Per mettermi in mostra. Ho bisogno di ottenere una forte visibilità.» «Immaginavo che ci fosse dell'altro dietro il regalino che mi hai appena fatto.» Nadine si lasciò sfuggire di bocca il fiato in quello che assomigliava molto a un sospiro. «Devo confessarti che mi deludi, Dallas. Non credevo tu fossi il tipo che ama pavoneggiarsi in pubblico.» «Fra un paio d'ore sarò in tribunale a deporre sul caso Mondell. Puoi fare
in modo che ci sia anche un cameraman a riprendermi?» «Certo. Il caso Mondell non suscita grandi ascolti, ma vale un paio di inserimenti nelle notizie in breve.» Tirò fuori l'agenda e prese un appunto. «E stasera mi farò anche vedere al New Astoria, per una di quelle cene con i camerieri in guanti bianchi.» «Il ballo dell'Astoria, certo.» Il suo sorriso si fece maligno. «Non mi occupo degli avvenimenti mondani, Dallas, ma posso dire al cronista incaricato di starti alle calcagna. Tu e Roarke siete sempre un bel bocconcino per i golosi di pettegolezzi. Perché con te ci sarà Roarke, o sbaglio?» «Ti farò sapere dove trovarmi nei prossimi due giorni», continuò Eve, ignorando la frecciata. «Ti fornirò continuamente materiale per gli ultimi aggiornamenti da mandare in onda.» «Bene.» Nadine si alzò. «Magari riuscirai anche a inciampare nell'assassino durante questa tua scalata alla fama e alla fortuna. Ti sei già scelta una PR?» Per un attimo Eve non disse nulla e si limitò a picchiettare fra loro i polpastrelli. «Credevo che il tuo lavoro consistesse nel trovare spunti per il tuo programma televisivo e salvaguardare il diritto del pubblico a essere tenuto al corrente delle novità, non nel fare prediche.» «E io ero convinta che il tuo consistesse nel servire e proteggere la gente, non nell'approfittare della situazione per metterti in mostra.» Nadine afferrò la borsa per la tracolla. «Ti vedrò sullo schermo, tenente.» «Nadine.» Eve, compiaciuta, si rovesciò all'indietro sulla sedia. «Poco fa hai dimenticato uno dei motivi basilari della violenza umana: il brivido che provochi negli altri.» «Ne prenderò nota.» Nadine tirò indietro il battente della porta, poi se lo fece sfuggire di mano. Quando tornò a voltarsi verso Eve, aveva un'aria sconvolta e neppure il pesante trucco riusciva a nascondere il pallore del volto. «Sei impazzita? Vuoi fare da esca? Vuoi essere tu la prossima vittima?» «Sono riuscita a mandarti su tutte le furie, eh?» Sorridendo, Eve si concesse il lusso di appoggiare i piedi sulla scrivania. La reazione di Nadine aveva fatto salire la giornalista di svariati gradini nella stima di Eve. «Alla sola idea che io non solo volessi invadere a quel modo gli schermi televisivi, ma che ci fossi anche riuscita, non ci hai visto più dalla rabbia. E di rabbia schiumerà anche il nostro assassino. Non ti sembra già di sentirlo, Nadine? 'Guarda quella dannata poliziotta, come mi porta via tutta l'attenzione dei media.'»
Nadine tornò indietro e si rimise lentamente a sedere. «Ci sono cascata in pieno. Dallas, non sta a me dirti come fare il tuo lavoro...» «Allora taci.» «Fammi capire se ho afferrato bene il concetto. Secondo te, il movente consiste, almeno in parte, nel piacere di far rabbrividire la gente, di attirare l'interesse dei media. Se uccidi un paio di normali individui, gli organi di stampa parlano di te, ma non con tanta intensità, in modo così completo.» «Uccidi due persone famose, che tutti conoscono, e il clamore andrà alle stelle.» «Così tu ti offri come bersaglio.» «È solo un'idea.» Pensierosa, Eve si grattò un ginocchio che le prudeva leggermente. «Magari non otterrò altro che una serie di stupide apparizioni sullo schermo.» «O la gola tagliata da un coltello.» «Ehi, Nadine, comincio a pensare che tu ci tenga, a me.» «Credo di sì.» La giornalista indugiò un attimo, fissando Eve in volto. «È ormai parecchio tempo che collaboro con i poliziotti, che li frequento e li studio. Si finisce per capire istintivamente chi la tira per le lunghe e chi ci mette l'anima. Sai in te che cosa mi preoccupa, Dallas? Che ci metti troppo l'anima.» «Porto un distintivo», tagliò corto Eve, strappando una risata a Nadine. «Ovviamente hai anche visto troppi di quei vecchi telefilm. Be', spetta a te la decisione di cacciarti in questo guaio fino al collo... letteralmente. Io farò in modo che tu abbia tutta la notorietà che desideri.» «Grazie. Un'ultima cosa», aggiunse Eve mentre la giornalista tornava ad alzarsi. «Se questa teoria è fondata, i futuri bersagli saranno scelti fra i tipi femminili più noti e più visti sugli schermi televisivi. Tieni d'occhio il tuo stesso collo, Nadine.» «Cristo.» Rabbrividendo, la giornalista si portò le dita alla gola. «Grazie per avermelo suggerito, Dallas.» «Il piacere è tutto mio... letteralmente.» Dopo che la porta si fu richiusa, Eve non ebbe quasi il tempo di emettere un risolino perché le arrivò l'ordine di recarsi immediatamente nell'ufficio del comandante. Com'era prevedibile, Whitney era stato informato dell'intervista televisiva. Con le parole del comandante che le pesavano ancora sullo stomaco, Eve salì i gradini che portavano all'ingresso del tribunale. I fotoreporter e-
rano tutti lì, come Nadine le aveva promesso. Comparvero anche quella sera davanti al New Astoria, quando lei scese dalla limousine di Roarke e cercò di fingere di divertirsi un mondo. Dopo due giorni in cui non riusciva a fare tre passi senza inciampare in una telecamera, fu quasi sorpresa nel non trovarne una che la riprendesse anche a letto, e lo disse a Roarke. «Sei stata tu a volerlo, mia cara.» Lei gli stava a cavalcioni, indossando ciò che restava dell'abito da cocktail in tre pezzi che lui le aveva scelto per il ricevimento in onore del governatore. La luccicante camicetta nera e oro le sfiorava i fianchi, già sbottonata fino all'ombelico. «Non per questo devo fare i salti dalla gioia. Ma tu come riesci a sopportarlo? Vivi sempre in questo modo. Non è raccapricciante?» «Basta non badarci.» Slacciò un altro bottone. «E tirare diritto. Mi sei piaciuta, stasera, abbigliata com'eri.» Giocherellò pigramente con il diamante che le penzolava in mezzo ai seni. «Ovviamente mi piaci di più così come sei ora.» «Non riuscirò mai ad abituarmi. Quel lusso sfrenato, quelle chiacchiere vuote e quelle teste piene solo di capelli. E non mi sento a mio agio negli abiti da sera.» «Non andranno a genio al tenente, ma su Eve sono perfetti. E tu puoi essere al tempo stesso un poliziotto e una donna.» Vide le sue pupille dilatarsi quando le posò le mani sui seni, e glieli strinse a coppa. «Il cibo ti è piaciuto.» «Sì, quello sì, ma...» Si lasciò sfuggire un mugolio quando i pollici di Roarke le titillarono i capezzoli. «Se non sbaglio, stavo cercando di spiegarti come la penso, però a letto con te non è possibile aprire bocca.» «Eccellente deduzione.» Roarke abbassò il capo e sostituì i pollici con i denti. Eve stava dormendo profondamente quando Roarke la svegliò. In lei a ridestarsi per primo fu il poliziotto, in allerta e pronto a tutto. «Cosa c'è?» Pur essendo nuda, allungò la mano ad afferrare la propria arma. «Cos'è successo?» «Mi dispiace.» Quando si chinò sul letto a baciarla, le vibrazioni del suo corpo fecero capire a Eve che stava ridendo. «Non c'è nulla di buffo. Se fossi stata armata, per te sarebbe finita male.»
«Sono stato proprio fortunato.» Distrattamente, Eve cacciò via Galahad che aveva deciso di acciambellarsi sulla sua testa. «Perché sei già vestito di tutto punto? Che cosa sta succedendo?» «Ho ricevuto una telefonata. Devo recarmi subito su FreeStar One.» «L'Olympus Resort. Luci, mezza penombra», ordinò e, nel lieve chiarore che venne a crearsi, batté le palpebre per mettere a fuoco il viso di Roarke. Mio Dio, pensò, sembra proprio un angelo. Uno di quelli caduti. Di quelli pericolosi. «C'è qualche problema?» «A quanto pare. Ma nulla di irreparabile.» Roarke prese in braccio il gatto, lo carezzò e lo posò sul pavimento. «Però devo occuparmene personalmente. Potrei dover stare via un paio di giorni.» «Oh.» Doveva essere lo stordimento prodotto dal brusco risveglio, si disse, a causarle quel terribile senso di delusione. «Be', arrivederci.» Le passò un dito nella fossetta sul mento. «Ti mancherò.» «Forse. Un po'.» Fu il rapido sorriso di Roarke a costringerla a darsi per vinta. «Sì.» «Tieni, mettiti questo.» Le mise una vestaglia fra le mani. «Prima di andarmene voglio farti vedere una cosa.» «Vai via subito?» «L'auto mi sta già aspettando. Ma può attendere ancora un po'.» «Immagino che tu voglia che io scenda da basso a darti il bacio dell'addio», mormorò Eve mentre si infilava goffamente la vestaglia. «Sarebbe carino da parte tua, ma prima viene qualcos'altro.» Le prese la mano e la tirò giù dalla piattaforma, verso l'ascensore. «Non voglio che tu finisca per trovarti a disagio, qui, durante la mia assenza.» «Giusto.» Mentre la cabina dell'ascensore cominciava a scivolare verso il basso, Roarke le mise le mani sulle spalle. «Eve, questa adesso è casa tua.» «Avrò molto da fare, comunque.» Ondeggiò leggermente perché la cabina aveva preso a muoversi in orizzontale. «Non stavamo andando a pianterreno?» «Non ancora.» Mentre le passava il braccio attorno alle spalle, le porte dell'ascensore si aprirono. Era una stanza che Eve non aveva mai visto. Ma in quell'edificio labirintico c'erano probabilmente dozzine di locali, si disse, in cui lei non aveva ancora messo piede. Tuttavia le bastò una rapidissima occhiata per capire che quella era destinata a lei.
Vide che le poche cose del suo appartamento a cui lei attribuiva un certo valore erano tutte lì, assieme ad altre, nuove, che contribuivano a rendere la camera gradevole e comoda. Staccandosi da Roarke, si fece avanti. Il pavimento era un liscio parquet sul quale era posato un tappeto, blu ardesia e verde muschio, che era stato probabilmente prodotto a telaio in uno dei laboratori di tessitura che Roarke aveva in Oriente. Su quella meraviglia senza prezzo si trovava la vecchia e malconcia scrivania di Eve, con tutto il suo equipaggiamento. Una parete di vetro smerigliato separava la stanza da una minuscola cucina, perfettamente attrezzata, oltre la quale si apriva una terrazza. C'era anche altro, ovviamente. Con Roarke c'era sempre dell'altro. Una centralina telefonica le avrebbe permesso di mettersi in comunicazione con ogni singolo locale della casa. L'impianto per l'intrattenimento consisteva in un lettore stereo con diffusore acustico, un televisore e uno schermo olografico che offriva dozzine di possibili visualizzazioni. Un piccolo giardino pensile cresceva rigoglioso sotto l'arco di una finestra dalla quale si intravedevano le prime luci dell'alba. «Puoi sostituire tutto ciò che non ti piace», disse Roarke mentre Eve faceva scorrere una mano sul morbido schienale di una dormeuse. «Ogni apparecchio è stato programmato in modo da rispondere alla tua voce e all'impronta del tuo palmo.» «Molto funzionale», replicò Eve, schiarendosi poi la voce. «Molto carino.» Accortosi con una certa sorpresa di avere i nervi tesi, Roarke si infilò le mani in tasca. «Il tuo lavoro richiede spazio. Lo capisco perfettamente. Hai bisogno di spazio e di privacy. Il mio studio è qui accanto, oltre il pannello a ovest. Ma c'è una serratura su entrambi i lati della porta.» «Capisco.» Lui sentì che il nervosismo lasciava il posto alla collera. «Se in mia assenza non riesci a trovarti a tuo agio in questa casa, puoi barricarti in questo appartamento. E ti ci puoi barricare anche quando io sono qui. La scelta è tua.» «Sì, è mia.» Eve inspirò profondamente, poi si voltò verso di lui. «Hai fatto questo per me.» Stizzito, Roarke inclinò la testa di lato. «Non sembra esserci cosa che non farei per te.» «Mi pare che qui si stia per toccare il fondo.» Nessuno le aveva mai dato nulla di così perfetto. Nessuno, si rese conto, la conosceva così bene.
«Questo fa di me una donna fortunata, non credi?» Roarke aprì la bocca, ma si ricacciò in gola una frase particolarmente cattiva. «Al diavolo», disse invece. «Devo andare.» «Roarke, un'ultima cosa.» Eve gli si avvicinò, consapevole della rabbia che lo pervadeva. «Non ti ho dato il bacio dell'addio», mormorò e lo baciò con tale passione da farlo vacillare sui calcagni. «Grazie.» Prima che lui potesse replicare, lo baciò di nuovo. «Perché sai sempre che cos'è importante per me.» «Sei la benvenuta.» Con un gesto possessivo fece correre una mano fra i capelli scarmigliati di Eve. «Sentirò la tua mancanza.» «Io la tua la sento già.» «Non correre rischi inutili.» La mano le strinse per un attimo una ciocca. «Immagino che chiederti di non rischiare, anche se lo ritieni necessario, sia fatica sprecata.» «Allora non farlo.» Sentì il cuore balzarle nel petto quando lui le baciò la mano. «Buon viaggio», gli augurò mentre Roarke rientrava nell'ascensore. Attese che le porte si fossero già quasi richiuse per dirgli due parole che non era abituata a pronunciare. «Ti amo.» L'ultima cosa che vide fu il sorriso che gli balenò sul volto. «Che cosa hai trovato, Feeney?» «Qualcosa, forse, o forse nulla.» Erano appena le otto di mattina, la stessa mattina in cui Roarke era partito per FreeStar One, ma Feeney aveva già un'aria sfatta. Eve ordinò due caffè, molto forti, al suo AutoChef. «Se sei qui a quest'ora, e con l'aspetto di chi ha trascorso una notte insonne, senza neppure cambiarsi d'abito, devo dedurne che qualcosa hai trovato. E il mio fiuto non sbaglia.» «Già. Sono rimasto incollato al computer, a riesaminare ancora più a fondo i rapporti familiari e personali delle vittime, come mi avevi chiesto.» «E allora?» Feeney indugiò, bevendo il caffè, tirando fuori il sacchetto di mandorle candite, grattandosi un orecchio. «Ieri sera ti ho vista in televisione. Più esattamente, è stata mia moglie a vederti. Mi ha detto che eri fighissima, per usare un termine del gergo giovanile a cui noi cerchiamo di adeguarci.» «In tal caso ti dico che me la stai menando, Feeney. Anche questa è un'espressione del gergo giovanile e vuol dire che la tiri troppo per le lunghe.»
«Lo so che cosa significa. Accidenti. È una cosa scottante, Dallas. Troppo scottante.» «È questo il motivo per cui sei qui, invece di essere in televisione a comunicare alla gente ciò che sai. Su, parla.» «Va bene.» Sbuffò. «Stavo curiosando nel materiale raccolto su David Angelini. Transazioni finanziarie, per lo più. Avevamo già appurato che per i suoi debiti di gioco era finito nelle mani di alcuni strozzini, che lui teneva buoni pagando di tanto in tanto qualche piccola somma. È possibile che sia ancora in pugno a quella gentaglia, ma non sono riuscito a verificarlo. Si è coperto le spalle.» «Be', lo scopriremo. So come ottenere il nome di quegli strozzini», ribatté Eve, pensando a Roarke. «Vedremo se lui ha promesso loro qualcosa... dicendo magari che stava per ereditare.» Aggrottò la fronte. «Se non ci fosse di mezzo anche la Metcalf, l'assassino sarebbe certamente potuto essere uno di quei farabutti, che, per rientrare in possesso dei propri soldi, era risalito fino alla Towers.» «Non è un'ipotesi da escludere a priori, se consideri il fatto che pure la Metcalf aveva da parte un bel gruzzolo. Non ho ancora trovato fra gli eredi uno che avesse bisogno di procurarsi in fretta denaro liquido, ma potrebbe essere solo questione di tempo.» «Va bene, continua a indagare in questo senso. Però il motivo per cui insisti a giocherellare con le tue mandorle è un altro.» Feeney si fece quasi sfuggire un risolino. «Sei proprio una lenza. Va bene, eccoti servita. Mi sono imbattuto nella moglie del comandante.» «Riferiscimi tutto molto, molto lentamente, Feeney.» Lui non riusciva a stare seduto, così balzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro nel piccolo spazio. «David Angelini ha versato alcune cospicue somme sul suo conto corrente personale. Quattro versamenti di cinquantamila dollari l'uno negli ultimi quattro mesi. Il quarto risale a due settimane prima della morte della madre.» «Va bene, il nostro David ha messo le mani su duecentomila dollari nell'arco di quattro mesi e, da bravo ragazzo, li ha versati in banca. Ma dove li ha presi? Merda.» Di colpo tutto le era apparso fin troppo chiaro. «Già. Ho potuto accedere alle transazioni in rete e sono riuscito a risalire alla fonte. È stata lei a versarli nella banca di New York di David, il quale li ha poi trasferiti nel proprio conto personale a Milano, dopo di che li ha portati, in contanti, in banconote di grosso taglio, in un AutoTell di Vegas II.»
«Cristo, ma perché lei non me l'ha detto?» Eve si premette sulle tempie le mani strette a pugno. «Perché diavolo ha voluto che lo scoprissimo nel corso delle indagini?» «Non è che abbia tentato di nasconderlo», si affrettò a spiegare Feeney. «Quando ho aperto il suo conto corrente, era tutto lì, alla luce del giorno. Lei ha un proprio conto, esattamente come il comandante.» Si schiarì la voce, davanti all'occhiataccia di Eve. «Ho dovuto farlo, Dallas. Lui non ha eseguito alcuna transazione inconsueta, non ha ritirato grosse somme né dal suo conto né da quello di famiglia, intestato a entrambi. Sua moglie invece ha dimezzato la propria giacenza bancaria, per darne la metà ad Angelini. Cristo, lui la stava dissanguando.» «La ricattava», ipotizzò Eve, sforzandosi di ragionare a mente fredda. «Forse avevano avuto una relazione. Forse lei si era innamorata di quel bastardo.» «Oh, Dio santo. Oh, Cristo.» Feeney ebbe l'impressione che lo stomaco gli si annodasse. «Il comandante.» «Già. Dobbiamo informarlo.» «Sapevo che l'avresti detto.» Con aria dolente, Feeney cavò dalla tasca un dischetto. «Ho tutto. Come intendi agire?» «Se potessi farlo, mi recherei immediatamente a White Plains e prenderei Mrs Whitney a calci nel suo bel sedere. Invece andremo nell'ufficio del comandante e lo metteremo al corrente di questa storia.» «In magazzino ci dev'essere ancora qualche vecchia corazza», disse Feeney mentre Eve si alzava. «Buona idea.» Avrebbero potuto prevederlo. Whitney non balzò al di là della scrivania e non li malmenò fisicamente né puntò la propria arma contro di loro. A farli a pezzi bastò l'espressione letale dei suoi occhi. «Lei ha indagato nei conti personali di mia moglie, Feeney.» «Sì, signore, l'ho fatto.» «E ha riferito al tenente Dallas quanto aveva scoperto.» «Secondo le regole procedurali.» «Secondo le regole procedurali», ripeté Whitney. «E ora viene a dirlo a me.» «All'ufficiale superiore», iniziò Feeney, poi crollò. «Oh, accidenti, Jack, avrei forse dovuto insabbiare ogni cosa?» «Lei sarebbe dovuto venire da me subito. Ma ormai...» Le parole gli mo-
rirono sulle labbra e il suo sguardo duro si spostò su Eve. «Qual è la sua opinione in proposito, tenente Dallas?» «Mrs Whitney ha versato a David Angelini duecentomila dollari nell'arco di un quadrimestre. Di questo pagamento non ha fatto parola con me né la prima volta in cui l'ho interrogata né in quella successiva. Ai fini delle indagini è necessario...» Si interruppe. «Dobbiamo appurare il motivo per cui ha pagato, comandante.» I suoi occhi esprimevano scuse, che facevano capolino dietro la fredda espressione da poliziotto. «Dobbiamo sapere perché è stata versata quella somma e perché non ci siano stati altri versamenti dalla morte di Cicely Towers in poi. E io, in qualità di responsabile delle indagini, le devo chiedere, comandante, se lei era al corrente di questi esborsi e della loro motivazione.» Whitney sentì lo stomaco contrarsi, bruciare, come per avvisarlo della presenza di un'inguaribile tensione. «Le risponderò dopo aver parlato con mia moglie.» «Signore», replicò Eve, con una muta preghiera nella voce, «lei sa benissimo che non possiamo permetterle di consultarsi con Mrs Whitney prima che sua moglie venga sentita da noi. Abbiamo già rischiato, con questo nostro colloquio, di contaminare le prove. Mi dispiace, comandante.» «Lei non costringerà mia moglie a venire in centrale per essere interrogata.» «Jack...» «Al diavolo, Feeney, non permetterò che Anna venga trascinata qui come una criminale.» Strinse a pugno le mani che teneva sotto la scrivania e si sforzò di mantenere il controllo dei propri nervi. «Che venga interrogata a casa, alla presenza del nostro avvocato. Questo non viola le regole procedurali, non è così, tenente Dallas?» «No, signore. Con tutto il rispetto, comandante, lei verrà con noi?» «Con tutto il rispetto, tenente», rispose Whitney in tono amareggiato, «lei non riuscirà a impedirmelo.» 11 Anna Whitney andò loro incontro sulla porta. Agitò in aria le mani, poi se le portò sui fianchi. «Jack, che cosa sta succedendo? Linda è qui. Ho saputo da lei che tu le avevi telefonato, dicendole che io avevo bisogno di un consulente legale.» Il suo sguardo dardeggiò da Eve a Feeney, poi si
volse nuovamente verso il marito. «Perché dovrei aver bisogno di un avvocato?» «Va tutto bene.» Lui le posò una mano sulla spalla, in un gesto protettivo, anche se irrigidito dalla tensione. «Facci entrare, Anna.» «Ma io non ho fatto nulla.» Si lasciò sfuggire un risolino nervoso. «Ultimamente non ho neppure preso una multa per un'infrazione al codice stradale.» «Ora siediti, tesoro. Linda, grazie per essere accorsa così rapidamente.» «Non dirlo nemmeno.» Il legale dei Whitney era una giovane donna dagli occhi penetranti, così in ordine da sembrare tirata a lucido. Eve ci mise un po' a ricordare che era anche la figlia del suo comandante. «Lei è il tenente Dallas, vero?» le disse Linda, dopo averla scrutata ed essere giunta a una rapida conclusione. «La riconosco.» Le indicò una sedia, prima che al padre o alla madre venisse in mente di farlo. «Prego, si accomodi.» «Capitano Feeney, dell'Electronic Detection Division», si presentò l'altro nuovo arrivato. «Sì, ho sentito spesso mio padre menzionare il suo nome, capitano Feeney. Dunque», disse Linda, posando una mano su quella della madre, «di che cosa si tratta?» «È emerso un particolare che richiede una spiegazione», rispose Eve, tirando fuori il registratore e porgendolo a Linda affinché lo esaminasse. Cercò di non pensare alla marcata somiglianza fra la giovane donna e il padre: la stessa pelle color caramello, gli stessi occhi freddi. Il fatto che le sembianze fisiche e caratteriali si trasmettessero geneticamente da un membro all'altro di una famiglia la affascinava e al tempo stesso l'atterriva. «Ne deduco che questo sarà un interrogatorio in piena regola.» Con studiata calma, Linda posò sul tavolo il registratore di Eve e tirò fuori il proprio. «Lo confermo.» Eve recitò data e ora. «L'ufficiale che conduce l'interrogatorio è il tenente Dallas, Eve. Sono presenti anche il comandante Whitney, Jack, e il capitano Feeney, Ryan. La persona interrogata è Whitney, Anna, assistita dal suo legale.» «Whitney, Linda. La mia cliente è consapevole dei propri diritti e accetta che l'interrogatorio si svolga in questo momento e in questa sede. Il consulente legale si riserva il diritto di mettere fine al colloquio a sua discrezione. Proceda, tenente.»
«Mrs Whitney», cominciò Eve, «lei conosceva la defunta Cicely Towers.» «Sì, ovviamente. Si tratta ancora di Cicely? Jack...» Lui si limitò a scrollare il capo, senza togliere la mano dalla spalla della moglie. «Lei conosce anche i familiari della defunta, cioè il suo ex marito Marco Angelini, il figlio David e la figlia Mirina.» «Siamo più che conoscenti. Quei ragazzi fanno quasi parte della mia famiglia. Se penso che Linda per un certo periodo usciva con...» «Mamma.» Con un sorriso tirato, Linda la interruppe. «Limitati a rispondere alle domande. Non divagare.» «Ma è ridicolo.» Lo stupore di Anna si stava lentamente trasformando in irritazione. Quella era casa sua, dopotutto, era la sua famiglia. «Il tenente Dallas conosce già le risposte.» «Mi dispiace di dover battere sempre sugli stessi tasti, Mrs Whitney. Mi può descrivere i suoi rapporti con David Angelini?» «David? Be', sono la sua madrina. L'ho visto crescere.» «Sapeva che, prima della morte della madre, David Angelini si trovava in grossi guai finanziari?» «Sì, era...» Sbarrò gli occhi. «Non crederà seriamente che David... È mostruoso», proruppe, prima che la bocca le si chiudesse a formare una sottile riga rossa. «Non intendo degnare questa domanda di una risposta.» «Capisco che lei si senta protettiva nei confronti del suo figlioccio, Mrs Whitney, e mi rendo conto che per aiutarlo sarebbe pronta a fare qualsiasi cosa... e a spendere qualsiasi somma. O, a voler essere precisi, duecentomila dollari.» Il volto di Anna sbiancò sotto l'elaborato trucco. «Non so che cosa lei intenda dire.» «Mrs Whitney, lei nega di aver versato a David Angelini la somma di duecentomila dollari, in tranche di cinquantamila ciascuna, per un periodo di quattro mesi, a partire dal febbraio di quest'anno fino a maggio?» «Io...» Strinse la mano della figlia, evitando quella del marito. «Devo rispondere, Linda?» «Concedetemi un attimo, per favore, per conferire con la mia cliente.» Linda passò un braccio attorno alla vita della madre e si affrettò a condurla nella stanza accanto. «È molto brava, tenente», disse Whitney con voce dura. «Da tempo non assistevo più ai suoi interrogatori.»
«Jack», sospirò Feeney, nel tentativo di calmare le acque. «Sta solo facendo il suo lavoro.» «Sì, è vero. È la cosa che Dallas sa fare meglio.» Sollevò lo sguardo a fissare la moglie che stava rientrando nella stanza. Lei era pallida e tremava leggermente. Il bruciore nello stomaco di Whitney si fece più intenso. «Continuiamo», disse Linda. Quando volse lo sguardo verso Eve, nei suoi occhi c'era un luccichio bellicoso. «La mia cliente desidera fare una dichiarazione. Parla, mamma, non ti preoccupare.» «Mi dispiace.» Anna Whitney aveva le lacrime agli occhi. «Jack, mi dispiace. Non ho avuto la forza di fare altrimenti. Era nei guai. Ricordo bene ciò che tu mi avevi detto, ma ho ceduto.» «Va tutto bene.» Con aria rassegnata, Whitney prese la mano che la moglie gli tendeva e si mise accanto a lei. «Di' al tenente la verità e noi vedremo come risolvere la questione.» «Gli ho dato i soldi.» «L'aveva minacciata, Mrs Whitney?» «Cosa?» Lo shock sembrò asciugare le lacrime pronte a sgorgare. «Oh, santo cielo. È ovvio che non mi ha minacciata. Era nei guai», ripeté, come se ciò fosse più che sufficiente. «Doveva molto denaro ad alcuni brutti tipi. I suoi affari - quella parte degli affari del padre che gestiva lui - stavano momentaneamente andando a rotoli. E lui aveva un nuovo progetto che cercava di far decollare. Mi spiegò che cosa fosse», aggiunse, agitando in aria la mano libera, «ma con precisione non ricordo. So ben poco in fatto di affari.» «Mrs Whitney, lei gli ha dato per ben quattro volte cinquantamila dollari. Durante i nostri precedenti colloqui non mi ha riferito questo particolare.» «Erano forse fatti suoi?» Con la schiena lievemente piegata all'indietro, l'aria rigida e fredda, sembrava una statua. «Il denaro era mio e si è trattato di un prestito personale al mio figlioccio.» «Un figlioccio coinvolto in un'indagine per omicidio», replicò Eve, sforzandosi di essere paziente. «L'omicidio di sua madre. Tanto vale che lei accusi me, invece di David, di averla uccisa.» «Lei non ha ereditato una notevole parte del patrimonio della vittima.» «Ora mi ascolti bene.» La collera le donava. Con il volto in fiamme, Anna si piegò in avanti. «Quel ragazzo adorava sua madre, come lei ado-
rava lui. La morte di Cicely è stata per David un colpo terribile. Lo so, perché gli sono stata accanto, l'ho confortato.» «Lei gli ha dato duecentomila dollari.» «Era denaro mio e stava a me scegliere che cosa farne.» Si morse un labbro. «Nessuno intendeva aiutarlo. I suoi genitori gli negavano i soldi. Avevano deciso insieme che, una volta tanto, non glieli avrebbero dati. Ne parlai con Cicely, qualche mese fa. Lei era una madre meravigliosa e adorava i propri figli, ma credeva strenuamente nella disciplina. Si era messa in mente che toccasse a lui risolvere i propri problemi, senza ricorrere al suo aiuto. O al mio. Ma, quando David venne da me, disperato, che cosa potevo fare? Che cos'altro potevo fare?» ripeté, voltandosi verso il marito. «Jack, lo so che mi avevi detto di non immischiarmi, ma lui era terrorizzato, temeva che quella gente potesse storpiarlo o magari anche ucciderlo. E se al suo posto ci fossero stati Linda o Steven? Non avresti voluto che qualcuno li aiutasse?» «Anna, incrementare il suo vizio non vuol dire aiutare.» «Me li avrebbe restituiti», insistette la donna. «Non intendeva giocarseli. Me lo giurò. Aveva soltanto bisogno di guadagnare tempo. Non potevo voltargli le spalle.» «Tenente Dallas», intervenne Linda, «la mia cliente ha prestato una somma di denaro che le apparteneva a una persona che è quasi un membro della famiglia e lo ha fatto in perfetta buona fede. Non c'è nulla di criminoso in questo.» «La sua cliente, avvocato, non è accusata di alcun delitto.» «In uno dei precedenti interrogatori, lei ha espressamente chiesto alla mia cliente che cosa avesse fatto dei propri soldi? Le ha domandato se fra lei e David Angelini ci fosse stata qualche transazione finanziaria?» «No, non l'ho fatto.» «Quindi la mia cliente non era tenuta a fornirle volontariamente tale informazione, che risultava essere di natura privata e non connessa alle sue indagini. Almeno per quanto lei ne sapeva.» «È la moglie di un funzionario di polizia», replicò stancamente Eve. «Dovrebbe saperne più di altri. Mrs Whitney, Cicely Towers litigò con il figlio per questioni di denaro, per il suo vizio del gioco, per i suoi debiti e per come intendeva saldarli?» «Cicely era molto arrabbiata e fra lei e David scoppiò una lite. Nelle famiglie capita che si litighi, ma non ci si uccide.» Forse è così nel piccolo mondo ovattato in cui vivi, pensò Eve. «Qual è
stato il suo ultimo contatto con David Angelini?» «L'ho sentito una settimana fa. Mi ha telefonato per assicurarsi che io stessi bene, che stesse bene Jack. Abbiamo discusso di un progetto per creare una fondazione che assegni borse di studio intitolate alla madre. È stata un'idea di David, tenente», aggiunse con gli occhi lucidi. «Voleva che Cicely non fosse dimenticata.» «Che cosa può dirmi dei rapporti di David con Yvonne Metcalf?» «L'attrice?» Lo sguardo di Anna si fece vacuo prima che lei si sfregasse gli occhi. «La conosceva? Non me ne ha mai parlato.» Era stato un colpo sferrato al buio e non aveva colpito nessun bersaglio. «Grazie.» Eve raccolse il proprio registratore e concluse l'interrogatorio con la frase di rito. «Avvocato, ricordi alla sua cliente che è nel suo interesse non fare parola di questo colloquio, anche solo parzialmente, a nessuno, presenti esclusi.» «Sono la moglie di un funzionario di polizia», ribatté Anna, rilanciandole contro le parole pronunciate poco prima. «Conosco le regole.» Nel rivolgere un'ultima occhiata al comandante, prima di uscire dalla stanza, Eve vide che stava abbracciando moglie e figlia. Eve sentiva il bisogno di bere qualcosa. Da quando era uscita di casa all'inizio della giornata, aveva passato la maggior parte del suo tempo a seguire una pista, quella di David Angelini, senza riuscire a concludere alcunché. Lui risultava irreperibile, perché era in riunione, o in qualche luogo non meglio precisato, o in un posto diverso da quello in cui lei lo stava cercando. Non avendo molte altre scelte, aveva lasciato un messaggio in ogni possibile angolo del pianeta e aveva deciso di potersi ritenere fortunata se fosse riuscita a mettersi in contatto con lui prima del giorno seguente. Nel frattempo avrebbe dovuto fare i conti con un'enorme casa vuota e un maggiordomo che odiava l'aria che lei respirava. L'idea le venne mentre varcava i cancelli della dimora di Roarke. Accese il telefono dell'auto e diede ordine di comporre il numero di Mavis. «È la tua serata di libertà, vero?» chiese non appena il volto dell'amica si materializzò sullo schermo. «Ci puoi scommettere. Devo far riposare le mie corde vocali.» «Hai qualche progetto per la serata?» «Nulla che non possa essere accantonato per qualcosa di meglio. Che cosa hai in mente?» «Roarke è via, fuori del pianeta. Vuoi venire qui a rilassarti, tirare tardi e
ubriacarti?» «Rilassarmi a casa di Roarke, tirare tardi a casa di Roarke e ubriacarmi a casa di Roarke? Arrivo al volo.» «Aspetta, aspetta. Facciamo le cose in grande. Mando un'auto a prenderti.» «Una limousine?» Mavis dimenticò le proprie corde vocali e lanciò uno strillo. «Cristo, Dallas, fa' in modo che l'autista indossi... che so, un'uniforme. I miei coinquilini si metteranno tutti alla finestra a seguire la scena con gli occhi fuori delle orbite.» «Sarà lì fra un quarto d'ora.» Eve interruppe la comunicazione e salì quasi danzando i gradini che portavano all'ingresso. Vide che Summerset era già sulla soglia, come lei si aspettava, e gli rivolse un altezzoso cenno del capo. Aveva fatto le prove perché le venisse bene. «Stasera ricevo una persona. Mandi un'auto con autista a prenderla, al 28 dell'Avenue C.» «Un ospite.» La voce del maggiordomo grondava sospetto. «Esattamente, Summerset.» Salì le scale a passo di danza. «Una persona con cui sono in ottimi rapporti, molto intimi. Non si dimentichi di avvisare in cucina che a cena saremo in due.» Si assicurò di non essere più a portata d'orecchio del maggiordomo prima di piegarsi in due dalle risate. Summerset si aspettava di veder arrivare un suo spasimante, ne era sicura. Ma la situazione si sarebbe rivelata ancora più scandalosa non appena fosse comparsa Mavis. E Mavis non la deluse, benché, rispetto a com'era di solito, si fosse vestita in modo piuttosto sobrio. Anche l'acconciatura da giorno dei capelli era abbastanza normale: la scintillante chioma dorata era divisa in due ali, una girata sull'orecchio e l'altra piegata a sfiorare la spalla. Portava solo una mezza dozzina di orecchini, uno diverso dall'altro, il che per Mavis Freestone era un esempio di raffinata eleganza. Si fece avanti sotto una torrenziale pioggia primaverile, porse il mantello trasparente cosparso di minuscole luci a un Summerset rimasto senza parole e roteò tre volte su se stessa. Più per il timore reverenziale che le incuteva quel lussuoso atrio, si disse Eve, che per mostrare l'abito rosso che le aderiva al corpo come una seconda pelle. «Per la miseria.» «La penso come te», commentò Eve. Era rimasta in attesa nei pressi dell'atrio, perché non voleva che Mavis si trovasse da sola alle prese con Summerset. Una mossa strategica che si stava rivelando inutile, dal mo-
mento che il maggiordomo di solito tanto sprezzante sembrava annichilito. «È uno schianto», continuò Mavis in tono riverente. «Un vero e proprio schianto. E tutto questo splendore è diventato tuo.» Eve lanciò a Summerset una gelida occhiata in tralice. «Più o meno.» «Fantastico.» Battendo le ciglia lunghe quasi tre centimetri, Mavis tese una mano sul cui dorso era tatuata una serie di cuoricini allacciati fra loro. «Lei deve essere Summerset. Ho sentito un mucchio di cose sul suo conto.» Il maggiordomo rimase talmente sbalordito da prenderle la mano e accennare a portarsela alle labbra, prima di ricordarsi chi era. «Madam», disse invece rigidamente. «Oh, mi chiami pure Mavis. Un posto formidabile in cui lavorare, eh? E lei deve guadagnare un mucchio di soldi.» Non sapendo se inorridire o restare ammaliato, Summerset indietreggiò, fece un mezzo inchino e sparì nel corridoio con il mantello gocciolante dell'ospite. «Un uomo di poche parole», commentò Mavis, ammiccando, poi si aggirò nell'atrio sui suoi zatteroni gonfiabili alti più di quindici centimetri. Superata la prima porta, si lasciò sfuggire un gemito sensuale. «Hai un caminetto autentico.» «In casa ce n'è un paio di dozzine, mi pare.» «Cristo, lo fate davanti al fuoco acceso? Come nei vecchi film?» «Lo lascio alla tua immaginazione.» «E posso immaginarmene tante, di cose. Accidenti, Dallas, quella vettura che mi hai mandato era una vera limousine. Un classico, da pellicola dei tempi andati, e con tanto di pioggia, che in quei vecchi film non manca mai.» Roteò su se stessa, facendo ballonzolare gli orecchini. «Peccato che io sia stata vista soltanto da metà delle persone sulle quali volevo fare colpo. Ora da dove cominciamo?» «Possiamo mangiare.» «Sto morendo di fame, ma prima vorrei vedere la casa. Mostrami qualcosa.» Eve ci pensò un attimo. La terrazza sul tetto era fantastica, ma stava piovendo a dirotto. Quanto alla sala delle armi, niente da fare, così come il poligono di tiro. Lei non se la sentiva di far entrare un'ospite in entrambi quei locali senza che Roarke fosse presente. Comunque ce n'erano tanti altri, ovviamente, da scegliere. Ma lanciò un'occhiata dubbiosa alle scarpe di Mavis.
«Riesci davvero a camminare su quei trampoli?» «Sono pieni d'aria. Non mi accorgo quasi di averli.» «Va bene, allora saliamo le scale. Ai piani superiori c'è più roba da vedere.» Come prima cosa, condusse Mavis nel solarium, divertendosi nel vedere la reazione strabiliata dell'amica di fronte a piante e alberi esotici, scintillanti cascatelle e uccelli che cinguettavano. La vetrata ricurva era martellata dalla pioggia, ma al di là le luci di New York sfavillavano. Nella sala da musica Eve scelse una band da strada e lasciò che Mavis si dilettasse ad ascoltare una serie di brani che andavano per la maggiore, tanto fragorosi da farle temere che i vetri delle finestre finissero in frantumi. Trascorsero quindi un'ora nella sala giochi, impegnandosi ognuna in una competizione al computer con ologrammi avversari su Free Zone e Apocalypse. Alla vista delle camere da letto Mavis si lasciò sfuggire una serie di «Oh!» e «Ah!», finché non ne scelse una per passarvi la notte. «Posso accendere il fuoco, se mi salta il ticchio?» chiese, facendo correre una mano possessiva sulla preziosa cornice del camino, tutta in lapislazzuli. «Certo, ma siamo quasi in giugno.» «Non mi importa di arrostire.» Con le braccia sollevate in alto, entrò nella stanza a lunghi passi dondolanti, guardò il cielo attraverso il trasparente soffitto a cupola e si lasciò cadere sul letto, grande come un lago, con i suoi cuscini argentei. «Mi sembra di essere una regina. Anzi, no, un'imperatrice.» Si rotolò più volte sul materasso ad acqua che ondeggiava sotto di lei. «In un posto come questo, come si può restare normali?» «Non lo so. Non è da molto che ci abito,» Continuando a rotolarsi su un fianco e l'altro fra i cuscini pieni d'aria, Mavis scoppiò a ridere. «A me basterà una notte. Da domani non sarò più la stessa.» Mettendosi a sedere contro la testiera imbottita, toccò alcuni pulsanti. Si accesero e si spensero luci, cambiando direzione, emettendo bagliori, su un sottofondo musicale che fremeva e pulsava. Nella stanza accanto iniziò a scorrere l'acqua. «Che cos'è?» «Hai programmato il tuo bagno», la informò Eve. «Oops. Troppo presto.» Mavis annullò quel comando e provò un altro pulsante, che fece scorrere di lato un pannello sulla parete opposta, rive-
lando uno schermo video largo tre metri. «Assolutamente fantastico. E se mangiassimo, ora?» Mentre Eve si sedeva a tavola con Mavis, nella sala da pranzo, godendosi la prima vera serata di libertà dopo settimane di intenso lavoro, Nadine Furst seguiva accigliata i preparativi per la messa in onda del suo nuovo servizio. «Voglio dare rilievo a questo punto, perciò inquadra bene Dallas», ordinò a Louise, la sua assistente di redazione. «Sì, sì, portala in primo piano. Lei è estremamente telegenica.» Appoggiandosi allo schienale della sedia, studiò i cinque schermi, mentre l'assistente azionava i vari comandi. Nella sala di redazione numero uno regnava il silenzio, rotto appena dal brusio delle voci registrate. Per Nadine, collegare insieme le varie immagini in un flusso continuo era eccitante come fare sesso. La maggior parte dei giornalisti televisivi affidava quel compito ai tecnici, ma Nadine voleva lasciare la propria impronta anche lì. Come dappertutto. Nella sala stampa, al piano inferiore, doveva regnare una tremenda confusione. A lei piaceva anche quell'aspetto. Quella corsa a battere la concorrenza con la notizia più recente, l'immagine più nuova, l'angolatura più incisiva. I reporter incollati al telefono per strappare un'ultima dichiarazione, intenti a martellare sui loro computer per ottenere i dati più inediti. La competizione non riguardava solo chi si trovava all'esterno di Broadcast Avenue; ce n'era più che a sufficienza anche all'interno di Channel 75. Tutti volevano accaparrarsi la storia più importante, la fotografia più clamorosa, gli ascolti più alti. In quel momento era Nadine ad avere ogni cosa e non intendeva lasciarsela sfuggire di mano. «Ecco, resta ferma lì, sulla mia inquadratura nel patio in cui è morta la Metcalf. Bene, ora taglia a metà lo schermo e inserisci il filmato in cui io mi trovo sul marciapiede sul quale è stato ritrovato il cadavere della Towers. Um-hmm.» Socchiudendo gli occhi, studiò le immagini. Lei era perfetta, decise. Espressione compunta, sguardo serio. La nostra intrepida e perspicace giornalista intenta a rivisitare le scene dei due delitti. «Bene.» Allacciò le dita e vi appoggiò il mento. «Metti il sonoro.» Due donne, di grande talento, dedite al proprio lavoro, innocenti. Due vite brutalmente spezzate. La città vacilla, si guarda dietro le
spalle, si chiede perché. Le famiglie in lutto piangono le care defunte, le seppelliscono ed esigono giustizia. E c'è chi si sta impegnando duramente per rispondere a questa domanda, per soddisfare questa esigenza. «Fermo così», ordinò Nadine. «Ora inserisci le riprese con Dallas, all'esterno del palazzo di giustizia. Con anche il sonoro.» L'immagine di Eve, a figura intera e con Nadine al fianco, riempì gli schermi. Ottimo, pensò la giornalista. L'inquadratura dava l'impressione che loro due formassero una squadra, che lavorassero insieme. Niente male. Lì fuori soffiava un leggero vento che scompigliava loro i capelli. Sullo sfondo si innalzava il palazzo del tribunale, un monumento alla giustizia, con gli ascensori che continuavano a scivolare in su e in giù e con la gente che si accalcava nei corridoi dalle pareti di vetro. Il mio lavoro consiste nel trovare l'assassino ed è un compito che sto svolgendo con la massima serietà. Quando avrò finito la mia parte, toccherà alla magistratura fare la sua. «Perfetto.» Nadine chiuse a pugno la mano. «Oh, sì, assolutamente perfetto. A questo punto si va in dissolvenza e ricomincio io in diretta. Durata?» «Tre minuti e quarantacinque secondi.» «Louise, io sono un genio e anche tu te la cavi benissimo. Salvalo.» «Salvato.» Louise scostò il suo sgabello dalla consolle e si stirò le membra. Erano tre anni che lavorava con Nadine e fra loro era nata una buona amicizia. «È un bel servizio, Nadine.» «Puoi dirlo forte.» La giornalista piegò di lato la testa. «Ma è tutto qui.» «Già.» Louise si sciolse la coda di cavallo e si passò la mano nei fitti riccioli scuri. «Stiamo cominciando a battere sempre sullo stesso chiodo. Da un paio di giorni non abbiamo nulla di nuovo.» «Questo vale anche per tutti gli altri. Ma io posso contare su Dallas.» «Che è un bell'asso nella manica.» Louise era una graziosa ragazza, con lineamenti morbidi e occhi vivaci. Era arrivata a Channel 75 direttamente dall'università e vi stava lavorando da meno di un mese quando Nadine l'aveva presa con sé come sua principale assistente. Una sistemazione che si era rivelata ottima per entrambe. «Lei buca il video e parla benissimo. Il fatto che stia con Roarke aggiunge inoltre un pizzico di pepe. E non va
dimenticato che ha la fama di essere un poliziotto coi fiocchi.» «E allora?» «Allora, stavo pensando», continuò Louise, «che, in attesa di avere qualche altro scoop su questi due omicidi, potresti ritirare in ballo il caso DeBlass. Ricordare al pubblico che in quell'occasione il nostro tenente aveva incastrato un pezzo grosso, espletando il proprio dovere ai massimi livelli e conquistandosi la fiducia generale.» «Non voglio spostare l'attenzione dalle indagini in corso.» «Dovresti farlo, invece», disapprovò Louise. «Almeno finché non salta fuori una nuova pista. O una nuova vittima.» Nadine sorrise. «Altro sangue renderebbe di nuovo rovente la situazione. Da domani ci lasceremo alle spalle questo clima tempestoso ed entreremo nella calma piatta di giugno. Va bene, ci penserò. Se vuoi, puoi raccogliere già un po' di materiale.» Louise inarcò un sopracciglio. «Dici sul serio?» «E, se me ne servirò, a figurare come autrice del servizio sarai tu, sanguisuga.» «Affare fatto.» Louise batté una mano sulla tasca del camice da lavoro e sussultò nervosamente. «Sono rimasta senza fumo.» «Dovresti smetterla con quella roba. Sai come la pensano i nostri capi sui dipendenti che mettono a rischio la propria salute.» «Mi limito a fumare quello schifo di marijuana.» «La marijuana non fa male. Procurane un po' anche a me, visto che ci sei.» Nadine ebbe l'accortezza di assumere un'espressione imbarazzata. «Ma non fartelo scappare di bocca. Qui se la prendono più con noi giornalisti che con voi tecnici.» «Ti resta del tempo libero, prima di andare di nuovo in onda per le ultime notizie. Non stacchi un attimo?» «No, devo fare un paio di telefonate. Inoltre, sta diluviando.» Nadine si toccò i capelli perfettamente acconciati. «Va' tu.» Frugò nella propria borsa. «Pago io.» «Bell'affare... visto che dovrò arrivare all'altezza della 2nd per trovare un negozio che sia autorizzato a vendere erba.» Rassegnata, si alzò. «Mi metterò il tuo impermeabile.» «Fa' pure.» Nadine le consegnò una manciata di gettoni bancari. «Cacciami in una tasca quella che prendi per me, d'accordo? Mi troverai in sala stampa.» Uscirono insieme, mentre Louise si infilava un elegante impermeabile
blu. «Che bella stoffa.» «È idrorepellente, come le penne delle anatre.» Attraversarono il corridoio a rampa, superarono una serie di stanze di regia e produzione e si avviarono verso una scala mobile che scendeva. Poiché dal basso arrivava un brusio che diventava sempre più forte, Nadine fu costretta ad alzare la voce per farsi sentire. «Tu e Bongo state sempre meditando di compiere il grande passo?» «Ci meditiamo a tal punto che abbiamo cominciato a cercare un appartamento. Seguiremo la solita trafila: vivremo insieme per un anno, a mo' di esperimento. Se funziona, renderemo legale il nostro rapporto.» «Non ti invidio proprio», ribatté appassionatamente Nadine. «Io non riesco a immaginare un solo motivo per cui due persone sane di mente dovrebbero legarsi fra loro per sempre.» «L'amore.» Louise si portò la mano al cuore in un gesto melodrammatico. «Fa volare fuori dalla finestra dei vecchi schemi la ragione e l'obiettività.» «Tu sei giovane e libera, Louise.» «E, se la fortuna mi assiste, invecchierò incatenata a Bongo.» «Chi diavolo può desiderare di trovarsi incatenata a un tipo che si chiama Bongo?» mormorò Nadine. «Io. Ciao, a dopo.» Con un rapido cenno di saluto Louise continuò a scendere, mentre Nadine lasciava la scala mobile per avviarsi verso la sala stampa. Proprio pensando a Bongo, Louise si chiese se sarebbe riuscita a tornare a casa prima dell'una. L'appartamento in cui loro due avrebbero passato la notte era quello di lei. Quel continuo alternare un appartamento all'altro era una piccola scomodità che sarebbe cessata non appena ne avessero trovato uno che potesse ospitare entrambi. Svogliatamente, Louise lanciò un'occhiata a uno dei molti monitor che coprivano le pareti, sui quali venivano trasmessi i programmi di Channel 75 che stavano andando in onda. In quel momento si trattava di una popolare sitcom, un genere defunto da tempo e che era stato riportato in vita negli ultimi due anni da attrici di successo come Yvonne Metcalf. A quel pensiero Louise scrollò il capo, poi ridacchiò nel vedere l'attore sullo schermo, a grandezza naturale, esibirsi in una serie di disgustose smorfie verso il pubblico che assisteva allo spettacolo. Nadine poteva anche prediligere la cronaca, ma Louise amava l'intrattenimento puro e semplice. Non vedeva l'ora di trascorrere le rare serate di
libertà davanti allo schermo televisivo, abbracciata a Bongo. Nel vasto atrio della sede di Channel 75 c'erano altri monitor, qualche apparato di sorveglianza e una piacevole sala d'attesa circondata da ologrammi dei personaggi più famosi di quel network. E, ovviamente, una rivendita di oggetti regalo, piena di souvenir quali magliette, cappelli, tazze firmate e ologrammi delle star televisive più famose. Due volte al giorno, fra le dieci di mattina e le quattro del pomeriggio, si poteva fare un giro guidato della stazione televisiva. Louise c'era stata, una volta, da bambina, aveva osservato ogni cosa a bocca aperta e, ricordò adesso con un sorriso compiaciuto, aveva istantaneamente deciso che era lì che avrebbe fatto carriera. Rivolse un cenno di saluto alla guardia che sorvegliava l'ingresso e svoltò verso l'estremità est, che era la via più rapida per arrivare alla 2nd Avenue. Raggiunta la porta laterale, riservata al personale, passò il palmo della mano sull'apposito pannello per disattivare la serratura, ma, non appena la porta si spalancò, trasalì nel sentire il fragore della pioggia scrosciante e fu sul punto di cambiare idea. Vale la pena di fare di corsa un paio di isolati, con questo tempo freddo e umido, per una fumatina furtiva? Be', eccome, pensò, e si sollevò il cappuccio. Grazie a quello splendido e costoso impermeabile sarebbe stata abbastanza all'asciutto e voleva sgranchirsi le gambe, dopo essere rimasta per più di un'ora inchiodata in sala di redazione con Nadine. Incurvando le spalle, si lanciò all'aperto. La frustata del vento fu così forte da costringerla a rallentare l'andatura per il breve tempo necessario per chiudersi in vita l'impermeabile. Quando arrivò all'ultimo gradino in basso, si accorse che le scarpe erano già zuppe di pioggia e chinò la testa a guardarle, imprecando sottovoce. «Maledizione.» Fu l'ultima parola che pronunciò. Un movimento attrasse la sua attenzione e lei risollevò lo sguardo, battendo le palpebre per liberare gli occhi dalla pioggia, ma non si accorse neppure del pugnale che, già sollevato a descrivere un arco in aria, mandò uno smorzato bagliore e le recise selvaggiamente la gola. L'assassino la scrutò per un breve istante, mentre il sangue zampillava dalla ferita e il corpo si accasciava a terra come una marionetta a cui avessero tagliato i fili, e nei suoi occhi balenarono in rapida successione shock, rabbia e un'improvvisa e nervosa paura. Il pugnale insanguinato ricadde frettolosamente in una profonda tasca prima che l'oscura sagoma intabarra-
ta fuggisse a rifugiarsi fra le ombre. «Credo che non mi dispiacerebbe vivere in questo modo.» Dopo un pasto a base di carne del Montana, ormai una rarità, e di aragoste pescate nelle acque dell'Islanda, il tutto annaffiato da uno champagne francese, Mavis si allungò nella lussuosa piscina coperta, di fronte al solarium. Sbadigliò, felicemente nuda e appena un po' brilla. «Per te è già così.» «Più o meno.» Meno disinvolta di Mavis, Eve indossava un costume da bagno a un pezzo. Si era accoccolata su un liscio sedile di pietra e stava ancora sorseggiando il suo champagne. Da tempo immemorabile non ricordava di essersi concessa una pausa così rilassante. «In realtà non ho molto tempo da passare in questo modo.» «Cerca di trovarlo, tesoro.» Mavis si immerse, poi tornò in superficie, con i seni perfettamente rotondi che luccicavano sotto la vivida luce azzurra dei faretti che aveva scelto di accendere. Pigramente si rotolò verso una ninfea e ne annusò il profumo. «Cristo, è così che si vive. Lo sai che cos'hai qui, Dallas?» «Una piscina coperta?» «Ciò che qui hai materialmente», iniziò Mavis, nuotando a rana verso il materassino sul quale aveva posato il suo bicchiere, «è una fantasia di primo livello. Un genere di fantasia che non puoi ottenere neppure con gli occhiali da realtà virtuale del tipo più sofisticato.» Bevve un lungo sorso di champagne ghiacciato. «Non è che farai qualche pazzia e butterai tutto all'aria, vero?» «Di che cosa stai parlando?» «Ti conosco. Comincerai a cercare il pelo nell'uovo, a contestare ogni cosa, a spaccare il capello in quattro.» Accortasi che il bicchiere di Eve era vuoto, glielo riempì. «Be', stammi a sentire, bellezza. Non farlo.» «Io non cerco il pelo nell'uovo.» «Tu sei bravissima a spaccare il cavillo... il cavallo... maledizione, volevo dire il capello in quattro. Uffa. Non è facile dire di getto una frase del genere quando ti senti la lingua intorpidita.» Si servì del proprio fianco nudo per spostare Eve di lato, poi si schiacciò accanto a lei. «È pazzo di te, non è così?» Eve si strinse nelle spalle e trangugiò lo champagne. «È ricco, anzi incredibilmente ricco, bello come un dio e con un corpo...» «Che ne sai, tu, del suo corpo?»
«Ho gli occhi per guardare e li uso. Mi sono fatta un'idea precisa di come dev'essere senza vestiti.» Divertita dal lampo nello sguardo di Eve, Mavis si leccò le labbra. «Ovviamente, se ti venisse voglia di illustrarmi i particolari mancanti, io sono tutta orecchi.» «Una vera amica.» «L'hai detto. Comunque, lui è fatto così. Per non parlare poi del suo carisma. Ne ha a bizzeffe, sembra irradiarlo tutt'intorno a sé.» Illustrò il concetto spruzzando acqua in giro. «E ti guarda come se volesse mangiarti viva. A grossi... bramosi... bocconi. Merda, mi sto eccitando.» «Tieni le mani lontane da me.» Mavis sbuffò. «Potrei andare a sedurre Summerset.» «Credo che sia sprovvisto di organi sessuali.» «Posso sempre accertarmene.» Ma al momento era troppo impigrita. «Sei innamorata di lui, vero?» «Di Summerset? Riesco a malapena a sopportarlo.» «Guardami negli occhi. Su.» Per costringerla a obbedire, Mavis afferrò il mento di Eve e glielo girò, in modo da trovarsi faccia a faccia con lei, occhi vitrei contro occhi vitrei. «Sei innamorata di Roarke.» «A quanto sembra. Ma non voglio pensarci.» «Bene. Non farlo. Ti ho sempre detto che pensi troppo.» Sollevò quindi il bicchiere sopra la testa e lo lanciò in piscina. «Possiamo attivare l'idromassaggio?» «Certo.» Con la mente offuscata dal vino, Eve armeggiò a lungo prima di trovare il comando giusto. Non appena l'acqua cominciò a gorgogliare e a schiumare, Mavis si lasciò sfuggire un mugolio di piacere. «Gesù Cristo, chi può desiderare un uomo quando ha a disposizione una simile goduria? Dai, Eve, alza il volume della musica. Facciamo festa.» Per accontentarla, Eve raddoppiò il sonoro e la musica parve erompere fragorosamente dalle pareti e dall'acqua. Si levarono i lamenti dei Rolling Stones, che fra gli artisti di un tempo erano quelli che Mavis prediligeva. Distesa supina, Eve rise degli improvvisati passi di danza dell'amica e si girò per ordinare al servitore droide di portare un'altra bottiglia di champagne. «Mi scusi.» «Eh?» Con gli occhi velati, Eve fissò le lucide scarpe nere sul bordo della piscina, poi, lentamente, solo vagamente incuriosita, fece correre lo sguardo sui pantaloni a tubo di stufa color fumo, sulla giacca corta e attillata e, infine, sul viso di pietra di Summerset. «Ehi, vuoi fare un piccolo
tuffo?» «Venga dentro, Summerset.» Mavis si sbracciò verso il maggiordomo, con l'acqua che le schiaffeggiava i fianchi e gocciolava allegramente dagli splendidi seni. «Più siamo, più ci divertiamo.» Summerset arricciò il naso e piegò le labbra in una smorfia. Fu l'abitudine a fargli uscire di bocca le parole come cubetti di ghiaccio dagli spigoli taglienti, ma il suo sguardo non riusciva a staccarsi dal corpo flessuoso di Mavis. «C'è una telefonata per lei, tenente. Ho tentato di comunicarglielo, ma a quanto pare lei non mi sentiva.» «Cosa? Oh, va bene.» Ridacchiando, Eve si incamminò nella piscina verso il videotelefono che si trovava sul bordo opposto. «È Roarke?» «No.» Il dover rispondere urlando era un affronto alla sua dignità, ma chiedere di abbassare il volume della musica avrebbe offeso il suo orgoglio. «È una chiamata dalla centrale di polizia.» Eve, che stava già allungando la mano verso l'apparecchio, si fermò di colpo, imprecando. Poi, tirandosi indietro i capelli dal volto, ordinò seccamente: «Spegnere la musica», mettendo a tacere Mick e i suoi compagni. «Mavis, per favore, togliti dalla visuale.» Infine, dopo aver inspirato profondamente, prese la comunicazione. «Dallas.» «Comunicazione di servizio per Dallas, tenente Eve. Impronta vocale verificata. Recarsi immediatamente a Broadcast Avenue, Channel 75. Avvenuto omicidio. Codice giallo.» A Eve si raggelò il sangue. Le sue dita artigliarono il bordo della piscina. «Nome della vittima?» «Informazione attualmente non disponibile. Dare conferma di aver ricevuto l'ordine, Dallas, tenente Eve.» «Confermato. Ora presunta di arrivo sulla scena del delitto: fra venti minuti. Mandare sul posto Feeney, capitano, Electronic Detection Division.» «Richiesta accettata. Fine della comunicazione.» «Oh, Dio. Dio mio.» Affranta sia dall'aver bevuto troppo sia dal senso di colpa, Eve chinò la testa sul bordo della piscina. «L'ho uccisa io.» «Smettila.» Mavis la raggiunse con un paio di bracciate e le posò una mano sulla spalla. «Non fare così, Eve», la esortò. «L'assassino ha abboccato all'esca sbagliata, Mavis, ha colpito la preda sbagliata, e ora lei è morta. Dovevo esserci io, al suo posto.» «Ti ho detto di smetterla.» Non sapendo come esprimere il sentimento che provava, riguardo al quale non aveva però dubbi, Mavis tirò verso di
sé l'amica e la scosse bruscamente. «Piantala, Dallas.» Priva di forze, Eve si portò una mano alla testa che le girava. «Oh, Cristo, sono anche ubriaca. Ci mancava solo questo.» «Ora ti rimetto a posto. Ho con me, nella borsa, un tubetto di Tornasobrio.» Sentendo Eve emettere un gemito, la strattonò di nuovo. «Lo so che odi qualsiasi farmaco, ma questo ti ripulirà il sangue dall'alcol in non più di dieci minuti. Vieni, te ne do un paio da ingoiare.» «Magnifico. Splendido. Così sarò sobria quando mi toccherà esaminare il suo cadavere.» Fece per salire i gradini della piscina e scivolò, ma, con sua grande sorpresa, si sentì sostenere per il braccio da una mano ferma. «Tenente.» Summerset le aveva parlato con il solito tono gelido, ma le stava porgendo un accappatoio e l'aiutò a salire sul bordo di pietra della piscina. «Le faccio preparare l'auto.» «Sì, grazie.» 12 L'antidoto che Mavis aveva con sé funzionò come una pozione magica. Benché le fosse rimasto in gola un sapore disgustoso, Eve era perfettamente lucida quando fece il suo ingresso nel sottile grattacielo argenteo in cui aveva sede Channel 75. Quell'edificio era stato costruito attorno al 2025, quando il proliferare dei mezzi di comunicazione di massa aveva raggiunto livelli così astronomici da promuovere un giro d'affari maggiore di quello di una piccola nazione. Fra i più alti nella Broadcast Avenue, si ergeva sopra una larga base piatta e ospitava svariate migliaia di dipendenti, cinque studi televisivi completi, uno dei quali era il più lussuoso di tutta l'East Coast, e apparecchiature così potenti da inviare le trasmissioni in ogni angolo del pianeta e in ogni stazione orbitante. L'ala est - quella verso la quale si stava dirigendo Eve - dava sulla 3rd Avenue, con i suoi eleganti complessi residenziali e altri edifici condominiali più banali concepiti appositamente per il personale dell'industria mediatica. Nel vedere quanto fosse intenso il traffico aereo, Eve capì che la notizia si era già sparsa a macchia d'olio. Sarebbe stato un problema tenere sotto controllo la zona. Mentre si apprestava a girare attorno all'edificio, Eve chiamò la centrale di polizia e chiese che venisse predisposto uno sbarra-
mento aereo, oltre al normale cordone di sicurezza a terra. Un omicidio avvenuto nel cuore del mondo dei media sarebbe stato difficile da gestire anche senza quegli avvoltoi che ronzavano in cielo. Ormai rinfrancata, accantonò il senso di colpa e scese dall'auto per avvicinarsi alla scena del delitto. Gli agenti si erano dati da fare, notò con un certo sollievo. Avevano transennato la zona e sigillato la porta che dava all'esterno. I cronisti e i loro operatori erano già lì, ovviamente, e non ci sarebbe stato modo di allontanarli, ma lei avrebbe avuto spazio per respirare. Si era già attaccata il distintivo alla giacca e avanzò sotto la pioggia verso la struttura mobile coperta da un telone impermeabile che qualcuno dotato di buon senso aveva innalzato sulla scena del delitto. Le gocce di pioggia martellavano la resistente superficie traslucida creando una sorta di musica. Eve riconobbe l'impermeabile e riuscì a fatica a reprimere l'immediato e istintivo rimescolio del suo stomaco. Chiese se tutto fosse già stato ripreso e fotografato e, alla risposta affermativa, si inginocchiò accanto al cadavere. Le sue mani erano ferme come una roccia quando si tesero verso il cappuccio che era caduto in avanti, a coprire il viso della vittima. Ignorò la pozzanghera appiccicosa formata dal sangue che le toccava quasi la punta degli stivali e si sforzò di contenere il singulto che le sfuggì e il brivido che le percorse il corpo quando sollevò il cappuccio e scorse un viso sconosciuto. «Chi diavolo è?» chiese. «La vittima è stata al momento identificata come Louise Kirski, della redazione di Channel 75.» L'agente, una donna, estrasse un taccuino dalla tasca del suo smilzo impermeabile nero. «È stata trovata verso le undici e quindici da un certo C.J. Morse, che ha dato di stomaco proprio lì», aggiunse, con una punta di disprezzo per la sensibilità dei civili. «È entrato nell'edificio da questa porta, urlando come un forsennato. Il servizio di sicurezza locale ha verificato che le cose stessero come lui diceva e ha avvisato la polizia. La chiamata al centralino è giunta alle undici e ventidue. Io sono arrivata sulla scena del delitto alle undici e trentasette...» «Sei stata fulminea, agente...» «Peabody, tenente. Mi trovavo sulla 1st Avenue, perché ero fuori servizio. Ho verificato che si trattasse di omicidio, bloccato la porta che dava all'esterno e chiesto l'invio di altri agenti e di un funzionario di polizia.» Eve indicò con la testa l'edificio. «Qualche giornalista ha ripreso la sce-
na?» «Sì, tenente.» Peabody serrò le labbra. «Non appena sono arrivata, ho fatto allontanare una squadra di fotoreporter. Ma avevano avuto il tempo di riprendere tutto ciò che volevano, prima che io transennassi la zona.» «Va bene.» Dopo aver rivestito i polpastrelli di una pellicola trasparente protettiva, Eve esaminò il cadavere. Qualche banconota, una manciata di monetine, un costoso minicellulare attaccato alla cintura. Nessuna lesione da difesa, nessun segno di colluttazione o aggressione. Dettò accuratamente ogni particolare al suo registratore, con la mente che lavorava a tutto spiano. Sì, non si era sbagliata a riconoscere l'impermeabile, si disse, poi, una volta terminato l'esame preliminare, si rialzò. «Entro nell'edificio. Sto aspettando il capitano Feeney. Non appena arriva, fallo passare. La vittima può essere affidata al medico legale.» «Sì, tenente.» «Tu, Peabody, resta qui», decise Eve. Quell'agente aveva un modo di fare scrupoloso, deciso. «Tieni a bada quei reporter», aggiunse, lanciandosi un'occhiata dietro le spalle e ignorando le domande che le venivano urlate, lo scintillio dei flash. «Non fare commenti, non rilasciare alcuna dichiarazione.» «Non ho nulla da dire a quella gente.» «Bene. Continua così.» Eve sbloccò la porta, la varcò e la sigillò di nuovo. L'atrio era quasi deserto. Peabody, o qualcuno come lei, aveva fatto sloggiare tutti tranne il personale addetto ai servizi essenziali. Eve apostrofò il sorvegliante seduto davanti alla consolle principale. «C.J. Morse. Dove posso trovarlo?» «Al sesto livello, interno otto. Alcuni dei vostri l'hanno accompagnato lassù.» «Sto aspettando un altro funzionario di polizia. Digli dove sono.» Poi Eve si voltò e montò sulla scala mobile che saliva. Vide alcune persone sparse qua e là, alcune riunite insieme, altre ritte in piedi davanti a un fondale e impegnate a parlare animatamente, rivolte a una telecamera. Avvertì un aroma di caffè, con un che di stantio e un vago sentore di bruciato, che le ricordò le celle di sicurezza nelle stazioni di polizia. In una situazione diversa la cosa le avrebbe potuto strappare un sorriso. Via via che saliva, udiva un brusio crescente, finché, giunta al sesto livello, non si trovò nel fragoroso caos della sala stampa. I tavoli con i computer erano stretti l'uno contro l'altro in file separate da
corridoi percorsi da un continuo viavai di persone. Il lavoro dei redattori degli studi televisivi era come quello dei poliziotti: non si fermava mai. Anche a quell'ora di notte più di dodici stazioni stavano trasmettendo i loro notiziari. La differenza, notò Eve, era che i poliziotti avevano l'aria stanca, arruffata, persino sudata. I cronisti invece sembravano perfettamente pronti a mostrarsi sul video, con abiti senza una grinza, espressioni distese, volti perfettamente rasati. Si aveva l'impressione che tutti avessero qualcosa da fare. Alcuni parlavano velocemente fissando lo schermo dei loro videotelefoni (per aggiornare i notiziari trasmessi sui satelliti, immaginò Eve); altri lanciavano ordini ringhiosi ai loro computer e ne ricevevano a propria volta, per richiedere dati, accedervi e trasmetterli alla fonte desiderata. Tutto sembrava assolutamente normale, se non fosse stato per il fatto che, mischiato all'aroma rancido di un pessimo caffè, aleggiava l'appiccicoso odore della paura. Uno o due dei presenti notarono la nuova arrivata e accennarono ad alzarsi, con gli occhi pieni di domande, ma lo sguardo di lei, brutalmente gelido, fu più efficace di uno scudo d'acciaio. Eve si voltò verso la parete coperta di schermi, uno accanto all'altro. Siccome Roarke aveva un'apparecchiatura simile, lei ormai sapeva che su ogni schermo si poteva far comparire un'immagine diversa o una loro combinazione qualsiasi. Al momento, però, su tutti si vedeva Nadine Furst, in primo piano, con la familiare veduta tridimensionale dello skyline di New York sullo sfondo. Anche la giornalista appariva tirata a lucido, perfetta. Eve ebbe l'impressione, mentre si faceva avanti ad ascoltare l'audio, che lo sguardo di Nadine incontrasse il suo e gli restasse incollato. «E stanotte, di nuovo, un omicidio inspiegabile. Louise Kirski, una dipendente di questa stazione televisiva, è stata uccisa a solo pochi passi dall'edificio da cui proprio ora sto mandando in onda questo servizio.» Quando Nadine, dopo aver aggiunto qualche altro dettaglio, lasciò il posto a Morse, Eve non imprecò neppure. Se l'aspettava. «Una serata come tante altre», iniziò Morse con la dizione chiara del cronista. «Una delle tante notti cittadine piovose. Ma ancora una volta, nonostante le migliori intenzioni delle nostre forze di polizia, si è verificato un delitto. Il sottoscritto è in grado di darvi un resoconto di prima mano dell'orrore, dello shock, della terribile perdita.»
Si interruppe, con un tempismo perfetto, mentre la telecamera faceva uno zoom sul suo volto. «Sono stato io a trovare il corpo di Louise Kirski, riverso a terra in un lago di sangue, ai piedi della scala d'ingresso a questo edificio in cui sia lei sia io abbiamo lavorato tante notti. Le era stata tagliata la gola e il sangue aveva inondato il marciapiede bagnato di pioggia. Non mi vergogno a dire che sono rimasto raggelato, che ho avuto un conato di vomito, che il tanfo della morte mi ha invaso i polmoni. Ho continuato a fissarla, impietrito, non riuscendo a credere ai miei stessi occhi. Com'era possibile? Una donna che conoscevo, con la quale avevo spesso scambiato qualche parola amichevole, con la quale avevo avuto di tanto in tanto il privilegio di lavorare. Com'era possibile che giacesse lì, senza vita?» Sullo schermo il suo viso pallido, dall'espressione seria, svanì per lasciare il posto a una raccapricciante visione del cadavere. Non avevano perso tempo, si disse Eve, disgustata, e si voltò verso la persona che occupava il tavolo più vicino. «Dove si trova quello studio?» «Come?» «Le ho chiesto dove si trova quel dannato studio», ringhiò Eve, piegando il pollice verso lo schermo. «Be', ehm...» Furiosa, Eve si chinò in avanti e imprigionò il giornalista fra le sue braccia tese. «Vuol vedere con quanta rapidità faccio chiudere questo posto?» «Livello dodici, Studio A.» Eve si lanciò fuori dalla sala proprio mentre Feeney smontava dalla scala mobile. «Te la sei presa comoda.» «Ehi, mi trovavo nel New Jersey, in visita ad alcuni parenti.» Non si preoccupò di chiederle spiegazioni, ma le si accodò. «Ho bisogno di mettere il bavaglio a questa emittente.» «Va bene.» Feeney si grattò la testa mentre saliva accanto a lei. «Probabilmente sarà possibile ottenere in via eccezionale il permesso di confiscare le foto della scena del delitto.» All'occhiata di Eve si strinse nelle spalle. «Strada facendo, ne ho viste alcune sullo schermo del videotelefono che ho in macchina. Loro riusciranno a riprendersele, ma per alcune ore, se non altro, impediremo che le trasmettano.» «Tu intanto datti da fare. Ho bisogno di tutti i dati disponibili sulla vittima. Qui dovrebbero averli in archivio.» «È abbastanza semplice.» «Fammeli avere in ufficio, va bene, Feeney? Io qui ne avrò ancora per
poco.» «Non c'è problema. Qualcos'altro?» Eve smontò dalla scala mobile e fissò con aria corrucciata le spesse porte bianche dello Studio A. «Potrei aver bisogno di qualcuno che mi dia manforte, là dentro.» «Con molto piacere.» Le porte erano ermeticamente chiuse e la scritta ON AIR era accesa. Eve si sforzò di reprimere la voglia spasmodica di estrarre l'arma e far saltare il pannello di sicurezza. Invece premette il pulsante d'emergenza, aspettando la risposta. «Il notiziario di Channel 75 sta andando in onda, in diretta», disse la suadente voce elettronica. «Qual è la natura del suo problema?» «Qui polizia, caso d'emergenza.» Eve sollevò il proprio distintivo all'altezza del minuscolo scanner. «Attenda un attimo, tenente Dallas, che la sua richiesta venga inoltrata.» «Non è una richiesta», replicò Eve con voce piatta. «Esigo che questa porta si apra immediatamente o sarò costretta a farla saltare in base alla disposizione del regolamento di polizia 83B, comma J.» Si udì un lieve sfrigolio, una sorta di sibilo elettronico, come se il computer stesse considerando le sue parole con una vaga irritazione. «Le porte sono sbloccate. Per favore, rimanga in silenzio e non oltrepassi la linea bianca. Grazie.» All'interno dello studio, la temperatura era di una decina di gradi inferiore a quella esterna. Eve si avviò speditamente verso la cabina di regia chiusa da una parete di vetro e posta proprio di fronte al set e bussò tanto forte da far impallidire il preoccupato regista, che si portò disperatamente un dito alle labbra. Eve sollevò il distintivo. Con evidente riluttanza, l'uomo sbloccò la chiusura della porta nel pannello divisorio e fece cenno ai due intrusi di accomodarsi. «Siamo in diretta», proruppe, prima di tornare a controllare il set. «Telecamera tre su Nadine. In sottofondo l'immagine di Louise. Via così.» I robot sul set obbedirono docilmente. Eve osservò la piccola telecamera appesa in alto ruotare. Sul monitor di controllo, Louise Kirski sorrideva allegramente. «Piano, Nadine. Non correre tanto. C.J., fra dieci secondi tocca a te.» «Inserisca la pubblicità», gli ordinò Eve. «Questo programma non prevede stacchi pubblicitari.» «Passi alla pubblicità», insistette Eve, «o si troverà con lo schermo an-
nebbiato.» L'uomo buttò indietro la fronte e gonfiò il torace. «Ora mi stia bene a sentire...» «No, mi ascolti lei.» Eve, senza la minima gentilezza, gli piantò un dito in quel torace tronfio. «Lei sta trattenendo qui il mio testimone oculare. Faccia come le chiedo o i suoi concorrenti avranno un boom di ascolti dopo che io avrò raccontato loro come Channel 75 abbia ostacolato le indagini di polizia sull'omicidio di uno dei suoi dipendenti.» Sorrise ironicamente, mentre l'uomo meditava sul da farsi. «E potrei magari cominciare a considerare lei un possibile indiziato. Mi sembra proprio il tipo di individuo che uccide a sangue freddo, non pare anche a te, Feeney?» «Me lo stavo giusto dicendo. Forse dovremmo portarlo in centrale a fare una bella e lunga chiacchierata. Dopo averlo perquisito a fondo.» «Ora basta. Piantatela.» L'uomo si passò una mano sulla bocca. Che male avrebbe potuto fare una breve interruzione pubblicitaria di novanta secondi? «Fra dieci secondi mandare in onda lo spot della Zippy. C.J., sbrigati a concludere. Inserire la sigla musicale. Telecamera uno indietro. Via così.» Poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Chiederò l'intervento di un legale per questa intrusione.» «Lo faccia pure.» Eve uscì dalla cabina di regia e si avviò verso il lungo tavolo nero dietro il quale sedevano Morse e Nadine. «Noi abbiamo il diritto di...» «Le dirò io quali sono i suoi diritti», tagliò corto Eve, interrompendo Morse. «Anzitutto, quello di chiamare il suo legale e dargli appuntamento alla centrale di polizia.» Morse divenne terreo. «Mi arresta? Cristo santo, le ha dato di volta il cervello?» «Lei è un testimone, idiota. E non farà altre dichiarazioni finché io non avrò ottenuto da lei una deposizione completa. In forma ufficiale.» Lanciò un'occhiata sarcastica a Nadine. «Ci dovrai pensare tu, da sola, a concludere questo sproloquio.» «Voglio venire con te.» Nadine si alzò in piedi, con le gambe che le tremavano. Nonostante le urla frenetiche che arrivavano dalla cabina di regia, si staccò il microfono dall'orecchio e lo posò sul tavolo. «Probabilmente sono stata l'ultima persona che abbia visto Louise viva.» «Bene. Ne parleremo.» Eve li spinse verso l'uscita, fermandosi solo un attimo davanti alla cabina di regia, con un sorriso perfido. «Può sostituire
il notiziario con qualche vecchia puntata di NYPD Blue. È un classico.» «Bene, benissimo, C.J.» Per quanto sconvolta, Eve provava al momento una certa soddisfazione. «Finalmente sono riuscita a portarla dove volevo. Si sente a suo agio?» Il cronista aveva un colorito vagamente verdastro, ma riuscì ad abbozzare un sorriso beffardo mentre si guardava attorno nella stanza degli interrogatori. «Perché non vi fate dare qualche consiglio da un arredatore, voi della polizia?» «Cerchiamo di non sforare il budget.» Eve si sedette dietro l'unico tavolo presente nella stanza. «Registrare l'interrogatorio», ordinò. «Primo giugno... caspita, che fine ha fatto il mese di maggio? Soggetto: C.J. Morse; luogo: Stanza C; riferimento: omicidio; vittima: Louise Kirski. Ore: mezzanotte e quarantacinque. Mr Morse, lei è stato messo al corrente dei suoi diritti. Vuole che il suo legale assista all'interrogatorio?» L'uomo allungò la mano verso il suo bicchiere d'acqua e bevve un sorso. «Sono accusato di qualcosa?» «No, almeno per il momento.» «Allora andiamo avanti così.» «Lei mi sconcerta, C.J. Ora mi riferisca esattamente che cos'è accaduto.» «D'accordo.» Bevve di nuovo, come se avesse la gola secca. «Stavo per andare nello studio televisivo. Dovevo partecipare come secondo conduttore al notiziario di mezzanotte.» «A che ora è giunto sul posto?» «Alle undici e un quarto, all'incirca. Mi stavo dirigendo all'ingresso sul lato a est, che è quello che la maggior parte di noi usa perché è il più comodo per raggiungere la sala stampa. Diluviava, così sono schizzato di corsa dall'auto verso l'edificio. Ho visto qualcosa in fondo ai gradini. Sulle prime non ho capito che cosa fosse esattamente.» Si interruppe, si coprì il volto con le mani e se lo sfregò con forza. «Non l'ho capito», riprese, «finché non mi ci sono trovato praticamente sopra. Ho pensato... in realtà non so che cosa ho pensato. Forse che qualcuno fosse caduto malamente dai gradini.» «Ha riconosciuto la vittima?» «Il... il cappuccio.» Con le mani fece un gesto vago, impotente. «Le copriva la faccia. Ho allungato una mano e stavo per spostarlo, ma...» Fu scosso da un violento brivido. «È stato allora che ho visto il sangue... la gola. Tutto quel sangue», ripeté e si coprì gli occhi.
«Ha toccato il corpo?» «No, non mi pare... no. Lei era riversa al suolo, con la gola squarciata. Gli occhi sbarrati. No, non l'ho toccata.» Riabbassò le mani e fece quello che sembrò uno sforzo erculeo per controllarsi. «Ho vomitato. A lei, Dallas, potrà sembrare strano, ma alcune persone hanno questo tipo di reazione istintiva. Quel lago di sangue, i suoi occhi. Dio. Ho vomitato, poi sono stato colto dalla paura e mi sono precipitato all'interno dell'edificio. Ho riferito ogni cosa al sorvegliante nell'atrio.» «Conosceva la vittima?» «Certo, la conoscevo. Louise mi aveva curato alcuni servizi. Per lo più lavorava con Nadine, ma aveva fatto qualche piccola cosa per me e anche per altri. Era brava, veramente brava. Veloce, sveglia. Uno dei nostri tecnici migliori. Cristo.» Afferrò la brocca posata sul tavolo. Mentre versava l'acqua, ne rovesciò sul tavolo qualche goccia. «Non c'era motivo di ucciderla. Non c'era il minimo motivo.» «La vittima era solita uscire da quella parte, a quell'ora?» «Non lo so. Non credo... Avrebbe dovuto trovarsi in redazione», rispose Morse in tono convinto. «Eravate buoni amici, nella vita privata?» Morse sollevò bruscamente la testa, socchiudendo le palpebre. «Sta cercando di incastrarmi, vero? Ne sarebbe felice.» «Si limiti a rispondere alle domande, C.J. Fra lei e la vittima c'era un rapporto intimo?» «Louise diceva di avere una relazione con un tale, un certo Bongo. Fra lei e me ci sono stati solo rapporti di lavoro, Dallas. Nient'altro.» «Lei è arrivato a Channel 75 alle undici e quindici. In precedenza dov'era?» «A casa. Quando partecipo al programma di mezzanotte, cerco di dormire un paio d'ore, prima. Non avevo un ruolo importante, perciò non dovevo neppure prepararmi. Mi sarei limitato a leggere il notiziario, a ricapitolare i fatti della giornata. Alle sette ho cenato con alcuni amici, verso le otto sono tornato a casa e ho fatto un sonnellino.» Piantò i gomiti sul tavolo e chinò il capo sulle mani. «Mi sono svegliato alle dieci ed erano circa le undici quando sono uscito. Ho preferito anticipare un po' l'uscita per via del clima piovoso. Cristo, Cristo, Cristo.» Se Eve non l'avesse visto parlare davanti alle telecamere pochi minuti dopo la scoperta del cadavere, avrebbe potuto provare compassione per lui. «Ha notato qualcuno sulla scena del delitto o nei pressi?»
«Soltanto Louise. A quell'ora di notte non c'è molta gente che entri o esca dall'edificio. Non ho visto nessuno. Soltanto Louise. Lei sola.» «Okay, C.J., per il momento abbiamo concluso.» Morse posò il bicchiere da cui aveva bevuto avidamente ancora una volta. «Posso andare?» «Si ricordi che è un testimone. Se ci sta nascondendo qualcosa, o se dovesse tenere per sé qualche particolare che potrebbe tornarle in mente dopo questo colloquio, la accuserò di reticenza e di intralcio alle indagini.» Gli rivolse un amabile sorriso. «Oh, mi dia i nomi dei suoi amici, C.J. Non credevo che lei ne avesse.» Lo lasciò andare e, mentre aspettava che venisse introdotta Nadine, rimuginò su quanto era accaduto. Lo scenario era fin troppo chiaro. E il senso di colpa tornò a farsi sentire. Per mantenere vividi l'uno e l'altro, spalancò il fascicolo e osservò le copie a stampa delle foto scattate al cadavere di Louise Kirski. Quando la porta si aprì, le posò sul tavolo a faccia in giù. Nadine non aveva più il suo aspetto impeccabile. Il personaggio che si esibiva sullo schermo con perfetta professionalità aveva lasciato il posto a una donna pallida e sconvolta, con gli occhi gonfi e le labbra tremanti. Senza dire nulla, Eve le fece cenno di sedersi e le versò un po' d'acqua in un bicchiere pulito. «Non hai perso tempo», disse quindi freddamente, «a mandare in onda il tuo servizio.» «È il mio mestiere.» Nadine non toccò il bicchiere, ma si allacciò le mani in grembo. «Tu fai il tuo, io il mio.» «Giusto. Tutt'e due lavoriamo per il pubblico, non è così?» «In questo momento non mi interessa sapere che cosa pensi di me, Dallas.» «Tanto meglio, perché in questo momento l'opinione che ho di te non è molto buona.» Per la seconda volta chiese che iniziasse la registrazione e comunicò i dati preliminari. «Quando hai visto per l'ultima volta Louise Kirski viva?» «Stavamo lavorando in redazione, a rifinire contenuti e durata di un servizio per l'edizione di mezzanotte. Ci abbiamo messo meno tempo del previsto. Louise era brava, veramente brava.» Nadine trasse un profondo respiro e continuò a fissare un punto poco al di sopra della spalla sinistra di Eve. «Poi abbiamo chiacchierato per qualche minuto. Lei e l'uomo con cui aveva un rapporto sentimentale da parecchi mesi stavano cercando un appartamento in cui andare a vivere insieme. Louise era raggiante. Aveva un
carattere allegro, sapeva sempre come risolvere i problemi, era piena di vita.» Dovette fermarsi, fu obbligata a farlo, perché le mancò il respiro. Allora, cautamente, ma fermamente, si impose di inspirare ed espirare. Due volte. «Ma era rimasta senza sigarette. Fra un lavoro e l'altro le piaceva farsi una fumatina. Tutti fingevano di guardare da un'altra parte, anche se lei di solito andava ad accendersele in qualche toilette. Le ho detto che, visto che c'era, poteva comprarne anche per me e le ho dato i soldi. Siamo scese insieme, ma io mi sono fermata in sala stampa. Dovevo fare alcune telefonate. Altrimenti l'avrei accompagnata. Sarei stata con lei.» «Prima di iniziare la trasmissione avevate l'abitudine di uscire insieme?» «No. Normalmente mi concedo un breve intervallo, esco e vado a prendermi un caffè in quel piccolo bar tranquillo sulla 3rd. È una cosa che mi piace fare: allontanarmi dalla stazione televisiva, soprattutto dopo mezzanotte. Nel nostro edificio ci sono un ristorante, alcuni bar, una caffetteria, ma io preferisco fare tino stacco netto e stare una decina di minuti per conto mio.» «Abitualmente?» «Sì.» Lo sguardo di Nadine incontrò quello di Eve e deviò altrove. «Abitualmente. Ma stavolta volevo fare quelle telefonate e poi stava diluviando, così... non sono uscita. Ho prestato a Louise il mio impermeabile e lei se n'è andata.» I suoi occhi tornarono ad appuntarsi in quelli di Eve. Ed erano atterriti. «È morta al posto mio. Tu lo sai e lo so anch'io. Non è vero, Dallas?» «Ho riconosciuto il tuo impermeabile», ribatté laconicamente Eve. «Ho creduto fossi tu.» «Louise non ha fatto altro che uscire a comprare qualche sigaretta. Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Con l'indumento sbagliato.» L'esca sbagliata, pensò Eve, ma non lo disse a voce alta. «Andiamo avanti un passo alla volta, Nadine. Un redattore televisivo dispone di una certa dose di potere, di controllo.» «No.» Lentamente, metodicamente, Nadine scosse la testa. Il rimescolio nello stomaco sembrava esserle risalito in gola, portandovi un sapore disgustoso. «A far colpo sulla gente sono la storia, Dallas, e il personaggio che appare sullo schermo. Nessuno che non sia un giornalista apprezza il redattore, sempre ammesso che ne conosca l'esistenza. Non era lei il bersaglio, Dallas. Non facciamo finta che non sia così.»
«Ciò che ritengo e ciò che so sono due argomenti diversi, Nadine. Ma cominciamo per ora con ciò che ritengo. Sono convinta che la preda fossi tu e che l'assassino abbia scambiato Louise per te. Fisicamente non le assomigli, ma stava diluviando, lei indossava il tuo impermeabile e aveva il cappuccio in testa. E lui, quando si è accorto dell'errore, non ha avuto il tempo per fermarsi, o non ha avuto scelta.» «Cosa?» Frastornata da quelle parole pronunciate in modo così piatto, Nadine si sforzò di mettere a fuoco le idee. «Che cosa hai detto?» «Tutto è avvenuto molto rapidamente. Ho appurato dal sorvegliante nell'atrio il momento preciso in cui lei è uscita. Louise gli aveva fatto un cenno di saluto. Non più tardi di dieci minuti dopo è arrivato Morse, barcollando. Il nostro assassino ha calcolato perfettamente i tempi oppure è stato imprudente. E ci puoi scommettere che voleva sentir parlare dell'omicidio in televisione prim'ancora che il cadavere diventasse freddo.» «Noi gli abbiamo fatto un regalo, è così?» «Sì», assentì Eve. «Gli avete fatto un bel regalo.» «Credi che sia stato facile per me?» proruppe Nadine, con voce stridula e impastata. «Credi davvero che per me sia stato facile stare lì seduta a dare la notizia sapendo che Louise era ancora riversa a terra, per strada?» «Non lo so», ribatté pacatamente Eve. «Lo è stato?» «Era mia amica.» Nadine cominciò a piangere. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi e le rigarono le guance, lasciando una scia nel cerone. «Le volevo bene. Maledizione, lei per me era importante, come persona, non come notizia da mandare in onda. Non era soltanto un dannato spunto per un servizio di cronaca.» Lottando per soffocare il proprio senso di colpa, Eve spinse il bicchiere verso la giornalista. «Bevi un sorso», le ordinò. «Calmati.» Nadine fu costretta a usare entrambe le mani per tenere parzialmente fermo il bicchiere. Avrebbe preferito un goccio di brandy, si rese conto, ma per quello doveva aspettare. «Continuo a ripensarci e la mia opinione non è molto diversa dalla tua.» «Tu hai visto il cadavere», scattò Eve. «Sei uscita a guardare la scena del delitto.» «Dovevo vedere.» Con gli occhi ancora gonfi di lacrime, incrociò lo sguardo di Eve. «Per un motivo personale, Dallas. Dovevo vedere. Non ci volevo credere, quando sono venuti a dirmelo.» «Come ti è arrivata la notizia?» «Qualcuno ha sentito Morse urlare al sorvegliante che una persona era
morta, che era stata uccisa davanti all'ingresso. Parole che hanno attirato l'attenzione di tutti», disse, massaggiandosi le tempie. «Le voci corrono. Non avevo finito la mia seconda telefonata quando ho sentito il brusio. Ho tagliato corto con il mio interlocutore e sono scesa nell'atrio. E ho visto Louise.» Il suo sorriso era una tetra smorfia. «Ho battuto sul tempo gli altri telereporter... e i poliziotti.» «Così tu e la tua squadra avete rischiato di contaminare la scena di un delitto.» Eve sventolò in aria una mano. «Ma ormai quel che è fatto è fatto. Qualcuno ha toccato il cadavere? Hai visto qualcuno toccarlo?» «No, nessuno si è comportato in modo tanto stupido. Che fosse morta era evidente. Non potevi fare a meno di vedere... di vedere quello squarcio nel collo, quel lago di sangue. Abbiamo comunque chiesto che venisse mandata un'ambulanza. Di lì a pochi minuti è arrivata la prima auto della polizia e ci è stato intimato di rientrare nell'edificio e la porta è stata sigillata. Ho parlato con un agente. Una certa Peabody.» Si passò le dita sulle tempie. «Le ho detto che la vittima era Louise, poi sono rientrata a preparare la trasmissione. E per tutto il tempo non ho fatto che pensare: Dovevo esserci io al suo posto. Io ero viva, di fronte alle telecamere, e lei era morta. Dovevo esserci io al suo posto.» «Non doveva esserci nessuno.» «Siamo state noi due a ucciderla, Dallas.» La voce di Nadine era tornata ferma. «Tu e io.» «Suppongo che questo rimorso non ci abbandonerà più per tutto il resto della nostra vita.» Eve inspirò profondamente, poi si piegò in avanti. «Rivediamo di nuovo la successione temporale dei fatti, Nadine. Passo dopo passo.» 13 A volte, si disse Eve, la faticosa routine delle indagini di polizia finiva per dare frutti. Come una slot machine che esigeva di essere imboccata in continuazione, in modo stupido e monotono, e che ti lasciava quasi senza parole quando la cascata di monetine ti finiva in grembo. Andò proprio così, allorché a cadere nel grembo di Eve fu David Angelini. Lei si stava ponendo diverse domande su piccoli dettagli relativi al caso Kirski. L'esatta successione temporale degli eventi era uno di questi. Nadine si era concessa il solito momento di pausa, ma al posto suo era
uscita la Kirski, che alle ventitré e quattro minuti era passata davanti al custode nell'atrio. Si era incamminata verso la pioggia, e verso una lama affilata. Qualche minuto dopo Morse era giunto nel parcheggio esterno dell'emittente televisiva, era uscito di corsa dalla propria auto, era quasi inciampato nel cadavere, aveva dato di stomaco e si era precipitato all'interno per comunicare la notizia dell'omicidio. Tutti quei fatti erano avvenuti molto in fretta, meditò Eve, uno dietro l'altro, in una manciata di minuti. Secondo la prassi consueta, esaminò i nastri delle postazioni di videosorveglianza ai cancelli di Channel 75, anche se non riteneva possibile trovarvi la prova che l'assassino li avesse superati in auto, avesse lasciato quest'ultima nel parcheggio riservato, si fosse avviato a piedi verso la porta da cui si aspettava di veder uscire Nadine, avesse sgozzato Louise per sbaglio e fosse quindi fuggito a bordo della propria vettura. Il killer avrebbe potuto altrettanto facilmente raggiungere l'edificio a piedi, passando dalla 3rd Avenue, cioè seguendo lo stesso tragitto che Louise aveva intenzione di fare. La sorveglianza ai cancelli serviva unicamente a garantire ai soli dipendenti di Channel 75 di poter lasciare la propria auto nel parcheggio riservato e a impedire che gli eventuali ospiti si trovassero fra i piedi qualche guidatore frustrato alla ricerca di un posto accanto alla strada in cui mollare il proprio mezzo di trasporto, terrestre o aereo che fosse. Ma Eve ricontrollò quei nastri perché così voleva la routine e anche perché, come confessò a se stessa, sperava che la versione di Morse facesse acqua da qualche parte. Lui aveva riconosciuto l'impermeabile di Nadine e doveva essere a conoscenza dell'abitudine della giornalista di uscire per una breve e solitaria pausa prima della trasmissione di mezzanotte. Non c'era nulla che Eve avrebbe desiderato di più, personalmente e a un livello basilare, quasi primitivo, del mettere con le ossute spalle al muro quel bastardo. Fu allora che vide l'elegante vetturetta italiana a due posti avvicinarsi ai cancelli come un gatto dal pelo lustro. L'aveva già notata in precedenza, parcheggiata davanti alla casa del comandante dopo la cerimonia funebre per Cicely. «Fermo così», ordinò e l'immagine sul monitor si immobilizzò. «Ingrandire settore fra ventitré e trenta, a tutto schermo.» L'apparecchio mandò un tintinnio, poi si udì uno scatto e l'immagine sfarfallò. Lasciandosi sfuggire un ringhio spazientito, Eve sferrò un colpo allo schermo con la parte inter-
na del polso, ripristinando l'immagine. «Maledetti tagli alle spese», mormorò, quindi cominciò a sorridere, piano, come se stesse pregustando qualcosa. «Bene, bene, Mr Angelini.» Quando il volto di David le riempì lo schermo, inspirò profondamente. Il giovane aveva l'aria impaziente, si disse. Pareva distratto, nervoso. «Che diavolo ci facevi, proprio lì?» mormorò, lanciando una rapida occhiata nell'angolo in basso a sinistra del monitor, dove l'indicazione dell'ora era rimasta a sua volta immobilizzata. «Alle ore ventitré, due minuti e cinque secondi?» Si appoggiò allo schienale della sedia e con una mano frugò in un cassetto della scrivania, senza distogliere lo sguardo dal monitor, dopo di che, distrattamente, diede un morso a uno snack dolce che doveva fungere da colazione, dal momento che non era ancora ripassata da casa. «Stampare su carta», ordinò. «Poi tornare all'immagine originale e stampare anche quella.» Attese pazientemente che il suo ansimante apparecchio eseguisse quanto gli era stato ordinato. «Continuare a far scorrere il nastro, a velocità normale.» Mordicchiando la sua colazione, osservò la costosa auto sportiva uscire sgommando dalla visuale della telecamera. L'immagine si oscurò un attimo. Eppure Channel 75 avrebbe potuto permettersi le più moderne e sofisticate apparecchiature mobili di videosorveglianza. L'ora digitale in sovraimpressione segnava undici minuti in più quando sul monitor comparve l'auto di Morse. «Interessante», mormorò Eve, poi a voce alta ordinò: «Copiare il nastro e trasferire la copia nel file 47833-K, intestato a Kirski, Louise. Nella cartella Omicidi. Fare rimando al file 47801-T, Towers, Cicely, e al file 47815-M, Metcalf, Yvonne. Entrambi nella cartella Omicidi». Girando le spalle allo schermo, accese il videotelefono. «Feeney.» «Dallas.» Si cacciò in bocca l'ultimo pezzo di un cannolo. «Ci sto lavorando. Cristo, sono appena le sette di mattina.» «Lo so che ore sono. Ho trovato qualcosa di interessante, Feeney.» «Accidenti.» Sul suo volto già grinzoso si disegnarono altre rughe. «Mi viene un colpo ogni volta che te lo sento dire.» «Sul nastro delle telecamere di sorveglianza situate presso il cancello di Channel 75 ho visto David Angelini entrare una decina di minuti prima che il corpo di Louise Kirski venisse scoperto.» «Merda, merda, merda. Chi lo dirà al comandante?» «Io... ma dopo aver fatto una chiacchierata con Angelini. Ho bisogno
che tu mi copra le spalle, Feeney. Sto facendo una copia di tutto ciò che ho trovato, escluso David. La porterai tu al comandante e gli dirai che io mi sono presa un paio d'ore di libertà.» «Già, come se lui potesse cascarci.» «Feeney, dimmi che ho bisogno di dormire un po'. Dimmi che farai rapporto tu al comandante e dimmi di andare pure a casa e di concedermi un paio d'ore di sonno.» Feeney si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Dallas, hai bisogno di dormire. Farò rapporto io al comandante. Va" a casa e riposati per un paio d'ore.» «Adesso puoi ripetere queste stesse cose a Whitney», tagliò corto Eve, mettendo fine alla comunicazione. Come la routine del lavoro investigativo, così anche il fiuto di un poliziotto a volte dava i suoi frutti. Eve intuì istintivamente che David si sarebbe rintanato in un ambiente familiare, perciò la sua prima mossa fu quella di recarsi nel pied-à-terre di Marco Angelini, in un ricco quartiere dell'East Side. In quella zona gli alti e stretti edifici in mattoni, costruiti una trentina d'anni prima, riproducevano fedelmente quelli edificati nel diciannovesimo secolo e distrutti all'alba del ventunesimo quando la maggior parte delle infrastrutture di New York si era rivelata fatiscente. In quel quartiere le lussuose dimore newyorkesi erano state quasi tutte condannate a morte e rase al suolo e, dopo lunghe discussioni, se ne erano erette di nuove, ispirate però all'antica tradizione, una tradizione che soltanto le persone più facoltose avevano potuto permettersi di seguire. Dopo una ricerca durata dieci minuti, Eve riuscì a trovare un buco in cui parcheggiare la sua auto in mezzo a costose vetture europee e americane. Sulla sua testa, tre piccoli velivoli privati si contendevano lo spazio aereo girando in tondo nella speranza di individuare una pista d'atterraggio libera. A quanto pareva, in quel quartiere il trasporto pubblico non era in cima alla lista delle priorità e il terreno costava troppo caro per sprecarlo per un garage. New York era pur sempre New York, comunque, perciò Eve chiuse a chiave le portiere della sua scalcagnata auto di servizio prima di incamminarsi sul marciapiede. Osservò un adolescente su uno skateboard volante che, dopo esserle passato accanto, approfittò della presenza di quel ristretto
pubblico per esibirsi in alcune complicate manovre che terminarono con una lunga carambola. Non volendo deluderlo, Eve gli rivolse un sorriso ammirato. «Sei davvero bravo.» «È il mio passatempo preferito», rispose il ragazzo con una voce che altalenava fra pubertà e maturità e con una sicurezza inferiore a quella con cui sfrecciava sul marciapiede. «Lei ci sa andare?» «No. Per me è troppo rischioso.» Riprese a camminare, con l'adolescente che le roteava attorno muovendo l'asse con un rapido gioco di piedi. «In cinque minuti posso mostrarle alcune delle mosse più facili.» «Lo terrò a mente. Lo sai chi abita lì, al ventuno?» «Al ventuno? Sì, certo, Mr Angelini. Ma lei non è una delle sue pollastrelle.» Eve si fermò. «No?» «Andiamo.» Il ragazzo abbozzò un sorriso, mettendo in mostra una dentatura perfetta. «A lui piacciono le tipe dall'aria distinta. Più vecchie, anche.» Eseguì un rapido guizzo in verticale, passandole da un fianco all'altro. «E lei non sembra neppure una domestica. In ogni caso lui si serve di droidi come persone di servizio.» «Ha molte pollastrelle?» «Io qui ne ho viste poche. Vengono sempre con un'auto privata. A volte restano fino al mattino, ma non capita spesso.» «Come fai a saperlo?» Il ragazzo sorrise, senza il minimo segno di imbarazzo. «Abito proprio di fronte.» Indicò una casa sul lato opposto della strada. «Mi piace curiosare.» «Okay, perché allora non mi dici se ieri sera qualcuno è andato da lui?» Il ragazzo ruotò lo skateboard, girò su se stesso. «E perché dovrei?» «Perché io sono della polizia.» Lui sbarrò gli occhi mentre esaminava il distintivo. «Uau. Fantastico. Ehi, non vorrà mica dirmi che Angelini ha fatto fuori la sua vecchia? Mi devo tenere aggiornato sulle ultime novità, per servirmi di queste stronzate quando torno a scuola.» «Questo non è mica un quiz. Ieri sera non hai curiosato? Come ti chiami?» «Barry. Ieri sera ho bighellonato, guardando un po' la televisione, ascoltando musica. In realtà avrei dovuto studiare per quello schifo di compito finale in tecnica informatica.»
«Perché oggi non sei a scuola?» «Ehi, lei non sarà mica uno di quegli ispettori scolastici?» Nel suo sorriso apparve una punta di nervosismo. «È troppo presto per andare in classe. In ogni caso ho avuto i soliti tre giorni di permesso. Seguo le lezioni sul computer di casa.» «Va bene. Dimmi di ieri sera.» «Mentre stavo bighellonando, ho visto Mr Angelini uscire. Verso le otto, mi pare. Poi, più tardi, doveva essere circa mezzanotte, si è fermata davanti a casa una vettura fantastica, un vero schianto. L'uomo al volante è rimasto seduto per un po', sembrava quasi che non riuscisse a decidersi a mettere i piedi a terra.» Barry eseguì una rapida giravolta, saltando da un'estremità all'altra dello skateboard. «Finalmente è sceso. Ma camminava in modo strano. Ho pensato che avesse bevuto troppo. È entrato diritto filato in casa, perciò conosceva il codice d'ingresso. Non ho visto Mr Angelini tornare, probabilmente stavo sonnecchiando. Sa, quando continui a curiosare ti si chiudono gli occhi.» «Ho capito, stavi dormendo. Stamattina hai visto qualcuno uscire di casa?» «Nessuno, ma quell'auto fantastica è ancora qui.» «Capisco. Grazie.» «Ehi.» Le corse dietro. «È una figata fare il poliziotto?» «A volte sì, a volte no.» Eve salì i pochi gradini che portavano all'ingresso della casa di Angelini e dichiarò le proprie generalità allo spioncino elettronico che, con voce fredda, le aveva chiesto di farsi identificare. «Mi dispiace, tenente, in casa non c'è nessuno. Se è così gentile da lasciare un messaggio, riceverà la risposta non appena sarà possibile.» Eve fissò direttamente lo spioncino. «C'è un piccolo particolare da tenere presente. Se in casa non c'è nessuno, tornerò alla mia auto e chiederò un mandato per entrare ed effettuare una perquisizione. Non mi ci vorranno più di dieci minuti.» Restò dov'era e, dopo meno di un paio di minuti d'attesa, David Angelini le aprì la porta. «Tenente.» «Mr Angelini. Vuole che parliamo qui o alla centrale? A lei la scelta.» «Entri.» Si tirò indietro per farla passare. «Sono arrivato a New York solo ieri sera. Stamattina sono ancora un po' disorientato.» Dopo aver condotto Eve in un salotto dal soffitto alto e con un arreda-
mento dai colori scuri, le offrì gentilmente un caffè, che lei rifiutò con pari gentilezza. Il giovane indossava un paio di pantaloni stretti con risvolto, come quelli che Eve aveva visto nelle strade di Roma, e una camicia di seta con le maniche larghe, tutto nello stesso color crema. Aveva anche le scarpe in tinta, calzature dall'aria così soffice che un polpastrello vi avrebbe potuto lasciare la propria impronta. Ma non riusciva a tenere gli occhi fermi e, quando si sedette, continuò a tamburellare ritmicamente con le dita sui braccioli della poltroncina. «Ha altre informazioni da darmi sulla morte di mia madre?» «Lei sa perfettamente perché io sono qui.» Il giovane si passò la lingua sulle labbra e cambiò posizione sul sedile, con un così scoperto disagio da far intuire, pensò Eve, perché se la cavasse tanto male al tavolo da gioco. «Come?» Lei posò il registratore sul tavolo, in bella vista. «David Angelini, le espongo i suoi diritti: non è obbligato a fare alcuna dichiarazione, ma, se vuole farla, le sue parole saranno registrate e potranno essere usate contro di lei in tribunale o in un qualsiasi procedimento legale. Lei ha anche diritto a richiedere la presenza e i suggerimenti di un avvocato o di un consigliere.» Continuò a recitargli brevemente gli altri suoi diritti, mentre il respiro di David si faceva più pesante e udibile. «Di che cosa mi si accusa?» «Per il momento non sono state formulate accuse nei suoi confronti. Ha capito bene quali sono i suoi diritti?» «Certo che ho capito.» «Vuole chiamare il suo legale?» Lui spalancò la bocca, emettendo un respiro tremolante. «Non ancora. Mi auguro che lei, tenente, possa spiegarmi più chiaramente il motivo di questo interrogatorio.» «Credo di poterlo fare in modo cristallino. Mr Angelini, dove si trovava fra le ventitré di ieri, 31 maggio, e le dodici di oggi, primo giugno?» «Le ho già detto che sono appena arrivato in città. Giunto in aeroporto, ho preso la mia auto e ho guidato fin qui.» «È venuto qui direttamente dall'aeroporto?» «Esattamente. Avevo un appuntamento per la serata, ma l'ho... l'ho disdetto.» Si sbottonò il colletto della camicia, come se avesse bisogno d'aria. «L'ho spostato ad altra data.» «A che ora è giunto in aeroporto?» «Il mio volo è atterrato verso le ventidue e trenta, mi pare.»
«Dopo di che lei è venuto qui.» «È esattamente quello che ho detto.» «Sì, l'ha detto.» Eve inclinò di lato la testa. «E ha mentito. Ma lei è un pessimo bugiardo. Quando bluffa, suda.» Consapevole del rivolo freddo che gli correva lungo la schiena, il giovane si alzò. Tentò di parlare con un tono di voce indignato, ma la paura finì per farvi capolino. «Ritengo sia il caso, tutto sommato, di contattare il mio legale. E il suo superiore, tenente. Rientra fra le normali procedure di polizia quella di molestare la gente innocente in casa propria?» «Se può servire», mormorò Eve. «Comunque lei non è innocente. Forza, telefoni al suo avvocato, poi mi segua alla centrale di polizia.» Ma il giovane non accennò a muoversi verso il videotelefono. «Non ho fatto nulla.» «Tanto per cominciare, ha mentito consapevolmente a un funzionario di polizia. Chiami il suo legale.» «Aspetti, aspetti un attimo.» Strofinandosi una mano sulla bocca, David prese a camminare avanti e indietro nella stanza. «Non è necessario. Non è necessario ricorrere a questi estremi rimedi.» «Sta a lei deciderlo. Intende rettificare la sua precedente affermazione?» «È un fatto delicato, tenente.» «Strano, ho sempre creduto, io, che l'omicidio fosse un fatto brutale.» Lui continuò a camminare, tormentandosi le mani. «Deve capire che al momento i miei affari corrono sul filo del rasoio. Una pubblicità negativa metterebbe a rischio alcune transazioni. Fra una settimana, due al massimo, sarà tutto risolto.» «E lei crede che io possa tenere le mie indagini in sospeso per darle il tempo di sistemare i suoi problemi finanziari?» «Sono pronto a ricompensare il suo tempo e la sua discrezione.» «Davvero?» Eve sbarrò gli occhi. «Che tipo di compenso sta suggerendo, Mr Angelini?» «Potrei darle diecimila dollari.» Si sforzò di sorridere. «E il doppio, se lei tirasse per sempre un pietoso velo su questa storia.» Eve incrociò le braccia e dettò al registratore: «Si metta a verbale che David Angelini ha cercato di corrompere il tenente Eve Dallas, responsabile delle indagini, offrendole del denaro, e che tale offerta è stata rifiutata». «Puttana», mormorò lui. «Lo dica pure. Ieri sera lei si è recato nella sede di Channel?» «Non ho mai affermato una cosa simile.»
«Tagliamo la testa al toro. Lei è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza mentre varcava i cancelli dell'emittente televisiva.» Per dare più peso alle sue parole, aprì la borsa, ne estrasse la copia stampata del fotogramma in cui compariva il viso di Angelini e la posò sul tavolo. «Le telecamere di sorveglianza.» Le sue gambe sembrarono piegarsi sotto di lui, tanto da costringerlo ad accasciarsi su una sedia. «Non avrei mai pensato... non mi sarebbe mai venuto in mente. Ero in preda al panico.» «Non mi meraviglia che ci si lasci prendere dal panico, dopo aver appena tagliato la giugulare a un essere umano.» «Io non l'ho neanche sfiorata. Non mi sono neppure avvicinato. Mio Dio, le sembro un assassino?» «Ce ne sono di tutti i tipi. Ma lei era lì, ne ho le prove. Su le mani!» esclamò bruscamente, mentre la sua correva alla fondina. «Tenga le mani lontane dalle tasche.» «In nome di Dio, non crederà mica che io ci tenga un pugnale?» Lentamente tirò fuori un fazzoletto e si asciugò la fronte. «Non conoscevo neppure Louise Kirski.» «Ma sa come si chiamava.» «L'ho sentito in televisione.» Chiuse gli occhi. «Ho sentito annunciare la sua morte in televisione. E ho visto l'uomo che l'ha uccisa.» I muscoli delle spalle di Eve si contrassero, ma, diversamente da David, lei sapeva controllarsi. Mantenne inespressivi volto e voce quando chiese: «E allora perché non mi racconta ogni cosa?» Il giovane si tormentò di nuovo le mani, allacciando le dita, torcendosele. Portava due anelli, uno con un diamante e l'altro con un rubino, entrambi con una pesante montatura in oro, che nell'urtarsi mandarono tintinnii melodiosi. «Deve tenere il mio nome fuori da questa storia.» «No, non lo farò», replicò Eve, con voce piatta. «Non posso scendere a patti. Sua madre, Mr Angelini, era un procuratore distrettuale, perciò lei dovrebbe sapere che un eventuale accordo di questo genere potrà essere pattuito dall'ufficio del procuratore e non da me. Ho già messo a verbale la sua precedente menzogna.» Mantenne un tono calmo, distaccato. Quando si interrogava un indiziato nervoso, era meglio parlare in modo tranquillizzante. «Le sto offrendo l'opportunità di rettificare quanto mi ha dichiarato all'inizio e le ricordo pure che ha il diritto di chiedere l'intervento di un legale in un qualsiasi momento di questo interrogatorio. Ma, se vuole parlare, parli adesso. Comincerò io con qualche domanda, per facilitarle le cose. Perché ieri sera
era a Channel 75?» «Dovevo incontrarmi lì con una persona, sul tardi. Le ho detto che avevo un appuntamento che però ho cancellato, ed è la verità. Noi stavamo... io stavo lavorando a un progetto futuro. La società Angelini si interessa anche all'industria dell'intrattenimento. Stavamo preparando sceneggiati, spettacoli di varietà, servizi speciali per la programmazione domestica. Carlson Young, il capo della divisione intrattenimento dell'emittente televisiva, si era dato molto da fare per rendere operativi questi progetti. Dovevo incontrarlo nel suo ufficio.» «Un po' fuori orario, non le pare?» «Nel settore dell'intrattenimento non esiste quello che lei potrebbe definire un normale orario di lavoro. Sia lui sia io avevamo le giornate fitte di appuntamenti e quella era un'ora che andava bene a entrambi.» «Perché per parlare non vi siete serviti del telefono?» «Buona parte dei nostri affari è stata trattata telefonicamente, ma eravamo entrambi convinti che fosse arrivato il momento di incontrarci di persona. Speravamo... e lo spero ancora... che il primo sceneggiato potesse andare in onda in autunno. Avevamo già il copione», continuò, quasi parlando fra sé, «e la casa di produzione si era messa in moto. Erano già stati firmati i contratti per alcuni dei membri del cast.» «Dunque, lei aveva un appuntamento a tarda sera con Carlson Young di Channel 75.» «Sì. Ma il maltempo mi aveva ostacolato un po' ed ero in ritardo.» Sollevò la testa. «L'ho chiamato dalla mia auto. Può verificarlo, dai tabulati telefonici. L'ho chiamato qualche minuto prima delle undici, quando mi sono reso conto che non ce l'avrei fatta ad arrivare all'ora fissata.» «Verificheremo ogni cosa, Mr Angelini. Ci conti.» «Quando ho varcato il cancello, ero distratto, pensavo a... ai problemi legati al cast. Così ho svoltato. Sarei potuto arrivare direttamente all'ingresso principale, se non avessi avuto la mente rivolta a tutt'altro. Ho fermato la macchina e mi sono reso conto che dovevo tornare indietro. In quel momento ho visto...» Usò il fazzoletto per fregarsi la bocca. «Ho visto qualcuno uscire da una porta. Poi è apparsa un'altra figura, doveva essere già lì in attesa, in agguato. Si è mossa con la rapidità del fulmine. Tutto è accaduto in un baleno. La donna si è voltata e io l'ho vista in faccia. Per una frazione di secondo le ho visto il volto, in piena luce. La mano di quell'altro si è sollevata. In un attimo, rapidissima. E... mio Dio. Il sangue. È sgorgato a fiotti, come una fontana. Non capivo. Non riuscivo a capaci-
tarmi... È zampillato all'improvviso. La donna si è accasciata a terra e l'uomo è fuggito, è scomparso.» «Lei che cosa ha fatto?» «Io... io sono rimasto seduto in macchina. Non so per quanto tempo. Poi sono ripartito. Non ricordo quasi nulla, se non che ho guidato e che mi sembrava di trovarmi in un incubo. La pioggia, i fari delle altre auto. Poi mi sono ritrovato qui. Non ricordo come ci sono arrivato, ma ero davanti a casa, nella mia vettura. Ho chiamato Young e gli ho detto che avevo avuto un altro contrattempo, che dovevamo rinviare l'incontro. Sono entrato, in casa non c'era nessuno. Ho ingoiato un sedativo e sono andato a letto.» Eve lasciò che il silenzio ristagnasse un attimo. «Vediamo se ho capito bene. Lei si stava recando a un appuntamento, ha preso la strada sbagliata e ha visto uccidere brutalmente una donna. Allora ha tagliato la corda, ha disdetto l'appuntamento ed è andato a dormire. Giusto?» «Sì. Sì, direi di sì.» «Non le è venuto in mente di smontare dall'auto e andare a vedere se poteva soccorrere la donna? O magari usare il telefono che ha in macchina per avvisare la polizia, chiamare un'ambulanza?» «Non ci ho pensato. Ero sconvolto.» «Lei era sconvolto. Perciò è venuto a casa, ha preso un sonnifero ed è andato a letto.» «È quanto le ho detto», proruppe il giovane. «Ho bisogno di bere qualcosa.» Con le mani sudate annaspò in cerca di un pulsante. «Vodka», ordinò. «Un'intera bottiglia.» Eve lo lasciò cuocere a fuoco lento finché non arrivò il robot domestico con una bottiglia di Stoli e un bicchierino tozzo su un vassoio. Gli lasciò anche il tempo di bere. «Non c'era nulla che io potessi fare», mormorò David, sollecitato da quel suo silenzio, proprio come lei aveva sperato. «Sua madre è stata uccisa alcune settimane fa nel modo che lei mi ha appena descritto. Non ci ha pensato?» «Questo ha complicato le cose.» Si versò altra vodka, la trangugiò. Fu scosso da un brivido. «Ero scioccato e... atterrito. La violenza non fa parte della mia vita, tenente. Faceva parte della vita di mia madre, un aspetto della sua esistenza che non sono mai riuscito a comprendere. Lei capiva la violenza», aggiunse con un filo di voce. «La accettava.» «E lei ne era turbato, Mr Angelini? Provava rancore per il fatto che sua madre capisse la violenza e fosse tanto forte da affrontarla? Che lottasse
per sconfiggerla?» Il respiro del giovane si fece rapido e ansante. «Amavo mia madre. Quando ho visto uccidere quell'altra donna, nello stesso modo in cui era stata uccisa la mamma, non ho pensato ad altro che a fuggire.» Esitò, bevve un ultimo sorso di vodka. «Crede che io non sappia che lei continua a tenermi d'occhio, a fare domande su di me, a scavare nella mia vita personale e in quella professionale? Sono già un indiziato. Fino a che punto avrei peggiorato la mia situazione se mi fossi fatto trovare lì, proprio lì, sulla scena di un altro delitto?» Eve si alzò. «Fra poco lo scoprirà.» 14 Eve lo interrogò di nuovo, nella meno confortevole Stanza C della centrale di polizia. Poiché David si era finalmente lasciato convincere a chiedere l'ausilio di un legale, ora tre avvocati dallo sguardo gelido, tutti in abito gessato, sedevano attorno al tavolo a fianco del loro cliente. Eve li aveva mentalmente soprannominati la Capa, lo Scagnozzo e il Riccetto. Fra i tre, quello che sembrava avere il ruolo più importante era la Capa, così ribattezzata per via della voce dal tono autoritario e del severo taglio di capelli a caschetto. I soci di costei parlavano poco, ma avevano l'aria molto compresa e di tanto in tanto annotavano qualcosa di apparentemente decisivo sui soliti blocchi di carta gialla di cui gli avvocati sembravano non essere mai stufi. A tratti il Riccetto, con la larga fronte corrugata, batteva un paio di tasti sul suo portatile e, con aria da cospiratore, mormorava qualcosa all'orecchio dello Scagnozzo. «Tenente Dallas.» La Capa allacciò sul tavolo le mani, le cui unghie violentemente scarlatte sporgevano dai polpastrelli di un buon paio di centimetri. «Il mio cliente è ansioso di collaborare.» «Finora non lo è stato, come lei avrà potuto verificare leggendo il verbale del precedente interrogatorio», ribatté Eve. «Dopo aver ritrattato la sua prima versione dei fatti, il suo cliente ha ammesso di aver lasciato la scena del delitto senza denunciare alle autorità competenti il crimine di cui dice di essere stato testimone.» La Capa sospirò, o, meglio, emise uno sbuffo stizzito. «Lei può ovviamente incriminare Mr Angelini per simili scorrettezze. Noi, a nostra volta,
addurremo a sua difesa la diminuita lucidità mentale, lo shock, il trauma emotivo derivante dal recente assassinio della madre. Il che porterà soltanto a uno spreco di tempo, quello dei magistrati, e di denaro, quello dei contribuenti.» «Per il momento non ho incriminato il suo cliente per queste... scorrettezze. Stiamo valutando se non sia il caso di rivolgergli un'accusa ben più pesante.» Il Riccetto scribacchiò qualcosa e inclinò il blocco affinché lo Scagnozzo potesse leggere. I due si scambiarono poi qualche bisbiglio, con aria molto seria. «Lei ha avuto conferma dell'appuntamento che il mio cliente aveva a Channel 75.» «Sì, aveva un appuntamento, da lui disdetto alle ventitré e trentacinque. Strano come la diminuita lucidità mentale e il trauma emotivo si siano momentaneamente dileguati quando si è trattato di sistemare una questione d'affari.» Prima che la Capa potesse replicare, Eve si voltò e lanciò a David Angelini un'occhiata dura e tagliente. «Conosce Nadine Furst?» «So chi è. L'ho vista in televisione.» Esitò, si chinò a consultare la Capa. Dopo un attimo, annuì. «L'ho incontrata qualche volta in società e ho scambiato con lei quattro parole dopo la morte di mia madre.» Eve, che lo sapeva già, continuò a tallonare la preda. «Sono sicura che ne avrà visto i servizi televisivi, perché non potevano non interessarle, dal momento che vertevano sui recenti omicidi. Fra cui quello di sua madre.» «Tenente, che cosa ha a che vedere con l'assassinio di Ms Kirski l'interesse del mio cliente per ciò che i media hanno detto della morte di sua madre?» «Me lo sto chiedendo. Nelle ultime due settimane, Mr Angelini, ha visto i servizi di Nadine Furst?» «Certo.» Si era ripreso a sufficienza da sorridere beffardamente. «Lei, tenente, vi ha ottenuto molto spazio.» «Il che la infastidisce?» «Mi sembra quanto mai disdicevole che un dipendente pubblico, pagato dalla comunità locale, cerchi di mettersi in mostra sfruttando una tragedia.» «Ho l'impressione che questo la mandi su tutte le furie», replicò Eve, disinvolta. «Anche Ms Furst si è guadagnata così una bella notorietà.» «Da una che fa quel mestiere, ci si può solo aspettare che sfrutti le sofferenze altrui per i propri interessi.»
«Non le sono piaciuti quei servizi?» «Tenente», intervenne la Capa, la cui pazienza cominciava chiaramente a esaurirsi. «Non capisco quale sia il nesso.» «Questo non è un dibattimento processuale, non ancora. Non ho bisogno di fare domande pertinenti. Si è sentito irritato da quei servizi, Mr Angelini? Si è infuriato?» «Io...» Si interruppe, sotto la brusca occhiata della Capa. «Vengo da una famiglia importante», riprese con maggiore cautela. «Siamo abituati a queste cose.» «Non potremmo tornare all'argomento in questione?» chiese la Capa. «È questo l'argomento in questione. Louise Kirski indossava l'impermeabile di Nadine Furst quando è stata uccisa. Sa che cosa sospetto, Mr Angelini? Sospetto che l'assassino abbia colpito il bersaglio sbagliato. Sospetto che stesse aspettando Nadine e che Louise abbia semplicemente scelto il momento sbagliato per uscire sotto la pioggia in cerca di sigarette.» «Questo non ha nulla a che fare con me.» Lo sguardo di David corse fulmineo ai suoi avvocati. «Io non c'entro in tutto questo. Ho solo assistito all'omicidio. Tutto qui.» «Ha detto che a uccidere è stato un uomo. Che aspetto aveva?» «Non lo so. Non l'ho visto chiaramente, mi dava le spalle. E tutto è avvenuto così in fretta.» «Ma ha visto a sufficienza da capire che si trattava di un uomo.» «Ho creduto che lo fosse.» Si interruppe nuovamente, sforzandosi di controllare il respiro mentre la Capa gli bisbigliava qualcosa in un orecchio. «Stava piovendo», riprese, «e io ero in macchina, a diversi metri di distanza.» «Ha detto di aver visto il volto della vittima.» «C'era una luce e lei ha girato la faccia da quella parte nel momento in cui lui... l'omicida... le è piombato addosso.» «E l'omicida, che potrebbe essere un uomo ed è saltato fuori dal nulla, era alto o basso, vecchio o giovane?» «Non lo so. Era buio.» «Ha appena detto che c'era una luce.» «Solo quella e il chiarore era circoscritto. L'omicida era in ombra. Era vestito di scuro», aggiunse, come per un improvviso lampo di memoria. «Un lungo soprabito nero... e. un cappello, con la tesa bassa.» «Ma pensa! Era vestito di scuro. Quale originalità.» «Tenente, dovrò suggerire al mio cliente di non collaborare più se lei si
ostina a usare questo tono sarcastico.» «Il suo cliente è nei guai fino al collo. Il mio sarcasmo è la più infima delle sue preoccupazioni. Abbiamo i tre elementi sostanziali: mezzo, movente, opportunità.» «Lei non ha nulla, a parte l'ammissione fatta dal mio cliente di aver assistito a un delitto. Inoltre», proseguì la Capa, battendo quelle pericolose unghie sul tavolo degli interrogatori, «non ha assolutamente nulla che colleghi il mio assistito agli altri omicidi. Ciò che lei ha, tenente, è un maniaco a piede libero e un disperato bisogno di compiere un arresto per soddisfare i suoi superiori e l'opinione pubblica. Ma non sarà il mio cliente a cavarle le castagne dal fuoco.» «Quanto a questo, lo vedremo. Ora...» Eve sentì ronzare il suo cellulare, due volte, segno che a chiamarla era Feeney. Mentre il livello di adrenalina nel suo sangue saliva bruscamente, lei nascose l'eccitazione dietro un blando sorriso. «Scusatemi, torno fra un attimo.» Uscì dalla stanza, nel corridoio. Lanciò un'occhiata attraverso il vetro a specchio e vide che i quattro che si era lasciata alle spalle stavano confabulando furiosamente. «Dammi qualche buona notizia, Feeney. Voglio inchiodare quel figlio di puttana.» «Buone notizie?» Feeney si fregò il mento. «Be', ne ho una che ti potrebbe mandare in visibilio. Yvonne Metcalf stava trattando con quel tuo tipo. Trattative riservate.» «Per che cosa?» «La parte principale in un film. Tutto si svolgeva in gran segreto perché c'era di mezzo il contratto per Tune In. Sono finalmente riuscito a far parlare l'agente della Metcalf. Se lei avesse avuto quella parte, avrebbe dovuto mollare la sit-com. Ma aveva intenzione di chiedere un compenso più alto, la garanzia che tutto il cast fosse di ottima qualità, la distribuzione a livello mondiale e un lancio pubblicitario ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Aveva pretese pesanti, a quanto pare.» «Stava spremendo Angelini. Da ciò che mi ha detto l'agente mi è parso di capire che lui avesse bisogno della Metcalf per assicurarsi i finanziamenti, ma chi doveva metterci il denaro voleva un grosso tornaconto. Angelini si stava arrampicando sugli specchi per soddisfarli e salvare il progetto.» «Dunque lui la conosceva. E la Metcalf lo teneva in pugno.» «Sempre secondo l'agente, Angelini è andato parecchie volte di persona a trovare la Metcalf. Per un paio di tête-à-tête si era recato persino nell'ap-
partamento di lei. Aveva anche cercato di metterle le mani addosso, ma l'attrice aveva spento i suoi bollori con una risata. Era convinta che lui avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco.» «Che soddisfazione vedere che le tessere del puzzle cominciano a concatenarsi, non ti pare?» Si voltò a fissare Angelini al di là del vetro. «Abbiamo un collegamento, Feeney. Lui conosceva tutt'e tre le vittime.» «Ma, quando la Metcalf è stata uccisa, ci risulta che lui si trovasse sulla West Coast.» «Quanto ci scommetti che ha noleggiato un aereo privato? Sai una cosa, Feeney, che ho appreso frequentando Roarke? I piani di volo sono carta straccia se hai denaro a sufficienza e un tuo velivolo personale. No, a meno che Angelini non ci faccia i nomi di dieci testimoni che gli stavano baciando le chiappe mentre la Metcalf veniva assassinata, l'ho in pugno. Sta' a vedere come gli faccio sudare sangue», mormorò, rientrando nella stanza degli interrogatori. Si sedette, incrociò le braccia sul tavolo e piantò il proprio sguardo in quello di David. «Lei conosceva Yvonne Metcalf.» «Io...» Sbalestrato, il giovane sollevò una mano e si strattonò il colletto della camicia. «Certo, io... tutti la conoscevano.» «Ma lei aveva rapporti d'affari con la Metcalf, la incontrava di persona, è persino stato nel suo appartamento.» Particolari di cui la Capa era apparentemente all'oscuro, perché serrò i denti e alzò una mano. «Un attimo, tenente. Vorrei conferire in privato con il mio assistito.» «Va bene.» Eve si alzò cortesemente e uscì nel corridoio, da dove osservò la stanza attraverso il vetro, pensando che era un vero peccato che la legge le vietasse di attivare l'audio. Vide comunque che la Capa subissava David di domande e intuì che lui rispondeva balbettando, mentre lo Scagnozzo e il Riccetto scrivevano furiosamente sui loro blocchi, con aria tetra. La Capa replicò a una delle risposte di David scuotendo la testa e puntandogli contro una delle sue letali unghie scarlatte. Quando alzò una mano per segnalare che il consulto con il suo assistito era terminato, Eve stava sorridendo. «Il mio cliente è pronto ad ammettere di aver avuto rapporti a livello professionale con Yvonne Metcalf.» «Uh-uh.» Stavolta Eve si sedette sul bordo del tavolo. «Yvonne Metcalf le dava qualche dispiacere, non è così, Mr Angelini?»
«Stavamo trattando un affare.» Le sue mani si strinsero di nuovo, torcendosi. «È normale che l'elemento di spicco di un progetto pretenda la luna. Ma eravamo... eravamo sul punto di accordarci.» «Lei era andato a trovarla nel suo appartamento. Avete litigato?» «Noi... io... noi ci siamo incontrati in vari luoghi, compresa casa sua. Abbiamo discusso sui termini economici e sulle varie opzioni.» «Dove si trovava lei, Mr Angelini, la notte in cui Yvonne Metcalf è stata assassinata?» «Devo controllare sulla mia agenda», replicò lui con sorprendente autocontrollo. «Ma, se non sbaglio, ero a Los Angeles, nel complesso alberghiero di Planet Hollywood. Alloggio lì ogni volta che vado in quella città.» «E dove esattamente si trovava fra le ventitré e mezzanotte, ora della West Coast?» «Non sono in grado di rispondere.» «Dovrà sforzarsi di farlo, Mr Angelini.» «Molto probabilmente nella mia stanza. Avevo parecchio lavoro da fare. Il copione aveva bisogno di essere corretto.» «Il copione che lei aveva sottoposto a Ms Metcalf.» «Sì, esattamente.» «E ha lavorato da solo?» «Preferisco non avere nessuno fra i piedi quando scrivo. Sono io l'autore di quel copione, lo sapeva?» Arrossì lievemente, un rossore che gli partì dal collo. «Gli ho dedicato molto del mio tempo e delle mie energie.» «Lei possiede un aereo?» «Un aereo? Naturalmente. Siccome sono costretto a viaggiare in continuazione, io...» «E il suo aereo era a Los Angeles?» «Sì, io...» I suoi occhi si sbarrarono e lo sguardo divenne vacuo non appena lui si rese conto delle implicazioni di quella domanda. «Non starà mica parlando seriamente!» «David, siediti», disse la Capa vedendolo scattare in piedi. «Non sei tenuto a dire altro, per il momento.» «Costei è convinta che sia io l'assassino. È una follia. Crede che io abbia ucciso mia madre, santo cielo. E per quale motivo? Quale sarebbe l'eventuale movente?» «Oh, ho qualche idea in proposito. Vedremo se anche lo strizzacervelli sarà del mio stesso parere.»
«Il mio cliente non è obbligato a sottoporsi a un esame psichiatrico.» «Ritengo che lei farebbe bene a suggerirgli di non opporsi.» «Questo interrogatorio», proruppe la Capa in tono tagliente, «è terminato.» «Va bene.» Eve si alzò in piedi, godendosi il momento in cui il suo sguardo incontrò quello del giovane. «David Angelini, lei è in arresto. È accusato di essere fuggito dalla scena di un delitto e di aver ostacolato le indagini investigative e tentato di corrompere un funzionario di polizia.» Lui le balzò addosso, con le mani tese verso la sua gola. Una mossa eloquente, pensò Eve, lasciando che il giovane, con gli occhi gonfi di rabbia, la prendesse per il collo prima di mandarlo lungo disteso sul pavimento. Ignorando le furiose ingiunzioni dell'avvocatessa, si chinò su di lui. «Tralascerò di aggiungere alle accuse quelle di aggressione a pubblico ufficiale e resistenza alla forza pubblica. Non credo che ce ne sia bisogno. Portatelo via», ordinò agli agenti che piantonavano la porta. «Ottimo lavoro, Dallas», si congratulò Feeney, mentre osservavano David che si allontanava scortato dagli agenti. «Speriamo che anche l'ufficio del procuratore distrettuale sia dello stesso parere, quel tanto da non permettere il rilascio dietro cauzione. Dobbiamo tenerlo in galera e fargli sudare sangue. Voglio che contro di lui venga formulata l'accusa di omicidio premeditato. Lo voglio strenuamente, Feeney.» «Siamo a un passo dal riuscirci, figliola.» «Abbiamo bisogno di una prova concreta: quella dannata lama, tracce di sangue, gli oggetti presi come souvenir. Il profilo psichiatrico tracciato dalla dottoressa Mira ci sarà utile, ma non posso rendere più pesanti le accuse se non dispongo di prove materiali.» Impaziente, verificò l'ora sul proprio orologio. «Il magistrato non dovrebbe metterci molto tempo a rilasciare un mandato di perquisizione, anche se i legali si oppongono.» «Da quante ore non dormi?» chiese Feeney. «Posso contare le borse che hai sotto gli occhi.» «Sono in piedi da tanto di quel tempo che un paio d'ore in più o in meno non farebbe differenza. Che ne dici se ti offro qualcosa da bere mentre aspettiamo il mandato?» Feeney le appoggiò sulla spalla una mano paterna. «Ho l'impressione che presto saremo in due ad aver bisogno di un goccio di qualcosa di forte. Il comandante è stato messo al corrente di questa storia e vuole vederci, Dallas. Immediatamente.»
Eve si passò un dito in mezzo alla fronte. «Andiamo, allora. Dopo, ci concederemo una doppia razione.» Whitney non perse tempo. Nell'attimo stesso in cui Eve e Feeney misero piede nel suo ufficio, li fulminò con una lunga occhiata rovente. «Avete portato David in centrale per interrogarlo.» «Sì, signore, sono stata io.» Eve avanzò di un altro passo verso la sfuriata. «È stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza all'ingresso di Channel 75 all'ora dell'assassinio di Louise Kirski.» Poi, senza un attimo di indugio, continuò il proprio rapporto, con voce sicura e sguardo fermo. «Dunque David dice di aver assistito all'omicidio.» «Afferma di aver visto qualcuno, probabilmente di sesso maschile, con un lungo soprabito nero e un cappello, balzare addosso alla Kirski e dileguarsi poi verso la 3rd Avenue.» «E si è fatto prendere dal panico», aggiunse Whitney, controllandosi, con le mani posate sul ripiano della scrivania. «Ha lasciato la scena senza informare la polizia.» Forse stava imprecando mentalmente, forse aveva lo stomaco annodato dalla tensione, ma i suoi occhi erano freddi, duri e fermi. «Non è una reazione atipica in chi assiste di persona a un crimine violento.» «Sulle prime ha negato di essersi trovato sulla scena del delitto», replicò Eve con voce calma. «Ha tentato di insabbiare ogni cosa, cercando di corrompermi. Ha avuto l'opportunità di uccidere, comandante. Ed è ricollegabile a tutt'e tre le vittime. Conosceva la Metcalf, stava lavorando con lei su un certo progetto, era stato nel suo appartamento.» L'unica reazione di Whitney consistette nel piegare le dita, per tornare subito dopo a distenderle. «E il movente?» «Anzitutto il denaro», rispose Eve. «David Angelini si trova in gravi difficoltà finanziarie che potrà risolvere dopo che il testamento di sua madre sarà stato autenticato. Le vittime erano tutte - se nel terzo caso consideriamo non la vittima effettiva, ma quella potenziale - donne dal carattere forte che si erano imposte all'attenzione della gente. E che, in un modo o nell'altro, scatenavano in lui una tremenda rabbia. A meno che i suoi legali non riescano a impedirlo, la dottoressa Mira lo sottoporrà a un esame psichiatrico che servirà a determinare il suo stato emotivo e mentale e a stabilire la sua propensione alla violenza.» Nel ripensare alla stretta delle mani di David attorno alla sua gola, immaginò che tale propensione sarebbe risultata evidente e marcata.
«Quando sono avvenuti i primi due omicidi, lui non si trovava a New York.» «Comandante.» Provò una fitta di compassione, ma la represse. «Ha un aereo privato. Può volare dove più gli piace. Falsificare i piani di volo è un gioco da ragazzi. Non posso ancora accusarlo degli omicidi, ma voglio che resti in prigione finché non avremo raccolto prove inoppugnabili.» «Lo ha fatto arrestare perché colpevole di aver abbandonato la scena di un delitto e di aver fatto un tentativo di corruzione?» «È un arresto giustificato, comandante. Ho già richiesto il mandato di perquisizione. Quando troveremo una qualsiasi prova materiale...» «Se la troverete», l'interruppe Whitney, alzandosi in piedi, perché non riusciva più a stare seduto dietro la scrivania. «C'è un'enorme differenza, Dallas. Senza prove concrete, la sua accusa di omicidio non sta in piedi.» «È solo questo il motivo per cui tale accusa non è stata ancora ufficialmente formalizzata.» Eve gli posò sulla scrivania un foglio stampato. Lei e Feeney avevano trovato il tempo di fare un salto in ufficio e chiedere al computer l'indice di probabilità. «Conosceva le prime due vittime e Nadine Furst, aveva con loro rapporti personali, è stato sorpreso sulla scena dell'ultimo omicidio. Sospettiamo che la Towers intendesse coprire qualcuno quando ha cancellato dalla memoria del suo telefono l'ultima chiamata. Lei avrebbe potuto fare una cosa simile solo per il figlio. E i rapporti fra i due erano tesi a causa del vizio del gioco di David e del rifiuto della madre di tirarlo fuori dai guai. Con i dati in nostro possesso, le probabilità di colpevolezza si aggirano sull'ottantatré per cento.» «Però non ha preso in considerazione il fatto che David è incapace di ricorrere a questo genere di violenza.» Whitney puntò le mani sul bordo della scrivania e si chinò in avanti. «Non ha aggiunto questo fattore a tutto il resto, non è così, tenente? Io conosco David Angelini, Dallas. Lo conosco profondamente, almeno quanto i miei stessi figli. Non è un assassino. È uno sciocco, forse. Un debole, magari. Ma non è uno che uccide a sangue freddo.» «A volte chi è debole e sciocco può esplodere. Comandante, mi dispiace, ma non posso lasciarlo andare.» «Ha idea di che cosa voglia dire per un uomo come lui finire in prigione? Sentirsi pubblicamente additato come sospetto omicida della propria madre?» Non gli venne in mente altra scelta che quella di fare leva sulla compassione. «Non posso negare che sia stato viziato. Suo padre voleva il meglio per lui e per Mirina e ha fatto in modo che l'avessero. Fin da bam-
bino David è stato abituato a chiedere qualunque cosa e a vedersela cadere in grembo. Sì, la sua vita è stata facile, piena di privilegi, persino troppo appagata. Ha commesso sbagli, errori di valutazione, che altri hanno riparato. Ma in lui non c'è malizia, Dallas. Non c'è violenza. Io lo conosco.» La voce di Whitney non si alzò di tono, ma vibrò di emozione. «Non riuscirà mai a farmi credere che David abbia impugnato una lama e reciso la gola alla madre. Le chiedo di tenerlo presente, di posporre le pratiche per l'incriminazione e di raccomandarne il rilascio su cauzione.» Feeney accennò a intervenire, ma Eve gli fece segno di no con la testa. Lui poteva esserle superiore di grado, ma era lei la responsabile delle indagini. Toccava a lei decidere. «Tre donne sono morte, comandante. Abbiamo fermato un sospetto. Non posso fare ciò che lei mi chiede. Lei ha affidato a me le indagini perché sapeva che io non sarei scesa a compromessi.» Whitney si voltò a fissare fuori della finestra. «La pietà non è un sentimento che le si addice, vero, Dallas?» Lei trasalì, ma non replicò. «Questo è un colpo basso, Jack», intervenne rabbiosamente Feeney. «E, se ne hai tirato uno a Dallas, devi tirarne uno anche a me, perché io sto dalla sua parte. Abbiamo prove a sufficienza per inchiodare quell'uomo, per sbatterlo in una cella, ed è ciò che stiamo facendo.» «Lo rovinerete.» Whitney si voltò verso di loro. «Ma questo è un problema che non vi tocca. Prendete il vostro mandato e fate le vostre perquisizioni. Però, in qualità di comandante, vi ordino di non chiudere il caso. Continuate a indagare. Alle quattordici voglio avere sulla scrivania i vostri rapporti.» Lanciò un'ultima occhiata a Dallas. «Potete andare.» Eve uscì, sorpresa nel sentirsi le gambe come steli di vetro: così sottili e fragili da poter andare in pezzi alla prima disattenta manata. «Era stravolto, Dallas», disse Feeney, stringendole il braccio. «Questa situazione lo fa soffrire e ha reagito con una carognata nei tuoi confronti.» «Non era poi tanto una carognata.» La voce le uscì rauca e aspra. «La pietà non mi si addice, eh? Io non so nulla dei legami familiari, della lealtà fra consanguinei, non è forse così?» A disagio, Feeney si dondolò sui piedi. «Suvvia, Dallas, non farne una questione personale.» «No? Lui mi ha coperto le spalle un mucchio di volte. Ora mi sta chiedendo di fare lo stesso per lui e io sono obbligata a rispondergli: mi dispiace, ma non se ne parla nemmeno. Ed è una questione maledettamente per-
sonale, Feeney.» Liberò il braccio. «Rimandiamo la bevuta a un altro momento. Non mi sento in vena di bisbocce.» Lui, imbarazzato, si infilò le mani in tasca. Eve si avviò a passi spediti in una direzione, e in quella opposta, dietro una porta chiusa, restò il comandante, con Feeney tristemente in mezzo. Eve assistette personalmente alla perquisizione del pied-à-terre di Marco Angelini, benché la sua presenza non fosse necessaria. Gli uomini della Scientifica erano esperti in quel lavoro e dotati di strumenti sofisticati, almeno nei limiti imposti dal loro budget. Ciò nonostante, lei si coprì mani e stivali con la pellicola protettiva e si aggirò nell'edificio a tre piani in cerca di qualunque cosa potesse portare a chiudere positivamente il caso o, pensando all'espressione di Whitney, a riaprirlo. Marco Angelini restò sul posto, perché ne aveva diritto in quanto proprietario dell'immobile e in quanto padre del principale indiziato, anche se Eve tentò di ignorarne la presenza, i freddi occhi azzurri che seguivano ogni sua mossa, l'espressione corrucciata, la rapida contrazione nervosa dei muscoli della mascella. Un agente della Scientifica iniziò a controllare accuratamente tutti gli indumenti di David con un sensore portatile, per scoprire eventuali macchie di sangue. Mentre lui lavorava, Eve perquisì meticolosamente il resto della stanza. «Potrebbe essersi sbarazzato dell'arma», commentò l'uomo, un vecchio reduce con una dentatura da cavallo, che i colleghi avevano soprannominato Castoro. Fece scorrere il sensore, di cui teneva il manico appoggiato alla spalla sinistra, lungo una giacca sportiva da un migliaio di dollari. «Ha usato sempre la stessa su tutt'e tre le donne», replicò Eve, parlando più fra sé che con Castoro. «Le autopsie l'hanno confermato. Perché avrebbe dovuto sbarazzarsene proprio ora?» «Forse non gli serviva più.» Il sensore abbandonò il suo lievissimo ronzio per emettere un rapido trillo. «È soltanto olio per insalata», spiegò Castoro. «Olio extravergine d'oliva. Ce n'è una macchiolina sulla sua bella cravatta. Forse lui aveva deciso di smettere.» Il vecchio ammirava i detective e parecchio tempo addietro aveva desiderato di diventarlo anche lui. Ma aveva dovuto rassegnarsi a essere solo un operatore tecnico. Però leggeva tutte le storie poliziesche disponibili su dischetto. «Sa, il numero tre ha qualcosa di magico. È un numero importante.»
Aguzzò lo sguardo dietro gli occhiali bruniti quando le lenti che ingrandivano l'immagine gli mostrarono una impercettibile macchia di talco su un polsino, poi passò oltre, ritornando all'argomento di prima, che l'appassionava. «Perciò questo tizio si è fissato su tre donne, donne che lui conosce, che vede in continuazione sullo schermo. Forse spasima per loro.» «La prima vittima era sua madre.» «Vabbè.» Castoro si interruppe un attimo, il tempo sufficiente per lanciare un'occhiata a Eve. «Ha mai sentito parlare di Edipo? Quel greco, sa, la sua mamma se l'era portata a letto. In ogni caso, il nostro uomo uccide le tre donne, poi si sbarazza dell'arma e degli indumenti che indossava al momento del delitto. Tanto ne ha più che a sufficienza per sei persone.» Accigliandosi, Eve si avvicinò allo spazioso guardaroba e osservò gli attaccapanni automatizzati, i ripiani semoventi. «E non abita neppure in questa casa.» «Non è forse ricco, questo tizio, eh?» Per Castoro, la ricchezza spiegava ogni cosa. «Ha un paio di completi, qui, che non sono mai stati indossati; Anche le scarpe.» Si chinò, prese un paio di stivaletti di cuoio e li girò verso l'alto. «Vede? Mai usate.» Passò il sensore sulle suole intatte. «Niente sporcizia, niente polvere, niente rigature, niente fibre.» «Questo lo rende soltanto colpevole di prodigalità verso se stesso. Maledizione, Castoro, trovami qualche macchia di sangue.» «Ci sto provando. Però è molto probabile che abbia buttato via ciò che indossava.» «Sei proprio un ottimista, Castoro.» Disgustata, si voltò verso una scrivania a forma di U, di legno laccato, e iniziò a esaminarne i cassetti. Se avesse trovato qualche dischetto, se lo sarebbe intascato e, più tardi, l'avrebbe passato nel proprio computer. Se la fortuna l'avesse assistita, avrebbe potuto scoprire qualche collegamento fra David Angelini e sua madre o la Metcalf. O, nella più fantastica delle ipotesi, si disse, rinvenire un diario con una confusa descrizione dei delitti, una sorta di confessione. Dove diavolo ha messo l'ombrello? pensò. E la scarpa? Si chiese se gli uomini della Scientifica a Los Angeles o quelli in Europa stessero avendo maggiore fortuna. All'idea che si dovessero rintracciare e perquisire tutte le confortevoli dimore e tutti i lussuosi nascondigli di David Angelini provò un senso di nausea, come dopo un'indigestione. Fu allora che trovò il pugnale. Una scoperta estremamente facile. Le bastò infatti aprire il cassetto di
mezzo della postazione di lavoro ed eccolo lì. Una lama lunga, sottile e letale, con una splendida impugnatura, ricavata da quello che poteva essere un autentico corno d'avorio. Il che dava ai delitti un alone antico... o internazionale, dal momento che ogni tentativo di procurarsi l'avorio o di acquistarlo in qualsiasi forma era severamente vietato in tutto il pianeta da oltre mezzo secolo, cioè da quando gli elefanti africani si erano quasi estinti. Eve non era né un'appassionata di oggetti antichi né un'esperta di crimini ambientali, ma aveva studiato medicina legale quel tanto da capire che la forma e la lunghezza della lama erano quelle giuste. «Bene, bene.» Il senso di nausea se n'era andato, come un ospite fastidioso. Al suo posto era subentrata un'euforia da successo, chiara e nitida. «Forse, dopotutto, il tre non era il suo numero magico.» «Ha conservato l'arma? Che bastardo.» Incredulo all'idea che un assassino avesse potuto commettere una simile idiozia, Castoro scrollò il capo. «Questo tizio è un vero imbecille.» «Controlla», lo sollecitò Eve, avvicinandosi a lui. Castoro spostò il braccio dello scanner, cambiando il tipo di programma, da quello per gli abiti a quello per gli oggetti. Dopo una rapida aggiustatina alle lenti, fece correre l'apparecchio lungo il pugnale. Lo scanner mandò un eloquente trillo. «C'è qualcosa», mormorò Castoro, spostando sui pulsanti gli spessi polpastrelli come un pianista sui tasti durante un concerto. «Fibra... carta, forse. Qualcosa di adesivo. Impronte sul manico. Ne vuole una copia stampata?» «Sì.» «Okay.» Lo scanner sputò un quadratino di carta punteggiato di impronte digitali. «Mi giri il pugnale. Tombola! Ecco il suo sangue. Una quantità infinitesimale.» Con la fronte aggrottata, fece correre l'apparecchio sul bordo della lama. «A meno di essere estremamente fortunati, credo che non basti per ricavarne il gruppo sanguigno, e men che meno il DNA.» «Hai una visione dei fatti sempre molto positiva, Castoro. Quant'è vecchio, questo sangue?» «Andiamo, tenente!» Dietro le lenti che ingigantivano le immagini, i suoi occhi erano enormi e cinici. «Sa benissimo che non posso accertare una cosa simile con uno scanner portatile. Dobbiamo portare il pugnale in laboratorio. Questo tesoruccio non può fare altro che identificare la presenza di qualcosa. Niente lembi di pelle», comunicò poi. «Sarebbe stato
meglio se ce ne fosse stato qualcuno.» «Mi accontento del sangue.» Mentre inseriva il pugnale in una busta, si accorse di qualcosa che si muoveva. Sollevò gli occhi e incontrò quelli, cupi e furibondi, di Marco Angelini. L'uomo li abbassò sul coltello, poi tornò a fissare Eve in faccia. Qualcosa si agitò dentro di lui, qualcosa di doloroso che gli fece contrarre i muscoli della mascella. «Vorrei che mi concedesse un attimo del suo tempo, tenente Dallas.» «Tutto quello che vuole.» «Non ci vorrà molto.» Il suo sguardo lampeggiò verso Castoro, poi tornò a posarsi sul pugnale che Dallas stava infilando nella propria borsa. «Vorrei che il colloquio avvenisse in privato, se non le dispiace.» «Va bene.» Eve fece un cenno all'agente fermo alle spalle di Angelini. «Di' a uno della squadra di venire qui a finire la perquisizione», ordinò quindi a Castoro, poi seguì Angelini fuori della stanza. Lui si diresse verso una stretta rampa di scale, con i gradini coperti di moquette, e la salì facendo scorrere la mano sulla lucida ringhiera. Arrivato in cima, svoltò a destra ed entrò in una stanza. Era un vero e proprio ufficio, notò Eve, momentaneamente invaso dal sole di quel luminoso pomeriggio. I fasci di luce si riflettevano sulle superfici delle apparecchiature per la videocomunicazione, rimbalzavano sulla liscia consolle semicircolare sobriamente nera, formavano pozze scintillanti sul lucido pavimento. Come se quella violenta luminosità lo infastidisse, Angelini premette un pulsante e i vetri delle finestre assunsero una lieve tinta ambrata. La stanza cadde in una penombra rotta da pallide chiazze dorate. Angelini si avviò verso un'unità a parete e ordinò un bourbon con ghiaccio. Prese in mano lo spigoloso bicchiere e bevve un cauto sorso. «Lei crede che mio figlio abbia ucciso sua madre e le altre due donne.» «Suo figlio, Mr Angelini, è stato interrogato a tale proposito. È un indiziato. Se lei vuole informazioni riguardanti la procedura, dovrà rivolgersi al suo legale.» «Ho già parlato con gli avvocati di mio figlio.» Bevve un altro sorso. «A loro parere, ci sono molte probabilità che lei lo accusi dei tre omicidi, ma che David non venga rinviato a giudizio.» «La decisione spetterà al gran giurì.» «Lei, però, è convinta che sarà processato.» «Mr Angelini, se e quando io dovessi formulare contro suo figlio l'accu-
sa di aver commesso tre omicidi di primo grado, lo farei perché sicura che sarà processato, giudicato e riconosciuto colpevole di questi delitti, avendo raccolto prove a sufficienza per inchiodarlo.» L'uomo fissò la borsa in cui lei aveva riposto alcune di quelle prove. «Ho fatto qualche ricerca su di lei, tenente Dallas.» «Davvero?» «Mi piace giocare a carte scoperte», replicò lui, con un sorriso tetro che balenò e scomparve subito dopo. «Lei è molto apprezzata dal comandante Whitney, per il quale io nutro una grande stima. E riscuoteva anche l'ammirazione della mia ex moglie, che non era certo una sciocca, per la sua tenacia e la sua meticolosità. Cicely parlava spesso di lei, lo sapeva?» «No, non lo sapevo.» «Ammirava il suo fiuto. Uno splendido fiuto da poliziotto, lo definiva. Lei è abile nel suo lavoro, non è così, tenente?» «Sì, ci so fare.» «Ma a volte sbaglia.» «Cerco di ridurre gli errori al minimo.» «Nella sua professione, un errore, per quanto minimo, può causare indicibili sofferenze a un innocente.» I suoi occhi erano fissi su Eve, non si distoglievano da lei neppure per un istante. «Nella stanza di mio figlio ha trovato un pugnale.» «Non posso discutere di questo con lei.» «Lui viene molto di rado in questa casa», disse Angelini, pesando accuratamente le parole. «Non più di tre o quattro volte all'anno. Quando è in zona, preferisce la nostra villa a Long Island.» «È possibile, Mr Angelini, ma è venuto in questa casa la sera in cui Louise Kirski fu uccisa.» Ormai spazientita, non vedendo l'ora di portare la prova in laboratorio, Eve si strinse nelle spalle. «Mr Angelini, non posso discutere con lei di una questione di competenza della giustizia del nostro Stato...» «Ma lei è convinta che la giustizia del nostro Stato sia chiamata a esprimersi su un caso inoppugnabile», la interruppe lui. Poiché Eve non rispose, continuò a fissarla in volto, poi bevve in una sola sorsata il resto del bourbon e posò di lato il bicchiere. «Lei però si sbaglia, tenente. Ha preso l'uomo sbagliato.» «Lei crede che suo figlio sia innocente, Mr Angelini, e lo capisco.» «Non lo credo, tenente, lo so. Mio figlio non ha ucciso quelle donne.» Inspirò profondamente, come un tuffatore che stesse per lanciarsi nelle
profondità marine. «Sono stato io.» 15 Eve non ebbe scelta. Lo portò alla centrale di polizia e lo cucinò a fuoco lento, ma dopo un'intera ora si ritrovò con un tremendo mal di testa e con Marco Angelini che continuava a sostenere con calma incrollabile di aver ucciso lui le tre donne. Rifiutandosi di chiedere l'ausilio di un legale e non volendo, o non potendo, scendere nei particolari. Ogni volta che Eve gli chiedeva perché avesse ucciso, lui la fissava negli occhi e rispondeva che era stato indotto a farlo da un raptus omicida. Provava un profondo livore nei confronti della moglie, sosteneva, e non solo perché era personalmente imbarazzato dall'intimo rapporto che lei seguitava ad avere con un suo partner d'affari. L'aveva uccisa perché non poteva riaverla con sé. Poi ci aveva preso gusto. Era tutto molto semplice e, agli occhi di Eve, estremamente artefatto. Lei si immaginava quell'uomo intento a elaborare mentalmente le frasi e a valutarne l'effetto prima di pronunciarle. «Balle, tutte balle», proruppe bruscamente, allontanandosi dal tavolo dell'interrogatorio. «Lei non ha ucciso nessuno.» «Ho confessato.» La voce di Angelini era paurosamente calma. «E lei ha messo a verbale la mia piena ammissione di colpevolezza.» «Allora mi dica tutto da capo.» Si piegò in avanti e piantò le mani sul tavolo. «Perché ha chiesto a sua moglie di incontrarla al Five Moons?» «Volevo che l'omicidio si verificasse al di fuori del nostro ambiente. Ero convinto di potermela cavare. Le dissi che Randy era nei guai. Lei non sapeva quanto gravi fossero i problemi legati al suo vizio del gioco. Io sì. Così, ovviamente, accettò di incontrarmi.» «E lei le tagliò la gola.» «Sì.» Il viso gli impallidì leggermente. «Tutto avvenne molto alla svelta.» «Poi che cosa fece?» «Tornai a casa.» «Come?» Batté le palpebre. «Guidando. Avevo parcheggiato la mia auto a un paio di isolati di distanza.» «E il sangue?» Eve fissò attentamente gli occhi di Angelini, controllan-
done le pupille. «Lei doveva esserne inondato. Il sangue era uscito a fiotti.» Le pupille si dilatarono, ma la voce rimase ferma. «Indossavo un soprabito, di stoffa impermeabile. Me ne liberai strada facendo.» Abbozzò un sorriso. «Immagino che qualche barbone l'abbia trovato e se lo sia portato via.» «Che cosa ha raccolto dalla scena del delitto?» «Il pugnale, ovviamente.» «Nulla che appartenesse a sua moglie?» Eve attese una frazione di secondo. «Per dare l'impressione che ad agire fosse stato un ladro, un rapinatore?» Angelini esitò. Eve poté quasi vedere dietro i suoi occhi il cervello in azione. «Ero sconvolto. Non mi aspettavo che tutto fosse così nauseante. Avevo programmato di portar via la borsa, i gioielli, ma al momento me ne dimenticai e scappai, semplicemente.» «Lei scappò, senza prendere nulla, ma fu poi tanto lucido da sbarazzarsi del soprabito lordo di sangue.» «Esattamente.» «In seguito assalì la Metcalf.» «Con lei si trattò di un raptus. Continuavo a sognare ciò che avevo fatto e volevo riprovarci. Nel suo caso fu facile.» Il respiro gli era tornato normale e le mani posate sul tavolo erano immobili. «Era una donna ambiziosa e piuttosto ingenua. Sapevo che David aveva scritto uno sceneggiato avendo lei in mente. Era deciso a portare avanti quel progetto per la televisione... un'iniziativa su cui non eravamo d'accordo. Io ero contrario, perché sarebbe costato caro alla nostra società che al momento non navigava nell'oro. Perciò decisi di ucciderla e la contattai. Ovviamente lei acconsentì a incontrarmi.» «Che cosa indossava?» «Indossava?» Annaspò un attimo. «Non feci attenzione al suo abbigliamento. Non aveva importanza. Quando mi avviai verso di lei, sorrise e mi tese entrambe le mani. La uccisi.» «Perché ha deciso di confessare soltanto adesso?» «Gliel'ho detto: credevo di farla franca. E ci sarei potuto riuscire. Non mi sarei mai aspettato che al posto mio venisse arrestato mio figlio.» «Dunque lo sta proteggendo?» «Le ho uccise io, tenente. Che cos'altro vuole?» «Perché ha lasciato il pugnale nel cassetto di David, nella sua stanza?»
Distolse bruscamente lo sguardo, poi tornò a fissarla. «Come le ho detto, è raro che lui vada in quella casa. Pensavo che lì non l'avrebbe cercato nessuno. Quando sono venuto a sapere del mandato di perquisizione, non ho avuto il tempo di toglierlo.» «E si aspetta che io le creda? Lei pensa di aiutarlo ingarbugliando il caso, facendosi avanti con questa maldestra confessione. È convinto che suo figlio sia colpevole.» Eve abbassò la voce, calcando però ogni parola. «È così atterrito all'idea che suo figlio sia un assassino che preferisce assumersi ogni colpa piuttosto che vedere David affrontare le conseguenze. Intende lasciare che muoia un'altra donna, Angelini? O magari due, se non tre, prima di accettare la realtà?» Le labbra dell'uomo tremarono lievemente, poi tornarono ferme. «Le ho detto il vero.» «Lei ha detto solo un mucchio di fandonie.» Eve girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Sforzandosi di mantenere la calma, si fermò nel corridoio e guardò con occhi ostili Angelini, che si era nascosto il volto fra le mani. Alla fine sarebbe riuscita a strappargli la verità. Ma era sempre possibile che la notizia filtrasse fuori di lì e che i media strombazzassero il fatto che una persona diversa dal principale indiziato aveva reso una piena confessione. Nell'udire un rumore di passi si voltò e si irrigidì in tutto il corpo. «Comandante.» «Tenente. Qualche progresso?» «Insiste nella sua versione, anche se questa fa acqua da tutte le parti. Gli ho fornito lo spunto affinché mi accennasse ai souvenir raccolti dopo i primi due omicidi, ma non ha abboccato.» «Vorrei parlargli. In privato, tenente, e senza che nulla venga messo a verbale.» Prima che lei potesse replicare, alzò una mano. «So benissimo che è un'infrazione alle regole. Le sto chiedendo un favore.» «E se lui dovesse incriminare se stesso o il figlio?» La mascella di Whitney si irrigidì. «Sono ancora un poliziotto, Dallas. Maledizione.» «Sì, signore.» Gli aprì la porta, poi, dopo un brevissimo istante di esitazione, oscurò il vetro dalla parte del corridoio e spense l'audio. «Mi troverà nel mio ufficio.» «Grazie.» Lui varcò la soglia e, rivolta un'ultima occhiata a Eve, chiuse la porta e apostrofò l'uomo accasciato sul tavolo. «Marco», disse con un lungo sospiro, «che diavolo credi di star facendo?»
«Jack.» Angelini abbozzò un sorriso. «Mi chiedevo se ti saresti fatto vedere. Non abbiamo mai fatto quella partita a golf.» «Dimmi tutto.» Whitney si sedette pesantemente. «La tua abile e tenace collaboratrice non ti ha informato?» «Il registratore è spento», replicò Whitney in tono brusco. «Siamo soli. Spiegami tutto, Marco. Sappiamo entrambi che non sei stato tu a uccidere Cicely e neanche le altre.» Per un attimo Angelini fissò il soffitto, come se stesse meditando. «Le persone non si conoscono mai l'un l'altra così bene come credono. Neppure quelle che ti stanno a cuore. Io l'amavo, Jack. Non ho mai smesso di amarla. Lei, invece, sì. Una parte di me non si stancava mai di attendere che tornasse ad amarmi, ma lei non l'avrebbe fatto.» «Maledizione, Marco, ti aspetti che io creda che le hai tagliato la gola solo perché dodici anni fa ti aveva chiesto il divorzio?» «Forse avevo paura che potesse sposare Hammett. Lui lo voleva», replicò a voce bassa Angelini. «Mi ero accorto che lo voleva, ma Cicely era riluttante.» La sua voce rimase calma, bassa, leggermente nostalgica. «Era felice della propria indipendenza e tuttavia le dispiaceva deludere Hammett. Le dispiaceva talmente che alla fine avrebbe potuto cedere. Sposarlo. Allora sarebbe stata veramente la fine, non credi?» «Hai ucciso Cicely perché lei avrebbe potuto sposare un altro uomo?» «Era mia moglie, Jack. Nonostante ciò che il tribunale e la Chiesa hanno sentenziato.» Whitney restò per un attimo in silenzio. «In tutti questi anni ho giocato troppe volte con te a poker, Marco. Conosco i tuoi tic.» Posando sul tavolo le braccia conserte, si chinò in avanti. «Quando bluffi, tamburelli con un dito sul ginocchio.» Il dito si bloccò istantaneamente. «Questa è tutt'altra cosa che una partita di poker, Jack.» «Non puoi aiutare così David. Devi lasciare che le indagini seguano il loro corso.» «David e io... fra noi due ci sono stati pesanti attriti negli ultimi mesi. Dissapori riguardanti la sfera degli affari e quella privata.» Per la prima volta si lasciò sfuggire un sospiro, profondo, lungo e intriso di stanchezza. «Fra padre e figlio non dovrebbero sorgere incomprensioni per tali sciocchezze.» «Non è questo il modo di riparare le ferite, Marco.» Lo sguardo di Angelini tornò a farsi d'acciaio. Non ci sarebbero stati al-
tri sospiri. «Lascia che ti chieda qualcosa, Jack, a quattr'occhi. Se fosse capitato a uno dei tuoi figli di avere una minima probabilità - anche la più infima - di finire accusato di omicidio, che cosa mai avrebbe potuto indurti a rinunciare a proteggerlo?» «Non puoi proteggere David tirando fuori una simile stronzata.» «Chi ha detto che è una stronzata?» L'ultima parola risuonò stridente nel raffinato eloquio di Angelini. «Ho ucciso e l'ho confessato perché non potrei più vivere se a pagare per il mio crimine fosse il mio stesso figlio. Dimmi, Jack, tu staresti alle spalle di tuo figlio o di fronte a lui?» «Oh, al diavolo, Marco», fu tutto ciò che Whitney riuscì a rispondere. Rimase nella stanza per venti minuti, senza ottenere alcun risultato. Portava la conversazione su argomenti banali, come le partite di golf o il rendimento di una squadra di baseball sovvenzionata in parte da Angelini, poi, di punto in bianco, rapido e insinuante come una serpe, gli rivolgeva una domanda dura, insidiosa, sugli omicidi. Marco Angelini, tuttavia, era un lottatore esperto e aveva già stabilito la propria strategia difensiva. Non si spostava di un centimetro. Senso di colpa, angoscia e l'inizio di un reale timore formavano un inquieto groviglio nello stomaco di Whitney quando lui entrò nell'ufficio di Eve, che, china sul suo computer, esaminava dati, cercandone di nuovi. Per la prima volta da giorni gli occhi del comandante guardarono al di là della fatica che li ottundeva e videro quelli di lei, infossati nel volto pallido, e la piega amara della bocca. I capelli erano un ammasso di ciocche appuntite, come se le mani vi si fossero infilate innumerevoli volte. Proprio mentre Whitney la osservava, Eve fece quel gesto, poi si premette le dita sugli occhi, quasi le bruciassero. Lui ricordò quella mattina nel suo ufficio, il giorno successivo alla morte di Cicely. E ricordò quale responsabilità avesse appeso al collo di Eve. «Tenente.» Lei raddrizzò le spalle, come se vi avesse piantato dentro paletti di ferro. Sollevò quindi il capo, con un'espressione volutamente vacua negli occhi. «Comandante.» Si alzò in piedi. È balzata sull'attenti, pensò Whitney, infastidito da quella rigida e impersonale reazione. «Marco è in stato di fermo. Possiamo tenerlo qui per quarantotto ore anche senza incriminarlo. Credo sia meglio metterlo per un po' dietro le sbarre, a meditare. Si ostina a non volere l'intervento di un legale.» Poi si fece avanti nella stanza, con Eve sempre ritta in piedi, e si guardò attorno. Non visitava spesso quella parte degli uffici. Erano i sottoposti a
recarsi da lui. Un'altra prerogativa del suo grado. Lei avrebbe potuto avere una stanza più ampia; se la meritava, dopotutto, ma sembrava preferire un locale piccolo, così angusto che, se ci fossero entrati in tre, sarebbe stata per tutti una penitenza. «Per fortuna lei non soffre di claustrofobia», commentò. Eve non rispose, si limitò a inarcare leggermente un sopracciglio, al che Whitney imprecò fra i denti. «Ascolti, Dallas...» «Signore.» Un'interruzione rapida e secca. «La Scientifica sta esaminando l'arma trovata nella camera di David Angelini. Mi è stato riferito che ci sarà un lieve ritardo nella consegna dei risultati perché le tracce di sangue rilevate dallo scanner sono così scarse da rendere difficile la ricerca del gruppo sanguigno e del DNA.» «Ne prendo atto, tenente.» «Le impronte sull'arma in questione sono state confrontate con quelle di David Angelini. Il mio rapporto...» «Di questo parleremo fra un attimo.» Il mento di Eve si sollevò. «Sì, signore.» «Maledizione, Dallas, si tolga quel bastone dall'ano e si sieda.» «È un ordine, comandante?» «Ah, diavolo...» sbottò lui. Fu interrotto dall'ingresso nella stanza di Mirina Angelini, fra uno scalpiccio di tacchi a spillo e un fruscio di seta. «Perché sta cercando di distruggere la mia famiglia?» chiese la giovane donna, strappando la propria mano da quella di Slade che le stava alle spalle. «Mirina, fare così non serve a nulla.» Lei si incuneò nella stanza, arrivando quasi addosso a Eve. «Non le basta che mia madre sia stata uccisa in mezzo a una strada? Che sia stata assassinata perché in America i poliziotti sono così occupati a dare la caccia alle ombre e a riempire inutili incartamenti da non trovare il tempo di proteggere gli innocenti?» «Mirina», intervenne Whitney, «vieni nel mio ufficio. Parleremo di ogni cosa.» «Parlare?» Si girò verso di lui come un felino, lustro e dorato, con le fauci spalancate come a voler ghermire la preda. «Come posso parlare con te? Avevi tutta la mia fiducia. Credevo che tu ti preoccupassi per me, per David, per tutti noi. Hai permesso che questa donna rinchiudesse David in una cella. E ora è toccato anche a mio padre.» «Mirina, Marco è qui di sua volontà. Ti dirò tutto. Ti spiegherò ogni co-
sa.» «Non c'è nulla da spiegare.» Gli voltò la schiena e rovesciò su Eve la sua rabbia cocente. «Sono andata a casa di mio padre. Lui voleva che io restassi a Roma, ma non ce l'ho fatta, ora che tutti i media imbrattano il nome di mio fratello. Quando siamo arrivati, un vicino si è affrettato, con aria più che felice, direi quasi gongolante, a riferirmi che mio padre era stato portato via dalla polizia.» «Provvederò affinché lei possa parlare con suo padre, Ms Angelini», replicò freddamente Eve. «E con suo fratello.» «Farà dannatamente bene a provvedere. Immediatamente. Dov'è mio padre?» Afferrò Eve con entrambe le mani e la scosse, senza che Whitney o Slade riuscissero a impedirglielo. «Che cosa gli ha fatto, carogna?» «Mi tolga subito le mani di dosso», l'avvisò Eve. «Per oggi ne ho abbastanza della famiglia Angelini. Suo padre è qui, in stato di fermo. Suo fratello è in arresto nella torre del Riker. Può vedere suo padre anche subito. Se desidera incontrare suo fratello, un velivolo la porterà a destinazione.» Lanciò a Whitney un'occhiata pungente. «Oppure, dal momento che ha i suoi santi in Paradiso, riuscirà probabilmente a ottenere che venga portato lui qui, in parlatorio, per un'ora.» «Lo so che cosa lei sta facendo.» Mirina non era più una fragile creatura. Vibrava di un'energia irrefrenabile. «Ha bisogno di un capro espiatorio. Deve assolutamente arrestare qualcuno, per togliersi dal collo il fiato dei media. Sta facendo un gioco politico, servendosi di mio fratello, persino della mia povera madre assassinata, per non perdere il posto.» «Già, un posto di tutto riposo.» Eve sorrise amaramente. «Ogni giorno sbatto in cella un innocente per ricavarne in cambio qualche beneficio per me.» «È così che riesce a comparire tanto spesso in televisione, o sbaglio?» Mirina scrollò gli stupendi capelli. «Quanta pubblicità si è fatta sfruttando il cadavere di mia madre?» «Ora basta, Mirina.» La voce di Whitney schioccò sferzante, come un minaccioso colpo di frusta. «Va' nel mio ufficio e aspettami.» Guardò Slade, alle spalle della giovane donna. «La porti via di qui.» «Mirina, è inutile», mormorò Slade, tentando di circondarle le spalle con un braccio. «Andiamo, su.» «Sta' lontano da me.» Pronunciò ogni singola parola come fossero bocconi di carne fibrosa da triturare con i denti, poi si scostò bruscamente. «Me ne vado, ma lei pagherà per le sofferenze che ha inflitto alla mia fa-
miglia. Pagherà tutto, fino all'ultimo.» Uscì a grandi passi, lasciando a Slade solo il tempo di mormorare qualche parola di scusa prima di correrle dietro. Whitney si fece avanti piano nella stanza tornata silenziosa. «Tutto bene?» «Ho dovuto sopportare di peggio», replicò Eve, scrollando le spalle. In realtà stava malissimo, per la rabbia e il senso di colpa. Così male che desiderava soltanto essere lasciata in pace, dietro una porta chiusa. «Se non le dispiace, comandante, vorrei finire il mio rapporto.» «Dallas... Eve.» Fu la stanchezza nella sua voce a indurla a sollevare cautamente lo sguardo e a fissarlo. «Mirina è sconvolta, il che è comprensibile. Ma ha passato il segno, assolutamente.» «Aveva tutto il diritto di sparare a zero contro di me.» Per frenare l'impulso a stringersi fra le mani la testa che le pulsava, se le infilò in tasca. «Ho appena sbattuto dietro le sbarre ciò che resta della sua famiglia. Con chi altri potrebbe prendersela? Io ho le spalle larghe.» Il suo sguardo rimase freddo, d'acciaio. «La pietà non mi si addice.» Whitney annuì lentamente. «Me lo sono meritato. Ho affidato questo caso a lei, Dallas, perché la ritengo il mio miglior poliziotto. Lei è molto intelligente e ha un ottimo fiuto. E si prende a cuore le situazioni. Si preoccupa della vittima.» Emettendo un lungo sospiro, si passò la mano fra i capelli. «Stamattina, nel mio ufficio, ho parlato a sproposito. Sono già parecchie volte che le parlo a sproposito da quando è cominciata questa terribile storia. Le chiedo scusa.» «Non importa.» «Vorrei che fosse vero.» Tentò di guardarla negli occhi e notò quanto lei fosse rigida e controllata. «Ma mi accorgo che non è così. Mi occuperò io di Mirina, penserò io a farle incontrare il padre e il fratello.» «Sì, signore. Ma vorrei continuare l'interrogatorio di Marco Angelini.» «Domani», disse Whitney, stringendo i denti quando Eve non fece nulla per nascondere una smorfia ironica. «Lei è stanca, tenente, e i poliziotti stanchi commettono errori e si fanno sfuggire piccoli dettagli. Potrà riprendere l'interrogatorio domani.» Si avviò verso la porta, imprecò di nuovo fra sé e, senza voltarsi a guardarla, si fermò. «Si conceda qualche ora di sonno e, santo cielo, prenda un analgesico per quella sua emicrania. Ha l'aria di essere a pezzi.» Eve fu sul punto di sbattergli la porta alle spalle, ma si frenò. Non lo fece perché sarebbe stato un gesto futile e non professionale. Si sedette, in-
vece, e fissò lo schermo, facendo finta che il dolore spasmodico alla testa non esistesse. Quando, qualche istante dopo, un'ombra cadde sulla sua scrivania, sollevò lo sguardo, con gli occhi che lanciavano lampi bellicosi. «Ehi», disse Roarke con calma, chinandosi a baciarle la bocca contratta in una smorfia, «che accoglienza.» Si tastò il torace. «Sto sanguinando?» «Ah-ah.» «Deve essermi sfuggita qualche frizzante battuta di spirito.» Si sedette sul bordo della scrivania, così da poter osservare lei e al contempo sbirciare i dati sullo schermo, per capire se erano questi ad aver riempito di dolore e rabbia gli occhi di Eve. «Be', tenente, com'è andata la tua giornata?» «Vediamo. Ho arrestato il figlioccio preferito del mio superiore con l'accusa di intralcio alle indagini e altre minuzie assortite, trovato quella che potrebbe essere l'arma del delitto nel cassetto della scrivania nella dimora cittadina della famiglia, raccolto una piena confessione dal padre del principale indiziato, che sostiene di aver compiuto lui i tre delitti, e ricevuto appena adesso un paio di fendenti al volto dalla sorella dell'indiziato, la quale ritiene che io sia una stronza che cerca soltanto di farsi pubblicità sui media.» Abbozzò un sorrisetto. «A parte questo, la giornata è stata abbastanza tranquilla. E tu?» «I soldi vanno e vengono», replicò pacatamente Roarke, preoccupato per lei. «Nulla di così eccitante come un'indagine di polizia.» «Non ero sicura che saresti tornato entro stanotte.» «Neanch'io. La costruzione del villaggio turistico procede abbastanza bene. Per qualche tempo potrò dirigere i lavori da qui.» Eve si sforzò di non provare un così intenso sollievo. L'irritava il fatto che fosse bastato solo qualche mese ad abituarla alla presenza di Roarke. O, meglio, a renderla dipendente da lui. «Una buona cosa, suppongo.» «Mmm.» Ormai la conosceva a fondo. «Che cosa puoi dirmi delle tue indagini?» «Nulla che i media già non sappiano. Ti basterà sintonizzarti su un qualsiasi canale.» «Preferirei apprenderlo da te.» Eve lo aggiornò nello stesso modo in cui stilava un rapporto: con un'esposizione stringata ed efficace, enfatizzando i fatti e sorvolando sui commenti personali. E, dopo, si accorse di stare meglio. Roarke aveva una maniera di ascoltare che le permetteva di udire le proprie argomentazioni con maggiore chiarezza.
«Sei convinta che l'assassino sia il giovane Angelini.» «Per quanto lo riguarda, abbiamo mezzi e opportunità e un più che probabile movente. Se il pugnale è l'arma del delitto... In ogni caso, domani mi incontrerò con la dottoressa Mira per discutere dell'eventuale esame psicologico a cui sottoporlo.» «E per quanto riguarda Marco», chiese ancora Roarke, «che cosa pensi della sua confessione?» «È un abile espediente per creare una cortina fumogena, per ingarbugliare le indagini. Lui è un uomo scaltro e troverà il modo per far arrivare la notizia ai media.» Fissò un punto al di là delle spalle di Roarke, con aria accigliata. «Per un po' scoppierà un finimondo, che ci costerà tempo e fatica. Ma ne verremo fuori.» «Secondo te, Marco ha reso quella confessione al solo scopo di complicare le indagini?» «Ne sono convinta.» Lo fissò e inarcò un sopracciglio. «Tu sei di tutt'altro parere.» «Il bambino che affoga», mormorò Roarke. «Il padre, temendo che il figlio stia per andare a fondo definitivamente, salta nel torrente. La sua vita in cambio di quella del figlio. L'amore, Eve.» Appoggiò il mento nel palmo della mano. «L'amore non si ferma di fronte a niente. Marco ritiene che il figlio sia colpevole e preferisce sacrificare se stesso piuttosto che vedere la carne della sua carne pagare il fio delle proprie colpe.» «Se sa, o anche solo crede, che sia stato David a uccidere quelle donne, sarebbe un atto di follia da parte sua proteggerlo.» «No, sarebbe un atto d'amore. E con ogni probabilità non esiste amore più forte di quello che lega un genitore al proprio figlio. Tu e io non abbiamo esperienze in materia, ma è così.» Eve scrollò il capo. «Anche se il figlio non è una creatura normale?» «In tal caso, forse, ancora di più. Quando vivevo a Dublino, da piccolo, conoscevo una donna la cui figlia aveva perso un braccio in un incidente e lei non aveva soldi per farle applicare una protesi. Ne aveva cinque, di figli, di cui quattro sani, e li amava tutti. Ma amava particolarmente quella poverina e le aveva costruito attorno un muro difensivo, per proteggerla dagli sguardi, dai sussurri, dalla pietà. E si adoperava in tutti i modi affinché primeggiasse, si dedicava a lei completamente, e lo stesso facevano gli altri suoi figli. Di questi lei si curava ben poco, perché tutte le sue attenzioni erano per la figliola menomata.» «C'è una bella differenza fra un difetto fisico e uno psichico», insistette
Eve. «Mi chiedo se ci sia, per un genitore.» «Quale che sia il motivo che ha spinto Marco Angelini a confessare, alla fine arriveremo alla verità.» «Ci riuscirai, non ne dubito. Quando finisce il tuo orario di lavoro?» «Che cosa?» «Il tuo orario di lavoro», ripeté Roarke. «Quando termina?» Eve lanciò un'occhiata allo schermo e guardò l'ora segnata in un angolino in basso. «È terminato circa sessanta minuti fa.» «Bene.» Lui si alzò e le tese una mano. «Vieni con me.» «Roarke, ci sono alcune cose che devo ancora finire. Voglio rivedere il colloquio con Marco Angelini. Ho bisogno di trovare un punto debole.» Lui si dimostrò paziente, perché non aveva alcun dubbio di riuscire alla fine a spuntarla. «Eve, sei così stanca che non vedresti un buco di cento metri di diametro prima di caderci dentro.» Con aria decisa, le prese la mano e la tirò in piedi. «Vieni via con me.» «D'accordo, forse una piccola sosta mi potrebbe far bene.» Brontolando, ordinò al computer di chiudere e spegnersi. «Dovrò dare la sveglia ai tecnici di laboratorio della Scientifica. La stanno tirando lunga, con quel pugnale.» Sentì con piacere la propria mano in quella di lui. Non si preoccupò neppure dei commenti salaci che avrebbero fatto gli altri poliziotti se nel corridoio o nell'ascensore avessero visto lei e Roarke tenersi così per mano. «Dove andiamo?» Lui si portò alle labbra le loro dita intrecciate e, da sopra, le sorrise. «Non l'ho ancora deciso.» Optò per il Messico. Dopo un volo rapido e tranquillo giunsero alla sua villa, sulla turbolenta costa occidentale, che era sempre pronta all'uso perché, diversamente dalla casa di New York, era totalmente automatizzata. Roarke ricorreva al personale domestico umano solo quando prevedeva di restare a lungo in quel posto. Per lui, droidi e computer erano utili, ma impersonali. Però, dato lo scopo di quella gita, era contento di avere solo quelli fra i piedi. Voleva Eve tutta per sé, la voleva rilassata, la voleva felice. «Accidenti, Roarke.» Eve, nello scorgere l'imponente costruzione a più piani che si ergeva in cima a una scogliera, era rimasta senza fiato. La villa sembrava erompere direttamente dalla roccia, come se le pareti di vetro vi fossero state inta-
gliate, ed era circondata da un giardino a terrazze ricco di colori, forme e fragranze. Sopra, il cielo che iniziava a scurirsi era assolutamente privo di traffico. Solo una distesa blu, rotta da qualche nuvoletta bianca sfrangiata e da rapidi voli d'uccelli. Sembrava un altro mondo. Sull'aereo Eve aveva dormito come un sasso, uscendo a malapena dal sonno quando il pilota aveva eseguito un abile atterraggio in picchiata, fermandosi ai piedi della rampa di gradini di pietra che saliva a zigzag lungo la ripida scogliera. Era tanto assonnata da arrivare al punto di chiedersi se, mentre dormiva, non si fosse casualmente infilata gli occhiali da realtà virtuale. «Dove siamo?» «In Messico.» «In Messico?» Sbalordita, tentò di sfregarsi dagli occhi il sonno e lo shock. Roarke si disse, con un moto d'affetto, che sembrava una bambina imbronciata per essere stata costretta a interrompere un pisolino. «Ma io non posso trovarmi in Messico. Devo...» «Fare l'amore o camminare?» l'interruppe Roarke, tirandosela dietro come una bambola. «Devo...» «Fare l'amore», decise lui. «Stai ancora dormendo in piedi.» Tanto valeva procrastinare il piacere della passeggiata, pensò, rimandare a dopo la visione del mare e delle scogliere. La sospinse quindi in un piccolo ed elegante velivolo, mettendosi lui stesso ai comandi e partendo in verticale a una tale velocità da cancellare in lei ogni rimasuglio di sonno. «Cristo, non così in fretta.» L'istinto di sopravvivenza la spinse ad aggrapparsi alla maniglia di sicurezza, trasalendo nel vedersi scorrere accanto rocce, fiori e rivoli d'acqua. Roarke stava ridendo fragorosamente quando depositò il velivolo sul patio d'ingresso. «Sei sveglia, adesso, mia adorata?» Eve riuscì a stento a tirare il fiato. «Non appena avrò la certezza che i miei organi interni siano ancora al loro posto, ti ucciderò. Che diavolo ci facciamo, in Messico?» «Ci concediamo una pausa. Io ne ho bisogno.» Scese dal velivolo e passò dalla parte di lei. «E anche tu, senza dubbio.» Siccome Eve era ancora aggrappata alla maniglia, tanto forte da avere le nocche bianche, si protese verso di lei, la sollevò e, con lei in braccio, si avviò verso la porta d'ingresso, sul lastricato di pietre dalla forma irregolare.
«Mettimi giù. Posso camminare.» «Smettila di lagnarti.» Piegò la testa, trovò abilmente la sua bocca e la baciò, insistendo finché la mano di Eve non smise di spingergli la spalla e iniziò invece ad accarezzarla. «Maledizione», mormorò lei. «Com'è possibile che tu riesca sempre a farmi questo?» «È solo fortuna, suppongo. Roarke, sbloccare», ordinò e l'elegante cancellata scivolò di lato. Al di là, i battenti della porta, adorni di intarsi e vetri istoriati, si sganciarono e si spalancarono, dando loro il benvenuto. Una volta varcata la soglia, lui ordinò: «Richiudere». Mentre i battenti obbedivano, Eve si guardò attorno. Una parete dell'atrio d'ingresso era di vetro e permetteva di scorgere l'oceano. Lei, che prima d'allora non aveva mai visto il Pacifico, si chiese perché mai si fosse meritato quel nome, dal momento che era così inquieto, così ribollente. Era giusto l'ora del tramonto e, mentre Eve osservava con il fiato mozzo, il cielo esplose in scintillanti dardi e striature dai colori fantasmagorici, con l'enorme palla rossa del sole che calava lentamente, inesorabilmente, verso la linea blu che l'acqua disegnava all'orizzonte. «Ti piacerà stare qui», mormorò Roarke. Lei era senza parole di fronte alla bellezza di quel tramonto. Sembrava che la natura avesse voluto aspettarla, che avesse rimandato lo spettacolo per darle modo di ammirarlo. «È stupendo. Ma non posso restare.» «Solo qualche ora.» Le baciò la tempia. «Soltanto stanotte. Quando avremo più tempo ci torneremo per trascorrerci qualche giorno.» Sempre con lei in braccio, si avvicinò alla vetrata fino a dare a Eve l'impressione che il mondo intero fosse fatto di colori fantastici e forme fluide. «Ti amo, Eve.» Lei distolse lo sguardo dal sole, dall'oceano, e fissò Roarke negli occhi. Tutto era splendido e, almeno per il momento, di una straordinaria semplicità. «Mi sei mancato.» Con la guancia premuta contro quella di lui, gli si aggrappò più strettamente. «Mi sei talmente mancato che ho indossato una delle tue camicie.» Poté ridere fra sé perché lui era nuovamente lì, con lei. Poteva sentirne l'odore, toccarlo. «Sono andata nel tuo guardaroba e ti ho rubato una camicia... una di quelle di seta nera che possiedi a dozzine. L'ho indossata e sono fuggita di casa come una ladra, prima che Summerset potesse cogliermi in flagrante.» Assurdamente commosso, Roarke strofinò il naso contro il suo collo.
«Di notte, ripassavo i nastri delle tue telefonate, per poterti vedere, per sentire la tua voce.» «Davvero?» Ridacchiò, cosa insolita in lei. «Santo cielo, Roarke, siamo diventati due sdolcinati.» «Sarà il nostro piccolo segreto.» «D'accordo.» Si tirò indietro per guardarlo in viso. «Devo chiederti qualcosa. È una stupidaggine, ma devo farlo.» «Che cosa vuoi sapere?» «Ti era mai...» Trasalì, si rammaricò di provare il bisogno di appurarlo. «Ti era mai successo, prima, con un'altra...» «No.» Con le labbra le sfiorò la fronte, il naso, la fossetta nel mento. «Mai, con nessun'altra.» «Neanche a me era mai successo.» Inspirò con tanta forza da risucchiarlo quasi dentro di sé. «Toccami. Voglio sentire le tue mani su di me.» «Ti accontento subito.» E lo fece, rotolandosi con lei in una distesa di cuscini sparsi sul pavimento, mentre il sole annegava gloriosamente nell'oceano. 16 Concedersi una pausa con Roarke non era come fermarsi in una caffetteria a fare un rapido spuntino con un piatto di verdure miste e un caffè alla soia. Eve non riuscì a capire come lui avesse potuto predisporre ogni cosa, ma, dopotutto, l'essere enormemente ricchi conta, e molto. Per cena fu servita una succulenta aragosta alla griglia, con una salsa al burro (burro vero, ricco e cremoso), annaffiata da uno champagne così freddo che Eve si ritrovò con la gola gelata. Il dessert era costituito da una sinfonia di frutti, esotici ibridi che lasciavano sulla lingua un armonico miscuglio di sapori. Molto prima di arrivare ad ammettere di amare Roarke, Eve si era rassegnata al fatto di essere diventata dipendente dal cibo che lui riusciva a far comparire in tavola con un semplice sventolio del polso. Dopo cena, si immerse nuda in una piccola e spumeggiante piscina annidata sotto i palmizi e la luce della luna, con i muscoli rilassati dal calore dell'acqua e da un fantastico rapporto sessuale, e ascoltò il canto degli uccelli notturni - non riprodotto, ma autentico - che si spandeva nell'aria fragrante come un dolce pianto. Almeno per il momento, almeno per quella notte, le tensioni legate al
suo lavoro le sembravano lontane anni-luce. Roarke poteva suscitare in lei, e per lei, quella sensazione, si rese conto. Poteva donarle brevi attimi di pace. Lui la osservava, contento nel vedere come bastasse viziarla un po' per farle dileguare la tensione dal viso. Gli piaceva guardarla quand'era così, distesa, infiacchita dall'appagamento dei sensi, troppo rilassata per ricordare di doversi sentire in colpa per essersi abbandonata a quei piaceri. Così come amava vederla scattante, con la mente che lavorava febbrilmente e il corpo pronto all'azione. No, prima d'allora non gli era mai accaduto nulla di simile, con nessuna donna. Di tutte quelle che aveva conosciuto, Eve era la sola che avesse suscitato in lui l'ardente desiderio di starle vicino, di toccarla. Al di là della bramosia fisica, primordiale e apparentemente insaziabile, che lei gli ispirava, Roarke si sentiva continuamente affascinato. Dalla sua mente, dal suo cuore, dai suoi segreti, dalle sue cicatrici. Una volta le aveva detto che erano due anime smarrite. Ora pensò che tale definizione era quanto mai rispondente al vero. Tuttavia entrambi avevano trovato l'uno nell'altra radici comuni. Per essere un uomo che in tutta la sua vita si era tenuto prudentemente alla larga dai poliziotti, la constatazione che la sua felicità dipendeva adesso da uno di loro era sconvolgente. Ridendo di se stesso, scivolò nell'acqua accanto a Eve, la quale riuscì a raccogliere l'energia sufficiente per socchiudere gli occhi. «Non credo di essere in grado di muovermi.» «Allora resta ferma.» Le porse un altro calice di champagne, serrandole le dita attorno allo stelo. «Sono troppo rilassata per riuscire a ubriacarmi.» Ma con le labbra trovò il bicchiere. «Che esistenza fantastica. La tua», specificò. «Voglio dire che puoi avere tutto ciò che desideri, andare ovunque, fare qualsiasi cosa. Quando vuoi spassartela una notte, fai un salto in Messico a mangiarti un'aragosta e... che cos'era quell'altra roba, quella che hai spalmato sui cracker?» «Fegato d'oca.» Eve trasalì, scossa da un brivido. «Non l'avevi chiamato così quando me l'hai messo in bocca. Aveva un nome più accattivante.» «Foie gras. È più o meno lo stesso.» «Suona meglio.» Allungò le gambe e le accavallò a quelle di lui. «Comunque sia, la maggior parte della gente programma un video o si fa un
rapido giro nella realtà virtuale con gli appositi occhiali, quando non spende un po' di soldi in una cabina di simulazione a Times Square. Tu invece fai cose reali.» «Preferisco ciò che è reale.» «Lo so. È un'altra tua stranezza. Ti piace vivere all'antica. Preferisci leggere un libro stampato, con le pagine di carta, piuttosto che un disco da far scorrere sullo schermo del computer, e ti prendi la briga di venire fin qui quando potresti programmare una simulazione nella tua stanza degli ologrammi.» Le labbra le si incurvarono leggermente, con aria sognante. «Amo questo lato del tuo carattere.» «Mi fa piacere.» «Quando eri un ragazzo e conducevi un'esistenza miserabile, era questo che sognavi?» «Sognavo di sopravvivere, di uscire da quella morta gora. Di prendere io il controllo della situazione. Non era così anche per te?» «Suppongo di sì.» Troppe delle aspirazioni di Eve erano state confuse e oscure. «Dopo che ero entrata a far parte del sistema, in ogni caso. Allora cominciai a desiderare in particolar modo di diventare poliziotto. Un buon poliziotto. Un poliziotto in gamba. Tu che cosa ti ripromettevi di diventare?» «Aspiravo a essere ricco. A non provare più la fame.» «Entrambi abbiamo ottenuto ciò che volevamo, più o meno.» «Mentre ero via, hai avuto gli incubi.» Eve non dovette aprire gli occhi per vedere lo sguardo preoccupato di Roarke. Poté intuirlo dalla sua voce. «Non erano particolarmente angosciosi. Normali, più che altro.» «Eve, se ti facessi analizzare dalla dottoressa Mira...» «Non sono ancora pronta a ricordare. Non tutto, almeno. Sei mai riuscito a cancellare le cicatrici di ciò che tuo padre ti ha fatto?» Reso inquieto dai ricordi, Roarke si spostò, calandosi più a fondo nell'acqua calda e schiumosa. «Qualche percossa, noncuranti atti di crudeltà. Quale importanza possono avere, adesso?» «Li hai rimossi.» Eve aprì gli occhi, lo guardò e vide che stava rimuginando tra sé. «Ma ne sei stato forgiato, non è così? Se sei come sei, lo devi a quello.» «Suppongo di sì, a occhio e croce.» Eve annuì e si sforzò di parlare in tono disinvolto. «Roarke, credi che se qualcuno viene privato di qualcosa, e se quella mancanza induce a bruta-
lizzare i figli... a fare loro ciò che è toccato a noi... credi che tale comportamento possa trasmettersi di generazione in generazione? Ritieni che...» «No.» «Ma...» «No.» Con una mano le afferrò un polpaccio e glielo strinse. «Noi abbiamo finito, alla lunga, per trasformarci in ciò che siamo. Tu e io ce l'abbiamo fatta. Se non fosse vero, io vivrei nei bassifondi di Dublino, ubriaco fradicio, in cerca di qualcuno di più debole su cui infierire. E tu, Eve, saresti fredda, calcolatrice, incapace di provare pietà.» Lei tornò a chiudere gli occhi. «Qualche volta lo sono.» «No, non lo sei mai. Sei forte, hai una profonda moralità e di tanto in tanto ti fai straziare dalla compassione nei riguardi delle creature innocenti.» Eve sentì che, dietro le palpebre chiuse, gli occhi le bruciavano. «Una persona che ammiro e rispetto mi ha chiesto aiuto, mi ha domandato un favore. Ho rifiutato drasticamente. Che cosa fa, questo, di me?» «Una donna obbligata a compiere una scelta.» «Roarke, non riesco a togliermi di mente l'ultima vittima, Louise Kirski. Aveva ventiquattro anni, talento e una gran voglia di vivere. Era innamorata di un musicista di second'ordine, abitava in un monolocale ingombro di roba sulla 26th Ovest e amava il cibo cinese. Ha lasciato una famiglia, in Texas, che non sarà mai più la stessa. Era innocente, Roarke, e questa cosa mi ossessiona.» Si lasciò sfuggire un lungo sospiro di sollievo. «Non ero mai riuscita a dirlo a nessuno. Non ero sicura di poter esprimere a voce alta questi pensieri.» «Sono felice che tu abbia potuto dirlo a me. Ora, ascolta.» Posò il bicchiere e si spostò in avanti, prendendole il viso fra le mani. La pelle di lei era morbida e fra le palpebre appena dischiuse gli occhi sembravano gemme di ambra scura. «È il destino a decidere della nostra vita, Eve. Noi cerchiamo di salire, un gradino dopo l'altro, e facciamo progetti, lavoriamo sodo, ma a un tratto arriva il destino che, con una risata, butta tutto all'aria. A volte riusciamo a ingannarlo o ad anticiparne le mosse, ma quasi sempre il risultato è già scritto. Per alcuni, è scritto a lettere di sangue. Ciò non significa che ci si debba fermare, significa soltanto che non si può sempre cercare conforto nell'accollarsi ogni colpa.» «È questo, secondo te, che sto facendo? Sto cercando di confortarmi?» «È più facile biasimare se stessi che ammettere la propria impotenza, ri-
conoscere che non c'era modo di impedire ciò che è accaduto. Tu, Eve, sei dotata di arroganza. È un altro tuo aspetto che trovo affascinante. È da arroganti assumersi la responsabilità di avvenimenti che sono al di fuori del nostro controllo.» «Toccava a me tenerli sotto controllo.» «Ah, sì.» Sorrise. «Ovviamente.» «Non è arroganza», insistette lei, imbronciata. «È il mio lavoro.» «Ti sei fatta beffe dell'assassino, dando per scontato che avrebbe cercato di ucciderti.» Siccome quel pensiero gli attanagliava ancora le viscere, come un sibilante groviglio di serpi, le strinse più forte il volto. «Ora ti senti insultata, sei indispettita per il fatto che l'omicida non abbia seguito le tue regole.» «Questa è un'affermazione odiosa. Accidenti a te, io non...» Si interruppe, inspirò profondamente. «Stai cercando di farmi andare su tutte le furie affinché io smetta di compiangermi.» «E la cosa ha funzionato, a quanto pare.» «Va bene.» Eve richiuse gli occhi. «D'accordo. Per il momento non ci penserò più. Forse domani riuscirò a cavarmela meglio. Ci sai proprio fare, Roarke», aggiunse con un lievissimo sorriso. «Sono in molti a convenirne», mormorò lui, afferrandole leggermente un capezzolo fra pollice e indice. Per una sorta di effetto domino, il brivido di piacere si propagò fino alle dita dei piedi. «Non era questo che intendevo.» «Ma io sì.» Tirò delicatamente il capezzolo e sentì il fiato di Eve mozzarsi. «Forse, se riuscissi a togliermi di qui, potrei accettare la tua interessante offerta.» «Tu pensa solo a rilassarti.» Fissandola in volto, le infilò una mano fra le cosce, stringendole nel palmo il sedere. «Lascia fare a me.» Riuscì ad afferrare il bicchiere che le stava scivolando di mano e lo posò da un lato. «Lascia che ti prenda, Eve.» Prima che lei potesse rispondere, le provocò un subitaneo e sconvolgente orgasmo. I fianchi di Eve si inarcarono verso l'alto e ricaddero più volte sulla sua instancabile mano, finché non tornarono a distendersi. Roarke sapeva che ora lei avrebbe completamente smesso di pensare, sommersa da un susseguirsi di sensazioni. Ogni volta sembrava colta alla sprovvista e, come sempre, quella sua sorpresa, quella dolce e ingenua reazione, era tremendamente eccitante. Lui avrebbe voluto fare sesso con lei
ininterrottamente, per il semplice piacere di vederla gioire di ogni carezza, di ogni affondo. Si compiacque quindi di esplorare quel lungo corpo snello, di succhiare le piccole mammelle roventi, bagnate di acqua profumata, di aspirare i convulsi respiri che le sfuggivano dalle labbra. Eve si sentiva narcotizzata, inerme, con la mente e il corpo attanagliati dal piacere. Una parte di lei era scioccata, o cercava di esserlo. Non tanto per ciò che permetteva a Roarke di farle, ma perché gli consentiva di esercitare su di lei un completo e totale controllo. Non avrebbe potuto fermarlo, non l'avrebbe voluto, neppure quando lui le strappava quasi grida laceranti prima di indurla a un altro sconvolgente orgasmo. «Ancora.» Bramosamente, Roarke le afferrò i capelli e le piegò la testa all'indietro, infilandole le dita nel sesso, stimolandola senza pietà finché le mani di lei non ricaddero inerti nell'acqua. «Stanotte ci sono soltanto io. Ci siamo soltanto noi.» Le succhiò la gola, risalendo verso la bocca, e i suoi occhi sembravano lampeggianti astri azzurri. «Dimmi che mi ami. Dimmelo.» «Sì, ti amo.» Un gemito le sfuggì dalla gola quando lui la penetrò di nuovo, sollevandole in alto i fianchi e affondando dentro di lei completamente. «Dillo ancora.» Roarke sentì i muscoli di Eve stringergli il pene come una morsa e serrò i denti per impedirsi di venire. «Dillo ancora.» «Ti amo.» Tremante, gli circondò il corpo con le gambe e lasciò che si scatenasse in lei un nuovo frenetico orgasmo. Per uscire dalla piscina, fu costretta a trascinarsi, perché le girava la testa e le membra erano prive di forza. «Non ho più ossa.» Roarke ridacchiò, dandole un'amichevole pacca sul sedere. «Stavolta, amore mio, non ti prendo in braccio. Finiremmo tutti e due lunghi distesi sul pavimento.» «Potrei restare qui.» Era faticoso avanzare a quattro zampe sulle piastrelle lisce. «Prenderesti freddo.» Si sforzò di chiamare a raccolta l'energia residua e la tirò in piedi. Entrambi vacillavano come ubriachi. Eve cominciò a ridacchiare, senza riuscire a ritrovare l'equilibrio. «Che diavolo mi hai fatto? Mi sento come se avessi ingollato un paio di Freebirds.» Lui riuscì a prenderle il polso. «Da quando in qua consumi sostanze
proibite?» «Rientra nel normale addestramento delle forze di polizia.» Eve provò a mordicchiarsi il labbro inferiore e si accorse che era intorpidito. «In accademia i poliziotti devono seguire un corso sulle droghe illegali. Io ne ho provate parecchie e ne ho sperimentato gli effetti. Gira anche a te la testa?» «Ti farò sapere quando mi tornerà la sensibilità dalla vita in su.» Le piegò la testa all'indietro e la baciò. «Perché non verifichiamo se possiamo farlo all'interno? Potremmo...» Si interruppe e i suoi occhi si socchiusero, fissando qualcosa al di là della spalla di lei. Eve poteva anche essere senza forze, ma era pur sempre un poliziotto. Istintivamente roteò su se stessa e si irrigidì, facendo inconsciamente scudo con il proprio corpo a quello di Roarke. «Cosa? Che cosa c'è?» «Nulla.» Lui si schiarì la voce e le batté la mano sulla spalla. «Nulla», ripeté. «Entriamo. È tutta colpa mia.» «Che cosa?» Eve restò dov'era, scrutando intorno in cerca del pericolo. «Non è nulla di grave, davvero. È solo che... ho dimenticato di spegnere la telecamera di sorveglianza. Si attiva... ehm... con il movimento o le voci.» Nudo, si avviò verso un muretto basso, di pietra, azionò un interruttore ed estrasse un nastro. «Una telecamera.» Eve alzò un dito. «Siamo stati ripresi per tutto il tempo in cui siamo stati qui?» Socchiudendo gli occhi, fissò la piscina. «Dall'inizio alla fine?» «È questo il motivo per cui preferisco circondarmi di personale umano invece che di apparecchi automatizzati.» «Su quel nastro ci siamo noi? Tutto quello che abbiamo fatto è lì sopra?» «Lo distruggerò.» Eve stava per aggiungere qualcosa, ma, dopo aver dato una bella occhiata al volto di lui, restò come folgorata. «Accidenti, Roarke, sei imbarazzato.» «Assolutamente no.» Se avesse indossato qualcosa che non fosse la sola pelle, si sarebbe infilato le mani in tasca. «È stata semplicemente una sbadataggine. Ho detto che distruggerò il nastro.» «Vediamolo, piuttosto.» Roarke si immobilizzò, concedendo a Eve il raro piacere di vederlo sbarrare gli occhi. «Come hai detto?» «Sei imbarazzato.» Si protese a baciarlo e, mentre lo distraeva così, gli sfilò di mano il nastro. «Che cosa carina. Davvero carina.»
«Smettila. Rendimi il nastro.» «Non ci penso nemmeno.» Divertita, indietreggiò a passo di danza, tenendo il nastro fuori della sua portata. «Scommetto che sarà una visione molto piccante. Non sei curioso?» «No.» Roarke cercò di afferrarlo, ma lei fu più rapida. «Eve, dammi quel dannato nastro.» «Fantastico.» Indietreggiò verso le porte del patio, aperte. «Quel sofisticato uomo di mondo che è Roarke sta arrossendo.» «Non è vero.» Si augurò che fosse così. Ci mancava anche una vampata di rossore. «Semplicemente non vedo il motivo di documentare un rapporto sessuale. È una cosa privata.» «Non lo darò a Nadine Furst perché lo mandi in onda. Voglio solo vederlo. Subito.» Si lanciò all'interno mentre lui, imprecando, le correva dietro. Alle nove di mattina in punto Eve entrò nel suo ufficio con passo elastico. Aveva gli occhi chiari e limpidi, il fisico tonificato e le spalle sciolte. E stava addirittura canticchiando. «C'è chi è baciato dalla fortuna», commentò Feeney con voce tetra, senza togliere i piedi dalla scrivania di Eve. «Se non sbaglio, Roarke è tornato sul nostro pianeta.» «Mi sono concessa una bella notte di sonno», replicò lei, sbattendogli giù i piedi. Feeney grugnì. «Tanto meglio, perché oggi non potrai stare molto in pace. È arrivato il rapporto della Scientifica. Quel dannato pugnale è da scartare.» L'umore solare di Eve svanì di colpo. «Che cosa intendi dire? Perché il pugnale sarebbe da scartare?» «La lama è troppo spessa. Un centimetro. Tanto varrebbe dire un metro, dannazione.» «Potrebbe dipendere dall'angolazione delle ferite, dalla violenza del colpo.» Il Messico si volatilizzò, come una bolla d'aria. Con la mente in subbuglio, Eve iniziò a camminare avanti e indietro. «E il sangue?» «Sono riusciti a ricavarne un campione sufficiente per individuare gruppo sanguigno e DNA.» Il volto già cupo di Feeney si allungò. «Che corrispondono a quelli del nostro uomo. È sangue di David Angelini, Dallas. Secondo quelli del laboratorio è anche vecchio, risale come minimo a sei mesi fa. A giudicare dalle fibre che sono state trovate, David se ne serviva
per aprire le buste e probabilmente, nel farlo, gli è capitato di tagliarsi. Non è l'arma che cerchiamo.» «Maledizione.» Trasse un profondo respiro, come per allontanare da sé la delusione. «Se aveva un pugnale, potrebbe averne avuti due. Aspettiamo di sentire che cos'altro è stato trovato nelle varie perquisizioni.» Indugiando un attimo, si fregò il volto con le mani. «Ascolta, Feeney. Se siamo convinti che Marco abbia confessato il falso, dobbiamo chiederci perché l'abbia fatto. Lui non è un mitomane o uno squilibrato che agisca così solo per mettersi in mostra. Se ha accusato se stesso è perché spera in tal modo di salvare il figlio. Perciò dobbiamo lavorarcelo, e pesantemente. Tornerò a interrogarlo, per vedere se riesco a farlo crollare.» «Io sto con te.» «Fra un paio d'ore devo incontrarmi con la dottoressa Mira. Nel frattempo rosoliamo a fuoco lento il nostro uomo.» «Pregando che quelli della Scientifica trovino qualcosa.» «Le preghiere non fanno mai male. Il guaio, Feeney, è che all'udienza preliminare i legali di David, se vengono a sapere della confessione del padre, chiederanno che il figlio risponda solo delle accuse minori. Addio incriminazione.» «E a quel punto, in mancanza di prove materiali, lui torna in libertà.» «Già. Quel figlio di puttana.» Marco Angelini era come un masso cementato nel granito. Non mostrò il minimo cenno di cedimento. Due ore di intenso interrogatorio non produssero alcuna incrinatura nella sua versione dei fatti. I cui vistosi buchi, però, si disse Eve a mo' di consolazione, non erano stati riempiti neppure stavolta. Al momento lei non aveva altra scelta che riporre le proprie speranze nelle conclusioni di Mira. «Posso dirle», esordì la dottoressa nel suo solito tono equilibrato, «che David Angelini è un giovane affetto da qualche lieve turba psichica, con un senso di autoindulgenza e autoprotezione molto sviluppato.» «Mi dica se è capace di tagliare la gola alla madre.» «Ah.» Mira si appoggiò allo schienale della sedia, allacciandosi le dita perfettamente curate. «Ciò che posso aggiungere è che, a mio avviso, è più portato a fuggire davanti ai problemi che ad affrontarli, a qualsiasi livello. Se valutiamo i suoi comportamenti in base alle teorie di Murdock-Lowell e alle Scale sinergiche...» «Può tralasciare questi dettagli da addetti ai lavori, dottoressa? Posso
sempre leggerli nel rapporto.» «Va bene.» Mira si allontanò dallo schermo sul quale stava per richiamare le sue tabelle. «Per il momento restiamo a un livello più terra terra. Il suo uomo è un bugiardo, pronto a convincersi con un minimo sforzo che le sue menzogne siano verità, al solo scopo di mantenere alta l'autostima. Ha bisogno di essere benvoluto, persino apprezzato, ed è abituato a esserlo. E a fare come più gli piace.» «E se non ci riesce?» «Proietta la colpa su qualcos'altro. Non si sente mai in fallo, non si attribuisce mai alcuna responsabilità. Il suo mondo è un'isola, tenente, che in genere contiene lui solo. David si considera un uomo di successo e di talento, perciò, in caso di fallimento, si convince che sia stato qualcun altro a commettere un errore. Gioca perché non ritiene di poter perdere e ama il brivido del rischio. Perde perché è convinto di essere meglio degli altri giocatori.» «Come reagirebbe al timore di ritrovarsi con le ossa rotte per i suoi debiti di gioco?» «Correrebbe a nascondersi e, dipendendo dai genitori in maniera anormale, si aspetterebbe da loro una soluzione ai guai in cui si è cacciato.» «E se i genitori rifiutassero di aiutarlo?» Mira restò per un attimo in silenzio. «Lei vuole che io le dica che David potrebbe esplodere, reagire violentemente, magari fino al punto di commettere un omicidio. Ma non posso farlo. Ovviamente, una simile eventualità non può essere scartata a priori, il che comunque vale per noi tutti. Nessun test, nessuna valutazione possono escludere categoricamente che un individuo in determinate circostanze si comporti così. Però ogni test e ogni valutazione ci dicono che il soggetto in esame ha sempre reagito nascondendosi, fuggendo, rovesciando la colpa su altri, invece di affrontare alla base il problema.» «Ma potrebbe celare la propria reazione, eludere le valutazioni.» «È possibile, ma improbabile. Mi dispiace.» Eve smise di andare avanti e indietro e si accasciò su una sedia. «Mi sta dunque dicendo che, a suo parere, l'assassino è ancora a piede libero?» «Temo di sì. Ciò rende il suo lavoro più difficile.» «Se lo sto cercando nel posto sbagliato», disse Eve, rivolta a se stessa, «qual è il posto giusto? E chi sarà la prossima vittima?» «Sfortunatamente, né la scienza né la tecnologia sono ancora in grado di predire il futuro. Riusciamo a valutare le possibilità, persino le probabilità,
ma impulsi ed emozioni ci sfuggono. Sta facendo proteggere Nadine Furst?» «Nei limiti del possibile.» Eve tamburellò con un dito su un ginocchio. «È un personaggio difficile da gestire e la morte di Louise Kirski l'ha sconvolta.» «Anche per lei, Eve, è stato un brutto colpo.» Eve distolse lo sguardo e fece un rigido segno d'assenso. «Già, lo può ben dire.» «Eppure stamattina ha un'aria insolitamente rilassata.» «Ho trascorso una buona notte di sonno.» «Senza incubi?» Eve si strinse nelle spalle e confinò Angelini e il suo caso in un angolo della mente, augurandosi che ne germogliasse qualche nuova idea. «Che cosa pensa di una donna che apparentemente non riesce a dormire se un certo uomo non è a letto con lei?» «Ne deduco che è innamorata di quell'uomo, o, quanto meno, che si sta sempre più abituando alla sua presenza.» «Non la definirebbe troppo dipendente da lui?» «Riesce a svolgere le proprie funzioni quando lui non c'è? Si ritiene in grado di prendere una decisione senza chiedere a lui consigli, suggerimenti, spunti sulla direzione da seguire?» «Be', certo, ma...» Si interruppe, sentendosi una sciocca. E tuttavia, se proprio si doveva passare per idioti, quale posto migliore dello studio di uno strizzacervelli? «L'altro giorno, quando lui era lontano dal pianeta, sono andata al lavoro con una delle sue camicie addosso. È una cosa...» «Carina», disse Mira con un sorriso dolce. «Romantica. Perché quest'aura sentimentale la preoccupa tanto?» «Non mi preoccupa. Io... D'accordo, mi terrorizza e non so perché. Non sono abituata ad avere qualcuno accanto, ad avere qualcuno che mi guarda come... come fa lui. A tratti è irritante.» «Perché mai?» «Perché io non ho fatto nulla per indurlo a volermi così bene. E so che mi ama profondamente.» «Eve, lei ha sempre valutato se stessa in funzione del suo lavoro. Ora questa relazione la costringe a iniziare a vedersi come donna. Ha paura di ciò che potrebbe scoprire?» «Non me l'aspettavo. La mia vita ha sempre ruotato attorno al lavoro. Gli alti e bassi, la corsa contro il tempo, la monotona routine. Ogni cosa
che io avevo bisogno di essere era lì. Ce l'ho messa tutta per diventare tenente e immagino di poter ottenere il grado di capitano, o salire ancora più in alto, se mi impegnerò a fondo. Fare questo lavoro era tutto per me. Mi sembrava che non ci fosse nulla di più importante che rendere al meglio, lasciare il segno. Lo è ancora, importante, ma non è più tutto per me.» «Oserei dire, Eve, che ciò la renderà migliore sia come poliziotto sia come donna. Focalizzarsi su un unico obiettivo è un limite e, a volte, può diventare un'ossessione. Una vita sana ha bisogno di più scopi, più passioni.» «Allora credo che la mia vita stia diventando più sana.» Il suo cellulare ronzò, ricordandole che era in servizio, che prima di ogni altra cosa era un poliziotto. «Dallas.» «Faresti bene a guardare la trasmissione in onda su Channel 75», le comunicò Feeney. «Poi torna al volo qui, alla Tower. Il capo vuole darci una bella strigliata.» Eve interruppe la comunicazione. Mira aveva già acceso lo schermo del televisore, sul quale apparve C.J. Morse che conduceva il suo programma di mezzogiorno. «... interminabili problemi nelle indagini sugli omicidi. Una fonte ben informata su quanto avviene nella centrale di polizia ci ha confermato che, mentre David Angelini è stato accusato di intralcio alla giustizia e resta il principale indiziato per i tre delitti, Marco Angelini, il padre del presunto colpevole, ha confessato di averli commessi lui. Angelini senior, presidente della Angelini Exports ed ex marito della prima vittima, il procuratore distrettuale Cicely Towers, si è consegnato ieri alla polizia. Eppure, nonostante la sua piena ammissione di aver compiuto tutti e tre gli omicidi, non è stato incriminato e la polizia continua a tenere in carcere David Angelini.» Morse si interruppe e si voltò leggermente di lato, per farsi inquadrare da una nuova telecamera. Il suo simpatico volto giovanile aveva un'espressione preoccupata. «Fra gli ulteriori sviluppi del caso, va segnalato che un pugnale rinvenuto in casa Angelini durante una perquisizione e sottoposto agli esami della Scientifica risulta non essere l'arma del delitto. Ecco quanto ha dichiarato stamattina Mirina Angelini, figlia della defunta Cicely Towers, durante un'intervista esclusiva che mi ha rilasciato.» Sullo schermo apparvero una diversa ambientazione e il grazioso e indignato volto di Mirina Angelini. «La polizia sta perseguitando la mia famiglia. Non basta che mia madre sia morta, assassinata in mezzo a una stra-
da. Ora, in un disperato tentativo di nascondere la loro inettitudine, i poliziotti hanno arrestato mio fratello e fermato mio padre. Non mi sorprenderebbe se da un momento all'altro qualcuno venisse a mettere anche a me le manette ai polsi.» Mentre Morse rivolgeva a Mirina una serie di domande, spingendola a pronunciare altre accuse con gli occhi pieni di lacrime, Eve digrignò i denti. Quando il programma tornò a essere trasmesso dallo studio televisivo, aveva la fronte profondamente aggrottata. «Una famiglia sotto assedio? Corrono voci che sia in atto un tentativo di sollevare un polverone per nascondere la verità. Non ho potuto chiedere spiegazioni al tenente Eve Dallas, principale responsabile delle indagini, perché è irreperibile.» «Quel piccolo bastardo. Miserabile bastardo», mormorò Eve, voltando le spalle allo schermo. «Non ha mai neanche cercato di contattarmi. Gliele avrei cantate chiare.» Furiosa, afferrò la borsa e lanciò un'ultima occhiata a Mira. «Lei dovrebbe analizzare quel tipo», disse, indicando con la testa il televisore. «Quel piccolo stronzo soffre di manie di grandezza.» 17 Harrison Tibbie militava nelle forze di polizia da trentacinque anni. Aveva iniziato la sua carriera come semplice agente di pattuglia, battendo le zone malfamate del West Side quando ancora i poliziotti e le loro prede giravano carichi di armi da fuoco. Una volta era persino rimasto ferito: tre brutti fori di pallottola nell'addome che avrebbero potuto uccidere un uomo meno forte di lui e indurre certamente una persona più normale a rimettere in discussione la scelta di fare il poliziotto. Tibbie era invece tornato pienamente in servizio dopo appena sei settimane. Era un individuo gigantesco, alto poco meno di due metri e pesante oltre centoventi chili, quasi tutti di puro muscolo. Dopo la messa al bando delle armi da fuoco, per intimidire le prede aveva fatto ricorso alla propria mole e a un sorriso così gelido da incutere terrore. Gli era rimasta la mentalità di un poliziotto da strada e il suo stato di servizio era tanto immacolato da poterci servire il tè. Aveva un volto largo e squadrato, la pelle color onice lucidato, le mani grandi quanto le ruote di un battello a vapore e una totale intolleranza nei confronti della stupidità. Eve aveva molta simpatia per lui e privatamente osava confessare di es-
serne vagamente intimorita. «Com'è che siamo finiti in questo cumulo di merda, tenente?» «Signore.» Eve si trovava davanti a lui assieme a Feeney e Whitney, ma si rendeva conto di essere, almeno per il momento, completamente sola. «David Angelini si trovava sulla scena del delitto la sera in cui Louise Kirski è stata uccisa. E questo è un fatto inconfutabile. Inoltre non dispone di alcun alibi solido rispetto agli altri due omicidi. Da tempo è pesantemente indebitato con certi strozzini e grazie alla morte della madre può entrare in possesso di una bella e ricca eredità. Abbiamo appurato con certezza che lei non aveva più intenzione di tirarlo fuori dei guai.» «La ricerca del movente economico è uno strumento investigativo valido e sperimentato, tenente. Ma che cosa può dirmi degli altri due delitti?» Lui sapeva già tutto, si disse Eve, sforzandosi di non rivelare la propria tensione. Ogni parola di ogni rapporto passava sotto i suoi occhi. «Conosceva Yvonne Metcalf, era stato nel suo appartamento, lavorava con lei a un progetto. Aveva bisogno di un preciso impegno da parte dell'attrice, che però stava giocando a rimpiattino, nascondendogli i propri piani. Quanto alla terza vittima, è stato un errore. Noi siamo più che convinti che la vittima designata fosse Nadine Furst, la quale stava seguendo attivamente questo caso grazie anche ai miei suggerimenti e alla mia collaborazione. Anche lei ha avuto rapporti diretti con David Angelini.» «Fin qui tutto va a meraviglia.» Il sedile scricchiolò sotto il suo peso, quando lui si appoggiò allo schienale. «Un ottimo lavoro. Lei può dimostrare che l'indiziato si trovava sul luogo di uno dei delitti, ha stabilito i vari moventi, ha messo in luce i rapporti con le vittime. Ma adesso viene il difficile. Le manca l'arma e le mancano le tracce di sangue. A questo punto l'unica prova di cui lei dispone è una banale presenza fisica.» «Non solo, al momento.» «Lei ha anche una confessione, ma questa non è stata resa dall'indiziato.» «La confessione non è altro che una cortina fumogena», intervenne Whitney. «Il tentativo di un padre di proteggere il figlio.» «Questa è la vostra opinione», ribatté pacatamente Tibbie. «Ma il fatto è che la confessione è stata messa a verbale ed è diventata di pubblico dominio. Il profilo psicologico non quadra, l'arma non è quella trovata e, a mio parere, l'ufficio del procuratore distrettuale è stato troppo frettoloso nell'accettare questa soluzione. Capita, quando la vittima è un tuo collega.» Prima che Eve potesse replicare, alzò una mano grande quanto un vasso-
io. «Le dirò io che cosa abbiamo in mano, almeno dal punto di vista di tutta quella brava gente che guarda la televisione. Una famiglia in lutto tormentata dalla polizia, prove puramente indiziarie e tre donne con la gola squarciata.» «Nessuna gola è più stata recisa da quando David Angelini è dietro le sbarre. E le accuse che gli sono state mosse sono ineccepibili.» «C'è del vero in ciò che dice, ma questo fatto inconfutabile non basterà a sostenere un'accusa peraltro debole... non quando la giuria comincerà a provare compassione per l'imputato e il legale della difesa a tirare in ballo la diminuita capacità mentale.» Indugiò, scrutando i volti che aveva davanti, e, quando nessuno confutò le sue parole, picchiettò le dita sulla scrivania. «Secondo lei, Feeney, che è il mago dei numeri, il genio dell'elettronica, quali sono le probabilità che si arrivi a un processo per omicidio se domani formuliamo contro il nostro ragazzo soltanto l'accusa di intralcio alle indagini e quella di tentata corruzione?» Feeney curvò le spalle. «Cinquanta per cento», rispose con aria tetra. «Nella migliore delle ipotesi, considerando l'ultimo servizio di cronaca di quel furfante di Morse.» «Non ci basta. Rilasciatelo.» «Rilasciarlo? Capo...» «Se lo incriminassimo solo di questi reati, non otterremmo altro che una cattiva stampa per noi e la simpatia della gente per il figlio di una funzionaria dello Stato martirizzata. Lo lasci andare, tenente, e indaghi più a fondo. Mettetegli qualcuno alle calcagna», ordinò a Whitney. «Fate pedinare anche il padre. Voglio essere informato di ogni minima cosa che fanno, fosse anche una scoreggia. E trovatemi quella dannata gola profonda», aggiunse, con lo sguardo diventato duro. «Voglio sapere chi è lo stronzo che ha passato la notizia a quell'idiota di Morse.» Di colpo sorrise, in quel suo modo che metteva i brividi. «E, una volta trovato l'informatore, desidero parlargli io, personalmente. Sta' alla larga dagli Angelini, Jack. Non è il momento di tirare in ballo l'amicizia.» «Speravo di poter parlare con Mirina. Potrei riuscire a convincerla a non rilasciare più interviste.» «È un po' tardi per correre ai ripari», commentò Tibbie. «Toglitelo dalla testa. Ho lavorato sodo per tenere fuori da questo ufficio il tanfo della parola 'insabbiamento' e non voglio dover ricominciare tutto da capo. Trovatemi l'arma, trovatemi qualche traccia di sangue. E, per l'amor del cielo, fa-
telo prima che qualcun'altra venga fatta fuori.» Con voce rombante, schioccando le dita, impartì una brusca serie di ordini. «Feeney, compia una delle sue magie. Ripassi i nomi segnati sui diari delle vittime e faccia un controllo incrociato con quelli della Furst. Mi trovi qualcun altro ricollegabile a tutte queste donne. Signori, è tutto.» Si alzò in piedi. «Tenente Dallas, mi conceda un altro po' del suo tempo.» «Signore», intervenne Whitney, in tono formale, «voglio mettere in chiaro che, per quanto riguarda il tenente Dallas quale responsabile delle indagini, considero esemplare il modo in cui le ha condotte. Il suo lavoro è stato di altissimo livello, nonostante alcune difficili circostanze, tanto professionali quanto personali, che sono in parte dovute a me.» Tibbie inarcò un sopracciglio cespuglioso. «Sono sicuro che il tenente apprezzerà il tuo commento, Jack.» Non aggiunse altro, attendendo che i due uomini uscissero. «Jack e io ci conosciamo da parecchio tempo», iniziò poi in tono salottiero. «Adesso lui crede che, dal momento che occupo la stessa sedia su cui posava le sue dannate chiappe quel corrotto di Simpson, io abbia intenzione di usare lei come comodo capro espiatorio, buttandola in pasto a quegli avvoltoi di giornalisti.» Sostenne fermamente lo sguardo di Eve. «Lo crede anche lei, Dallas?» «No, signore. Ma lei potrebbe farlo.» «Già.» Si grattò la nuca. «Potrei. Ha incasinato queste indagini, tenente?» «È possibile.» Fu un boccone duro da inghiottire. «Se David Angelini è innocente...» «Sta al tribunale decidere se l'imputato è colpevole o innocente», la interruppe Tibbie. «Lei deve solo raccogliere le prove. E ne ha trovate alcune valide, fra cui la presenza di quel bellimbusto sul luogo del delitto nel caso Kirski. Anche se non è stato lui a ucciderla, quel bastardo ha tagliato la corda dopo averla vista trucidare. Non è certo il tipo a cui darei una medaglia.» Congiunse le dita e fissò Eve da sopra i polpastrelli. «Sa che cosa avrebbe potuto indurmi a toglierle il caso, Dallas? Se mi fossi convinto che lei si stava accollando troppo la morte della Kirski.» Vedendo Eve aprire la bocca per replicare e tornare a chiuderla, le rivolse un sorriso tirato. «Già, è meglio che stia zitta. Lei si era proposta come esca, correndo un rischio calcolato. C'erano ottime probabilità che l'assassino abboccasse. Io, nei miei giorni gloriosi, avrei fatto lo stesso», aggiunse, con una punta di rimpianto per quei tempi andati. «Il guaio è che lui ha scelto la preda sbagliata
e ad andarci di mezzo è stata una povera donna con il vizio del tabacco. Lei si sente responsabile della sua fine?» Eve si sforzò di mentire, ma ci rinunciò e disse la verità. «Sì.» «Se lo tolga dalla mente», ribatté Tibbie in tono brusco. «In questo caso è l'eccesso di coinvolgimento emotivo a complicare ogni cosa. Jack non riesce a superare il proprio dolore, lei il proprio senso di colpa. Il che vi rende entrambi inutili. Se proprio vuole sentirsi in colpa, se anela a essere punita, aspetti di averlo inchiodato. Sono stato chiaro?» «Sì, signore.» Soddisfatto, Tibbie tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Non appena uscirà da qui, i cronisti le balzeranno addosso come un nugolo di pulci.» «So tenerli a bada.» «Non ne dubito.» Sbuffò. «E questo vale anche per me. Ho indetto una conferenza stampa. Ora sparisca.» C'era un unico posto in cui andare, che era quello da cui era cominciato tutto. Eve si fermò sul marciapiede di fronte al Five Moons, con gli occhi bassi. Ripercorrendo mentalmente la ricostruzione dei fatti, si avviò verso l'ingresso della metropolitana. Stava piovendo, ricordò. Con una mano tenevo l'ombrello e con l'altra reggevo saldamente la borsa infilata sotto l'ascella. Brutta zona. Sono furiosa. Cammino alla svelta, ma mi guardo in giro per vedere se qualcuno ha intenzione di impadronirsi del mio prezioso portafoglio. Entrò nel Five Moons, ignorando le rapide occhiate e l'espressione impassibile del droide dietro il bancone del bar, e cercò di immedesimarsi in Cicely Towers. Che locale disgustoso. Sporco. Non berrò nulla, non mi accomoderò neppure a un tavolo. Dio solo sa che cosa mi resterebbe attaccato all'abito. Un'occhiata all'orologio. Dove diavolo sarà finito, lui? Speriamo di concludere questa storia alla svelta. Perché ho acconsentito a incontrarlo qui? Stupida, stupida. Avrei dovuto farlo venire in ufficio, sul mio terreno. Perché non l'ho fatto? Perché si trattava di una cosa personale, pensò Eve, chiudendo gli occhi. Privata. In ufficio c'era troppa gente e lei avrebbe dovuto rispondere a troppe domande. Non era un problema di lavoro. Era un fatto personale. Perché non ha scelto il suo appartamento, allora? Non voleva riceverlo lì. Era troppo arrabbiata... furiosa... sconvolta... per mettersi a discutere quando lui le ha proposto ora e luogo dell'incon-
tro. No, era soltanto arrabbiata, spazientita, decise Eve, ricordando la testimonianza del droide. Continuava a controllare l'ora, poi, accigliata, ha rinunciato ad attendere oltre ed è uscita. Eve ripercorse la strada, non dimenticando l'ombrello e la borsa. Andatura veloce, ticchettio di tacchi alti. C'è qualcuno, lì. Lei si ferma. Lo vede, lo riconosce? Certo, sono l'uno di fronte all'altra. Forse lei gli parla: «Sei in ritardo». Lui agisce in un lampo. È un quartiere malfamato. Il viavai delle auto è scarso, ma non si può mai sapere. C'è qualche lampione stradale acceso, ma fa poca luce. Nessuno se ne lamenta eccessivamente, perché gli scambi di droga sono più sicuri, al buio. Però qualcuno potrebbe sempre uscire dal bar, o dal club sul lato opposto della strada. Un fendente e lei si accascia. Il suo sangue zampilla. Lui dev'essere coperto di sangue. Afferra l'ombrello. Impulsivamente, o, magari, per schermarsi. Si allontana a piedi, rapidamente. Non verso la metropolitana. È troppo sporco di sangue. Anche in questa zona, qualcuno lo noterebbe. Percorse due isolati in entrambe le direzioni, poi tornò sui propri passi, interrogando ogni persona che trovava a bighellonare in strada. Per tutta risposta ricevette soprattutto alzate di spalle e sguardi d'odio. Nel West End i poliziotti non erano visti molto di buon occhio. A un tratto scorse un venditore ambulante, che aveva tutta l'aria di smerciare droga piuttosto che perline e piume, svoltare l'angolo su uno skateboard a motore. Lo fissò con espressione minacciosa. «Sei già venuta da queste parti.» Eve si voltò verso la persona che aveva parlato. Una donna, così bianca da essere quasi invisibile. Il volto pareva coperto da una mano di gesso, i capelli erano così fini da mostrare lo scalpo candido come un osso e gli occhi non avevano colore attorno alle pupille non più grandi di una capocchia di spillo. Una drogata all'ultimo stadio, pensò Eve. Quegli individui si ingollavano la polverina bianca che annebbiava la mente e scoloriva la pigmentazione. «Sì, ci sono già venuta.» «Sei uno sbirro.» La drogata avanzò bruscamente, con un'andatura rigida, come un droide che si presentasse alla manutenzione. Segno che stava per avere una crisi d'astinenza. «Tempo fa, ti ho vista parlare con Crack.
Lui è uno che si nota.» «Già, è un tipo vistoso. Eri da queste parti la notte in cui è stata uccisa per strada una donna?» «Una signora fantastica, ricca e fantastica. L'ho vista in televisione mentre mi trovavo in clinica a disintossicarmi.» Eve si ricacciò in gola un'imprecazione, si fermò e tornò indietro. «Se ti stavi disintossicando in clinica, come hai fatto a vedermi parlare con Crack?» «Sono andata in clinica quel giorno stesso. O quello dopo, forse. Il tempo è relativo, giusto?» «Magari ti era capitato di scorgere quella ricca e fantastica signora prima di vederla in televisione.» «No.» L'albina si succhiò un dito. «Non mi era capitato.» Eve esaminò l'edificio alle spalle della drogata, valutandolo a occhio. «È qui che abiti?» «Un po' qui, un po' là. Ho un bugigattolo con un letto, su in cima.» «C'eri la notte in cui la signora fu sgozzata?» «Probabilmente. Sono a corto di soldi.» Sorrise, mettendo a nudo piccoli denti arrotondati. Aveva un alito disgustoso. «C'è poco da divertirsi, in strada, quando non hai il becco di un quattrino.» «Pioveva», l'incalzò Eve. «Oh, già. Mi piace la pioggia.» I suoi muscoli continuavano a contrarsi, ma gli occhi avevano uno sguardo sognante. «L'osservavo cadere, dalla finestra.» «Hai visto qualcos'altro, dalla finestra?» «Gente che viene, gente che va», rispose la drogata con voce cantilenante. «A volte se ne sente la musica che sale dalla strada. Ma non quella notte. Pioveva troppo forte. I passanti correvano a ripararsi. Come se temessero di sciogliersi o qualcosa del genere.» «Hai visto qualcuno correre sotto la pioggia.» Gli occhi incolori si fecero taglienti. «Forse. Quanto vale l'informazione?» Eve si frugò in tasca. Aveva spiccioli a sufficienza da formare un bel mucchietto. La drogata roteò gli occhi e tese di scarto la mano. «Che cosa hai visto?» le chiese lentamente Eve, tenendo i soldi fuori della sua portata. «Un tizio che pisciava in quel vicolo laggiù.» Si strinse nelle spalle, senza distogliere lo sguardo dal mucchietto di spiccioli. «Forse si stava facen-
do una sega. Difficile dirlo.» «Aveva qualcosa con sé? Teneva in mano qualcosa?» «Soltanto il suo cazzo.» Nel dirlo, scoppiò in una risata che la squassò tutta e per poco non la fece ruzzolare a terra. I suoi occhi avevano cominciato a lacrimare pesantemente. «C'era soltanto lui, a camminare sotto la pioggia. In giro, quella notte, non c'era quasi nessuno. Quel tizio è salito in macchina.» «Lo stesso tizio di prima?» «No, un altro, aveva parcheggiato laggiù.» Fece un gesto vago. «Non era uno di qui.» «Perché?» «La macchina era tutta lustra. In questo quartiere nessuno ha una macchina lustra. Sempre che ne abbia una. Crack ce l'ha e ce l'ha anche quel bastardo di Reeve, che abita sul mio stesso pianerottolo. Ma non sono lustre.» «Parlami del tizio che è salito in macchina.» «Si è messo al volante ed è partito.» «Che ora sarà stata?» «Ehi, ti sembro un orologio? Tic-tac, tic-tac.» Scoppiò in un'altra risata. «Era notte. Le ore notturne sono le migliori. Di giorno i miei occhi bruciano», aggiunse con voce lamentosa. «Ho perso gli occhiali da sole.» Eve si tolse di tasca un paio di occhiali schermati. Tanto non si ricordava mai di infilarli, quei dannati aggeggi. Li tese all'albina, che se li mise subito. «Che colpo. Una cosa da sbirri. Che figata.» «Che cosa indossava? Parlo del tizio che è montato in macchina.» «Boh, non lo so.» La drogata giocherellò con gli occhiali. Gli occhi non le bruciavano più tanto dietro le lenti scurite. «Un soprabito, forse. Scuro, molto ampio. Sì, gli svolazzò intorno mentre lui chiudeva l'ombrello.» Eve sobbalzò, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «Aveva un ombrello?» «Ehi, stava diluviando. C'è gente a cui non piace bagnarsi. Grazioso», aggiunse, di nuovo con voce sognante. «Di un colore vivace.» «Quale colore?» «Uno vivace», ripeté. «Me li dai o no, quei soldi?» «Sì, li avrai», rispose Eve, ma prese la drogata per un braccio, la condusse verso i gradini consunti dell'edificio e la fece sedere. «Prima, però, parliamo ancora di quel tizio.»
«Era sfuggita agli agenti», disse Eve, andando avanti e indietro nel suo ufficio, con Feeney pigramente adagiato nella sua sedia, «perché il giorno successivo al primo delitto era andata in clinica a disintossicarsi. Ho controllato. Ne è uscita una settimana fa.» «Hai in mano solo una drogata albina», le fece notare Feeney. «Ma lei l'ha visto, Feeney. L'ha visto montare in macchina, ha notato l'ombrello.» «Sai benissimo, Dallas, quanto valga la testimonianza di una tossicodipendente. Per di più di notte, con la pioggia, dalla parte opposta della strada.» «Mi ha parlato dell'ombrello. Cristo, nessuno ne sapeva niente.» «E il colore era, per citare le sue precise parole, 'vivace'.» Alzò entrambe le mani prima che Eve potesse balzargli addosso. «Sto solo cercando di risparmiarti qualche dispiacere. Se ti venisse mai in mente di sottoporre gli Angelini a un confronto all'americana, con una teste completamente fatta, i loro legali ti scuoierebbero viva, figliola.» Anche lei ci aveva pensato e aveva già scartato l'idea. «Quella ragazza non reggerebbe a un confronto diretto. Non sono così sciocca. Ma l'assassino era un uomo, di questo lei è assolutamente sicura. Si è allontanato in macchina e aveva l'ombrello. Indossava un soprabito lungo, scuro.» «Il che coincide con la deposizione di David Angelini.» «Era al volante di un'auto nuova. Questo sono riuscita a strapparglielo di bocca. Una vettura scintillante, di una tinta vivace.» «Ci risiamo, con il 'vivace'.» «Be', quel tipo di drogati non vede bene i colori», ringhiò Eve. «L'individuo era solo e la sua auto era una piccola monoposto. La portiera dal lato del guidatore si apriva verso l'alto, non di lato, e l'uomo ha dovuto chinarsi per montare.» «Potrebbe trattarsi di una Rocket, di una Midas o di una Spur. Magari anche di una Midget, uno dei vecchi modelli.» «La ragazza ha detto che era nuova ed è una che, sulle auto, la sa lunga. Le piace osservarle.» «Va bene, controllerò.» Si lasciò sfuggire un sorriso amareggiato. «Hai idea di quanti siano gli esemplari di questi modelli venduti negli ultimi due anni nei soli cinque quartieri centrali? Ora, se la tua albina potesse fornirci il numero di targa, anche non completo...» «Piantala con questa lagna. Sono tornata a dare un'occhiata alla casa del-
la Metcalf. In quel garage sono due dozzine le auto nuove di colore vivace.» «Oh, che gioia.» «Non è da escludere che l'assassino sia uno dei vicini», ribatté Eve, anche se una simile ipotesi le sembrava estremamente improbabile. «Perché deve abitare in un luogo da cui può andare e venire senza farsi notare. O in un luogo in cui la gente non presta attenzione a chi entra e chi esce. Magari ha lasciato il soprabito in macchina, oppure ha indossato qualcos'altro per poter rientrare e ripulirsi. Ma nella vettura ci devono essere tracce di sangue, Feeney, così come su quel soprabito, per quanto l'assassino possa averlo strofinato e lavato. Intanto io vado a Channel 75.» «Sei impazzita?» «Ho bisogno di parlare con Nadine. Mi sfugge.» «Gesù, è come entrare nella tana del lupo.» «Oh, non mi succederà nulla.» Fece una smorfia. «Porto Roarke con me. Lui incute paura a tutti.» «Sei stata carina a chiedermi di accompagnarti.» Roarke entrò con la sua auto nel parcheggio dei visitatori di Channel 75 e lanciò a Eve un sorriso folgorante. «Sono commosso.» «Va bene, sono in debito nei tuoi confronti.» Quell'uomo non gliene faceva mai passare una sotto silenzio, si disse Eve, seccata, mentre smontava dalla vettura. «Esigerò di essere pagato.» Le prese il braccio. «Puoi cominciare a saldare parte del debito spiegandomi per quale motivo desideri la mia compagnia.» «Te l'ho detto, per risparmiare tempo, dal momento che stasera vuoi andare a sentire l'opera, o come diavolo si chiama.» Con estrema lentezza e pignoleria Roarke passò in rassegna i pantaloni polverosi e gli stivali lisi di Eve. «Mia adorata, anche se tu ai miei occhi appari sempre perfetta, non puoi andare all'opera conciata in questo modo. Perciò dovremo comunque ripassare da casa perché tu possa cambiarti. Indossare un abito pulito.» «Forse non ho voglia di andare all'opera.» «L'hai già detto. Parecchie volte, se non sbaglio. Ma noi due abbiamo stipulato un patto.» Eve aggrottò le sopracciglia e giocherellò con un bottone della camicia di Roarke. «È solo gente che canta.»
«Ho acconsentito ad assistere a due spettacoli del Blue Squirrel allo scopo di aiutare Mavis a ottenere un contratto per una registrazione. E nessuno - nessuno dotato di orecchie - definirebbe canto quei suoi versacci.» Eve sbuffò. Ma, dopotutto, un patto era un patto. «Okay, d'accordo. Avevo detto che sarei venuta.» «Ora che sei riuscita a schivare tanto abilmente la domanda, te la riformulo. Perché mi hai portato qui?» Eve sollevò lo sguardo dal bottone e fissò Roarke in viso. Per lei era sempre maledettamente difficile ammettere di poter avere bisogno d'aiuto. «Feeney è impegnato a fare alcune ricerche al computer. In questo momento non può essere distolto dal suo lavoro. E io ho bisogno di un altro paio di occhi e di orecchie, di un parere altrui.» Le labbra di Roarke assunsero una piega amara. «Dunque, sono la tua seconda scelta.» «Tu sei la mia prima scelta civile. Sei molto bravo a capire la gente.» «Mi lusinghi. E magari, mentre sono qui, potrei spaccare il muso di Morse al posto tuo.» Un sorriso lampeggiò sul volto di Eve. «Ti adoro, Roarke. Ti adoro veramente.» «Anch'io ti adoro. È un modo per dirmi di farlo davvero? Mi piacerebbe molto cambiargli i connotati.» Eve scoppiò a ridere, ma una parte di lei si rallegrò scioccamente all'idea di avere con sé qualcuno pronto a vendicarla. «È un pensiero gentile, Roarke, ma preferirei farlo con le mie mani. Al momento giusto e nel posto giusto.» «Potrò guardare?» «Certo. Nel frattempo, però, limitati a essere il ricco e potente Roarke, il mio trofeo personale.» «Ah, l'uomo-oggetto. La cosa mi eccita.» «Bene. Non dimenticarlo. Magari, dopotutto, potremo saltare l'opera.» Varcarono insieme l'ingresso principale e Roarke ebbe il piacere di vedere Eve assumere il piglio da poliziotto, facendo balenare il distintivo davanti agli uomini della sicurezza, intimando loro bruscamente di non starle tra i piedi e avviandosi a grandi passi verso la scala mobile. «Mi piace vederti lavorare», le mormorò all'orecchio. «Sei così... grintosa», concluse, mentre le faceva scivolare la mano lungo la schiena, verso il sedere. «Piantala.»
«Capisci che cosa intendo?» Si massaggiò lo stomaco nel punto in cui il gomito di lei l'aveva violentemente colpito. «Picchiami di nuovo. Potrei imparare ad apprezzarlo.» Eve riuscì, a stento, a trasformare un risolino in uno sbuffo. «Voi civili», fu l'unico commento che fece. La sala stampa era affollata e rumorosa. Una buona metà dei reporter seduti ai loro tavoli era impegnata al telefono o al computer, con cuffie e auricolari. Su numerosi schermi lampeggiavano i programmi che stavano andando in onda. Molte delle conversazioni si interruppero di colpo nel momento stesso in cui Eve e Roarke smontarono dalla scala mobile, poi, come una muta di cani le cui narici avessero afferrato lo stesso odore, i cronisti si lanciarono in avanti. «Tornate ai vostri posti», intimò Eve con una tale grinta che uno dei più scalmanati arretrò bruscamente, pestando i piedi a chi lo seguiva. «Nessuno faccia commenti. Nessuno si muova finché non vi autorizzerò io.» «Se comprerò questo posto», le disse Roarke, a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti, «dovrò tagliare parecchi rami secchi.» Quelle parole aprirono un varco tra i presenti, abbastanza largo da permettere a Eve di avanzare, appuntando lo sguardo su un viso che aveva riconosciuto. «Rigley, dov'è Nadine Furst?» «Salve, tenente.» Lui era tutto denti, capelli e ambizione. «Se vuole accomodarsi nel mio ufficio», la invitò, indicando la sua postazione di lavoro. «Furst», ripeté Eve, pronunciando quel nome con la violenza di un proiettile. «Dov'è?» «È tutto il giorno che non la vediamo. Stamattina sono andato in onda io al suo posto.» «Ha telefonato.» Con un sorriso radioso, Morse si avanzò pigramente. «Ha deciso di staccare per un po'», aggiunse, atteggiando il mobile viso a un'espressione più compunta. «È rimasta sconvolta dalla fine di Louise. Come tutti noi.» «È a casa?» «Ha detto che aveva bisogno di un po' di tempo ed è tutto quello che so. L'ufficio del personale le ha concesso un periodo di ferie. Starà via per un paio di settimane. La sostituisco io.» Il suo sorriso tornò a lampeggiare. «Perciò, se vuole comparire in un programma, Dallas, è con me che deve parlare.» «Ne ho abbastanza dei suoi programmi, Morse.»
«Bene, allora.» Mollò Eve per rivolgersi a Roarke, con un sorriso tanto caldo da essere quasi incandescente. «Che piacere conoscerla. Lei è un uomo difficile da contattare.» A mo' di deliberato insulto, Roarke ignorò la mano che Morse gli porgeva. «Concedo il mio tempo solo alle persone che giudico interessanti.» Morse abbassò la mano, ma non fece sparire il sorriso. «Sono sicuro che, se trovasse qualche minuto da dedicarmi, verrebbe a sapere da me svariate cose che risveglierebbero i suoi interessi.» Roarke sorrise a sua volta, un sorriso rapido e minaccioso. «Lei è veramente un idiota.» «Calma, calma», mormorò Eve, battendo la mano sul braccio di Roarke. «Chi è stato a passarle quelle notizie riservate?» Morse, che si stava ovviamente sforzando di ritrovare la propria dignità, volse lo sguardo verso di lei e riuscì a stento a sogghignare in modo arrogante. «Andiamo, lo sa che possiamo non rivelare le nostre fonti. Non dimentichi la Costituzione.» Con aria patriottica, si posò sul petto, all'altezza del cuore, il palmo della mano. «Se lei vuole commentare, contraddire o arricchire una qualsiasi delle informazioni in mio possesso, sarò più che felice di ascoltarla.» «Lo vedremo subito», replicò Eve, cambiando marcia. «Lei ha trovato il cadavere di Louise Kirski... quando era ancora caldo.» «Esatto.» Morse contrasse la bocca fino a darle una piega truce. «Così ho dichiarato.» «È stato turbato da quella scoperta, vero? Le sono saltati i nervi. Ha dato di stomaco fra i cespugli. Ora si sente meglio?» «È qualcosa che non dimenticherò mai, però, sì, ora sto meglio. Grazie per avermelo chiesto.» Eve si fece avanti, costringendolo ad arretrare. «Si è sentito subito abbastanza bene da andare in onda dopo pochi minuti, essendosi assicurato che all'esterno ci fosse una telecamera intenta a riprendere un bel primo piano della sua collega assassinata.» «L'immediatezza è un aspetto fondamentale del nostro lavoro. Ho fatto ciò che sono stato addestrato a fare. Il che non significa che io non fossi sconvolto.» La voce gli tremò e fu abilmente controllata. «Il che non significa che io non veda il suo volto, i suoi occhi, ogni volta che di notte tento di addormentarmi.» «Si è mai chiesto che cosa sarebbe potuto accadere se lei fosse arrivato cinque minuti prima?»
Quella domanda lo fece sobbalzare e lei, pur sapendo che era stata una mossa perfida, e dettata da un astio personale, ne fu felice. «Sì, ci ho pensato», rispose Morse con dignità. «Avrei potuto vedere l'assassino o addirittura impedirgli di uccidere. Se io non fossi stato rallentato dal traffico, Louise sarebbe ancora viva. Ma questo non cambia la situazione. Louise è morta, come altre due donne. E lei non ha ancora trovato il colpevole.» «Forse voialtri giornalisti non vi siete ancora resi conto che ne state facendo un personaggio. Che gli state dando proprio ciò che lui desidera.» Distolse lo sguardo da Morse il tempo sufficiente per guardarsi in giro nella stanza e fissare tutti i presenti, che pendevano ansiosamente dalle sue labbra. «Chissà come gode a seguire tutti i vostri servizi, ad ascoltare i vari dettagli, le diverse ipotesi. Avete fatto di lui il più importante divo dello schermo.» «È nostra responsabilità informare...» iniziò Morse. «Morse, lei non sa neppure che cosa sia la responsabilità. Per lei esiste soltanto il computo dei minuti in cui è in onda, ripreso di faccia al centro dello schermo. Quante più persone muoiono, tanto più alto è l'indice di ascolto. L'autorizzo a riferire al pubblico questa mia dichiarazione.» Girò sui tacchi. «Ti senti meglio?» le chiese Roarke quando furono fuori di lì. «Neanche un po'. Le tue impressioni?» «La sala stampa è in subbuglio, troppi individui fanno troppe cose contemporaneamente. Hanno tutti i nervi tesi. Chi è il tizio con cui hai parlato inizialmente di Nadine?» «Rigley. È un pesce piccolo. Ho l'impressione che sia stato assunto solo per la sua dentatura.» «Si stava mordicchiando le unghie. E, quando tu hai fatto quella leggera sparata, erano in molti a dare l'impressione di vergognarsi. Si sono voltati e avevano l'aria di lavorare, ma in realtà non facevano nulla. Parecchi mi sono sembrati silenziosamente compiaciuti quando hai tirato un paio di affondi contro Morse. Non mi pare che quell'uomo riscuota grandi simpatie.» «La cosa non mi meraviglia.» «Però è più abile di quanto avessi supposto», ribatté Roarke, pensieroso. «Morse? Più abile in che cosa? Nel gettare fango?» «Nel gestire la propria immagine», la corresse Roarke. «Il che spesso coincide. Riesce a trasmettere un mucchio di emozioni. Emozioni che non
prova, ma lui sa come atteggiare opportunamente il volto, far vibrare la voce. È adatto alla professione che ha scelto e farà certamente molta strada.» «Che Dio ci aiuti.» Eve si appoggiò all'auto di Roarke. «Credi che lui sappia più di quanto ha detto in trasmissione?» «Lo ritengo possibile. Altamente possibile. Morse si diverte a tenere la gente sulla corda, in modo particolare adesso che è lui a gestire il caso. E ti odia.» «Oh, che dolore.» Fece per aprire la portiera, ma si bloccò, voltandosi verso Roarke. «Mi odia?» «Ti rovinerebbe, se potesse. Perciò sta' attenta.» «Può farmi sembrare una stupida, ma non può rovinarmi.» Spalancò la portiera. «Dove diavolo è Nadine? Non è da lei, Roarke. Capisco che si senta a pezzi a causa di Louise, ma non è da lei sparire, per di più senza dirmelo, e mettere in mano a quel bastardo una storia così importante.» «La gente reagisce in modi diversi allo shock e al dolore.» «È una follia. Nadine era un bersaglio e può esserlo ancora. Dobbiamo trovarla.» «È un tuo espediente per sottrarti all'opera?» Eve montò in macchina e distese le gambe. «No, è soltanto un piccolo vantaggio collaterale. Andiamo a casa sua, ti dispiace? Abita sulla 80th, fra la 2nd e la 3rd.» «Va bene. Ma non ammetterò scuse di sorta per sfuggire al cocktail party di domani sera.» «Cocktail party? Quale cocktail party?» «Quello che ho organizzato oltre un mese fa», le ricordò Roarke, montando in macchina accanto a lei. «Per dare il benservito al tizio che raccoglie i fondi per l'Art Institut sulla Stazione Grimaldi. Al quale avevi acconsentito a partecipare, per darmi una mano a ricevere gli ospiti.» Eve se ne ricordava, eccome. Roarke le aveva procurato un favoloso abito da sera, da indossare in quella occasione. «Ero per caso ubriaca quando ho accettato? La parola di una persona obnubilata dall'alcol non ha valore.» «No, non eri ubriaca.» Roarke le sorrise, mentre usciva dal parcheggio. «Anche se va detto che eri nuda, ansimante e, credo, sul punto di supplicarmi.» «Ma figurati!» In realtà, si disse incrociando le braccia, era possibile che lui avesse ragione. I suoi ricordi erano nebulosi. «Okay, okay, ci sarò, par-
teciperò al ricevimento stampandomi uno stupido sorriso sul volto e indossando un favoloso abito che ti è costato una cifra eccessiva per la poca stoffa di cui è fatto. A meno che... non succeda qualcosa.» «Qualcosa?» Lei sospirò. Roarke non mancava mai di chiederle di aiutarlo in qualche sciocca missione punitiva quando questa era per lui importante. «Un'azione di polizia. Ma solo se riveste carattere d'urgenza. A parte questo, ti resterò al fianco durante tutto quel dannato cocktail party.» «Devo dedurne che non tenterai nemmeno di goderti un po' la serata?» «Ci proverò, magari.» Voltò il capo e sollevò impulsivamente una mano, sfiorandogli la guancia. «Un po'.» 18 Alla porta di Nadine nessuno rispose alla scampanellata. La voce registrata chiese semplicemente che il visitatore lasciasse un messaggio, a cui sarebbe stato risposto nel più breve tempo possibile. «Magari è in casa, ad arrovellarsi», disse Eve, dondolando sui talloni mentre si chiedeva che cos'altro fare. «Sempre che non sia andata in qualche elegante stazione turistica. Negli ultimi giorni ha seminato più volte l'agente che le avevo messo alle calcagna. È un'anguilla, la nostra Nadine.» «E, se tu lo sapessi, ti sentiresti meglio.» «Sì.» Con la fronte aggrottata, Eve si chiese se non fosse il caso di utilizzare il passe-partout elettronico in dotazione ai funzionari di polizia per violare il sistema di sicurezza, ma quella non era un'emergenza così grave da giustificare una simile intrusione, perciò strinse a pugno le mani che teneva in tasca. «Etica professionale», commentò Roarke. «È sempre istruttivo vederti lottare con te stessa per non infrangerla. Lascia che ci pensi io.» Estrasse un minuscolo coltello a serramanico e scardinò il pannello per la rilevazione dell'impronta palmare. «Cristo, Roarke, il tentativo di manomettere il sistema di sicurezza ti costerà sei mesi di arresti domiciliari.» «Um-hmm.» Con calma, lui esaminò i circuiti elettrici. «Sono un po' fuori allenamento. L'abbiamo costruito noi, sai, questo modello.» «Rimetti a posto quel dannato aggeggio e non...» Ma Roarke stava già aggirando la piastra principale, lavorando con una rapidità e una competenza che fecero trasalire Eve.
«E tu saresti fuori allenamento, eh?» mormorò, nel vedere la luce della serratura passare dal rosso al verde. «Ho sempre posseduto una certa abilità manuale.» La porta si spalancò e lui trascinò Eve all'interno. «Manomissione del sistema di sicurezza, apertura forzosa della porta e violazione di domicilio. Oh, un bel cumulo di reati.» «Ma tu aspetterai che io esca di galera, vero?» Tenendo ancora Eve per un braccio, Roarke esaminò il soggiorno. Era freddo e ordinato, la mobilia ridotta allo stretto necessario, in un costoso stile minimalista. «Le piace vivere bene», commentò, osservando lo scintillio della pavimentazione a piastrelle e i pochi oggetti d'arte su esili piedistalli trasparenti. «Ma non ci viene spesso.» Eve, sapendo che Roarke aveva occhio per quel genere di cose, annuì. «No, non ci abita veramente, ci dorme solo qualche volta. Non c'è nulla fuori posto, nemmeno una piega nei cuscini.» Superò Roarke e si avviò verso l'adiacente cucina, dove controllò il menu che l'AutoChef poteva offrire. «Non tiene neppure una grande scorta di generi alimentari. Ha quasi esclusivamente formaggi e frutta.» Pensando al proprio stomaco vuoto, fu tentata di mangiare qualcosa, ma resistette. Riattraversò l'ampio soggiorno, diretta verso una camera da letto. «Se ne serve come studio», commentò, guardando l'equipaggiamento, la consolle, l'ampio schermo di fronte a quest'ultima. «Qui passa un po' più di tempo. C'è un paio di scarpe sotto la consolle, un orecchino spaiato accanto al videotelefono e una tazza, che probabilmente conteneva del caffè, vuota.» La seconda camera da letto era più spaziosa e le lenzuola sul letto sfatto erano spiegazzate, come se qualcuno vi si fosse rotolato sopra e sotto in una notte particolarmente lunga e inquieta. Eve notò pure che sotto un tavolo, sul quale stavano appassendo alcune margherite infilate in un vaso, c'era il vestito che Nadine indossava la sera dell'assassinio di Louise, apparentemente gettato a terra e cacciato lì sotto a calci. Erano tutti segni di sofferenza, cosa che la turbò. Si avvicinò all'armadio e premette il pulsante per aprirlo. «Cristo, come si fa a capire se Nadine si è portata via qualche indumento? Ne ha a sufficienza per una troupe di dieci modelle.» Non rinunciò comunque a passarli in rassegna, mentre Roarke si avvicinava al telefono accanto al letto e ascoltava la segreteria telefonica dall'ini-
zio alla fine. Eve, nel lanciarsi un'occhiata dietro le spalle, vide ciò che stava facendo e si limitò ad alzare le spalle. «Addio privacy.» Continuò a cercare qualche indizio della presunta partenza di Nadine, mentre nella stanza riecheggiavano conversazioni telefoniche e messaggi. Ascoltò, leggermente divertita, un botta e risposta di natura esplicitamente sessuale fra Nadine e un certo Ralph. Dopo una serie di allusioni, accenni smaccati e scoppi di risa, il colloquio terminò con la promessa di incontrarsi non appena lui fosse giunto in città. Le altre telefonate si susseguirono rapidamente: comunicazioni di lavoro, un'ordinazione a un vicino ristorante. Chiamate banali, quotidiane. Poi ci fu un brusco cambiamento. Nadine stava parlando con i genitori di Louise, il giorno dopo l'ultimo omicidio. Piangevano tutti e tre. Forse era un modo per cercare conforto, si disse Eve, avvicinandosi allo schermo. Forse condividere lacrime e shock serviva. Non so se ora questo può avere una minima importanza, ma la persona incaricata delle indagini, Dallas... tenente Dallas... non si darà pace finché non avrà scoperto chi ha ucciso Louise. Non si arrenderà mai. «Oh, mio Dio.» Eve chiuse gli occhi mentre la registrazione terminava. Rendendosi conto che non c'era altro, che il resto del nastro era vuoto, spalancò di nuovo gli occhi. «Dov'è la telefonata all'emittente televisiva? A detta di Morse, Nadine ha chiamato per chiedere di essere momentaneamente esentata dal lavoro.» «Potrebbe averla fatta dall'auto, da un cellulare. Personalmente.» «Verifichiamolo.» Estrasse il proprio cellulare. «Feeney, ho bisogno di sapere marca, modello e numero di targa dell'auto di Nadine Furst.» Non ci volle molto per ottenere quei dati, collegarsi al registro del garage e scoprire che la vettura della giornalista era uscita il giorno prima e non era ancora rientrata. «Non mi piace, questa storia», si tormentò Eve mentre montava in macchina accanto a Roarke. «Nadine mi avrebbe lasciato un messaggio. Mi avrebbe detto qualcosa. Ho bisogno di parlare con qualche funzionario di Channel 75, per appurare chi è stato a ricevere la sua telefonata.» Cominciò a digitare sull'apparecchio che Roarke aveva in macchina, ma si fermò.
«Mi è venuta un'altra idea.» Estrasse la propria agenda e richiese un numero diverso. «Kirski, Deborah e James, Portland, Maine.» Il numero lampeggiò sul piccolo monitor e lei lo digitò sul videotelefono della vettura. Rispose quasi subito una donna dai capelli chiari e con profonde occhiaie. «Mrs Kirski, sono il tenente Dallas, del Dipartimento di polizia di New York.» «Sì, tenente, mi ricordo di lei. Ci sono novità?» «Non c'è nulla che io possa dirle, per il momento. Mi dispiace.» Dannazione, doveva dare qualcosa a quella donna. «Stiamo seguendo un nuovo filone di indagini. Abbiamo buone speranze, Mrs Kirski.» «Oggi abbiamo detto addio a Louise.» Riuscì ad abbozzare un sorriso stentato. «Ci è stato di conforto vedere quante persone le volevano bene. Tanti dei suoi vecchi compagni di scuola, e poi corone di fiori, messaggi dai suoi colleghi di New York.» «Non verrà dimenticata, Mrs Kirski. Può dirmi se Nadine Furst ha partecipato alla cerimonia funebre di oggi?» «L'aspettavamo.» Negli occhi gonfi balenò uno sguardo smarrito. «Solo qualche giorno fa l'avevo chiamata in ufficio per comunicarle data e ora delle esequie. Mi aveva assicurato che sarebbe venuta, ma deve aver avuto un contrattempo.» «Non è da Nadine comportarsi così.» Eve avvertì nello stomaco un rigurgito acido. «Non vi siete neanche sentite per telefono?» «No, sono giorni che non ci parliamo. È una donna molto impegnata, lo so. Deve continuare la propria vita, è più che naturale. Che cos'altro può fare?» Eve non trovò alcuna parola di conforto da dirle senza aggiungere angoscia ad angoscia. «Mi dispiace per la sua perdita, Mrs Kirski. Se ha qualche domanda da rivolgermi o se sente il bisogno di parlarmi, mi chiami, per favore. In qualsiasi momento.» «È molto gentile da parte sua. Nadine mi ha detto che lei non si arrenderà finché non avrà trovato l'uomo che ha fatto questo alla mia bambina. Non smetterà di cercarlo, vero, tenente Dallas?» «No, non smetterò.» Interruppe la comunicazione, gettò indietro la testa e chiuse gli occhi. «Io non sono gentile. Non l'ho chiamata per dirle che mi dispiaceva, ma perché lei avrebbe potuto darmi una risposta.» «Ma sei dispiaciuta.» Roarke le strinse con tenerezza la mano. «E lo sei, gentile.» «Posso contare sulle dita di una mano le persone che significano qualco-
sa per me. E posso dire lo stesso per le persone che mi vogliono veramente bene. Se quel bastardo avesse tentato di balzarmi addosso, come sarebbe dovuto accadere, gliel'avrei fatta pagare. E se non ci fossi riuscita...» «Sta' zitta.» La mano di Roarke strinse quella di lei con tale forza da strapparle quasi un grido e nei suoi occhi balenò uno sguardo ardente e furioso. «Taci.» Con aria assente, Eve dondolò la propria mano mentre Roarke sfrecciava lungo la strada. «Hai ragione, sbaglio a comportarmi così. Me la prendo troppo a cuore, il che non aiuta a risolvere la situazione. C'è un eccesso di coinvolgimento emotivo in questo caso», mormorò, ricordando l'avvertimento di Tibbie. «Oggi ho cominciato con la mente lucida e devo continuare a ragionare freddamente. La prossima mossa sarà quella di rintracciare Nadine.» Si mise in contatto con la centrale di polizia e ordinò che venissero istituiti posti di blocco per trovare la giornalista e la sua auto. Roarke, che aveva ritrovato una certa calma, anche se le precedenti parole di Eve gli stavano ancora attanagliando lo stomaco, rallentò e si volse verso di lei. «Quante vittime di omicidio ti sei presa sul gobbo nel corso della tua illustre carriera, tenente?» «Presa sul gobbo? È uno strano modo per definire il mio lavoro.» Si strinse nelle spalle, cercando di vedere mentalmente un uomo in un lungo soprabito scuro con una luccicante auto nuova. «Non lo so. Centinaia. Il crimine non passa mai di moda.» «In tal caso direi che non ti bastano le dita di entrambe le mani per contare i due tipi di persone a cui accennavi prima. E ora hai bisogno di mangiare.» Eve era troppo affamata per mettersi a discutere. «Il guaio con il controllo incrociato è il diario della Metcalf», spiegò Feeney. «È pieno di strani codici e simboli. Che cambiano in continuazione, il che impedisce di elaborare uno schema. Abbiamo nomi come Facciad'angelo, Chiappe-roventi, Culo-piatto. E abbiamo iniziali, asterischi, cuoricini, faccine sorridenti o imbronciate. Ci vorrà tempo, e molto, per confrontarli con i nomi nell'agenda di Nadine e in quella del procuratore Towers.» «In pratica mi stai dicendo che non puoi farlo.» «Non ho detto questo.» Feeney aveva l'aria indignata. «Okay, scusa. Mi rendo conto che stai tirando il collo al tuo computer,
ma non so quanto tempo ci resta. Quell'uomo potrebbe accanirsi su un'altra vittima. Finché non troviamo Nadine...» «Tu temi che lui l'abbia fatta sparire.» Feeney si grattò il naso e il mento, poi allungò la mano verso il sacchetto di mandorle pralinate. «Questo sarebbe un mutamento di schema, Dallas. Per quanto riguarda le tre precedenti vittime, sono state lasciate in luoghi in cui qualcuno non ci avrebbe messo molto a inciampare nei loro cadaveri.» «Dunque l'assassino ha cambiato tattica.» Eve si sedette sul bordo della scrivania, ma, troppo nervosa per stare ferma, riprese subito a camminare avanti e indietro. «Ascolta, lui è furibondo. Ha mancato il bersaglio. Quando tutto gli stava andando per il verso giusto, commette un passo falso, uccide la donna sbagliata. Se dobbiamo dare retta a Mira, il nostro uomo vuole tutta l'attenzione per sé, vuole essere al centro dei programmi televisivi, per ore e ore. Ma ha fallito. È una questione di prestigio.» Si avvicinò alla minuscola finestra, guardò fuori, osservò un airbus sfrecciare davanti ai suoi occhi, simile a un goffo e pingue uccello. In basso, i passanti correvano come tante formiche sui marciapiedi, sulle rampe, sui tapis roulant, diretti verso le destinazioni richieste dai loro concitati affari. Erano fin troppe, quelle persone, si disse Eve. Troppi bersagli. «È una questione di prestigio», ripeté, osservando accigliata il viavai di pedoni. «La donna si stava attirando tutta l'attenzione, stava trionfando. Attenzione e trionfo che lui voleva per sé. Ogni volta che uccide, viene gratificato non solo dal brivido di piacere suscitato dalla vista del sangue, ma anche dalla straordinaria notorietà che ottiene. Ora la donna è sparita dalla scena, ed è una buona cosa, perché lei stava cercando di gestire la situazione a modo suo. Ora i riflettori sono nuovamente puntati su di lui. Chi è, costui, che cos'è, dove si trova?» «Parli come Mira», commentò Feeney. «Senza termini altisonanti.» «Forse lei l'ha inquadrato perfettamente. Ha capito che cos'è, quanto meno. Ritiene che sia di sesso maschile e single. Perché le donne per lui sono un problema. Non può permettere che prendano il sopravvento, come faceva sua madre. O la figura femminile di maggior spicco nella sua vita. Ha ottenuto qualche successo, ma non a sufficienza. Non riesce a giungere in vetta. Forse perché c'è una donna a sbarrargli la strada. O più donne.» Serrò le palpebre, fino a chiudere gli occhi. «Donne che parlano», mormorò. «Donne che si servono delle parole per esercitare il potere.» «Questa è nuova.»
«Questa è una mia intuizione», ribatté Eve, voltandosi. «E lui taglia loro la gola. Non le picchia, non le violenta né le mutila. La sua non è un'affermazione di potenza sessuale, anche se il sesso c'entra. Inteso però non come sessualità, ma come genere. Ci sono svariati modi per uccidere, Feeney.» «Parlamene. Gli esseri umani non smettono mai di trovare nuovi ingegnosi sistemi per mandare all'altro mondo il prossimo.» «Lui si serve di un pugnale, una sorta di estensione del suo corpo. Un'arma personale. Potrebbe piantarlo nel cuore delle vittime, affondarlo nel ventre, sbudellare...» «Okay, okay.» Feeney inghiottì precipitosamente una mandorla e agitò una mano. «Non c'è bisogno di scendere nei particolari.» «Cicely Towers si serviva di quel formidabile strumento che era la sua voce per imporsi nelle aule di giustizia; Yvonne Metcalf, l'attrice, per fare colpo sul palcoscenico; Nadine Furst per attrarre l'attenzione degli ascoltatori. Forse è questo il motivo per cui l'assassino non mi ha preso di mira», mormorò. «Io non esercito il potere tramite la voce.» «Lo stai facendo in questo preciso istante, figliola.» «Non ci perdiamo in questioni irrilevanti», replicò Eve, scuotendo il capo. «Ciò che abbiamo è un maschio single, che esercita una professione in cui non riesce a lasciare il segno, che è stato costretto a subire una forte influenza femminile.» «Un ritratto che si attaglia perfettamente a David Angelini.» «Sì, come pure al padre, se aggiungiamo il fatto che i suoi affari stanno andando a rotoli. E anche a Slade. Mirina Angelini non è il fragile fiorellino che sulle prime mi era sembrata essere. Poi c'è Hammett. Era innamorato della Towers, ma lei non lo prendeva molto sul serio. Lo castrava, per così dire.» Feeney emise un grugnito e si agitò nervosamente. «Per non parlare di almeno un paio di migliaia di uomini che si trovano là fuori, frustrati, rabbiosi, inclini a commettere atti di violenza... Dove diavolo è Nadine?» «Ascolta, la sua auto non è stata ancora localizzata. Non può essere andata lontano.» «Risulta che abbia usato la carta di credito nelle ultime ventiquattr'ore?» «No.» Feeney sospirò. «Ma, se ha per caso deciso di abbandonare il nostro pianeta, le segnalazioni ci mettono più tempo ad arrivare.» «Non ha lasciato la Terra, perché intendeva certamente restare qui, in
zona. Maledizione, avrei dovuto capire che avrebbe commesso qualche sciocchezza. Avevo visto quanto fosse sconvolta. Gliel'avevo letto negli occhi.» Frustrata, Eve si cacciò le mani nei capelli. Ma a un tratto le dita si contrassero, inchiodandosi. «Gliel'avevo letto negli occhi», ripeté, lentamente. «Oh, Cristo. Gli occhi.» «Cosa? Che cosa?» «Gli occhi. Lui ha visto i suoi occhi.» Afferrò la cornetta del telefono. «Voglio parlare con Peabody», ordinò, «agente di pattuglia nel settore... merda, merda, qual era? Il quattro zero due.» «Che ti ha preso, Dallas?» «Un attimo.» Eve si passò le dita sulla bocca. «Aspetta un attimo.» «Peabody.» Il volto dell'agente apparve sullo schermo, con la bocca increspata da una lieve irritazione. L'audio era disturbato da rumori di vario genere, brusio di voci e brani musicali. «Cristo, Peabody, dove sei?» «Controllo del traffico.» L'espressione irritata lasciò il posto a un ghigno sarcastico. «Un corteo sulla Lexington. Una qualche manifestazione di irlandesi.» «Celebrano la ricorrenza della Liberazione delle sei contee», spiegò Feeney con una punta d'orgoglio. «Lasciali in pace.» «Puoi trovare il modo di sfuggire a questo fracasso?» urlò Eve. «Ma certo. Devo solo abbandonare il mio posto e percorrere a piedi tre interi isolati.» Si ricordò con chi stava parlando. «Tenente.» «Al diavolo», mormorò Eve, rispondendo al saluto. «Si tratta dell'omicidio di Louise Kirski, Peabody. Richiamerò sullo schermo un'immagine del corpo. Guardala bene.» Cercò il file, lo percorse rapidamente e ne trasse il fotogramma della Kirski accasciata a terra sotto la pioggia. «È così che l'hai trovata? La posizione del cadavere era esattamente questa?» chiese, tramite il solo audio. «Sì, tenente. Esattamente così.» Eve chiuse l'immagine, relegandola nell'angolo in basso del suo schermo. «Il cappuccio sulla faccia. Qualcuno l'ha spostato?» «No, tenente. Come dichiarato nel mio rapporto, la squadra di telereporter stava già riprendendo la scena. Li ho fatti allontanare e ho sigillato la porta. Il volto della vittima era coperto, fin quasi alla bocca. Quando sono arrivata sulla scena del delitto, non era stata ancora fatta un'identificazione
ufficiale. Le affermazioni del testimone che aveva trovato il corpo erano assolutamente inutili. L'uomo era in preda all'isteria. Lei ha la registrazione.» «Sì, ce l'ho. Grazie, Peabody.» «Allora», disse Feeney non appena Eve ebbe interrotto la comunicazione, «che cosa hai ricavato da tutto questo?» «Riguardiamo la registrazione. La testimonianza di Morse rilasciata a caldo.» Eve si ritrasse leggermente, per permettere a Feeney di richiamare il documento, poi entrambi fissarono Morse. Il suo volto era bagnato da quello che sembrava un misto di pioggia e sudore, magari anche lacrime. Il contorno delle labbra era bianco e gli occhi non riuscivano a stare fermi. «È in stato di shock», commentò Feeney. «C'è chi reagisce così alla vista di un cadavere. Peabody è in gamba», aggiunse, ascoltando. «Un po' lenta, tuttavia.» «Si sveglierà», ribatté Eve, con aria assente. Poi mi accorsi che era un essere umano. Un cadavere. Mio Dio, tutto quel sangue. Un lago di sangue. Ce n'era dappertutto. E la gola... mi sono sentito male. Se ne sarà accorta anche lei... ho vomitato. Non sono riuscito a controllarmi. Poi mi sono precipitato dentro, in cerca d'aiuto. «Questo è il nocciolo della questione.» Eve unì le mani, rivolte verso l'alto, e con la punta delle dita si picchiettò la mascella. «Okay, ora prendi la registrazione del mio colloquio con lui, quando quella notte abbiamo interrotto il programma che stava andando in onda.» Morse era ancora pallido, notò, ma la sua bocca aveva una lieve smorfia di superiorità. Eve l'aveva martellato di domande, con la stessa attenzione ai dettagli dimostrata dall'agente Peabody, e fondamentalmente aveva ottenuto le stesse risposte, anche se nel frattempo lui era tornato un po' più calmo. Ma questo era un fatto scontato, normale. Ha toccato il corpo? No, non mi pare... no. Lei era riversa al suolo, con la gola squarciata. Gli occhi sbarrati. No, non l'ho toccata. Ho vomitato. A lei, Dallas, potrà sembrare strano, ma alcune persone hanno questo tipo di reazione istintiva. Quel lago di sangue, i suoi occhi. Dio.
«Ieri me l'ha detto di nuovo, più o meno con le stesse parole», mormorò Eve. «Non dimenticherà mai il suo volto. I suoi occhi.» «Gli occhi dei morti sono spettrali. Ti si stampano nella mente.» «Sì, quelli di Louise mi sono rimasti impressi.» Sollevò lo sguardo verso Feeney. «Ma quella sera nessuno ha visto in faccia la vittima prima del mio arrivo. Il cappuccio le era ricaduto sul viso. Nessuno ha potuto vedere il suo viso prima di me. A parte l'assassino.» «Cristo, Dallas, non puoi pensare seriamente che un piccolo cronista bastardo qual è Morse si diletti a tagliare gole nel suo tempo libero. Con ogni probabilità ha aggiunto quel particolare per fare effetto, per darsi maggiore importanza.» A quel punto le labbra di Eve si incurvarono leggermente, in un sorriso più ferale che divertito. «Già, gli piace sembrare importante, vero? Gli piace stare al centro della scena. E che cosa fai quando sei un ambizioso e amorale cronista di secondo piano e non riesci a trovare una storia scottante, eh, Feeney?» Lui emise un esile fischio. «Ne crei una.» «Diamo un'occhiata ai suoi precedenti. Vediamo da dove è saltato fuori il nostro uomo.» Feeney non ci mise molto a procurarsi uno stringato curriculum. C.J. Morse era nato a Stamford, nel Connecticut, trentatré anni prima. E quella fu la prima sorpresa, perché Eve era pronta a scommettere che fosse molto più giovane. La madre, deceduta, era stata a capo del dipartimento di scienze cibernetiche del Carnegie Melon, dove il figlio si era diplomato con la doppia specializzazione in scienza delle teletrasmissioni e tecnica informatica. «Quel piccolo stronzo», commentò Feeney. «È risultato solo dodicesimo, fra quelli della sua classe.» «E mi chiedo se tale valutazione fosse effettivamente meritata.» La sua carriera lavorativa era piuttosto movimentata. Era passato da un'emittente all'altra: dopo aver prestato servizio per un anno presso una piccola consociata televisiva nei pressi della sua città natale, era stato per sei mesi in un centro satellitare in Pennsylvania e per quasi due anni in un prestigioso network di New Los Angeles, da dove si era trasferito in una malandata stazione televisiva indipendente dell'Arizona prima di tornare verso la East Coast. Dopo una puntata a Detroit, era arrivato a New York. Aveva lavorato alla All News 60, quindi era approdato a Channel 75, dapprima nel settore mondano, poi in quello della cronaca nera.
«Il nostro uomo non resta a lungo nello stesso posto. Channel 75 è un record per lui, visto che sono già tre anni che ci lavora. E nei dati riguardanti la famiglia non c'è traccia di figura paterna.» «Soltanto la madre», assentì Feeney. «Una donna di successo, con una posizione prestigiosa.» Una madre morta, si disse Eve. Avrebbero dovuto trovare il tempo per verificare le cause del decesso. «Controlla la fedina penale di Morse.» «Immacolata», disse Feeney, aggrottando la fronte nel fissare lo schermo. «Un cittadino irreprensibile.» «Cerca anche nel periodo giovanile. Bene, bene», aggiunse Eve, leggendo i dati. «Qui c'è un divieto di accesso a una registrazione, Feeney. Secondo te, che cosa avrà combinato da ragazzo il nostro cittadino irreprensibile di tanto grave da indurre qualcuno a intervenire per mettere tutto a tacere?» «Non ci metterò molto a scoprirlo.» Feeney stava riacquistando un'espressione allegra, con le dita pronte a danzare sui tasti. «Mi servono soltanto le mie apparecchiature e il via libera del comandante.» «Mettiti al lavoro. E scava pure in ognuno dei vari impieghi di Morse. Vediamo se si è verificato qualche inconveniente. Credo che nel frattempo farò un salto a Channel 75 a scambiare quattro chiacchiere con il nostro uomo.» «Per inchiodarlo, avremo bisogno di qualcosa di più di una potenziale concordanza con il profilo psicologico.» «Lo troveremo, quel qualcosa.» Si sistemò sulla spalla la fondina. «Sai, se non fossi stata così infuriata con lui, avrei visto le cose più chiaramente. Chi trae beneficio da questi delitti? I media.» Infilò l'arma. «E il primo omicidio è avvenuto quando Nadine era opportunamente lontana dalla Terra, intenta a fare un servizio. Morse ha così potuto prendere in mano lui la situazione.» «E per quanto riguarda la Metcalf?» «Quel bastardo per poco non è arrivato sulla scena del delitto prima di me. Una cosa che mi aveva mandato su tutte le furie, ma non aveva mai fatto scattare in me il minimo sospetto. Lui era così impassibile. E chi ha trovato il cadavere della Kirski? Chi va in onda qualche minuto dopo, a dare la propria versione dei fatti?» «Tutto ciò non fa di lui un assassino. Questo è quanto ci dirà l'ufficio del procuratore distrettuale.» «Vogliono un movente comune. Gli indici d'ascolto», replicò Eve av-
viandosi verso la porta. «Eccolo, il maledetto legame.» 19 Eve fece una rapida incursione in sala stampa e osservò gli schermi televisivi. Non c'era traccia di Morse, ma quel fatto non la turbò. L'edificio che ospitava l'emittente era enorme e il giornalista non aveva motivo di nascondersi, di preoccuparsi. Lei non intendeva fornirgliene uno. Il piano che aveva ideato strada facendo era semplice. Non così gratificante come quello di afferrarlo per i capelli, quei capelli che sullo schermo gli davano un'aria tanto simpatica, e di trascinarlo in guardina, ma assai più semplice. Gli avrebbe parlato di Nadine, lasciandogli intuire fra le righe la propria preoccupazione per la sorte della giornalista, dopo di che il discorso sarebbe naturalmente caduto sulla Kirski. Lei avrebbe recitato la parte del poliziotto buono che agisce per una giusta causa. Avrebbe commiserato Morse per il trauma subito e gli avrebbe raccontato qualche particolare interessante del suo primo incontro con quella povera vittima, tanto per attrarre la sua attenzione. Gli avrebbe persino chiesto di darle una mano mandando in onda la foto di Nadine, della sua auto, e si sarebbe detta disposta a collaborare con lui. Ma non doveva mostrarsi eccessivamente cordiale, decise. Era meglio mantenere un atteggiamento brusco, che lasciasse trapelare un senso d'urgenza. Se l'aveva giudicato bene, Morse sarebbe stato entusiasta di quella richiesta d'aiuto da parte sua, perché gli avrebbe permesso di sfruttarla per allungare i tempi della sua trasmissione. Le venne in mente di colpo che, se non si era sbagliata a giudicarlo, Nadine poteva essere già morta. Accantonò quel pensiero. La situazione era quella che era e i rimorsi dovevano aspettare. «Sta cercando qualcosa?» Eve abbassò lo sguardo. La donna era così perfetta che lei ebbe quasi la tentazione di sentirle il polso, per verificare che fosse davvero un essere umano. Il viso sembrava fatto di alabastro, gli occhi parevano smeraldi liquefatti e le labbra schegge di rubino. Delle stelle del firmamento televisivo si diceva che dilapidassero gli stipendi dei primi tre anni in trattamenti estetici.
A meno che costei non avesse avuto la fortuna di nascere già tanto bella, si disse Eve, c'era da scommettere che gli anni di stipendi dilapidati fossero almeno cinque. I capelli bronzei, dorati in punta, formavano un'aureola attorno a quel volto strabiliante. La voce aveva una bassa tonalità che evocava una sensualità esperta. «Rubrica delle indiscrezioni, o sbaglio?» «Ragguagli mondani. Sono Larinda Mars.» La donna tese verso Eve una mano perfetta, dalle dita lunghe, con affusolate unghie scarlatte. «Lei è il tenente Dallas.» «Mars. Il suo nome mi è familiare.» «Non potrebbe essere altrimenti.» Se Larinda era indispettita per non essere stata riconosciuta da Eve alla prima occhiata, nascose perfettamente la propria stizza dietro un abbagliante sorriso e una voce in cui risuonava un leggerissimo accento da nobiltà inglese. «Sono settimane che tento di strappare un'intervista a lei e al suo affascinante compagno. Non ha mai risposto ai miei messaggi.» «È una mia cattiva abitudine. Come quella di ritenere che la mia vita privata debba restare privata.» «Quando si è legati a un uomo come Roarke, la vita privata diventa un affare pubblico.» Lo sguardo della donna si abbassò, piantandosi come un amo in un punto fra i seni di Eve. «Oh, oh, che bella pietruzza. Un dono di Roarke?» Eve trattenne in gola un'imprecazione e coprì con la mano il diamante. Aveva preso l'abitudine di giocherellarci mentre pensava e aveva dimenticato di infilarlo sotto la camicia. «Sto cercando Morse.» «Hmmm.» Larinda aveva già calcolato dimensioni e valore della pietra. Ne avrebbe potuto ricavare un grazioso intermezzo per il suo programma. La poliziotta che sfoggia una gemma da miliardari. «Forse sarei in grado di aiutarla a rintracciarlo. E lei potrebbe ricambiare il favore. Stasera a casa di Roarke c'è un piccolo ricevimento.» Batté le ciglia, incredibilmente doppie e bicolori. «Il mio invito dev'essere andato smarrito.» «Sono affari di Roarke. Ne parli con lui.» «Oh.» Da esperta arrampicatrice sociale qual era, Larinda ripartì all'attacco. «Dunque, è lui a prendere tutte le decisioni. Immagino che un uomo così abituato a tenere la barra del comando non si abbassi a consultare la sua mogliettina.» «Io non sono la mogliettina di nessuno», scattò Eve senza riuscire a con-
trollarsi. Poi inspirò profondamente, rivalutando quella creatura così incredibilmente splendida. «Bella stoccata, Larinda.» «Sì, bella davvero. Allora, che ne direbbe di farmi avere un invito per stasera? Posso rintracciarle Morse senza farle perdere troppo tempo», aggiunse nel vedere che Eve si stava guardando in giro con gli occhi socchiusi. «Lo faccia e ne riparleremo.» «È uscito da qui cinque minuti prima che lei entrasse.» Senza neppure guardare l'apparecchio, Larinda mise in attesa la chiamata giunta al suo videotelefono. Con molto buon senso, non usò le dita così perfettamente curate, ma un sottile stiletto. «Precipitosamente, direi, perché per poco non mi ha scaraventata giù dalla scala mobile. Aveva l'aria di star male. Povero bamboccio.» Il tono velenoso con cui pronunciò quelle parole indusse Eve a sentirsi in sintonia con lei. «Non le è simpatico.» «È una carogna», replicò Larinda con la sua voce melodiosa. «Questo è un ambiente competitivo, mia cara, e io non ho nulla da ridire se qualcuno di tanto in tanto ti mette sotto i piedi per andare avanti lui. Morse però è il tipo che non solo ti calpesta, ma ti tira anche un bel calcio nel ventre e non fa una piega. Ci ha provato pure con me, quando lavoravamo entrambi alla cronaca mondana.» «E lei come è riuscita a contrastarlo?» Alzò le sue stupende spalle. «Mia cara, io me le mangio a colazione, le piccole nullità come lui. Anche se Morse non mi sembrava proprio un inetto, perché nelle ricerche era un mago e la sua faccia bucava il video. Era solo convinto di essere troppo virile per raccogliere indiscrezioni.» «Ragguagli mondani», la corresse Eve con un lieve sorriso. «Esatto. In ogni caso non mi è dispiaciuto vederlo passare alla cronaca nera. Come non le sarà difficile constatare, anche lì Morse non si è fatto molti amici. Ha cercato di fare le scarpe a Nadine.» «Che cosa?» Un segnale d'allarme risuonò nella testa di Eve. «Lui vuole condurre il programma, e da solo. Ogni volta che siede accanto a Nadine, in trasmissione, cerca di farle lo sgambetto. Si inserisce dove non deve, prolunga di qualche secondo il tempo che gli spetta. Fa sparire Nadine dal video. Un paio di volte è capitato pure che al posto del volto di lei comparisse il TelePrompTer. Nessuno è in grado di provare che sia Morse il responsabile, però lui è un genio dell'elettronica.» «Davvero?»
«Noi tutti lo odiamo», continuò Larinda allegramente. «Tutti tranne i dirigenti supremi. Nelle alte sfere Morse è apprezzato per i buoni ascolti che ottiene e per il suo fiuto per i criminali.» «Mi chiedo se sia veramente così», mormorò Eve. «Dov'è andato?» «Non mi sono fermata a chiederglielo, ma, a giudicare dall'aspetto che aveva, direi che andava a casa a mettersi a letto. Aveva l'aria di essere a pezzi.» Scrollò le morbide spalle, diffondendo intorno un effluvio di raffinato profumo. «Forse non si è ancora ripreso dalla scoperta del cadavere di Louise, perciò dovrei compatirlo, ma è difficile provare compassione per un tipo come lui. Allora, quell'invito?» «Dov'è la postazione di lavoro di Morse?» Larinda sospirò, trasferì la chiamata in modalità messaggio e si alzò. «Laggiù.» Si avviò ancheggiando fra i tavoli, dimostrando di avere un corpo tanto strepitoso quanto il viso. «Ma, qualunque cosa lei stia cercando, non la troverà.» Da sopra la spalla rivolse a Eve un sorriso maligno. «Morse ha commesso qualcosa di grave? È stata finalmente promulgata una legge che punisce come reato la tendenza a comportarsi da carogna?» «Ho soltanto bisogno di parlargli. Perché non dovrei trovare nulla?» Larinda si fermò davanti a un cubicolo ad angolo, con la consolle disposta in modo tale che la persona seduta davanti avesse la schiena rivolta alla parete e potesse osservare tutta la sala. Un piccolo ma chiaro segno di paranoia, si disse Eve. «Non lascia mai nulla in giro, neppure il più insignificante promemoria o appunto. Se si alza, anche solo per grattarsi le chiappe, chiude il computer. Secondo lui, qualcuno potrebbe rubargli il materiale di una delle sue tante inchieste. Usa un aggeggio che intensifica l'audio, così durante le telefonate può sussurrare e non farsi sentire da nessuno. Come se noi fossimo tutti lì, con le orecchie tese, a cogliere le preziose parole che gli sgorgano dalla gola.» «Ma come fa, lei, a sapere che aumenta il volume dell'audio?» Larinda sorrise. «Buona domanda, tenente. Anche la sua consolle è inviolabile», aggiunse. «I dischetti sono sotto chiave.» Lanciò un'occhiata penetrante sotto le ciglia dalle punte dorate. «Poiché è un detective, probabilmente riuscirà a immaginare come faccio a saperlo. Allora, quell'invito?» Nel cubicolo regnava un ordine perfetto, pensò Eve. Fin troppo perfetto per uno che vi aveva lavorato sodo e poi si era allontanato in tutta fretta, stravolto. «Ha un informatore alla centrale di polizia?»
«Suppongo di sì, anche se mi sembra impensabile che un essere umano in carne e ossa possa fare un favore a Morse.» «Lui ne parla, se ne vanta?» «Ehi, a sentire il Vangelo secondo Morse, lui avrebbe informatori di prima grandezza ai quattro angoli dell'universo.» La voce perse lievemente la sua sofisticata cadenza e assunse l'inconfondibile accento del Queens. «Ma non è mai riuscito a fottere Nadine. Be', almeno fino all'assassinio della Towers, ma non ce la farà a restare a lungo in quel posto.» Eve sentì il cuore martellarle di colpo nel petto, con forza e tumultuosamente. Assentì e girò sui tacchi. «Ehi», le gridò dietro Larinda. «E stasera? Il do ut des, Dallas.» «Niente telecamere o verrà sbattuta fuori prim'ancora di aver messo piede in casa», l'ammonì Eve, continuando a camminare. Ricordando l'epoca in cui faceva l'agente di pattuglia, e le proprie ambizioni di allora, Eve chiese che l'incarico di coprirle le spalle fosse assegnato a Peabody. «Si ricorderà della tua faccia», disse mentre aspettava impazientemente che l'ascensore raggiungesse il trentatreesimo piano dell'edificio in cui abitava Morse. «È un ottimo fisionomista. Non voglio che tu apra bocca, a meno che non sia io a chiedertelo, e in tal caso parla in modo conciso, ufficiale. E cerca di avere un'aria severa.» «Ce l'ho da quando sono nata, l'aria severa.» «Magari giocherella di tanto in tanto con l'impugnatura della tua arma. Da' l'impressione di essere un po'... nervosa.» La bocca di Peabody si increspò agli angoli. «Come se mi prudessero le mani dalla voglia di usarla, sapendo però di non poterlo fare in presenza di un ufficiale superiore.» «Hai afferrato al volo il concetto.» Uscì dalla cabina dell'ascensore e svoltò a sinistra. «Feeney non ha ancora concluso le sue ricerche, perciò non ho gli elementi di cui vorrei disporre per mettere alle corde Morse. Il fatto è che potrei sbagliarmi.» «Ma lei è convinta del contrario.» «Sì, credo di sì. Però con David Angelini mi sono sbagliata.» «Le prove indiziarie da lei raccolte erano assolutamente valide e durante l'interrogatorio lui sembrava proprio colpevole.» Arrossì nello scorgere l'occhiata in tralice lanciatale da Eve. «Gli agenti coinvolti in un caso sono autorizzati a visionare i dati relativi al caso suddetto.»
«Conosco il regolamento, Peabody.» In tono molto freddo e ufficiale, Eve si annunciò al citofono. «Stai cercando di diventare detective, agente?» Peabody scattò sull'attenti. «Signorsì.» Eve si limitò ad assentire, poi si annunciò di nuovo e attese. «Avviati lungo il corridoio, Peabody, e controlla se l'uscita d'emergenza è chiusa.» «Tenente?» «Avviati lungo il corridoio», ripeté Eve, sostenendo lo sguardo perplesso di Peabody. «È un ordine.» «Signorsì.» Nell'istante stesso in cui Peabody le voltò le spalle, Eve estrasse il proprio passe-partout elettronico e disattivò le serrature. Dischiuse leggermente l'uscio e rimise il passepartout nella borsa prima che Peabody tornasse sui propri passi. «È chiusa, tenente.» «Bene. A quanto pare, Morse non è in casa, a meno che... Oh, guarda, Peabody, la porta non è completamente bloccata.» Peabody lanciò un'occhiata all'uscio, poi tornò a guardare Eve e si mordicchiò il labbro inferiore. «Mi sembra strano. Direi che è il caso di entrare, tenente. È possibile che Mr Morse si trovi in una brutta situazione.» «Hai colto l'idea, Peabody. Mettiamolo a verbale.» Mentre l'agente accendeva il proprio registratore, Eve spalancò la porta, impugnando l'arma. «Morse? Sono il tenente Dallas, della polizia investigativa di New York. L'ingresso non era bloccato. Sospettiamo che ci sia stata un'effrazione e stiamo entrando nell'appartamento.» Varcò la soglia, facendo cenno a Peabody di restare dov'era. Entrò in camera da letto, diede un'occhiata negli armadi e passò rapidamente in rassegna il complesso degli apparecchi di videocomunicazione, i quali occupavano uno spazio maggiore di quello del letto. «Nessun segno di intrusione», disse a Peabody, poi andò a controllare in cucina. «Dov'è volato il nostro uccellino?» si chiese a voce alta. Estrasse il cellulare e chiamò Feeney. «Dimmi tutto quello che sei riuscito ad appurare finora. Mi trovo nell'appartamento di Morse, ma lui non c'è.» «Sono soltanto a metà del lavoro, ma sarai contenta, credo, di ciò che ho trovato. Come prima cosa, quel reato giovanile messo a tacere... e, mia cara, ho dovuto sudare sette camicie per arrivarci. Il piccolo C.J. ha avuto, a dieci anni, un problema con la sua insegnante di scienze sociali. Lei non gli aveva dato un voto alto in un compito.»
«Una vera carogna.» «È quello che ha pensato anche lui, a quanto pare. Ha fatto irruzione in casa dell'insegnante e non solo ha buttato tutto all'aria, ma ha anche ucciso il cagnolino della donna.» «Cristo, ha ucciso un povero animale?» «Gli ha tagliato la gola, Dallas. Da un'orecchia all'altra. Così è finito in terapia obbligatoria, libertà vigilata e affidamento ai servizi sociali.» «Molto bene.» Eve sentì che le tessere del puzzle cominciavano a incastrarsi. «Continua.» «Okay. Sono qui per servirti. Il nostro amico ha la patente di pilota e possiede un velivolo biposto Rocket nuovo di zecca.» «Che Dio ti benedica, Feeney.» «E non è tutto», riprese lui, pavoneggiandosi un po'. «Come primo impiego da adulto, ha lavorato nella redazione di una piccola emittente televisiva della sua città natale. Ha dato le dimissioni quando un altro reporter gli ha soffiato un programma in diretta. Il reporter era una donna.» «Non fermarti proprio ora. Credo di essere pazza di te.» «Tutte le poliziotte mi adorano. Deve dipendere dal mio viso affascinante. In seguito Morse è stato assunto come mezzobusto, ma compariva sullo schermo solo nei fine settimana, come sostituto di terzo livello. Se n'è andato sbattendo la porta, protestando per una presunta discriminazione nei suoi confronti. Il suo capo, quello che distribuiva gli incarichi, era una donna.» «Di bene in meglio.» «Ma ora arriva la chicca. Riguarda l'emittente californiana in cui era andato a lavorare. Se la stava cavando piuttosto bene, era salito di livello, aveva ottenuto di condurre regolarmente il programma di mezzogiorno, in coppia con un altro giornalista.» «Una donna anche stavolta?» «Sì, Dallas, ma non è questa la notizia sensazionale. Un attimo di pazienza. A presentare il meteo c'era una graziosa ragazza, che gli ascoltatori tempestavano di lettere e che piaceva moltissimo anche ai dirigenti del network, tanto che costoro cominciarono a farle fare qualche piccolo servizio per il programma di mezzogiorno. Ogni volta che lei andava in onda, gli ascolti salivano, così la stampa iniziò a occuparsi del suo caso. Morse lasciò l'emittente, con il pretesto di non voler lavorare accanto a una giornalista improvvisata. Questo accadeva prima che alla ragazza del meteo capitasse un colpo di fortuna, consistente in una particina fissa in un serial.
Sapresti indovinare il suo nome?» Eve chiuse gli occhi. «Dimmi che si tratta di Yvonne Metcalf.» «Azzeccato, tenente. La Metcalf si era segnata un appuntamento con il Culo-piatto dei vecchi tempi assolati. Secondo me, c'è da scommettere che, dopo che l'attrice era arrivata nella nostra bella città, Morse si fosse subito fatto vivo con lei. Strano, però, che non abbia mai accennato, nel suo programma, alla loro vecchia amicizia. Avrebbe giovato a entrambi.» «Ti adoro, con tutta l'anima. Coprirò di baci il tuo brutto muso.» «Ehi, è una faccia vissuta. Così almeno dice mia moglie.» «Sì, ha ragione. Ho bisogno di un mandato di perquisizione, Feeney, e voglio che tu venga subito qui, a casa di Morse, ad aprire il suo computer.» «Ho già richiesto il mandato. Te lo trasmetterò non appena mi arriva. Poi ti raggiungo.» A volte gli ingranaggi scorrevano lisci come l'olio. Nel giro di mezz'ora Eve fu raggiunta sia dal mandato sia da Feeney in persona. Baciò quest'ultimo con tale entusiasmo da farlo diventare rosso come una barbabietola ibrida. «Chiudi la porta, Peabody, poi perquisisci il salotto. Non ti preoccupare di non fare disordine.» Quindi volò in camera da letto, passando avanti a Feeney, che si stava già fregando le mani. «È un sistema operativo bellissimo», commentò lui. «Morse sarà anche un criminale, ma conosce i suoi computer. Sarà un piacere giocherellare con questi aggeggi.» Si sedette davanti al monitor, mentre Eve cominciava a frugare nei cassetti. «Ossessivamente alla moda», osservò. «Nulla che abbia l'aria di essere stato usato troppe volte e nulla di particolarmente costoso.» «Spende tutti i suoi soldi in questi giocattoli.» Feeney sedeva chino in avanti, con la fronte aggrottata. «Rispetta le sue apparecchiature ed è molto cauto. Ci sono ovunque blocchi in codice. Cristo, ha persino un dispositivo di sicurezza.» «Cosa?» esclamò Eve, raddrizzandosi. «In un'unità domestica?» «Eppure ce l'ha.» Feeney si tirò cautamente indietro. «Se non utilizzo il codice giusto, tutti i dati saranno cancellati. È anche possibile che il dispositivo si regoli sulla sua voce. Non mi lascerà entrare molto facilmente, Eve. Devo portare questa apparecchiatura in laboratorio e ci vorrà parecchio tempo.»
«Lui se l'è svignata. Ne sono più che certa. Morse ha saputo che eravamo sulle sue tracce.» Dondolandosi sui calcagni, considerò le varie ipotesi: fuga di notizie per via umana o spionaggio elettronico. «Chiedi al tuo migliore esperto di venire qui e tu occupati del computer che Morse ha nella stazione televisiva. Era lì poco prima di tagliare la corda.» «Sarà una lunga notte.» «Tenente.» Peabody comparve sulla soglia. Il suo volto era inespressivo, a parte gli occhi, che mandavano lampi. «Credo sia il caso che lei venga a vedere.» In salotto, Peabody fece un cenno verso il divano che si trovava su una piattaforma chiusa ai lati. «Gli stavo dando una rapida occhiata. Probabilmente non mi sarei accorta di nulla se uno dei passatempi di mio padre non fosse stato quello di costruire mobili. Infarcendoli sempre di cassetti segreti e nascondigli. Noi ragazzi ci divertivamo molto, giocavamo alla caccia al tesoro. Quando ho notato quella piccola protuberanza sul fianco, mi sono incuriosita, anche se a prima vista sembrava un banale elemento decorativo, per imitare le vecchie viti di un tempo.» Girò accanto al divano e allungò la mano. Eve poté quasi avvertire la propria pelle emettere vibrazioni. La voce di Peabody si alzò di un'ottava. «Un tesoro nascosto.» Il cuore di Eve sobbalzò, di colpo e con forza. Nel lungo e largo cassetto uscito da sotto i cuscini c'erano un ombrello rosso e una scarpa a righe rosse e bianche con il tacco alto. «Ci siamo.» Eve si voltò verso Peabody con un sorriso feroce. «Agente, hai appena compiuto un passo da gigante verso il distintivo da detective.» «Il mio uomo dice che lo stai tormentando.» Eve guardò con aria accigliata il volto di Feeney nel piccolo schermo del suo cellulare. «Gli ho semplicemente chiesto di tenermi via via aggiornata.» Si allontanò dagli uomini della Scientifica che stavano passando al setaccio il salotto dell'appartamento di Morse. Avevano acceso le luci al massimo, perché il sole era ormai al tramonto. «Ma così lo costringi a interrompere il suo lavoro, Dallas. Te l'avevo detto che sarebbe stata una ricerca lunga. Morse è un esperto in computer. Conosce tutti i trucchi.» «Deve averlo scritto da qualche parte, Feeney. Come un dannato testo di
cronaca. Se ha in mano Nadine, anche questo sarà annotato su uno di quei dannati dischi.» «Sono d'accordo con te, figliola, ma stare con il fiato sul collo del mio uomo non l'aiuterà a rintracciare più in fretta i dati. Dacci il tempo di respirare, santo cielo. Stasera non hai un impegno fantastico?» «Cosa?» Eve fece una smorfia. «Oh, al diavolo.» «Va' a metterti in abito da sera e lasciaci in pace.» «Non ho intenzione di vestirmi come una cretinetta qualsiasi e ingozzarmi di tartine mentre Morse è ancora uccel di bosco.» «E resterà uccel di bosco, qualunque sia l'abito che indossi. Ascolta, abbiamo predisposto una serie di posti di blocco in tutta la città per rintracciare lui e la sua auto. Il suo appartamento è sorvegliato a vista, così come l'emittente televisiva. Tu, qui, non ci servi. Questo è un lavoro di cui mi devo occupare io.» «Posso...» «Puoi rallentare il procedimento tenendomi al telefono», scattò Feeney. «Vattene, Dallas. Non appena avrò trovato qualcosa, il primo indizio utile, ti informerò.» «L'abbiamo in pugno, Feeney. Sappiamo chi è, che cos'è.» «Ma ora devi darmi il tempo di scoprire dov'è. Se Nadine Furst è ancora viva, ogni minuto può essere decisivo.» Era quel pensiero a ossessionare Eve. Avrebbe voluto controbattere, ma non trovò argomenti validi. «Va bene, me ne vado, ma...» «Non chiamarmi», l'interruppe Feeney. «Mi metterò io in contatto con te.» Interruppe la comunicazione prima che lei potesse insultarlo. Eve si stava sforzando di capire i rapporti personali, l'importanza di trovare un equilibrio fra esistenze e obblighi diversi, il valore del compromesso. La relazione fra lei e Roarke non era ancora così sufficientemente rodata da funzionare al meglio: era come una scarpa un po' stretta, ma tanto affascinante da far pensare che valesse la pena di metterla finché non si fosse allargata. Perciò, entrata di corsa in camera da letto, nel vedere Roarke nello spogliatoio adottò subito una strategia d'attacco. «Non voglio sentire storie per il mio ritardo. Ci ha già pensato Summerset a rimproverarmi», proruppe, sfilandosi la fondina e gettandola su una sedia. Lui intanto si stava infilando un gemello d'oro nel polsino, muovendo con calma e precisione le eleganti mani.
«Non devi rendere conto di nulla a Summerset.» E la fissò, battendo rapidamente le palpebre nel vederla sfilarsi la camicia. «E neppure a me.» «Senti, stavo lavorando.» Nuda dalla vita in su, si lasciò cadere su una sedia per togliersi gli stivali. «Ti avevo detto che sarei stata qui e ci sono. Lo so che gli ospiti arriveranno fra una decina di minuti.» Lanciò a terra uno stivale, mentre le graffianti parole di Summerset le ronzavano in testa. «Sarò pronta in tempo. Non mi ci vogliono ore per indossare un abito e spalmarmi in faccia uno strato di cerone.» Tolti gli stivali, inarcò i fianchi e si sfilò i jeans. Prim'ancora che questi toccassero il pavimento, balzò verso la vicina stanza da bagno. Sorridendo di quell'uscita di scena, Roarke la seguì. «Non c'è fretta, Eve. A un cocktail party non c'è bisogno di timbrare il cartellino e nessuno ti multerà per il ritardo.» «Ti ho detto che sarò pronta in tempo.» Ferma sotto gli spruzzi incrociati della doccia, si insaponò i capelli con un liquido di un verde pallido. La schiuma le finì negli occhi. «Ce la farò.» «Va bene, ma nessuno comunque si offenderà se anche tu dovessi ritardare di venti minuti o mezz'ora. Credi che io sia seccato con te perché conduci un'altra esistenza, solo tua?» Eve si sciacquò gli occhi che le bruciavano e cercò di guardarlo attraverso la schiuma e il vapore. «Forse.» «In tal caso devo darti una delusione. Se ricordi, è proprio grazie a quest'altra tua esistenza che ti ho conosciuto. E anch'io ho svariati impegni personali.» La osservò mentre si lavava i capelli. Era piacevole vedere il modo in cui piegava all'indietro la testa, con l'acqua e il sapone che le scivolavano sulla pelle. «Non ho intenzione di chiuderti in gabbia. Sto solo cercando di vivere insieme a te.» Eve soffiò sui capelli bagnati, per allontanarli dagli occhi, poi, mentre lui le apriva la cabina asciugatrice, fece per entrarci, ma ruotò su se stessa e, cogliendo Roarke di sorpresa, gli prese il volto fra le mani e lo baciò, in un empito d'entusiasmo. «Potrebbe non essere facile.» Entrò quindi nella cabina e azionò l'apparecchio che erogava sbuffi d'aria calda e secca. «Trovo già difficile vivere con me stessa. A volte mi chiedo perché non me le suoni quando comincio a trattarti male.» «Mi è venuto in mente, ma troppo spesso sei armata.» Asciutta e fragrante di sapone profumato, Eve uscì dalla cabina. «Adesso non lo sono.»
Lui l'afferrò per la vita, poi fece scorrere le mani sul suo sedere sodo e muscoloso. «Quando sei nuda sono altri i pensieri che mi passano per la mente.» «Già.» Gli circondò il collo con le braccia, notando con piacere che le bastava alzarsi leggermente in punta di piedi per trovarsi occhi contro occhi, bocca contro bocca. «Per esempio?» Con qualcosa di più di un leggero rincrescimento, Roarke la sciolse da sé, tenendola a distanza. «Perché non mi dici per quale motivo sei così eccitata?» «Forse perché mi piace vederti in abito da sera.» Si allontanò e prese da una gruccia una vestaglia corta. «O forse perché fremo all'idea di infilare un paio di scarpe che mi indolenziranno la pianta dei piedi nelle prossime due ore.» Si guardò nello specchio e si sentì obbligata a mettersi uno strato del fondotinta che Mavis le proponeva in continuazione. Poi, avvicinandosi di più allo specchio, prese la macchinetta del mascara, per scurire e allungare le ciglia, se lo avvicinò all'occhio sinistro e azionò lo stantuffo. «O anche, magari», continuò, guardandosi attorno, «perché l'agente Peabody ha trovato il tesoro nascosto.» «Buon per lei. Quale tesoro nascosto?» Eve si truccò le ciglia dell'occhio destro e batté le palpebre per verificare che fosse tutto a posto. «Un ombrello e una scarpa.» «Hai trovato l'assassino!» Roarke l'afferrò per le spalle e le baciò la nuca. «Congratulazioni.» «L'abbiamo quasi trovato», lo corresse lei. Cercò di ricordare che cos'altro doveva truccarsi e optò per la bocca. Mavis le aveva decantato le virtù di un rossetto liquido, ma Eve non se la sentì di tingersi le labbra con un colore che non sarebbe andato via prima di tre settimane. «Abbiamo rinvenuto le prove. La Scientifica ha confermato che su quei souvenir ci sono le sue impronte. Sull'ombrello solo le sue e quelle della vittima, mentre sulla scarpa ce ne sono anche altre, che tuttavia potrebbero appartenere al venditore o ad altri clienti del negozio da cui è arrivata. Sono calzature nuove di zecca, la suola è praticamente intonsa. La Metcalf ne aveva comprate diverse paia da Saks, poco prima di morire.» Tornata in camera da letto, si ricordò della crema profumata che Roarke le aveva portato da Parigi e si tolse la vestaglia per strofinarsela su tutto il corpo. «Il guaio è che non abbiamo trovato lui. Ha avuto sentore, chissà come,
del mio arrivo e se l'è svignata. In questo momento Feeney sta lavorando sui computer dell'assassino per vedere di mettere le mani su qualche informazione che ci permetta di rintracciarlo. In città ci sono posti di blocco ovunque, ma lui potrebbe essere già lontano. Stasera non avrei voluto allontanarmi dalla centrale, ma Feeney mi ha buttata fuori, con la scusa che stavo togliendo il fiato al suo assistente.» Spalancò l'armadio, premette il pulsante che faceva scorrere gli abiti e ne notò uno, minuscolo, color rame. Lo tirò fuori e lo tenne davanti a sé. Aveva le maniche lunghe, che partivano da una profonda scollatura, ed era cortissimo, perché terminava appena sotto l'attaccatura delle cosce. «E dovrei mettere qualcos'altro, oltre a questo?» Roarke frugò nel cassetto più in alto e tirò fuori un triangolo dello stesso colore, che sarebbe stato eufemistico definire mutandine. «Questo andrà bene.» Eve afferrò al volo l'indumento che lui le aveva tirato e se l'infilò dimenando i fianchi. «Cristo», esclamò, dopo una rapida occhiata nello specchio. «Pazienza.» Era troppo tardi per mettersi a discutere, perciò finì di vestirsi, tirando su dal basso l'abito fatto di un materiale elastico che le aderiva al corpo. «È sempre piacevole starti a guardare mentre ti vesti, ma in questo momento sono distratto.» «Lo so, lo so. Scendi pure da basso. Fra un attimo arrivo.» «No, Eve. Lui chi è?» «Lui?» Si mise a posto le spalle dall'attaccatura bassa. «Non te l'ho detto?» «No», replicò Roarke con ammirevole pazienza. «Non me l'hai detto.» «Morse.» Si infilò nell'armadio in cerca delle scarpe. «Stai scherzando.» «C.J. Morse.» Tenne in mano le scarpe, quasi fossero due armi, e gli occhi le si incupirono fissando il vuoto. «Quando avrò finito con quel miserabile bastardo, lui avrà un'audience che non si è mai neanche sognato di ottenere.» Il citofono interno ronzò. La voce di Summerset, carica di disapprovazione, si diffuse nella stanza. «I primi ospiti stanno arrivando, signore.» «Bene. Morse?» esclamò poi Roarke, rivolto a Eve. «Esattamente. Ti racconterò tutto fra una tartina e l'altra.» Si passò una mano fra i capelli. «Te l'avevo detto che sarei stata pronta in tempo. Oh, Roarke, a proposito», aggiunse, intrecciando le proprie dita a quelle di lui
mentre uscivano dalla stanza, «ho bisogno che tu mi accolga un'ospite non prevista. Larinda Mars.» 20 Eve si disse che potevano esserci modi peggiori per attendere la conclusione dell'ultimo stadio di un'indagine. L'atmosfera era molto migliore di quella che si respirava nel suo angusto ufficio nella centrale di polizia e il cibo non era neanche lontanamente paragonabile a quello della mensa. Roarke aveva aperto il suo salone con il soffitto a volta, il pavimento di legno vetrificato, le specchiere alle pareti, l'illuminazione sfavillante. Lunghi tavoli dalla forma ricurva per adattarsi ai muri arrotondati erano artisticamente coperti di piccole leccornie esotiche. Uova colorate, da mangiarsi in un solo boccone, che venivano dall'allevamento di piccioni nani sulla colonia lunare; delicati gamberetti rosa pescati nel mar del Giappone; eleganti riccioli di formaggio che si scioglievano sulla lingua; tartine coperte di pâté o altre sostanze cremose in un'estrema varietà di forme; lucide montagnole di caviale poste su uno strato di ghiaccio tritato; un ricco assortimento di frutta fresca ricoperta da un velo di zucchero glassato. Non erano lì tutti, i cibi. Su un tavolo apposito, dalla parte opposta del salone, erano tenute in caldo pietanze speziate, mentre un intero angolo della stanza offriva una miriade di preziosi manicaretti agli ospiti vegetariani e un altro ancora, a una discreta distanza, a quelli carnivori. Roarke aveva preferito che si suonasse musica dal vivo, invece che registrata, e l'orchestrina sistemata sulla terrazza adiacente eseguiva brani in sordina che fornivano un piacevole sottofondo alle conversazioni. I ritmi si sarebbero fatti più incalzanti con il calare della notte, per indurre gli ospiti alle danze. In quel turbinio di colori, profumi, sfavillii e scintillii, alcuni camerieri severamente vestiti di nero si aggiravano fra i presenti portando su vassoi d'argento calici di cristallo pieni di champagne. «È fantastico», commentò Mavis, mettendosi in bocca una spugnola fritta. Per l'occasione si era vestita in modo borghese, il che significava che buona parte del corpo era coperta, e aveva tinto i capelli di un rosso non troppo sgargiante. Per non smentirsi, aveva scelto la stessa tonalità anche per l'iride dei suoi occhi. «Non posso credere che Roarke mi abbia davvero invitata.»
«Sei la mia amica.» «Già. Ehi, che ne pensi se, quando tutti saranno ormai sbronzi, chiedessi all'orchestra di farmi fare un numero?» Eve lanciò un'occhiata a quella folla di ricchi privilegiati, allo scintillio dei monili di oro vero con pietre preziose autentiche, e sorrise. «Credo che sarebbe formidabile.» «Magnifico.» Mavis diede una rapida stretta alla mano di Eve. «Vado subito a parlare con gli orchestrali, per insinuarmi nei loro cuori.» «Tenente.» Eve distolse lo sguardo dalla figura di Mavis che si allontanava e lo alzò verso il volto del capo della polizia, Tibbie. «Signore.» «Stasera lei ha un aspetto... poco professionale.» Notando l'imbarazzo di Eve, scoppiò a ridere. «Era un complimento. Roarke ha creato una bellissima messinscena.» «Sì, signore, proprio così. È per una buona causa.» Ma non riuscì a ricordare di quale buona causa si trattasse. «Lo credo anch'io. Ci si sta impegnando, a fondo, pure mia moglie.» Trovandosi accanto un vassoio pieno di calici di champagne, ne prese uno e bevve un sorso. «L'unica cosa che mi rincresce è che questi dannati abiti da cerimonia non passano mai di moda.» Con la mano libera si strattonò il colletto. Quel gesto la fece sorridere. «Dovrebbe provare a portare scarpe come le mie.» «Bisogna pagare un duro prezzo per essere alla moda.» «Preferirei essere all'antica, ma comoda.» Resistette tuttavia all'impulso di tirare verso il basso l'abito che le fasciava il sedere. «Bene.» Tibbie la prese sottobraccio e la condusse verso una folta tuia. «Ora che abbiamo scambiato le solite quattro chiacchiere di prammatica, vorrei dirle che lei ha condotto le indagini in modo eccellente.» «Mi sono sbagliata su Angelini.» «No, ha seguito una pista logica, poi è tornata sui propri passi ed è riuscita a trovare indizi che agli altri erano sfuggiti.» «È stato solo un colpo di fortuna a farmi incontrare la tossicodipendente albina, signore. Sono stata solo fortunata.» «La fortuna conta. Così come la tenacia... e l'attenzione ai dettagli. L'ha inchiodato, Dallas.» «È ancora a piede libero.» «Non andrà lontano. Sarà tutta colpa della sua ambizione se alla fine ca-
drà in trappola. Il suo volto è troppo conosciuto.» Eve contava proprio su quello. «Signore, l'agente Peabody ha fatto un ottimo lavoro. Ha occhi acuti e un fiuto eccellente.» «L'ho letto nel suo rapporto. Non me ne dimenticherò.» Lanciò un'occhiata all'orologio, dal che Eve intuì che il capo della polizia era teso quanto lei. «Ho promesso a Feeney una bottiglia di whiskey irlandese se riuscirà a farcela entro mezzanotte.» «Se una simile promessa non ottiene i risultati sperati, siamo proprio nei guai», replicò Eve con un sorriso. Non ritenne necessario ricordare a Tibbie che nell'appartamento di Morse non era stata trovata l'arma del delitto. Lui lo sapeva già. Poi si irrigidì, vedendo Marco Angelini entrare nel salone. «Mi scusi, capo. C'è una persona a cui devo dire una cosa.» Lui le appoggiò una mano sul braccio. «Non è necessario, Dallas.» «No, signore, lo è.» Eve si rese conto del preciso istante in cui Angelini notò la sua presenza, perché lui sollevò di colpo il mento e si immobilizzò, allacciandosi le mani dietro la schiena e restando in attesa. «Mr Angelini.» «Tenente Dallas.» «Sono veramente dispiaciuta per i guai che ho causato a lei e alla sua famiglia nel corso delle indagini.» «Davvero?» I suoi occhi erano gelidi, fermi. «Accusando mio figlio di omicidio, terrorizzandolo e umiliandolo, aggiungendo sofferenze a una sofferenza già insostenibile, rinchiudendolo in una cella quando il suo unico delitto consisteva nell'aver assistito a un crimine?» Eve avrebbe potuto giustificare le proprie azioni. Ricordargli che il figlio non era stato soltanto testimone diretto di un crimine efferato, ma che aveva voltato le spalle alla scena del delitto senza pensare ad altro che a salvare la pelle e aveva aggravato la propria posizione tentando di corrompere un funzionario di polizia affinché mettesse a tacere quella storia. «Mi dispiace di aver reso più pesante il trauma emotivo della sua famiglia.» «Dubito che lei comprenda il significato delle sue parole.» Abbassò gli occhi. «E mi chiedo se, impegnata com'era a sfruttare la condizione privilegiata del suo compagno, non abbia rischiato di non trovare mai il vero assassino. È abbastanza facile capire chi è lei. Lei è un'opportunista, una arrampicatrice sociale, una puttana mediatica.»
«Marco.» A parlare, a voce bassa, era stato Roarke, che posò una mano sulla spalla di Eve. «No.» Lei si irrigidì nel sentirsi toccare. «Non prendere le mie difese. Lascialo finire.» «Non posso permetterglielo. Voglio tener conto del tuo stato d'animo, Marco, perché è l'unica cosa che possa giustificare questo attacco a Eve, nella sua stessa casa. Immagino che tu non intenda trattenerti», aggiunse con voce così gelida da far capire che non giustificava nulla. «Ti accompagno all'uscita.» «Conosco la strada.» Gli occhi di Marco fulminarono Eve. «Metteremo fine al nostro rapporto di lavoro il prima possibile, Roarke. Non mi fido più della tua capacità di discernimento.» Con le mani strette a pugno sui fianchi e vibrante di rabbia, Eve seguì con lo sguardo Marco che si allontanava. «Perché ti sei intromesso? Ero più che in grado di metterlo a posto.» «Non ne dubito», assentì Roarke, poi le voltò il viso verso di sé. «Ma si trattava di una questione personale. Nessuno, assolutamente nessuno, può entrare in casa mia e parlarti in quel modo.» Lei cercò di sdrammatizzare l'accaduto. «Summerset lo fa.» Roarke sorrise e le sfiorò le labbra con le sue. «È l'eccezione che conferma la regola, per motivi troppo complessi da spiegare.» Con il pollice le spianò il solco creato dalle sopracciglia aggrottate. «Va bene. Immagino che a Natale fra gli Angelini e noi non ci sarà uno scambio di biglietti d'auguri.» «Riusciremo comunque a sopravvivere. Che ne dici di bere un goccio di champagne?» «Fra un attimo. Ora devo rinfrescarmi un po'.» Gli sfiorò il viso. Stava diventando sempre più facile farlo, accarezzarlo quando non erano soli. «Credo di doverti avvisare che la Mars ha un registratore nella borsa.» Roarke le diede un rapido buffetto sulla fossetta in mezzo al mento. «L'aveva. Adesso è nella mia tasca. C'è finito quando le ho permesso di avvicinarsi a me al tavolo per i vegetariani.» «Che abilità. Non mi avevi mai detto che fra le tue doti c'era anche quella di borseggiatore.» «Non me l'hai mai chiesto.» «Ricordami di interrogarti, e su molte cose. Torno fra un attimo.» Non si preoccupò di andare a rinfrescarsi. Voleva stare sola qualche minuto, per farsi sbollire la rabbia, e anche per chiamare Feeney, benché pre-
vedesse già che il collega l'avrebbe presa a male parole per aver interrotto la sua ricerca sul computer. Lui aveva ancora un'ora a disposizione se non voleva perdere la sua bottiglia di whiskey irlandese. Eve non credeva di far male a ricordarglielo. Era davanti alla porta della biblioteca e stava per entrare quando Summerset si materializzò nell'ombra alle sue spalle. «Tenente, c'è una chiamata per lei, definita personale e urgente.» «Da parte di Feeney?» «L'uomo non si è degnato di presentarsi», rispose altezzosamente Summerset. «La prenderò qui.» Eve si tolse la piccola ma gratificante soddisfazione di richiudere la porta in faccia al maggiordomo. «Luci», ordinò e le lampade si accesero. Lei si era ormai quasi abituata alle pareti coperte di libri dalla rilegatura in cuoio e con le pagine di una carta che crepitava quando li si sfogliava. Per una volta, li degnò solo di una rapida occhiata mentre si precipitava verso il videotelefono sulla scrivania di Roarke. Aprì la comunicazione e si raggelò. «Sorpresa, sorpresa.» Morse le rivolse un sorriso smagliante. «Scommetto che non mi aspettavi. Tutta agghindata per la festa, a quanto vedo. Sei fantastica.» «Ti stavo proprio cercando, C.J.» «Oh, sì, lo so. Mi cerchi per un sacco di cose. Lo so che stai registrando la telefonata, ma non ha importanza. Apri bene le orecchie. Che questo resti fra te e me, o comincerò a fare a fettine una tua amica. Nadine, saluta Dallas.» Si ritrasse e sullo schermo apparve il viso della giornalista. Eve, che aveva visto il terrore fin troppe volte, lo riconobbe subito. «Ti ha fatto del male, Nadine?» «Io...» Lanciò un gemito quando lui le strattonò indietro la testa, tenendola per i capelli, e le posò sulla gola una lunga lama sottile. «Su, di' a Dallas che io sono stato molto gentile con te. Diglielo.» Fece scorrere la lama sul collo, dalla parte piatta. «Puttana.» «Sto bene, sto bene.» Nadine chiuse gli occhi, dai quali sgorgò una lacrima. «Mi dispiace.» «Le dispiace», sibilò Morse fra le labbra corrugate, premendo la propria guancia contro quella di Nadine, così che entrambi i volti fossero visibili. «Le dispiace di essere stata così ansiosa di diventare la puttana più accla-
mata da seminare l'agente che tu le avevi messo alle calcagna e da cadere fra le mie braccia che l'attendevano. Non è vero, Nadine?» «Sì.» «E io ti ucciderò, ma non così in fretta come le altre. Ti ucciderò lentamente, facendoti spasimare dal dolore, a meno che la tua amica tenente non esegua quanto ora le chiederò. Non è giusto? Diglielo tu, Nadine.» «Mi ucciderà.» La giornalista strinse con forza le labbra, ma neppure così poté impedire che tremassero. «Mi ucciderà, Dallas.» «Esatto. Tu non vuoi che muoia, vero, Dallas? È colpa tua se Louise ci ha lasciato le penne, tua e di Nadine. Lei non se lo meritava. Sapeva stare al suo posto, non cercava di fare la carogna. È colpa vostra se è morta. E tu non vuoi che ciò accada di nuovo.» Teneva ancora il pugnale premuto contro la gola di Nadine. Eve notò che la mano gli tremava. «Che cosa vuoi, Morse?» Ricordandosi il profilo psicologico tracciato da Mira, cercò di colpire i suoi punti deboli. «Hai il controllo della situazione. Sei tu a tirare le fila.» «Esatto.» Il suo sorriso si allargò. «È esattamente così. Ormai avrai appurato dove mi trovo. Il tuo schermo ti sta segnalando che mi trovo in un bell'angolino tranquillo di Greenpeace Park, dove nessuno verrà a disturbarci. Quei simpatici amanti del verde hanno piantato qui un sacco di bellissimi alberi. È un posto stupendo. Ovviamente non ci viene nessuno di notte. A meno che non si sia tanto intelligenti da sapere come schivare il campo elettronico che tiene alla larga vagabondi e tossici. Hai esattamente sei minuti per arrivare fin qui, per poi discutere sul da farsi.» «Sei minuti? Anche correndo come una matta, potrei non farcela. Se trovo un ingorgo stradale...» «Piantala», scattò Morse. «Sei minuti da quando questa comunicazione si interromperà, Dallas. Ritarda di dieci secondi, i dieci secondi che ti possono servire per chiedere aiuto, per contattare qualcuno, e io comincio a seviziare Nadine. E vieni da sola. Se sento l'odore di un altro poliziotto, inizio a usare la mia lama. Tu vuoi che venga sola, non è così, Nadine?» Per convincerla, girò il pugnale di punta e praticò una sottile incisione di lato alla gola. «No, ti prego.» Nadine cercò di arcuarsi all'indietro, mentre il sangue le gocciolava sul collo. «Ti prego.» «Feriscila di nuovo e non scenderò a patti con te.» «Scenderai a patti», ribatté Morse. «Fra sei minuti. A partire da ora.» Lo schermo si svuotò. Il dito di Eve indugiò sui pulsanti, mentre lei si
chiedeva se chiamare la centrale, mobilitare dozzine di unità che in un paio di minuti avrebbero potuto circondare il parco. Ma pensò alle fughe di notizie, per via elettronica. E pensò al sangue che rigava la gola di Nadine. Attraversò d'un balzo la stanza e azionò il pannello dell'ascensore. Aveva bisogno della propria arma. C.J. Morse stava vivendo il momento più glorioso della sua vita. Aveva cominciato a capire quanto ci avesse perso a uccidere così frettolosamente. Si provava molto più gusto a corteggiare il terrore, a sedurlo, a vederlo sbocciare e crescere fino allo spasimo. Lo scorgeva negli occhi di Nadine Furst. Erano vitrei, adesso, con le pupille dilatate, nere e lucenti, che lasciavano intravedere solo un leggero alone colorato ai bordi. Lui stava letteralmente spaventando a morte quella donna, si rese conto con somma gioia. Non l'aveva più ferita. Oh, lo desiderava e aveva fatto in modo di mostrarle il pugnale tanto spesso da tenere continuamente vivo in lei il terrore di essere seviziata, tuttavia si sentiva un po' sulle spine al pensiero di trovarsi di fronte quella dannata poliziotta. Non che lui non fosse in grado di tenerla a bada, meditò. Poteva avere la meglio su di lei nell'unico modo che le donne capivano. Uccidendola. Ma non alla svelta, come con le altre. Lei aveva cercato di metterlo nel sacco e quello era un insulto intollerabile. Le donne cercavano sempre di portarsi al centro della scena, di tagliarti la strada, proprio quando tu eri sul punto di afferrare l'ambito premio. Una cosa che gli era capitata più volte nel corso di tutta la sua vita. Una vita che era cominciata con quell'assillante carogna che era sua madre. «Non hai fatto del tuo meglio, C.J. Usa il cervello, santo cielo. Per riuscire nella vita non ti basterà avere un bell'aspetto o un certo fascino, di cui fra l'altro tu non disponi. Mi aspettavo di più da te. Se non riuscirai a essere il migliore, sarai una nullità.» Le aveva dato retta, no? Sorridendo a se stesso, prese a carezzare i capelli di Nadine, che cominciò a tremare. Per anni aveva finto di dare retta alla madre, recitando la parte del figlio buono e devoto, mentre di notte sognava un modo per ucciderla. Sogni meravigliosi, appaganti e brutali, in cui finalmente lui riusciva a ridurre al silenzio quella voce stridula, ossessiva. «E li misi in pratica», disse in tono mondano, appoggiando la punta della lama sulla vena pulsante del collo di Nadine. «Fu facilissimo. Lei era tutta
sola in quella sua grande e importante casa, impegnata nel suo grande e importante lavoro. Io entrai. 'C.J.', mi assalì, 'che sei venuto a fare? Non dirmi che sei di nuovo disoccupato. Non ti farai mai strada nella vita se non ti poni un obiettivo da raggiungere.' Io le sorrisi e replicai: 'Chiudi il becco, mamma, chiudi quella tua dannata boccaccia'. E le tagliai la gola.» Per spiegarsi meglio, passò la lama sulla gola di Nadine, leggermente, così da incidere la pelle solo superficialmente. «Lei ansimò, gorgogliò e la chiuse, quella sua dannata bocca. Devi sapere, però, Nadine, che imparai qualcosa da quella vecchia baldracca. Era arrivato il momento di pormi un obiettivo. Avevo bisogno di dare un senso alla mia vita. E decisi che quell'obiettivo consisteva nel liberare il mondo dalle donne invadenti, che parlavano troppo, che rompevano le scatole. Come la Towers e la Metcalf. Come te, Nadine.» Si chinò, le baciò la fronte. «Proprio come te.» La giornalista riuscì soltanto a emettere un gemito. Era mentalmente raggelata. Aveva smesso di torcere i polsi per liberarli dalle corde che li legavano, aveva smesso di tentare ogni altra cosa. Se ne stava seduta con l'inerzia di una bambola, un'immobilità rotta solo di tanto in tanto da qualche tremito. «Tu continuavi a cercare di mettermi da parte. Ti eri persino rivolta alla direzione della nostra rete televisiva per farmi togliere l'incarico di conduttore delle news. Mi avevi definito un...» Per enfatizzare le sue parole le picchiettò la gola con il pugnale. «Un rompiballe. Quella cagna della Towers, come sai benissimo, non mi avrebbe mai concesso un'intervista. Mi metteva i bastoni fra le ruote. Alle conferenze stampa faceva finta che io non ci fossi. Ma io sono riuscito a fargliela pagare. Un bravo reporter scava nel torbido, non è così, Nadine? E io avevo scavato e trovato una storiella succosa sullo stupido fidanzato della sua adorata figliola. Oh, l'avevo tenuta per me, l'avevo tenuta in caldo, mentre la felice madre della futura sposa era impegnata nei preparativi per le nozze. Avrei potuto ricattarla, ma non era questo il mio obiettivo, giusto? Lei andò su tutte le furie quando le telefonai, quella sera, quando le sbattei tutto in faccia.» Socchiuse gli occhi, che mandavano lampi. «A quel punto, Nadine, lei si decise a parlare con me. Oh, ci puoi giurare che è stato così. Avrebbe tentato di rovinarmi, se mi fossi solo azzardato a riferire i fatti. Ma la Towers era una carogna e avrebbe anche cercato di schiacciarmi, come si fa con le cimici. Mi disse esattamente questo, al telefono. Invece eseguì alla lettera le istruzioni che le avevo dato. E, quando mi incamminai verso di lei in quel vicolo schifoso, mi guardò con aria di derisione. Quella cagna mi ri-
volse una smorfia beffarda e disse: 'Sei in ritardo. Ora, piccolo bastardo, regoleremo i conti'.» Scoppiò in una risata così convulsa che dovette comprimersi lo stomaco con una mano. «Oh, e io glieli ho regolati, eccome. Un fiotto di sangue e un gorgoglio, proprio come con la mia cara vecchia madre.» Sferrò a Nadine un rapido scappellotto sulla sommità della testa, si alzò e si portò davanti alla telecamera che aveva piantato in terra. «Chi vi parla è C.J. Morse. A giudicare dai secondi che continuano a scorrere, appare chiaro che l'eroico tenente Stronza non arriverà in tempo a salvare dall'esecuzione questa cagna della sua amica. L'esperimento ha così dimostrato quello che viene ormai ritenuto un pregiudizio sessista, cioè che le donne sono sempre in ritardo.» Rise fragorosamente e sferrò a Nadine un noncurante manrovescio, facendole sbattere la schiena contro la panchina sulla quale l'aveva messa a sedere. Dopo un ultimo risolino stridulo si controllò e fissò l'obiettivo, con espressione seria e accigliata. «Il divieto di mostrare in televisione le esecuzioni fu emanato in questo Paese nel 2012, cinque anni prima che la Suprema Corte decretasse ancora una volta che la pena capitale era anticostituzionale. Poiché la Corte fu ovviamente indotta a prendere tale decisione da cinque stupide donne che non tenevano mai la bocca chiusa, il qui presente giornalista ritiene nullo e illegale il suddetto decreto.» Si tolse di tasca una piccola torcia elettrica e si voltò verso Nadine. «Ora mi collegherò all'emittente televisiva. Fra venti secondi andremo in onda.» Piegò la testa, con aria meditabonda. «Sai, avresti dovuto truccarti un po'. Peccato che non ce ne sia il tempo. Sono sicuro che avresti voluto essere nella forma più smagliante per la tua ultima apparizione sullo schermo.» Si avvicinò a lei, le appoggiò alla gola la lama in tutta la sua lunghezza e si volse a guardare la telecamera. «Meno dieci, nove, otto...» Nell'udire un frettoloso rumore di passi sull'acciottolato del vialetto girò lo sguardo. «Oh, bene, eccola. E con qualche secondo di anticipo.» Eve si arrestò di colpo sul vialetto e fissò la scena. Nei dieci anni trascorsi nella polizia ne aveva viste di tutti i colori. Talmente tante da augurarsi spesso di poterle cancellare dalla memoria. Mai, però, si era trovata di fronte qualcosa di simile. Aveva seguito la luce della torcia elettrica, quell'unica luce che proiettava un cerchio luminoso sullo spettacolo in corso: la panchina del parco sulla quale Nadine sedeva inerte, con un filo di sangue rappreso sulla pelle e
un pugnale alla gola, e, dietro di lei, C.J. Morse, elegantemente vestito con una camicia con il colletto alla coreana e una giacca in tonalità abbinata, intento a fissare una telecamera posta su un esile treppiede. La lucina rossa aveva la ferma luminosità dello sguardo di Dio. «Che diavolo stai facendo, Morse?» «Una diretta», rispose lui con voce ilare. «Prego, tenente, entra nel cerchio di luce, così che il nostro pubblico possa vederti.» Continuando a fissarlo, Eve si fece avanti sul terreno illuminato. L'assenza di Eve si stava prolungando troppo, pensò Roarke, accorgendosi che il chiacchiericcio dei suoi ospiti cominciava a irritarlo. Evidentemente lei era più sconvolta di quanto gli fosse sembrata, il che gli fece rimpiangere di non aver trattato Angelini con maggiore durezza. Che fosse dannato se le avesse permesso di deprimersi o accusare se stessa. L'unico modo per assicurarsi che ciò non avvenisse consisteva nel farle cambiare umore divertendola o irritandola. Sgattaiolò silenziosamente dal salone, allontanandosi dalle luci, dalla musica e dalle voci. La casa era troppo grande per mettersi alla sua ricerca, ma lui poteva sempre rintracciarla con una domanda. «Dov'è Eve?» chiese a Summerset non appena lo vide uscire da una stanza sulla destra. «Se n'è andata.» «Che cosa vuol dire 'andata'? Andata dove?» Siccome il dover parlare di quella donna gli faceva sempre saltare i nervi, Summerset si strinse nelle spalle. «Non so che cosa dire. È semplicemente uscita di casa a precipizio, è montata in macchina ed è partita a spron battuto. Non si è degnata di informarmi delle sue intenzioni.» Il violento crampo allo stomaco di Roarke rese stridula la sua voce. «Non seccarmi con queste stupidaggini, Summerset. Perché se n'è andata?» Sdegnato, il maggiordomo irrigidì la mascella. «Forse è stato per via della telefonata che aveva ricevuto qualche attimo prima. L'aveva presa in biblioteca.» Roarke girò bruscamente sui tacchi e, raggiunta la porta della biblioteca, l'aprì. Con Summerset alle calcagna, si precipitò verso la scrivania. «Ascolto, ultima chiamata.» Mentre ascoltava, con lo sguardo fisso, il crampo allo stomaco si trasformò in qualcosa di bruciante, che era paura. «Cristo, è andata a fermar-
lo. E ci è andata da sola.» Era già oltre la soglia e correva quando si lanciò dietro le spalle un ordine tranciante come un raggio laser. «Riferisci l'informazione a Tibbie... in privato.» «Anche se il tempo stringe, tenente, sono sicuro che il nostro pubblico sarà affascinato dal racconto del procedimento investigativo.» Morse manteneva sul volto il suo cordiale sorriso da conduttore, tenendo sempre il pugnale premuto contro la gola di Nadine. «Hai seguito per un po' una falsa pista e, se non sbaglio, sei stata sul punto di incriminare un innocente.» «Perché le hai uccise, Morse?» «Oh, ho lasciato un'accurata documentazione, da trasmettere in seguito. Parliamo di te, ora.» «Deve esserti venuto un colpo quando ti sei accorto di aver ucciso Louise Kirski invece di Nadine.» «Sì, sono rimasto sconvolto, nauseato. Louise era una ragazza simpatica, che parlava poco e stava al suo posto. Ma non è stata colpa mia. La colpa è tua e di Nadine, per aver tentato di attirarmi in un tranello.» «Volevi diventare famoso.» Eve lanciò un'occhiata alla telecamera. «Ora avrai tutta la notorietà che cercavi. Ma così ti stai cacciando in trappola, Morse. Non uscirai da questo parco.» «Oh, ho già preso le mie precauzioni, sta' tranquilla. E ci restano alcuni minuti prima di concludere questa storia. Il pubblico ha il diritto di sapere. Voglio che tutti assistano all'esecuzione. Ma volevo che la vedessi anche tu, con i tuoi occhi. Che ti rendessi conto di persona di ciò che hai causato.» Eve guardò Nadine. Non poteva esserle di alcun aiuto, si disse. La giornalista sembrava in preda a un violento shock, probabilmente era anche sotto l'effetto di qualche droga. «Non mi lascerò prendere tanto facilmente.» «Con te sarà ancora più divertente.» «Come hai fatto a catturare Nadine?» chiese Eve, avvicinandosi ulteriormente, senza distogliere lo sguardo da Morse e tenendo le mani bene in vista. «Devi aver agito con grande intelligenza.» «Io sono molto intelligente. Sono gli altri - in particolare le donne - a non capirlo. Le ho lanciato un'esca a proposito dei delitti. Un messaggio da un testimone oculare atterrito che voleva parlare con lei, a quattr'occhi. Sapevo che avrebbe seminato l'agente che la proteggeva, da donna ambi-
ziosa in cerca di una storia sensazionale. L'ho attirata nel garage. Nulla di più semplice. Le ho iniettato una dose di un forte tranquillante, l'ho fatta montare sulla sua stessa auto e mi sono messo al volante. Ho lasciato lei e il veicolo nella zona sud della città, nel cortile di una casa da affittare.» «Sei furbo.» Eve avanzò ancora di qualche passo, fermandosi quando lo vide aggrottare la fronte e aumentare la pressione della lama sul collo di Nadine. «Molto furbo, davvero», aggiunse, alzando le braccia. «Sapevi che ti stavo cercando. Come facevi a saperlo?» «Credi che il tuo rugoso collega Feeney conosca a menadito l'informatica? Be', io me ne faccio un baffo, di un mago dei computer come lui. Sono settimane che spio nel vostro sistema. Ho seguito ogni vostro colloquio, ogni vostro piano, ogni vostra mossa. Sono sempre stato un passo davanti a te, Dallas.» «Già, stavi davanti a me. Perché non è Nadine la vittima designata. Tu vuoi uccidere me. Chi ti ha mandato su tutte le furie, chi ti ha procurato le grane peggiori sono io. Perché non la lasci andare? Tanto è in stato confusionale. Prendi me al suo posto.» Lui le rivolse il suo smagliante sorriso da bravo ragazzo. «Perché non uccidere prima lei e, in un secondo tempo, te?» Eve si strinse nelle spalle. «Credevo che ti piacesse raccogliere una sfida. Ma suppongo di essermi sbagliata. La Towers ti aveva provocato. Sei stato costretto a raccontarle un sacco di storie per indurla a recarsi dove volevi tu. Ma la Metcalf non era nessuno.» «Vuoi scherzare? Mi riteneva una femminuccia.» Mostrò i denti, emise un sibilo. «Starebbe ancora presentando il meteo se non avesse avuto le tette, e per questo stavano per darle il mio posto. Il mio programma! Dovetti fingere di essere un suo grande ammiratore, dirle che avrei fatto una trasmissione di venti minuti su di lei. Solo su di lei. Le raccontai che avevamo un programma sul satellite internazionale e Yvonne ci cascò in pieno.» «Vi incontraste quella notte nel patio.» «Sì, lei era tutta in tiro, continuava a sorridere e a lisciarmi il pelo. Tentò pure di dirmi quanto fosse contenta di sapere che avevo trovato un posticino adatto a me. Un nido. Be', le tappai la bocca.» «Già. Immagino che anche con lei tu abbia agito con grande furbizia. Ma Nadine se ne sta zitta. In questo momento non è neppure in grado di capire. Non saprà mai che gliela stai facendo pagare.» «Lo saprò io. Il tempo è scaduto. Sarà meglio per te, Dallas, metterti in
disparte, altrimenti il tuo vestito da sera si inonderà di sangue.» «Aspetta.» Avanzò di un passo e, fingendo di spostarsi di lato, allungò una mano verso il fondoschiena, facendo balenare bruscamente l'arma. «Batti solo le palpebre, bastardo, e ti arrostisco.» Morse batté le palpebre, più volte. Gli pareva che l'arma fosse sbucata dal nulla. «Se tiri, la mia mano farà uno scatto. Nadine creperà prima di me.» «Forse», ribatté Eve in tono fermo. «O forse no. In entrambi i casi tu sei spacciato. Getta a terra il pugnale, Morse, e allontanati da lei, altrimenti il tuo sistema nervoso rischia di andare rapidamente in tilt.» «Puttana. Credi di potermi battere.» Con uno strattone sollevò Nadine in piedi, usandola come schermo, poi la proiettò in avanti. Eve afferrò Nadine con una mano, mentre con l'altra tornava a puntare l'arma, ma si accorse che lui era già sparito fra gli alberi. Non vedendo altra scelta, schiaffeggiò la giornalista, prima con il palmo, poi con il dorso della mano. «Riscuotiti, maledizione.» «Sta per uccidermi.» Nadine rovesciò gli occhi all'indietro, poi, quando Eve la schiaffeggiò di nuovo, guardò fisso davanti a sé. «Scappa, hai capito? Corri, va' in cerca d'aiuto. Presto.» «Vado in cerca d'aiuto.» «Da quella parte.» Spinse Nadine verso il viottolo, augurandosi che riuscisse a stare in piedi, e si lanciò verso gli alberi. Morse aveva detto di aver già preso le sue precauzioni e lei non ne dubitava. In ogni caso, se anche fosse riuscito a lasciare il parco, alla fine sarebbe stato catturato, ma a quel punto era pronto a uccidere qualunque altra donna: una che stesse facendo passeggiare il proprio cane sul marciapiede o che stesse tornando a casa da un appuntamento serale. Avrebbe accoltellato la prima che gli fosse capitata a tiro, perché aveva fallito di nuovo. Eve si fermò all'ombra delle piante, con le orecchie tese per cogliere il minimo rumore, trattenendo il respiro. Riusciva a udire il flebile brusio del traffico stradale e aereo e a scorgere il pallido chiarore cittadino al di là della fitta cornice di alberi. Davanti a lei si apriva a raggiera una dozzina di viottoli che si inoltravano nella radura e nei giardini così amorevolmente curati, così attentamente concepiti. Poi udì qualcosa. Forse un rumore di passi, forse il fruscio prodotto da un piccolo animale che si rintanava in un cespuglio. Con l'arma in pugno,
si addentrò più profondamente fra le ombre. Si trovò davanti una fontana, le cui acque ristagnavano silenziose nell'oscurità, e un minuscolo campo giochi per bambini, con altalene, scivoli tortuosi e una finta giungla dalla pavimentazione di gommapiuma che impediva ai piccoli scalatori di escoriarsi ginocchia e gomiti. Scrutò attentamente l'area, imprecando contro se stessa per non aver preso la torcia elettrica che teneva in macchina. Gli alberi proiettavano troppe ombre, scure e pericolose. E un eccessivo silenzio gravava tutt'intorno, come un sudario. Poi udì il grido. È tornato indietro, pensò. Quel bastardo ha fatto un giro ed è piombato addosso a Nadine, nonostante tutto. Roteò su se stessa e l'istinto di protezione nei confronti degli altri le salvò la vita. Sentì il pugnale colpirla alla clavicola, un lungo taglio superficiale che le parve una ridicola bruciatura. Si difese con una gomitata e la sua mano incontrò la mascella di Morse, facendogli mancare l'obiettivo. Tuttavia la lama, che era scattata di nuovo, la ferì sopra il polso. L'arma le sfuggì dal pugno, ormai senza forze. «Eri convinta che io fossi fuggito.» Gli occhi gli mandavano selvaggi lampi nel buio, mentre lui le girava attorno. «Le donne mi hanno sempre preso sottogamba, Dallas. Ti farò a pezzi. Ti squarcerò la gola.» Affondò in avanti il pugnale, costringendola a indietreggiare di un passo. «Ti sbudellerò.» Vibrò un altro fendente e Eve sentì lo spostamento d'aria prodotto dalla lama. «Adesso sono io ad avere la situazione in pugno, non è così?» «Lo vedremo.» Gli sferrò un calcio ben calibrato, l'estrema difesa di una donna. Lui si afflosciò a terra, con il respiro che gli usciva violentemente dalle labbra come da un pallone forato, mentre la lama rimbalzava fragorosamente sulle pietre del vialetto. Eve gli balzò addosso. Morse lottò come un pazzo, qual era. Con le dita le artigliò la pelle, battendo i denti nel cercare la carne in cui affondarli. Eve sottrasse alla sua presa il braccio ferito, reso viscido dal sangue, e si sforzò di individuare il punto sotto la mascella che le avrebbe permesso di stordirlo definitivamente. Rotolarono avvinghiati sul pietrisco e sull'erba rasata, in un minaccioso silenzio rotto soltanto da grugniti e respiri affannosi. La mano di Morse si allungò sul vialetto cercando l'impugnatura della lama, ma lei tentò di bloccarla. Poi Eve vide le stelle, perché lui le aveva sferrato un pugno in piena faccia.
Restò intontita solo per una frazione di secondo, ma capì di essere spacciata. Vide il pugnale, intuì che per lei era la fine, inspirò profondamente per apprestarsi ad andare incontro alla morte. In seguito si disse che le era sembrato provenire da un lupo, quell'ululato di rabbia, quel macabro urlo. E di colpo non si sentì più gravare addosso il peso di Morse. Quando il corpo del giornalista rotolò lontano da lei, si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, scuotendo la testa. Il pugnale, pensò freneticamente, quel dannato pugnale. Ma non riuscì a scorgerlo e si trascinò verso l'opaco luccichio della sua arma. Quando l'ebbe in pugno e la sollevò, riuscì a schiarirsi le idee quel tanto da capire che cosa stesse succedendo. Sul grazioso campo giochi due uomini lottavano, avvinghiati l'uno all'altro come due cani. E uno dei due era Roarke. «Scostati», gridò a quest'ultimo, mentre si rialzava in piedi barcollando, ondeggiando, sforzandosi di ritrovare l'equilibrio. «Allontanati da lui, così posso colpirlo.» Ma i due continuavano a lottare, rotolandosi sul terreno. La mano di Roarke teneva ferma quella di Morse, che stringeva però il pugnale. Attraverso la rabbia, il senso del dovere e l'istinto, nell'animo di Eve germogliò una tremenda e sconvolgente paura. Indebolita e sanguinante, si appoggiò alle sbarre imbottite degli attrezzi da ginnastica e impugnò l'arma con tutte e due le mani. Alla luce maculata della luna vide il pugno di Roarke calare violentemente dall'alto e sentì lo schianto di ossa contro ossa. Il pugnale schizzò verso l'alto, con la lama che descriveva un arco. Poi Eve lo vide ricadere e, vibrando, piantarsi nella gola di Morse. Qualcuno stava pregando. Non appena Roarke si alzò in piedi, Eve capì che quelle preghiere stavano uscendo dalla sua stessa bocca. Lo fissò, abbassando l'arma. L'espressione del volto di lui era selvaggia, gli occhi sembravano mandare bagliori di fuoco. La sua elegante giacca da sera era intrisa di sangue. «Sei tutto in disordine», riuscì a dirgli. «Dovresti vedere in che stato sei tu.» Roarke respirava affannosamente e sapeva per esperienza che di lì a poco avrebbe risentito di ogni graffio e livido. «Non ti hanno insegnato che è da maleducati piantare in asso un ricevimento senza scusarsi?» Con le gambe che le tremavano per la reazione emotiva, Eve si avviò verso di lui, poi si fermò, ricacciando indietro il singhiozzo che stava per
eromperle dalla gola. «Mi dispiace. Mi dispiace molto. Mio Dio, sei ferito?» Si lanciò in avanti, rifugiandosi fra le sue braccia quando lui la strinse a sé. «Ti ha ferito? Sanguini?» Si ritrasse e cominciò a tastargli gli abiti. «Eve.» Le sollevò il mento, immobilizzandoglielo. «Sei tu che perdi molto sangue.» «Mi ha colpito un paio di volte.» Si asciugò il naso con una mano. «Niente di grave.» Ma Roarke si era già tolto di tasca un fazzoletto di lino irlandese per tamponare la ferita al braccio e bendare l'arto. «Ed è il mio lavoro.» Inspirò profondamente, l'oscurità ai margini del suo campo visivo svanì e la vista le tornò chiara. «Dove ti ha ferito?» «È il suo sangue», rispose con calma Roarke. «Non il mio.» «Il suo sangue.» Vacillò di nuovo, ma strinse con forza le ginocchia. «Non sei ferito?» «Niente più di qualche graffio.» Preoccupato, le piegò all'indietro la testa per esaminare il sottile taglio lungo la clavicola e l'occhio che si stava rapidamente gonfiando. «Hai bisogno di un medico, tenente.» «Fra un attimo. Prima devo chiederti una cosa.» «Chiedi pure.» Non avendo altro a disposizione, Roarke si strappò un lembo della manica stracciata per asciugare il sangue dalla spalla di Eve. «Quando ti trovi nei guai durante una trattativa d'affari, io irrompo forse in sala riunioni?» Le lanciò una rapida occhiata. Il suo sguardo selvaggio si addolcì in una sorta di sorriso. «No, Eve, non lo fai. Non so che cosa mi abbia preso.» «Va bene.» Non sapendo dove altro metterla, si infilò l'arma nella fondina attaccata con un adesivo al fondoschiena. «Per questa volta», mormorò, portandosi le mani al viso, «lascio correre. Va bene così. Ma sono stata colta dalla paura quando ho visto che ti mettevi di mezzo, impedendomi di tirare contro Morse. Ho temuto che ti uccidesse prima che io riuscissi a fermarlo.» «Allora capirai che cosa stessi provando io.» Con lui che le circondava la vita con un braccio e la sosteneva, si incamminarono zoppicando. Dopo un attimo Eve capì che la propria andatura zoppicante dipendeva solo dal fatto di aver perso una scarpa durante la colluttazione. Senza quasi fermarsi, si sbarazzò anche dell'altra. Poi scorse davanti a sé alcune luci. «Poliziotti?» «Immagino di sì. Mentre correvo qui, mi sono imbattuto in Nadine che avanzava barcollando nel viottolo verso il cancello principale. Era in stato
di shock, per quello che le aveva fatto Morse, ma è riuscita a farsi forza e a dirmi in quale direzione eri andata.» «Probabilmente ce l'avrei fatta da sola a sistemare quel bastardo», mormorò Eve, che si era ripresa a sufficienza da preoccuparsi. «Però te la sei cavata bene, Roarke. Hai una bella predisposizione per il corpo a corpo.» Nessuno dei due accennò al fatto che il pugnale di Morse gli fosse finito, chissà come, piantato in gola. Eve scorse Feeney nel cerchio di luce, accanto alla telecamera, con una dozzina di altri poliziotti. Lui si limitò a scrollare il capo e a indicare l'équipe medica. Nadine era già stesa su una barella, pallida come cera. «Dallas.» La giornalista sollevò una mano, che lasciò subito ricadere. «Non ti sono servita a nulla.» Eve si chinò su di lei mentre uno dei medici le toglieva dal braccio l'improvvisata bendatura di Roarke per sostituirla con una regolare. «Ti aveva drogata.» «Non ti sono servita a nulla», ripeté Nadine, mentre la barella veniva sollevata e avviata verso un'ambulanza. «Ti sarò riconoscente per il resto della mia vita.» «Già.» Eve si girò e si sedette pesantemente sul ripiano imbottito destinato ai primi interventi di pronto soccorso. «Avete un rimedio per il mio occhio?» chiese. «Mi pulsa terribilmente.» «Le diventerà nero», fu l'allegra risposta che ricevette, mentre qualcuno vi spalmava sopra un gel freddo come il ghiaccio. «Una buona notizia. Niente ospedale», ribatté lei, in tono fermo. Il medico fece schioccare la lingua e cominciò a pulire e suturare le ferite. «Mi dispiace per il vestito», aggiunse Eve, sorridendo a Roarke e tastandosi la manica stracciata. «Non ha avuto vita lunga.» Si alzò in piedi e si fece largo fra il personale medico che le ronzava attorno. «Ho solo bisogno di andare a cambiarmi e a redigere il mio rapporto.» Fissò Roarke negli occhi. «È un peccato che Morse sia rotolato sul proprio pugnale. L'ufficio del procuratore distrettuale sarebbe stato felice di trascinarlo in tribunale.» Sollevò una mano, poi gli esaminò le nocche scorticate e scosse la testa. «Sei stato tu a ululare?» «Scusa?» Eve ridacchiò e gli si appoggiò, avviandosi con lui verso i cancelli del parco. «Tutto sommato, era un ricevimento noiosissimo.» «Hmm. Ne organizzeremo altri. Ma c'è una cosa.» «Sì?» Eve fece roteare le dita, sollevata nel vedere che sembravano tor-
nate perfettamente a posto. Il personale della squadra medica era composto da gente in gamba. «Voglio che tu mi sposi.» «Uh-uh. Be', noi...» Si fermò di colpo, rischiando di inciampare, poi fissò Roarke a bocca aperta e con gli occhi sgranati. «Vuoi che cosa?» «Voglio che tu mi sposi.» Lui aveva un livido sulla mascella, sangue sulla giacca e un luccichio negli occhi. Eve si chiese se fosse ammattito. «Siamo qui, conciati in malo modo, a due passi dalla scena di un delitto in cui l'uno o l'altra o entrambi abbiamo rischiato di lasciarci la pelle, e tu mi chiedi di sposarti?» Le passò di nuovo il braccio attorno alla vita e la spinse in avanti. «Un tempismo perfetto.» FINE