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BRAD MELTZER IL LIBRO DEL FATO (The Book Of Fate, 2006) RINGRAZIAMENTI Sono passati quasi dieci anni da quando è stato pubblicato Il decimo giudice. Sono grato a tutti voi - e soprattutto ai nostri straordinari lettori che con il vostro sostegno mi permettete di continuare a parlare con i miei amici immaginari. Prima, come sempre, la mia First Lady Cori, perché ci ha creduto fin da prima della prima pagina, e perché chissà come continua ad amarmi. La sua intelligenza, le sue opinioni e le sue correzioni sono i veri semi da cui sboccia ogni mio libro. Ogni giorno mi insegna l'umiltà. Ogni giorno mi chiedo per quale colpo di fortuna l'ho incontrata. Jonas e Lila, io vivo trovando parole, ma non ci sono parole che possano definire il mio amore per voi. Siete la più grande benedizione e la più grande gioia della mia vita. Jill Kneerim, meravigliosa agente, cara amica, la cui guida e i cui consigli sono stati presenti fin dalle prime fotocopie; Elaine Rogers, sempre al primo posto; Ike Williams, Hope Denekamp, Cara Shiel e tutti i nostri amici alla Kneerim & Williams Agency. Per questo libro in particolare, voglio ringraziare i miei genitori: mio padre, la cui esperienza è diventata la piattaforma di lancio di Wes, e mia madre, per avermi sostenuto con fiducia per tutto il tempo; mia sorella Bari, sulla cui forza ho sempre fatto affidamento; Dale Flam, per aver guidato il resto della baracca in tanti posti straordinari; Bobby, Matt, Ami, Adam e Will, per il loro aiuto essenziale e per il loro costante affetto; Noah Kuttler, che dopo mia moglie è la persona a cui mi appoggio di più. Il suo aiuto costante e le sue reazioni sono due delle ragioni fondamentali per cui questo libro è nelle vostre mani. Lo amo come uno di famiglia. Grazie, Calcolatore. Ethan Kline è altrettanto prezioso, per questo lavoro, e i suoi consigli durante le prime stesure influenzano sempre il risultato finale; Steve «Scoop» Cohen, per avermi dato Dreidel e molto altro; Edna Farley, Kim da L.A. e Dina Friedman, che fanno gran parte dei lavori pesanti; Paul Brennan, Matt Oshinsky, Paulo Pacheco, Joel Rose, Chris Weiss e Judd Winick, come sempre i miei fratelli, i miei Rogo, la cui amicizia ispira i miei libri in modi che non potranno mai dimostrare in un tribunale. Tutti i romanzi sono bugie che tentano di sembrare verità. Devo, alle seguenti persone, enormi ringraziamenti per avermi fornito le verità intessute
in questo libro. Senza dubbio, non sarei mai riuscito a esplorare questo mondo senza l'aiuto del presidente George H.W. e della signora Barbara Bush e del presidente Bill Clinton. I Bush non avevano alcun bisogno di dischiudermi il loro mondo. Ma la loro generosità mi ha fornito tanti dei dettagli che hanno permesso la nascita di questo libro (che è un'opera di fantasia!). Spero solo che sappiano quanto li rispetto. Lo stesso rispetto e gli stessi ringraziamenti vanno al presidente Clinton, il cui sostegno mi accompagna fin dal primo romanzo. Non mi interessa da che parte della barricata stanno - a distanza di anni, è chiaro perché li abbiamo eletti entrambi. Sempre sullo stesso tema, Jean Becker ha risposto a tutte le mie sciocche domande, ma è la sua amicizia che considero preziosa; Doug Band, Kris Engskov, Tom Frechette e Andrew Friendly hanno dato risposta alle mie vane questioni e nel farlo hanno rivelato perché sono stati messi al fianco dell'uomo più potente del mondo; Thom Smith mi ha dato tutte le informazioni su Palm Beach; Mary Louise Knowlton, Nancy Lisenby, Laura Cather Pears, Linda Casey Poepsel e Michele Whalen sono i migliori archivisti (e le persone più simpatiche) di qualsiasi amministrazione; Paul Bedard, Jessica Coen, Chuck Conconi, Joan Fleischman, Paula Froelich, Ann Gerhart, Ed Henry, Perez Hilton, Lorrie Lynch, John McCaslin, Roxanne Roberts, Liz Smith, Linton Weeks e Ben Widdicombe mi hanno insegnato tutto quello che so sul gossip e sono quindi entrati a far parte del personaggio di Lisbeth. Sono i migliori, nel loro campo, e la loro gentilezza e la loro classe non possono essere sottovalutate. Mike Calinoff mi ha fatto diventare il secondo ebreo membro della NASCAR e mi ha offerto contemporaneamente una splendida amicizia; i miei amici Matthew Bogdanos, Eljay Bowron, Jo Ayn «Joey» Glanzer, Dave Leavy, Erik Oleson, Peter Oleson, Ken Robinson, Farris Rookstool, Adam Rosman, Alex Sinclair e John Spinelli mi hanno aiutato per tutti i dettagli relativi alle forze dell'ordine - spero che sappiano quanto rispetto il loro lavoro; Barry Kowitt ha dato vita alla professione di Rogo (www.ungerandkowitt.com); Mary Weiss mi ha dato il 65 Roses Ball (www.cff.org); Dana Milbank mi ha aiutato con l'ufficio stampa della Casa Bianca; Shelly Jacobs ha risposto a più domande sulla biblioteca presidenziale di quelle che si aspettava; il dott. Thomas Scalea e il dott. Ronald K. Wright mi hanno fornito i loro consigli medici; What It Takes di Richard Ben Cramer, After the White House di Max Skidmore e le opere di Samantha Power sono stati strumenti preziosissimi; Greg Apparcel, Steve Chaconas, Ron Edmonds, Sara Fritz, Mark Futch, Al Guthrie, Tim Krische, Jim Ponce, Walter Rodgers, Will
Shortz, Laura Spencer e Tiffini Theisen mi hanno fornito tutti gli altri dettagli; il mio mentore e complice - la vera ragione per cui sono qui - Rob Weisbach, è stato il primo ad avere fiducia in me, tanti anni fa; e altri familiari e amici ancora una volta vivono con i loro nomi in queste pagine. Voglio anche ringraziare Eli Segai, che mi ha dato la prima spinta. E anche la seconda. Quando ero un ragazzo di ventidue anni, Eli mi ha trattato come un suo pari. È stato importantissimo. Senza di te, oggi non sarei uno scrittore, Eli. Infine, un immenso grazie a tutti quelli della Warner Books: David Young, Larry Kirshbaum, Maureen Egen, Emi Battaglia, Tina Andreadis, Chris Barba, Martha Otis, Jen Romanello, Karen Torres, Becka Oliver, Evan Boorstyn, il settore commerciale più simpatico e operoso dello show business; e a tutte le persone altrettanto simpatiche che, in tutti questi anni, sono entrate a far parte della nostra famiglia. Voglio dirlo il più semplicemente possibile: sono loro che fanno il vero lavoro, senza di loro saremmo perduti. Voglio anche salire in piedi sulla scrivania e gridare: «O Capitano! Mio Capitano!» al mio editor Jamie Raab. Credo che la cosa più difficile, nel mestiere di editor, sia capire gli autori. Jamie mi ha sempre capito, curato, aiutato. Nessun autore è più fortunato di me. Grazie, quindi, Jamie, per il tuo incoraggiamento e soprattutto per la tua fiducia. A Lila, la mia bambina, che mi ha preso il cuore e col suo dolce sorriso l'ha reso grande il doppio Ciò che ci limita, noi lo chiamiamo destino Ralph Waldo Emerson Dio non gioca a dadi Albert Einstein 1 Nel giro di sei minuti, uno di noi sarebbe morto. Era il nostro destino. Nessuno di noi l'aveva previsto. «Ron, aspetta!» gridai, inseguendo l'uomo di mezza età col vestito blu.
Mentre correvo, il soffocante caldo della Florida mi incollava la camicia al petto. Ignorandomi, Ron Boyle sfrecciò sull'asfalto, superando l'Air Force One sulla nostra destra e le diciotto auto del corteo ferme in fila indiana sulla sinistra. In qualità di vice capo di gabinetto, era sempre di fretta. È quello che capita quando si lavora per l'uomo più potente del mondo. Non lo dico tanto per dire. Il nostro superiore era il comandante in capo. Il presidente degli Stati Uniti. E quando lui voleva qualcosa, io dovevo fare in modo che l'avesse. In quel momento il presidente Leland Manning, detto «The Lion», il Leone, voleva che Boyle restasse calmo. C'erano incarichi al di sopra anche delle mie capacità. Mentre passava sempre più veloce in mezzo alla folla di addetti e giornalisti che si dirigevano alle auto loro assegnate, Boyle oltrepassò una scintillante Chevrolet Suburban nera piena di agenti dei servizi segreti e un'ambulanza che trasportava una riserva di sangue dello stesso gruppo di quello del presidente. Quel giorno stesso, Boyle avrebbe dovuto avere un colloquio di quindici minuti col presidente sull'Air Force One. Ma a causa di un mio errore nella programmazione, la cosa si era ridotta a un rapporto di tre minuti in macchina, in un momento imprecisato del pomeriggio. Dire che Boyle era irritato era come definire la Grande Depressione una brutta giornata in ufficio. «Ron!» ripetei, mettendogli una mano sulla spalla e tentando di scusarmi. «Aspetta. Volevo...» Si girò selvaggiamente, sbattendomi via la mano. Magro, con il naso appuntito e un paio di folti baffi che intendevano compensare entrambe le cose, Boyle aveva i capelli grigi, la pelle olivastra e intensi occhi castani, con un lampo di luce azzurra nelle iridi. Mentre si chinava in avanti, i suoi occhi da gatto scintillarono su di me. «Non toccarmi mai più, se non per stringermi la mano», minacciò mentre una goccia di saliva mi colpiva la gota. Strinsi i denti e me l'asciugai col dorso della mano. Certo, l'errore di programmazione era colpa mia, ma non era un buon motivo per... «Ebbene, cosa c'è di tanto importante, Wes? O vuoi ancora ricordarmi la regola fondamentale per cui quando pranziamo col presidente dobbiamo ordinare con almeno un'ora di anticipo?» aggiunse a voce così alta che qualche agente segreto si voltò. Qualsiasi altro ventitreenne avrebbe ribattuto. Io restai freddo. È questo che deve fare l'aiutante del presidente, ossia il suo segretario, ossia il suo
uomo di fiducia: procurargli ciò che desidera; tenere in funzione la macchina. «Cerchiamo una soluzione», dissi, cancellando mentalmente le scuse. Se volevo che Boyle stesse tranquillo - e nessuno desiderava una scenata davanti ai giornalisti - dovevo anticipare l'incontro. «Che ne dici se... se ti metto nella macchina del presidente proprio adesso?» Boyle si raddrizzò leggermente, mentre incominciava ad allacciarsi la giacca. «Credevo che... No, va bene. Ottimo, eccellente.» Accennò perfino un minuscolo sorriso. Crisi evitata. Pensava che fosse tutto perdonato. Ma io non dimentico tanto facilmente. Mentre si dirigeva trionfante verso la limousine, presi mentalmente un altro appunto. Bastardo presuntuoso. Il ritorno se lo farà nel retro del furgone dei giornalisti. Politicamente non ero solo bravo. Ero straordinario. Non si fa domanda per un lavoro del genere: si è invitati a un colloquio. Tutti i giovani politici della Casa Bianca avrebbero fatto qualsiasi cosa per essere così vicini al leader del mondo libero. Il mio predecessore era andato avanti ed era diventato il numero due nell'ufficio stampa della Casa Bianca. Il suo predecessore nell'ultima amministrazione aveva trovato lavoro come responsabile di quattromila persone all'IBM. Sette mesi prima, malgrado la mia mancanza di appoggi, il presidente aveva scelto me. Ho battuto il figlio di un senatore e un paio di professori del Rodhes. Sono capacissimo di gestire un dirigente che crea un po' di confusione. «Wes, andiamo!» gridò il responsabile della sicurezza dei Servizi segreti, facendo cenno di salire in macchina mentre prendeva il posto del passeggero davanti, da dove poteva vedere tutto quello che succedeva. Seguendo Boyle e tenendo lo zaino di pelle davanti a me, saltai nella limousine blindata, dove si trovava il presidente, vestito in modo informale con una giacca a vento nera e un paio di jeans. Pensavo che Boyle avrebbe subito incominciato ad assordarlo, invece rimase stranamente silenzioso. Mentre si chinava per raggiungere il posto in fondo a sinistra, la sua giacca si aprì, ma lui si mise rapidamente la mano sul cuore per tenerla chiusa. Non capii, se non più tardi, quello che nascondeva. E anche quello che avevo fatto invitandolo a bordo. Seguendolo, raggiunsi uno dei tre seggiolini pieghevoli rivolti verso il fondo dell'auto. Davo la schiena all'autista ed ero di fronte a Boyle. Per ragioni di sicurezza, il presidente sedeva sempre in fondo a destra, la First Lady era tra lui e Boyle.
Il seggiolino di fronte al presidente - il posto caldo - era già occupato da Mike Calinoff, pilota di automobili in pensione, vincitore per quattro volte della Winston Cup e ospite speciale dell'avvenimento di oggi. Niente di strano. A quattro mesi dalle elezioni, avevamo solo tre punti di vantaggio nei sondaggi. Quando la gente era così volubile, solo uno sciocco sarebbe entrato in campo senza un'arma segreta. «Così è veloce, pur essendo blindata?» chiese il campione, ammirando l'interno blu notte della Cadillac One. «Un fulmine», rispose Manning, mentre la First Lady alzava gli occhi al cielo. Boyle finalmente intervenne, si chinò in avanti e aprì una cartelletta. «Signor presidente, possiamo...?» «Scusate, non sono riuscito a fare di più, signore», lo interruppe il capo di gabinetto Warren Albright entrando. Porse un giornale chiuso al presidente e prese posto in diagonale rispetto a lui, di fronte alla First Lady. Anche in un abitacolo con sei persone, la vicinanza era importante. Soprattutto per Boyle, che non intendeva rinunciare alla sua occasione. Il presidente prese il giornale e guardò il cruciverba che condivideva ogni giorno con Albright. Era una tradizione iniziata il primo giorno della campagna, e la ragione per cui Albright sedeva sempre in quell'ambito posto, in diagonale rispetto al presidente. Lui iniziava il cruciverba, arrivava fin dove riusciva, poi lo passava al presidente perché lo completasse. «Il quindici verticale è sbagliato», disse il presidente mentre mi mettevo lo zaino sulle gambe. «Soffocare.» Albright di solito non amava che si trovasse un errore. Oggi, notando Boyle seduto nell'angolo, aveva una ragione in più per sentirsi irritato. Tutto bene? chiesi con un'occhiata. Prima che Albright potesse rispondere, l'autista accelerò e il mio corpo fu proiettato in avanti. Ancora tre minuti e mezzo e sarebbe stato sparato il primo colpo. Due di noi sarebbero caduti a terra, in preda a convulsioni. Uno non si sarebbe più rialzato. «Signore, se potessi avere la sua attenzione per un istante», interruppe Boyle, più insistente di prima. «Ron, non puoi goderti il viaggio?» scherzò la First Lady, i corti capelli castani che ondeggiavano a causa di una cunetta della strada. Malgrado il tono dolce, notai l'espressione dei suoi occhi verde foglia. Era la stessa che
usava con i suoi studenti a Princeton. Ex professoressa con un PhD in chimica, la First Lady era abituata a essere dura. E lottava per avere quello che voleva. E lo otteneva. «Ma, signora, chiedo solo...» La fronte della First Lady si contrasse tanto che le sopracciglia si toccarono. «Ron. Goditi il viaggio.» La maggior parte delle persone si sarebbe fermata. Boyle si intestardì e tentò di passare il documento direttamente al presidente. Lo conosceva da quando erano studenti a Oxford. Banchiere e collezionista di vecchi trucchi di magia, in seguito aveva gestito tutti i soldi di Manning, cosa che aveva anch'essa del magico. Fino a quel momento, era l'unica persona dello staff che aveva presenziato alle nozze tra lui e la First Lady. Solo questo gli aveva permesso di cavarsela quando la stampa aveva scoperto che suo padre era un piccolo truffatore, condannato (due volte) per frode assicurativa. Era lo stesso lasciapassare che adesso usava nella limousine, per mettere alla prova l'autorità della First Lady. Ma anche i migliori lasciapassare alla fine scadono. Manning scosse la testa in maniera impercettibile: solo un occhio allenato poteva accorgersene. First Lady uno, Boyle zero. Boyle richiuse la cartelletta e si appoggiò allo schienale, scoccandomi un'occhiata da lasciare il segno. Adesso era colpa mia. Mentre ci avvicinavamo alla nostra destinazione, Manning guardava in silenzio attraverso il vetro verde del finestrino antiproiettile. «Sapete cosa disse Kennedy tre ore prima di essere ucciso?» chiese esibendo il suo migliore accento del Massachusetts. «Sapete, la notte scorsa sarebbe stata un ottimo momento per uccidere un presidente.» «Lee!» lo rimproverò la First Lady. «Vedete cosa devo sopportare?» aggiunse rivolgendo una finta risata a Calinoff. Il presidente le prese la mano e gliela strinse, guardando verso di me. «Wes, hai portato il regalo per il signor Calinoff?» chiese. Frugai nello zaino di pelle - quello dei trucchi - senza perdere di vista il volto di Manning. Lui fece un rapido cenno e si grattò il polso. Non dargli il ripiego... prendi quello grosso. Ero il suo aiutante da più di sette mesi. Se facevo bene il mio mestiere, non avevamo bisogno di parlare per comunicare. Eravamo in forma. Non riuscii a trattenere un sorriso. Fu il mio ultimo sorriso pieno, ampio. Tre minuti dopo, la terza pallottola del killer mi avrebbe attraversato la guancia, distruggendo molti nervi, e
io non avrei più avuto il pieno controllo della mia bocca. «Proprio quello», accennò il presidente. Dallo zaino, che conteneva tutto ciò di cui un presidente poteva avere bisogno, tirai fuori un paio di gemelli presidenziali, che porsi al signor Calinoff, che si godeva ogni singolo istante sul suo seggiolino pieghevole, scomodo e caldo. «Sono veri, eh?» disse il presidente. «Non li metta su eBay.» Era la battuta che faceva tutte le volte che ne regalava un paio. Ridemmo tutti ancora una volta. Anche Boyle, che incominciò a frugarsi nel petto. Non c'è niente di meglio che condividere una battuta col presidente degli Stati Uniti. E non c'è posto migliore della leggendaria Corsa Pepsi 400 della NASCAR a Daytona, Florida. Prima che Calinoff potesse ringraziare, la macchina si fermò. Una luce rossa lampeggiò alla nostra sinistra, due moto della polizia con le sirene accese. Correvano dal fondo del corteo verso la testa. Come durante un corteo funebre. «Non ditemi che hanno chiuso la strada», disse la First Lady. Odiava quando bloccavano il traffico per fare passare il corteo. Quelli erano voti persi per sempre. L'auto fece lentamente qualche metro. «Signore, stiamo per entrare nel circuito», annunciò il responsabile dal posto davanti. Fuori, la pista di cemento dell'aeroporto lasciò il posto a file e file di automobili. «Aspetti... stiamo andando nel circuito?» chiese Calinoff, improvvisamente eccitato. Si agitò sul suo seggiolino, cercando di guardare fuori. Il presidente sorrise. «Credeva che avremmo avuto un paio di posti in prima fila?» Le ruote sobbalzarono su una lastra di metallo che risuonò come un tombino difettoso. Boyle continuava a grattarsi il petto. Un rombo basso riempì l'aria. «Un tuono?» chiese Boyle, guardando il cielo azzurro e limpido. «Non è un tuono», replicò il presidente, appoggiando la punta delle dita sul finestrino antiproiettile mentre i 200.000 spettatori dell'autodromo si alzavano in piedi agitando bandiere, bandierine, braccia. «Sono applausi.» «Signore e signori, il presidente degli Stati Uniti!» ruggì lo speaker dagli altoparlanti. Una brusca curva a destra ci spinse tutti di lato mentre la limo svoltava sul circuito, l'autostrada più grande e perfetta che avessi mai visto in vita mia.
«Avete delle belle strade, qui», disse il presidente a Calinoff, riadagiandosi nell'elegante sedile di pelle fatto su misura per lui. Mancava solo la grande entrata. Se non centravamo quella, i 200.000 spettatori presenti, più i 10 milioni da casa, più i 75 milioni di fan aderenti alla NASCAR avrebbero raccontato ad amici, parenti, vicini ed estranei al supermercato che eravamo andati al nostro battesimo e avevamo starnutito nell'acqua benedetta. Ma per questo avevamo fatto il corteo di macchine. Non avevamo bisogno di diciotto auto. La pista dell'aeroporto di Daytona era di fianco al circuito. Non c'erano semafori da attraversare. Niente traffico da fermare. Ma tutti ci guardavano... Avete mai visto un corteo presidenziale su un circuito automobilistico? Frenesia immediata in tutta l'America. Non mi importavano i sondaggi. Un giro del circuito e avremmo preso posto per l'inaugurazione. Di fronte a me, Boyle non era minimamente eccitato. Con le braccia incrociate sul petto, non cessava di studiare il presidente. «Avete coinvolto le star, eh?» disse Calinoff quando uscimmo dall'ultima curva e vide il comitato di accoglienza, una piccola folla di piloti della NASCAR, schierati nelle loro tute multicolori piene di pubblicità. Quello che il suo occhio non allenato non poteva notare erano la decina circa di «addetti» che stavano un po' più rigidi degli altri. Alcuni con gli zaini. Altri con borse di pelle. Tutti portavano occhiali da sole. E uno parlava nel polso. Servizi segreti. Come tutti quelli che salivano per la prima volta sulla limo, Calinoff stava praticamente leccando il finestrino. «Signor Calinoff, lei scenderà per primo», gli dissi mentre entravamo nei box. Fuori, i piloti attorniavano l'auto presidenziale. Sessanta secondi più tardi, avrebbero corso per salvare la pelle. Calinoff si chinò verso la mia portiera, dalla parte del guidatore, dov'erano raggruppati tutti i piloti della NASCAR. Mi chinai per bloccarlo, indicandogli la portiera presidenziale. «Da quella parte», dissi. La porta vicina a lui. «Ma i piloti sono di qua», ribatté lui. «Ascolti il ragazzo», intervenne il presidente, accennando alla portiera vicina a Calinoff. Anni fa, quando il presidente Clinton giunse a una gara della NASCAR, alcuni tra la folla lo contestarono. Nel 2004, quando il presidente Bush arrivò col leggendario pilota Bill Elliott e il suo corteo, Elliott uscì per primo
e la folla esplose. Anche i presidenti possono ricorrere a un «opening act». Con un clic e uno scatto, il responsabile della sicurezza premette un pulsante che consentiva di aprire l'auto dall'esterno. Pochi secondi e la portiera si spalancò, la luce della Florida e il calore entrarono nella limo e Calinoff pose a terra uno dei suoi stivali da cow boy. «Diamo il benvenuto al vincitore di quattro Winston Cup... Mike Caaaaalinoff!» gridò l'annunciatore. La folla impazzì. «Non dimenticate», bisbigliò il presidente al suo ospite mentre Calinoff usciva davanti a 200.000 fan. «È lui che siamo venuti a vedere!» «E adesso», continuò l'annunciatore, «il grande padrino della gara di oggi... tornato nella sua Florida... il presidente Leeeee Maaaaanning!» Subito dopo Calinoff, il presidente scese dall'auto, la mano destra alzata per salutare, la sinistra che batteva con orgoglio il logo della NASCAR sul petto della giacca a vento. Si fermò un istante ad aspettare la First Lady. Eccolo... Eccolo... Eccoli... si leggeva, come sempre, sulle labbra dei fan nelle tribune. Poi appena la folla iniziava a placarsi, scattarono i flash. «Signor presidente, da questa parte! Signor presidente...!» Aveva fatto appena tre passi e Albright era già alle sue spalle, seguito da Boyle. Io uscii per ultimo. Il sole mi costrinse a socchiudere gli occhi, ma allungai ugualmente il collo per guardare in su, stupito dalla folla che adesso era in piedi, ci indicava e ci salutava dalle tribune. Due anni dopo aver finito l'università, era questa la mia vita. Neanche le rock star hanno simili soddisfazioni. Calinoff allungò la mano e fu subito risucchiato dalla folla di piloti in attesa, che lo accolse con abbracci e pacche sulle spalle. In prima fila c'erano il direttore della NASCAR e sua moglie, stranamente alta, venuta per accogliere la First Lady. Avvicinandosi ai piloti, il presidente sorrideva. Era il prossimo. Fra tre secondi sarebbe stato circondato: l'unica giacca a vento nera in un technicolor di tute Pepsi, M&M, DeWalt e Lone Star Steakhouse. Come se avesse vinto il campionato del mondo, il Super Bowl e... Pop, pop, pop. Non sentii altro. Tre piccoli schiocchi. Un fuoco d'artificio. O lo scoppiettio di un motore. «Sparano! Sparano!» gridò il responsabile della sicurezza. «Giù! Indietro!» Stavo ancora sorridendo quando il primo urlo lacerò l'aria. La folla dei
piloti si disperse, correndo, buttandosi a terra in preda al panico, in un'istantanea confusione di colori. «Dio ha dato potere ai profeti...» un uomo coi capelli neri ricci e la voce profonda gridava dal centro del turbine. I suoi piccoli occhi color cioccolato sembravano troppo vicini, mentre il naso grosso e le sottili sopracciglia arcuate gli davano una strana intensità, che per qualche ragione mi ricordava Danny Kaye. Con un ginocchio a terra e una pistola fra le mani, era vestito da pilota, con una tuta da corsa nera e gialla brillante. Come un calabrone, pensai. «...ma anche agli orrori...» Rimasi a guardarlo, agghiacciato. Il suono scomparve. Il tempo rallentò. E il mondo si trasformò in bianco e nero, come in un mio telegiornale privato. Era come quando avevo incontrato il presidente per la prima volta. La stretta di mano era sembrata durare un'ora. Un arresto del tempo. Ancora concentrato sul calabrone, non capivo se veniva avanti o se tutti intorno a lui correvano indietro. «Uomo a terra!» gridò il responsabile della sicurezza. Seguii il suono e i gesti della mano fino a un uomo con l'abito blu, che giaceva a faccia in giù. Oh, no. Boyle. La sua fronte era premuta contro l'asfalto, il volto contratto dal dolore. Si teneva il petto e vidi il sangue che incominciava a diffondersi intorno a lui. «Uomo a terra!» gridò di nuovo il responsabile della sicurezza. I miei occhi si mossero di lato, cercando il presidente. Lo trovai proprio mentre una mezza dozzina di agenti in tuta correvano verso la piccola folla che già lo circondava. Agenti frenetici lo spostarono così in fretta che le persone più vicine a lui gli rimasero attaccate addosso. «Portatelo via! Presto!» gridò un agente. Con la schiena attaccata al presidente, la moglie del direttore della NASCAR gridava. «La state schiacciando», urlò Manning, prendendola per una spalla e cercando di rimetterla in piedi. «Lasciatela andare.» I Servizi non gli diedero retta. Correndo intorno al presidente, aggredirono la folla di fronte e sulla destra. Lo slancio li trascinò. Come un albero tagliato, la folla cadde a terra. Il presidente lottava ancora per liberare la moglie del direttore della NASCAR. Ci fu un'esplosione di luce. Ricordo il flash che scattava. «...affinché il popolo mettesse alla prova la sua fede...» ruggiva il killer mentre un altro gruppo di agenti in tuta lo afferrava per il collo, il braccio,
i capelli sulla nuca. Lentamente, la testa del calabrone scattò all'indietro, poi il suo corpo, e altri due colpi lacerarono l'aria. Sentii una puntura sulla guancia destra. «...e distinguesse il bene dal male!» urlò l'uomo, le braccia aperte come Gesù mentre gli agenti lo buttavano a terra. Tutt'intorno a lui, altri agenti formarono uno stretto cerchio, brandendo gli Uzi semiautomatici che avevano tirato fuori dalle borse e dagli zaini. Mi battei sulla guancia, tentando di uccidere l'insetto che mi aveva punto. Pochi metri più avanti, la folla che circondava il presidente cadde sull'asfalto. Due agenti, dall'altra parte, afferrarono la First Lady, trascinandola via. Gli altri non cessarono di spingere, maltrattare, calpestare la gente, nel tentativo di raggiungere Manning e fargli scudo. Guardai mentre la pozza sotto Boyle si allargava sempre di più. La sua testa era immersa ora in un liquido lattiginoso. Aveva vomitato. Dal mucchio in cui si trovava il presidente, il nostro responsabile per la sicurezza e un altro agente in borghese lo afferrarono per i gomiti, lo tirarono su e lo portarono verso di me. Il volto del presidente esprimeva dolore. Cercai del sangue sui suoi vestiti, ma non ne vidi. Aumentando la velocità, gli agenti si dirigevano alla macchina. Altri due alle loro spalle tenevano la First Lady sotto le ascelle. Ero l'unica cosa sul loro cammino. Cercai di farmi di lato, ma non fui abbastanza rapido. A tutta velocità, la spalla del responsabile della sicurezza si scontrò con la mia. Caddi all'indietro, contro la limousine, il sedere sbatté proprio sopra la ruota anteriore destra. Rivedo tutto, come se assistessi alla scena dall'esterno: io che cerco di mantenere l'equilibrio... che batto la mano contro la carrozzeria... e l'urto dell'impatto. Il rumore fu così netto che ne colsi la natura liquida. Il mondo era ancora in bianco e nero. Tutto, tranne la mia impronta rossa. Confuso, mi riportai la mano alla guancia. Mi scivolò sulla pelle, bagnata e terribilmente dolorante. «Via, via, via!» gridò qualcuno. Le ruote stridettero. L'auto sobbalzò. La limousine scattò sotto di me. Come una lattina dimenticata sul tetto, caddi all'indietro, sul sedere. Un mucchietto di ghiaia mi penetrò nella schiena. Ma l'unica cosa che sentivo davvero era il tic toc tic toc che mi martellava sulla guancia. Mi guardai il palmo, vidi che avevo il petto e la spalla destra inzuppati. Non di acqua. Di qualcosa di più denso... e più scuro... rosso scuro. Oh, Dio, è il mio...?
Un altro flash scattò. Non vedevo solo il rosso del mio sangue. Adesso c'era del blu, sulla mia cravatta. E del giallo... strisce gialle sull'asfalto. Un altro flash scattò mentre lame di colore mi ferivano gli occhi. Macchine da corsa argentee e marrone e verde chiaro. Bandiere rosse, bianche e blu abbandonate sulle tribune. Un ragazzino biondo che gridava in terza fila con una maglietta azzurra e arancione dei Miami Dolphins. E rosso... il rosso scuro e denso sulla mia mano, sul mio braccio, sul mio petto. Mi toccai di nuovo la guancia. Le dita sfiorarono qualcosa di duro. Come metallo o... osso? Lo stomaco mi si rovesciò, in preda alla nausea. Mi toccai di nuovo la faccia, premetti. Quella roba non cedeva... Cos'è successo alla mia fa...? Altri due flash mi accecarono e il mondo mi venne addosso a tutta velocità. Il tempo riprese a scorrere di colpo, tutto si confuse. «Non sento il polso!» gridò in lontananza una voce. Proprio sopra di me, due agenti dei Servizi segreti in borghese misero Boyle su una barella e lo portarono nell'ambulanza che seguiva il corteo. La sua mano destra pendeva inerte, sanguinando dal palmo. Rividi gli istanti prima della corsa in macchina. Non sarebbe stato lì, se io non avessi... «È ammanettato! State indietro!» A pochi metri sulla sinistra, altri agenti gridavano e cercavano di raggiungere il killer, sotto una montagna di persone. Io ero per terra, in mezzo a macchie di grasso, e cercavo di rialzarmi, chiedendomi perché tutto era così confuso. Aiuto...! gridai, ma dalle mie labbra non uscì nulla. Le tribune si muovevano come in un caleidoscopio. Caddi all'indietro, battei sull'asfalto e rimasi lì, con la mano ancora premuta sul metallo viscido nella mia guancia. «Non c'è nessuno...?» Suono di sirene. Ma non diventava più forte. Si indeboliva. Svaniva rapidamente. L'ambulanza di Boyle... Se ne vanno... Mi lasciano qui... «Per favore... perché non...?» Una donna gridò con perfetta intonazione. Il suo strillo penetrò tra la folla mentre fissavo il limpido cielo della Florida. Fuochi d'artificio... dovevano esserci i fuochi d'artificio. Albright si arrabbierà... Le sirene si ridussero a un debole ronzio. Tentai di alzare la testa, ma non si mosse. Un ultimo flash scattò, e il mondo diventò completamente bianco. «P... perché nessuno mi aiuta?» Quel giorno, per colpa mia, Ron Boyle morì.
Otto anni più tardi, tornò in vita. 2 Otto anni dopo Kuala Lumpur, Malaysia Alcune ferite non guariscono mai. «Signore e signori, l'ex presidente degli Stati Uniti Leland Manning», annuncia il nostro ospite, il vice primo ministro della Malaysia. Ripete la stessa frase in mandarino, cantonese e malese. Le uniche parole che capisco, ogni volta, sono Leland Manning... Leland Manning, Leland Manning. Da come Manning si tocca il lobo dell'orecchio e finge di guardarsi intorno nel retro del palco, è chiaro che le uniche parole che sente lui sono ex presidente. «Ecco, signore», dico porgendogli una cartelletta di cuoio con le pagine del suo discorso. Ho qualche linea di febbre e sono appena sceso da un volo di undici ore diretto a Kuala Lumpur, durante il quale non ho chiuso occhio. Grazie alla differenza di fuso orario, è come se fossero le tre di notte. Manning non ne risente. I presidenti sono costruiti per correre tutta la notte. I loro aiutanti no. «Buona fortuna», aggiungo scostando la tenda di broccato e lui esce sulla destra del palcoscenico. La folla lo applaude alzandosi in piedi e Manning agita il discorso come se lì dentro avesse i codici nucleari. Ce li avevamo, un tempo. Un aiutante militare ci seguiva dappertutto, con i codici in una borsa di pelle chiamata «Football». Oggi non abbiamo un aiutante militare... né Football... né un corteo di auto... né uno staff di migliaia di persone per inviare fax e limousine blindate in giro per il mondo a nome nostro. Oggi, a parte pochi agenti dei Servizi segreti, io ho il presidente e il presidente ha me. Quattro mesi dopo il tentato assassinio, Manning ha perso le elezioni e siamo stati cacciati dalla Casa Bianca. Andarsene è stato abbastanza brutto - ci hanno portato via tutto... il nostro lavoro, la nostra vita, il nostro orgoglio - ma il perché... il perché è quello che ci tormenta. Durante le indagini del Congresso sull'attentato, i pignoli di Capitol Hill sono stati fin troppo contenti di sottolineare tutti i possibili difetti del sistema di sicurezza all'autodromo: dall'agente dei Servizi segreti di Orlando, che era stato fermato per guida in stato di ebbrezza due giorni prima
della visita del presidente... agli inspiegabili buchi che hanno permesso al killer di sfuggire ai controlli... al fatto che il medico personale del presidente aveva accidentalmente ordinato il tipo di sangue sbagliato per l'ambulanza il giorno dell'accaduto. Nessuno di questi errori ebbe grande importanza. Ma uno la ebbe. Quando John Hinckley sparò al presidente Reagan nel 1981, il tasso di gradimento di Reagan schizzò al 73 per cento, il più alto durante gli otto anni della sua presidenza. Dopo il giorno all'autodromo, il gradimento di Manning precipitò a un lugubre 32 per cento. Tutto per colpa di una fotografia. Dopo ogni crisi, le foto restano. Anche in mezzo al caos, i fotografi riescono a fare scattare i loro obiettivi e a cogliere un'immagine. Alcune foto, come quella di Jackie Kennedy al momento in cui JFK veniva colpito, mostrano il più puro terrore. Altre, come quella di Reagan, colto nel preciso istante in cui veniva colpito, fanno capire quanto poco tempo vi sia per reagire. Le foto sono le uniche cose che i politici non possono deformare. Possono manipolare le loro azioni, i loro voti... perfino il loro passato, ma raramente le foto mentono. Quando sentimmo parlare della foto in questione - una nitida immagine digitale del presidente Manning che gridava, in piedi dietro alla moglie del direttore della NASCAR, con la mano sulla sua spalla mentre gli agenti lo strattonavano... e soprattutto mentre cercava di sottrarla alla folla che li schiacciava - pensammo di avere in mano i numeri di Reagan. Il ruggito del Leone Americano. Poi vedemmo la foto. E anche l'America la vide. E non vide Manning che spingeva via la moglie del direttore, per metterla in salvo. Vide il presidente che se la tirava davanti, che si riparava dietro di lei. Tirammo in ballo la signora, tentammo di spiegare che le cose non erano come apparivano... Troppo tardi: cinquecento prime pagine dopo, era nato il Leone Codardo. «Roar», sussurra Manning nel microfono con un sorriso asciutto afferrandosi con le mani al podio. Quando l'ex presidente Eisenhower era sul letto di morte, guardò suo figlio e uno dei medici e disse: «Tiratemi su.» Lo misero a sedere sul letto. «Bravi», brontolò Ike. «Più su.» Lo alzarono ancora di più. Sapeva quello che stava per succedere. Morì pochi minuti dopo. Tutti i presidenti vogliono andarsene da forti. Manning non fa eccezione. Ruggisce di nuovo, ancora più piano. Ci vollero tre anni prima che riu-
scisse a fare quello scherzo. Oggi gli procura facili applausi e risate, ed è per questo che apre in quel modo tutti i discorsi per cui lo pagano. Adesso si può scherzare. Il pubblico addirittura se lo aspetta, non superano un trauma se non lo fai prima tu. Ma come ho imparato nelle mie prime settimane di lavoro, il fatto che il presidente rida non significa che stia davvero ridendo. Quel giorno all'autodromo Manning perse ben più della presidenza. Perse anche uno dei suoi più cari amici. Quando furono sparati i colpi, il presidente... io stesso... Albright e tutti gli altri, ci buttammo a terra. Boyle fu l'unico che non si rialzò. Vedo ancora la pozza rossa e lattiginosa che si allarga sotto di lui, disteso a faccia in giù, con la fronte premuta sull'asfalto. Sento le porte dell'ambulanza che si chiudono come i forzieri di una banca... le sirene che svaniscono in un buco nero ovattato... e i singhiozzi ansimanti della figlia di Boyle, che tenta di arrivare in fondo al suo discorso al funerale del padre. Questa fu la cosa più dolorosa, e non solo perché la sua voce tremava tanto da impedirle quasi di pronunciare le parole. La figlia, che iniziava la scuola superiore, aveva la stessa inflessione del padre, le s sibilanti e le o brevi della Florida. Quando chiusi gli occhi, ebbi l'impressione che il fantasma di Boyle parlasse alla sua cerimonia funebre. Perfino i critici che un tempo avevano approfittato dell'arresto di suo padre per definirlo «una macchia morale all'interno dell'amministrazione» tennero la bocca chiusa. Inoltre, il danno ormai era fatto. Il funerale venne trasmesso alla tv, naturalmente, cosa che per una volta apprezzai, perché le operazioni alla faccia mi costringevano a vederlo dalla mia stanza d'ospedale. In un certo senso, sarebbe stato meglio essere presente di persona, soprattutto quando il presidente si alzò per l'ultimo discorso. Manning imparava sempre a memoria le prime righe dei suoi discorsi, per poter guardare meglio negli occhi il suo pubblico. Ma quel giorno ai funerali, le cose andarono diversamente. Nessun altro se ne accorse. Sul podio, il presidente tenne il petto in fuori e le spalle erette, in una consapevole esibizione di forza. Guardò i giornalisti, allineati in fondo alla chiesa strapiena, i parenti, i colleghi, e la moglie di Boyle e la sua giovane figlia in lacrime. «Forza, capo», sussurrai nella mia stanza d'ospedale. Le foto del Leone Codardo erano già state pubblicate. Sapevamo tutti che era la morte della sua presidenza, ma in quel momento si trattava solo della morte del suo amico.
Non perdere il controllo, pregai silenziosamente. Manning serrò le labbra. Strinse gli occhi grigi e vellutati. Sapevo che aveva imparato a memoria la prima frase. Imparava a memoria tutte le prime frasi. Puoi farcela... dissi. E fu allora che il presidente Manning abbassò lo sguardo. E lesse la prima frase del suo discorso. Non ci fu nessun sussulto fra i presenti. Non fu scritta in proposito una sola riga. Ma io sapevo. E anche i colleghi, che vedevo avvicinarsi impercettibilmente fra loro ogni volta che la telecamera riprendeva la folla. Quello stesso giorno, per girare ulteriormente il coltello nella piaga, l'uomo che aveva ucciso Boyle - Nicholas «Nico» Hadrian - dichiarò che, pur avendo sparato parecchi colpi contro il presidente, non intendeva davvero colpirlo: si trattava di un semplice avvertimento a quello che definì «il segreto culto massonico che tenta di prendere il controllo della Casa Bianca in nome di Lucifero e delle sue orde infernali.» Inutile dire che, dopo qualche altra dichiarazione del genere, Nico fu ricoverato al St. Elizabeths Hospital di Washington, D.C., dove si trova ancora oggi. Insomma, la morte di Boyle era la peggiore crisi che avessimo mai affrontato... un momento in cui qualcosa si rivelava più forte della Casa Bianca. La tragedia comune spinse tutti a stringere le file. E io osservai ogni cosa dalla mia solitaria stanza d'ospedale, attraverso l'unico occhio da cui potevo vedere. «È molto divertente», dice il vice primo ministro della Malaysia, un uomo sui cinquant'anni con un leggero problema di acne. Sembra piuttosto sorpreso quando si unisce a me e a Mitchel, uno dei nostri agenti dei Servizi segreti, nel retro del palco. Guarda Mitchel, poi si mette davanti a me e mi volta le spalle per studiare il profilo del presidente sul podio. Dopo tanto tempo come segretario, non la prendo come un'offesa personale. «È da molto che lavora con lui?» chiede il vice primo ministro, continuando a bloccarmi la visuale. «Quasi nove anni», sussurro. Sembra un periodo lungo, per un semplice aiutante, ma la gente non capisce. Dopo quello che è successo... dopo quello che ho fatto... che ho provocato... non mi interessa ciò che dicono i miei consiglieri. Se non fosse stato per me, Boyle non sarebbe stato nella limousine quel giorno, e se non fosse stato lì... Chiudo gli occhi e rimetto a fuoco visualizzando il lago ovale del mio vecchio campo estivo. Come mi ha insegnato a fare il mio terapista. Per un istante funziona, ma come ho
imparato in ospedale, non cambia la realtà delle cose. Otto anni fa, quando Boyle mi gridava in faccia, sapevo che il presidente non avrebbe mai potuto concedergli un colloquio durante un viaggio in limousine di due minuti. Ma invece di incassare gli insulti e rimetterlo in lista d'attesa, evitai il problema e gli gettai l'unico osso che sapevo avrebbe accettato. E mi compiacqui pure di avergli fatto balenare davanti il presidente per facilitarmi il lavoro. Quella decisione costò la vita a Boyle. E a me la distrusse. L'unica buona notizia, come sempre, venne da Manning. La maggior parte degli aiutanti, quando lasciano il loro incarico, hanno una mezza dozzina di offerte di lavoro. Io non ne ebbi nessuna. Fino a quando Manning non fu così gentile da invitarmi di nuovo a bordo. Come ho detto, la gente non capisce. Anche fuori della Casa Bianca, questa è comunque un'occasione unica. «A proposito, Wes», mi interrompe Mitchel, «hai saputo se hanno procurato il miele per il tè del presidente? Sai che ne ha bisogno per la sua gola.» «Tutto a posto», rispondo passandomi il palmo della mano sulla fronte. Fra il calore delle luci e la febbre, sto per svenire. Non importa. Il presidente ha bisogno di me. «Dovremmo trovarlo in macchina quando finiamo.» Per esserne sicuro, tiro fuori di tasca il satellitare e faccio il numero dell'autista dei Servizi segreti che ci aspetta fuori. «Stevie, sono Wes», dico quando risponde. «Quel miele è arrivato?» C'è una piccola pausa all'altro capo della linea. «Stai scherzando, vero?» «C'è o non c'è?» dico, mortalmente serio. «Sì, Wes. L'importantissimo miele è arrivato. Gli sto facendo la guardia in questo momento, ho saputo che c'è una banda di calabroni nei paraggi.» Fa una pausa, sperando che mi unisca al suo scherzo. Resto zitto. «Nient'altro, Wes?» chiede seccamente. «No... è tutto per ora.» Praticamente sento che alza gli occhi al cielo mentre chiudo la comunicazione. Non sono un imbecille. So cosa dicono di me. Ma non sono loro che vedono ancora la pozza di sangue sotto Boyle ogni volta che passa un'ambulanza. Manning ha perso la presidenza e il suo migliore amico. Io ho perso qualcosa di molto più personale. È come un trapezista che cade malamente durante un triplo salto mortale. Anche se le ossa guariscono e tutto torna a posto... anche quando lo rimettono lassù in cima... ci si può
dare tutto lo slancio del mondo, ma ci vuole del tempo prima di tornare a volare come in passato. «...e però mi faccio sempre chiamare signor presidente», scherza Manning sul palco. Un'ondata di risa sale dal pubblico, composto dai settecento impiegati di più alto livello della Tengkolok Insurance Corporation, la quarantatreesima azienda in ordine di grandezza della Malaysia. La buona notizia è che pagano 400.000 dollari e il viaggio in jet privato per un discorso di cinquantasette minuti... più qualche domanda, naturalmente. Come mi ha detto una volta un giornalista del «Newsweek», la post-presidenza è come la vendita di una notizia in prima serata, meno visibile, ma molto più redditizia. «Sta andando bene», mi dice il vice primo ministro. «Ha una certa esperienza con il pubblico», rispondo. Tiene gli occhi incollati al profilo del presidente e finge di non rilevare l'ironia. Da qui, vedendo il modo in cui Manning punta un indice con decisione verso il pubblico, sembra che sia di nuovo pronto alla battaglia. Il riflettore gli dà un'aura quasi angelica, gli toglie quei quattro o cinque chili di troppo e gli addolcisce i lineamenti, dal mento aguzzo alla pelle indurita. Se non sapessi la verità, penserei di essere di nuovo alla Casa Bianca, a guardarlo attraverso lo spioncino della porta laterale dello Studio Ovale. Proprio come lui guardava me nella mia stanza d'ospedale. Ci sono rimasto quasi sei mesi. Nei primi tempi, qualcuno chiamava dalla Casa Bianca tutti i giorni. Ma quando perdemmo le elezioni, lo staff scomparve, e così le telefonate. A quel punto, Manning avrebbe avuto ogni ragione per fare lo stesso e dimenticarsi di me. Sapeva ciò che avevo fatto. Sapeva perché Boyle era nella limousine. Invece, mi invitò a ritornare. Quel giorno mi insegnò che la lealtà è importante. Lo è ancora. Anche dopo la Casa Bianca. Anche in Malaysia. Anche a una conferenza con degli assicuratori. Uno sbadiglio mi sale dalla gola. Stringo i denti e lotto, cercando di inghiottirlo. «È noioso, per lei?» mi chiede il vice primo ministro, evidentemente irritato. «N... no, per niente», mi scuso, conoscendo la prima regola della diplomazia. «È solo... il fuso orario... siamo appena arrivati, mi sto ancora abituando...» Prima che possa concludere, si gira verso di me. «Dovrebbe...»
Vede la mia faccia e si interrompe. Non per molto. Giusto il tempo necessario per guardare bene. Istintivamente, cerco di sorridere. Certe cose non si disimparano. La metà sinistra delle mie labbra si solleva, la destra resta immobile, morta. Boyle cadde quel giorno all'autodromo. Ma non fu l'unico a essere colpito. «Dovrebbe prendere della melatonina», balbetta il vice primo ministro, continuando a fissare le cicatrici sbiadite sulla mia guancia che si intrecciano come i binari di una rete ferroviaria. All'inizio erano violacee. Adesso sono appena più rosse della mia pelle pallida. Ma non si può non notarle. «Melatonina», ripete, guardandomi negli occhi. Si sente stupido per avermi fissato a bocca aperta. Ma non ci può fare niente. Dà un'altra occhiata, poi rapidamente si sofferma sulla bocca, leggermente storta sulla destra. Molte persone pensano che io abbia avuto un piccolo ictus. Poi vedono le cicatrici. «È il massimo, per il jet lag», aggiunge, tornando a guardarmi negli occhi. La pallottola che mi ha attraversato la guancia era una Devastator, progettata appositamente per esplodere all'impatto e conficcarsi nella pelle, anziché attraversarla. Ed è esattamente ciò che è accaduto quando è rimbalzata sulla corazza della limousine: si è frantumata e mi è penetrata nella faccia. Se mi avesse colpito direttamente, sarebbe stato meglio, hanno detto i medici, così invece è come se una dozzina di minuscoli missili mi si fossero infilati nella guancia. Per massimizzare il dolore, Nico ha copiato un trucco degli uomini-bomba mediorientali, che intingono le pallottole e le bombe nel veleno per topi, che agisce da anticoagulante, in modo che si sanguini il più a lungo possibile. Ha funzionato. Quando gli agenti mi hanno raggiunto, ero talmente pieno di sangue che mi hanno coperto con un lenzuolo, pensando che fossi morto. La ferita mi ha massacrato il nervo facciale, che, come ho scoperto rapidamente, ha tre diramazioni: la prima fornisce le funzioni nervose alla fronte... la seconda controlla la guancia... e la terza, dove sono stato colpito, si incarica della bocca e del labbro inferiore. Per questo la mia bocca pende... e le mie labbra sono leggermente storte quando parlo... e il mio sorriso è piatto come quello di un paziente dal dentista sotto Novocaina. Inoltre, non posso bere con la cannuccia, fischiare, baciare (non che ne abbia l'occasione) o mordermi il labbro superiore, cosa che richiede più impegno di quanto pensassi. Tutte cose che posso sopportare. È il fatto che mi fissino che mi manda in crisi.
«Melatonina, eh?» chiedo voltando la testa in modo da nascondergli lo spettacolo. È inutile. La faccia è ciò di cui ci ricordiamo. È la nostra identità. Rivela quello che siamo. Cosa ancora più grave, due terzi della comunicazione vis-à-vis passa attraverso le espressioni facciali. Perderle - come ho fatto io - è, per dirla in termini scientifici, socialmente devastante. «L'ho provata anni fa... Magari tenterò di nuovo.» «Penso che le piacerà», dice il vice primo ministro. «Aiuta a sentirsi meglio.» Si gira di nuovo verso la silhouette illuminata del presidente, ma sento ancora il cambiamento di tono nella sua voce. Sottile, ma inconfondibile. Non c'è bisogno di un traduttore per capire la pietà. «Dovrei... Vado a controllare quel tè col miele», dico allontanandomi dal vice primo ministro. Lui non si gira neppure. Mentre mi faccio strada nell'oscurità dietro al palco del Performing Arts Center, mi infilo tra una palma di cartapesta e un'enorme roccia di plastica e schiuma, entrambi parte delle scene del Re Leone, che si trovano più in fondo dietro le quinte. «...e gli altri paesi guardano agli Stati Uniti in una maniera che non possiamo trascurare...» dice Manning, affrontando finalmente la parte più seria del suo discorso. «...anche adesso che in tante parti del mondo ci odiano», sussurro fra me. «...anche adesso che in tante parti del mondo ci odiano», continua il presidente. La frase mi dice che gli mancano ancora quaranta dei cinquantasette minuti del suo discorso, compresa la pausa di tre secondi che farà tra mezzo minuto per schiarirsi la voce e dimostrare quanto è serio. Ho un sacco di tempo. C'è un altro agente dei Servizi segreti vicino alla porta sul retro. Jay. Ha un naso da pugile, la corporatura massiccia e le mani più femminili che io abbia mai visto. Salutandomi con un cenno del capo, nota il velo di sudore che mi copre il volto. «Ti senti bene?» Come tutti, dà una rapida occhiata alle mie cicatrici. «Sono solo stanco. Questi voli in Asia mi buttano a terra.» «Siamo tutti stanchi, Wes.» Tipico dei Servizi. Nessuna simpatia. «Senti, Jay, vado a controllare il miele del presidente, ok?» Alle mie spalle, sul palco, il presidente si schiarisce la voce. Uno... due...
tre... Appena riprende a parlare, apro la porta metallica insonorizzata e imbocco un lungo corridoio di cemento, illuminato al neon, che corre dietro ai camerini. Il compito di Jay è di combattere ogni minaccia, visibile e non. Con quaranta minuti di attesa davanti a me, l'unica cosa che devo combattere io è la mia stanchezza. Per mia fortuna, sono nel posto perfetto per un pisolino. Sulla mia destra, nel corridoio deserto, c'è una stanza con la scritta SPOGLIATOIO N. 6. L'ho vista arrivando. Dev'esserci un divano lì, o almeno una poltrona. Tocco la maniglia, ma non si muove. Idem con lo spogliatoio n. 5, proprio di fronte. Merda. Gli agenti sono pochi, devono averle chiuse per ragioni di sicurezza. Zigzagando nel corridoio, tento gli spogliatoi 4... 3... 2... Chiuso, chiuso, chiuso. Resta solo la grande stanza n. 1. Peccato che sulla porta ci sia il cartello: SOLO IN CASO DI EMERGENZA Solo in caso di emergenza è l'espressione in codice che indica la sala privata del presidente. La maggior parte delle persone pensano che sia un posto per rilassarsi. Noi lo usiamo per tenerlo al riparo dalle strette di mano e dai flash dei fotografi, compresi gli ospiti, che sono sempre i peggiori. Per favore, ancora una foto, signor presidente. Inoltre la stanza ha telefono, fax, frutta, snack, una mezza dozzina di mazzi di fiori (che non chiediamo mai, ma arrivano comunque), seltz, tè Bailao e... come ci hanno mostrato mentre passavamo... un'anticamera con un divano e due morbidissimi cuscini. Guardo gli altri spogliatoi, poi di nuovo la porta di metallo che conduce al palcoscenico. Jay è dall'altra parte. Se anche glielo chiedessi, non mi aprirebbe mai gli altri spogliatoi. Torno alla porta della stanza n. 1. La testa mi brucia; mi sento spossato. Nessuno se ne accorgerà (grazie, porta insonorizzata). Ho ancora più di mezz'ora prima che il discorso del presidente sia... No. No, no, no. Dimentica tutto. Questa è la camera personale del presidente. Non mi interessa se lui non se ne accorge. Se non sente. Entrare nella sua stanza così... non è giusto, ecco. Ma quando mi giro per andarmene, colgo un lampo di luce sotto la porta. Diventa scuro, poi bianco. Come se passasse un'ombra. Il problema è
che la stanza dovrebbe essere vuota. Chi diavolo può...? Afferro la maniglia e la giro di colpo. Se è quel cacciatore di autografi del posteggio... Con un click, la porta si apre. Mentre si spalanca, mi colpisce il profumo dei fiori freschi. Poi sento un suono di metallo che urta contro il vetro. Seguendolo, mi giro verso il tavolino di vetro che c'è sulla sinistra. Un uomo anziano, calvo, con un abito ma senza cravatta si massaggia lo stinco che ha battuto. È su una gamba sola, ma non smette di muoversi. Viene verso di me. «Scusi... ho sbagliato stanza», dice con un leggero accento che non riesco a riconoscere. Non britannico, forse europeo. Ha la testa bassa, e dalla posizione delle spalle spera di scivolarmi di fianco verso la porta. Mi piazzo davanti a lui e lo blocco. «Posso aiutar...?» Mi urta con tutte le sue forze, colpendomi la spalla con la sua. Deve avere cinquant'anni. Più forte di quel che sembra. Oscillo leggermente, mi aggrappo alla maniglia e tento di rimanergli davanti. «È pazzo?» chiedo. «Scusi... è stato... sono nel posto sbagliato», insiste, tenendo la testa bassa e facendo un altro passo indietro. Da come balbetta e continua a saltellare su sé stesso, incomincio a pensare che abbia ben altri problemi che quello di essere nella stanza sbagliata. «Questa è una stanza privata», dico. «Da dove...?» «Il bagno», insiste. «Cercavo il bagno.» È una scusa veloce, ma non è buona. È rimasto qui troppo tempo. «Ascolti, devo chiamare i Servizi Seg...» Di scatto, si precipita su di me senza dire una parola. Mi chino in avanti per proteggermi. È proprio quello che si aspetta. Penso che mi venga addosso. Invece mette fuori un piede, con il tallone mi schiaccia le dita del piede sinistro e mi afferra per il polso. Sto già cadendo. Mi stringe il polso ancora più forte, tuffandosi e lasciando che lo slancio faccia il resto. Come quando si toglie il tappo di una bottiglia, vengo proiettato all'indietro nella stanza, completamente squilibrato. Dietro di me... il tavolino... Con la parte posteriore delle gambe colpisco il bordo di metallo e la forza di gravità mi fa precipitare sul piano di vetro. Agito le braccia per arrestare la caduta, ma invano. Quando la schiena colpisce il vetro, stringo i denti aspettandomi il peggio. Il vetro si incrina come il popcorn quando sta per gonfiarsi... poi si infrange di colpo in una pioggia di schegge. Il tavolino è più piccolo di una
vasca da bagno e mentre vi sprofondo la mia testa sbatte contro l'altro bordo metallico. Una scarica dolorosa mi percorre la schiena, ma i miei occhi sono fissi sulla porta. Allungo il collo per vedere meglio. Lo sconosciuto se n'è già andato... poi... mentre fisso la porta vuota... si riaffaccia. Quasi a verificare come sto. È allora che i nostri sguardi si incrociano. Contatto. Oh, Dio. Lo stomaco mi sprofonda fino alle ginocchia. È... È... La sua faccia è diversa... ha il naso rotondo... le guance più scavate. Sono cresciuto a Miami. Riconosco la chirurgia plastica quando la vedo. Ma non è possibile confondere quegli occhi castani con un lampo di azzurro... Ma... è morto otto anni fa... Era Boyle. 3 «Aspetta!» Si allontana come un fulmine, sfrecciando a sinistra lungo il corridoio, in direzione opposta alla porta dove c'è Jay. Boyl... chiunque sia, è furbo. Afferro i bordi del tavolino e tento di tirarmene fuori. I fianchi e le ginocchia sfregano contro le schegge di vetro mentre mi rigiro su me stesso. Mi rialzo e completamente rannicchiato corro verso di lui. Sono talmente sbilanciato che praticamente cado attraversando la soglia, nel corridoio deserto. Aveva sì e no cinque secondi di vantaggio. Più che sufficienti. In fondo, il corridoio fa una svolta a sinistra. In lontananza, una porta di metallo sbatte. Maledizione. Corro più veloce che posso, serrando le labbra per non ansimare. Ma so già quello che troverò. Svoltato l'angolo, il corridoio termina con altre due porte di metallo. Quella a destra immette alle scale di emergenza. Quella di fronte conduce all'esterno. Se fossimo alla Casa Bianca, ci sarebbero due agenti dei Servizi segreti di guardia. Essendo ex, abbiamo appena quanto basta per controllare gli ingressi al palcoscenico. Spalanco la porta alla mia destra. Mentre sbatte contro il muro, un tonfo sordo echeggia sulle scale di cemento. Trattengo il fiato e resto in ascolto di passi... movimento... qualsiasi cosa. C'è solo silenzio. Torno indietro, mi butto contro la sbarra metallica dell'altra porta, che si apre e mi fa uscire nell'atmosfera dolce e umida della Malaysia. L'unica luce della stradina è data dai fari di una Chevrolet Suburban nera, un me-
tallico gatto del Cheshire col suo scintillante sorriso bianco. Dietro alla Suburban c'è una pacchiana limousine bianca, destinata a riportarci all'albergo. «Tutto ok?» mi grida un agente coi capelli castani corti uscendo dalla Suburban. «Sì... certo», rispondo inghiottendo a fatica e volendo evitare di gettarlo nel panico. Salto gli ultimi tre gradini col cuore che batte come se volesse schizzarmi dal petto. Continuo a scrutare la stradina. Nient'altro che bidoni vuoti, qualche moto della polizia e il nostro minicorteo. Le scale... Torno alla porta, ma è troppo tardi. La porta si chiude con un rimbombo sonoro, bloccandosi dall'interno. «Rilassati», dice l'agente. «Ho qui le chiavi.» Sale gli scalini e fruga nel mazzo di chiavi. «Manning sta rispettando i tempi?» chiede. «Sì... è perfetto... in perfetto orario.» L'agente mi scruta attentamente, sempre frugando tra le chiavi. «Sei sicuro di sentirti bene, Wes?» chiede aprendomi la porta e lasciandomi correre dentro. «Sembra che tu abbia visto un fantasma.» 4 Se n'è andato. Mezz'ora più tardi, dopo che ha risposto all'ultima domanda («Le manca la Casa Bianca?»), sono seduto in fondo alla limousine e cerco di capire cosa pensa il presidente. «Il pubblico era buono», commenta. Vuol dire era scialbo. «Sono d'accordo», rispondo. Vuol dire la capisco. I discorsi all'estero sono sempre difficili. La gente non comprende metà delle battute e Manning rimpiange il fatto che l'intero paese non si fermi più per il suo arrivo. Seduti davanti, i due ragazzi dei Servizi segreti sono mortalmente silenziosi, non bisbigliano neppure nelle loro radioline. Vuol dire che sono nervosi. Prima, all'Arts Center, ho raccontato di avere incontrato qualcuno vicino agli spogliatoi. Quando mi hanno chiesto una descrizione, ho detto tutto quello che avevo visto, ma ho lasciato perdere il colore degli occhi e il fatto che assomigliava a Boyle. Oh, sì, era il nostro vice capo di gabinet-
to, quello che abbiamo seppellito otto anni fa. C'è una linea precisa tra l'essere prudenti e l'apparire fuori di testa. Quando la nostra auto si ferma davanti al Palace of the Golden Horses il più lussuoso e decorato albergo sul tema dei cavalli in Asia - tre diversi valletti aprono le portiere della limo. «Bentornato, signor presidente.» Abituato ai vip, il Palace ha diciotto ascensori e diciassette rampe di scale per chi vuole entrare in incognito. L'ultima volta che siamo venuti qui, ne abbiamo usate almeno la metà. Oggi ho chiesto ai Servizi di farci passare dall'ingresso principale. «Eccolo... Eccolo...» dicono contemporaneamente molte voci quando entriamo nell'atrio. Un gruppo di turisti americani ci sta già indicando, mentre cercano le penne nelle loro tasche. Ci hanno visto, era quello che volevamo. Gli agenti mi guardano. Io guardo Manning. Tocca a lui, anche se so già cosa dirà. Il presidente annuisce brevemente, fingendo di concedere un favore. Ma per quanto sia rapido, non mi sfugge il suo sorriso. Ogni volta che gli ex presidenti viaggiano all'estero, la CIA organizza un breve incontro che dà all'ex l'illusione di essere ancora al centro delle cose. Per questo tutti gli ex amano i viaggi all'estero. Ma quando si è in un paese lontano e manca l'adrenalina dell'attenzione, non c'è niente di meglio di un rapido incontro con un gruppo di fan adoranti. Come il Mar Rosso davanti a Mosè, gli agenti si fanno da parte, lasciando sul pavimento di marmo un corridoio libero davanti al presidente. Io tiro fuori una dozzina di foto lucenti e un pennarello dal mio zainetto dei trucchi e li porgo a Manning. Ne aveva bisogno. Bentornato, capo. «Può dedicarla al nostro Bobby-boy? Proprio così: Bobby-boy», chiede un uomo con un enorme paio di occhiali. «E lei da dove viene?» chiede Manning. È perfettamente a suo agio. Se volessi, potrei stare accanto al presidente e aiutare gli agenti a tenere in ordine la fila. Invece faccio un passo indietro, scivolo via dalla folla e mi dirigo al bancone della reception, proprio sotto l'enorme cupola dorata, con i suoi disegni di cavalli in corsa. È una cosa che mi tormenta da quando Boyle è scomparso in fondo al corridoio. Non so come abbia fatto ad arrivare dietro il palco, ma se sta cercando di avvicinare il presidente c'è un solo altro posto dove può provarci. «Come posso aiutarla oggi, signore?» mi chiede una bella signora asiatica in un inglese impeccabile. Devo concederle che dà un'occhiata alle mie
cicatrici, ma senza insistervi. «Sono col presidente Manning», le dico, sperando di ungere gli ingranaggi. «Ma certo, signor Holloway.» So che abbiamo lasciato un sacco di carte di credito, ma sono ugualmente colpito. «Come posso esserle utile?» «In verità... Sto cercando di rintracciare un amico del presidente. Dovevamo vederci stasera, e volevo verificare se è arrivato... si chiama Boyle.» Battendo sulla sua tastiera, la signora non esita neppure davanti al nome. Gli hotel di lusso della Malaysia sono buoni, ma non così buoni. «Mi dispiace, signore, non abbiamo nessuno a nome Boyle.» Non sono sorpreso. «E come Eric Weiss?» chiedo. Era lo pseudonimo di Boyle, quando lavoravamo alla Casa Bianca e non voleva che i giornalisti lo rintracciassero negli alberghi. «Eric Weiss?» ripete la donna. Annuisco. Era il vero nome di Houdini, uno stupido scherzo di Boyle, che collezionava poster del vecchio mago. Ma tornare indietro dai morti? Neanche Eric Weiss ce l'avrebbe fatta. «Spiacente, niente Eric Weiss.» Lancio un'occhiata al presidente. Ha ancora almeno tre autografi da fare ai turisti. «Senta, può fare un altro tentativo? Cognome Stewart, nome Carl.» «Carl Stewart», ripete lei battendo sui tasti. È un tentativo azzardato, senza dubbio, sono i due nomi del padre del presidente, nonché il nome in codice che usavamo per il presidente quando sono arrivato alla Casa Bianca... poco prima che Boyle fosse... «Carl Stewart», dice orgogliosa l'impiegata della reception. «Eccolo qui.» Sento il sangue affluirmi al volto. Quel nome in codice era assegnato al presidente durante i nostri antichi viaggi per non rivelare in quale stanza si trovava. Nessuno lo conosceva. Neanche la First Lady. «Davvero?» Guarda lo schermo. «Ma qui dice che ha lasciato la stanza proprio un'ora fa. Mi dispiace, signore... sembra che l'abbiate perso per poco.» «Avete il suo indirizzo? Ha pagato con una carta di credito?» Le domande mi escono di bocca prima che possa controllarmi. «Voglio dire... noi... speravamo di pagare a nome suo», aggiungo quando riesco finalmente a rallentare. «Sa... un omaggio del presidente...»
Mi guarda fisso. Adesso pensa che sia scemo. Però controlla ancora sullo schermo. «Mi dispiace ancora, signore, sembra che abbia pagato in contanti...» «E il suo indirizzo? Vorrei assicurarmi che stiamo parlando del Carl Stewart giusto.» Aggiungo una risata per metterla a suo agio. Poi mi viene in mente che ai malaysiani non piace che si rida di loro. «Signore, i dati personali dei nostri ospiti...» «Non è per me, è per lui.» Indico l'ex presidente degli Stati Uniti e le sue tre guardie del corpo. È un bel bluff. L'impiegata accenna un sorriso forzato. Si guarda alle spalle. Non c'è nessuno, nei paraggi, a parte noi due. Leggendo sullo schermo, dichiara: «Il signor Stewart abita in... Via Las Brisas 3965 - Palm Beach, Florida.» Mi tremano le gambe. Mi aggrappo al bancone di marmo per non cadere. Questo non è un codice segreto. È l'indirizzo privato del presidente Manning. Solo i suoi familiari lo conoscono. O i vecchi amici. «Signore, si sente bene?» mi chiede l'impiegata, vedendo la mia reazione. «Sì... benissimo», rispondo sforzandomi di essere energico. Non mi fa sentire affatto meglio. La testa mi gira tanto che fatico a stare in piedi. Boyle... o chi per lui... non era soltanto in quello spogliatoio... era proprio qui stanotte. Ci aspettava. Per quel che ne so, avrebbe aspettato il presidente, se io non l'avessi visto prima. Ripenso a quello che è successo dietro il palco durante il discorso. Il rumore metallico mentre urtava il tavolino. L'espressione terrorizzata sul suo volto. Fino a questo momento pensavo di averlo sorpreso mentre tentava di entrare. Ma adesso... il fatto che fosse qui stanotte... e che abbia usato quel vecchio nome in codice... Boyle non è un idiota. Con tutti i nomi falsi tra cui scegliere, non si usa quel nome per nascondersi. Lo si usa perché qualcuno possa trovarti. Giro il caleidoscopio e compare una nuova figura. Certo, forse Boyle stava entrando. Ma poteva anche essere stato invitato. Il problema è: visto che in questo viaggio ci siamo solo io e tre agenti segreti che non hanno mai neppure lavorato alla Casa Bianca, resta solo una persona che poteva riconoscere quel nome. Una persona che poteva sapere che Boyle stava arrivando, e poteva invitarlo a entrare. Guardo il presidente che concede il suo ultimo autografo. Ha un ampio sorriso sul volto. Una fitta di dolore mi colpisce alla nuca. Mi tremano le mani. Perché avrebbe dovuto farlo? A tre metri da me, Manning mette il braccio sulle
spalle di una donna asiatica e posa per una foto, con un sorriso ancora più ampio. Mentre scatta il flash, la fitta alla nuca si trasforma in un cappio. Chiudo gli occhi, tento di ritrovare il lago del campo estivo... mi aggrappo alla mia àncora di salvezza. Ma l'unica cosa che vedo è Boyle. La sua testa rasata. L'accento fasullo usato per confondermi. Anche i singhiozzi di sua figlia, a cui chiedo scusa ogni volta che la vedo soffrire per l'anniversario dell'avvenimento. Per otto anni, la sua morte è stata la ferita che non poteva rimarginarsi, che amareggiava continuamente la mia solitudine. Il senso di colpa... tutto quello che avevo provocato... Oh, Dio, se davvero è tornato... Apro gli occhi e mi accorgo che sono pieni di lacrime. Le asciugo rapidamente, ma non riesco a guardare Manning. Qualunque cosa stesse facendo Boyle, devo capire che diamine sta succedendo. Alla Casa Bianca, comandavamo tutto l'esercito. Adesso non comandiamo più niente. Ma questo non vuol dire che io non abbia le mie personali truppe di riserva. Tiro fuori il mio satellitare e faccio il numero a memoria. Dovrebbe essere l'alba, adesso, a Washington. Abituato alle emergenze, risponde al primo squillo. Lo schermo gli rivela chi sta chiamando. «Lasciami indovinare, sei nei guai», dice Dreidel. «Questa volta è una cosa seria», ribatto. «Riguarda il tuo capo?» «Non è sempre così?» Dreidel è il mio migliore amico dai tempi della Casa Bianca, e soprattutto conosce Manning meglio di chiunque altro. Dal suo silenzio, è chiaro che capisce. «Hai un secondo? Ho bisogno di aiuto.» «Per te, amico mio, qualsiasi cosa...» 5 Parigi, Francia «Con la mayonnaise?» chiese con un forte accento francese la donna con gli occhiali rossi e le lenti bifocali. «Oui», rispose Terrence O'Shea, annuendo rispettoso, ma infastidito dalla domanda. Pensava che il suo accento fosse perfetto - o almeno perfetto quanto poteva renderlo l'addestramento dell'FBI - ma il fatto che lei gli avesse parlato in inglese e avesse chiamato l'aioli «mayonnaise»...
«Excusez-moi», aggiunse O'Shea, «pourquoi m'avez vous demandé cela en anglais?» Perché me l'ha chiesto in inglese? La donna strinse le labbra e sorrise ai suoi larghi lineamenti svizzeri. I suoi sottili capelli biondi, la pelle rosea e gli occhi verde oliva venivano dalla famiglia di sua madre in Danimarca, ma il suo grosso naso storto era un'eredità del padre scozzese, peggiorata da un difficile recupero ostaggi ai tempi in cui lavorava sul campo. Mentre la donna porgeva a O'Shea il piccolo contenitore di patatine, gli spiegò: «Je parle très mal le danois.» Parlo molto male il danese. Vedendo il sottile sorriso di O'Shea, aggiunse: «Vous venez de Danemark, n'est-ce pas?» Lei è danese, no? «Oui», mentì O'Shea, provando una strana gioia per il fatto che non l'aveva riconosciuto come americano. Ma del resto mescolarsi ai locali faceva parte del suo lavoro. «J'ai l'oeil pour ces choses», aggiunse la donna. «J'ai l'oeil pour ces choses», ripeté O'Shea, lasciando cadere qualche moneta nel bicchiere delle mance che si trovava sul carrello della donna. Sono cose che si intuiscono. Proseguendo per la rue Vauvin, O'Shea sentì il cellulare che vibrava nella sua tasca per la terza volta. Aveva già convinto la donna del carrello che non era americano e benché fosse una cosa senza importanza non voleva rivelarsi interrompendo la loro conversazione. «O'Shea», disse finalmente. «Che cosa ci fai in Francia?» chiese la voce all'altro capo della linea. «Una conferenza dell'Interpol. Una stupidaggine sulle tendenze del lavoro investigativo. Quattro giorni fuori della gabbia.» «Più tutta la mayonnaise che puoi mangiare.» Proprio mentre stava per addentare la prima patatina con la mayonnaise, O'Shea si bloccò. Senza aggiungere una parola, buttò le patatine in un cestino lì accanto e attraversò la strada. In qualità di attaché dell'FBI, O'Shea aveva passato quasi dieci anni a lavorare con le forze dell'ordine di sette paesi stranieri, aiutandole a combattere il crimine e il terrorismo che potevano danneggiare gli Stati Uniti. Nel suo lavoro, il modo più sicuro per farsi uccidere era di essere ovvio e prevedibile, e O'Shea si vantava di non essere né l'una, né l'altra cosa. Si abbottonò il cappotto nero, che gli volteggiava dietro come il mantello di un mago. «Dimmi cosa sta succedendo», disse. «Indovina chi è tornato?» «Non ne ho idea.»
«Indovina...» «Non lo so... quella ragazza del Cairo?» «Ti do un indizio: è stato ucciso all'autodromo di Daytona otto anni fa.» O'Shea si bloccò in mezzo alla strada. Non per paura. Né per la sorpresa. Era in questo campo da troppo tempo per restare confuso da un cattivo lavoro di intelligence. Meglio verificare. «Da chi l'hai saputo?» «Da una buona fonte.» «Buona quanto?» «Quanto basta.» «Non è...» «Buona quanto è possibile trovarla, ok?» O'Shea conosceva quel tono di voce. «Dove l'hanno visto?» «Malaysia. Kuala Lumpur.» «Abbiamo un ufficio là...» «Se n'è già andato.» Non mi sorprende, pensò O'Shea. Boyle era troppo intelligente per fermarsi. «Nessuna idea sulle sue intenzioni?» «Dimmelo tu: era là nel momento in cui il presidente Manning teneva un discorso.» Una Fiat rossa suonò il clacson per fare spostare O'Shea dalla sua traiettoria. Agitando la mano in segno di scusa, O'Shea proseguì verso il marciapiede. «Pensi che Manning sapesse del suo arrivo?» «Non voglio pensarci. Sai quante vite sta rischiando?» «Te l'ho detto quando abbiamo cercato di coinvolgerlo la prima volta, quel tizio è puro veleno. Non avremmo mai dovuto cercare di farlo fuori tanti anni fa.» Osservando il traffico di Parigi, O'Shea lasciò passare qualche istante di pausa. Al di là della strada, guardò la donna con gli occhiali rossi che porgeva un'altra confezione di patatine con aïoli. «L'ha visto qualcun altro?» chiese finalmente. «L'aiutante del presidente a quanto pare gli ha dato un'occhiata... sai, quel ragazzo con la faccia...» «E ha qualche idea di chi ha visto?» «È proprio questo il problema, no?» O'Shea si fermò a riflettere. «E la faccenda in India la settimana prossima?» «L'India può aspettare.» «Vuoi che prenda un aereo?» «Saluta Parigi, mio caro. È ora di tornare a casa.»
6 St. Elizabeths Mental Hospital Washington, D.C. «Sbrigati, Nico, non fare pasticci», disse l'infermiere alto con l'alito di cipolla. Non spinse Nico all'interno, né rimase con lui mentre si slacciava i pantaloni. L'avevano fatto per i primi mesi dopo che aveva tentato di assassinare il presidente, quando ancora avevano paura che tentasse di uccidersi. Adesso aveva ottenuto il diritto di andare in bagno da solo. Così come aveva ottenuto il diritto di usare il telefono e di non avere la posta controllata dall'ospedale. Ogni vittoria, come gli avevano preannunciato i Tre, aveva avuto il suo prezzo. Per il telefono, i dottori gli avevano chiesto se covava ancora rancore per il presidente Manning. Per la posta, se era ancora fissato con le croci: il crocifisso al collo delle infermiere, quello che la signora grassa indossava in una pubblicità alla televisione, e soprattutto quelli nascosti che solo lui vedeva: quelli creati dalle intelaiature delle finestre e dai pali del telegrafo... dalle crepe sui marciapiedi e dalle stecche delle panchine del parco, dai fili d'erba che si incrociavano e - quando smisero di farlo uscire, perché le immagini erano troppo opprimenti - dall'intrecciarsi delle stringhe e dai fili del telefono e dai cavi e dalle calze buttate da lavare... tra le fughe delle piastrelle del pavimento e la porta chiusa del frigorifero... fra le tettoie orizzontali e i loro sostegni verticali, tra le ringhiere e il corrimano... e naturalmente negli spazi bianchi fra le colonne dei giornali, fra i tasti di un telefono e perfino nei cubi perché li si poteva sviluppare su un piano orizzontale:
il che gli permetteva di includere dadi, valigie, contenitori di uova e naturalmente il cubo di Rubik posato sulla scrivania del dottor Wilensky, proprio di fianco al portamatite cubico di lucite. Nico sapeva che i simboli sono sempre segni. I dottori gli avevano proibito di disegnare croci, di incidere croci, di scarabocchiare croci sul bordo di gomma delle sue scarpe da ginnastica quan-
do pensava che nessuno lo guardasse. Se voleva i privilegi postali, doveva mostrare loro qualche progresso. Gli ci vollero comunque sei anni. Ma adesso aveva quello che desiderava. Proprio come avevano promesso i Tre. Era una delle poche verità, oltre a Dio. I Tre mantenevano le loro promesse... anche all'inizio, quando l'avevano coinvolto. Non aveva niente, allora. Neanche le sue medaglie, che si erano perse - rubate! - al dormitorio. I Tre non avevano potuto ridargliele, ma gli avevano dato molto altro. Gli avevano mostrato una via d'uscita. Gli avevano fatto vedere quello che nessun altro vedeva. Dov'era Dio. E dove si nascondeva il diavolo. In attesa. Da quasi duecento anni era lì, infilato nell'unico posto in cui gli Uomini M speravano che la gente non guardasse, proprio davanti ai suoi occhi. Ma i Tre avevano guardato. Avevano fatto ricerche. E avevano trovato la porta del diavolo. Proprio come diceva la Bibbia. Allora Nico aveva fatto la sua parte. Come un figlio che serve sua madre. Come un soldato che serve il proprio paese. Come un angelo che fa la volontà di Dio. In cambio, Nico doveva solo aspettare. I Tre gliel'avevano detto il giorno in cui aveva premuto il grilletto. La redenzione stava per arrivare. Doveva solo aspettare. Erano passati otto anni. Niente, in confronto alla salvezza eterna. Solo nel bagno, Nico chiuse l'asse del gabinetto e si inginocchiò per dire una preghiera. Le sue labbra pronunciavano le parole. La sua testa oscillava leggermente... sedici volte... sempre sedici. Poi chiuse l'occhio sinistro sulla parola amen. Stringendo bene la punta delle dita, si strappò un pelo dal ciglio dell'occhio chiuso. Poi un altro. Sempre in ginocchio, prese i due peli e li mise sulla superficie bianca e fredda dell'asse del gabinetto. La superficie doveva essere bianca, altrimenti non sarebbe riuscito a vedere. Strofinò l'unghia del dito indice contro lo stucco del pavimento per renderla affilata e appuntita. Chinandosi come un bambino che studi una formica, con la punta dell'unghia sistemò i due peli. Ciò che i dottori gli toglievano, poteva sempre riprocurarselo. Come dicevano i Tre, tutto era dentro di lui. Come faceva ogni mattina, lentamente, dolcemente, Nico diede un colpetto millimetrico per l'ennesima dimostrazione. Ecco. Un pelo perfettamente perpendicolare all'altro. Una minuscola croce. Un sorriso sottile spuntò sulle sue labbra, e incominciò a pregare. 7
Palm Beach, Florida «Vedi quella vecchia rossa sulla Mercedes?» mi fa Rogo, indicando attraverso il finestrino la macchina nuova fiammante accanto alla nostra. Io guardo appena in tempo per vedere una donna sui cinquant'anni coi capelli rossi, un lifting che le congela la faccia e un cappello di paglia altrettanto rigido (e molto più alla moda) che probabilmente costa come la mia misera e vecchia Toyota. «Preferirebbe morire piuttosto che telefonare», aggiunge. Non rispondo. Ma lui non si scoraggia. «Quel tizio in crisi di mezza età, invece?» continua indicando un uomo pelato su una Porsche che ci supera. «Quello mi chiamerà appena prende la multa.» È il gioco preferito di Rogo: andare in giro in macchina e cercare di indovinare i potenziali clienti. Essendo il meno conosciuto, ma il più aggressivo avvocato specializzato in multe per eccesso di velocità a Palm Beach, Rogo è l'uomo da chiamare in caso di infrazione. Mio coinquilino e mio migliore amico da quando avevo quattordici anni - si era trasferito a Miami con sua madre dall'Alabama - è anche l'unica persona che conosco che ami il suo lavoro più del presidente. «Ohhh, e quella ragazza laggiù?» chiede avvicinandosi alla sedicenne con le bretelle che guida una Jeep Cherokee nuova di zecca due corsie più in là. «È il cacio sui miei maccheroni!» insiste Rogo, imitando l'accento del sud. «Macchina nuova e bretelle? Ciuf ciuf... ecco il trenino della cuccagna!» Mi dà una pacca sulla spalla come se stessimo guardando un rodeo. «Già», sussurro mentre l'auto sale la leggera rampa del Royal Park Bridge che attraversa l'Intercoastal Waterway. A destra e a sinistra, il sole del mattino si riflette sulle onde. Il ponte mette in comunicazione il quartiere popolare di West Palm Beach e il paradiso dei milionari noto come Palm Beach. E mentre le ruote della macchina vibrano e noi scendiamo dall'altra parte, il popoloso Okeechobee Boulevard, pieno di fast food, lascia il posto al curatissimo Royal Palm Way, coi suoi filari di palme. È come uscire da un'autostrada ed entrare nel Regno di Oz. «Ti senti ricco? Io mi sento un dollaro d'argento!» continua Rogo, osservando il contesto. «Ripeto: già!» «Non diventare sarcastico», minaccia lui. «Se non fai il simpatico, non ti permetto di accompagnarmi al lavoro tutta la settimana prossima, mentre
la mia auto è dal meccanico.» «Avevi detto che ci sarebbe rimasta per un giorno solo!» «Ah, i negoziati continuano.» Prima che possa ribattere, corregge il suo giudizio sulla ragazza con le bretelle che è proprio davanti a noi. «Aspetta, ho paura che non sia più una potenziale cliente!» grida abbassando il finestrino. «Wendy!» urla, e si sporge suonando il mio clacson. «Non fare così», dico cercando di spostargli la mano. Quando avevamo quattordici anni, Rogo era basso. Adesso, a ventinove, è diventato anche grasso e pelato. E forte. Non riesco a spostarlo. «Bretellina!» grida continuando a suonare. «Ehi, Wendy, sei tu?» Finalmente lei si gira e abbassa il suo finestrino, sforzandosi di tenere d'occhio la strada. «Ti chiami Wendy?» urla Rogo. «No», risponde lei. «Maggie!» Rogo sembra ferito dal proprio errore. Ma non dura mai molto. Ha un sorriso come il cane di un macellaio. «Be', se prendi una multa per eccesso di velocità, guarda su downwithtickets.com!» Rialza il finestrino, si gratta il gomito e si sistema le palle, contento di sé. È il vecchio Rogo; quando ha finito, non ricordo neppure perché stavamo litigando. È lo stesso modo in cui si è fatto strada nella professione legale. Dopo avere fallito due volte l'ammissione a legge, per il terzo tentativo volò in Israele. Senza essere neppure lontanamente ebreo, aveva sentito dire che in Israele avevano una concezione più elastica dell'esame a tempo. «Ancora venti minuti? Be', non muore mica nessuno, no?» ripeté per un mese, imitando l'accento israeliano del suo procuratore. E grazie a quei venti minuti, finalmente ottenne il punteggio per entrare alla facoltà di giurisprudenza. Così, mentre si apriva uno spazio nel settore delle multe e per la prima volta aveva dei soldi in tasca, l'ultima cosa che gli serviva era un coinquilino noioso che gli procurasse dei problemi con l'affitto da pagare. A quel tempo, la mia unica prospettiva di lavoro era stare col presidente, che, dopo la Casa Bianca, si era trasferito a P.B. P.B. è il modo in cui i locali chiamano Palm Beach: «Staremo a P.B. tutto l'inverno», dicono per esempio. Io abitavo coi miei genitori a Boca Raton, non potevo permettermi la zona lussuosa vicino alla residenza del presidente. Dividendo la stanza, però, avrei potuto almeno restare più vicino. Era subito dopo l'attentato. Le cicatrici sulla mia faccia erano ancora violacee. I quattordici anni erano passati da un pezzo. Rogo non ebbe la minima esitazione.
«Ancora non mi spiego perché devi rientrare così presto», continua sbadigliando. «Sono appena le sette. Sei tornato dalla Malaysia solo ieri sera.» «Il presidente...» «...si alza presto... è l'uomo migliore del mondo... e naturalmente guarisce gli ammalati mentre cucina un pranzo da sei portate. So come funziona il culto, Wes.» Indica dal finestrino un'auto della polizia nascosta due isolati più avanti. «Attento, c'è una trappola.» Poi riprende subito il discorso: «Dico solo che dovrebbe lasciarti dormire di più.» «Non ho bisogno di dormire di più. Sto bene. E, en passant, non è un culto.» «Primo, è un culto. Secondo, non dire en passant. Mia madre dice en passant. E tua madre.» «Questo non significa che sia un culto», ribatto. «Davvero? Quindi è normale che quasi otto anni dopo avere lasciato la Casa Bianca tu stia ancora lavorando come se fossi un dipendente qualsiasi? Che fine ha fatto la scuola, o quel posto da coordinatore, o il cuoco che minacciavi di diventare qualche anno fa? Ti piace ancora il tuo lavoro, o resti lì solo perché è sicuro e ti senti protetto?» «Facciamo del bene alla comunità, più di quanto ne abbia mai fatto tu.» «Sì, se fossi capo di gabinetto. Ma tu passi metà del tuo tempo a chiederti se nell'insalata preferisce la lattuga o la valeriana!» Mi aggrappo al volante e guardo fisso davanti a me. Non capisce. «Non fare così!» dice Rogo. «Non trattenere la tua devozione per Manning. Ti ho appena attaccato, devi controbattere!» Nella sua voce c'è un'asprezza che di solito riserva alla polizia stradale. Si sta arrabbiando, che nel caso di Rogo non significa molto. Alle superiori, lui era il tipo che buttava all'aria le carte quando perdeva a Monopoli... e gettava via la racchetta da tennis quando sbagliava un colpo. Allora, quel carattere lo portava a trovarsi coinvolto in molte risse, cosa peggiorata dal fatto che non aveva il fisico adatto a sostenerle. Rogo dichiara di essere alto 1,70. È al massimo 1,65. «Sai benissimo che ho ragione, Wes. C'è qualcosa che non va dentro di te, quando dedichi tutta la tua vita a una sola persona. Mi ascolti?» Sarà anche l'amico stupido più geniale che ho, ma stavolta si sbaglia. Il mio silenzio non è segno di acquiescenza. È segno che sto ripensando a Boyle che mi guarda con i suoi occhi castani e azzurri. Forse se ne parlassi a Rogo... Il cellulare mi vibra nella tasca. A quest'ora del mattino, non possono
che essere cattive notizie. Lo apro e controllo il numero sullo schermo. Mi sbagliavo. È la cavalleria. «Sono Wes», dico rispondendo. «Possiamo parlare?» chiede Dreidel dall'altra parte. Do un'occhiata a Rogo, che è tornato a cacciare potenziali clienti. «Lascia che ti richiami.» «Non importa. Che ne dici di fare colazione insieme?» «Sei in città?» chiedo, confuso. «Solo per una rapida riunione. Ho tentato di dirtelo quando mi hai chiamato dalla Malaysia, ma eri in preda al panico», sottolinea con la sua solita calma. «Allora, per la colazione?» «Dammi un'ora. Devo risolvere un problema di lavoro.» «Perfetto. Io sono al Four Seasons. Chiamami dall'atrio. Stanza 415.» Chiudo il cellulare e per la prima volta mi godo la sfilata di palme. Oggi la giornata è diventata improvvisamente bella. 8 Miami, Florida O'Shea aveva con sé due passaporti. Entrambi legali. Entrambi con lo stesso nome e indirizzo. Uno era blu, uguale a quello di tutti i cittadini degli Stati Uniti. L'altro era rosso... e molto più potente. Solo per diplomatici. Toccando le lettere in rilievo dei passaporti nel taschino, O'Shea riusciva a capire che quello rosso era davanti. Con un gesto del polso, poteva facilmente tirarlo fuori. E quando gli agenti dell'aeroporto l'avessero visto, non sarebbe più stato bloccato nella fila della dogana che si snodava nei corridoi in fondo al Miami International Airport. Dopo il volo di nove ore e mezzo da Parigi alla Florida, sarebbe passato subito avanti. Bastava un gesto del polso, e sarebbe stato libero. Naturalmente, avrebbe anche lasciato una traccia nei documenti che accompagnavano ovunque il passaggio dei passaporti rossi. E come gli avevano insegnato all'FBI, tutte le tracce alla fine venivano seguite. Nella maggior parte dei casi, comunque, quella traccia sarebbe stata accettabile. Ma in questo... fra Boyle, i Tre, tutto quello che avevano fatto... non valeva la pena di correre rischi. La posta era troppo alta. «Il prossimo!» Un impiegato latinoamericano chiamò con un cenno O'Shea allo sportello antiproiettile.
O'Shea si sistemò il cappellino da baseball degli U.S. Open che si era messo per confondersi. I suoi capelli biondo sabbia spuntavano comunque, coi loro riccioli. «Come va?» chiese sapendo che le chiacchiere avrebbero spinto l'impiegato a non guardarlo negli occhi. «Bene», rispose l'impiegato tenendo la testa bassa. O'Shea tirò fuori il passaporto blu e lo porse all'impiegato. Senza alcuna ragione, quest'ultimo alzò la testa. O'Shea aveva pronto un sorriso tranquillizzante. Come al solito, l'impiegato sorrise subito a sua volta. «Torna da un viaggio di lavoro?» chiese. «No, per mia fortuna da una vacanza.» Annuendo fra sé, l'impiegato studiò il passaporto. Lo inclinò anche leggermente, per osservare gli ologrammi che da qualche tempo avevano aggiunto per rendere più difficili le falsificazioni. O'Shea si sistemò il cappellino degli U.S. Open. Se avesse tirato fuori il passaporto rosso, non sarebbe stato lì. «Buon viaggio», disse l'impiegato timbrando il passaporto e ridandoglielo. «E bentornato a casa.» «Grazie», rispose O'Shea, rimettendosi il passaporto nel taschino. Proprio di fianco al suo badge dell'FBI. Un minuto più tardi, oltrepassava il ritiro bagagli e si dirigeva verso l'uscita con la scritta NIENTE DA DICHIARARE. Quando il suo piede premette il meccanismo sotto il pavimento, due porte di vetro smerigliato si aprirono, rivelando una folla di amici e parenti in attesa dei loro cari contro le barriere di metallo, a dispetto dell'orario mattutino. Due ragazzine saltellarono, poi si afflosciarono accorgendosi che O'Shea non era il loro papà. Lui non se ne accorse. Era troppo occupato a fare un numero sul suo cellulare. Il suo socio rispose al terzo squillo. «Bentornato, bentornato», disse Micah quando finalmente rispose. Dal ronzio di sottofondo, sembrava che fosse in macchina. «Dimmi che sei a Palm Beach», disse O'Shea. «Sono arrivato stanotte. È bello, qui. Piacevole. Sai che hanno messo delle fontanelle sui marciapiedi, per i cagnolini viziati?» «Cosa mi dici di Wes?» «Tre macchine davanti a me», disse Micah mentre il ronzio continuava. «Ha attraversato il ponte tre minuti fa con il suo coinquilino.» «Immagino che non ti abbia ancora visto?» «Hai detto di aspettare...» «Esatto», replicò O'Shea uscendo dall'aeroporto e notando il cartello con
su scritto a mano il suo nome. L'autista privato lo salutò con un cenno e fece l'atto di prendere il piccolo bagaglio nero che portava. O'Shea lo bloccò e si diresse alla macchina, senza staccare il telefono dall'orecchio. «Il coinquilino sta scendendo in questo momento», disse Micah. «Sembra che Wes sia diretto al lavoro.» «Resta con lui», rispose O'Shea. «Io arrivo appena posso.» 9 Washington, D.C. Il telefono stridette nel piccolo ufficio, ma lui non rispose. Neanche al secondo squillo. Sapeva chi era - su quella linea, poteva essere solo una persona - ma rimase ancora immobile. Voleva esserne sicuro. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, Roland Egen studiò lo schermo digitale del suo telefono, in attesa che comparisse un'identificazione. Vennero fuori delle lettere nere: UFFICI DI LELAND MANNING. «Siamo mattinieri», disse il Romano portandosi la cornetta all'orecchio. Aveva la pelle rosea, gli occhi azzurro chiaro e un ciuffo di capelli neri. Nero irlandese, lo definivano i suoi compagni di pesca. Ma mai davanti a lui. «Hai detto che non doveva esserci nessun altro.» Il Romano annuì fra sé. Finalmente qualcuno che seguiva le indicazioni. «Quindi il presidente non è ancora arrivato?» «È in strada. Dorme fino a tardi dopo i viaggi notturni.» «E la First Lady?» «Ti dico che non c'è nessuno. Possiamo sbrigarci? Può arrivare qualcuno da un momento all'altro.» Seduto alla scrivania, il Romano guardò fuori della finestra e osservò la neve leggera che cadeva nel cielo mattutino. In Florida potevano esserci venti gradi, ma nel D.C. l'inverno stava vibrando i primi colpi. Pazienza. Quand'era un bambino, sua nonna gli aveva insegnato ad apprezzare il silenzio che accompagna il freddo. E suo nonno gli aveva insegnato ad amare la calma delle acque del Potomac. Come sapevano bene tutti i pescatori, l'inverno allontanava gli sciatori d'acqua e i barcaioli della domenica. Era sempre la stagione migliore per buttare in acqua la lenza. Soprattutto se si aveva l'esca giusta. «Cosa mi dici di Wes?» chiese il Romano. «Hai tutto quello che ti ho
mandato?» «Sì... ce l'ho qui...» Percepì l'esitazione nella voce all'altro capo della linea. A nessuno piaceva fare la parte del cattivo, soprattutto in politica. «E hai trovato un posto dove metterlo?» «Abbiamo un... Per questo sono qui a quest'ora. Abbiamo una spilla da bavero...» «Puoi fargliela indossare...» «Io, io credo di sì.» «Non era una domanda. Fagliela indossare», ribatté il Romano. «Sei sicuro che Wes arriverà?» chiese la voce. «Gli agenti hanno detto che è stato da cani per tutto il viaggio di ritorno. Ha vomitato l'anima sui pantaloni.» Fuori, una macchia di azzurro si aprì nel cielo grigio e stanco. «Non mi sorprende», disse il Romano mentre la neve continuava a cadere. «Se fossi nei suoi panni in questo momento, anch'io mi starei rovinando i pantaloni. A proposito di quella spilla...» «Non preoccuparti», disse il socio. «Wes non sospetterà niente... soprattutto se gli viene data da una faccia amica.» 10 Palm Beach, Florida «Aspetti!» grido aggirando di corsa l'angolo dell'atrio diretto all'ascensore che si sta chiudendo. Nell'ascensore, una donna bionda guarda altrove, fingendo di non avermi sentito. Per questo odio Palm Beach. Proprio quando le porte stanno per toccarsi, faccio un salto e mi infilo dentro. Bloccata in mia compagnia, la bionda si gira verso la pulsantiera e finge di cercare l'apertura porte. Dovrei smascherarla. «Grazie», dico invece, piegato in due per riprendere fiato. «Che piano?» «Quattro.» «Oh, lei è con...» «Sì», rispondo, alzando finalmente la testa per guardarla. Mi fissa la faccia, poi rapidamente si mette a guardare i numeri elettronici che indicano i piani. Se potesse scappare urlando: «Un mostro!» lo farebbe. Ma, come tutte le migliori signore di Palm Beach, passerebbe sopra
a qualsiasi cosa, per salire nella scala sociale. «Dev'essere straordinario lavorare per lui», aggiunge la mia nuova amica, pur rifiutandosi di guardarmi negli occhi. Ci sono abituato, ormai. Sono due anni che non ho un appuntamento. Ma tutte le belle ragazze vogliono parlare col presidente. «Più di quanto lei creda», dico mentre le porte si aprono al quarto piano. Vado a sinistra, verso una doppia porta chiusa, correndo il più velocemente possibile. Non per la bionda, ma perché sono già... «In ritardo!» mi rimprovera una voce roca alle mie spalle. Mi giro verso le doppie porte della suite dei Servizi segreti, dove un uomo col collo grosso come la mia coscia è seduto dietro a una lastra di vetro simile a quella di uno sportello bancario. «Quanto in ritardo?» chiedo girandomi verso le porte chiuse all'altra estremità del corridoio rivestito di moquette beige. A parte quelle dei Servizi, sono le sole porte del piano che non sono di quercia massiccia. Sono nere con il bordo metallico. Blindate. Come le finestre. «Quanto basta», risponde l'agente mentre tiro fuori di tasca il mio badge identificativo. Ma proprio mentre sto per passarlo nel lettore sento uno scatto sommesso e le porte si aprono. «Grazie, A.J.!» grido aprendole. Dentro, guardo sulla sinistra cercando l'agente che di solito è lì di guardia. Non c'è, il che vuol dire che il presidente non è ancora arrivato. Bene. Controllo alla reception. Anche l'addetta alla reception è assente. Male. Merda. Questo vuol dire che hanno già... Supero di corsa l'enorme sigillo presidenziale che decora il tappeto blu, svolto a sinistra, nel corridoio pieno di brutti quadri e di misere sculture del presidente. Ne arrivano ogni giorno, da quando abbiamo lasciato l'incarico, da estranei, fan, sostenitori. Disegnano, dipingono, schizzano, scolpiscono, sempre lui, in tutte le forme possibili. Gli ultimi sono un set di stuzzicadenti della Florida col suo profilo inciso in ciascuno di essi; e una ceramica gialla che rappresenta il sole, con la sua faccia in mezzo. E tralascio le cose mandate dalle aziende: ogni cd, ogni libro, ogni dvd che producono, vogliono che l'ex presidente ne abbia una copia, anche se l'unica cosa che facciamo è rispedire tutto alla Presidential Library. Urto un bastone da passeggio con le foto dei suoi figli incollate sopra, percorro il corridoio e arrivo al penultimo ufficio, che è... «Grazie per esserti unito a noi», annuncia una roca voce femminile mentre tutti si girano al mio arrivo. Faccio un rapido conto per verificare se sono l'ultimo... due, tre, quattro, cinque...
«Sei l'ultimo», conferma Claudia Pacheco, il nostro capo di gabinetto, riappoggiandosi allo schienale dietro alla sua disordinata scrivania di mogano. Claudia ha capelli castani, tendenti al grigio, tenuti fermi in una crocchia quasi militaresca, e labbra da fumatrice che rivelano l'origine della sua voce roca. «Il presidente è con te?» chiede. Scuoto la testa, rinunciando all'unica scusa per il mio ritardo. Con la coda dell'occhio scorgo Bev e Oren che sogghignano. Sempre peggio. Entrambi occhieggiano la spilla da bavero posata su un angolo della scrivania di Claudia. D'oro, con la forma della Casa Bianca, la spilla non era più grande di un albergo del Monopoli, ma ciò che la rendeva indimenticabile erano le due teste, sommariamente scolpite, del presidente e della First Lady, affiancate e unite da un orecchio, a mo' di pendenti. Il presidente l'ha comprata a Claudia anni fa, come regalo scherzoso, da un venditore ambulante in Cina. Oggi fa parte dei suoi ricordi della Casa Bianca: chi arriva per ultimo al meeting del lunedì mattina indossa la spilla per il resto della settimana. Se si perde il meeting, la indossa per un mese intero. Ma, con mia sorpresa, Claudia non prende la spilla. «Cosa ci dici a proposito dell'irruzione dietro al palcoscenico?» chiede con il suo forte accento del Massachusetts. «Irruzione?» «In Malaysia... quel tizio nel camerino del presidente... il tavolino di vetro rotto... Parlo spagnolo?» Al liceo, Claudia era la ragazza che organizzava tutti gli avvenimenti extracurricolari, ma non se ne godeva neanche uno. Idem quando dirigeva le operazioni della Studio Ovale, uno dei lavori più ingrati della Casa Bianca. Non le interessano i ringraziamenti o la gloria. La sua è una missione. E vuole che sia tale anche per noi. «No... certo...» balbetto. «Ma non è stata... Non è stata un'irruzione.» «Il rapporto non dice così.» «Vi hanno mandato un rapporto?» «Ci hanno mandato tutto», dice Bev dal divanetto a due posti perpendicolare alla scrivania di Claudia. Lo saprà bene, lei, essendo responsabile della corrispondenza, risponde a tutte le lettere personali del presidente e sa perfino quali battute mettere nei biglietti d'auguri per gli amici. Per un uomo con qualcosa come diecimila «amici», è un compito più difficile di quel che sembra, e Bev se la cava bene solo perché sta col presidente dai tempi della sua prima campagna per il Congresso, venticinque anni fa. «E la chiamano irruzione?» domando.
Claudia alza il rapporto mentre Bev prende la spilla da bavero sull'angolo della scrivania. «Irruzione», dice Claudia sottolineando la parola. Guardo la spilla mentre Bev ci giocherella, facendo passare il pollice sulle facce del presidente e della First Lady. «C'era qualcosa che meritava di essere rubato nel camerino?» chiede Bev, tirandosi i capelli tinti di nero dietro le spalle e scoprendo un maglione con lo scollo a V che mette in mostra il seno rifatto. Bev se l'è procurato, insieme al soprannome di Tettona, l'anno in cui abbiamo vinto la Casa Bianca. Al liceo, era considerata la ragazza col viso più bello, e ancora adesso, a sessantadue anni, è chiaro che per lei l'aspetto è importante. «Nessuno ha rubato nien... Fidatevi, non è stata un'irruzione», dico alzando gli occhi al cielo per sdrammatizzare. «Quel tizio era ubriaco. Pensava di essere in bagno.» «E il tavolino rotto?» chiede Claudia. «Per fortuna si è rotto e basta. Pensate se l'avesse scambiato per un cesso!» interviene Oren, già ridendo della sua battuta e grattandosi la barba appena sistemata. Alto 1,95, Oren è il gay più slanciato, bello e con l'aria da duro che io abbia mai incontrato, e l'unico coetaneo che ho nell'ufficio. Dal fatto che è seduto proprio di fronte alla scrivania di Claudia, è chiaro che è stato il primo ad arrivare. Niente di strano. Se Bev aveva il viso più bello, Oren era il ragazzo intelligente che manda quelli stupidi a comprare la birra. Istigatore nato, nonché responsabile dei viaggi, aveva anche il tocco diplomatico più fine di tutto l'ufficio, ed è per questo che, grazie a una semplice battuta, tutti dimenticano di occuparsi del tavolino. Gli faccio un cenno di ringraziamento e... «E il tavolino?» chiede Bev, continuando a giocherellare con la spilla. «Sono stato io», dico in tono troppo difensivo. «Leggete il rapporto: sono inciampato mentre lui scappava.» «Wes, rilassati», dice Claudia con la voce monotona da capo di gabinetto. «Nessuno ti sta accusando di...» «Dico solo... se pensassi che è stata una cosa seria, starei ancora dando la caccia a quel tizio. Anche i Servizi pensano che fosse solo un vagabondo.» Sulla mia sinistra, Oren, scherzando, si tocca il bavero, sperando che io non me ne accorga. Sta cercando di attirare l'attenzione di Bev, facendole dei cenni. Lui ha indossato la spilla una sola volta, il giorno che gli ho detto: «Aspetta nel tuo ufficio, il presidente vuole vederti.» Il presidente non era neanche nel palazzo. È stato uno stupido scherzo. Adesso si vendica come un ragazzino. Fa di nuovo cenno a Bev. Per mia fortuna, lei non
lo nota. «Sentite, mi dispiace dirlo, ma abbiamo finito?» chiedo guardando l'orologio e accorgendomi di essere già in ritardo. «Il presidente vuole che...» «Vai, vai», dice Claudia chiudendo la sua agenda. «Fammi solo un piacere, Wes. All'incontro di stasera per la fibrosi cistica, so che stai sempre attento, ma dopo quell'irruzione...» «Non è stata un'irruzione.» «...tieni gli occhi un po' più aperti, d'accordo?» «Lo faccio sempre», ribatto correndo verso la porta e sfuggendo per un pelo a... «E la spilla?» interviene una voce roca dal solito angolo in fondo. «Aaaah sei fregato», dice Oren. «Luce rossa, luce rossa!» grida Claudia. È la stessa cosa che dice ai suoi figli. Mi blocco. «Grazie, B.B.» aggiunge. «Faccio solo il mio dovere», dice B.B. Le parole gli colano di bocca con la lenta cantilena del Sud. Con il suo ciuffo di capelli bianchi scompigliati e la camicia spiegazzata con i monogrammi scoloriti del presidente sui polsini, B.B. Shaye è al fianco del presidente da più tempo della First Lady. Alcuni dicono che è un lontano cugino del presidente... altri che è un vecchio sergente rimbambito del Vietnam. In ogni caso, è l'ombra del presidente da quasi quarant'anni e, come tutte le ombre, diventa inquietante se lo si guarda troppo a lungo. «Scusa, ragazzo», dice con un sorriso giallastro mentre Bev mi porge la Casa Bianca d'oro con le teste pendenti. Per aggiungere un tocco di verosimiglianza, lo scultore ha usato due schegge di lustrino verde per gli occhi del presidente. Siccome i lustrini marroni sono più difficili da trovare, gli occhi della First Lady sono vuoti. «Dì a tutti che sono i tuoi nipotini», suggerisce Oren mentre mi fisso la spilla sul bavero. Premo troppo forte e sento una puntura sul dito. Spunta una goccia di sangue. Ho sopportato di peggio. «A proposito, Wes», aggiunge Claudia. «Uno dei curatori della biblioteca ha chiesto di parlarti per una mostra a cui sta lavorando, perciò sii gentile quando ti telefona...» «Se avete bisogno di me, cercatemi sul cellulare!» dico con un cenno di saluto, e corro alla porta leccandomi la goccia di sangue sul dito. «Attento», mi grida dietro B.B. «Sono le piccole cose che ti uccidono!» Ha ragione. In corridoio supero un grande ritratto del presidente Manning vestito da domatore di circo. Dreidel ha detto che aveva notizie di Boyle. È ora di scoprire quali sono.
11 «Bentornato, signor Holloway», dice il portiere del Four Seasons, che conosce il mio nome a causa delle innumerevoli visite fatte col presidente. Al contrario di molte altre persone, mi guarda direttamente negli occhi. Lo ringrazio con un cenno, solo per questo. Entrando nell'albergo, una ventata di aria condizionata mi avvolge. Non più abituato, mi guardo alle spalle in cerca del presidente. Non c'è. Sono solo. Attraversando il pavimento di marmo beige dell'atrio, sento il cuore che mi batte nel petto. Non si tratta solo di Boyle. In un modo o nell'altro, Dreidel mi ha sempre fatto questo effetto. In quanto assistente di Manning, Gavin «Dreidel» Jeffer non è solo il mio predecessore, è anche quello che mi ha fatto notare al presidente e mi ha raccomandato per il posto. Quando ci siamo conosciuti, una decina di anni fa, io ero un volontario diciannovenne impegnato nella campagna in Florida, rispondevo alle telefonate e mettevo cartelli pubblicitari nei giardini. Dreidel aveva ventidue anni ed era il braccio destro e anche il braccio sinistro di Manning. Gli dissi che conoscerlo era un onore. E lo pensavo davvero. La sua storia era nota a tutti. Durante la campagna per le primarie, Dreidel era semplicemente un giovane che sistemava le sedie per la prima fase del dibattito. Come qualsiasi altro aiutante, quando lo spettacolo era finito tentava di avvicinarsi al cuore dell'azione intrufolandosi dietro il palco. Si trovò così al centro di una stanza in cui i migliori bugiardi d'America le sparavano grosse spiegando perché i loro candidati avevano appena vinto. Con la sua camicia troppo larga, lui era l'unico ragazzo silenzioso in una stanza piena di adulti ciarlieri. L'inviato della CBS lo individuò subito e gli mise un microfono davanti al naso. «Che cosa ne pensi, figliolo?» gli chiese. Dreidel guardò la luce rossa della telecamera senza scomporsi, con la bocca aperta. E senza neanche pensarci, diede l'onesta risposta che doveva cambiargli la vita: «Alla fine, Manning è stato l'unico che non ha chiesto ai suoi: "Come sono andato?"». Questa domanda diventò lo slogan di Manning nel successivo anno e mezzo. Tutte le reti d'informazione trasmisero l'intervista. Tutti i giornali più importanti citarono la frase. Distribuirono perfino delle spillette con su scritto Come sono andato?
Tre parole. Quando Dreidel raccontò la storia al suo matrimonio, qualche anno fa, disse di non aver capito cos'era successo finché il giornalista non gli chiese di dire il suo nome. Non aveva importanza. Tre parole e Dreidel - il piccolo contastorie ebreo, come lo ribattezzò l'ufficio stampa della Casa Bianca - era nato. Una settimana più tardi, Manning gli offrì un posto come segretario particolare e per tutta la campagna centinaia di giovani volontari alzarono gli occhi al cielo. Non per gelosia, ma... Forse era il suo sorriso soddisfatto, o la facilità con cui si inseriva in qualsiasi ambiente, ma a scuola Dreidel era il ragazzo con la festa di compleanno più bella, con i regali più belli e con i ricordi più belli per chi aveva la fortuna di essere invitato. Per qualche anno, tutto questo lo rende in, ma quando l'arroganza prende il sopravvento lui non si rende nemmeno conto di essere out. Comunque, Dreidel è sempre stato il portafortuna di Manning. E oggi spero che sia il mio. «Buongiorno, signor Holloway», mi saluta il portiere mentre lo oltrepasso diretto agli ascensori. È la seconda persona che conosce il mio nome, cosa che mi ricorda la necessità della discrezione. Naturalmente, è per questo che ho chiamato Dreidel. Il presidente non lo ammetterebbe mai, ma io so perché è andato insieme alla First Lady al matrimonio di Dreidel e ha scritto la raccomandazione per la facoltà di legge a Yale, e perché mi ha chiesto di scegliere un regalo quando è nata la figlia di Dreidel: sono le ricompense per anni di onorato servizio. E alla Casa Bianca onorato servizio vuol dire tenere la bocca chiusa. Quando le porte dell'ascensore si aprono al quarto piano, seguo i cartelli indicatori e conto i numeri delle stanze: 405... 407... 409... Dalla distanza fra una porta e l'altra, capisco che queste sono tutte suite. Dreidel sta facendo carriera. Il corridoio termina con la stanza 415, una suite talmente grande che sulla porta c'è un campanello. Non ho nessuna intenzione di dargli la soddisfazione di suonarlo. «Servizio», annuncio battendo con le nocche sulla porta. Nessuno risponde. «Dreidel, ci sei?» chiedo. Ancora nessuna risposta. «Sono io, Wes!», grido finalmente, rinunciando e suonando il campanello. «Dreidel, sei...?» Sento un tonfo sordo quando la serratura scatta. Poi un rumore metalli-
co. Ha messo anche la catenella. «Aspetta», dice. «Arrivo.» «Cosa stai facendo? La manicure?» La porta si socchiude, ma solo di pochi centimetri. Dall'altra parte, Dreidel sporge la testa come una casalinga ansiosa, sorpresa da un venditore. I suoi capelli, solitamente ben pettinati, sono leggermente in disordine, con ciuffi giovanili sulla fronte. Si spinge gli occhiali rotondi di metallo sul naso sottile. Dal poco che vedo, non indossa la camicia. «Non offenderti, ma non ho intenzione di fare sesso con te», dico ridendo. «Ti avevo detto di chiamare da giù», ribatte. «Perché te la prendi tanto? Pensavo che ti avrebbe fatto piacere esibire la tua grossa stanza e...» «Sto parlando seriamente, Wes. Perché sei venuto qui?» C'è uno strano tono nella sua voce. Non solo fastidio. Paura. «Ti ha seguito qualcuno?» aggiunge aprendo la porta un po' di più per controllare il corridoio. Ha un asciugamano intorno ai fianchi. «Dreidel, va tutto...?» «Ti avevo detto di chiamare da giù!» insiste. Faccio un passo indietro, completamente confuso. «Amore», dice una voce femminile da dentro la stanza, «va tutto...?» La donna si ferma a metà della frase. Dreidel si gira e la scorgo alle sue spalle, che si nasconde dietro l'angolo. Indossa uno dei morbidissimi accappatoi dell'albergo; è una afroamericana magra, con splendide treccine. Non ho idea di chi sia, ma di una cosa sono sicuro, non è la moglie di Dreidel, né la sua bambina di due anni. Il volto di Dreidel si affloscia vedendo la mia reazione. A questo punto dovrebbe dire che non è come sembra. «Wes, non è come pensi.» Guardo la donna con l'accappatoio. E Dreidel con il suo asciugamano. «Forse dovrei... Vado giù», balbetto. «Ti raggiungo fra due minuti.» Faccio un passo indietro e studio la donna, ancora immobile. I suoi occhi sono spalancati, in una silenziosa espressione di scusa. 12 «Dov'è adesso?» chiese O'Shea, appoggiando la mano al finestrino della
macchina nera e sentendo il calore del sole della Florida. In Francia si gelava. Ma per qualche motivo, a dispetto del caldo di Palm Beach e del cielo limpido, lui non riusciva a scaldarsi. «Ha appena preso l'ascensore per salire in albergo», rispose Micah. «Ascensore? E l'hai lasciato andare da solo?» «Non potevo saltare dentro con lui. Rilassati, sono solo quattro piani. Non andrà lontano.» O'Shea si passò la lingua all'interno della guancia. «Che cosa ci fai ancora nell'atrio, allora?» «Sto aspettando che uno dei...» Attraverso il telefono, O'Shea sentì un leggero tintinnio, seguito da un rombo sordo. L'ascensore di Micah era arrivato. «Lo raggiungo in...» La voce svanì. Ma dal rumore di fondo O'Shea capì che era sempre in linea. «Micah, cos'è successo?» chiese. Nessuna risposta. «Tutto bene?» Ci fu un altro rombo sordo. Le porte dell'ascensore che si chiudevano. Poi una specie di strofinio. Come due giacche a vento sfregate l'una contro l'altra. Micah si stava muovendo. Lo strofinio continuò. Con quel passo, chiaramente non poteva trovarsi in ascensore, pensò O'Shea. Ma se non era nell'ascensore, allora... «Wes è appena uscito, giusto?» chiese O'Shea mentre la sua auto svoltava bruscamente in un viottolo ben tenuto. «Niente male, Watson», sussurrò Micah. «Dovresti farlo di professione.» «C'è qualcuno con lui?» «No, è solo», rispose. «Ma è successo qualcosa, lassù. Il ragazzo ha la coda fra le gambe. Come se l'avessero scaricato.» «Sta uscendo dall'albergo?» «Non ancora. È diretto al ristorante sul retro. Ti dico che ha davvero un'aria terribile... Cioè, a parte quei segni da Frankenstein sulla faccia.» «Peccato», disse O'Shea mentre la sua auto entrava nel vialetto di accesso davanti al portone. «Perché la sua giornata peggiorerà ancora, e parecchio.» Sulla sua destra, la portiera dell'auto si spalancò e un ragazzo con i capelli biondi lo salutò portandosi la mano alla visiera. «Benvenuto al Four Seasons, signore. Si ferma da noi oggi?» «No», disse O'Shea scendendo. «Prendo solo qualcosa per colazione.»
13 Chinato in avanti sulla mia grossa poltrona di vimini, mescolo il caffè con un cucchiaino d'argento e guardo incantato la mia immagine riflessa. «Va così male?» scherza qualcuno alle mie spalle. Mi giro giusto in tempo per vedere Dreidel che entra nel ristorante all'aperto dell'albergo. I suoi capelli neri sono pettinati e ben divisi. I riccioli da ragazzo sono scomparsi. Se si aggiungono la camicia bianca col monogramma e gli occhiali di metallo vecchio stile, è chiaro che padroneggia l'arte di lanciare messaggi senza dire una parola. In questo preciso momento sta vendendo fiducia. Peccato che io non ci caschi. Ignorando le onde spumose dell'Oceano Atlantico sulla sinistra, mi mette una mano sulla spalla e raggiunge la grossa poltrona di vimini accanto alla mia. Nello spostarsi, la sua mano passa dalla mia spalla alla mia nuca, continuando a stringere quanto basta per rassicurarmi. «Non usare i suoi trucchi con me», lo avverto. «Cosa vuoi...?» «I suoi trucchi», ripeto, scostandomi in modo che la sua mano non sia più sulla mia nuca. «Pensi che io voglia...? Pensi che userei un Manning con te?» Dreidel è stato con lui per quasi quattro anni. Io sono al nono. Non gli rispondo neanche. Mi limito a fissare il mio costosissimo caffè e lascio che cali il silenzio. È per questo che le persone non lo amano. «Wes, quello che hai visto...» «Ascolta, possiamo risparmiarci l'imbarazzo e andare oltre? È stata... Ho sbagliato io... Non sono affari che mi riguardano.» Mi studia attentamente, analizzando ogni sillaba per vedere se sono sincero. Quando si è l'ombra di un presidente, si impara a leggere fra le righe. Io sono bravo. Dreidel lo è ancora di più. «Dillo, Wes.» Guardo verso la terrazza aperta, dove le onde si infrangono sulla spiaggia. «So che lo stai pensando», aggiunge. Come ho detto, Dreidel è più bravo di me. «Ellen lo sa?» chiedo alla fine, riferendomi a sua moglie. «Credo di sì. Non è una stupida.» La sua voce scricchiola come un parquet rinsecchito. «E quando è nata Ali... Il matrimonio è difficile, Wes.»
«Quindi quella ragazza...» «È solo una che ho incontrato al bar. Le ho fatto vedere la chiave della mia stanza. Pensa che sia ricco perché posso permettermi di stare qui.» Si costringe a sorridere e butta le chiavi sul tavolo. «Non mi ero reso conto che ci fossero tanti affamati di soldi a Palm Beach.» Stavolta sono io quello che resta senza parole. Un cameriere si avvicina e riempie di caffè la tazza di Dreidel. «Avete pensato al divorzio?» «Non possiamo.» «Perché?» «Secondo te perché?» ribatte. Guardo la cartelletta posata fra noi sul tavolo. L'etichetta scritta a mano dice RACCOLTA FONDI. «Avevo capito che venivi qui per affari.» «E questi non sono affari?» Qualche mese fa, Dreidel ha chiamato il presidente per dirgli che intendeva candidarsi al senato per il 19° distretto, nel suo stato natale, l'Illinois. Ma quando ci sono le elezioni vicine, «padre felicemente sposato» raccoglie molti più consensi di «padre recentemente divorziato.» «Capisci? E pensavi di essere il solo ad avere dei problemi...» aggiunge. «Ora, ammettendo che fosse Boyle, vuoi sapere come ha fatto a sfuggire alla morte o no?» 14 Mi siedo più eretto sulla poltrona. «Hai davvero trovato qualcosa?» «No, ti ho chiamato qui per farti perdere tempo.» Dopo un buon sorso di caffè, Dreidel è un altro uomo. Come chiunque alla Casa Bianca, si sente sempre meglio quando controlla la situazione. «Partiamo dall'inizio... dall'inizio vero... Il giorno in cui voi due siete stati colpiti, ricordi quanto è durato il viaggio fino all'ospedale?» Una domanda semplice, a cui però non rispondo. «Prova a indovinare», dice. Stringo i denti, sorpreso dalla forza dei miei ricordi. Vedo ancora le portiere dell'ambulanza che si chiudono su Boyle... «Wes, lo so che non vuoi rivivere tutto questo, ho solo bisogno che...» «Sono svenuto», dico. «Da quello che mi hanno detto, l'ambulanza ci ha messo circa quattro minuti.»
«Tre minuti.» «Sono stati piuttosto veloci.» «In realtà, piuttosto lenti, considerando che l'Halifax Medical Center è ad appena tre chilometri dall'autodromo. Adesso prova a indovinare quanto ci ha messo l'ambulanza che trasportava Boyle, che - sia detto senza offesa - era molto più importante di te per l'amministrazione, e molto più gravemente ferito.» Scuoto la testa, rifiutando di seguirlo. «Dodici minuti», dichiara Dreidel. Restiamo seduti in silenzio mentre cerco di capire. «E allora?» chiedo. «Suvvia, Wes. Dodici minuti perché un'ambulanza con a bordo un membro anziano dell'amministrazione percorra tre chilometri? Una persona normale ci mette meno a piedi. Perfino mia nonna ci mette meno a piedi. Ed è morta.» «Forse sono rimasti bloccati dalla folla in preda al panico.» «Curioso, è proprio quello che hanno dichiarato loro.» «Loro?» Dalla valigetta appoggiata di fianco alla sua poltrona, Dreidel tira fuori un volume rilegato, spesso come un mezzo elenco telefonico. Lo posa sulla tavola con un tonfo che fa tremare i nostri cucchiaini. Riconosco immediatamente il logo del Congresso. Inchiesta sul tentato assassinio del presidente Leland F. Manning. È l'inchiesta ufficiale del Congresso sull'attacco di Nico. Dreidel lo lascia sul tavolo, per vedere se lo prendo. Mi conosce meglio di quel che pensavo. «Non l'hai mai letto, vero?» chiede. Guardo il libro, rifiutandomi ancora di toccarlo. «L'ho scorso una volta... È che... mi sembra di leggere il mio annuncio funebre.» «Piuttosto l'annuncio funebre di Boyle. Tu sei sopravvissuto, no?» Mi passo la mano sulla guancia. La punta delle dita sale e scende seguendo i crateri che ho sulla pelle. «Qual è la tua tesi?» «Fai attenzione ai numeri, Wes. Due treni lasciano la stazione più o meno esattamente alla stessa ora. Tutti e due diretti verso l'ospedale. Si tratta di vita o di morte. Uno ci mette tre minuti. L'altro ce ne mette dodici. Non noti niente di strano? Come se non bastasse, ricordi quale fu l'errore della sicurezza per cui il Congresso fece a pezzi i medici?» «Intendi il fatto che avevano portato del sangue diverso da quello del presidente?»
«Vedi, è qui che si sono sempre sbagliati. Quando il Congresso ha svolto la sua inchiesta, si sono strappati i pochi capelli che avevano in testa perché hanno trovato delle sacche del gruppo 0 negativo accanto a quelle del gruppo B positivo, quello del presidente. Naturalmente, hanno pensato che qualcuno avesse commesso un errore, portando il sangue sbagliato. Ma sapendo chi hai visto l'altra sera a quella conferenza, be', chi aveva casualmente il sangue del gruppo 0 negativo?» «Boyle?» «Ed ecco come si spiega la sua magia.» «Non è stata una magia», insisto. «No, certo, ma è stato un trucco da illusionista.» Agitando la mano sinistra davanti ai miei occhi, continua: «Tu sei concentrato sulla mano che si muove e ignori completamente il gesto nascosto dell'altra.» Con la destra, getta una moneta sul tavolo. «Stai facendo del teatro», dico. Dreidel scuote la testa come se non volessi capire. «Hai idea di quello che hai scoperto? Questa faccenda è stata combinata più di una corsa di cavalli a Harlem. Tu, io, il Congresso, il mondo intero... Ci hanno...» Si china in avanti, abbassando la voce. «Ci hanno fregato, Wes. Ci hanno mentito. Se quello era davvero Boyle...» «Era lui! L'ho visto!» «Non ho detto il contrario. Solo...» Si guarda intorno, la sua voce si fa ancora più bassa. «Questa non è una delle piccole curiosità che mettono alla fine dei telegiornali.» Ha ragione. «Non capisco, però... perché l'ambulanza del presidente trasportava del sangue di Boyle?» «Già. Questo è il problema, vero?» chiede Dreidel. «Ma se ci pensi bene, c'è una sola spiegazione sensata. Se portano in giro del sangue...» «...è perché pensano che qualcuno sia in pericolo.» Prendo la moneta e la batto sulla tovaglia bianca. «Oh, Dio. Se lo prevedevano... pensi che Boyle avesse un giubbotto antiproiettile?» «Doveva averlo», dice Dreidel. «Ha ricevuto due colpi al petto...» «Ma tutto quel sangue...» «...e un colpo al dorso della mano e un altro al collo. Leggi il rapporto, Wes. Nico era un tiratore scelto dell'esercito, specializzato nei colpi al cuore. Boyle finì subito faccia a terra. Quel colpo al collo... scommetto che il sangue che hai visto sotto di lui veniva da lì.» Chiudo gli occhi e mi rivedo mentre offro a Boyle un posto sulla limou-
sine. C'è un pezzo di metallo nella mia guancia. Il calabrone stride ancora... «Ma se indossava un giubbotto...» Guardo verso l'oceano. Le onde sono assordanti. «...allora sapevano. Dovevano sapere...» «Wes, vuoi smetterla...» Dreidel si interrompe e abbassa la voce. Non vogliamo che qualcuno ci noti. «Potevano avere ricevuto minacce sulla vita di Boyle. Magari indossava quel giubbotto da un mese. In effetti, secondo il rapporto, il presidente non indossava il suo giubbotto, quel giorno. Lo sapevi?» Aspetta finché non annuisco, tanto per assicurarsi che io sia attento. «Se avessero saputo che c'era un killer, Manning non sarebbe mai stato là, tanto meno avrebbe potuto andarci senza un giubbotto.» «A meno che ce l'avesse, e questo faccia parte della loro storia...» dico. «Ascolta, so che sei coinvolto in questa...» «Coinvolto? Mi ha rovinato la vita! Lo capisci?» esplodo finalmente. «Non è stato solo un brutto pomeriggio. I bambini mi indicano col dito e si nascondono dietro le loro mamme! Non posso più sorridere! Hai idea di cosa voglia dire?» Il ristorante si fa silenzioso. Tutti ci stanno guardando. La famiglia elegante con due bambine gemelle. L'uomo brizzolato con il cappellino degli U.S. Open. Perfino il nostro cameriere, che si avvicina rapidamente, sperando di calmare la situazione. «Va tutto bene, signore?» «Sì, mi scusi... va tutto bene», rispondo mentre ci riempie le tazze del caffè, che non hanno alcun bisogno di essere riempite. Quando il cameriere si allontana, Dreidel mi guarda da vicino, lasciandomi stare per un momento. È il modo in cui mi ha insegnato a trattare col presidente quando perde il controllo. Abbassa la testa e lascia che il fuoco si estingua da solo. «Sto bene», dico. «Ne ero sicuro», riprende. «Ricordati solo che sono qui per aiutarti.» Inspiro profondamente e passo oltre. «Quindi, ammettendo che ci fossero state minacce alla vita di Boyle, perché non portarlo subito in ospedale?» «È il chiodo che continua a rodermi. Hanno preso Nico... Boyle era ferito, ma evidentemente vivo... Perché fingere di essere morto e abbandonare la tua vita e tutta la tua famiglia? Forse è di questo che hanno parlato in quei dodici minuti sull'ambulanza. Forse è allora che Boyle ha preso la decisione di nascondersi.» Scuoto la testa. «In dodici minuti? Non si può capovolgere la propria vi-
ta in dodici minuti, soprattutto se si sta sanguinando dal collo. Dovevano avere dei piani già pronti.» «Chi?» chiede Dreidel. «Suvvia, qui non si tratta di nascondersi in un fortino di cuscini mentre si gioca col fratellino minore. Per una cosa così grossa, ci vogliono i Servizi segreti, l'autista dell'ambulanza, il dottore che gli ha curato il collo.» Faccio una pausa per dare enfasi. «E qualcuno che autorizzi il tutto.» Dreidel abbassa il mento, guardandomi da sopra le lenti dei suoi occhiali rotondi. Sa dove voglio andare a parare. «Credi davvero...? Credi che l'avrebbe fatto?» È la domanda con cui lotto dal momento in cui ho visto il falso nome di Boyle in quell'albergo. Non si usa quel nome per nascondersi. Lo si usa perché qualcuno possa trovarti. «Io... Semplicemente mi sembra impossibile che il presidente non sapesse. A quell'epoca Manning non poteva pisciare in un cespuglio se qualcuno non l'aveva controllato preventivamente. Se Boyle indossava un giubbotto - e chiaramente lo indossava - doveva esserci stata una minaccia credibile. E se c'era una minaccia credibile... e del sangue extra nell'ambulanza... e dei preparativi per garantire la sicurezza di Boyle... Manning doveva avere firmato l'autorizzazione.» «A meno che Albright non abbia firmato al posto suo», ribatte Dreidel, riferendosi al nostro vecchio capo di gabinetto, l'unica altra persona presente nella limousine insieme a noi quel giorno. È una buona ipotesi, ma non ci porta per nulla più vicini alla risposta. Albright è morto di cancro ai testicoli tre anni fa. «Adesso vuoi dare tutta la colpa a un morto?» «Non sarebbe meno credibile», insiste Dreidel. «Albright autorizzava in continuazione le procedure di sicurezza.» «Non lo so», dico scuotendo la testa. «Manning e Boyle si conoscevano dai tempi dell'università. Se Boyle pensava di scomparire, è un brutto scherzo da fare a un amico, soprattutto al presidente degli Stati Uniti.» «Mi stai prendendo in giro? Boyle ha abbandonato la sua famiglia, sua moglie... perfino sua figlia. Guarda la cosa nell'insieme, Wes: Nico, il pazzo, spara al presidente, però colpisce Boyle in pieno petto. Ma invece di correre in ospedale a farsi rimettere in sesto, Boyle coglie proprio quell'occasione per fingersi morto e per sparire dalla faccia della terra. Uno che fa una cosa del genere, deve avere per forza un'ottima ragione.» «Talis pater, talis filius?» chiedo. «Già, ci ho pensato anch'io. Il problema è che il padre di Boyle era un
truffatore da quattro soldi, questa... è una cosa grossa. Grossa davvero.» «Forse Boyle ha assoldato Nico. Forse la sparatoria è stata una gigantesca cortina fumogena per dare a Boyle la possibilità di svignarsela.» «Mi sa troppo di Mission: Impossible», dice Dreidel. «Se Nico sbaglia, rischi un colpo in testa. Soprattutto, se i Servizi erano coinvolti, non mettono a rischio il presidente, il suo staff e 200.000 spettatori affidando tutto a un fuori di testa qualsiasi. Hai visto Nico durante le interviste, è matto come un personaggio di Stephen King. Se Boyle voleva fare una cosa del genere, poteva fingere un attacco di cuore a casa sua e fine della storia.» «Quindi pensi che quando Nico ha sparato quei colpi Boyle e i Servizi segreti abbiano semplicemente approfittato dell'occasione per farlo sparire?» chiedo faticando a tenere la voce bassa. «Non so cosa pensare. L'unica cosa che so è che, se Boyle aveva indossato un giubbotto antiproiettile, si aspettava qualcosa. Insomma, nessuno prende Un ombrello se non pensa che possa piovere, no?» Impossibile non essere d'accordo. Ma questo non ci porta minimamente più vicini al perché. Perché Nico ha sparato a Boyle? Perché il corteo di Manning trasportava sangue di Boyle? E perché Boyle doveva abbandonare la sua vita, la sua donna e la figlia adolescente? Che cosa, insomma, poteva tentare - o terrorizzare - un uomo fino al punto di fargli buttare a mare tutta la sua esistenza? «Forse potresti chiederglielo», dice Dreidel. «A chi, a Manning? Giusto. Andrò da lui e gli dirò: "A proposito, signore, ho appena visto il suo amico morto, sì, quello il cui omicidio ha rovinato la sua presidenza. Be', dal momento che è vivo e che io ho lavorato come uno schiavo per lei tutti i giorni da quando sono uscito dall'ospedale, perché mi ha mentito per otto anni a proposito del peggior momento della mia vita?" Sarebbe un colpo di genio.» «E se lo chiedessi ai Servizi segreti?» «Stessa cosa. Boyle non sarebbe potuto sparire, tanti anni fa, senza il loro aiuto. L'ultima cosa che devo fare è mettermi a gridare che ho scoperto tutto. Finché non so cosa sta succedendo, è meglio se resto zitto.» Dreidel si appoggia allo schienale della poltrona di vimini. «Quando hai visto Boyle in quel camerino, credi che intendesse uccidere Manning?» «Uccidere Manning?» «Perché, altrimenti, sarebbe tornato fuori dal suo nascondiglio dopo otto anni? Solo per fare un saluto?» «Immagino di no, ma... per ucciderlo? Non è...?»
«Kaiser Soze», mi interrompe Dreidel. «L'inganno più riuscito del diavolo è stato convincere il mondo che lui non esiste.» Mi guarda e giurerei che c'è un sorriso sulla sua faccia. «Ma te l'immagini? Essere legalmente morto, ma in realtà ancora vivo? Sai la libertà che avresti?» Guardo la chiave della stanza di Dreidel e tento di non raffigurarmi il morbido accappatoio bianco che vi è associato. «Forse è questo che Boyle voleva tanti anni fa», continua. «Una via di fuga.» Scuoto la testa, ma so cosa intende dire. L'unico modo per capire quello che sta succedendo è capire Boyle. «E allora, a che punto siamo?» chiedo. «Siamo? Non è il mio disastro.» Dreidel ride mentre lo dice, ma chiaramente non sta scherzando. «Suvvia, Wes, lo sai che non dico sul serio», aggiunge, sapendo che ho capito benissimo. Come tutti i grandi maghi della politica, la sua prima mossa consiste nel cancellare le proprie tracce. È per questo che ho chiamato lui, prima di chiunque altro. Ha passato quasi quattro anni accanto al presidente, ma non lo si vede in nessuna foto. Nessuno è più abile nel rendersi invisibile, e questa adesso è la cosa più importante per me, se voglio scoprire la verità. «Hai dei contatti con le forze dell'ordine?» chiede, già due passi avanti a me. «Se potessero dare un'occhiata al passato di Boyle...» «Ho la persona ideale, per questo», dico. Ma lui sta guardando alle mie spalle, verso l'ingresso del ristorante. Seguendo il suo sguardo, mi giro e vedo la donna nera con le treccine. Ha cambiato l'accappatoio con l'altra uniforme di Palm Beach: pantaloni bianchi con una maglietta firmata color pastello. Pronta per una giornata in città. «Senti, devo andare», dice Dreidel, già in piedi. «Stai in campana.» «In campana?» «Stai attento. Se Manning è coinvolto...» Dà un'altra occhiata intorno, poi si china su di me. «Pensi che l'America lo abbia trattato male in passato? Be', adesso lo crocifiggeranno, Wes. Seriamente: lo crocifiggeranno.» Annuisco. Dall'altra parte del ristorante, la sua ragazza ci lancia un'occhiata. «E già che ci siamo, Wes, io manterrò il tuo segreto, tu promettimi che manterrai il mio.» «M... ma certo. Non dirò una parola.» Se ne va, lasciandomi il conto da pagare. «A proposito, ti interessa tirare fuori cinquecento bigliettoni per venire alla mia raccolta fondi stasera?» Scuoto la testa incredulo. «Dreidel, quanto ti hanno dato per l'anima, quando l'hai venduta?»
«Vieni o no?» «Verrei, ma ho un evento con Manning stasera.» Dreidel annuisce e non insiste. Sa chi viene al primo posto. Mentre raggiunge la porta, decido di non girarmi a guardare la ragazza. Invece prendo il cucchiaio e lo uso come specchietto. Alle mie spalle, vedo Dreidel che le si avvicina. Le prende la mano solo quando pensa di essere fuori tiro. «Mi scusi», dice qualcuno alla mia sinistra. Mi giro, aspettandomi di vedere il cameriere. Invece è il tizio biondo con la maglietta nera. E il cappellino da baseball degli U.S. Open. «Wes Holloway?» chiede mostrandomi il badge dell'FBI. «Terrence O'Shea. Possiamo parlare qualche istante?» 15 St. Elizabeths Mental Hospital Washington, D.C. «La campanella della colazione sta suonando, Nico. Toast francese o frittata classica?» chiese la piccola nera addetta alla mensa che sapeva di aceto e aveva dei brillantini incastonati nell'unghia del mignolo. «Cosa c'è per cena?» chiese Nico. «Mi stai ascoltando? Siamo alla colazione. Toast francese o frittata classica?» Mentre si infilava le scarpe, inginocchiato davanti al suo lettino, Nico alzò la testa verso la porta e studiò il carrello con i vassoi in vista. Da molto tempo si era guadagnato il diritto di mangiare con gli altri pazienti. Ma dopo quello che era successo a sua madre tanti anni prima, preferiva farsi portare i pasti in camera. «Toast francese», disse. «E adesso, posso sapere cosa c'è per cena?» Al St. Elizabeths Nico era definito NCM, non condannabile per malattia mentale. Non era l'unico. Ce n'erano trentasette, tutti residenti al John Howard Pavilion, un edificio di mattoni rossi a cinque piani. In confronto agli altri reparti, il padiglione degli NCM era sempre più silenzioso. Nico una volta aveva udito un dottore che diceva: «Quando senti delle voci nella testa, non hai bisogno di parlare con nessun altro.» Tenendo un ginocchio a terra, Nico tirò con forza per sistemare il velcro delle sue scarpe da ginnastica (gli avevano tolto le stringhe molto tempo
prima) e osservò attentamente l'addetta della mensa che portava un vassoio pieno di toast francesi nella stanzetta. Larga due metri e lunga tre, la camera era arredata con un comodino di legno e una mensola su cui non c'era altro che una Bibbia e un antico rosario di vetro rosso. I medici avevano offerto a Nico un divano, perfino un tavolino, qualcosa che lo facesse sentire più a casa, ma Nico aveva rifiutato, senza spiegarne il perché. Preferiva così. In quel modo assomigliava alla sua stanza. Alla stanza di sua madre. Nel suo ospedale. Mentre annuiva fra sé, poteva ancora raffigurarsi la vecchia stanza d'ospedale in cui sua madre era rimasta in silenzio per tre anni. Lui aveva solo dieci anni quando il morbo di Creutzfeldt-Jakob l'aveva colpita... quando un gene difettoso nel suo cervello aveva scatenato la proteina CJD che alla fine le avrebbe provocato il coma. Quando arrivò la diagnosi, sua madre non si lamentò, neanche quando il piccolo Nico le chiese perché Dio la portava via. Sorrise, anche allora, e gli disse con tono rispettoso che così stava scritto nella Bibbia. Il Libro del Fato. Scuoteva la testa, ma la sua voce era forte mentre gli diceva di non ribellarsi mai al Libro, di rispettarlo sempre, di seguirlo, di lasciare che lo guidasse. Ma non si trattava solo di rispetto. Sua madre ricavava forza dal Libro. Sicurezza. Senza dubbio, lei sapeva. Non aveva paura. Com'era possibile temere la volontà di Dio? Ma Nico ricordava ancora suo padre, in piedi dietro di lui, che gli stringeva le spalle e lo costringeva a pregare ogni giorno Gesù affinché gli restituisse la sua mamma. Le prime settimane pregarono nella cappella dell'ospedale. Dopo sei mesi, andavano a trovarla tutti i giorni, tranne la domenica, convinti che in quel giorno le loro preghiere sarebbero state più efficaci se venivano dalla chiesa. Fu tre anni più tardi che Nico cambiò le sue preghiere. Lo fece una volta sola. Durante una gelida giornata di neve, nel pieno dell'inverno del Wisconsin. Non voleva andare in chiesa, quel giorno, non voleva mettersi i pantaloni belli e la camicia della domenica. Soprattutto perché c'erano meravigliose battaglie di palle di neve, fuori. Così, quella domenica mattina, abbassando la testa in chiesa, invece di pregare Gesù affinché gli restituisse la sua mamma, lo pregò di portarsela via. Il Libro si era sicuramente sbagliato. Quel giorno sua madre morì. Guardando il vassoio con i toast francesi, ancora inginocchiato accanto al suo letto, chiese per la terza volta: «Che cosa c'è per cena?» «Polpettone, ok?» rispose la donna alzando gli occhi al cielo. «Sei con-
tento, adesso?» «Certo che sono contento», disse Nico, appiattendo il velcro con il palmo della mano e sorridendo fra sé. Polpettone. Proprio quello che avrebbe dovuto mangiare sua madre l'ultima sera, il giorno in cui era morta. I Tre gliel'avevano detto. Così come gli avevano detto degli uomini M... i massoni... Suo padre era un massone e se ne vantava. Ancora oggi, Nico sentiva il profumo dolce del fumo di sigaro che filtrava dalla porta quando tornava dalle riunioni della Loggia. Non era altro che un club, aveva spiegato loro Nico. I massoni non facevano altro che vendere biglietti della lotteria per raccogliere fondi a favore dell'ospedale. Come gli Shriners. I Tre erano stati pazienti, anche in quell'occasione. Gli avevano fornito i dati, gli avevano spiegato la storia. Come i massoni si erano segretamente diffusi in tutto il mondo con la scusa della carità. Come avevano perfezionato il loro inganno, raccontando alla gente di essere nati dalle associazioni di maestri muratori del medioevo, associazioni innocue, i cui membri si riunivano per scambiarsi segreti professionali, da artigiano ad artigiano. Ma i Tre sapevano la verità: l'arte dei massoni aveva realizzato alcuni dei luoghi più sacri e famosi del mondo, dal tempio di Salomone al monumento di Washington; ma i segreti che i massoni custodivano erano ben altro che i suggerimenti su come costruire archi e monumenti. La notte prima che Martin Luther King Jr. fosse ucciso, si trovava in un tempio massonico a Memphis. «Potrei non essere più con voi», aveva detto King ai suoi seguaci. Come se sapesse che c'era una pallottola in arrivo il giorno dopo. E il fatto che si trovasse in un tempio massonico non era una coincidenza. Destino. Sempre il destino. Ai massimi livelli, l'antico obiettivo dei massoni non era mai cambiato. Perfino la chiesa era stata contraria ai massoni fin dall'inizio, spiegarono i Tre. Era un buon argomento, ma Nico non era stupido. Nel medioevo, la chiesa era contraria a molte cose. I Tre, però, non avevano battuto ciglio. Al contrario, l'avevano colpito con la verità più dura di tutte: ciò che era realmente accaduto a sua madre la notte in cui era morta. 16
«Ma non deve dire a nessuno che gliel'ho detto io», sussurrò la donna nella cornetta. Tirandosi una ciocca di capelli rossi dietro l'orecchio, Lisbeth allungò la mano verso il piccolo registratore che aveva sulla scrivania, controllò che fosse attaccato al telefono e premette RECORD. «Le do la mia parola», disse. «Sarà un nostro segreto.» Come giornalista del «Palm Beach Post», Lisbeth sapeva benissimo che le leggi della Florida considerano illegale registrare una conversazione privata senza avere ottenuto il consenso dell'interlocutore. Ma da responsabile della rubrica di gossip Dal buco della serratura - la pagina più popolare del «Post» - Lisbeth sapeva anche che nel momento in cui avesse chiesto l'autorizzazione la sua fonte si sarebbe bloccata e zittita. Oltre tutto, le serviva la citazione esatta. Le occorreva una prova per quando gli avvocati del giornale avessero mostrato il pollice verso, come al solito, di fronte al suo articolo. Era la stessa ragione per cui teneva un mini-frigorifero ben fornito di vino e di birra in un angolo del suo minuscolo cubicolo beige, e una tazza di noccioline fresche su un angolo della scrivania. Che fossero i suoi colleghi venuti a scambiare due chiacchiere o un estraneo al telefono, la regola sacra che aveva imparato quando le avevano affidato la rubrica sei anni prima era sempre: falli parlare. «La sua storia, dunque, signora...?» «Preferirei lasciare perdere questi dettagli», insistette la donna. «Senza impegno.» Lisbeth prese un appunto, scrivendo: Professionista? nel suo taccuino. La maggior parte delle persone cadeva nella trappola del nome. «Ripeto, lei non l'ha saputo da me...» continuò la donna. «Glielo prometto, signora...?» «...e non cadrò nella sua trappola neanche la seconda volta», disse la donna. Lisbeth cancellò il punto di domanda e lasciò solo: Professionista. Eccitata dalla sfida, si mise ad agitare il filo del suo telefono come una corda per saltare, finché i fogli di carta attaccati alla parete destra del suo cubicolo non cominciarono a muoversi. Quando aveva diciassette anni, il negozio di abbigliamento di suo padre aveva chiuso e la famiglia si era trovata in miseria. Ma il giornale locale di Battle Creek, nel Michigan, raccontò la storia usando l'espressione «presunta diminuzione del venduto», che implicava una forma di disonestà da parte di suo padre. Lisbeth scrisse una lettera di risposta sul giornale della scuola. Il giornale locale la pubbli-
cò, con le sue scuse. Poi la ripubblicò anche il «Detroit News.» Alla fine della vicenda, aveva ricevuto settantadue risposte da tutto il Michigan. Quelle settantadue lettere ora coprivano ogni centimetro quadrato del suo cubicolo, per rammentarle ogni giorno il potere della penna, e per ricordarle sempre che le storie migliori sono quelle inaspettate. «A parte questo», disse la donna, «pensavo che le facesse piacere sapere in anticipo quello che verrà annunciato oggi pomeriggio, e cioè che Alexander John, il primo figlio dei John di Philadelphia, naturalmente, riceverà la Chiave d'Oro per l'arte al concorso scolastico nazionale.» Lisbeth stava scrivendo le parole Concorso scola... quando alzò la penna dalla pagina. «Quanti anni ha Alexander, scusi?» «Oh... diciassette... diciassette il nove settembre.» «Quindi... si tratta di un premio per le scuole superiori?» «E di un premio nazionale, non solo statale. Chiave d'Oro.» Lisbeth si massaggiò il collo lentigginoso. Era leggermente sovrappeso, e tentava di nasconderlo con degli occhiali verde lime che il magrissimo commesso le aveva garantito avrebbero tolto anche qualcosa ai suoi trentun anni. Lisbeth non ci credeva. Ma aveva comprato gli occhiali. Mentre continuava a massaggiarsi, un ciuffo di capelli rossi si staccò dall'orecchio e le dondolò davanti alla faccia. «Signora, per caso lei è imparentata col giovane Alexander?» «Come? Certo che no», rispose la donna. «Ne è sicura?» «Sta insinuando...? Signorina, questo premio è un onore che...» «O è alle dipendenze della famiglia del giovane Alexander?» La donna fece una pausa. «Non a tempo pieno, naturalmente, ma...» Lisbeth premette STOP sul suo registratore e batté la penna sulla scrivania. Solo a Palm Beach una madre poteva assumere qualcuno per fare pubblicità al pasticcio artistico del figlio adolescente. «Un premio nazionale», borbottò Lisbeth fra sé staccando la pagina dal taccuino. Ma mentre la appallottolava, si guardò bene dal riagganciare. Regola sacra n. 2: una pessima fonte oggi può rivelarsi una buona fonte domani. Regola sacra n. 3: vedi Regola sacra n. 2. «Se ho spazio, tenterò senza dubbio di parlarne», disse. «Siamo piuttosto pieni però.» Era una bugia ben più grossa dell'effetto smagrente e ringiovanente degli occhiali verde lime, ma mentre riagganciava e buttava il foglio del taccuino nel cestino, non poté fare a meno di notare le tre colonne quasi vuote nella griglia sullo schermo del suo computer.
Quarantacinque centimetri. Circa ottocento parole. Tanto ci voleva ogni giorno per riempire Dal buco della serratura. Più una foto, naturalmente. Finora aveva dieci centimetri sulla figlia di un VIP che sposava un giocatore di biliardo (voto: 6 più, si disse Lisbeth) e otto centimetri su una gara di insulti vecchia di una settimana tra un ragazzo e il capo della motorizzazione civile (5 e mezzo, non di più). Lisbeth guardò la palla di carta nel cestino di plastica e tornò a fissare lo schermo quasi vuoto. No, si disse. Era ancora troppo presto per abbandonarsi alla disperazione. Non aveva neanche guardato... «Posta!» gridò una voce mentre una mano sbucava al di sopra del cubicolo agitando in aria un fascio di lettere. Lisbeth alzò gli occhi e capì che se avesse tentato di prenderle, la mano si sarebbe ritirata, per cui aspettò che il suo proprietario girasse l'angolo. «Buongiorno, Vincent», disse prima ancora di vederlo. «Dimmi che hai qualcosa di buono oggi», disse Vincent, coi baffi sale e pepe che gli vibravano come un bruco sul labbro. Buttò il fascio di lettere sulla scrivania già strapiena di Lisbeth: le lettere si aprirono a ventaglio e lei si accorse che le buste erano strappate. «Hai aperto la mia posta?» chiese. «Sono il tuo capo. È il mio lavoro.» «Il tuo lavoro è aprire la mia posta?» «No, il mio lavoro è assicurarmi che la tua rubrica sia la migliore possibile. E quando lo è, quando tutti, in questa città, parlano coi vicini dello scandalo che hai abilmente scoperto, riceviamo una media di venti-trenta lettere al giorno, oltre ai soliti comunicati stampa, inviti eccetera. Sai quante lettere sono arrivate stamattina? Sei. Compresi gli inviti.» Vincent si sporse sopra la spalla di Lisbeth e lesse la griglia mezza vuota sul suo computer. «Hai sbagliato a scrivere motorizzazione.» Lisbeth si avvicinò allo schermo. «Ci sei cascata!» disse Vincent con la sua risatina scoppiettante. Le bretelle rosse e blu e la cravatta in tinta gli davano un'aria da re di Palm Beach, pur essendo solo un direttore di giornale. Irritata, Lisbeth gli tirò una bretella e la lasciò andare di scatto contro il suo petto. «Ahi... mi hai fatto male», si lamentò lui, massaggiandosi. «Stavo dicendo una cosa importante.» «Davvero? E che cos'era? Che dovrei trovare altre storie di seghe nei bagni?»
«Ascolta, signorina, quella era una storia divertente.» «Divertente? Non voglio delle storie divertenti. Voglio delle storie belle.» «Belle come? Come quelle della tua fonte segretissima, che ti ha sussurrato tante promesse e poi è sparita dalla faccia della terra? Come si chiamava... Lily?» «Iris.» Nel pronunciare il nome, Lisbeth si sentì le orecchie in fiamme. Quattro mesi prima, una donna che si identificava solo come Iris aveva chiamato di punto in bianco Lisbeth tramite il centralino. Il tremito della sua voce tradiva il pianto. E le sue esitazioni... Lisbeth sapeva riconoscere la paura. Per venti minuti Iris le raccontò la sua storia: vent'anni prima, faceva massaggi thailandesi alle terme locali, e lì aveva conosciuto un uomo che chiamava Byron... uno degli uomini più potenti di Palm Beach. Ma ciò che colpì l'attenzione di Lisbeth fu la precisione con cui Iris descriveva il modo in cui, in molte occasioni, lui l'aveva picchiata, fino a romperle una vertebra e la mandibola. Per Lisbeth, era una storia importante. Per questo teneva le lettere attaccate alle pareti. Ma quando aveva chiesto il vero nome di Byron - e di Iris - la linea si era interrotta. «Voleva romperti le scatole», disse Vincent. «Forse aveva paura.» «O forse voleva solo attirare l'attenzione.» «O forse adesso è sposata e teme che suo marito la butti fuori di casa scoprendo che un tempo la sua adorata mogliettina faceva la massaggiatrice. Rifletti, Vincent. Le fonti tacciono solo quando hanno qualcosa da perdere.» «Come il lavoro? La carriera? La loro cosiddetta popolare rubrica di gossip?» Lisbeth gli scoccò un'occhiata gelida e penetrante. Vincent gliela restituì. «Sei», disse girandosi per andarsene. «Sei lettere nella cassetta.» «Non mi interessa, anche se fosse una sola.» «Ti interessa eccome. Sei una grande giornalista, ma una pessima bugiarda, mia cara.» Per una volta, Lisbeth rimase zitta. «A proposito», aggiunse Vincent, «se chiama qualcuno per parlarti di un premio scolastico per la famiglia John... non fare la snob... pensa al numero sei. Le buone famiglie sono sempre buone famiglie.» «Ma se la storia è uno schifo...»
«Mi spiace dovere essere io a dirtelo, dolcezza», gridò Vincent, già nel corridoio, «ma non c'è un premio Pulitzer per il gossip.» Sola nel suo cubicolo, Lisbeth studiò la griglia vuota sullo schermo, poi abbassò lo sguardo sulla pagina appallottolata nel suo cestino. Si chinò sotto la scrivania per tirarla fuori e il telefono sopra di lei squillò. Al rumore, Lisbeth si rialzò di scatto e batté la testa sullo spigolo. «Ahi», gridò massaggiandosi con forza e prendendo la cornetta. «Dal buco della serratura. Sono Lisbeth.» «Salve, io... ehm... io lavoro al Four Seasons», incominciò una voce maschile. «È qui che si telefona per...» «Solo se è davvero buona», disse Lisbeth continuando a massaggiarsi, ma prevenendo benissimo la domanda. Il patto che aveva con i dipendenti degli alberghi locali era di cento dollari per ogni notizia che pubblicava sul giornale. «Bene... ehm... Stavo servendo un dipendente dell'ex presidente Manning e... Non so se li considerate delle celebrità, ma se le interessa...» «Mi interessa, sì.» Lisbeth premette il pulsante RECORD e afferrò una penna. Perfino nelle giornate migliori, il nome Manning era il più importante di tutti. «È proprio di persone come loro che ci piace scrivere...» 17 «Forse è meglio se usciamo», propone O'Shea, torreggiando sopra di me nel ristorante. Ha il naso schiacciato, per cui non ha paura di fare a pugni. Cerca di nasconderlo con gli occhiali, ma certe cose non si possono non notare. Appena ha tirato fuori il badge dell'FBI, la gente si è voltata a guardare. «Sì... benissimo», rispondo, alzandomi tranquillamente dal mio posto e seguendolo sul vialetto che porta verso la piscina scoperta. Se voglio tenere segreta la faccenda, l'ultima cosa di cui ho bisogno è che mi vedano in giro con un agente dell'FBI. Circondata da ogni lato dalle palme, la piscina è un modello di discrezione - a quest'ora del mattino, tutte le sdraio sono vuote - ma per qualche motivo O'Shea non rallenta. È solo dopo avere superato uno dei molti vasi giganteschi che vedo i due tizi che sistemano gli asciugamani nel capanno di legno, preparandosi per la giornata. O'Shea continua a camminare. Qualsiasi cosa voglia, la vuole in privato. «Senta, può dirmi dove...?»
«Com'è andato il suo viaggio in Malaysia?» Quando mi fa la domanda, io sto fissando la sua nuca. Non si volta neanche per vedere la mia reazione. «Oh... bene.» «E il presidente si è divertito?» «Non vedo perché no», replico infastidito. «Non è successo niente di particolare?» chiede O'Shea, seguendo un breve sentiero pieno di pozzanghere. Un'onda si infrange lontano, ma solo quando la sabbia mi riempie le scarpe mi accorgo che siamo sulla spiaggia privata, dietro la piscina. Sedie a sdraio vuote, postazioni per i bagnini deserte. Quando superiamo un casotto per il noleggio di attrezzature da sub, un uomo coi capelli castani ben pettinati sbuca dal retro e mi batte la mano sulla spalla. Gli manca un pezzetto di cartilagine in cima all'orecchio sinistro. «Questo è il mio socio, Micah», spiega O'Shea. Mi giro verso l'albergo, ma a causa del muro di palme riesco a vedere solo qualche terrazzo all'ultimo piano. Non un'anima in vista. Nello stesso momento mi accorgo che Micah ha rallentato il passo e si trova ora leggermente più indietro di me. «Forse dovrebbe sedersi», dice O'Shea, indicando una delle sdraio. «Ci vorrà solo un secondo», aggiunge Micah alle mie spalle. Mi giro e torno indietro. «Io veramente dovrei...» «Abbiamo visto il rapporto che ha stilato per i Servizi segreti, Wes. Sappiamo chi ha visto in Malaysia.» Mi blocco, quasi cado per terra. Poi riprendo l'equilibrio e mi volto a guardarli. O'Shea e Micah hanno l'oceano alle spalle. Le onde si infrangono incessanti. La delicatezza non è il loro forte. «Di cosa state parlando?» «Del rapporto», dice O'Shea. «Un tizio sui cinquant'anni, della statura di Boyle, del peso di Boyle, con la testa rasata come Boyle, anche se per qualche ragione ha trascurato il colore degli occhi, e il fatto che ha pensato che fosse lui.» «Sentite, io non so che cos'ho visto quella notte...» «Va bene, Wes», dice Micah con voce un po' cantilenante. «Boyle era davvero in Malaysia. Lei non è pazzo.» Molte persone si sentirebbero sollevate. Ma frequento le forze dell'ordine da abbastanza tempo per conoscere i loro trucchi e le loro tecniche.
Questa manovra si chiama stabilire il tono. Ha lo scopo di influenzare inconsciamente lo stato d'animo di qualcuno e si basa sul fatto che si tende a imitare il tono con cui veniamo interpellati. Se qualcuno ci grida contro, gridiamo. Se sussurra, noi sussurriamo. Di solito lo usano per fare coraggio a un testimone depresso, o per abbattere un sospetto molto resistente. Micah si è messo a cantare, sperando che io canti a mia volta. C'è un solo problema: gli agenti dell'FBI non cantano, e neanch'io. Se usano trucchetti psicologici, vuol dire che mi nascondono qualcosa. «Boyle è vivo?» chiedo senza ammettere nulla. O'Shea mi studia attentamente. Per la prima volta, mi guarda le cicatrici. «So che per lei è una faccenda personale...» «Non si tratta di questo!» reagisco. «Wes, non siamo qui per attaccarla», dice Micah sottovoce. «Allora smettetela con i vostri trucchetti! Ditemi che cosa diavolo sta succedendo e basta!» Il vento soffia sulla spiaggia e scompiglia i capelli ben pettinati di Micah. O'Shea sposta il peso da una gamba all'altra, a disagio sulla sabbia, e consapevole di avere toccato il tasto sbagliato. Non sono solo i vestiti che rivelano un agente. I due si scambiano un'occhiata. O'Shea annuisce. «Boyle non le ha mai parlato di un gruppo chiamato i Tre?» chiede finalmente Micah. Faccio segno di no con la testa. «E del Romano?» «È un gruppo anche questo?» «È una persona», dice O'Shea, osservando la mia reazione. «E io dovrei conoscerla?» Per la seconda volta, gli agenti si scambiano un'occhiata. O'Shea socchiude gli occhi al sole mattutino, che spunta fra le nubi. «Sa da quanto tempo diamo la caccia a Boyle?» mi chiede. «Pensa che tutto sia incominciato con la sua morte miracolosa? Gli davamo la caccia quando stava alla Casa Bianca, aspettavamo solo che facesse una mossa falsa. Quando poi... puf... ha pescato la carta USCITE GRATIS DI PRIGIONE di livello mondiale...» «Cioè quando gli hanno sparato...» «...siamo rimasti fregati. Come il resto del paese. Abbiamo perfino chiuso il caso e archiviato i documenti. Tre anni dopo, ha commesso il suo primo errore ed è stato visto in Spagna da un ex agente, appassionato di
politica quanto bastava per riconoscerlo. Per nostra fortuna, costui si fa vivo, ma prima che possiamo seguire la pista la sua macchina esplode misteriosamente davanti a casa sua. Un lavoro da professionisti, Semtex-H con un detonatore a pressione. La buona sorte ci assiste, nessuno si fa male, ma il messaggio è chiaro, e il testimone decide che non ha mai visto niente.» «E voi pensate che Boyle conosca il Semtex-H? È un ragioniere...» «Cioè sa come pagare la gente, come manipolarla, come evitare di lasciare impronte, qualsiasi cosa tocchi...» «Ma lui...» «...vive ricattando le persone. Ecco quello che fa, Wes. È quello che faceva anche alla Casa Bianca. Con i nostri agenti. E soprattutto con i Servizi segreti.» Vedendomi confuso, aggiunge: «Suvvia, dovrebbe averlo capito. I dodici minuti sull'ambulanza... il sangue extra... Perché pensa che Manning e i Servizi l'abbiano aiutato? Per bontà di cuore? È una termite, Wes, si infila dove c'è del morbido e sfrutta ogni punto debole. Capisce quello che dico? Si alimenta della debolezza altrui. Ogni tipo di fragilità umana.» Da come mi studia, da come i suoi occhi si fissano nei miei... «Aspetti, intende dire che io...?» «Abbiamo studiato i suoi file, Wes», aggiunge O'Shea, tirando fuori dalla giacca un foglio piegato. «Sette mesi con un certo dottor Kuttler, che qui viene definito "specialista in incidenti critici". Espressione piuttosto tecnica.» «Dove l'avete preso?» chiedo. «E l'analisi: crisi di panico, stress post-traumatico...» «È stato otto anni fa!» «...atteggiamenti compulsivi a proposito di interruttori della luce, porte aperte e chiuse...» «Questo non è neppure...» «...e una vera e propria ossessione per le preghiere», continua O'Shea, imperterrito. «È vero? È stato il suo modo per superare l'attentato? Ripetere all'infinito le stesse preghiere?» Passa alla seconda pagina. «Non è neanche religioso, lei, vero? Questa è una reazione alla Nico...» Con mia sorpresa, gli occhi mi si riempiono di lacrime e la gola mi si stringe. È passato molto tempo da quando qualcuno... «So che per lei è stata dura, Wes», continua O'Shea. «Più dura ancora del ginepraio in cui si è cacciato con Boyle. Ma se la ricatta in qualche modo, possiamo aiutarla a venirne fuori.»
Aiutarmi? «Pensate che io...?» «Qualsiasi cosa le abbia proposto, lei resterà scottato.» «Non mi ha proposto un bel niente!» insisto. «È per questo che avete litigato?» «Litigato? Ma cosa...?» «Il tavolino rotto, il vetro che si è spezzato quando lei l'ha colpito... abbiamo letto il rapporto», interviene Micah, la cui voce ha perso del tutto il tono cantilenante. «Io non sapevo che fosse là!» «Davvero?» chiede Micah, con voce sempre più incalzante. «Nel bel mezzo di un discorso in un paese straniero lei abbandona il presidente, al cui fianco dovrebbe restare...» «Vi giuro...» «...e scompare dietro il palco, proprio nella stanza in cui Boyle si è casualmente nascosto...» «Non lo sapevo!» grido. «Abbiamo mandato là degli agenti!» esplode Micah. «Hanno scoperto il nome falso usato da Boyle nell'albergo. Quando hanno interrogato gli impiegati di turno quella notte, uno ha indicato la sua foto e ha detto che proprio lei aveva chiesto di lui! Adesso vuole ricominciare tutto da capo o vuole continuare a impantanarsi? Ci dica perché Manning ha mandato lei anziché un uomo dei Servizi a incontrarlo!» È la seconda volta che mi confermano che Manning e i Servizi segreti sono coinvolti, e per la prima volta capisco che non sono io quello che stanno cercando. I grandi cacciatori vogliono selvaggina grossa. E perché prendere un cucciolo, quando si può avere il Leone? «Sappiamo che Manning è stato buono con lei...» «Voi non lo conoscete affatto.» «E invece sì», dichiara O'Shea. «Proprio come conosciamo Boyle. Mi creda, Wes, quando erano al potere, lei non ha visto neanche la metà di quello...» «Ero con loro tutti i giorni!» «È stato con loro solo negli ultimi otto mesi, quando l'unica cosa a cui miravano era la rielezione. Pensa che quella fosse la realtà? Sapere cosa gli piace nei panini a mezzogiorno non vuol dire sapere di cosa sono capaci...» Se fossi Rogo, mi precipiterei su di lei e gli mollerei un pugno sul mento. Invece affondo un piede nella sabbia. Qualsiasi cosa, pur di mantenere l'equilibrio. Da quello che dicono, sembra proprio che Manning abbia un
bel po' di sporco sulle dita. Forse stanno solo bluffando. Forse è vero. In ogni caso, dopo tutto quello che Manning ha fatto per me... dopo che mi ha ripreso e mi è rimasto vicino per tutti questi anni... Non gli morderò la mano prima di avere verificato i fatti di persona. «Ha mai visto uno scontro fra tre auto?» mi chiede Micah. «Sa qual è la macchina che ne esce più danneggiata? Quella in mezzo.» Fa una pausa per lasciarmi assaporare il concetto. «Manning, lei, Boyle. Quale macchina pensa di essere?» Spingo i piedi ancora più a fondo nella sabbia. «Questo... questo non è...» «A proposito, dove ha preso quel bel cronometro?» mi interrompe Micah indicando il mio vecchio orologio Franck Muller. «È un gingillo da diecimila dollari.» «Cosa intende...? È stato un regalo del presidente del Senegal», dico. A casa ne ho almeno un'altra dozzina, compreso un Vacheron Constantine di platino proveniente da un principe della corona saudita. Quando eravamo al potere, erano regali alla Casa Bianca. Adesso, non esistono regole che impediscano di fare regali all'ex presidente e al suo staff, ma prima che possa spiegare... «Signor Holloway», mi chiama una voce. Mi giro appena in tempo per vedere il cameriere che mi ha servito la colazione. È vicino alla piscina e ha in mano la mia carta di credito. «Mi scusi... Non volevo che dimenticasse questa», dice, avvicinandosi a noi sulla sabbia. O'Shea si gira verso il mare in modo che il cameriere non possa sentire. «Si concentri, Wes. È davvero così ciecamente devoto? Sa che le hanno mentito. Se lei continua a coprirli, finirà per avere bisogno di un avvocato.» «Ecco, signore», dice il cameriere. «Grazie», rispondo con un mezzo sorriso forzato. O'Shea e Micah non sono altrettanto gentili. Dalle occhiate che mi lanciano, capisco che vogliono altro. Il problema è che non ho nient'altro da dargli, almeno per ora. E finché non ce l'ho, non posso garantirmi alcuna protezione. «Aspetti, torno con lei...» dico girandomi e mettendomi a camminare dietro il cameriere. Anni fa, avevo l'abitudine di mordermi un piccolo callo sul lato del dito indice. Quando arrivai alla Casa Bianca, Dreidel mi fece smettere, dicendo
che non stava bene, sullo sfondo delle foto col presidente. Per la prima volta da dieci anni a questa parte, riprendo a mordermelo. «A presto», mi grida O'Shea. Non gli rispondo neanche. Quando raggiungiamo la piscina, c'è una famiglia giovane che incomincia presto la sua giornata. Il papà sfoglia un giornale, la mamma una rivista e il loro bambino di tre anni, col suo taglio a scodella, gattona giocando con due macchinine, facendole scontrare frontalmente, in continuazione. Mi guardo alle spalle e rivedo la spiaggia. O'Shea e Micah se ne sono già andati. Su una cosa hanno ragione: ho bisogno di un avvocato. Per fortuna so dove trovarlo. 18 Washington. D.C. «Sa che le hanno mentito. Se lei continua a coprirli, finirà per avere bisogno di un avvocato.» «Ecco, signore.» «Grazie», disse la voce di Wes dal piccolo altoparlante sull'armadietto basso di metallo. «Aspetti, torno con lei...» Per sistemare il volume, il Romano mosse leggermente la manopola. Le sue mani spesse, d'acciaio, erano quasi troppo grosse per quel compito. Quand'era un bambino, stavano a malapena nei guanti di suo padre. Ma dopo anni che infilava esche sulle lenze da pesca, aveva imparato l'arte di un tocco delicato. «Buona giornata, signor Holloway», gracchiò una voce dall'altoparlante. Ottenere un microfono abbastanza piccolo era facile. Così come procurarsi una radiolina sintonizzata su un segnale satellitare, che poteva trasmettere all'altro capo del paese. Proteggere il presidente era la specialità dei Servizi segreti, ma a causa delle leggi sulla contraffazione e i reati finanziari il loro settore investigativo era uno dei più potenti al mondo. In effetti, l'unica difficoltà consisteva nel trovare un posto dove nasconderlo. E qualcuno che ce lo mettesse. Il telefono squillò sull'angolo della scrivania, il Romano guardò il numero sullo schermo. Le lettere digitali scure dicevano UFFICI DI LELAND MANNING. Il Romano sorrise fra sé, scostandosi i capelli neri dalla fron-
te pallida. Se solo i pesci persici fossero stati così prevedibili. «Problemi?» chiese alzando la cornetta. «Nessuno. L'ho fatto stamattina presto. L'ho messo in quella spilla, proprio come avevi detto tu.» «L'avevo capito, dalle ultime due ore di conversazione.» Abbassandosi, il Romano aprì l'ultimo cassetto dell'armadietto e con la punta delle dita raggiunse la cartelletta in fondo. «Wes ha detto qualcosa di interessante?» chiese il suo socio. «Ci sta arrivando», rispose il Romano, aprendo la cartelletta sulla scrivania e scoprendo alcune foto in bianco e nero. «E tu? Se la tua inchiesta è così importante... Pensavo che venissi qui.» «Ci verrò», disse il Romano guardando le foto. Ingrigite dal tempo, erano tutte relative alla giornata all'autodromo. Una di Nico, con gli agenti segreti che lo bloccavano per terra, una del presidente che veniva infilato nella limousine, e naturalmente una di Boyle, che applaudiva pochi istanti prima di essere colpito. Il sorriso sul volto di Boyle sembrava indistruttibile... le guance bloccate, i denti scintillanti. Il Romano non riusciva a distogliere lo sguardo. «Devo fare un'altra cosa, prima.» 19 Palm Beach, Florida «Dov'è?» chiedo attraversando di corsa l'atrio del piccolo ufficio, con la sua dozzina di vasi di piante e di orchidee. «Dentro», risponde la ragazza della reception, «ma non puoi...» Troppo tardi. Supero la sua scrivania di formica, stranamente simile a quella che ho buttato via qualche settimana fa, e mi dirigo alla porta coperta di vecchie targhe della Florida. A parte le piante, che erano il tipico regalo di ringraziamento dei clienti, l'ufficio rivela il gusto di un quindicenne quanto all'arredamento. Non importa. Traslocando al di là del ponte un anno fa, Rogo ha scelto un ufficio che avesse un buon indirizzo di Palm Beach. Quando si punta ai ricchi e il 95 per cento dell'attività si svolge per posta, è più che sufficiente. «Wes, è occupato!» grida la segretaria. Spingo la maniglia, spalanco la porta e la mando a sbattere contro il muro. In piedi accanto alla scrivania, Rogo sobbalza: «Wes, sei tu?» Ha gli occhi chiusi. Mentre si dirige verso di me, tocca la carta assorbente, il por-
tamatite e la tastiera, come un cieco che proceda a tentoni. «Cosa ti è successo agli occhi?» «Oculista. Dilatati», dice Rogo, urtando una foto del cane che aveva da bambino. La cornice cade e lui tenta di rimetterla in piedi. «Non vederci è uno schifo.» «Ho bisogno di parlarti», dico. «Nel frattempo, vuoi saperne una ancora più patetica? Dal dottore, ho falsificato l'esame della vista. Prima di entrare, aveva lasciato il tabellone acceso, sai quello con la E gigante e le N3QFD minuscole in fondo? L'ho imparato a memoria e poi gliel'ho ridetto. Haaaa!» «Rogo...» «Insomma, è ancora peggio che...» «Boyle è vivo.» Rogo smette di toccare la cornice e si gira verso di me. «Cos'hai detto?» «L'ho visto, Rogo. Boyle è vivo», ripeto. Mi lascio cadere lentamente su una delle sedie di fronte alla sua scrivania. Rogo gira la testa, seguendo perfettamente i miei movimenti. «Ci vedi benissimo, vero?» chiedo. «Sì», risponde, ancora scioccato. «E quella della reception è la mia vecchia scrivania?» «Sì, l'ho presa quando l'hai buttata via.» «Rogo, l'avevo data in beneficenza.» «E io ti ringrazio per questo. Adesso per favore vuoi dirmi cosa diamine stai bofonchiando a proposito del tuo ex collega morto?» «Te lo giuro... L'ho visto. Gli ho parlato.» «E come...?» «Si è fatto la plastica.» «Be', chi non vorrebbe farsela?» «Dico sul serio. La sparatoria... quel giorno all'autodromo... era... non era come sembrava.» Ci metto quasi mezz'ora per dirgli tutti i particolari, dal camerino in Malaysia alle informazioni di Dreidel sul sangue 0 negativo alle domande dell'FBI sulla spiaggia a proposito del Romano e dei Tre. Da perfetto avvocato, non mi interrompe neanche una volta. Da perfetto Rogo, reagisce immediatamente. «L'hai detto a Dreidel prima che a me?» «Oh, ti prego...» «Ero in macchina con te stamattina. Eri forse così incantato dai classici
degli anni Ottanta, Novanta e Duemila che ti sei dimenticato di dirmi: "A proposito, sai quel tizio che è morto e mi ha devastato la vita? Be', forse segue una dieta integrale, perché in realtà è ancora vivo?"» «Rogo...» «Posso dire un'altra cosa soltanto?» «Riguarda Dreidel?» Incrocia le braccia sul petto. «No.» «Ok, allora...» «Sei nei guai, Wes.» Ammicco almeno quattro volte nel tentativo di digerire le sue parole. Venendo da Rogo, sono più forti delle onde sulla spiaggia. «Sul serio», continua. «Ti hanno incastrato. Per il semplice fatto che hai visto Boyle, l'FBI adesso pensa che tu sia coinvolto nella faccenda. Se non collabori con loro, ti fottono come socio di Boyle o di Manning, come preferiscono. Se non collabori con loro...» «...posso dire addio a quel poco di vita che mi resta. Cosa credi che ci faccia qui? Ho bisogno di aiuto.» Quando l'ho chiesto a Dreidel, ha esitato, soppesando le conseguenze personali e politiche. Rogo è sempre stato diverso. «Dimmi solo chi devo colpire.» Per la prima volta da quarantotto ore a questa parte, faccio davvero un mezzo sorriso. «Ehi», dice, «credi veramente che ti permetterei di farti del male da solo?» «Pensavo di andare da Manning», gli dico. «E io pensavo che per una volta dovresti incominciare a preoccuparti di te stesso.» «Vuoi smetterla?» «E allora tu smettila di fare il segretario. Non hai sentito quello che ha detto l'FBI? Il presidente era coinvolto, qualunque cosa questo voglia dire! Come ti spieghi altrimenti che Nico sia arrivato così vicino e sia riuscito a far passare un'arma in mezzo a tutti quegli agenti segreti? Non senti puzza? È puzza di complicità.» «Forse è qui che intervengono il Romano e i Tre.» «Sono i nomi che ti hanno dato quelli dell'FBI?» «Per questo vorrei andare innanzitutto da Manning. Forse lui...» «Ma ti ascolti quando parli? Se vai da Manning, rischi di mettere in allarme l'unica persona che ha tutte le ragioni del mondo per mandarti sulla
ghigliottina. Mi dispiace se questo mette in crisi le piccole certezze che ti sei costruito negli ultimi otto anni, ma è arrivato il momento di stare attenti. Le cicatrici che hai sulla faccia, puoi pensarla come vuoi, ma non sono una punizione. Non devi niente a nessuno.» «Non è questo il punto.» «No, il punto è: Leland Manning è un buon uomo. Forse un grande uomo. Ma come qualunque uomo - soprattutto se corre per la presidenza quando ne ha bisogno ti mente in faccia. Fai un semplice calcolo, Wes: quanti presidenti degli Stati Uniti hai visto finire in galera? E quanti collaboratori di livello inferiore giurano sulla loro innocenza?» Per la prima volta, non so cosa rispondere. «Ecco», continua Rogo. «Abbattere un presidente è come demolire un edificio, piccole cariche esplosive e molta forza di gravità. In questo preciso istante, stai per essere risucchiato in un buco.» «Questo non vuol dire che sia un mostro.» «Ti prego, non saresti neanche qui se non avessi il letto pieno di scorpioni!» Seduto di fronte a lui, tengo gli occhi bassi. Durante l'ultima settimana alla Casa Bianca, chiamarono tutti gli ex presidenti, Bush, Clinton... Ma fu Bush padre a dare a Manning il consiglio migliore. Gli disse: «Quando scendi dall'Air Force One, saluta in cima alla scaletta... e quando l'unico intervistatore tv, in piedi sull'asfalto, ti chiede che cosa provi, grida: "È splendido essere di nuovo a casa!" E guarda davanti a te e cerca di non pensare a com'era quattro o cinque ore prima.» Quando l'aereo atterrò, Manning fece esattamente così. Disse quella bugia con facilità, con un sorriso perfetto. Rogo mi guarda attentamente mentre mi mordo il callo sul dito. «So cosa significa per te, Wes.» «No, non lo sai.» Mi infilo la mano sotto la coscia. «Dimmi solo cosa dovrei fare secondo te.» «Sai già come la penso», risponde Rogo con un sorriso. Anche quando gli davano un calcio nel sedere, gli è sempre piaciuta una bella lotta. Prende un taccuino sulla scrivania e si mette a cercare una penna. «Sai perché mi tolgono il 96 per cento delle multe per eccesso di velocità? O il 92 per cento di quelle per inversione a U? Perché scavo, scavo, scavo e scavo ancora. Controllo i dettagli, Wes: se il poliziotto sbaglia a riportare il numero della multa, annullata. Se non riporta il suo numero personale, annullata. Tutto dipende dai dettagli. Per questo voglio sapere chi sono i Tre e questo
tizio detto il Romano.» «Hai ancora quell'amico alla stazione di polizia?» «Come credi che faccia ad avere la lista dei multati due ore prima di chiunque altro? Controllerà tutto quello che ci serve.» «Dreidel ha detto che avrebbe controllato anche lui qualche altra cosa. È bravo e...» Il cellulare vibra nella mia tasca. Lo apro e vedo un numero familiare. Tempismo perfetto. «Novità?» dico rispondendo. «Sei stato tu a passarle l'informazione?» sbotta Dreidel con voce affannata. «Prego?» «Quella giornalista, Lisbeth come-si-chiama... del "Palm Beach Post"...» Prende fiato per mantenere la calma. Capisco solo che c'è qualcosa che non va. «L'hai chiamata tu stamattina?» «Non so di cosa...» «Va bene, se anche sei stato tu, non sono arrabbiato... Ho solo bisogno di sapere che cosa le hai detto.» È la seconda volta che mi interrompe. E come tutti i giovani politici, quando dice di non essere arrabbiato è perché ti vorrebbe strappare gli occhi. «Dreidel, ti giuro che io non ho...» «E allora come fa a sapere che ci siamo incontrati? Che ho bevuto un caffè e mangiato parte del tuo toast? Con chi...?» Si riprende, abbassa la voce. «A chi altro l'hai detto?» Guardo Rogo. «A nessuno. Non può averla chiamata nessuno. Ti giuro...» «Ok, va bene», dice a sé stesso, più che a me. «Ho solo... Voglio solo che tu smentisca la faccenda, ok? Ti sta per telefonare, vuole una dichiarazione. Puoi farmi il piacere di smontare la storia?» Conosco Dreidel da quasi dieci anni. L'ultima volta che l'ho visto in preda al panico, la First Lady stava urlandogli contro. «Ti prego, Wes.» «Certo... certo... ma perché sei così nervoso per una stupida colazione?» «No, non è la colazione... È la colazione a Palm Beach, Florida, mentre mia moglie pensava che fossi ancora nell'albergo dove c'è stato l'incontro di ieri, ad Atlanta.» Mi lascia un minuto per collegare i fatti. «Aspetta, vuoi dire che quella donna... Non l'hai incontrata al bar...» «Jean, si chiama Jean. Sì, ho lasciato Atlanta e sono arrivato qui prima
per lei. L'ho conosciuta qualche mese fa, va bene? Sei contento? Adesso sai tutto. Ti chiedo solo di non dire niente a quella tizia del gossip, perché se l'articolo esce domani ed Ellen lo vede...» Sento un bip nel mio cellulare. «È lei», dice Dreidel. «Devi solo bloccare tutto. Promettile qualcosa... dieci minuti con Manning... Ti prego, Wes, pensa alla mia famiglia, pensa ad Ali», aggiunge riferendosi a sua figlia. «E alla mia corsa per il senato.» Prima che possa reagire, sento un altro bip. Premo il tasto del telefono e rispondo alla nuova chiamata. «Wes», dico. «Signor Holloway, sono Gerald Lang», dice una voce asciutta e professionale. «Dell'ufficio del sovrintendente», spiega, riferendosi alla Manning Presidential Library. «Claudia mi ha consigliato di telefonare a lei e...» «Questo non è un buon momento, in verità.» «Le chiedo solo un istante, signore. Vede, stiamo organizzando una nuova mostra sulle attività della presidenza, con una particolare attenzione alla lunga storia di giovani che sono stati segretari presidenziali. Una specie di... retrospettiva, se riesce a immaginare... da Meriwether Lewis, che ha lavorato sotto Thomas Jefferson, a Jack Valenti, che ha lavorato con Lyndon Johnson, fino a... lei, speriamo.» «Aspetti: una mostra su di me?» «Be', soprattutto sugli altri, ovviamente. Una vera retrospettiva.» Sta già correggendosi, il che significa che conosce le regole. Il mio compito è essere l'uomo più vicino al presidente, stare al suo fianco, ma mai davanti a lui. «Apprezzo l'offerta, signor Lang...» «Gerald.» «E mi piacerebbe poter contribuire, Gerald, ma...» «Il presidente Manning ha dato la sua approvazione», dice calando l'asso che aveva nella manica. «Anche Claudia. Una vera retrospettiva. Quando pensa che potremmo vederci per...?» «Più tardi, d'accordo? Mi richiami più tardi.» Stacco la comunicazione e torno a Dreidel. «Cos'ha detto? Sa tutto?» chiede Dreidel, ancora in preda al panico. Prima che possa rispondergli, il mio telefono suona di nuovo. Chiaramente, il mio amico curatore non ha capito l'antifona. «Lascia che mi liberi di questo tizio», dico a Dreidel, ripassando sull'altra linea. «Gerald, le ho già detto...» «Chi è Gerald?» mi interrompe una voce femminile.
«P... prego?» «Salve, Wes, sono Lisbeth Dodson, del "Palm Beach Post". Le piacerebbe vedere il suo nome sulla stampa?» 20 Washington, D.C. La ruota anteriore sinistra si infilò nella buca a tutta velocità, affondando nella neve sciolta e facendo sussultare violentemente il SUV nero. Con una sterzata improvvisa, l'auto si spostò sulla destra. Un secondo colpo la scosse. Il Romano bestemmiò fra i denti. Le strade del D.C. erano abbastanza cattive. Ma la zona sud-ovest di Washington era sempre la peggiore. Prese uno straccio, tolse un leggero strato di neve dal parabrezza e svoltò nella Malcolm X Avenue. Le macchine bruciate, i mucchi di lattine e gli edifici con assi al posto delle finestre rendevano la zona una di quelle in cui non era bene smarrirsi. Per fortuna lui sapeva esattamente dove andare. Un chilometro e mezzo più avanti, l'auto si arrestò a un semaforo. La Malcolm X incrociava la Martin Luther King Jr. Avenue. Il Romano non poté fare a meno di sorridere fra sé. Per otto anni aveva scommesso sulla possibilità di una coesistenza pacifica. Ma adesso che Boyle era ricomparso... e Wes l'aveva visto... e anche O'Shea e Micah stavano avvicinandosi... a volte non restava che la strada più dura. Non era stato diverso, otto anni prima, quando avevano avvicinato Nico per la prima volta. Naturalmente, non c'erano tutti e tre. Per sicurezza, era andato uno solo. Naturalmente, Nico era esitante, ostile, anche. A nessuno piace vedere attaccata la propria famiglia. Ma per questo gli furono mostrate le prove: i documenti relativi alla permanenza di sua madre in ospedale. «Che cos'è?» aveva chiesto Nico scorrendo il foglio con i numeri delle stanze e gli orari di consegna. In cima c'era scritta a mano una sola parola: CENA. «È il tabulato delle cene consegnate», disse il Numero Tre, «nel giorno della morte di tua madre.» Naturalmente, Nico vide il nome di sua madre, Hadrian, Mary. E il suo vecchio numero di stanza, 913. E quello che aveva ordinato, polpettone. Ma quello che lo confondeva erano gli appunti a mano nella colonna con la scritta «Orario consegna». Sul foglio, ogni paziente aveva un orario di-
verso: 6.03 pm... 6.09 pm... 6.12 pm... Tranne la madre di Nico, per la quale c'era scritto semplicemente PAZIENTE DECEDUTA. Nico alzò lo sguardo, chiaramente confuso. «Non capisco. Questa è la sua ultima giornata... la domenica in cui è morta?» «Non esattamente», rispose il Numero Tre. «Guarda la data nell'angolo. 16 settembre, giusto?» Nico annuì e lui riprese a spiegare: «Il 16 settembre era un sabato, Nico. Secondo questo documento, tua madre è morta di sabato.» «No», insisté Nico. «È morta di domenica. Domenica 17 settembre. Mi ricordo, ero... eravamo in chiesa.» Guardò il foglio e aggiunse: «Com'è possibile?» «No, Nico, la domanda da porsi è: perché qualcuno ha fatto una cosa del genere?» Nico scosse la testa furiosamente. «No, è impossibile. Eravamo in chiesa. Nella seconda fila. Ricordo mio padre che arrivava e...» Nico si bloccò. «È questa la cosa splendida della chiesa, vero, Nico? Quando tutti sono lì nei loro sedili e guardano un padre preoccupato che prega coi suoi due bambini... È un alibi perfetto.» «Aspetti... mi sta dicendo che mio padre ha ucciso mia...» «Erano... tre anni, giusto? che era in coma. Tre anni senza madre. Senza nessuno a curare la casa. Ogni giorno... tutte quelle preghiere e quelle visite... la sua malattia consumava la vostra vita.» «Non l'avrebbe mai fatto! Lui l'amava!» «Amava di più te, Nico. Avevi già perso tre anni della tua infanzia. Per questo l'ha fatto. Per te. L'ha fatto per te.» «M... ma i dottori... il medico legale non...?» «Il dottor Albie Morales - il neurologo che la dichiarò morta - è il maestro adoratore che guida la loggia massonica di tuo padre. Il medico legale Turner Sinclair - che ha compilato gli altri documenti - è il decano della stessa loggia. È così che fanno i massoni, Nico. È così che hanno fatto nel corso della sto...» «Lei mente!» esplose Nico, mettendosi le mani sulle orecchie. «Mi dica che sta mentendo!» «L'ha fatto per te, Nico.» Nico oscillava rapidamente avanti e indietro, mentre le lacrime gli scendevano a grosse gocce sul foglio di carta che riportava l'ultima cena ordinata da sua madre. «Quando è morta... è stato... è morta per i miei peccati!
Non per i suoi!» Gemeva come un bambino di dieci anni, tutto il suo sistema di valori era in frantumi. «Doveva morire per i miei peccati!» Fu allora che i Tre capirono che Nico era loro. Naturalmente, l'avevano scelto proprio per questo. Non era difficile. Grazie alla possibilità del Romano di accedere ai file dell'esercito, si concentrarono su quelli di Fort Benning e Fort Bragg, che ospitavano due delle scuole di tiro dell'esercito. Aggiungendo le parole «congedato con disonore» e «problemi psicologici», la lista si riduceva rapidamente. Nico attualmente era il terzo. Ma quando provarono a scavare meglio - quando si accorsero della sua devozione religiosa e videro il gruppo a cui era affiliato suo padre - Nico salì subito in cima alla lista. A quel punto, non restava che trovarlo. Poiché tutte le residenze momentanee e tutti i rifugi per senzatetto che ricevono sussidi governativi devono fornire i nomi di coloro che le usano, questa era la parte più facile. Poi dovettero verificare se lo si poteva controllare. Per questo lo riportarono alla roulotte di suo padre e gli diedero l'arma e gli dissero che c'era un solo modo per liberare lo spirito di sua madre. Durante l'addestramento di tiro, Nico aveva imparato a sparare tra un battito cardiaco e l'altro, per ridurre il movimento della canna. In piedi sopra suo padre, che chiedeva pietà piangendo sul pavimento di linoleum rovinato, Nico premette il grilletto senza esitare. E i Tre capirono di avere il loro uomo. Tutto grazie a un semplice foglio di carta con un falso elenco di ordinazioni alla mensa dell'ospedale. Quando il semaforo tornò verde, il Romano svoltò a sinistra e premette l'acceleratore, facendo sbandare le ruote posteriori e sollevando spruzzi di neve fangosa. L'auto ondeggiò sulla strada non ripulita, poi si rimise in carreggiata sotto la guida decisa del Romano. Aveva investito troppo tempo per perdere il controllo adesso. In lontananza, i vecchi negozi e le vecchie case lasciavano il posto a una recinzione arrugginita che delimitava un ampio parco e che avrebbe dovuto fare sentire il quartiere più sicuro. Ma, con ventidue pazienti fuggiti nell'ultimo anno, la maggior parte dei residenti capiva bene che la recinzione non svolgeva il suo compito al meglio. Il Romano ignorò la cappella e un altro edificio alto di mattoni vicini alla recinzione, svoltò a destra e puntò su una guardiola appena dentro l'ingresso principale. Erano passati quasi otto anni dall'ultima volta che era venuto qui. E mentre abbassava il finestrino e notava la vernice gialla e ne-
ra scrostata sull'anta del cancello, si accorse che non era cambiato nulla, comprese le procedure di sicurezza. «Benvenuto al St. Elizabeths», disse un guardiano con le labbra spaccate dal freddo. «Visita o consegna?» «Visita», rispose il Romano, mostrando un badge dei Servizi segreti senza smettere di guardarlo negli occhi. Come tutti gli agenti prima di lui, quando Roland Egen era entrato nei Servizi segreti, non l'avevano messo alla Protezione. Con l'autorità dei Servizi per i reati finanziari, aveva passato cinque anni a sventare contraffazioni e reati informatici nell'ufficio di Houston. Aveva avuto il suo primo incarico di Protezione: valutare le minacce per il settore Intelligence, e da lì, grazie alla sua abilità nelle indagini criminali, aveva fatto carriera negli uffici di Pretoria. Era stata la sua forte determinazione a permettergli di salire nella gerarchia dei Servizi segreti, fino alla posizione attuale di vice direttore assistente alla Protezione. Ma erano state le ore di straordinario nella veste del Romano che gli avevano dato i risultati migliori. «Sono qui per Nicholas Hadrian.» «Nico è nei guai, eh?» chiese il guardiano. «Strano, dice sempre che sta per succedere qualcosa. Stavolta l'ha azzeccata.» «Già», disse il Romano, osservando la piccola croce sul tetto della cappella di mattoni in lontananza. «Fantastica la sua isteria!» 21 Palm Beach, Florida «Comunque, è un bel colpo beccarti a pranzo con Dreidel al Four Seasons», dice Lisbeth mentre Rogo si infila di fianco a me e si attacca il telefono all'orecchio. «Una specie di riunione della Casa Bianca in un ristorante del soleggiato sud. I ragazzi del presidente eccetera eccetera.» «Sembra divertente», dico sperando di tenerla allegra. «Ma non sono sicuro che sia una notizia.» «Straordinario», ribatte lei sarcastica. «È esattamente quello che ha detto Dreidel. Vi hanno separato alla nascita, o è una cosa che viene spontanea col vostro lavoro?» Conosco Lisbeth dal giorno in cui è diventata responsabile della rubrica di gossip del «Post». I nostri patti sono chiari. Lei telefona e chiede gentilmente una citazione del presidente. Io le rispondo gentilmente che ci dispiace, ma non facciamo più queste cose. È un innocuo valzerino. Il pro-
blema è che, se non gioco attentamente le mie carte, le offrirò il destro per passare a qualcosa di molto più ritmato. «Ma dai, Lisbeth, nessuno sa neanche chi siamo io e Dreidel.» «Sì, Dreidel ha tentato anche questa. Subito prima di chiedere se poteva richiamarmi lui: segno sicuro che non lo sentirò mai più. Insomma, considerando che ha quella piccola raccolta fondi stasera, mi sarei aspettata che fosse felice di vedere il suo nome sul giornale locale. Ora, vuoi concedermi una dichiarazione su quanto è stato bello per te e per il tuo amico ricordare i vecchi tempi alla Casa Bianca, o vuoi che incominci a sospettare che c'è qualcosa che non va a Manningville?» Ride mentre lo dice, ma ho frequentato i giornalisti quanto basta per sapere che, quando si tratta di riempire le loro colonne, non c'è niente da ridere. ATTENTO, scrive Rogo su un pezzo di carta. LA RAGAZZA NON È STUPIDA. Annuisco e torno a concentrarmi sul telefono. «Senti, sono lieto di darti tutte le citazioni che vuoi, ma francamente siamo stati al ristorante solo pochi minuti...» «E questa è ufficialmente la terza volta che cerchi di minimizzare questa storia tanto noiosa. Sai che cosa ci insegnano alla scuola di giornalismo, quando qualcuno cerca di minimizzare, Wes?» Sul foglietto di carta, Rogo aggiunge un punto esclamativo di fianco a LA RAGAZZA NON È STUPIDA. «Ok, va bene. Vuoi sapere la verità?» «No, preferirei la montatura, sai...» «Ma niente di ufficiale», l'avverto. Lei resta zitta, sperando che continui a parlare. È un vecchio trucco da giornalista, per poter dire che non ha acconsentito. Ci sono cascato la prima settimana che lavoravo alla Casa Bianca. È stata l'ultima volta. «Lisbeth...» «D'accordo... va bene, niente di ufficiale. Allora, cosa bolle in pentola?» «Il compleanno di Manning», invento. «Per i suoi sessantacinque anni. Io e Dreidel eravamo incaricati della festa a sorpresa, finché non hai telefonato tu stamattina. Ho detto a Manning che avevo delle cose da fare. Dreidel era in città e gli ha detto la stessa cosa. Se Manning legge sul giornale di domani che eravamo insieme...» Faccio una pausa a effetto. È una pessima bugia, ma il suo silenzio mi fa capire che sta funzionando. «Sai che non chiediamo mai niente, Lisbeth, ma se potessi lasciarci fuori, per questa volta...» Faccio un'altra pausa prima del gran finale. «Ti restituiremmo il favore.»
Posso praticamente sentirla sorridere all'altro capo. In una città così salottiera, un credito nei confronti dell'ex presidente degli Stati Uniti è un ottimo affare. «Voglio dieci minuti faccia a faccia con Manning la sera della festa», dice Lisbeth. «Cinque minuti è il massimo che concede.» Rogo scuote la testa. Non basta, dice muovendo solo le labbra. «D'accordo», accetta Lisbeth. Rogo fa un doppio segno di ok con le dita e dice Perfetto senza parlare. «E la mia colazione con Dreidel?» chiedo. «Colazione? Suvvia, Wes, a chi interessa se due ex colleghi prendono un caffè insieme? Considerala ufficialmente defunta.» 22 «Sai che non chiediamo mai niente, Lisbeth, ma se potessi lasciarci fuori, per questa volta...» Mentre ascoltava le parole di Wes, Lisbeth si rizzò sulla sedia e incominciò a giocare col filo del telefono, facendolo girare come una corda per saltare. Dalla pausa forzata all'altro capo della linea, sembrava che Wes fosse pronto a trattare. «Ti restituiremmo il favore», offrì lui subito dopo. Lisbeth smise di fare girare il filo del telefono. Regola sacra n. 4: solo i colpevoli trattano. Regola sacra n. 5: e gli opportunisti. «Voglio dieci minuti faccia a faccia con Manning la sera della festa», disse sapendo, come tutti i bravi pubblicisti, che avrebbe ottenuto la metà. «Cinque minuti è il massimo che concede.» «D'accordo», disse mettendosi a frugare nel mucchio di inviti sull'angolo della scrivania. Serata inaugurale all'opera. Mercato annuale dell'artigianato al Sailfish Club. Battesimi dai Whedons. Doveva esserci, da qualche parte... «E la mia colazione con Dreidel?» chiese Wes. Continuando a frugare nel mucchio, Lisbeth rispose distrattamente. «Colazione? Suvvia, Wes, a chi interessa se due ex colleghi prendono un caffè insieme? Considerala ufficialmente defunta.» La festa a sorpresa di Manning - e i suoi cinque minuti -avrebbero dovuto aspettare almeno un mese. Ma non era affatto costretta a starsene lontana fino ad allora. Soprattutto perché c'erano tanti altri modi per avvicinarsi. Lisbeth sbatté giù il telefono senza distogliere lo sguardo dagli inviti. Ri-
cevimento della Leukemia Society, della Historical Society, della Knesset Society, della Palm Beach Society, della Renaissance Society, dell'Alexis de Tocqueville Society... e poi... ecco... Lisbeth tirò fuori il cartoncino rettangolare dal mucchio. Come tutti gli altri inviti, aveva un'aria modesta, la stampa era precisa e la busta recava scritto il suo nome. Ma, oltre alla carta color crema e alla svolazzante grafia nera, c'era qualcos'altro: UNA SERATA COL PRESIDENTE LELAND F. MANNING. 65 ROSE IN BENEFICENZA. FONDAZIONE PER LA FIBROSI CISTICA. Quella sera stessa. Non le importava la reticenza di Wes e Dreidel. Né le sciocchezze sulla presunta festa a sorpresa per Manning. Ma Wes le aveva chiesto di rinunciare al pezzo... Regola sacra n. 6: negli articoli di gossip finivano due soli tipi di persone, quelli che volevano finirci e quelli che non volevano finirci. Wes si era appena messo nella categoria dei non. E senza dubbio erano molto più interessanti. Lisbeth riprese il telefono e fece il numero sull'invito. «Claire», rispose una donna anziana. «Salve, Claire, sono Lisbeth Dodson del "Post". Spero che non sia troppo tardi per confermare...» «Per stasera? Oh, no... Sa, leggiamo i suoi articoli tutti i giorni», rispose la donna, un po' troppo entusiasta. «Chiamerò l'ufficio del presidente per dire che ci sarà anche lei...» «Lo sanno già», disse Lisbeth tranquillamente. «Ho appena finito di parlare con uno dello staff. Sono molto contenti che ci sia anch'io.» 23 Tre minuti e mezzo, si disse Nico guardando l'Acura grigia che procedeva in mezzo alla neve e proseguiva lungo la stradina secondaria davanti al vetro infrangibile della sua finestra al secondo piano. Si tirò su la manica della maglia marrone scolorita e fissò la lancetta dell'orologio, contando fra sé. Un minuto... due... tre... Nico chiuse gli occhi e incominciò a pregare. La sua testa oscillò sedici volte. Tre e mezzo... Oscillando leggermente, riaprì gli occhi e si girò verso la porta della sua stanza. La porta non si aprì. Appollaiato sul calorifero arrugginito sotto la finestra, continuò a oscillare lentamente, girandosi verso la neve che cadeva e pizzicando la corda del La del suo vecchio violino di tiglio. Il violino aveva un minuscolo qua-
drifoglio intagliato sul manico, ma Nico era molto più interessato alla perfetta croce che le corde formavano con la tastiera di ebano. Quando era arrivato al St. Elizabeths, aveva passato due settimane seduto nello stesso posto, a guardare fuori della stessa finestra. Naturalmente i dottori l'avevano distolto da quell'atteggiamento, che consideravano antisociale ed evasivo. Le cose peggiorarono quando esaminarono ciò che Nico vedeva: sulla destra, un edificio di mattoni bruciato con su uno stemma militare («simbolo troppo esplicito del suo passato militare»); sulla sinistra, le sponde del fiume Anacostia («non premiamolo con una bella vista»); e in lontananza, al confine della proprietà, una mezza dozzina di campi recintati con centinaia di lapidi dalla guerra civile alla prima guerra mondiale, quando i pazienti dell'esercito e della marina venivano ancora sepolti all'interno della proprietà («non deve concentrarsi sulla morte»). Quando però Nico aveva detto a un infermiere che il corniolo davanti alla finestra gli ricordava la casa della sua infanzia nel Wisconsin, dove sua madre suonava il violoncello e il vento faceva oscillare i rami dell'albero al ritmo della musica, i dottori non solo avevano cambiato idea, ma avevano trovato qualcuno che gli aveva regalato il violino con il quadrifoglio intagliato. «I ricordi positivi dovevano essere incoraggiati.» Nico sapeva che quello era un segno. Proprio come Dio aveva scritto nel Libro. E Dio li aveva mandati. I Tre Violinisti. Otto anni più tardi, viveva ancora nella stessa stanza, con lo stesso lettino, lo stesso comodino e lo stesso tavolino dipinto con su la Bibbia e il rosario di vetro rosso. Ma quello che teneva sempre per sé era che, mentre osservava il corniolo e ripensava ai vecchi tempi con la madre, stava molto più attento alla stradina rovinata che passava lì davanti, salendo dall'ingresso principale e attraversando la proprietà fino al parcheggio verso l'accesso al Padiglione John Howard. L'albero era senza dubbio un segno - la croce di Cristo era fatta di corniolo - ma la strada che ci passava davanti... la strada era la via per la sua salvezza. Lo sentiva nel cuore. L'aveva capito la prima volta che l'aveva vista, piena di erbacce e piantine che spuntavano nelle crepe dell'asfalto rovinato. Ogni anno la strada si bucava un po' di più, mentre le erbe si spingevano un po' più avanti. Come un mostro, pensava Nico. Un mostro che viene da dentro. Proprio come quello che aveva ucciso sua madre. Non voleva premere il grilletto. Almeno all'inizio. E neanche quando i Tre gli avevano ricordato i peccati di suo padre. Ma mentre osservava la
prova, il documento dell'ospedale... «Chiedi a tuo padre», aveva detto il Numero Tre. «Non negherà.» Oscillando su sé stesso mentre guardava fuori della finestra dell'ospedale, Nico poteva sentire ancora le parole. L'odore dolciastro del sigaro di suo padre. Il vento aspro del Wisconsin che gli crepava i polmoni mentre saliva di corsa i gradini di metallo della roulotte di suo padre. Non lo vedeva da quasi sei anni. Prima dell'esercito... prima del congedo... prima del rifugio. Nico non sapeva neanche dove trovarlo. Ma i Tre sì. I Tre l'avevano aiutato. I Tre, che Dio li benedica, stavano riportando Nico a casa. Per punire il mostro. E mettere le cose a posto. «Papà, lei doveva morire per i miei peccati!» aveva gridato spalancando la porta e precipitandosi dentro. Nico poteva sentire ancora le parole. L'odore del sigaro. La punta del suo dito che si contraeva sul grilletto mentre suo padre pregava, singhiozzava, implorava: «Ti prego, Nico, sei mio... Lascia che ti aiuti.» Ma l'unica cosa che Nico aveva visto era la foto di sua madre - la foto del suo matrimonio! - perfettamente conservata sotto il ripiano di vetro del tavolino. Così giovane e bella... tutta vestita di bianco... come un angelo. Il suo angelo. Il suo angelo che gli avevano portato via. Che i mostri gli avevano portato via. Le Bestie. «Nico, ti giuro sulla mia vita... su quello che c'è di più sacro... sono innocente!» «Nessuno è innocente, papà.» La cosa che aveva sentito subito dopo era stato il piede che gli scivolava sul pavimento di linoleum, tutto sporco di... sporco di rosso. Una pozza rosso scuro. Tutto quel sangue. «Papà?» aveva sussurrato Nico, con il volto punteggiato di macchioline di sangue. Suo padre non aveva mai risposto. «Non farti prendere dai dubbi, Nico», gli aveva detto il Numero Tre. «Guardagli la caviglia. Troverai il loro marchio.» Nico si era avvicinato - ignorando il buco della pallottola nella mano di suo padre (per fargli provare il dolore di Gesù) e l'altro buco nel cuore - gli aveva preso la gamba e gli aveva abbassato la calza. Era lì. Proprio come aveva detto il Numero Tre. Il marchio nascosto. Nascosto a suo figlio. A sua moglie. Un piccolo tatuaggio.
Il compasso e la squadra, i più sacri di tutti i simboli massonici. Gli attrezzi dell'architetto... gli attrezzi per costruire la loro porta... e una G a significare il Grande Architetto dell'Universo. «Questo dimostra che era dei loro», aveva spiegato il Numero Tre. Lui aveva annuito, ancora confuso per il fatto che suo padre aveva conservato il segreto così a lungo. Ma adesso il mostro era stato ucciso. Però, aveva osservato il Numero Tre, grazie ai massoni, c'erano molti altri mostri che lottavano per venire alla luce. Altre Bestie. Combattendo - servendo Dio - Nico poteva trasformare la morte di sua madre in una benedizione. I Tre l'avevano chiamato fatum. La parola latina che significava destino. Il destino di Nico. Lui aveva alzato gli occhi sentendo la parola. Destino. «Sì, è quello che lei... Come la Bibbia.» In quel momento, aveva capito la sua missione, e perché sua madre era scomparsa. «Vi prego, io devo... vorrei aiutarvi a uccidere i mostri», si era offerto. Il Numero Tre l'aveva guardato attentamente. Avrebbe potuto abbandonarlo allora. Avrebbe potuto scaricarlo... continuare a combattere da solo. Invece aveva detto quello che solo un vero uomo di Dio poteva dire. «Figliolo, preghiamo.» Il Numero Tre aveva aperto le braccia e Nico vi era caduto dentro, sentendo i suoi singhiozzi, vedendo le sue lacrime. Non era più un estraneo. Era come un padre. Fatum, aveva deciso Nico quel giorno. Il suo destino. Nel corso del mese successivo, i Tre gli avevano rivelato la sua missione. Gli avevano parlato del nemico e della loro forza. Da Voltaire a Napoleone, a Winston Churchill, i massoni per secoli avevano coltivato i membri più potenti della società. In campo artistico avevano avuto Mozart, Beethoven e Bach. In letteratura, Arthur Conan Doyle, Rudyard Kipling e Oscar Wilde. Negli affari, erano cresciuti grazie ai finanziamenti di Henry Ford, Frederick Maytag e J.C. Penney. Negli Stati Uniti, avevano raggiunto nuove vette di potere: da Benjamin Franklin a John Hancock, otto firmatari della Dichiarazione di indipenden-
za erano massoni. Nove firmatari della Costituzione. Trentun generali dell'esercito di Washington. Cinque giudici della Corte Suprema, da John Marshall a Earl Warren. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, i massoni raccoglievano le persone più influenti della società: Paul Revere, Benedict Arnold, Mark Twain, John Wayne, Roy Rogers, Cecil B. De Mille, Douglas Fairbanks, Clark Gable, perfino Harry Houdini. Era una coincidenza che Douglas MacArthur fosse diventato generale dell'esercito? O che Brigham Young avesse fondato una religione? O che J. Edgar Hoover avesse avuto il comando dell'FBI? O che Buzz Aldrin fosse sul primo razzo arrivato sulla Luna? Erano tutte tappe. Tutte dei massoni. E senza considerare le sedici volte in cui avevano occupato la Casa Bianca: i presidenti George Washington, James Monroe, Teddy Roosevelt, Franklin D. Roosevelt, Truman, Lyndon Johnson, Gerald Ford... e soprattutto il presidente Leland F. Manning e il mostro chiamato Ron Boyle. Un mese dopo il loro primo incontro, i Tre gli avevano svelato il peccato di Boyle. Come gli avevano svelato quello di suo padre. Continuando a oscillare e a tormentare la corda del La, Nico sentì il raschiare delle gomme che salivano sul ghiaccio. Un SUV nero apparve alla vista, i tergicristalli che sbattevano la neve di lato come una mosca fastidiosa. Nico continuò a strimpellare, ben sapendo che un SUV nero di solito voleva dire Servizi segreti. Ma quando l'auto passò davanti al corniolo, vide che il posto del passeggero era vuoto: i Servizi non arrivavano mai da soli. Tre minuti e mezzo, si disse Nico studiando la lancetta dei secondi sul suo orologio. Ormai l'aveva calcolato perfettamente. Tre minuti e mezzo erano la media. Per i dottori, per gli infermieri, anche per sua sorella, prima che smettesse di venire a fargli visita. Lei aveva sempre bisogno di trenta secondi in più per farsi forza, ma anche nei casi peggiori - quella cupa domenica in cui lui aveva cercato di ferirsi - tre minuti e mezzo erano più che sufficienti. Nico guardò di nuovo la lancetta dell'orologio. Un minuto... due... tre... Chiuse gli occhi, chinò la testa e si mise a pregare. Tre e mezzo. Nico riaprì gli occhi e si girò verso la porta della sua stanza due per tre. La maniglia si mosse leggermente e l'infermiere con gli occhi iniettati di sangue comparve sulla soglia. «Nico, sei presentabile? Hai una visita», disse. Otto anni di guardia. Otto anni di attesa. Otto anni convinto che il Libro del Fato non poteva essere disatteso. Nico sentì le lacrime che gli riempi-
vano gli occhi mentre un uomo con pallidi lineamenti irlandesi e capelli corvini entrava nella stanza. «Lieto di vederti, Nico», disse il Romano. «È passato davvero molto tempo.» 24 «Manning Presidential Library. Come posso aiutarla?» risponde la centralinista. «Vorrei delle informazioni sui documenti presidenziali», dico controllando per la seconda volta che la porta del mio ufficio sia chiusa. Rogo ha detto che potevo usare il suo ufficio per telefonare, ma tra il pranzo e le nostre chiacchiere sono già stato via troppo. «Le passo l'archivista di turno», dice la centralinista. Potevo chiamare il direttore della biblioteca, come ha suggerito Rogo, ma è meglio tenere un profilo basso. «Sono Kara. Come posso aiutarla?» chiede una dolce voce femminile. «Salve, Kara. Sono Wes dell'ufficio personale del presidente. Stiamo cercando alcuni vecchi file su Ron Boyle per un libro omaggio e mi chiedevo se potesse prepararceli.» «Mi scusi, mi ripete il suo nome?» «Wes Holloway. Non si preoccupi... sono nell'elenco dei collaboratori», dico con una risata. Lei non ride. «Mi dispiace, Wes, ma prima di rilasciare un documento dobbiamo riempire un modulo di richiesta indicando a chi sono destinati...» «Al presidente Manning. Li ha richiesti personalmente», la interrompo. Ogni regola ha le sue eccezioni. I poliziotti possono passare col rosso. I dottori possono lasciare l'auto in divieto di sosta in caso di emergenza. E se vi chiamate Leland Manning, potete avere tutti i documenti che volete dalla Manning Presidential Library. «D... diteci quello che vi serve. Ve li preparo subito», dice Kara. «Fantastico», rispondo aprendo il grosso faldone che ho sulla scrivania. La prima pagina reca la scritta ARCHIVI PRESIDENZIALI e DOCUMENTI STORICI. Noi lo consideriamo la guida al diario più grosso del inondo. Per quattro anni alla Casa Bianca ogni documento, ogni e-mail, ogni biglietto d'auguri inviato è stato catalogato, copiato e archiviato. Quando abbiamo lasciato Washington, ci sono voluti quattro aerei da trasporto per
trasferire quattro milioni di documenti, più di un milione di foto, venti milioni di e-mail stampate e quarantamila «manufatti», tra cui quattro diversi telefoni a forma di Leone Codardo, due dei quali fatti a mano con la faccia del presidente sopra. Comunque, l'unico modo per trovare l'ago che si cerca è di saltare nel pagliaio. E l'unico modo per capire che cosa stava facendo Boyle è di aprire i cassetti della sua scrivania e vedere che cosa c'è dentro. «Sotto Staff della Casa Bianca, incominciamo con i documenti di quando Boyle era vice capo», dico sfogliando le prime pagine della mia guida, «e naturalmente tutti i suoi archivi personali, compresa la corrispondenza in entrata e in uscita.» Vado alla sezione successiva. «Vorrei pure il suo stato di servizio. Comprende anche tutte le lamentele nei suoi confronti, vero?» «Dovrebbe», dice l'archivista, insospettita. «Non si preoccupi», rido, notando il cambiamento del suo tono di voce. «È solo per passare tutto al setaccio in modo da sapere bene dove sono gli scheletri...» «Sì... Certo... È che... Mi ripete a che cosa le serve tutto questo?» «Un libro a cui sta lavorando il presidente, sugli anni di servizio di Boyle, dall'arrivo alla Casa Bianca al momento dell'attentato all'autodromo...» «Se vuole, abbiamo anche il video... sa, con Boyle, e quel giovane che è stato colpito alla faccia...» Quando John Hinckley cercò di uccidere Ronald Reagan, colpì il presidente, James Brady, l'agente dei Servizi segreti Tim McCarthy e l'agente di polizia Thomas Delahanty. Tutti ricordiamo il nome di James Brady. McCarthy e Delahanty sono finiti nelle domande di Trivial Pursuit. Come me. «Quanto tempo pensa che le ci vorrà?» chiedo. Kara ansima leggermente nella cornetta. È la cosa più simile a una risata che riesca a emettere. «Aspetti... quattordici, quindici, sedici... probabilmente stiamo parlando di qualche cosa come più di cinque metri lineari, ovvero... vediamo... trentaseimila pagine.» «Trentaseimila pagine», ripeto con voce cupa. Il pagliaio è diventato di oltre cinque metri più alto. «Se mi spiega un po' meglio quello che sta cercando, forse posso aiutarla a restringere la ricerca...» «Be', in effetti ci sono un paio di cose che vorremmo trovare il più in fretta possibile. Il presidente ha detto che c'erano altre due persone che
stavano facendo delle ricerche. È possibile sapere quali file hanno preso, per evitare doppioni?» «Certo, ma... quando si tratta di richieste altrui, non possiamo...» «Kara... è Kara, giusto?» chiedo prendendo a prestito uno dei trucchi di Manning. «Kara, è per il presidente...» «Lo capisco, ma le regole...» «Io rispetto le regole. Davvero. Ma queste persone lavorano per il presidente. Siamo tutti dalla stessa parte, Kara», aggiungo, sperando di non apparire petulante. «E se non trovo quello che cerco, sarò io a non portare al presidente la sua lista. La prego, mi dica che sa cosa vuol dire. Ho bisogno di questo lavoro, Kara... più di quanto lei possa immaginare.» C'è una lunga pausa all'altro capo della linea, ma come tutti i bibliotecari Kara è una donna pragmatica. La sento battere sui tasti. «Come si chiamano?» chiede. «Cognome Weiss, nome Eric», rispondo, incominciando ancora una volta con lo pseudonimo di Boyle e di Houdini. C'è un clic più forte quando preme il tasto ENTER. Controllo la mia porta per la terza volta. Tutto bene. «Abbiamo due diversi Eric Weiss. Uno ha fatto delle ricerche quando eravamo nati solo da un anno. L'altro ha fatto una ricerca circa un anno e mezzo fa, ma sembra che si tratti di un ragazzino che voleva sapere il titolo del film preferito dal presidente...» «Tutti gli uomini del presidente», diciamo insieme. Fa di nuovo la sua risata ansimante. «Non credo che sia il vostro ricercatore», aggiunge, finalmente più calorosa. «E l'altro Weiss?» «Come ho detto, risale al primo anno della nostra attività... l'indirizzo è di Valencia, in Spagna...» «È lui!» sbotto, riprendendomi subito. «Sembra proprio di sì», dice Kara. «Ha parecchie richieste simili... i file di Boyle... l'agenda del presidente il giorno dell'attentato... La cosa strana è che, secondo le note che ho qui, ha pagato per le copie - e tanto: quasi seicento dollari - ma quando gliele abbiamo spedite il pacco è tornato indietro. Secondo il file, a quell'indirizzo non risultava nessuno.» Come una fotografia in camera oscura, i contorni dell'immagine lentamente si definiscono e si lasciano intravedere. L'FBI ha detto che Boyle era stato visto in Spagna. Se quello era stato il suo primo contatto con la biblioteca, e poi era fuggito, forse temeva che qualcuno sapesse che il suo
nome... «Provi Carl Stewart», dico, passando al nome in codice che Boyle ha usato nell'albergo della Malaysia. «Carl Stewart», ripete Kara battendo sui tasti. «Sì, ci siamo...» «Ce l'avete?» «E come no? Quasi duecento richieste negli ultimi tre anni. Ha domandato più di 12.000 pagine...» «Ah, sì... è molto preciso», dico tentando di non perdere la concentrazione. «E... solo per essere sicuri che sia la persona giusta, qual è l'ultimo indirizzo che avete segnato?» «Londra... una casella postale al 92A di Balham High Road. E il codice è SW12 9AF.» «Proprio lui», dico scrivendo i dati, pur sapendo che una casella postale è irrintracciabile in Inghilterra come negli Stati Uniti. Prima che possa aggiungere una sola parola, la porta del mio ufficio si spalanca. «È nello sgabuzzino», dice Claudia, riferendosi al presidente. Lo temevo. Sgabuzzino è il suo nome in codice per bagno, l'ultima tappa di Manning prima di uscire per un impegno. Se rispetta i tempi - e li rispetta sempre - significa che mi restano due minuti. «Vuole che le mandi una lista di quello che ha chiesto?» chiede la bibliotecaria nella cornetta. «Wes, ha sentito quello che ho detto?» chiede Claudia. Alzo un dito rivolto al nostro capo di gabinetto. «Sì, se potesse mandarmi l'elenco, sarebbe perfetto», dico alla bibliotecaria. Claudia si tocca l'orologio e io le annuisco. «E se posso chiederle un ultimo piacere... l'ultimo documento che Steward ha ricevuto, quando è stato inviato?» «Vediamo... qui dice il quindici, cioè una decina di giorni fa.» Mi drizzo a sedere. La foto nella camera oscura incomincia a rivelare nuovi dettagli. Dal giorno in cui la biblioteca ha aperto, Boyle ha fatto ricerche e si è procurato dei documenti. Dieci giorni fa ha chiesto l'ultimo e poi è tornato a farsi vedere. Non ne so molto, ma è chiaro che trovare quel documento è l'unico modo per passare dall'oscurità alla luce. «I Servizi stanno attivandosi», dichiara Claudia guardando nel corridoio e osservando gli agenti che si riuniscono all'ingresso dell'ufficio. Mi alzo e tiro il filo del telefono fino alla sedia su cui è appoggiata la mia giacca. Infilo un braccio mentre continuo a parlare con la bibliotecaria. «Quanto tempo ci vorrebbe per mandarmi una copia dell'ultimo documento?» «Vediamo, è partito la settimana scorsa, per cui dovrebbe essere ancora
nella... Aspetti che controllo.» La linea si interrompe per una breve pausa. Guardo Claudia. Non abbiamo molte regole, ma una di quelle essenziali è di non fare mai aspettare il presidente. «Non preoccuparti, arrivo.» Lei si guarda alle spalle, nel corridoio. «Sul serio, Wes», mi minaccia. «Ma con chi stai parlando?» «Biblioteca. Sto cercando di ottenere la lista definitiva degli ospiti di stasera.» Nel nostro ufficio, quando il presidente si abbandona ai rimpianti della vecchia vita, lo troviamo al telefono con gli altri ex: l'ex primo ministro britannico, l'ex primo ministro canadese, perfino l'ex presidente francese. Ma l'aiuto di cui ho bisogno è molto più vicino di così. «Ce l'ho qui. È una sola pagina», interviene la bibliotecaria. «Qual è il suo numero di fax?» Mentre le dico il numero, lotto per infilare l'altra manica. Le testine di metallo del presidente e della First Lady ballano sul mio bavero. «Me lo manda subito?» «Quando vuole... è...» «Subito.» Metto giù il telefono, prendo i ferri del mestiere e mi precipito alla porta. «Dimmi quando arriva Manning», dico a Claudia superandola per infilarmi nella stanza delle fotocopie di fronte al mio ufficio. «Wes, non è divertente», dice lei, chiaramente irritata. «Sta arrivando», mento, davanti al nostro fax di sicurezza. Tutte le mattine alle sei, il NID (National Intelligence Daily) di Manning arriva via fax. Inviato dalla CIA, il NID contiene informazioni su una serie di argomenti legati ai Servizi segreti ed è l'ultimo cordone ombelicale che tutti gli ex mantengono con la Casa Bianca. Manning si precipita a leggerlo come un gatto sul pesce. Ma per me quello che sta arrivando adesso è molto più importante. «Wes, vai all'ingresso. Mi occupo io del fax.» «Solo...» «Ti ho detto di andare all'ingresso. Subito.» Mi giro per affrontare Claudia mentre la macchina del fax si anima. Le sue labbra da fumatrice sono tese, ha l'aria rabbiosa, più di quanto si dovrebbe avere per uno stupido fax. «È ok», balbetto. «Lo prendo io.» «Dannazione, Wes...» Prima che possa finire, il mio cellulare si mette a vibrare nella mia tasca.
Lo tiro fuori per distrarla. «Un secondo», dico a Claudia controllando chi mi chiama. Numero sconosciuto. Non sono molte le persone che conoscono il mio numero. «Wes», rispondo. «Non reagire. Sorridi e comportati come se fossi un vecchio amico», gracchia una voce roca. La riconosco immediatamente. Boyle. 25 «Bella stanza», disse il Romano, osservando le pareti quasi nude, scolorite dal sole, tra cui Nico aveva passato gli ultimi otto anni. Sul comodino c'era un calendario dei Washington Redskins, distribuito gratis dalla drogheria vicina. Sul letto un piccolo crocifisso. Sul soffitto, una ragnatela di crepe costituiva tutta la decorazione. «Molto bella», continuò il Romano, ricordando quanto era importante comunicare a Nico un atteggiamento positivo. «È bella», ammise Nico, con gli occhi fissi sull'infermiere che lasciava la stanza. «E tu stai bene?» chiese il Romano. Tenendo fra le braccia il violino e stringendolo come una bambola, Nico non rispose. Da come teneva la testa inclinata, era chiaro che stava ascoltando lo scricchiolio delle suole di gomma dell'infermiere che si allontanava. «Nico...» «Aspetti...» lo interruppe, continuando ad ascoltare. Il Romano rimase in silenzio. Non sentiva nulla. Naturalmente, questa era una delle ragioni per cui avevano scelto Nico otto anni prima. Una persona normale percepisce i suoni a partire dai venticinque decibel, lui invece aveva la capacità di sentire suoni di dieci decibel. La sua vista era ancora più straordinaria, misurava 12/10. I superiori di Nico nell'esercito lo consideravano un dono. I suoi medici, un difetto, e pensavano che l'eccesso di stimolazione auditiva e visiva fossero alla base della sua desensibilizzazione nei confronti della realtà. Il Romano... Il Romano sapeva che erano un'opportunità. «Dimmi quando siamo al sicuro», sussurrò. Mentre il suono si allontanava, Nico si grattò il naso e studiò attentamente il Romano, con gli occhi castani che guizzavano avanti e indietro ed
esaminavano i capelli, il volto, il soprabito, perfino la valigetta di pelle del suo ospite. Il Romano aveva dimenticato quanto fosse metodico. «Ha scordato un ombrello», dichiarò Nico. Il Romano si toccò i capelli leggermente umidi. «Sono solo pochi passi dal posteggio al...» «Ha portato un'arma», disse Nico fissando la cavigliera che sporgeva dall'orlo dei pantaloni. «Non è carica», rispose il Romano, ricordando che le risposte brevi erano il modo migliore per dialogare con lui. «Quello non è il suo nome», disse ancora Nico indicando il cartellino attaccato al bavero del Romano. «Io conosco il suo vero nome.» Il Romano non abbassò neppure lo sguardo. Aveva usato il suo badge per superare le guardie, ma per identificarsi aveva dato ovviamente un nome falso. Solo uno sciocco avrebbe messo il proprio nome su un elenco che veniva regolarmente inviato ai supervisori dei Servizi segreti. Comunque, dopo tanti anni passati lì dentro, dopo tutte le medicine che i dottori gli avevano ficcato in corpo, Nico era ancora acuto. L'addestramento da cecchino non si cancella facilmente. «I nomi sono finzioni», disse il Romano. Continuando a stringere il suo violino, Nico si trattenne a malapena. «Lei è uno dei Tre.» Dall'eccitazione della sua voce si capiva che non era una domanda. «Non facciamo...» «È il Numero Uno o il Numero Due? Io ho parlato solo con il Numero Tre. È stato il mio collegamento - fra me e mio padre - in passato. Diceva che gli altri erano troppo importanti, e che il presidente era uno dei...» Nico si morse il labbro, tentando di controllarsi. «Gloria a Dio! Ha visto la croce sulla cappella di mattoni?» Il Romano annuì, rammentando ciò che avevano detto a Nico: di cercare dei segni; che le strutture architettoniche sono sempre state fonte di inspiegabile energia: Stonehenge e i druidi... le piramidi egizie... anche il primo e il secondo Tempio di Salomone a Gerusalemme... I massoni avevano passato secoli a studiare queste cose, meraviglie architettoniche che permettevano l'accesso al miracolo più grande. Il secolo dopo, quella sapienza era passata al massone James Hoban, che aveva progettato la Casa Bianca, e al massone Gutzon Borglum, che aveva realizzato il Monte Rushmore. Ma, come avevano spiegato a Nico, alcune porte dovevano ancora essere aperte.
«Gloria a Dio!» ripeté Nico. «Ha detto che quando lei fosse giunto, la redenzione...» «La redenzione arriverà», promise il Romano. «Come dice il Libro.» Per la prima volta, Nico rimase in silenzio. Mise per terra il violino e chinò la testa. «Proprio così, figliolo», disse il Romano annuendo. «Naturalmente, prima della redenzione, incominciamo con una piccola...» si avvicinò al comodino e prese il rosario di vetro rosso «... confessione.» Nico si inginocchiò, giunse le mani e si appoggiò al materasso, come un bambino che si prepara ad andare a letto. Il Romano non ne fu sorpreso. Faceva lo stesso quando l'avevano trovato nell'ospizio. E l'aveva fatto per due giorni interi dopo avere affrontato suo padre. «Ci sarà tempo per pregare più tardi, Nico. Adesso ho bisogno che tu mi dica la verità su un certo argomento.» «Io dico sempre la verità, signore.» «Lo so, Nico.» Il Romano sedette sull'altro lato del letto e mise il rosario fra loro. I raggi del sole al tramonto illuminarono i grani rossi. Nico li studiò, colpito. Dalla sua valigetta, il Romano tirò fuori una foto in bianco e nero e la mise sul letto. «Dimmi tutto quello che sai su Wes Holloway.» 26 «Ehi, come vanno le cose?» canterello nel cellulare mentre Claudia mi guarda male dalla porta della stanza delle fotocopie. «Sai chi sono?» chiede Boyle all'altro capo della linea. La voce è dura, ogni sillaba è un colpo di piccone. È impaziente. E chiaramente arrabbiato. «Naturalmente. Mi fa piacere sentirti, Eric.» Uso di proposito il suo vecchio nome in codice, al posto di Carl Stewart. È meglio se non sa che l'ho scoperto. «Sei solo?» chiede mentre Claudia tende ancora di più le labbra e abbassa il mento lanciandomi uno sguardo di fuoco. «Certo, c'è qui Claudia...» «Resta fuori da questa faccenda, Wes. Non è la tua battaglia, mi hai capito? Non è la tua battaglia!» La linea cade. Boyle è sparito. Ha riattaccato. «No, va benissimo», dico all'apparecchio silenzioso. «Ci vediamo.» Non sarò il migliore dei bugiardi, ma riesco ancora a convincere Claudia che va
tutto bene. «Cosa c'è che non va?» «Era... era Manning. Ha detto che ci metterà ancora qualche minuto...» Claudia stringe gli occhi mentre elabora l'informazione. Alle mie spalle, il fax si mette in movimento. Faccio un salto, il rumore mi colpisce come una pallottola. «Cosa c'è?» chiede lei. «Niente... mi ha spaventato.» Per quasi un anno, dopo l'attentato, un'auto che scoppiettava, una porta che sbatteva... perfino le scene d'azione al cinema... tutti i rumori forti mi ricordavano l'attacco di Nico. I medici dicevano che sarebbe passato col tempo. E così è stato. Finora. Riconoscendo la mia espressione, Claudia fa una pausa e si raddolcisce, ma come sempre torna alle sue priorità. «Dovresti essere lì fuori», dice. «Ci vado subito... lasciami prendere questa roba. Lo sai che gli piace conoscere i nomi in anticipo», aggiungo, fingendo che sia tutto per il bene di Manning. Questo basta a farmi guadagnare qualche secondo. Quando raggiungo il fax, la prima pagina è già uscita, la seconda è a metà. Afferro l'angolo sinistro del foglio mentre esce dalla macchina, poi inclino la testa e cerco di leggerlo al contrario. L'angolo superiore dice «Washington Post.» Da quel che vedo, è la pagina dei fumetti: Hagar the Horrible, poi Beetle Bailey. Ma mentre esce Beetle Bailey, c'è qualcosa scritto a mano nello spazio bianco della seconda vignetta della striscia: grosse lettere irregolari, che sembrano scritte su un'auto in corsa. Quasi illeggibili, a un occhio non allenato. Per fortuna i miei occhi si sono allenati per anni. Riconoscerei la scrittura di Manning dovunque. Gov. Roche... M. Heatson, leggo fra me. La riga successiva è ancora più misteriosa: Ospite, Mary Angel. Roche è l'ex governatore di New York, ma Heatson e Mary Angel sono nomi che non mi suonano per nulla. Il resto della pagina che esce dalla macchina ha solo dei fumetti: Peanuts, Garfield, Blondie. È questo l'ultimo pezzo del puzzle di Boyle? Torno a guardare l'appunto: Gov. Roche... M. Heatson... Mary Angel. Non ha senso. Tre nomi senza commenti? Li studio di nuovo, osservo ogni lettera. È l'ultima pagina che Boyle ha trovato prima di uscire allo scoperto. Otto anni da morto, e questo è ciò che l'ha richiamato alla vita? Gov. Roche... M. Heatson... Ospite, Mary Angel. Continua a non avere senso.
«Wes, è qui», mi chiama Claudia, scomparendo nel corridoio. «Vengo», dico mentre l'ultima parte di Beetle Bailey esce dalla macchina. Mentre mi giro per correre via, la prima pagina cade a terra. Mi fermo a raccoglierla, guardo la riga con scritto NUMERO DI PAGINE e, con mia sorpresa, vedo il numero 3. Il fax si rimette in moto e un ultimo foglio di carta esce verso di me. La bibliotecaria ha parlato di un solo foglio, e in effetti è un solo foglio... ma scritto sui due lati, fronte e retro. Mi chino sul fax e tento di leggere il documento man mano che le righe vengono stampate. Come la pagina dei fumetti, ha la tonalità grigio chiara delle fotocopie dei giornali e ci sono altre parole scritte dal presidente. «Wes...» chiama il presidente dall'ingresso. «Arrivo», dico prendendo la borsa, strappando la pagina dal fax e precipitandomi in corridoio. Le do un'ultima occhiata prima di infilarmela nella tasca della giacca. Non ha senso. Che cosa diavolo può farsene Boyle di una cosa del genere? 27 «È quello a cui ho sparato, no?» sussurrò Nico, guardando la recente fotografia di Wes. «L'innocente.» «In tutte le guerre ci sono degli innocenti», disse il Romano. «Ma quello che voglio sapere è...» «È più vecchio.» «Sono passati degli anni, Nico. È naturale che sia più vecchio.» Nico si avvicinò la foto. «L'ho distrutto, vero? È un uomo distrutto, adesso.» «Prego?» «I suoi occhi», rispose Nico, concentrandosi sempre più sulla foto. «Ho visto quello sguardo... in guerra... i ragazzi in guerra hanno quello sguardo.» «Non ne dubito», disse il Romano prendendo la foto e cercando di farsi seguire da Nico. «Ma ho bisogno che tu mi dica se...» «Li solleviamo dall'incarico, quando hanno quello sguardo», disse Nico, quasi con orgoglio. «Hanno perso di vista la causa.» «Proprio così. Hanno perso di vista la causa. Concentriamoci su questo.» Battendo sulla foto di Wes, il Romano aggiunse: «Ricordi quello che ha detto di te? Alla conferenza tanti anni fa?»
Nico rimase in silenzio. «Come ti ha chiamato? Un selvaggio?» «Un mostro», ruggì. Il Romano scosse la testa. Sapeva benissimo quello che aveva detto Wes. Ma, come in tutti gli interrogatori, la chiave stava nel nascondere le vere domande. «Ed è stata quella l'ultima volta che hai sentito parlare di lui?» chiese il Romano. «Ce l'ha con me. Si rifiuta di vedere quello da cui l'ho salvato.» Il Romano osservò Nico attentamente, sospettando che Wes l'avesse contattato. Naturalmente, questa era solo una delle ragioni della sua visita. «A proposito, pensi a Boyle ogni tanto?» Nico alzò gli occhi, che per un istante furono pieni di rabbia, poi si calmarono. L'odio scomparve quasi all'istante. Grazie ai dottori, aveva finalmente imparato a nasconderlo. «Mai», rispose. «Davvero?» «Mai», ripeté Nico, con voce calma e misurata. Aveva passato otto anni a perfezionare la sua risposta. «Bene, Nico. Sei al sicuro, adesso, perciò...» «Non penso mai a lui. Davvero», insistette Nico, sempre inginocchiato, fissando il rosso acceso del rosario davanti a sé. «Quello che gli è... successo... lui...» Inghiottì a fatica, fece per prendere il rosario, poi si fermò. «È stato lui a farmi finire qui. Lui...» «Puoi dire il suo nome, Nico.» Nico scosse la testa, continuando a guardare il rosario. «I nomi sono finzioni. Lui... Maschere del demonio.» Senza preavviso, il suo braccio scattò in avanti e afferrò il rosario sul letto. Se lo strinse al petto, sgranandolo furiosamente e contando le piccole incisioni di Maria sui grani. «Nico, tranquillo...» «Solo Dio è vero.» «Lo capisco, ma...» «Dio è vero!» esplose Nico, sgranando il rosario più in fretta che mai. Si girò e si mise a oscillare avanti e indietro... lentamente, poi più alla svelta. Stringendo i grani a uno a uno. Le spalle gli si piegavano a ogni oscillazione e il suo corpo si ingobbiva sempre di più, praticamente si chiudeva a palla di fianco al letto. Tentò ancora di parlare, poi si interruppe di colpo. Il Romano aveva già assistito a una scena simile. La lotta interiore. Senza preavviso, Nico si guardò alle spalle. Non c'era bisogno di una vista da 12/10 per scorgere le lacrime nei suoi occhi.
«È venuto a redimermi?» chiese Nico. Il Romano si bloccò, pensando che tutto ciò riguardasse Boyle, ed era così, ma... «Certo», disse spostandosi dall'altra parte del letto. Mise una mano sulla spalla di Nico, raccolse il violino da terra. Aveva letto quanto bastava per sapere che era ancora la migliore coperta di sicurezza, per lui. «Sono qui per questo» promise mentre Nico si aggrappava al manico dello strumento. «Per redimermi?» chiese Nico per la seconda volta. «Per salvarti.» Nico accennò a un sorriso e il rosario rosso cadde a terra. Da come studiava il violino con gli occhi semichiusi, il Romano capì che aveva alcuni minuti di tranquillità. Meglio sbrigarsi. «In nome dei Tre, sono qui per purificarti... e per assicurarmi che, per quanto riguarda Boyle... per quanto riguarda la Bestia, la sua influenza non venga più percepita dal tuo spirito.» «Rafforza la nostra fede... Fortifica la nostra speranza... Rendi perfetto il nostro amore...» si mise a pregare Nico. «Incominciamo», disse il Romano. «Qual è il tuo ultimo ricordo di lui?» «All'autodromo», iniziò Nico. «La sua mano alzata in segno di vittoria... mentre si rivolge alle masse esibendo i suoi denti bianchi. Poi la rabbia nei suoi occhi mentre io premevo il grilletto, non sapeva di essere stato colpito. Era arrabbiato... digrignava i denti per la rabbia. È stata la sua prima reazione, anche in punto di morte. Odio e rabbia. Finché non ha abbassato gli occhi e ha visto il proprio sangue.» «E tu l'hai visto cadere?» «Due colpi al cuore e uno alla mano, mentre mi bloccavano. L'ho ferito anche al collo. L'ho sentito gridare mentre mi buttavano a terra. Gridare e chiedere aiuto... anche in mezzo alla confusione... per sé stesso. "A me... qualcuno venga da me..." Poi le grida si interruppero. E si mise a ridere. Io ci sento bene. L'ho sentito. Immerso nel suo stesso sangue. Boyle rideva.» Il Romano si passò la lingua sui denti. Senza dubbio era vero. Rideva mentre andava verso la libertà. «E da allora?» chiese, scegliendo attentamente ogni parola. «Ti ha tormentato... di recente?» Nico si bloccò, alzando lo sguardo dal violino. «Tormentato?» «Nei... nei tuoi sogni.» «Nei miei sogni mai. Le sue minacce sono terminate quando...» «E sotto forma di visioni o...?» «Visioni?»
«Non visioni... sai, come...» «Il suo potere è così grande?» «No, ma noi...» «Un potere simile... Tornare dalla polvere...» «Non esiste un simile potere», insistette il Romano, toccandolo di nuovo sulla spalla. Arretrando rapidamente, Nico si sottrasse alla stretta. La sua schiena urtò il calorifero e il violino cadde a terra. «Che la Bestia risorga...» «Non l'ho mai detto.» «Non l'ha mai negato!» disse Nico, con gli occhi che guizzavano qua e là terrorizzati. Strinse i pugni, agitò selvaggiamente le mani, come se non potesse controllare i propri movimenti. Sul collo gli uscì una grossa vena. «Ma che sia vivo... la Grande Tribolazione dura sette anni - il periodo della mia assenza - ed è seguita dalla resurrezione dei morti...» Il Romano arretrò, incapace di intervenire. «Lo crede anche lei», disse Nico. «Non è vero.» «Lo capisco dalla sua voce. Dal tremito! Ho ragione, vero?» «Nico...» «È così! La Bestia è risorta... è viva!» «Non ho mai...» «È viva! Mio Dio, mio Dio, è viva!» gridò Nico, ancora in ginocchio, rivolgendosi alla finestra e urlando al cielo. Il Romano temeva che si sarebbe giunti a questo. Si frugò nella tasca della giacca, tirò fuori il cellulare, un modello grosso, vecchio. Con un colpo di pollice aprì il retro del telefonino e rivelò un nascondiglio con una siringa e una lametta da rasoio. La sua falsa identità e il suo badge dei Servizi segreti gli permettevano di portare dentro la pistola che aveva attaccata al polpaccio, ma siringhe e rasoi? Non in un ospedale psichiatrico. «Nico, è ora di calmarci», disse tenendo la siringa infilata tra l'indice e il medio. Il fentanile l'avrebbe eliminato facilmente, ma ci voleva il rasoio perché sembrasse un suicidio. «M... mi aggredisce anche lei?» chiese Nico girandosi e vedendo l'ago. Gli occhi gli si incupirono e le narici si misero a vibrare. «L'ha mandata lui!» gridò, aggrappato al calorifero, intrappolato nell'angolo. «È dei loro!» «Nico, sono dalla tua parte», disse il Romano avvicinandosi. Non si prova alcun piacere nell'abbattere un animale. «Questo serve solo a calmarti», aggiunse, sapendo di non avere scelta. Lasciarsi dietro un cadavere avreb-
be sicuramente sollevato delle domande, ma nulla rispetto al fatto che Nico avrebbe gridato per i prossimi tre mesi che i Tre esistevano e che Boyle era vivo. Gli occhi di Nico si strinsero, concentrandosi sulla pistola del Romano, come se avessero riconosciuto una vecchia amica. «Non pensarci neppure, Nico. Non puoi...» La porta della stanza si aprì di colpo, andando a sbattere contro la parete. «Cosa sono queste grida? Che cosa diavolo sta facendo lei?!» chiese una voce profonda. Il Romano si guardò alle spalle e vide due infermieri che si precipitavano dentro. Nico colse l'occasione. Con uno scatto da serpente, balzò verso le gambe del Romano. La sua destra afferrò la rotula del Romano e la torse, come il tappo di una bottiglia. La mano sinistra prese direttamente la pistola vicino alla caviglia. «Aaaah!» ruggì il Romano, cadendo a terra all'indietro. Ancora prima che toccasse il pavimento, Nico gli strappava l'arma dalla cavigliera. «Nico, non...» minacciò l'infermiere con l'orecchino rotondo. Era troppo tardi. Come un abile pittore che ritrovi il suo pennello dopo tanto tempo, Nico sorrise mentre la pistola gli scivolava in mano. Ancora in ginocchio, inclinò leggermente la mano, lasciando che l'arma vi si incastrasse perfettamente. «Silenziatore incorporato... perfettamente equilibrata», disse al Romano che si contorceva ancora sul pavimento. «Ottimo lavoro», aggiunse con una smorfia sorridendo agli infermieri. «Nico!» Ci furono quattro colpi soffocati e gli infermieri gridarono. I primi due penetrarono nelle loro mani. Proprio come aveva fatto con suo padre. E con Boyle. Le stigmate. Per fargli provare il dolore di Gesù. Entrambi finirono contro la parete ancora prima di capire che avevano le due pallottole finali nel cuore. Nico si alzò in piedi e non guardò neanche gli infermieri accasciati a terra, le strisce rosse parallele che i loro corpi avevano lasciato sulla parete. Si girò e puntò la pistola verso il Romano, disteso sulla schiena, che si stringeva qualcosa sul petto. La pallottola sarebbe stata rapida ed efficace, ma il dito di Nico si fermò sul grilletto... «Uomo di Dio!» gridò il Romano afferrando il rosario rosso di Nico. La corona gli pendette dal pugno, oscillando come l'orologio di un ipnotizzatore. «Lo sai, Nico. Puoi pensare quello che vuoi... ma non si uccide un uomo di Dio!»
Nico si arrestò, turbato dal rosario che scintillava nella luce morente. I grani continuavano a oscillare, a ritmo col respiro affannoso del Romano. Una goccia di sudore si materializzò sul labbro del Romano. Da terra, il suo sguardo era rivolto proprio alla canna della pistola. Nico rifiutava di guardarlo negli occhi. Rifiutava addirittura di riconoscere la sua presenza. Perso nei grani del rosario, cercava la sua risposta, tenendo la pistola immobile. La fronte passò da aggrottata a tranquilla, poi tornò a corrugarsi, come se nella sua mente stesse tirando una moneta per scegliere cosa fare. Poi la moneta si fermò e Nico premette il grilletto. Il Romano chiuse gli occhi mentre il colpo esplodeva. La pallottola gli perforò la mano sinistra vuota, proprio al centro del palmo. Il dolore di Gesù. Prima che lo sentisse, il sangue gli inondò la mano e si mise a scorrergli sul polso, verso il gomito. «Dov'è?» chiese Nico. «Io... ti ucciderò, per questo!» ruggì il Romano. «Un'altra bugia.» Spostandosi leggermente sulla destra, Nico prese di mira l'altra mano del Romano. «Dopo tutte le sue promesse... adesso viene da me per proteggerlo. Che potere ha la Bestia su di lei?» «Nico, smettila!» Senza esitare, Nico tirò indietro il cane della pistola. «Risponda alla mia domanda: dov'è?» «Io... io non ne ho i...» «Per favore, sposti il rosario», chiese gentilmente Nico, accennando alla corona che si trovava per terra accanto alla gamba del Romano. Mentre la prendeva, Nico premette il grilletto e un secondo colpo silenzioso sfrecciò nell'aria e penetrò nel piede del Romano. Entrambe le ferite bruciavano come se due grossi aghi gli si fossero infilati nella pelle. Strinse i denti e trattenne il respiro, aspettando che il dolore iniziale passasse. Ma non fece che peggiorare. «Nnnnhhh!» gridò. «Dove... Boyle?» chiese Nico. «Se... se lo sapessi, credi che sarei venuto qui?» Nico rimase in silenzio un istante, riflettendo su quell'idea. «Ma l'ha visto?» Il Romano scosse la testa, continuando a lottare contro il dolore. Sentiva il piede che si gonfiava, dentro la scarpa. «Ma qualcun altro l'ha visto?» chiese Nico. Il Romano non rispose. Nico lo osservò attentamente, inclinando leggermente l'orecchio verso di lui.
«Il suo respiro diventa più rapido. Spero che non le venga un infarto», disse Nico. Il Romano distolse lo sguardo dal letto. Nico lo osservò attentamente. Sul copriletto, vicino al bordo, c'era la foto in bianco e nero di Wes. «Lui?» chiese Nico prendendo la foto. «È per questo... è per questo che è venuto a farmi domande su di lui? Quello che ho distrutto... è lui che ha visto la Bestia.» «Ha visto solo che...» «Ma comunicare... significa essere in combutta con la Bestia! Wes è corrotto, ormai, vero? Macchiato. Per questo il colpo...» Nico annuì rapidamente. «Certo! Ecco perché Dio ha mandato la pallottola dalla sua parte. Non esistono coincidenze. Solo il Destino. Colpire Wes era la volontà di Dio. E quello che Dio incomincia...» Socchiuse gli occhi guardando la foto. «Lo colpirò di nuovo. Prima non capivo, ma adesso vedo... è scritto nel Libro.» Alzò gli occhi dalla foto, sollevò la pistola e la puntò alla testa del Romano. Dalla finestra sopra al calorifero, i pannelli proiettavano l'ombra di una croce sul volto dell'uomo. «La grazia di Dio», sussurrò Nico abbassando l'arma. Voltò le spalle al Romano e guardò fuori dell'ampia finestra dai vetri infrangibili. La pistola aveva il silenziatore, ma gli agenti della sicurezza sarebbero arrivati presto. Non ebbe esitazioni. Aveva avuto otto anni per pensare a questo momento. Infrangibili, non antiproiettile. Altri due colpi partirono dalla pistola, forando il vetro in basso a sinistra e a destra e scardinando il telaio della finestra. Ancora a terra, il Romano si tolse la cravatta e ne fece una benda per avvolgere il piede. Chiuse il pugno per alleviare il dolore alla mano. Il sangue gli aveva già riempito la scarpa e il cuore sembrava che gli battesse nel braccio e nella gamba. A pochi passi di distanza sentì l'urto di una palla da bowling e l'infrangersi di un vetro. Alzò gli occhi appena in tempo per vedere Nico che faceva scattare il piede contro il buco di sinistra sulla finestra. Il vetro non si infranse, ma il buco si allargò, scoppiettando come la plastica da imballaggio. Ora davanti a lui c'era un'apertura. Leccandosi le labbra, Nico puntò il piede contro il vetro e si afferrò al calorifero per fare leva. Con un altro colpo, un pezzo di vetro grande quanto il palmo di una mano si staccò dalla finestra. Colpì di nuovo, ancora e ancora. C'era quasi. La finestra si piegava lentamente all'infuori e all'insù, come una tappezzeria vecchia, con un rumore che ricordava il miagolio di un gattino. Poi ci
fu un colpo finale e... il nulla. Il Romano guardò mentre una ventata di aria fredda lo colpiva al volto. Nico era già scomparso. Il Romano strisciò alla finestra, si afferrò al calorifero e si tirò in piedi. Due piani più in basso, vide il mucchio di neve che aveva attutito la caduta di Nico. Pensò di inseguirlo, diede un'altra occhiata all'altezza e sentì il sangue che gli imbeveva la calza. Niente da fare, si disse. Stava in piedi a malapena. Sporse la testa dalla finestra e osservò le impronte - dal mucchio di neve alla strada secondaria piena di fango - e scorse subito Nico: la sua felpa era una piccola macchia bruna che si faceva strada nel bianco luminoso della neve. Non si guardò mai alle spalle. In pochi secondi, la macchia bruna raggiunse un punto nero. Nico alzò la pistola e la puntò verso il basso. Dalla finestra, il Romano non poteva vedere a cosa mirasse. C'era una guardia, al cancello, ma era a più di cinquanta metri e... Si sentì un sommesso psst e una nuvoletta di fumo uscì dalla canna della pistola. Nico rallentò il passo fino a una camminata tranquilla, quasi rilassata. Il Romano non aveva bisogno di vedere il corpo per sapere che aveva fatto centro un'altra volta. Nico infilò la pistola nella tasca della felpa come se fosse la persona più tranquilla del mondo. Passò accanto al vecchio edificio dell'esercito, accanto al cimitero, accanto al corniolo spoglio e uscì dal cancello principale, scomparendo alla vista. Il Romano saltellò verso la porta, raccogliendo la siringa e la lametta da terra. «Va tutto bene?» chiese una voce femminile attraverso una delle radioline degli infermieri. Il Romano si chinò e la staccò dalla cintura dell'infermiere. «Benissimo», borbottò nel ricevitore. La prese, si girò a dare un'ultima occhiata alla stanza. Fu solo in quel momento che si accorse che Nico si era portato via la foto in bianco e nero di Wes. 28 «Da questa parte», dico sostenendo il gomito dell'anziana signora con la nuvola di capelli biondi e scortandola insieme al marito verso il presidente
Manning e la First Lady, in posa davanti a un mazzo di fiori grande come una piccola automobile. Intrappolato in questa minuscola anticamera del Kravis Center, il presidente guarda verso di me, senza smettere di sorridere. Mi basta. Non sa chi sono. Glielo metto su un piatto d'argento. «Signor presidente, lei ricorda i signori Talbot...» «George... Leonor...» interviene la First Lady, stringendo le mani e scambiando baci in aria. Trentaquattro libri, cinque biografie non ufficiali e due film per la televisione sostengono che sia lei la migliore mente politica della famiglia. Eccone la prova. «E come sta Lauren?» chiede tirando fuori dal cappello anche il nome della figlia. Sono davvero colpito. I Talbot non sono finanziatori di lunga data. Sono NBF, New Best Friends, come chiamiamo i ricchi che si sono attaccati al carro di Manning dopo l'addio alla Casa Bianca. «Noi pensiamo che lei sia la migliore», esclama la signora Talbot, guardando solo la First Lady. La cosa non ha mai preoccupato Manning: la First Lady è sempre stata parte della squadra, e grazie alla sua formazione scientifica, la migliore nell'analizzare le previsioni statistiche. Per questo alcuni dicono che lei abbia sofferto più del presidente quando hanno dovuto cedere le chiavi della Casa Bianca. Ma io che ero con il presidente il giorno in cui è tornato a casa in Florida, quando per l'ultima volta ha chiamato l'Air Force One e ha telefonato per salutare gli operatori del centralino, non posso che dissentire. Manning è passato dall'avere un cameriere col cicalino incaricato unicamente di portargli il caffè a portarsi da solo le valigie in garage. Non si cede tanto potere senza soffrirne. «E io, sono diventato all'improvviso un'aringa salata?» chiede Manning. «Come all'improvviso?» chiede la First Lady mentre gli altri scoppiano a ridere. È una battuta che i Talbot ripeteranno per tutta la stagione, che li trasformerà in piccole star dei cocktail locali e che assicurerà che la società di Palm Beach continui a venire a queste cene di beneficenza. «Al tre», dice il fotografo mentre colloco i Talbot fra i Manning. «Uno... due...» Il flash scatta e io torno di corsa alla fila di invitati per prendere il gomito del prossimo donatore. Lo sguardo di Manning è lo stesso di prima. «Signor presidente, lei ricorda i signori Munder...» Alla Casa Bianca, lo chiamavamo porta-manda. Io porto i Munder verso il presidente, che manda via i Talbot, ponendo fine ai loro occhioni sgranati e ai loro saluti. Funziona alla perfezione, finché non c'è nessuno che si
impunta. «Stai cercando di giocare a porta-manda con me? L'ho inventato io!» dice una voce familiare mentre scatta il flash. Quando mi giro verso la fila, Dreidel è già a metà strada verso il presidente, con un enorme sorriso sulla faccia. Manning si illumina come se vedesse il cagnolino di quand'era bambino. So che devo stare alla larga. «Ragazzo mio!» dice Manning abbracciando Dreidel. Io ricevo ancora una stretta di mano. Dreidel un abbraccio. «Volevamo farle una sorpresa», dico scoccando un'occhiata a Dreidel. Alle sue spalle, la fila è bloccata. Dietro al presidente, la First Lady mi lancia un'occhiata di fuoco. Anche in questo caso, so che devo stare alla larga. «Signore... dovremmo...» «Spero che ti fermerai per la serata», mi interrompe Manning rivolgendosi alla moglie. «Certo, signore», dice Dreidel. «Signor presidente, lei ricorda i signori Lindzon...» dico portando avanti la nuova coppia di donatori. Manning finge di sorridere e mi lancia un'occhiata. Gli avevo garantito che ci sarebbero state solo cinquanta foto, stasera. Chiaramente le ha contate. Questa è la foto numero 58. Mentre torno alla fila, Dreidel mi raggiunge. «Di quante foto sei fuori?» chiede. «Otto», sussurro. «Cos'è successo alla tua cena?» «Era solo un cocktail. Abbiamo finito presto, per cui sono venuto per un saluto. Com'è andata con la giornalista?» «Tutto a posto.» Scatta un flash, io prendo per il gomito la prossima ospite, una donna enorme con i pantaloni rossi. Dreidel rientra nel suo antico ruolo, mette una mano sulla spalla del marito e lo accompagna in avanti. «Signor presidente, lei ricorda i signori Heinberg», annuncio mentre li lasciamo alla foto numero 59. E sussurro a Dreidel: «Ho anche trovato l'indirizzo londinese di Boyle e l'ultimo documento che ha chiesto alla biblioteca.» Dreidel aumenta la velocità mentre un altro flash scatta. È mezzo passo avanti a me. Pensa che non me ne accorga. «E cosa c'era sull'ultima pagina?» chiede sottovoce. Mi giro verso gli ospiti e vedo che è rimasta una sola persona. Ma quando vedo chi è, la gola mi si chiude.
«Cosa c'è?» chiede Dreidel leggendo la mia espressione. Mi blocco davanti al nostro ultimo ospite, una giovane rossa con un modesto abito nero. Dreidel si avvicina per prenderle il braccio e scortarla avanti. Lei lo allontana e gli mette una mano sulla spalla. «Proprio le persone che cercavo», dice soddisfatta. «Sono Lisbeth Dodson, del "Palm Beach Post". E lei dev'essere Dreidel.» 29 McLean, Virginia Zoppicando sul vialetto ghiacciato, con il pugno stretto sul petto, il Romano scorse le finestre della classica casa coloniale con il cartello IN VENDITA nel giardino davanti. Le luci erano spente, ma la cosa non lo indusse a fermarsi. Dopo avere nascosto la sua ferita infilando il piede insanguinato in una delle vecchie scarpe di Nico, aveva mostrato il suo badge per uscire dall'ospedale ed era corso qui. Sapeva che Benjamin era in casa. Raggiunse la casa, afferrò con decisione il corrimano metallico e scese saltellando una breve scala di cemento. In fondo raggiunse una porta sotto alla quale sfuggiva una debole lama di luce. Una piccola scritta accanto al campanello diceva SOLO SU APPUNTAMENTO. Il Romano non aveva un appuntamento, ma qualcosa di molto più prezioso. «Les?» chiamò, tenendosi in piedi a fatica. Appoggiato allo stipite, non sentiva più la mano sinistra, ancora infilata nel guanto pieno di sangue con cui l'aveva nascosta all'ospedale. Il piede era diventato come morto già da un'ora. «Vengo», rispose da dentro una voce ovattata. Le serrature della porta scattarono e si aprirono, rivelando un uomo dai capelli cespugliosi, con un paio di occhiali bifocali appoggiati su un grosso naso. «Be', che cosa ci fai a quest'o... Oh, santo cielo, ma quello è sangue?» «Ho... ho bisogno di...» Prima di finire la frase, il Romano cadde attraversando la soglia. Come sempre, il dottor Les Benjamin lo sostenne. A questo servivano i cognati. 30 «Signor presidente, ricorda la signorina Dodson... giornalista del "Palm
Beach Post"», disse Wes con aria distaccata. «Lisbeth», insistette lei, porgendo la mano e cercando di mantenere l'atmosfera leggera. Diede un'occhiata a Wes, che era già bianco come un lenzuolo. «Lisbeth, come potrei dimenticare il suo nome?» le garantì Manning. «Posso scordare i finanziatori, ma solo uno sciocco si dimentica dei giornalisti.» «La ringrazio, signore», disse Lisbeth, credendo alle sue parole nello stesso momento in cui si diceva che non doveva farlo. Potrei essere più patetica? si chiese lottando contro uno strano impulso a inchinarsi. Regola sacra n. 7: i presidenti mentono meglio di chiunque altro. «Sono lieta di rivederla, signore.» «È proprio Lisbeth?» chiese la First Lady, sapendo benissimo la risposta mentre si avvicinava per abbracciarla. «Oh, deve sapere che io adoro la sua rubrica», esclamò. «A parte il pezzo in cui ha elencato le mance che Lee dava alle cameriere locali. Quello ha rischiato di farla escludere dalla nostra lista degli invitati.» «In realtà, mi avete proprio escluso», dichiarò Lisbeth. «Solo per due settimane. La vita è troppo corta per coltivare risentimenti.» Lisbeth apprezzò l'onestà e non riuscì a trattenere un sorriso. «Lei è una donna in gamba, dottoressa Manning.» «Cara, siamo noi che dobbiamo cercare di accattivarci i suoi favori, anche se ho l'impressione che lei possa fare qualcosa di meglio degli articoletti sulle mance altrui, che sono davvero al di sotto delle sue capacità.» Toccò il braccio del marito e aggiunse: «Lee, rilascia a questa ragazza una bella dichiarazione a proposito della ricerca sulla fibrosi cistica, così può fare il suo lavoro.» «In realtà», incominciò Lisbeth, «io sono qui per...» «L'aspettano sul palco, signore», intervenne Wes. «...per parlare con i suoi collaboratori», concluse Lisbeth indicando Dreidel e Wes. «Sto scrivendo un pezzo sulla fedeltà. Pensavo che magari potevo rubare loro qualche frase e trasformarli in superstar.» «Bene... lo faccia», disse il presidente, mettendo un braccio sulle spalle di Dreidel. «Questo qui sta correndo per il senato. E se avessi ancora qualche aggancio... ha il calibro del vice presidente.» Fece una pausa, aspettando che Lisbeth prendesse appunti. Lisbeth tirò fuori un taccuino dalla borsa strapiena e finse di mettersi a
scrivere. Alle sue spalle, sentiva che Wes stava friggendo. «Non si preoccupi», disse a Manning. «Sarò buona con loro.» «Signor presidente», intervenne una profonda voce femminile mentre tutti si rivolgevano alla donna di mezza età con l'abito firmato e l'acconciatura in stile. In qualità di presidente onoraria della Fondazione per la fibrosi cistica, Myrna Opal si toccò l'orologio di diamanti Chopard, decisa a rispettare i tempi del programma. «Credo che siamo pronti, signore.» Nell'istante in cui il presidente fece il primo passo verso il palco, Wes gli si mise al fianco. «Va tutto bene, Wes.» «Lo so, ma...» «Sono solo dieci passi... Ce la farò. E Dreidel... spero di vedervi alla mia tavola più tardi.» Disse queste parole guardando Wes. Alla Casa Bianca, si seguiva l'etichetta e ci si assicurava che il presidente fosse sempre accanto a qualcuno a cui doveva essere vicino. Per quattro anni, Manning non si era potuto scegliere i compagni di tavola. Adesso non si curava più dei favori politici. Era l'unico vantaggio di avere perso la Casa Bianca. Il presidente poteva finalmente sedersi accanto alle persone che gli piacevano. «Faccia in modo di mettere queste brave persone della fibrosi cistica nel suo articolo di domani», disse la First Lady facendo cenno a Lisbeth. «Sissignora», esclamò Lisbeth senza distogliere lo sguardo da Wes. Wes era vicino ai migliori uomini politici del mondo da quasi dieci anni, ma era ancora un novizio, quando si trattava di nascondere le emozioni. Narici dilatate... pugni contratti... qualsiasi cosa nascondesse, lo stava divorando vivo. «Da questa parte, signore», disse uno dei due agenti dei Servizi segreti, guidando il presidente e la First Lady verso il palco. Come topi dietro il pifferaio, la presidente dell'associazione, l'addetto alle PR, quello della raccolta fondi, il fotografo e gli altri big si misero dietro di loro, formando istantaneamente un gruppo che risucchiò tutte le persone disperse nella sala. Quando la porta si chiuse alle loro spalle, il silenzio era opprimente. Con sorpresa, Lisbeth vide che Wes non era l'unico a restare al suo posto. Dreidel era accanto a lui, con un sorriso cordiale sulla faccia. «Venga... si sieda», disse indicando tre sedie libere accanto al tavolino rotondo che serviva per firmare gli autografi. Lisbeth accettò, senza lasciarsi ingannare. La paura produceva sempre gentilezza. E se l'aspirante senatore era ansioso, la sua storia passava immediatamente dal 6 più all'8.
«Allora, com'è andata la progettazione della festa di compleanno?» chiese avvicinando la sua sedia al tavolo. «Cosa?» chiese Dreidel. «Per il compleanno di Manning», intervenne Wes. «Il nostro incontro di stamattina...» «Ah, benissimo», disse Dreidel, sistemandosi i capelli e gli occhiali di metallo. «Pensavo parlasse della mia raccolta fondi.» «Avete deciso come sarà?» riprese Lisbeth. «Ci stiamo ancora pensando», dissero Wes e Dreidel insieme. Lisbeth annuì. Questi si erano formati alla Casa Bianca. Non sarebbero caduti nei suoi miseri trucchetti. Meglio prenderla con calma. «Suvvia, non avete sentito cos'ha detto la First Lady? Adora la mia rubrica. Non sono qui per succhiarvi il sangue.» «E allora perché ha portato il suo bicchiere?» chiese Dreidel indicando il taccuino con il mento. «È questo che vi spaventa? E se lo rimetto nella borsa?» disse Lisbeth allungandosi sotto la sedia e rimettendo via penna e taccuino. Ancora chinata, alzò la testa cercando di mantenere il contatto visivo. «Va meglio, così?» «Stavo scherzando», disse Dreidel, facendo chiaramente il simpatico. Senza dubbio era suo il segreto che cercavano di nascondere. «Sentite, ragazzi», disse Lisbeth. «Prima che vi... Accidenti, scusate.» Si frugò nella tasca della giacca nera, tirò fuori il cellulare e rispose. «Ciao, Vincent... Sì, ho appena... Oh, vuoi scherzare? Aspetta un secondo», disse. Si rivolse a Wes e Dreidel e aggiunse: «Scusate, è urgente... un minuto soltanto.» Prima che uno dei due potesse reagire, Lisbeth si era alzata e stava correndo verso la porta d'ingresso. «State attenti alla mia borsa!» gridò a Wes e Dreidel, oltrepassando la porta e attraversando il decoratissimo atrio del Kravis Center. Stringendo il telefonino, se lo attaccò all'orecchio. Ma l'unica cosa che stava ascoltando erano le parole dei due giovani uomini che aveva lasciato nella sala. «Le hai detto che stavamo organizzando una festa?» sibilò Dreidel. «Cosa volevi che le dicessi?» ribatté Wes. «Che stavo cercando di salvare i cocci del tuo matrimonio?» Regola sacra n. 8: se vuoi davvero sapere che cosa pensa la gente di te, lascia la stanza e ascolta quello che dicono. Lisbeth l'aveva imparata a proprie spese frequentando le feste di Palm Beach, quando un VIP locale aveva pagato a un addetto del posteggio 1500 dollari per origliare la con-
versazione tra Lisbeth e uno dei suoi informatori. Una settimana più tardi, Lisbeth risparmiò 1500 dollari e acquistò semplicemente due diversi telefoni cellulari. Adesso il cellulare A era nella sua borsa, accanto a Wes e Dreidel. Il cellulare B era attaccato al suo orecchio. Quando aveva messo via il taccuino, le era bastato premere un pulsante di A per fare squillare B, fingere una chiamata importante, ed ecco spiegato perché la Regola sacra n. 8 era nella top ten e ci sarebbe rimasta per sempre. «Ma se viene a sapere di Boyle...» disse Wes dall'altra parte. «Tranquillo, papà, non saprà niente di Boyle», ribatté Dreidel. «A proposito di Boyle, dimmi che cos'hai scoperto...» Sola nell'atrio, Lisbeth si bloccò e rischiò di cadere dai suoi tacchi alti. Boyle? Si guardò in giro, ma non c'era nessuno. Erano tutti dentro, immersi nel ronzio della Serata col presidente Leland F. Manning. Lisbeth sentiva la sua voce provenire dal palco. Un'ondata di eccitazione le infiammò le guance lentigginose. Finalmente... dopo tanti anni... un 10 e lode! 31 «Aaaah!» ruggì il Romano mentre Benjamin usava delle forbici sterili per tagliare la pelle grigia morta sui margini della ferita alla mano. «Fa male!» «Bene, vuol dire che i nervi non sono stati danneggiati», disse seccamente Benjamin nel piccolo studio scantinato che la sua ex moglie usava per la sua elettrolisi. Il Romano era seduto su un moderno divano di pelle. Benjamin oscillava leggermente su una sedia a dondolo d'acciaio. «Stai fermo», disse. Premendo il pollice sul palmo del Romano e le altre dita sul dorso della sua mano, Benjamin strizzò la ferita con forza. Stavolta il Romano era preparato e non emise alcun gemito. «Nessun indebolimento osseo e nessuna instabilità... Ma sarebbe meglio fare comunque una radiografia...» «Sto bene.» «Sì, l'ho capito da come sei svenuto appena entrato. Il ritratto della salute.» Benjamin allungò una graffetta e fece in modo che le due estremità quasi si toccassero, restando a mezzo centimetro di distanza. «Fammi un piacere, chiudi gli occhi», disse. Il Romano ubbidì e Benjamin premette leggermente le punte della graffetta ai lati del suo pollice. «Quante punture senti?» «Due», rispose il Romano.
«Bene.» Un dito dopo l'altro, Benjamin ripeté la domanda, poi bendò la mano con una garza pulita. Passando al piede del Romano, tirò via con delle pinzette frammenti di calza e di cravatta dalla ferita e fece lo stesso test della graffetta con tutte le dita. «Quante adesso?» «Una.» «Bene. Sai, è un miracolo che non si sia rotto nessun osso del tarso.» «Sì, Dio è dalla mia parte», disse il Romano muovendo le dita e toccandosi la benda sul palmo della mano. Il sangue era sparito, ma il dolore c'era ancora. Nico gliel'avrebbe pagata. «Tienilo pulito e sollevato», disse Benjamin alla fine, bendando il piede del Romano. «Posso volare?» «Volare? No... scordatene. Devi riposare. Capisci? Metterti tranquillo per qualche giorno.» Il Romano rimase in silenzio, si chinò e infilò cautamente il piede nella scarpa che Benjamin era andato a prendergli di sopra. «Hai sentito quello che ho detto?» chiese Benjamin. «Non è il momento di correre in giro.» «Fammi un piacere, telefona e ordinami quelle medicine», disse il Romano, lottando contro l'impulso di zoppicare mentre si dirigeva alla porta. «Ti chiamo più tardi.» Senza voltarsi indietro, uscì e tirò fuori di tasca il cellulare. Premette dieci tasti e una voce femminile disse: «Ufficio Viaggi, come posso esserle utile?» «Vorrei fare una prenotazione», rispose il Romano addentrandosi nell'oscurità mentre una raffica del gelido vento della Virginia tentava di spostarlo di lato. «Sul prossimo volo libero per Palm Beach.» 32 «Questo?» chiede Dreidel guardando il fax. «Questa è l'ultima cosa che Boyle ha ricevuto dalla biblioteca?» «Così dice l'archivista.» «Non ha alcun senso», borbotta Dreidel. «Potrei capire un documento personale... un vecchio memorandum su un attentato finito male... ma delle parole crociate?» «Questo è quello che mi ha mandato: un foglio con dei nomi su una stupida vignetta di Beetle Bailey e dall'altra parte un cruciverba sbiadito e
quasi completato...» «Un cruciverba...» ripete Dreidel. Studia le lettere manoscritte. «Senza dubbio è la grafia di Manning.» «E di Albright», dico io, pensando al nostro antico capo di gabinetto. «Ti ricordi? Albright incominciava i cruciverba...» «...e Manning li finiva.» Torna a guardare il foglio e indica un gruppo di segni e di lettere messi a casaccio sulla destra del cruciverba. AMB...JABR... FRF... JAR... «Cosa sono queste?» «Non ne ho idea. Ho controllato le iniziali, ma non appartengono a nessuno che lui conosca. Onestamente, mi sembrano lettere a caso.» Dreidel annuisce, riflettendo fra sé. «Mia madre fa lo stesso quando risolve un cruciverba. Penso che siano solo degli appunti, delle prove... diverse combinazioni.» Torna a concentrarsi sullo schema e ne rilegge tutte le definizioni. «Niente di interessante nelle parole?» «Sono solo strani termini pieni di vocali: aloe, Aral, Giosue...» leggo nella prima riga, guardando al di sopra della sua spalla. «E sono le risposte giuste?» «Ho avuto pochi secondi, l'ho guardato, non risolto», dico. «Comunque sembra giusto», dice Dreidel studiando il cruciverba finito. «Ma forse è questo che intendeva il tizio dell'FBI parlando dei Tre», aggiunge. «Forse è una delle definizioni del cruciverba.» Scuoto la testa. «Ha detto che erano un gruppo.» «Potrebbe comunque essere nel cruciverba.» Guardo l'unico «tre» dello schema, il 3 verticale, e indico la risposta di quattro lettere: «Merc», dico leggendo. «Abbreviazione di mercenario», dice Dreidel, tutto eccitato. «Un mercenario che sapeva di dovere lasciare vivo Boyle.» «Adesso stai inventando.» «Come fai a esserne sicuro? Forse è proprio quello che stiamo cercando...» «Che cosa, un codice segreto che dice: Alla fine del primo mandato simulare morte di Boyle e farlo riapparire anni dopo in Malaysia? Dai, siamo seri. Non c'è nessun messaggio segreto nascosto nel cruciverba del "Washington Post".» «E allora a che punto siamo?» chiede Dreidel. «Bloccati», annuncia una voce femminile da lontano. Mi giro e vorrei mangiarmi la lingua. Lisbeth entra cauta come una gatta, guardandosi in giro per assicurarsi che siamo soli. Non è una stupida.
Sa che cosa succederebbe, se la cosa si sapesse in giro. «Questa è una conversazione privata», dichiara Dreidel. «Io posso aiutarvi», propone lei. In mano ha un cellulare. Guardo la sua borsa e ne scorgo un altro. Figlia di... «Ci ha registrato? È per questo che si è allontanata?» esplode Dreidel, assumendo i modi dell'avvocato mentre si alza dalla sedia. «È illegale, in Florida, senza autorizzazione!» «Non vi ho registrato...» «E allora non può provare niente, senza una registrazione, sono solo...» «Potrebbe comunque essere nel cruciverba... Merc... Abbreviazione di mercenario...» attacca lei guardandosi la mano sinistra. La sua voce non cambia, conserva una calma perfetta e inquietante. «Un mercenario che sapeva di dovere lasciare vivo Boyle...» Ruota la mano in senso antiorario. «Adesso stai inventando. Posso continuare, se volete. Non sono neanche arrivata al polso.» «Ci hai ingannato», dico, bloccato al tavolo. All'accusa, Lisbeth si immobilizza. «No, non è vero, ho solo cercato di capire perché mi stavate mentendo.» «E per farlo ci hai mentito a tua volta.» «Non era questo che...» Si interrompe e abbassa gli occhi, valutando la situazione. È più difficile di quel che pensava. «Sentite... mi dispiace, ok? Ma seriamente, posso lavorare insieme a voi su questa storia.» «Lavorare insieme a noi? Oh, no, no, no!» grida Dreidel. «Non capite...» «In verità, sono piuttosto esperto di queste faccende, e l'ultima cosa di cui ho bisogno è di passare altro tempo con lei, ad ascoltare le sue stronzate. Dirò sempre no comment e qualsiasi cosa scriverà non soltanto la negherò, ma farò causa a lei e a tutti, fino alla stupida scuola che le ha insegnato il trucco dei telefonini!» «Sì, sono sicura che una causa civile aiuterebbe molto la sua campagna elettorale», dice tranquillamente Lisbeth. «Non osi tirare in ballo... Maledizione!» grida Dreidel voltandosi e sbattendo i pugni sul tavolino. Ancora sulla porta, Lisbeth dovrebbe avere un sorriso grande da un orecchio all'altro. Invece si strofina la nuca e stringe i denti con aria ansiosa. Avevo la stessa faccia quando sono capitato nel bel mezzo di uno dei molti litigi fra il presidente e la First Lady. È come sorprendere qualcuno mentre sta facendo sesso. Un'iniziale eccitazione, subito seguita dalla cupa consa-
pevolezza che, fra le infinite possibilità dell'universo, il caso ha cospirato per collocarti in quel luogo e in quell'istante di tempo che disgraziatamente e irrimediabilmente costituiscono la tua vita attuale. Lisbeth fa un passo indietro e finisce contro la porta. Poi viene avanti. «Posso davvero aiutarvi», dice. «Cosa intendi dire?» chiedo. «Wes, smettila», geme Dreidel. «È una stupidaggine. Abbiamo già...» «Posso procurarvi delle informazioni», continua Lisbeth. «Il giornale... i nostri contatti...» «Contatti?» chiede Dreidel. «Noi abbiamo il Rolodex del presidente.» «Ma non potete consultarlo», ribatte Lisbeth. «Né lei, né Wes, senza corrompere qualcuno.» «Falso», dice Dreidel. «A no? Vuole dirmi che nessuno batterà ciglio quando due ex segretari del presidente si metteranno a studiare il suo vecchio attentato? Nessuno dirà niente al presidente, quando vi metterete a fare ricerche sulla vita di Boyle?» Siamo tutti e due senza parole. Dreidel smette di passeggiare. Io fingo di togliere della polvere dal tavolo. Se Manning lo scoprisse... Lisbeth ci guarda attentamente. Le sue lentiggini si spostano quando socchiude gli occhi. È il suo mestiere leggere gli atteggiamenti. «Non vi fidate neppure di Manning, vero?» chiede. «Non può scriverlo», minaccia Dreidel. Lisbeth rimane a bocca aperta, sconvolta dalla risposta. «Davvero...» Ci metto un attimo a capire quello che è successo. Guardo Lisbeth, poi di nuovo Dreidel. Non ci credo. Stava bluffando. «Non osi scriverlo», ripete Dreidel. «Noi non l'abbiamo mai detto.» «Lo so... non ho intenzione di scriverlo... Ma voi due avete veramente toccato un vespaio, eh?» Dreidel è stufo di rispondere alle sue domande. Si precipita verso Lisbeth e le punta un dito sulla faccia. «Lei non ha nessuna prova! E il fatto che...» «Sul serio puoi aiutarci?» chiedo restando seduto. Lisbeth si gira verso di me senza esitare. «Certo.» «Wes, non fare lo stupido...» «In che modo?» Dreidel si volta anche lui. «Aspetta... le stai dando retta?» «Essendo l'unica persona che nessuno può ricollegare a voi», spiega Li-
sbeth, superando Dreidel e venendo verso di me. «Se voi fate una telefonata, tutti sanno che c'è qualcosa che bolle in pentola. Ma se la faccio io, è solo una povera giornalista a caccia di notizie, che spera di diventare la prossima Woodward e Bernstein.» «E perché ci aiuteresti?» chiedo. «Per diventare la prossima Woodward e Bernstein.» Attraverso i suoi occhiali firmati, mi studia con occhi verde scuro, e non mi guarda mai la guancia. «Voglio la storia», dice. «Quando sarà finita... quando tutti i segreti saranno svelati e tutti i tasselli al loro posto, voglio essere io a raccontarla.» «E se ti dicessimo di andare affanculo?» «La diffondo subito, e i furgoni della stampa si allineeranno davanti a casa vostra e daranno la vostra vita in pasto al tritacarne delle notizie. Una copertura gigantesca... Tutta l'America lo saprà... Vi mangeranno come Cheerios. E se anche scoprirete la verità, la vostra vita sarà ridotta in cenere.» «È così, dunque», dice Dreidel, tornando a battere il dito sul tavolino. «Lei ci minaccia, e noi dovremmo fidarci? Come facciamo a sapere che non racconterà tutto domani mattina, per fare il colpo subito?» «Perché solo uno stupido fa un colpo del genere», ribatte Lisbeth sedendosi sull'orlo del tavolino. «Sapete benissimo come funziona: se spendo questa carta domani, ricevo una pacca sulla spalla che dura al massimo ventiquattro ore, dopo di che il "Times" e il "Washington Post" mi fregano la palla, mandano qui una dozzina di giornalisti e conducono le danze sino alla fine. Se facciamo come dico io, invece, almeno avete il controllo della situazione. Voi ottenete le vostre risposte, io la mia storia. Se siete innocenti, non avete niente da temere.» Alzo lo sguardo: sul bordo del tavolino, la gamba destra di Lisbeth oscilla leggermente. Sa di avere segnato un punto. «E possiamo fidarci?» chiedo. «Del fatto che te ne starai zitta sino alla fine?» La sua gamba si ferma. «Wes, l'unica ragione per cui lei conosce Woodward e Bernstein è che avevano in mano la conclusione... non solo il primo tassello. Solo uno stupido non resterebbe con voi finché non avrebbe tutte le risposte.» Sono stato scottato dai giornalisti. Non mi piacciono. E sicuramente non mi piace Lisbeth. Ma lancio un'occhiata a Dreidel, che finalmente si è zittito, ed è chiaro che non abbiamo scelta. Se non lavoriamo con lei, renderà
pubblico tutto questo casino e scatenerà una tempesta che non potremo più mettere a tacere. Se invece lavoriamo con lei, almeno ci garantiamo un po' di tempo per capire cosa sta succedendo. Lancio un'altra occhiata a Dreidel. Da come si stringe il naso, siamo già finiti su una mina. L'unica domanda è: quando sentiremo il botto? «Nessuno si muova!» grida una voce profonda mentre la porta si spalanca e una mezza dozzina di agenti dei Servizi segreti in borghese invade la stanza, armi in pugno. «Andiamo!» dice un massiccio agente con una sottile cravatta verde afferrando Dreidel per una spalla e spingendolo verso la porta. «Fuori! Subito!» «Mi lasci stare!» «Anche lei!» dice un altro a Lisbeth, che lo sta seguendo. «Via!» Gli altri agenti entrano ma, con mia sorpresa, mi superano, disponendosi in formazione mentre occupano tutta la sala. Non è un'aggressione; è un controllo. L'unica cosa strana è che nessuno di questi tizi ha l'aria familiare. Io conosco tutti quelli del nostro gruppo. Forse è arrivata la minaccia di una bomba e hanno coinvolto i locali... «Tutti e due, muovetevi!» abbaia l'agente con la cravatta verde rivolto a Dreidel e Lisbeth. Immagino che non mi veda, Lisbeth è ancora davanti a me, accanto al tavolino, ma quando mi alzo e li seguo verso la porta, mi sento strattonare con forza per la giacca. «Ehi, cosa...?» «Lei viene con me», dichiara Cravatta Verde, tirandomi indietro mentre mi sento stringere la gola. Con uno spintone sulla sinistra, mi manda a sbattere dall'altra parte della stanza. Ci muoviamo così rapidamente che fatico a mantenere l'equilibrio. «Wes!» grida Lisbeth. «Sta buona», interviene un agente con una brutta acne, afferrandola per il gomito e spingendola verso la porta. Le dice qualcos'altro, ma non riesco a sentirlo. Lisbeth mi guarda al di sopra della spalla, incespica in equilibrio precario verso il rettangolo di luce della porta e, con un ultimo spintone, scompare. Quando il primo agente l'ha afferrata, si è ribellata, ma adesso... l'ultima espressione che le vedo prima che la porta sbatta, gli occhi immensi... qualsiasi cosa le abbia detto l'agente, è terrorizzata. «Mi lasci... sono un amico!» dichiaro cercando di prendere il mio badge.
Cravatta Verde se ne frega. «Si muova!» mi dice, tenendomi praticamente per la collottola. L'ultima volta che i Servizi segreti si sono mossi così rapidamente è stato quando Boyle... No, mi fermo, mi rifiuto di ripetere. Niente panico. Stabiliamo i fatti. «Manning sta bene?» chiedo. «Si muova!» insiste mentre corriamo verso un'estremità della stanza dove c'è una porta tappezzata, quasi nascosta. «Forza!» dice Cravatta Verde girando una chiave e spingendomi contro la porta per aprirla. Al contrario della porta per cui sono passati Dreidel e Lisbeth, questa non dà sull'atrio. Il soffitto è alto, le pareti di cemento grigie e strette. Cavi, estintori arrugginiti, tubi bianchi sono le uniche cose che decorano le pareti. Un corridoio di servizio, a giudicare dall'odore di ammoniaca. Cerco di liberarmi, ma camminiamo troppo veloci. «Se non mi dice dove stiamo andando, mi assicurerò personalmente che...» «Qui», dice Cravatta Verde, fermandosi davanti alla prima porta sulla mia destra. Un cartello bianco e rosso dice DEPOSITO. Allunga la mano verso la porta e rivela una stanza più grande del mio ufficio. Con un'ultima spinta, mi lascia andare il collo e mi sbatte dentro, come un sacco della spazzatura. Le scarpe scivolano sul pavimento mentre cerco di riprendere l'equilibrio, ma è solo quando vedo altre due paia di scarpe nere e lucide che capisco di non essere solo. «È tutto vostro», dice Cravatta Verde sbattendo la porta alle mie spalle. La mia scivolata si interrompe contro un armadietto metallico. Una nuvola di polvere si solleva per aria. «Giornata intensa, eh?» dice l'uomo con il cappellino degli U.S. Open, le braccia incrociate sul petto. Il suo socio si gratta l'orecchio, dove gli manca un pezzetto di cartilagine. O'Shea e Micah. Gli agenti dell'FBI di stamattina. «Che cosa diavolo succede?» domando. «Nico Hadrian è fuggito dal St. Elizabeths circa un'ora e mezzo fa. Quello che vorremmo sapere è: perché il suo nome è registrato all'ospedale come quello dell'ultima persona che gli ha fatto visita?» 33 Richmond, Virginia
Fu facile per Nico prendere i jeans e la camicia azzurra dall'asciugatrice nella lavanderia a gettoni. Il cappellino dei Baltimore Orioles, lo recuperò da una discarica. Ma quando entrò al Carmel's Irish Pub, ci vollero nove minuti pieni prima che un vecchio nero, con un whisky e il naso che colava, se ne andasse in bagno lasciando la giacca scolorita appoggiata come un cadavere sul sedile del suo sgabello. Nico si avvicinò allo sgabello con tutta calma. Il Signore provvedeva sempre. Era lo stesso pensiero che gli girava per la testa adesso, mentre si trovava sul bordo ghiaioso dell'I-95 e un camion a quattro assi gli sfrecciava ferocemente accanto, sollevando una ventata di sassolini e di polvere scura. Coprendosi gli occhi, scrutò in mezzo all'improvviso uragano mentre lo spostamento d'aria lo faceva oscillare sulla destra. Con una mano premuta sulla testa per impedire al cappellino degli Orioles di volare via, con l'altra reggeva il pezzo di cartone che sventolava nella scia del camion. Quando il veicolo sparì e il vento si placò, il cartone si fermò contro la sua gamba destra. Calmo come sempre, Nico alzò la mano e tirò fuori il pollice. Era già a Richmond, ben al di là del raggio di cinquanta chilometri che l'FBI e la polizia del D.C. stavano setacciando intorno al St. Elizabeths. Il primo guidatore l'aveva portato alla South Capitol Street. Il secondo gli aveva fatto percorrere la I-295. E il terzo l'aveva portato sulla I-95, fino a Richmond. Senza dubbio, Nico sapeva che non poteva permettersi di stare in giro troppo a lungo. I notiziari della sera si avvicinavano, la sua foto sarebbe stata dappertutto. Ma non poteva farci niente. Da un punto di vista statistico, le probabilità che un quarto guidatore lo raccogliesse nei prossimi minuti erano già basse. Chiunque altro si sarebbe lasciato prendere dal panico. Nico no. Le statistiche, come qualunque altra cosa, non avevano alcun valore, se si credeva nel destino. Scorgendo i due fari in lontananza, si avvicinò lentamente alla carreggiata e ancora una volta alzò il cartello con le grosse lettere cubitali: CRISTIANO CHIEDE PASSAGGIO. Uno stridore di freni lacerò la notte quando l'autista di un vecchio autotreno frenò di colpo e tutte e dieci le ruote si bloccarono e slittarono sul ghiaccio ai margini della carreggiata. Anche in quel momento, mentre il camion si fermava rombando a una cinquantina di metri da lui, Nico si godeva i rumori, le strida, i sibili del mondo esterno. Era stato rinchiuso per troppo tempo.
Si mise il cartello sotto il braccio e trotterellò accanto alla cabina di guida, mentre la portiera del passeggero si apriva e ne usciva una debole luce. «Dio la benedica per essersi fermato», disse Nico. In tasca, toccò il grilletto della rivoltella. Per ogni evenienza. «Dove devi andare?» chiese un uomo con baffi e barba biondi. «Florida», rispose Nico, recitando mentalmente Apocalisse 13:1: «E io mi fermai sulla spiaggia del mare e vidi una bestia.» Tutto tornava. Seguire la Bibbia. Compiere la volontà di Dio. Finire Wes - nel suo sangue avrebbe trovato la Bestia. «A Palm Beach, per l'esattezza.» «Sei stanco del freddo, eh? Tallahassee va bene lo stesso?» Nico non disse una parola, guardando il rosario di legno d'olivo e la croce d'argento che pendevano dallo specchietto retrovisore dell'uomo. «Perfetto», disse. Si afferrò alla maniglia e salì nella cabina di guida. Con un sussulto e qualche altro strido della trasmissione, l'enorme camion tornò sulla I-95. «Hai la famiglia, in Florida?» chiese l'autista, cambiando la marcia. «Noo...» rispose Nico continuando a guardare la croce che oscillava come un'altalena. «Vado solo a trovare un vecchio amico.» 34 «Di cosa sta parlando?» chiedo ansioso. «Il suo nome, Wes. Era sul...» «Quando è fuggito?» «Ecco il problema. Pensiamo che avesse...» «Lo... lo state cercando? È scomparso o... siete sicuri che sia scomparso?» Un rigurgito di bile mi colpisce allo stomaco, costringendomi a piegarmi per il dolore. Mi ci sono voluti sette mesi di terapia per poter sentire il nome di Nico senza che le mani e i piedi mi si riempissero di sudore. Mi ci è voluto un altro anno e mezzo per poter dormire tutta la notte senza che lui mi svegliasse facendo capolino in margine ai miei sogni. Nico Hadrian non mi ha tolto la vita. Ma mi ha privato della vita che vivevo prima. E adesso, questa notizia... il fatto che sia fuggito... potrebbe facilmente portarmi via il resto. «Non c'erano delle guardie?» chiedo. «Come è potuto accadere?» O'Shea lascia che le domande gli rimbalzino sul petto, senza perdere il filo dei miei ragionamenti. «Il suo nome, Wes. Era sui registri dell'ospedale», insiste. «Secondo i loro archivi, lei è andato là.»
«Dove? A Washington? Mi avete visto qui sulla spiaggia stamattina.» «L'ho vista lasciare il Four Seasons verso le nove e mezzo. Secondo la centralinista del suo ufficio, lei non è tornato al lavoro fino alle tre. È un periodo lungo.» «Sono stato tutta la mattina col mio am... avvocato. Ve lo confermerà. Chiamatelo subito: Andrew Rogozinski.» Micah ride piano. «E immagino che il fatto di essere un vecchio compagno di scuola e l'attuale coinquilino significhi che non mentirebbe mai per proteggerla, vero? È stato assente per quasi sei ore, Wes. Un tempo più che sufficiente per...» «Per cosa? Per saltare sul mio jet privato, fare un volo di due ore e mezzo fino a Washington, liberare Nico - che una volta, tra parentesi, ha cercato di uccidermi - e poi tornare al lavoro, sperando che nessuno abbia notato la mia assenza? È un piano geniale. Andare a trovare l'unico tizio che mi procura ancora degli incubi, essere tanto stupido da firmare col mio vero nome all'ingresso dell'ospedale e liberarlo perché possa darmi la caccia.» «Chi ha detto che vuole darle la caccia?» interviene O'Shea. «Cosa intende dire?» «Basta fare l'idiota, Wes. Lei sa benissimo che Nico è solo un'arma. Anche allora, è stato qualcun altro a premere il grilletto.» «Qualcun altro? Ma cosa diavolo...?» «Ha parlato con Boyle, oggi?» mi interrompe O'Shea. Tento di mordermi il labbro, dimenticando momentaneamente che i danni subiti dal nervo me lo impediscono. «Non siamo qui per farle del male, Wes. Ma sia sincero con noi: gli sta dando la caccia o lo sta aiutando?» aggiunge Micah. Afferra uno spazzolone lì accanto e si passa il manico da una mano all'altra, come il tic-toc di un metronomo. «Voi sapete benissimo che non ho liberato io Nico», dichiaro. «Non è questo che le abbiamo chiesto.» «E che non ho parlato con Boyle», aggiungo. «Ne è sicuro?» chiede O'Shea. «Vi ho detto...» «Gli ha parlato o no? Glielo chiedo da pubblico ufficiale impegnato in un'inchiesta.» Il manico di Micah oscilla avanti e indietro. Si comportano come se sapessero già la risposta, ma se così fosse io sarei già in manette e non chiuso nello sgabuzzino delle pulizie. Li guardo dritto negli occhi: «No.»
O'Shea scuote la testa. «Oggi a mezzogiorno un uomo non identificato è arrivato al St. Elizabeths e ha chiesto una visita privata con Nico, presentandosi come agente dei Servizi segreti e fornendo badge e foto identificativa, cose a cui lei ha accesso. Ora, voglio ammettere che solo uno stupido avrebbe usato il suo vero nome, e voglio anche tenere il suo nome fuori dai giornali - solo per rispetto nei confronti del suo capo - ma in una situazione in cui dichiara di non sapere niente è molto curioso che il suo nome sia l'unico che continui a saltare fuori.» «Cosa vuole dimostrare?» «Voglio dire che, quando è in Malaysia, Boyle è proprio lì... quando il suo nome compare sul registro di un ospedale a Washington, Nico scappa... Non è esattamente il codice Morse. Mi segue?» «Io non sono stato a Washington!» «E non ha visto un morto in Malaysia. E non è stato mandato nel camerino dal presidente, perché sentisse quello che aveva da dire Boyle, giusto? O questa è solo una storia che ci siamo inventati per nostro comodo, sa quelle forme di ossessione per le porte chiuse e le luci accese? O meglio ancora, per le preghiere...» «Solo perché ho chiesto un aiuto...» «Non era un aiuto, era uno strizzacervelli.» «Era uno specialista in incidenti...» «Ho controllato, Wes. Era un medico psicologo, che l'ha avuta in terapia per quasi un anno. Alprazolam contro l'ansia, accompagnato da forti dosi di olanzepina per i comportamenti compulsivi. È un antipsicotico. E in più ci sono gli appunti del medico, da cui risulta che in un certo senso lei amava le proprie ferite: considerava la sua sofferenza come una punizione per avere fatto salire Boyle sulla limousine. Non ne viene fuori molto bene.» «Quel tizio mi ha spappolato la faccia!» «E per questo lei ha i motivi migliori e gli alibi peggiori, soprattutto in Malaysia. Mi faccia un piacere, nei prossimi giorni, a meno che non sia in viaggio col presidente, resti qui. Almeno finché non capiamo che cosa sta succedendo.» «Quindi sono agli arresti domiciliari? Non potete farlo.» «Wes, c'è uno schizofrenico paranoide omicida in libertà, che fra due ore, quando le medicine che lo aiutano a tenere sotto controllo la sua psicosi esauriranno il loro effetto, sentirà un insolito tintinnio nella parte destra del cervello. Ha già ucciso due infermieri e una guardia - tutti e tre colpiti al cuore e, come Boyle, alla mano. E questo mentre era sotto l'effetto delle
medicine. Perciò non solo posso fare quello che voglio, ma le dico che se cerca di fare ancora un giro fuori città e scopro qualche altro rapporto fra lei e questo caso, se cerca di contattare Boyle, o Nico, o il tizio che vendeva popcorn all'autodromo quel giorno, l'accuso di intralcio alla giustizia e la faccio a pezzi più velocemente di quanto abbia mai fatto quel deficiente.» «A meno che lei non voglia rivelarci il messaggio che Boyle ha portato al presidente in Malaysia», interviene Micah, col manicometronomo che gli sbatte sul palmo sinistro. «Suvvia, Wes, è chiaro che dovevano incontrarsi quella sera, e che volevano tenere nascosto lo sporco che pensavano di avere messo sotto il tappeto. Sono cose di tutti i giorni. Vogliamo solo sapere quando si vedranno di nuovo.» Come sempre - come tutti gli agenti dell'FBI che vogliono farsi un nome - il loro obiettivo è Manning, che senza dubbio ha avuto un ruolo importante nell'aiutare Boyle a nascondersi e nel mentire al paese intero. Se parlo, saranno felici di lasciarmi uscire dalla trappola. Il problema è che non so cosa dire. E quando cerco di scavare... Alla spiaggia, stamattina, hanno parlato dell'abilità di Boyle nello sfruttare i punti deboli delle persone. E quali erano dunque le debolezze di Manning? Qualcosa che riguardava il suo passato? Ed è forse qui che entrano in gioco il Romano e i Tre? Di qualsiasi cosa si tratti, non la scoprirò se non guadagno un po' di tempo. «Lasciatemi... lasciate che ci pensi su un po', ok?» chiedo. O'Shea annuisce, sapendo di avere comunicato il suo messaggio. Mi giro per uscire dallo sgabuzzino, ma mi blocco prima di raggiungere la porta. «E Nico? Avete idea di dove si nasconda?» aggiungo sentendo che le dita incominciano a tremarmi. Le infilo nelle tasche dei pantaloni prima che qualcuno se ne accorga. O'Shea mi studia attentamente. È il momento in cui gli sarebbe più facile fare lo stronzo. Si sistema il cappellino da baseball degli U.S. Open. «La polizia del D.C. ha trovato i suoi vestiti in una lavanderia a un miglio dal St. Elizabeths. Secondo i medici, erano anni che Nico non parlava di Manning, ma i Servizi segreti hanno raddoppiato gli agenti per precauzione.» Annuisco, senza togliere le mani di tasca. «Grazie.» Micah sta per fare il poliziotto buono, ma O'Shea gli mette una mano sul petto e lo blocca. «Non è solo, Wes», dice. «A meno che non lo voglia lei.» È un'offerta perfetta, presentata nel modo più gentile. Ma non per questo è meno tattica. Parlare con l'FBI... tradire Manning... metterebbe in moto
un effetto domino che alla fine mi travolgerebbe. D'ora in poi, l'unico modo per uscire da questa faccenda è scoprire la verità e usarla per proteggermi. È l'unico giubbotto antiproiettile che funziona. Il cellulare si mette a vibrare nella mia tasca. Lo tiro fuori e sullo schermo vedo il nome di Lisbeth. Dalla padella alla brace. «È mia madre», dico a O'Shea. «Devo andare. Probabilmente ha sentito di Nico al telegiornale.» «Attento a quello che dice», mi grida dietro Micah. Senza dubbio. Ma è facile la scelta. Stare con l'FBI vuol dire che mi useranno contro Manning. Ma prima di pugnalare Cesare, devo essere sicuro di avere il bersaglio giusto. Stare con Lisbeth mi garantisce il tempo necessario per capire cosa sta succedendo. «Ci pensi, Wes. Non è solo», ripete O'Shea mentre scappo dallo sgabuzzino. In corridoio, aspetto fino al terzo squillo per essere sicuro che non mi sentano. «Wes», rispondo. «Dove sei?» chiede Lisbeth. «Stai bene? Ti hanno detto che Nico...?» «Ascolta», la interrompo. «Prima hai detto che potevi scoprire qualcosa per noi... È vero?» C'è una breve pausa dall'altra parte. «Verissimo.» «Ne sei certa? Voglio dire, se entri in questa storia... Sei sicura di essere pronta?» Adesso la pausa è ancora più lunga. Non si tratta di una soffiata sul nuovo vestito della First Lady. Comunque ci siano riusciti - Boyle, Manning, i Servizi segreti - non si fa una cosa del genere senza l'aiuto di persone che stanno ai vertici del governo e delle forze dell'ordine. È su una nave del genere che si sta imbarcando. Per di più, quando la storia verrà fuori, useranno tutto il potere che hanno per farci passare per matti che hanno visto un fantasma. E il nostro tallone d'Achille è che, con Boyle vivo, Nico ha tutti i motivi per tornare qui a finire il suo lavoro. In fondo al corridoio, urto con l'anca la maniglia di ferro della porta, che si apre sull'atrio vuoto del teatro. Un'onda di risate esce dalla sala. I Servizi segreti hanno sgombrato le stanze sul retro, ma a quanto pare il presidente è ancora sul palco. Sulla mia destra, una donna coi capelli bianchi vende per quattro dollari una bottiglia d'acqua a un uomo con l'abito gessato. Un'altra coppia di agenti dei Servizi attraversa di corsa l'atrio, come sempre quando sono al lavoro. Ma ciò che attira la mia attenzione è la rossa leggermente sovrappeso in piedi fuori del teatro, proprio davanti alle porte a vetri. Mi dà le spalle e passeggia lentamente alla luce della luna, tenen-
dosi il cellulare all'orecchio. Lisbeth non sospetta che io sia qui. «È per questo che sono diventata giornalista, Wes», dice con voce più forte che mai. «È tutta la vita che aspetto questa occasione.» «Questo è un bel discorso», ribatto, continuando a guardarla da dietro. «Ma sai con chi abbiamo a che fare, vero?» Smette di passeggiare e si siede sul bordo di uno dei vasi di cemento che servono da barriera contro ogni possibile attacco motorizzato al Kravis Center. Quando Manning si è trasferito in città, li hanno messi dappertutto. Ma quando Lisbeth si piega, praticamente si accascia su di esso. Fatica a tenere la testa alta e il mento le finisce quasi sul petto. La mano destra regge ancora il telefono, ma la sinistra le si muove come un serpente sulla vita, come cullandola. I vasi di cemento sono fatti per resistere all'impatto di un camion di tre tonnellate che viaggia a settanta chilometri all'ora, ma non offrono alcuna protezione quando devono fronteggiare i tuoi dubbi. Lisbeth ha detto che aspettava quest'occasione da tutta la vita. Le credo. Ma mentre guarda il mucchio di berline nere dei Servizi segreti davanti a sé, con le loro luci rosse che lampeggiano mandando ombre intermittenti sulla facciata del palazzo, è chiaro che si sta chiedendo se ha i numeri per farcela. Si china ancora di più, mentre le braccia le circondano la vita ancora più strette. Non c'è niente di più deprimente del vedere le proprie aspirazioni strangolate dai propri limiti. In piedi nell'atrio, non dico una parola. Otto anni fa, Nico Hadrian ha messo i miei limiti su un piatto d'argento. Mentre vedo Lisbeth che si accascia, so esattamente come... «Ci sto», dichiara. «Lisbeth...» «Ce la farò. Conta su di me», dice mentre le spalle le si rialzano. Si stacca dal vaso e si guarda intorno. «Dove sei, a proposi...?» Si blocca quando i nostri sguardi si incrociano. Il mio istinto è di girarmi dall'altra parte. Lei marcia verso di me, già eccitata. I capelli rossi le ondeggiano dietro. «Non dire di no, Wes. Io posso aiutarti. Davvero.» Non rispondo neanche. 35 St. Pauls, Nord Carolina
Si disse di non fare domande sulle mappe. Non chiederne, non parlarne, non tirarle in ballo. Ma mentre sedeva all'indiana nella cabina del camion... mentre il rosario di legno d'olivo ondeggiava appeso allo specchietto... Nico non poté fare a meno di notare i bordi frastagliati di una carta che sbucava dal cassetto del cruscotto. Di certe cose, come delle croci che vedeva in ogni palo del telefono e in ogni lampione che superavano nell'oscurità dell'autostrada, era meglio non parlare. Concentrò l'attenzione sul parabrezza e guardò le strisce divisorie gialle che venivano risucchiate a una a una dalle ruote del camion. «Non hai una mappa, per caso?» Seduto accanto a lui, Edmund Waylon, un uomo sottile e curvo come una parentesi, teneva il grosso volante con i palmi delle mani rivolti all'insù. «Guarda nel cruscotto», disse leccandosi il sale delle patatine alla cipolla e della salsa acida sulla punta dei baffi biondi. Nico, ignorando il rumore delle unghie di Edmund sulla gomma nera del volante, aprì il cassetto. Dentro c'era un pacchetto di fazzolettini, quattro penne, una mini-torcia e - stretta fra il grosso manuale del camion e un caos di tovagliolini di carta dei fast food - una mappa con i bordi rovinati. Mentre si apriva come una vecchia fisarmonica, vide la parola Michigan stampata accanto alla legenda. «Nient'altro?» chiese, chiaramente deluso. «Forse c'è qualcos'altro sulla cuccetta», disse Edmund, indicando la console di plastica fra il suo seggiolino e quello di Nico. «Mi stavi dicendo di tua madre... che è morta quando eri piccolo?» «Avevo dieci anni.» Studiando il rosario ondeggiante per liberarsi da quell'immagine, Nico si chinò sulla sinistra e fece passare la mano sotto il reggibottiglie, fino alla reticella attaccata dietro alla console. Sentì della carta e tirò fuori almeno una dozzina di mappe diverse. «Ragazzi, perdere la madre a dieci anni... è un bel casino. E tuo padre?» chiese Edmund. «È morto anche lui?» «Ho solo una sorella», rispose Nico, passando in rassegna le mappe. Nord Carolina, Massachusetts, Maine... Erano quasi dodici ore che non prendeva medicine. Non si era mai sentito meglio in vita sua. «Non riesco neanche a immaginarlo», diceva Edmund, continuando a guardare la strada. «Mio padre è un figlio di puttana - ci picchiava sempre... anche le mie sorelle... coi pugni, proprio sul naso - ma il giorno in cui dovremo seppellirlo... Quando un uomo perde suo padre, la sua vita resta spezzata.» Nico non replicò neanche. Georgia, Louisiana, Tennessee, Indiana...
«Che cosa stai cercando?» chiese Edmund leccandosi rapidamente i baffi. Non dirgli Washington, pensò Nico. «Washington», disse rimettendo le mappe in bell'ordine. «Lo stato o il D.C.?» Digli lo stato. Se no... se vede la prova del peccato dei massoni... e la loro sede... L'ultima ora si avvicina. La Bestia è già scatenata, comunica con Wes, lo corrompe. «Lo stato», disse Nico girandosi verso la console e rimettendo le mappe nella reticella. «Lo stato di Washington.» «È fuori del mio raggio d'azione. Io faccio il corridoio del Nord-est e la zona a est del Mississippi.» Si coprì i baffi col palmo e si prese il naso fra il pollice e l'indice, poi scese con la mano tentando invano di trattenere uno sbadiglio. «Scusa», disse scuotendo violentemente la testa per tenersi sveglio. Nico guardò l'orologio digitale a forma di pallone attaccato sul cruscotto. Erano quasi le due del mattino. «Senti, se hai bisogno di una mappa», disse Edmund, «quando arriviamo alla I-20, a Florence, c'è uno di quei grossi autogrill con un grande settore riviste: hanno mappe, guide, giurerei di avere visto addirittura un paio di atlanti. Se vuoi possiamo fare tappa lì.» Nico chiese alle voci cosa ne pensavano. Non avrebbero potuto essere più eccitate. «Edmund, sei un bravo cristiano», disse guardando un palo del telefono che sfrecciava via. «La tua ricompensa sarà grande, alla fine.» 36 Arrivando nel parcheggio dietro al mio condominio, sento il cellulare che vibra e guardo lo schermo. Merda. Il «New York Times.» Strano che ci abbiano messo tanto tempo. Premo il tasto risposta e mi reggo forte. «Wes.» «Salve, Wes, sono Caleb Cohen del "Times"», annuncia con la forzata familiarità dei giornalisti. Caleb si occupava di Manning ai tempi della Casa Bianca, il che vuol dire che chiamava tutti i giorni. Oggi siamo nel girone degli ex presidenti, poco più importanti dei secondi cugini, una volta rimossi dall'incarico. Almeno finora. «Hai qualche dichiarazione da farmi a proposito della fuga?» chiede.
«Lo sai che non facciamo commenti su Nico», rispondo seguendo anni di protocollo. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che ci sfugga una frase che faccia arrabbiare il can che dorme. «Non intendevo da parte di Manning», mi interrompe Caleb. «Intendevo da parte tua. Sei tu quello con le cicatrici. Non sei preoccupato che sia fuori, pronto a colpirti con qualcosa di più di un colpo di rimbalzo?» Lo dice sperando di farmi salire la tensione e di farmi dichiarare qualcosa senza riflettere. Ha funzionato una volta, con il «Newsweek», subito dopo l'incidente. Ma non ho più ventitré anni. «È stato bello sentirti, Caleb. E se vuoi che parliamo ancora, non scrivere che ci siamo rifiutati di commentare, scrivi che non sei riuscito a trovarci.» Chiudo il cellulare di colpo, ma appena Caleb svanisce vengo inghiottito dall'inquietante silenzio del parcheggio all'aperto che si trova proprio dietro il mio condominio. È quasi mezzanotte, ed è giovedì. Almeno cinquanta macchine mi circondano, ma non si vede nessuno. Mi infilo tra due Honda, premo il pulsante sul portachiavi per chiudere la portiera, tanto per sentire il rumore, che svanisce troppo rapidamente. Resto solo con la realtà delle domande di Caleb: se Nico è là fuori, che cosa gli impedisce di tornare a finire il suo lavoro? Mi guardo intorno nel parcheggio deserto e non trovo alcuna risposta. Ma studiando le lunghe ombre sottili tra i cespugli che circondano l'isolato, tutt'a un tratto non riesco a liberarmi della strana, angosciante sensazione di non essere solo. Ignoro gli scheletri dei rami troppo cresciuti e mi concentro sull'oscurità fra gli alti cespugli, trattenendo il fiato per ascoltare meglio. L'unica cosa che sento è l'ossessivo ronzio dei grilli che tentano di dominare il rumore sordo dei lampioni sopra di loro. Riprendo fiato e faccio qualche passo. È allora che sento un leggerissimo tintinnio metallico. Come monete che cozzano in una tasca. O qualcuno che urta una cancellata. Mi giro leggermente, controllo fra i rami e osservo la recinzione che circonda il parcheggio e corre dietro i cespugli. È ora di entrare. Mi giro di nuovo verso il palazzo e corro verso il tendone a strisce gialle che sporge sopra l'ingresso. Sulla mia sinistra, i grilli si zittiscono. C'è un fruscio nei cespugli che bloccano la vista della piscina. È solo il vento, mi dico accelerando il passo verso l'ingresso, che sembra immerso nell'oscurità. Alle mie spalle, il fruscio tra i cespugli cresce di intensità. Dio, ti prego,
lascia che... Il cellulare mi vibra in mano e lo schermo mi rivela il prefisso 334. Il «Washington Post». L'anno scorso Manning, come Lyndon Johnson prima di lui, si è fatto fare in segreto una previsione per sapere quanto vivrà. Da come vanno le cose, non posso fare a meno di pormi la stessa domanda. Sono tentato di rispondere, per avere almeno un testimone audio, ma l'ultima cosa di cui ho bisogno adesso è che qualcun altro mi ricordi che Nico è là fuori e mi aspetta. Passo dalla camminata veloce alla corsa e frugo nello zainetto per cercare le chiavi di casa. Mi guardo alle spalle mentre le foglie continuano a frusciare. Pazienza. Mi metto a correre a tutta velocità. Sotto al tendone, i piedi mi scivolano sulla passatoia. Ficco la chiave nella serratura e la giro verso destra. La porta metallica si apre di scatto e io mi infilo dentro, finendo addosso al carrello per portare la spesa. Il ginocchio urta contro lo spigolo del carrello, che spingo via, zoppicando nel piccolo atrio beige ed entrando in uno degli ascensori in attesa. Mi accascio contro le pareti di formica dell'ascensore, premo il pulsante del quinto piano e schiaccio freneticamente quello per fare chiudere le porte. L'ascensore è ancora aperto. Nell'atrio, una luce al neon rotta frigge e diffonde sulle pareti e sul pavimento un pallore giallastro e mucoso. Chiudo gli occhi cercando di recuperare rapidamente la calma, ma quando li riapro il mondo diventa in bianco e nero, come nel mio filmato personale. In lontananza, una donna grida in Do minore mentre le porte dell'ambulanza di Boyle si chiudono di scatto. No, non è... Sbatto le palpebre e torno alla realtà. Non c'è nessuno che grida. Quando la porta finalmente si chiude, mi tocco l'orecchio con la mano che trema incontrollabilmente. Forza, Wes... non perdere il controllo... Mi metto in un angolo per restare in piedi e stringo i denti per rallentare il respiro. L'ascensore si muove con un sussulto e io mi concentro sulle luci che indicano i piani. Secondo... terzo... Quando esco, al quinto piano, gocce di sudore mi scendono sul petto e sulla schiena. Per non correre rischi, controllo il corridoio sulla mia sinistra prima di sfrecciare fuori e dirigermi a destra. Corro all'appartamento 527, ficco la chiave nella serratura e giro la maniglia il più rapidamente possibile. Una volta dentro accendo tutte le luci che trovo... l'ingresso... il salotto... la lampada sul tavolino... torno addirittura indietro per accendere quella dell'armadio nell'ingresso. No... meglio lasciarla spenta. L'accendo, la rispengo. Accendo, spengo. Accendo, spen-
go. Smettila... Arretro e urto contro la parete, chiudo gli occhi, abbasso la testa e sussurro: «Grazie, Signore, per avere protetto la mia famiglia...!» Smettila... «Per avermi protetto, e per avere protetto il presidente...» Trova qualcosa su cui concentrarti, mi dico, sentendo la voce dello psicologo nella testa, «...per me e...» Trova qualcosa su cui concentrarti. Mi batto la mano sull'orecchio, mi aggiro incerto, nel salotto quasi inciampo nell'ottomana recuperata dal vecchio divano di pelle dei miei. Trovala. Corro nel corridoio che porta nell'altra metà dell'appartamento, supero la panchetta da rigattiere che abbiamo messo nel tinello, la stanza di Rogo con la pila di giornali intonsi davanti alla porta, il cartone a grandezza naturale del presidente Manning con il fumetto che dice: Non mi ricordo più come si guida, ma adoro downwithtickets.com! e finalmente entro in camera mia. Inciampo su un mucchio di camicie buttate per terra e vado alla gabbia di metallo posata sul mio comodino. Quando la porta sbatte contro la parete, Lolo fa un salto all'indietro, agitando selvaggiamente le ali beige e inclinando la testa da una parte all'altra. Vedendo la sua reazione, mi riprendo e ritrovo rapidamente la calma. Lolo fa lo stesso, abbassa le ali e si strofina il becco. La sua testa dondola leggermente mentre io riprendo fiato. Mi basta vederla... «Ciao, Melissa, come ti va?» chiede il mio cacatua. Ha un cerchio arancione brillante su ciascuna guancia e un'aguzza cresta gialla in testa, che si inarca sul davanti, come un'onda di piume. «Melissa, come ti va?» Lo scherzo è troppo vecchio per farmi ridere, Lolo mi chiama col nome del suo antico padrone da circa sette anni, però lo psicologo aveva ragione. Concentrarsi su qualcosa fa bene. Ma sentire una voce familiare è ancora meglio. «Va' a cagare», rispondo a Lolo, che per qualche ragione è stata abituata a cagare a comando. Come previsto, tre palline umide si schiantano sul giornale in fondo alla gabbia, che sostituisco subito, insieme a cibo e acqua freschi. L'uccello è stata un'idea di mio padre. Sei mesi dopo l'incidente, quando stavo per essere sopraffatto dagli interruttori della luce e dalla ripetizione di preghiere. Sentì uno dei suoi studenti che parlava di una vittima di stupro a cui i genitori avevano comperato un cane perché non si sentisse sola quando tornava a casa alla sera. Io roteai gli occhi al cielo. E non solo perché sono allergico ai cani. La gente non capisce. Non si trattava dell'uccello, ma del fatto che mi
serviva qualcuno che avesse bisogno di me. Faccio scattare la serratura e apro la gabbia, offrendo a Lolo l'indice sinistro come trespolo. Lolo ci salta su immediatamente e si arrampica al suo solito posto, sulla mia spalla destra. Giro la faccia verso di lei e lei cerca di mordicchiarmi la guancia, il che significa che vuole essere accarezzata. Mi accoccolo sulla moquette scura del pavimento e incrocio le gambe all'indiana mentre lo stress della giornata incomincia ad abbandonarmi. Lolo si stringe più vicina, le sue piume mi solleticano gentilmente le cicatrici della faccia. A dispetto dei loro occhi tanto acuti, gli uccelli non vedono le cicatrici. Le sue unghie allentano la presa sulla spalla e lei abbassa la cresta, gettandola indietro alla Elvis. Nel giro di un minuto si tranquillizza, e nella maggior parte dei casi ciò basta a tranquillizzare anche me. Ma stasera no. Nella mia tasca, il cellulare vibra. Controllo lo schermo e vedo che ho ricevuto anche due messaggi mentre salivo in ascensore. Controllo e vedo i numeri delle telefonate perse. La chiamata in corso viene dal «Los Angeles Times». I messaggi sono della CNN e di Fox News. La mia segreteria telefonica di casa non è in condizioni migliori. Diciannove nuovi messaggi. Parenti, amici e i pochi giornalisti che sono riusciti a rintracciare il mio indirizzo privato. Vogliono tutti la stessa cosa. Qualcosa su ciò che è accaduto, qualcosa sul passato, qualcosa su di me. La porta d'ingresso dell'appartamento si spalanca in fondo al corridoio. «Wes, sei ancora in piedi?» chiama Rogo. La sua voce aumenta di volume quando svolta l'angolo. «Hai la luce accesa, se ti stai toccando è ora di smetterla!» Le unghie di Lolo mi affondano nella spalla. So esattamente quello che prova. L'ultima cosa di cui ho bisogno è un'altra persona che mi ricordi Nico, Manning, Boyle e tutte le altre bombe a orologeria della mia vita. Come stai? Come ti senti? Come te la cavi? Basta con questi maledetti... La porta della mia stanza si apre lentamente. Rogo ha vissuto qui quanto basta per sapere che se la spalanca di colpo spaventa Lolo. Lo guardo dalla moquette, in attesa del massacro di domande. Rogo si gratta la testa calva e appoggia il suo corpo massiccio allo stipite. «Be'... cioè, ho preso Purple Rain», dice tirando fuori il film dalla sacca rossa che lui chiama la sua ventiquattrore. «Pensavo che potevamo... Non so... ordinare una pizza, rilassarci, e poi naturalmente rivedere la scena in cui Apollonia salta nuda nel fiume.» Resto seduto un momento a valutare la proposta.
«Ciao, Melissa... come ti va?» gracchia Lolo. «Chiudi il becco, volatile. Non sto parlando con te», la minaccia Rogo. Un leggero sorriso mi riga la guancia sinistra. «Apollonia nuda? Ne sei sicuro?» chiedo. «Wes, quando avevo sedici anni desideravo una moto viola. Allora, chi è pronto per una pizza cattiva e Prince che fa quella smorfia con i suoi labbroni? Forza, Lolo, è ora di festeggiare come se fosse il 1999!» Torna in corridoio prima che possa dirgli grazie. 37 Florence, Sud Carolina Nico sapeva che ce le avevano. «Mappe?» chiese entrando nel minimarket del distributore e tenendo in mano la mappa del Michigan che aveva preso sul camion di Edmund. «In fondo a sinistra», rispose il commesso con la coda di cavallo e le basette gonfie senza distogliere lo sguardo dal piccolo televisore acceso dietro al banco. Prima che Nico potesse fare un solo passo, un campanello squillò forte quando passò davanti alla fotocellula della porta automatica. Nico sussultò: non era ancora abituato ad andare in giro. Ma il fatto che il suo cuore gli martellasse nel petto per l'eccitazione non lo fermò. Contò tre telecamere di sorveglianza - una vicino al commesso, le altre nelle corsie - rallentò fino a camminare normalmente e si diresse verso l'espositore girevole con le mappe verso il fondo. Non era una cosa diversa dai suoi antichi compiti: non c'era bisogno di affrettarsi. Non guardarti intorno. Scompari nella folla. Riuscì a leggere la maggior parte delle mappe quand'era ancora a metà della corsia: California, Colorado, Connecticut, Delaware... Era un buon segno. Ma ancora meglio fu scoprire, avvicinandosi, che il sostegno centrale dell'espositore girevole era fatto da decine di croci metalliche intrecciate. Nico sospirò di sollievo e quasi si mise a ridere. Avrebbe sicuramente trovato la sua mappa. Come avrebbe trovato Wes. Come nella Bibbia, Dio era sempre molto chiaro. Si mise la mappa del Michigan sotto il braccio, fece girare fiducioso l'espositore ed eccola, come previsto, nel secondo ripiano dall'alto. Proprio fra lo stato di Washington e il West Virginia. Washington, D.C.
Nico si sentì salire nelle gambe delle scariche di adrenalina. Si coprì la bocca e i suoi occhi si inondarono di lacrime. Anche se non aveva mai dubitato... trovare la certezza che gli era stata negata così a lungo. Il nido... il nido del diavolo... gli M l'avevano nascosto tanto tempo prima, adesso la prova era tornata alla luce. «Grazie, Padre», sussurrò. Senza esitare prese la mappa del D.C. dalla sua torretta metallica, sostituendola con la mappa del Michigan che aveva portato dal camion. Uno scambio equo. Si passò il palmo della mano sugli occhi e si fermò a riprendere fiato per un momento. Tornò lentamente alla porta e si toccò la visiera del cappellino da baseball rivolto al commesso. «Grazie per l'aiuto.» Al din-don del campanello automatico, il commesso annuì senza neppure alzare lo sguardo. All'esterno, una profonda sorsata dell'aria frizzante del Sud Carolina gli gelò i polmoni, ma non raffreddò minimamente l'eccitazione che gli ribolliva nel petto. Vedendo Edmund che riempiva il serbatoio dietro al camion, Nico corse sul davanti e si infilò nello stretto spazio fra il radiatore di Edmund e il paraurti del camion di fronte al loro. Si tolse altre lacrime dagli occhi. Per otto anni, al St. Elizabeths, era stata l'unica cosa di cui non aveva mai parlato. Quella che non avevano mai compreso. Certo, osservandolo avevano capito la sua ossessione per le croci, e che nei primi anni aveva l'abitudine di bisbigliare fra sé, ma questo... Come gli aveva detto il Numero Tre, alcuni segreti non si dovevano condividere. E quando si trattava del nido... Aprila! si disse, annuendo. Come un bambino che ruba una caramella dal vaso, Nico tenne le spalle chine mentre osservava la prima pagina della mappa. Chiuse gli occhi e studiò per l'ultima volta la situazione: i rumori metallici dei motori dei camion... il sibilo delle pompe che annaffiavano il prato... il rumore graffiante delle unghie sull'asfalto mentre un procione si avvicinava al cestino alle sue spalle. «Grazie, Padre», sussurrò Nico tenendo gli occhi chiusi e lasciando che la mappa si aprisse davanti a lui. La sua testa andò su e giù sedici volte mentre pronunciava la sua ultima preghiera. Amen. Spalancò gli occhi, fissando la familiare rete azzurra e nera delle strade del D.C. Orientandosi con gli ampi spazi aperti del Tidal Basin e del National Mall, trovò rapidamente il segno che indicava il Washington Monument. Da lì tracciò un percorso su fino a Dupont Circle, dove...
«D.C.?» chiese Edmund mettendo una mano sulla spalla di Nico e guardando la mappa. «Pensavo che volessi lo stato di Washington.» Nico si impedì di voltarsi e si alzò in piedi con le gambe, le braccia e tutto il corpo irrigidito. Solo grazie al suo addestramento da cecchino, le mani non gli tremavano. Ma si sentiva pulsare la vena sulla fronte. La vena che si era gonfiata, piena di sangue e di rabbia, quando gli avevano portato via il suo violino... quando suo padre gli aveva detto che sua madre non c'era più... quando i Tre gli avevano svelato la verità. Per tenersi in piedi, rattrappì le dita dei piedi e si aggrappò alla terra attraverso le scarpe. La vena pulsava ancora. Pulsava sempre più veloce. Accelerava. Padre, ti prego, non farla scoppiare... Poi, mentre Nico stringeva le labbra e tratteneva il respiro concentrando tutta la sua attenzione sul reticolo di vene che premeva sulle sue narici, tutto passò. Girò appena la testa e guardò Edmund al di sopra della sua spalla. «Oh... ti senti bene?» chiese Edmund facendo un piccolo passo indietro e indicando il volto di Nico. «Hai il naso che sanguina da matti, fratello.» «Lo so», rispose Nico, lasciando cadere la mappa e allungando la mano a toccare la spalla di Edmund. «È il sangue del nostro Salvatore.» 38 Reagan National Airport Washington, D.C. «Lei è a posto, Mr Benoit», disse la hostess all'ingresso. «Ottimo», replicò il Romano, facendo attenzione a tenere la testa bassa e inclinata a sinistra. Non aveva bisogno di nascondersi. Né di usare un nome falso. Anzi, la fuga di Nico forniva al Romano una scusa perfetta per giustificare il suo viaggio al Sud. In quanto vice direttore assistente, era il suo compito. Ma tenne comunque la testa bassa. Sapeva dov'erano nascoste le telecamere. Non c'era bisogno di comunicare a nessuno che stava arrivando. Si diresse verso la vetrata dietro al check-in e si sedette all'estremità di una lunga fila di sedili. Poi fece un numero di telefono, ignorando il chiacchiericcio degli altri passeggeri, e guardò il cielo nero, ancora notturno. «Ma... ma hai idea di che ore sono?» si lagnò una voce roca, rispondendo alla chiamata. «Quasi le sei», replicò il Romano, guardando fuori. Era ancora troppo
presto per vedere comparire all'orizzonte le strisce arancioni che preannunciavano il sorgere del sole. Ma non per questo doveva starsene seduto al buio. «Hai ricevuto il nuovo programma?» chiese il Romano. «Te l'ho detto ieri sera, con la fuga di Nico l'agenda di Manning è stata sconvolta... Dovresti saperlo.» Fissando il proprio riflesso nel vetro, il Romano annuì. Alle sue spalle, un agente armato con la giacca a vento della sicurezza attraversava l'area ristorante, esaminando la folla. Al metal detector, quando era entrato, il Romano aveva contato altri tre agenti che facevano lo stesso, senza contare i dieci o dodici che operavano in borghese per non essere riconosciuti. L'FBI voleva riprendere Nico e, secondo loro, il modo migliore per farlo era controllare tutti gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, i punti di partenza. Era un buon piano, basato su anni di procedure standard. Ma Nico era tutt'altro che standard. E ormai, con ogni probabilità, era anche ben lontano da qui. «E Wes? Quando riceve la sua copia del programma?» chiese il Romano. «Non è più come alla Casa Bianca. Per quanto sia vicino a Manning, lo riceve insieme a tutti gli altri, alla mattina presto.» «Be', quando lo ricevi...» «Lo riceverai anche tu», disse l'interlocutore del Romano. «Anche se non capisco ancora perché. Hai già il microfono...» «Mandamelo!» ruggì il Romano. Sulla sua destra, alcuni passeggeri si girarono a guardarlo. Lui chiuse il telefonino, per non perdere il vantaggio, e se lo rimise tranquillamente nella tasca del soprabito. Fu solo quando aprì il pugno che vide una minuscola macchia di sangue che filtrava dalla garza. 39 «Una giornalista?» chiede Rogo con tutto il suo accento meridionale mentre siamo immersi nel traffico mattutino dell'Okeechobee Boulevard. «Sei seduto sul più grosso scandalo politico da quando Boss Tweed si impantanò a Teapot Dome e l'hai buttato in pasto a una giornalista?» «Primo, Boss Tweed non aveva niente a che fare con Teapot Dome. Ci sono cinquant'anni fra l'uno e l'altro. Secondo, cos'è successo alla tua calma di ieri sera?»
«Cercavo di farti sentire meglio! Ma questa... L'hai buttato in pasto a una giornalista?» «Non avevamo scelta, Rogo. Ci ha sentito parlare.» Sotto il cruscotto, i suoi piedi sfiorano il tappetino con la scritta VIA DA QUI! in grandi lettere bianche. Mi ha comprato il tappetino per il mio compleanno, parecchi anni fa, come una sorta di ammonimento personale. Dalla sua espressione, pensa che non l'abbia ancora imparato. «Se voleva, poteva pubblicare la storia oggi stesso», dico. «Ed è proprio lei? Quella del "Post"?» chiede aprendo il giornale e guardando la rubrica di Lisbeth nella sezione Attualità. Il titolo dice: Prima come sempre. La First Lady dà lezioni di eleganza. Il pezzo si apre con un paragrafo encomiastico sull'abito di Narciso Rodriguez della signora Manning, e sulla sua spilla d'oro a forma di aquila, che Lisbeth definisce «eleganza americana». Bisogna riconoscerle che non cita neanche la fuga di Nico. «Vedi, sta ai patti», dico. «È solo perché tu non ti accorga che ti sta manovrando a distanza. Rifletti un momento.» «Credimi, so che cosa vuole Lisbeth.» «Ma trascuri il fatto che prima o poi smetterà di scrivere dei vestiti della First Lady e userà il tuo nome per diventare la prima della classe. Dimentica la rubrica di pettegolezzi, Wes, avrà tutta la prima pagina per sé.» «Potrebbe averla subito! Non capisci? Ha sentito tutto, ieri sera. Che Boyle è vivo, che non ci fidiamo di Manning... Ma come me sa che se parla adesso ci seppellirà tutti sotto una montagna di merda.» «In realtà seppellirebbe solo Manning e Boyle. Cioè le persone che sono effettivamente responsabili di tutta questa storia.» «Ma mi ascolti o no, Rogo? Qualunque cosa sia successa quel giorno, è stata coperta da persone molto potenti, tra cui, secondo quei tizi dell'FBI, l'ex presidente degli Stati Uniti, che per me è stato come un padre per quasi dieci anni...» «Ci siamo... Hai paura di ferire il paparino!» «Non ho paura di ferire nessuno, men che meno chi mi ha fatto questo», dico indicandomi la guancia. «Ma cosa proponi? Vuoi che, senza neanche sapere cosa c'è in ballo, mi metta a gridare tutto in piazza e ficchi un candelotto di dinamite nel deposito munizioni?» «Non ho detto questo.» «Hai detto proprio questo. Ma se spiffero tutto, Rogo, se dico tutto, non
posso più tornare indietro. E sai benissimo che appena apro la bocca questa gente - gente potente e inserita quanto basta per far credere a milioni di persone che la loro illusione era reale - impiegheranno tutte le loro risorse e tutta la loro energia per farmi sembrare un pazzo che giura di avere visto un morto. Se dobbiamo scatenare una tempesta, se devo rovinare tutti i rapporti professionali della mia vita, devo essere assolutamente sicuro, prima di lanciare la bomba.» «Senza dubbio», ribatte Rogo tranquillo. «E infatti se vai dall'FBI...» «Cosa faccio? Mi salvo? Non ho niente da offrire all'FBI. Sanno già che Boyle è vivo. Vogliono me solo per poter arrivare a Manning ed essere loro a fare scoppiare la bomba. Se faccio a modo mio, almeno ho in mano il detonatore, e otterremo qualche informazione, il che è più di quanto ci offrono i cosiddetti ragazzi delle forze dell'ordine.» «Loro fanno del loro meglio. Sono solo...» «...vigili urbani. Lo capisco. E apprezzo il tuo tentativo. Ma fra il Romano e i Tre, abbiamo bisogno di risposte sicure.» «Questo non vuol dire che tu debba sacrificarti. Lisbeth, alla fine, ti brucerà comunque.» Mi aggrappo al volante, schiaccio l'acceleratore e passo col giallo. L'auto oscilla e ondeggia mentre risaliamo il Royal Park Bridge. «Sessantanove dollari di multa e tre punti in meno sulla patente», mi avverte Rogo mentre il giallo diventa rosso sopra di noi. «Ma immagino che sia una sciocchezza in confronto a una vita rovinata da una giornalista troppo ansiosa.» «Rogo, sai perché per tanti anni nessuno ha mai saputo chi fosse la Gola Profonda? Perché era lui che controllava la storia.» «E questo sarebbe il tuo grande piano? Fare la Gola Profonda?» «No, il grande piano è sapere tutti i fatti, mettere le mani intorno alla gola di Boyle e capire perché diamine è capitata tutta questa storia.» Non cambio espressione, ma Rogo sa di cosa sto parlando. È l'unica cosa su cui non può discutere. Rogo torna a leggere la rubrica di Lisbeth, che si conclude con un breve accenno all'arrivo di Dreidel. Tornano i vecchi amici, recita il titolino. È un modo per ricordarci che avrebbe potuto facilmente parlare della colazione fra me e Dreidel. «Dreidel era qui ieri sera?» chiede Rogo. «Pensavo che avesse una raccolta fondi.» «Sì. Poi però è venuto a vedere Manning.»
Rogo si gratta la testa pelata, prima da una parte, poi dietro l'orecchio. Conosco quel gesto. Quando la macchina arriva in cima al ponte è silenzioso. Tre, due, uno... «Non ti sembra strano?» chiede. «Cosa, che Dreidel lecchi il culo a Manning?» «No, che tu hai visto Boyle e il giorno dopo Dreidel casualmente si trova a Palm Beach e casualmente ti mette nei guai con la stampa e casualmente raccoglie fondi in Florida per una competizione elettorale che riguarda solo i cittadini dell'Illinois. Non ti sembra di sentire una certa puzza?» Scuoto la testa mentre lasciamo le intelaiature metalliche del ponte e corriamo sull'asfalto perfetto del Royal Palm Way. Ai lati della strada, tra le altissime, immacolate palme, ci sono le banche private e le agenzie finanziarie che gestiscono alcuni dei conti più grossi della città. «Sai come funziona la raccolta fondi», dico. «Palm Beach era, è, e sempre sarà la capitale di Manningland. Se Dreidel vuole mettere a frutto i suoi antichi rapporti, è qui che deve venire a fare i baciamano.» Rogo si gratta di nuovo la testa. Ha la tentazione di ribattere, ma dopo avere visto com'ero ridotto ieri sera sa che non deve esagerare. Immerso nel silenzio, tamburella con le nocche sul finestrino al ritmo di Hail to the Chief. L'unico altro rumore che si sente nella macchina è il tintinnio delle due faccine presidenziali sulla spilla che ho attaccata al bavero della mia giacca. «Speriamo che tu abbia ragione», dichiara Rogo guardando il monumento a Yosemite Sam. «Perché, senza offesa, fratello, ma l'ultima cosa che ti serve in questo momento è un altro nemico.» 40 «Che cos'ha scritto?» chiese Micah, afferrando il volante e cercando di leggere il giornale in grembo a O'Shea. Quattro macchine più avanti, la Toyota di Wes borbottava in mezzo al traffico. «Stupidaggini a proposito dell'abito della First Lady», disse O'Shea, seduto al posto del passeggero, continuando a scorrere la rubrica di Lisbeth. «Ma è riuscita a infilare un riferimento a Dreidel.» «Pensi che Wes le abbia detto quello che sta succedendo?» «Non ne ho idea. Ma hai visto anche tu come ha reagito ieri sera. Le sue esitazioni... la guardava a malapena negli occhi. Se non le ha detto niente, ci sta pensando.» Indicando la Toyota, O'Shea aggiunse: «Non così vicino,
tienti un filo più indietro.» «Ma perché si rivolge alla stampa?» riprese Micah toccando i freni e perdendo qualche posizione. «Con noi è più al sicuro.» «Lui non la vede così. Non dimenticare che quel ragazzo è stato quasi distrutto, eppure è ancora in piedi. In fondo, sa come va il mondo. Finché non ha qualche buona carta da giocare, pensa di non essere sicuro con nessuno.» «Vedi, per questo dovremmo offrirgli l'incolumità pura e semplice. "Ok, Wes, la prossima volta che senti Boyle digli che Manning vuole incontrarlo e dagli luogo e orario. Poi chiamaci e ci occupiamo noi di tutto." Lo so che stai sgranando gli occhi, O'Shea, ma se non riusciamo a mettere le mani su Boyle...» «Apprezzo il tuo consiglio, Micah, ma fidati, seguiamo Wes e arriveremo al nostro Boyle.» «Se Wes pensa che ce l'abbiamo con lui, no. Ti dico, lascia da parte le promesse vaghe, proponigli un patto chiaro e semplice.» «Non ce n'è bisogno», disse O'Shea, sapendo che Micah sceglieva sempre la soluzione più facile. «Wes sa quello che vogliamo. E con quello che ha passato dopo la cosiddetta morte di Boyle, lo vuole più di noi.» «Non più di me», insistette Micah. «Dopo quello che ha fatto con Manning...» «Prendilo! Sta passando col rosso!» Micah premette l'acceleratore, ma era già troppo tardi. La macchina davanti a loro si arrestò stridendo e li costrinse a fare lo stesso. In lontananza, la Toyota di Wes risalì il ponte e sparì dalla vista. «Ti avevo detto...» «Calma», disse Micah. «Sta solo andando al lavoro. Se lo perdiamo per due minuti non muore nessuno.» 41 Woodbine, Georgia «...ma è proprio questo il problema, quando si nasconde un tesoro», disse Nico mentre il sole del mattino filtrava attraverso le nuvole della Georgia. «Se non scegli il posto giusto, qualcuno può arrivare e trovarlo.» Ma dire che l'hanno nascosto in una mappa... «Accidenti, Edmund, non è diverso dal nasconderlo in un cruciverba o
in un...» Nico si interruppe, afferrò il volante e si rivolse al suo amico, al posto del passeggero. Era più difficile di quanto pensasse. Fidarsi delle persone non era mai facile. Ma Nico capiva il potere del Signore. Il potere che aveva portato Edmund al suo fianco. Dallo specchietto retrovisore, il rosario pendeva disegnando un piccolo cerchio, come l'acqua pochi istanti prima di scendere nello scarico di un lavandino. Edmund gli era stato mandato per un motivo. E Nico sapeva di non dover mai ignorare i segni. Anche se ciò voleva dire rivelare le proprie debolezze. «Non sono pazzo», disse con voce dolce e commossa. Non ho mai pensato che tu lo fossi. A proposito, te la senti di guidare? «Sto bene. Ma adesso, se vuoi aiutarmi, devi capire che questa battaglia non è incominciata otto anni fa. È incominciata nel '91.» 1991? «1791», disse Nico, osservando la reazione di Edmund. «L'anno in cui hanno impostato i piani della battaglia... tracciando le linee della città», spiegò, puntando un dito sulla mappa aperta sul cruscotto davanti a loro. Le linee di quale città? Washington, D.C.? «Ecco cosa stavano progettando, la capitale del nostro paese. Il presidente George Washington in persona scelse un maggiore dell'esercito per questo, l'architetto di origine francese Pierre Charles L'Enfant. E se guardi i suoi primi disegni... vedi che sono alla base di tutto quello che esiste oggi», dichiarò Nico, indicando di nuovo la mappa a Edmund. Quindi quando questo tizio francese ha progettato la città... «No!» insistette Nico, «liberati dalle bugie della storia. L'Enfant è quello a cui vengono attribuiti i progetti, ma quando lo assunse il presidente Washington, noto massone, fu un altro uomo a progettare i dettagli della città. È stato lui a indicare le vie di accesso. E ha usato le abilità dei massoni per costruire la porta del diavolo.» È qualcuno che conosco, o un altro francese? «Sveglia, Edmund. Hai mai sentito parlare di Thomas Jefferson?» 42 «Un documento, per favore», dice la massiccia guardia afroamericana quando supero la porta a vetri ed entro nell'atrio di marmo grigio del nostro palazzo. In molti casi, al mattino, passo facendo un semplice cenno di saluto a Norma, la grassa latinoamericana che da tre anni fa il turno del mattino. Oggi Norma non c'è. Una rapida occhiata alla mano della nuova
guardia mi rivela il microfono beige nascosto nella manica. Il cartellino sulla sua spalla dice FLAMINGO SECURITY CORP. Ma riconosco i Servizi segreti quando li vedo. Con Nico in libertà, nessuno vuole correre rischi. La stessa cosa accade quando esco dall'ascensore al quarto piano. Oltre al solito agente in giacca e cravatta accanto alle bandiere nel nostro atrio, ce n'è uno fuori dalla porta antiproiettile e un terzo davanti all'ufficio personale del presidente, in fondo al corridoio. Ma nulla mi sorprende quanto una voce familiare che sento a poche porte di distanza mentre entro nel mio ufficio. «Sicura che vada bene?» chiede la voce nell'ufficio del nostro capo di gabinetto. «Assolutamente», garantisce Claudia mentre sbucano nel corridoio. «Anzi, se non avessi chiamato... oh, ti avrei ucciso! E anche lui», dice riferendosi al presidente. Si ferma proprio davanti alla mia porta. «Wes, indovina chi lavorerà presso di noi nei prossimi giorni?» chiede entrando e accennando come un prestigiatore verso la porta. «Oh... ehi, socio», dice Dreidel entrando con un grosso faldone appoggiato all'anca. Batto le mani, fingendo di essere entusiasta. Cosa stai combinando? chiedo con un'occhiata. «La mia ditta ha chiesto se potevo...» «Non hanno chiesto», interviene Claudia, prendendo il controllo della situazione. «Hanno avuto un cambiamento dell'ultimo minuto per una deposizione, e siccome Dreidel era qui, gli hanno ordinato di restarci. Ma non possiamo lasciarlo lavorare in qualche camera d'albergo, no? con tutto questo spazio a disposizione...» «Solo per una settimana», dice Dreidel, interpretando la mia reazione. «Wes, ti va bene?» chiede Claudia. «Pensavo che con questa storia di Nico ti avrebbe fatto piacere qualcuno con cui...» Si interrompe, accorgendosi di avere sbagliato qualcosa. «Nico! Oh, che stupida sono! Wes, scusa... Non ho neanche pensato che tu e Nico...» Fa un passo indietro, toccandosi la crocchia di capelli come se volesse seppellircisi dentro. Da lì, è facile esprimere compassione. «Come te la cavi? Se hai bisogno di tornare a casa...» «Sto bene», dico. «Dopo tanti anni, il fatto è... Non ti considero neanche un...» Non dice la
parola, ma io la sento lo stesso. Disabile. Handicappato. «Una vittima», interviene Dreidel mentre Claudia lo ringrazia con un cenno riconoscente. «Esatto, una vittima», ripete, riprendendosi. «Questo volevo dire. Solo che tu... Tu non sei una vittima, Wes. Non più, ormai», insiste come se ciò lo rendesse vero. Come tutti i politici di professione, non si sofferma troppo sulle scuse. «Intanto, Dreidel, lascia che ti mostri la stanza sul retro - c'è un computer, un telefono - ti troverai bene, per questi giorni. Wes, solo perché tu lo sappia, ho parlato con i Servizi segreti stamattina, e hanno detto che non si aspettano nessun incidente, per cui, a meno che non ci siano novità, l'agenda resta sostanzialmente la stessa.» «Sostanzialmente?» «Lo tengono a casa quasi tutto il giorno, sai per prudenza», dice, sperando di placarmi. Il problema è che l'ultima volta che Manning ha cambiato il suo programma è stato quando pensava di avere un cancro al retto, qualche anno fa. Questione di vita o di morte. «Quindi niente registrazione», aggiunge in fretta, avvicinandosi alla porta. «Ma avrà bisogno di te per la storia di Madame Tussauds stasera.» Prima che possa dire una parola, il telefono sulla mia scrivania si mette a suonare. «Se è la stampa...» dice Claudia. Le lancio un'occhiata. «Scusa», dice. «Ma se sapessi quante chiamate ho ricevuto ieri sera...» «Credimi, è tutta la mattina che dico di no», ribatto mentre mi saluta con un cenno e se ne va. Lascio suonare il telefono, aspettando che Dreidel la segua. Ma lui resta. «Claudia, arrivo tra un attimo», le grida, avvicinandosi alla mia scrivania. Lo guardo incredulo. «Che cosa diamine ci fai qui?» sussurro. Mi guarda con la stessa incredulità. «Scherzi? Ti sto aiutando.» Il telefono squilla di nuovo, guardo lo schermo, inclinato in maniera che Dreidel, dall'altra parte della scrivania, non possa leggerlo. PRESIDENTIAL LIBRARY. «Potrebbe essere l'archivista», dice Dreidel, chinandosi a dare un'occhiata. «Forse ha preparato i documenti di Boyle.» Il telefono continua a squillare. «Cosa c'è, adesso non li vuoi più?» chiede. Alzo gli occhi al cielo, ma non posso ignorare le sue argomentazioni.
Prendo la cornetta e rispondo. «Wes.» Dreidel va lentamente verso la porta e guarda fuori per assicurarsi che siamo soli. «Salve, Wes», dice una voce sommessa. «Sono Gerald Lang... dell'ufficio del sovrintendente. Ha un minuto per parlare di quel documento sull'assistente del presidente?» Quando Dreidel si sporge nel corridoio, un improvviso, falso sorriso gli illumina il volto. C'è qualcuno. «Eehii!» annuncia facendoli entrare nel mio ufficio. «Dreidel, no!» sibilo coprendo la cornetta. Non ho bisogno di buffonerie per... «Dreidel?» chiede all'altro capo della linea Lang, che chiaramente ha sentito. «Stavo proprio cercando di contattarlo. Era assistente di Manning alla Casa Bianca, no?» Davanti a me, Bev e Oren abbracciano Dreidel formando un gruppo alla Mary Tyler Moore. Bev lo stringe tanto forte che le sue tette finte praticamente stritolano la lettera personale di Manning che ha in mano. Il figliol prodigo è tornato. Ma vedendoli festeggiare, mi sento una fitta allo stomaco. Non di gelosia. Non di invidia. Non ho bisogno che mi chiedano di Nico o come me la cavo. Non ho bisogno della loro compassione. Ma vorrei sapere perché Dreidel, durante l'abbraccio, continua a guardarsi alle spalle per studiarmi mentre sto al telefono. Ha gli occhi stanchi, le occhiaie tradiscono la mancanza di sonno. Qualsiasi cosa l'abbia tenuto sveglio, l'ha tenuto sveglio fino a tardi. «Wes, è lì?» chiede Lang all'altro capo. «Sì, ci sono», rispondo, raggiungendo la mia sedia. «Mi lasci... posso pensarci su un po'? Con questa storia di Nico, stiamo diventando tutti matti.» Riaggancio e guardo il mio amico. L'amico che mi ha procurato il lavoro, che mi ha insegnato tutto quello che so. E mi ha fatto visita quando... quando solo i miei genitori e Rogo venivano a farmi visita. Non mi interessa quello che dice Rogo. Se Dreidel è qui, c'è una buona ragione. Con una pacca sulla spalla a Oren e un bacio sulla guancia a Bev, Dreidel li manda via e ritorna nel mio ufficio. Piego una gamba sotto il sedere, mi sistemo sulla sedia e studio il suo sorriso. Non c'è dubbio. È qui per aiutarmi. «Quindi non era l'archivista, eh?» dice. «E Lisbeth? A che ora la vediamo?» Siccome non gli rispondo subito, aggiunge: «Ieri sera c'ero anch'io,
Wes. Vi siete dati appuntamento per stamattina.» «Sì, ma...» «Non facciamo gli stupidi.» Va alla porta e la chiude per precauzione. «Invece di correre come degli imbecilli, facciamo in modo di essere preparati, una volta tanto.» Vede la mia reazione e aggiunge: «Cosa c'è? Vuoi che venga o no?» «Sì, certo», balbetto, affondando leggermente nella sedia. «Perché non dovrei?» 43 Kingsland, Georgia Quel Thomas Jefferson? «Un trio, capisci?» disse Nico, con le mani sul volante nella posizione delle sei. Indicando a Edmund la mappa sul cruscotto in mezzo a loro, aggiunse: «Washington, Jefferson, L'Enfant. I primi Tre.» I primi tre cosa? «I Tre, Edmund. Fin dal principio, ci sono sempre stati i Tre. I Tre che erano nati per distruggere, e oggi i Tre che sono nati per salvarci.» Quindi i Tre stanno dando la caccia ai Tre... una specie di circolo. «Esatto! Proprio un circolo», disse Nico in preda all'eccitazione mentre allungava una mano verso il parasole sopra di lui e tirava fuori una penna. «Ecco come hanno scelto il loro simbolo!» Continuando a tenere il volante, si chinò sul cruscotto e si mise a disegnare febbrilmente su un angolo della mappa.
Un cerchio con una stella? «Una stella a cinque punte, detta anche pentagramma - il simbolo religioso più usato di tutti i tempi - fondamentale in tutte le culture, dai maya agli egizi, ai cinesi.» E Washington e Jefferson in qualche modo hanno scoperto questa cosa? «No, no, stai attento. Washington era un massone... Jefferson si diceva che lo fosse. Pensi davvero che non sapessero quello che facevano? Non è stata una cosa che hanno scoperto, gli è stata insegnata. Una stella a cinque punte, giusto? Nell'antica Grecia, il cinque era il numero dell'uomo. E
quello degli elementi: fuoco, acqua, aria, terra e psiche. Anche la chiesa accolse il pentagramma, guardalo bene: le cinque piaghe di Gesù», disse Nico lanciando una rapida occhiata al rosario appeso allo specchietto retrovisore. «Ma quando il simbolo viene capovolto, diventa il suo contrario. Un segno usato dalle streghe, dagli occultisti e dai... Dai massoni. «Lo capisci, vero? Lo sapevo, Edmund! Hanno evocato il simbolo per secoli, l'hanno messo sui loro edifici... sugli archi... perfino qui», disse Nico puntando il dito sulla mappa e indicando con l'indice la casa più famosa di Pennsylvania Avenue.
La Casa Bianca? «Ci hanno provato per secoli, in tutto il mondo. Le fortezze spagnole, i castelli irlandesi, perfino le vecchie chiese di pietra a Chicago. Ma perché le porte si aprissero, non bastavano i simboli e gli incantesimi, ci voleva...» ...il potere. «Il potere supremo. Ecco la lezione delle piramidi e del Tempio di Salomone, erano centri di potere. Ancora oggi i massoni considerano Salomone il loro primo Gran Maestro. Per questo hanno assoldato tutti i grandi della storia. Per avere accesso al potere. Sapevo che l'avresti capito. Gloria a Dio!» Osservando la reazione di Edmund, Nico faticava a trattenersi. «Lo sapevo che avresti capito!» Ma... com'è possibile che nessuno alla Casa Bianca abbia notato che c'era una porta con su un pentagramma? «Porta? Le porte si possono mettere e togliere, Edmund. Perfino la Casa Bianca è bruciata ed è stata ricostruita. No, i massoni hanno messo il segno su qualcosa di molto più duraturo...» Nico si rivolse di nuovo alla mappa. «Guarda questi punti», disse indicandoli sulla mappa. «Uno, Dupont Circle; due, Logan Circle; tre, Washington Circle; quattro, Mount Vernon
Square; e cinque» alzò la penna e la puntò sull'obiettivo finale «1600 Pennsylvania Avenue.»
«La porta è l'edificio stesso. Sta davanti ai nostri occhi da più di duecento anni», dichiarò mentre univa i punti. Proprio come i Tre avevano fatto per lui.
Oh, Dio. «Dio non c'entra, Edmund», spiegò Nico. «È contro dei mostri che combattiamo. Per segnare il territorio, Jefferson ha perfino collocato i loro emblemi.» Nico si rimise a disegnare sul bordo della mappa. Con sua sorpresa, gli occhi gli si riempivano di lacrime a ogni segno della penna. Era un simbolo che non avrebbe mai dimenticato.
Ti senti bene?
Nico annuì, stringendo i denti ed evitando di guardare il simbolo: il compasso e la squadra. Ricorda quello che hai imparato. Niente lacrime. Solo vittoria. Tenendo lo sguardo fisso sulla strada, ripeté le coordinate che aveva memorizzato tanti anni prima. «Parti dal Campidoglio e fai correre il dito lungo Pennsylvania Avenue, fino alla Casa Bianca», spiegò sentendo qualcosa che premeva all'interno della sua testa. Combatti. Combatti il mostro. «Adesso fai la stessa cosa dal Campidoglio lungo Maryland Avenue, seguila fino al Jefferson Memorial, il suo tempio personale! Adesso vai alla Union Station e traccia una linea lungo la Louisiana Avenue, poi a sud del Campidoglio segui la Washington Avenue. Le linee si incroceranno davanti al Campidoglio...»
Stavolta, Edmund rimase in silenzio. «Il compasso e la squadra, il più sacro dei simboli massonici...» ...e indica proprio l'ingresso della Casa Bianca... il centro del potere. Ma perché? Che cosa vogliono fare, dominare il mondo? «No», disse Nico freddamente. «Vogliono distruggerlo.» Dimenticando il dolore che sentiva nella testa, continuò: «Benvenuto, Edmund... benvenuto nella verità.» Io... io non riesco a crederci. «Ho detto anch'io la stessa cosa, l'ho pensato anch'io.» Ma come hanno fatto, senza che nessuno se ne accorgesse... «L'hanno fatto davanti a tutti! Il 13 ottobre 1792 la loggia massonica n. 9 del Maryland pose la prima pietra della Casa Bianca nel corso di una cerimonia piena di rituali massonici. Guarda, è così! L'iscrizione sulla targa di bronzo di quella pietra dice che è stata posta il 12, ma tutti i libri di storia seri dicono che è stata posta il 13!» Tredici. Il numero della Bestia. «Tredici isolati a nord della Casa Bianca hanno costruito la Casa del
Tempio, quartier generale dei massoni di tutto il paese!» Ancora il tredici! «Capisci, adesso, la loro astuzia? Hanno aspettato per secoli! Settecento anni fa, pensavamo che fosse il Sacro Romano Imperatore, quello che la chiesa chiamava il primo nemico. Ma i massoni sanno aspettare. Aspettano i segni. Aspettano che emerga il vero potere mondiale. Si preparano. E così arriva la fine del mondo!» Quindi la porta che cercavano di aprire... «...è la porta dell'inferno.» Ma certo! Cercavano di liberare le Creature... di passare all'azione! Nico, capisci che cosa hai scoperto? La Scrittura lo dice chiaramente: incomincerà quando arriveranno due Bestie... «...che verranno tramite degli ospiti: prima un discepolo, un peccatore...» Boyle, vero? Il peccatore! «Poi un leader, un potente...» Manning! «Attraverso di lui l'Oscuro - la vera Bestia - sorgerà e fonderà il regno più potente di tutti!» Quindi la Bestia che cercavano di scatenare... «È l'Anticristo, Edmund. Vogliono l'Anticristo. Se non fosse stato per i Tre, sarebbe già venuto! Dimmi che lo capisci anche tu! Senza i Tre, Manning sarebbe stato rieletto. Sarebbe diventato il potente supremo. E Boyle il peccatore. Insieme, le chiavi per aprire la porta!» I primi Tre gli hanno dato vita, gli ultimi Tre hanno lavorato per distruggerlo: alfa e omega! Il destino che si compie! «Sì, il destino - il fato - come nella Bibbia. "Cari figlioli... l'anticristo sta arrivando. È già nel mondo"!» gridò Nico. Spruzzi di saliva gli uscirono dalla bocca e finirono sul parabrezza. Quindi la ragione per cui hai sparato a Boyle anziché a Manning... «In un colosseo pieno di suoi ammiratori? Circondato dai suoi adoratori? L'influenza di Manning era al culmine! E se avessi provocato il suo risveglio? No... come hanno detto i Tre, meglio puntare su Boyle, che era... era... era... Non capisci?» urlò dando un pugno sul volante. «Senza Boyle ci sarebbe stata una sola Bestia. Una chiave invece di due! La porta non si poteva aprire!» Continuò a guardare alternativamente Edmund e la strada. Ansimava rapidamente, tremava in tutto il corpo. Dopo tanto silenzio, finalmente, potersi sfogare... Non riusciva quasi a riprendere fiato.
«I... i... il peccatore... come mio padre... è sempre stato il segno. Non sai... non sai qual è stato il peccato di Boyle?» gridò Nico ansimando, mentre un'improvvisa ondata di lacrime gli confondeva la strada davanti agli occhi. Si piegò in due, aggrappato al volante, mentre un conato gli contorceva lo stomaco. «Quello che ha fatto a sua... e poi a mia...?» Si portò le dita agli occhi, per allontanare le lacrime, che gli rotolarono sulle gote, restandogli appese come gocce di pioggia sul mento. Non resistere, si disse. Ringrazia il cielo che puoi sfogarti... Ricordati della Bibbia... Grazie, madre... grazie. «Capisci?» chiese a Edmund, con l'accento del Wisconsin che aveva dimenticato molti anni prima. «La gente non sa niente, Edmund. Maestro e allievo. Padrone e supplice. Manning e Boyle», ripeté appoggiandosi al volante. «Come padre e figlio. Per questo sono stato scelto io. Per questo mi è stata portata via mia madre. Per mettermi alla prova... per fermare mio padre... per chiudere la porta del demonio. Per tenere chiusa la porta e impedire al Grande Buio di arrivare.» Al posto del passeggero, accanto a lui, Edmund non disse una parola. «Ti prego, Edmund... ti prego, dimmi che capisci...» Edmund continuò a rimanere in silenzio. In silenzio come nelle ultime cinque ore, da quando si erano allontanati dal distributore nel Sud Carolina. Con la cintura di sicurezza che gli attraversava il petto, Edmund si inclinò leggermente sulla destra, appoggiando la spalla alla portiera. Le sue braccia erano abbandonate lungo i fianchi, la mano sinistra in grembo. Mentre il camion rombava sul ponte sopra al St. Marys River, un'irregolarità dell'asfalto fece cadere la testa di Edmund sulla destra. La sua fronte urtò leggermente il finestrino. A ogni giuntura dell'asfalto, il camion sussultava. A ogni sussulto, la testa di Edmund urtava il finestrino. «Sapevo che avresti capito, Edmund», disse Nico tutto eccitato. «Grazie. Grazie per la tua fiducia...» Tum... tum... tum. Come un martello su un chiodo ostinato, la testa di Edmund urtava il vetro. Il battito ritmico e sommesso era insistente, ma Nico non lo notò. Come non notava il rumore che facevano le sue dita insanguinate quando urtavano il seggiolino di plastica del camion. O il fiume di sangue secco che si era riversato sul petto di Edmund quando Nico gli aveva tagliato la gola con le chiavi del camion. «Lo sapevo, ma sono contento che tu capisca», disse Nico, riprendendo fiato e asciugandosi l'ultima lacrima. Con un sussulto finale, il camion la-
sciò il ponte sul St. Marys River e superò ufficialmente il confine della Georgia. Sulla destra, oltrepassò un cartello sbiadito, arancione e verde, con la scritta BENVENUTI IN FLORIDA - LO STATO DEL SOLE. 44 Un'ora e mezzo più tardi, accosto al marciapiede davanti alla First of America Bank, dove al secondo piano c'è l'ufficio di Rogo. Mentre la macchina si ferma, Rogo esce lentamente dal portone del palazzo e si avvicina alla portiera del passeggero. È ancora irritato perché mi vedrò con Lisbeth. Ma la sua irritazione raddoppia quando vede Dreidel che occupa il suo posto. «Come va il mondo delle multe?» chiede Dreidel abbassando il finestrino. «Come quello della politica di Chicago», ribatte Rogo, lanciandomi un'occhiata mentre apre la portiera di dietro. «Corruzione dappertutto.» Non è andata meglio la prima volta che si sono incontrati, anni fa. Entrambi avvocati, entrambi pieni di pregiudizi, entrambi troppo cocciuti per vedere qualcosa che non fossero i difetti dell'altro. Per il resto del viaggio, Rogo se ne sta rannicchiato al suo posto, mentre superiamo le vecchie botteghe familiari lungo la South Dixie Highway. Ogni tanto dà un'occhiata all'indietro per assicurarsi che non siamo seguiti. Io uso lo specchietto laterale allo stesso scopo. «Là...» indica Dreidel, come se non fossi già venuto qui una dozzina di volte. Freno e svolto bruscamente davanti alla nostra meta: il grosso palazzo di uffici che occupa la maggior parte dell'isolato. Proprio davanti al palazzo c'è una piazzola con la statua di una tartaruga con l'abito scuro e gli occhiali da sole, che suona una tastiera elettrica. Vorrebbe essere divertente, ma non fa ridere nessuno. «Posteggia laggiù», dice Rogo indicando il garage di cemento a due piani collegato al palazzo. «Meno gente ci vede, meglio è.» Mi guarda nello specchietto. Non ci vuole un genio per capire. È già abbastanza grave che siamo venuti qui. Peggio ancora che ci siamo venuti con Dreidel. Ma Dreidel non sembra accorgersi del malumore di Rogo. Guarda fuori del finestrino ed è tutto concentrato sull'enorme cartello nero che nasconde parzialmente le colonne di cemento del palazzo: «Palm Beach Post». «Sei sicuro che sia una buona mossa?» chiede Dreidel quando il sole scompare e saliamo girando al secondo piano del garage già buio.
«Abbiamo un posto migliore?» ribatto in tono di sfida. È questo il problema: dovunque andiamo, è una passeggiata per chiunque spiarci. Ma qui, nella tana del lupo... Per quanto siano potenti, Manning, l'FBI, perfino i Servizi segreti, non possono permettersi uno scontro con la stampa. «Qual è il piano di fuga se tenta di fregarci?» chiede Rogo mentre entriamo nel palazzo e superiamo una vecchia linotype attraversando l'atrio di marmo nero e salmone. È il suo ultimo tentativo per farci cambiare strada. Dreidel annuisce per fargli capire che è d'accordo, ma non rallenta. Come per me, c'è in gioco qualcosa di personale. E a giudicare da quel che ho visto nella sua stanza all'albergo, non vuole fornire a Lisbeth un'altra scusa per mettere in evidenza il suo nome. «Cellulari e cicalini», annuncia una guardia afroamericana quando ci avviciniamo al metal detector e ai raggi X. Metto sul nastro lo zainetto e il telefonino. Ma quando passo attraverso i raggi X un acuto bip riecheggia nell'ampia sala di marmo. Mi tocco per cercare una penna o... «La sua spilla», dice la guardia indicando il mio bavero. Alzo gli occhi al cielo e ripasso attraverso i raggi X, mi tolgo la giacca e la appoggio sul nastro. «Dovresti buttare via quella spilla», dice Dreidel alle mie spalle. «Quelle orrende testine che ballonzolano...» «Ehi, ragazzi», interviene la guardia inclinando la testa e studiando il video. Batte sullo schermo e fa una smorfia. «Penso che vi interesserà dare un'occhiata qua...» 45 «Signore e signori, benvenuti al Palm Beach International Airport», annuncia lo Stewart attraverso l'altoparlante dell'aereo. «Vi preghiamo di rimanere seduti con le cinture di sicurezza allacciate fino all'arresto dell'apparecchio e allo spegnimento del segnale.» Il Romano alzò la levetta metallica e si slacciò la cintura di sicurezza, frugò sotto il seggiolino di fronte e tirò fuori una grossa valigetta da fotografo di alluminio con lo stemma dei Servizi segreti. Piegò i pollici e fece scattare le serrature per aprirla. Dentro, protetto da una spessa confezione antiurto, c'era una ricetrasmittente che gli ricordava le vecchie radioline a
transistor che collezionava suo padre. Svolse il filo nero, inserì l'auricolare nell'orecchio destro e mise il tasto a destra dell'apparecchio su ON. «... via quella spilla», disse Dreidel. «Quelle orrende testine che ballonzolano...» Mettendo a punto la ricezione sullo schermo elettronico, il Romano vide quattro sbarrette su cinque. Era come un cellulare con una batteria militare truccata. «Ehi, ragazzi», una nuova voce si inserì. «Penso che vi interesserà dare un'occhiata qua...» Il Romano si mise un dito nell'orecchio libero e alzò il volume. Ottenne solo silenzio. Sopra di lui, una campanella squillò e una sinfonia metallica di cinture slacciate riempì la cabina. Seduto immobile, il Romano alzò ancora di più il volume. Ancora niente. Per un attimo ci fu un borbottio, ma niente di comprensibile. «A che piano?» chiese Rogo, arrivando forte e chiaro. «Secondo», rispose Wes. «Fammi un piacere», aggiunse Rogo. «Quando parliamo con Lisbeth, cerchiamo di usare il cervello, oh?» Il Romano chiuse la valigetta e seguì gli altri passeggeri nel corridoio, annuendo fra sé. Che usassero il cervello era ciò che si aspettava. 46 «Bisogna ammettere che ha delle qualità», disse Micah, girando nel parcheggio mentre Wes, Rogo e Dreidel scomparivano nel palazzo del «Palm Beach Post». «Chi, Wes?» chiese O'Shea, guardando dal posto del passeggero della loro Chevrolet governativa. «Perché? Perché corre a chiedere aiuto?» «Secondo me è qui che lo sottovaluti. Secondo me lui sa che, una volta messo piede in quel palazzo, si troverà in un campo di forze da cui non potrà sfuggire.» «Oppure non ha alternative.» «Può darsi», concluse Micah, tenendo il volante e guardando negli occhi il suo vecchio socio. «Ma mentre lo seguivo, ieri mattina, tutti quelli che incrociava gli guardavano la faccia: il commesso, il portiere, gli ospiti che passavano nell'atrio... Uno che sopporta quotidianamente una cosa del genere, può incassare più di quello che credi.»
«Pensi di impressionarmi?» «Dico solo che l'oggetto inamovibile è altrettanto mortale della nostra forza irresistibile.» «Sì, ma è della forza irresistibile che la gente ha paura. E finché non mettiamo il sale sulla coda di Boyle, preferisco stare da questa parte.» «...perché finora ci ha servito bene», disse Micah. «Non vuoi capire. Se anche Boyle sapesse che lo cerchiamo...» «...e lo sa. Lo sa da anni.» «Ma quello che non sa è che Wes è diventato all'improvviso la migliore carota sul nostro bastone. Gira là», aggiunse O'Shea indicando l'entrata del parcheggio a due piani. Girando, salirono al secondo livello e ben presto raggiunsero la Toyota arrugginita di Wes. Appena la vide, Micah frenò. «Posteggia lì dietro», disse O'Shea, indicando un posto libero in diagonale rispetto alla Toyota. Micah premette l'acceleratore e si infilò nel parcheggio. Attraverso il finestrino scuro, vedevano perfettamente la macchina di Wes. «La carota ce l'abbiamo», disse O'Shea. «Se la tieni stretta, il cavallo ti verrà dietro di sicuro.» 47 Ci avviciniamo tutti al piccolo monitor della macchina a raggi X e restiamo bloccati mentre la guardia indica lo schermo. Il profilo rettangolare della mia spilla è di un grigio intenso. Al di sotto, le due testine di metallo ciondolano come lacrime grigie. Ma la cosa più interessante sono i piccoli pezzi di metallo - sembrano quasi schegge di vetro - che scintillano bianchi al centro del rettangolo. Tutti stringiamo gli occhi per metterli a fuoco, poi la guardia preme un pulsante sulla tastiera e li evidenzia. Sullo schermo, i pezzi - un'antenna a spirale, un microchip miniaturizzato e una batteria ancora più piccola - diventano chiaramente visibili. Come sempre, Rogo è il primo ad aprire la bocca. «Figli di...» Gli do un pizzicotto e gli lancio un'occhiata. «È solo... è il mio registratore vocale - digitale - sapete, per memorizzare le buone idee», sussurro, come se avessi la gola infiammata. «Bello, eh?» «Li fanno ancora più piccoli delle minicassette», aggiunge Rogo, adeguandosi subito.
«Ecco, lo provi», bluffo rivolto alla guardia mentre il nastro mi riporta la giacca. La piego sul braccio e la spingo verso di lui, tenendo il bavero per farglielo vedere meglio. Mi congeda con un cenno, soddisfatto della proposta. Andiamo veloci verso gli ascensori, fingendo di sorridere come se tutto andasse benone. Da come gli occhi di Dreidel scattano avanti e indietro, dev'essere in preda al panico. Non posso dargli torto: chiunque stesse ascoltando, sa quello che stava facendo in quella camera d'albergo. Ma non è il momento giusto. Do un'occhiata alla guardia alle nostre spalle, che ci sta ancora tenendo d'occhio, poi alla Casa Bianca di metallo, che probabilmente sta ancora trasmettendo. «Aspetta», dico a Dreidel mostrandogli il palmo della mano aperto. I suoi occhi scattano ancora più veloci. Entriamo nell'ascensore in attesa mentre si morde le unghie ben curate, incapace di trattenersi. Ma proprio quando sta per sussurrare una risposta, Rogo lo afferra per le braccia. «A che piano?» chiede Rogo, inclinandosi e accennando in su col mento. In un angolo dell'ascensore, una telecamera di sicurezza è puntata su di noi. «Secondo», dico il più tranquillamente possibile. «Fammi un piacere», aggiunge Rogo. «Quando parliamo con Lisbeth, cerchiamo di usare il cervello, ok?» Nessuno aggiunge una parola fino a quando la porta non si apre con un tintinnio al secondo piano. Svolto rapidamente a sinistra per due volte, seguendo la passatoia grigia nel corridoio principale. Sulla parete a sinistra ci sono delle porte a vetri chiuse, gli uffici personali dei direttori del giornale. Andiamo verso l'open space in fondo. «È una stupidaggine», sussurra Dreidel, mentre copro la spilla con la mano. «Dobbiamo andarcene da qui. Molla la giacca e filiamo.» Per una volta, Rogo è d'accordo. «Consideralo un segno, Wes. Per quel che ne sappiamo, lei non farà che peggiorare le cose.» «Non possiamo saperlo», sussurro a mia volta. «Ehi», ci chiama Lisbeth, sporgendo la testa dal suo cubicolo quando ci avviciniamo. Vede subito la nostra reazione. «Che cosa...?» Mi metto un dito sulle labbra e la interrompo. Mi afferro la giacca e indico il bavero dicendo senza voce cimice. «Grazie per averci ricevuto», dico mentre lei si indica l'orecchio. Possono ascoltarci? chiede a gesti. Annuisco e appoggio la giacca sullo schienale della sua sedia.
«Mi dispiace per l'aria condizionata», dice Lisbeth, che ha afferrato prontamente la situazione, prendendo un faldone dalla sua scrivania. «Se volete, lasciate qui le giacche...» Prima che possiamo reagire, è uscita dal cubicolo e sfreccia nel corridoio, con i capelli rossi che le svolazzano dietro e le braccia che le oscillano lungo i fianchi. Siccome ha le maniche della camicia bianca arrotolate fino al gomito, noto le lentiggini che punteggiano i suoi avambracci. Seguendola, anche Rogo le vede, ma non dice niente. O la ama o la odia. Come sempre, con lui, è difficile dirlo. «Io sono Rogo», dice porgendole la mano e mettendosi a correre per raggiungerla. «Qui dentro», dice Lisbeth ignorandolo e aprendo la porta di una saletta luminosa con tre pareti di vetro con le tende verticali aperte. A una a una, Lisbeth le chiude facendo il giro della stanza e tirando le corde. Fa lo stesso con le tende della finestra che dà sull'esterno, verso il parcheggio. In tre secondi, la luce del sole è sostituita dal tranquillo ronzio dei neon. «Sei sicura che nessuno possa sentirci?» «La direzione si riunisce qui tutte le mattine per decidere a chi rovinare la vita quel giorno. Si dice che controllino la presenza di cimici almeno una volta alla settimana.» Al contrario di Dreidel o di Rogo, o anche di me, Lisbeth non sembra affatto turbata o intimidita. Abbiamo perso l'abitudine a combattere da quando abbiamo lasciato la Casa Bianca. Lei affronta battaglie pubbliche ogni giorno. Ed è chiaramente brava. «Chi ti ha dato la spilla?» chiede Lisbeth mentre ci sediamo intorno all'ampio tavolo ovale delle conferenze. «Claudia», balbetto urtando per errore con la sedia la credenza di formica nera che occupa la parete alle mie spalle. «Viene data a chi arriva per ultimo...» «Pensi che sia stata lei a mettere il microfono?» chiede Dreidel. «N... non ne ho idea», rispondo, ripensando alla riunione di ieri. Oren... Bev... B.B. «Può essere stato chiunque. Dovevano solo prenderla.» «Chi l'aveva per ultimo?» chiede Lisbeth. «Non lo so... Bev, forse? Oren non la riceve mai. Forse B.B.? Ma alla fine della settimana capita che la gente la lasci sulla scrivania. Voglio dire, se qualcuno fosse venuto nel mio ufficio e l'avesse staccata dalla mia giacca, non me ne sarei accorto...» «Ma inserire un microfono in una cosa così piccola», dice Dreidel, «non ti sembra una cosa un po' troppo tecnologica, senza offesa, Wes, per degli
impiegati di secondo livello della Casa Bianca?» «Cosa vuoi dimostrare?» chiedo ignorando il tono snob dell'osservazione. «Magari qualcuno li ha aiutati», risponde Dreidel. «E chi? I Servizi segreti?» «O l'FBI», interviene Rogo. «O qualcuno abile nello scoprire segreti», dice Lisbeth con un po' troppo entusiasmo. Da come le sue dita tormentano i margini della sua cartelletta, è chiaro che ha qualcosa da dirci. «Hai qualcuno che corrisponde a questo ritratto?» chiede Dreidel scettico. «Ditemelo voi», risponde lei aprendo la cartelletta. «Chi vuole sentire la vera storia del Romano?» 48 Per lo più, era come il ronzio di una scala mobile o il rombo di un nastro trasportatore. Piacevole, all'inizio, poi insopportabile nella sua ripetitività. Era passata quasi mezz'ora da quando il Romano aveva sentito la voce roca di Wes nell'auricolare. Se aveva fortuna, non avrebbe dovuto aspettare ancora per molto. Ma mentre prendeva la sua macchina a nolo, lottava nel traffico dell'aeroporto e finalmente riusciva a raggiungere il Southern Boulevard, l'auricolare aveva trasmesso solo un ronzio vuoto. Ogni tanto, due persone passavano vicino al cubicolo di Lisbeth e il Romano percepiva l'eco distante di una conversazione. Poi tornava il ronzio. Aggrappato al volante, mentre la macchina risaliva il Southern Boulevard Bridge, provò a calmarsi ammirando il paesaggio marino dell'Intracoastal Waterway. Come sempre, funzionò e gli fece tornare in mente l'ultima volta che era stato lì: durante l'ultimo anno di Manning, a pescare nel lago Okeechobee. Non c'era dubbio, i branzini erano più grossi in Florida nel D.C. un pesce di quasi tre chili era considerato enorme - qui non badava neppure a quelli al di sotto dei quattro chili. Ma non per questo erano più facili da prendere. A meno che non si fosse molto pazienti. Il Romano diede un'occhiata alla valigetta metallica, aperta sul seggiolino accanto al suo. Controllò la forza del segnale e risistemò l'auricolare. Dopo avere bruscamente svoltato a sinistra sull'Ocean Boulevard, ben presto vide la cima del massiccio palazzo di vetro che sporgeva tra le foglie verdi dei baniani messi per nasconderlo alla vista dei passanti. Svoltò a si-
nistra nel viale d'accesso principale, ben sapendo che avevano dei sistemi di sicurezza. Non sapeva però che avevano due macchine della polizia, due Chevrolet anonime e un'ambulanza proprio davanti all'ingresso del palazzo. Evidentemente stavano perdendo la calma. Il Romano entrò nel parcheggio vicino, chiuse la valigetta e si tolse l'auricolare dall'orecchio. Wes era più in gamba di quanto pensavano. Non avrebbe sentito la sua voce tanto presto. Ma proprio per questo era venuto fin qui. La pazienza andava bene quando si pescava. Ma da come si erano messe le cose, alcuni problemi richiedevano un approccio più deciso. Il Romano tirò fuori dalla valigetta la sua SIG 9 mm, la impugnò, poi la infilò nella fondina di cuoio sotto la giacca nera. Sbatté la portiera dell'auto e si diresse con decisione verso l'ingresso principale del palazzo. «Signore, ho bisogno di un suo documento», disse un agente con l'uniforme da sceriffo e un leggero accento del Nord della Florida. Il Romano si fermò, girando la testa di lato. Si toccò con la punta della lingua il labbro superiore e infilò una mano nella giacca... «Mani in vista!» «Calma», disse il Romano tirando fuori un portafoglio di lucertola nero. «Siamo dalla stessa parte.» Aprì il portafoglio e rivelò una foto identificativa con il badge dorato e la familiare stella a cinque punte in rilievo. «Vice direttore assistente Egen», disse. «Servizi segreti.» «Accidenti, perché non me l'ha detto subito?» chiese lo sceriffo ridendo e rimettendo a posto la pistola. «Gliene ho quasi tirati un paio.» «Non è necessario», disse il Romano studiando il proprio riflesso mentre si accostava alla porta d'ingresso a vetri. «Soprattutto in una giornata così bella.» All'interno, andò al tavolo delle firme e osservò il busto di bronzo nell'angolo dell'atrio. Non aveva bisogno di leggere la scritta per identificare il personaggio. BENVENUTI NEGLI UFFICI DI LELAND F. MANNING, EX PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI. 49 «Il Romano è un eroe», incomincia Lisbeth, leggendo dal piccolo taccuino da giornalista che tira fuori dalla cartelletta. «Oppure un narcisista egocentrico, a seconda della vostra posizione politica.» «Repubblicani contro democratici?» chiede Dreidel.
«Peggio», spiega Lisbeth. «Persone ragionevoli contro pazzi furiosi.» «Non capisco», dico. «Il Romano è un I.C.: informatore confidenziale. L'anno scorso, la CIA gli ha pagato 70.000 dollari per un'informazione su due iraniani che cercavano di costruire una bomba chimica a Weybridge, alle porte di Londra. Due anni fa gli hanno dato 120.000 dollari perché li aiutasse a trovare un gruppo di al-Zarqawi sospettato di contrabbandare gas VX attraverso la Siria. Ma il top l'ha raggiunto una decina di anni fa, quando lo pagavano 150.000 dollari per ogni informazione riguardante attività terroristiche all'interno del Sudan. Le sue specialità erano vendite di armi... movimenti dei terroristi... depositi di armi. Sapeva quello che interessava davvero agli USA.» «Non sono sicuro di capire», interviene Rogo. «Soldi, armi e soldati... i vecchi strumenti per vincere le guerre, non hanno più valore», continua Lisbeth. «Oggi, la cosa di cui i militari hanno più bisogno - e che raramente possiedono - è un'informazione affidabile e sicura. È l'informazione che fa da padrona. Ed è ciò che il Romano in qualche modo riusciva sempre a ottenere.» «Chi lo dice?» chiede Dreidel scettico. Dopo tanto tempo nello Studio Ovale, sa che una storia è buona solo se è basata su una buona ricerca. «Uno dei nostri vecchi giornalisti che si occupava della CIA per il "L.A. Times"», ribatte Lisbeth. «O per te non è un giornale abbastanza prestigioso?» «Aspetta: quindi il Romano sarebbe dalla nostra parte?» chiedo. Lisbeth scuote la testa. «Le informazioni non hanno parte, vanno a chi offre di più.» «Ma è un buon informatore?» «Buono si applica al tizio che ha fatto scoprire i terroristi asiatici che minacciavano Philadelphia qualche anno fa. Il Romano è eccezionale.» «Quanto eccezionale?» chiede Rogo. Lisbeth passa a una nuova pagina del suo taccuino. «Quanto basta per chiedere sei milioni di dollari per un'informazione. Anche se pare non li abbia ottenuti. Alla fine la CIA ha detto di no.» «Sono un sacco di soldi», dice Rogo, sporgendosi a leggere sul taccuino di Lisbeth. «È proprio questo il punto», riprende Lisbeth. «Un informatore viene pagato mediamente poco: 10.000 dollari circa. Se sei davvero utile, te ne danno 25.000 o 50.000... Si arriva a 500.000 dollari se fornisci informa-
zioni concrete su una cellula terroristica. Ma sei milioni? Diciamo così: bisogna essere talmente addentro da sapere qual è la marca di dentifricio preferita da Bin Laden. Il fatto che il Romano abbia chiesto una somma simile...» «Doveva essere seduto su un segreto grosso come un elefante», concludo io. «Forse poteva parlare dell'uccisione di Boyle», dice Rogo. «O di qualcosa che li avrebbe portati a ciò», aggiunge Lisbeth. «A quanto pare, la sua richiesta risale a circa un anno prima dell'attentato.» «Ma hai detto che la CIA non ha pagato», controbatte Dreidel. «Volevano farlo. Ma a quanto pare non hanno ottenuto il permesso dagli alti papaveri», spiega Lisbeth. «Alti?» chiedo io. «Quanto alti?» Dreidel sa a cosa punto. «Pensi che Manning abbia negato al Romano la pentola d'oro...» «Non ne ho idea», rispondo. «Ma potrebbe essere», interviene Rogo. «Se qualcuno mi impedisse di mettere le mani su sei milioni di dollari, prenderei il fucile da caccia di mio padre e sparerei qualche colpetto.» Lisbeth lo incenerisce con un'occhiata. «Vai spesso al cinema, vero?» «Possiamo restare sull'argomento, per favore?» chiedo. Poi, rivolto a lei: «Il tuo amico giornalista dice qualcosa sull'informazione da sei milioni di dollari?» «Nessuno lo sa. Lui era affascinato piuttosto da come il Romano riuscisse a cavare conigli dal cappello uno dopo l'altro. A quanto pare, spuntava dal nulla, mollava una bomba su una cellula terroristica in Sudan o un gruppo di ostaggi catturati, e poi scompariva fino all'emergenza successiva.» «Come Superman», dice Rogo. «Già, solo che Superman non ti chiede qualche biglietto da centomila prima di salvarti la vita. Non confondiamoci, il Romano è spietato. Se la CIA non pagava il suo prezzo, non gli importava niente di andarsene e di lasciare che un ostaggio finisse decapitato. Per questo lo pagavano tanto. Non gli importava di niente. E sembra che sia ancora così.» «È ancora in Sudan?» «Nessuno lo sa. Qualcuno dice che potrebbe essere negli Stati Uniti. Altri si chiedono se non riceva le informazioni da una fonte interna.» «Vuoi dire che ha un socio nella CIA?» chiede Rogo.
«O nell'FBI. O nell'NSA. O perfino nei Servizi segreti. Tutti raccolgono informazioni.» «Avviene in continuazione», ammette Dreidel. «Qualche agente di medio livello si stufa del suo salario di medio livello e un giorno decide che invece di battere i rapporti sul criminale X li passerà a un cosiddetto informatore, che poi li rivende e divide con lui la ricompensa.» «O si crea una finta identità - magari scegliendosi uno pseudonimo ridicolo come il Romano - e se li rivende a sé stesso. Così riceve una paga altissima per quello che altrimenti dovrebbe fare per mestiere», dico io. «In ogni caso, il Romano è talmente addentro alle cose che i suoi interlocutori hanno dovuto escogitare un sistema di comunicazione ridicolo per tenersi in contatto con lui. Tipo leggere la quinta lettera di ogni parola di un determinato annuncio...» «O mescolare le lettere in un cruciverba», mormora Dreidel, alzandosi di scatto. Si gira verso di me e dice: «Fammi vedere quello schema...» Dalla tasca dei pantaloni, tiro fuori il fax del cruciverba e lo stendo sul tavolo con la mano. Dreidel e io ci chiniamo su di esso da una parte. Rogo e Lisbeth dall'altra. Hanno già sentito la storia ieri sera, ma è la prima volta che lo vedono. Studiano il cruciverba e si concentrano sulle caselle piene, ma non vedono altro che un sacco di risposte e qualche appunto casuale accanto. «E quei nomi sull'altro foglio?» chiede Lisbeth, prendendo il foglio sotto il cruciverba e rivelando la prima pagina del fax, con le strisce di Beetle Bailey e Blondie. Sulla testa di Beetle Bailey, il presidente ha scritto le parole Gov. Roche... M. Heatson... Ospite, Mary Angel. «Le ho controllate ieri sera», dico. «Il cruciverba è datato 25 febbraio, proprio all'inizio dell'amministrazione. Quella sera, il governatore Tom Roche ha introdotto il presidente a un incontro letterario a New York. Nelle sue frasi di apertura, Manning ringraziò il principale organizzatore, Michael Heatson, e la sua ospite per la serata, una donna di nome Mary Angel.» «Quindi quei nomi sono solo degli appunti?» chiede Lisbeth. «Fa sempre così», risponde Dreidel. «Sempre», ripeto. «Gli passo un discorso e lui quando è sul palco aggiunge qualche appunto per ricordarsi di ringraziare qualcun altro, un donatore che vede in prima fila... un vecchio amico di cui si è appena ricordato... In questo caso, li ha aggiunti dietro a un cruciverba.» «Sono stupita che conservino i suoi vecchi cruciverba», dichiara Li-
sbeth. «In realtà non lo fanno», le spiego. «E credimi, si conservava tutto: i post-it... una frase scribacchiata su un tovagliolino per aggiungerla a un discorso... Tutto ciò che riguardava il suo lavoro. Le parole crociate non lo riguardano e perciò erano fra le poche cose che eravamo autorizzati a buttare via.» «E perché queste si sono salvate?» «Perché queste fanno parte di un discorso», spiega Dreidel, battendo la mano sulla faccia di Beetle Bailey. Gov. Roche... M. Heatson... Ospite, Mary Angel. «Una volta scritte queste parole, è come se il maledetto documento fosse stato sigillato nell'ambra. Abbiamo dovuto conservarlo.» «Quindi per otto anni Boyle se ne sta là fuori e chiede centinaia di documenti, cercando qualcosa», dice Lisbeth. «E una settimana fa riceve queste pagine e all'improvviso smette di nascondersi.» Si siede eretta e piega le gambe sotto alla sedia. Sento che parla più veloce. Sa che c'è qualcosa, qui dentro. «Lasciami vedere di nuovo il cruciverba», dice. Come prima, tutti e quattro ci chiniamo sul foglio, aprendolo bene. «A chi appartiene l'altra grafia, oltre a Manning?» chiede Lisbeth, indicando le lettere precise e ordinate. «Ad Albright, il nostro vecchio capo di gabinetto», risponde Dreidel. «È morto qualche anno fa, vero?» «Già... come Boyle», rispondo spingendomi in avanti fino a farmi penetrare il tavolo nello stomaco. Lisbeth continua a osservare il cruciverba. «Da quel che vedo, le risposte sono tutte corrette.» «E questa roba?» chiede Rogo indicando i segni e le lettere a destra dello schema.
«La prima parola è ambel... vedi il 7 orizzontale?» chiedo. «Gli spazi sono per la E e la L. Dreidel ha detto che sua madre fa lo stesso quando ri-
solve i cruciverba.» «Scrive varie versioni per vedere quella che funziona meglio», spiega Dreidel. «Anche mio padre faceva così», dice Lisbeth. Rogo annuisce fra sé, ma non distoglie lo sguardo. «Forse la risposta sta nelle definizioni», suggerisce Lisbeth. «Vuoi dire che il Romano aveva un contatto con chi inventava i cruciverba?» chiede Dreidel scuotendo la testa. «Che il segreto sia nascosto nelle risposte è ugualmente pazzesco.» «Come si chiamava quel tizio della Casa Bianca con le guance da criceto?» interviene Rogo, con gli occhi puntati sul cruciverba. «Rosenman», rispondiamo insieme Dreidel e io. «E il tizio della sicurezza nazionale?» «Carl Moss», diciamo ancora Dreidel e io in perfetta sincronia. Guardo Rogo. Tutte le volte che sta zitto, la pentola sta per bollire. «Vedi qualcosa?» chiedo. Rogo alza leggermente gli occhi e sorride col suo ampio sorriso da macellaio. «Cosa? Parla!» grida Dreidel. Rogo prende il cruciverba e lo lancia come un frisbee sulla tavola. «A quanto pare, qui ci sono nascosti i nomi di tutti i membri dello staff.» 50 Nell'atrio, il Romano non esitò a lasciare il suo nome. Scambiò anche qualche parola sugli incarichi spiacevoli con l'agente della reception. Chiamò l'ascensore senza preoccuparsi di lasciare impronte digitali. Allo stesso modo, quando l'ascensore arrivò, premette il pulsante per il quarto piano. Era proprio per questo che si erano organizzati. La chiave, in ogni guerra, era l'informazione. E come avevano imparato con i cruciverba molti anni prima, le informazioni migliori arrivavano a chi aveva qualcuno all'interno. Un forte tintinnio si diffuse nell'aria mentre le porte dell'ascensore si aprivano. «Documento, per favore», disse un agente in borghese ancora prima che il Romano uscisse nel corridoio con la moquette beige. «Sono Egen», rispose il Romano mostrando di nuovo il suo badge.
«Sì... certo... mi scusi, signore», disse l'agente arretrando mentre leggeva il titolo sul documento del Romano. Con un cenno, il Romano gli disse di calmarsi. «Se mi permette la domanda, com'è l'atmosfera al quartier generale?» chiese l'agente. «Prova a indovinare.» «Il direttore è piuttosto irritato, eh?» «È arrabbiato perché dovrà passare i prossimi sei mesi a riparare i danni. Non c'è niente di peggio che una dieta quotidiana di talk show e udienze al Congresso per spiegare come ha fatto Nico Hadrian a lasciare la sua stanza all'ospedale.» «Ai deputati piacerà farsi vedere in tv, eh?» «Piace a tutti», disse il Romano, dando un'occhiata alla telecamera di sorveglianza e dirigendosi verso la porta nera antiproiettile dell'ufficio del presidente. «Apri, Paulie», disse l'agente in borghese all'altro agente seduto nella garitta dei Servizi segreti, sul lato destro del corridoio. Sulla sinistra si sentì il tonfo sordo della serratura magnetica che scattava. «Grazie, figliolo», disse il Romano. Aprì la porta senza neppure guardarsi indietro. «Buon giorno», canterellò una segretaria latinoamericana con la voce acuta mentre la pesante porta si chiudeva alle spalle del Romano. «Come posso esserle utile?» Passando sul sigillo presidenziale della moquette, il Romano guardò a sinistra, dove di solito c'era un agente di guardia alla bandiera americana. L'agente non c'era, il che voleva dire che non c'era neanche il presidente. L'unica buona notizia era il post-it giallo sul monitor del computer della segretaria. In lettere corsive e inclinate c'era scritto DREIDEL - COLLAB. ESTERNO 6 / UFFICIO IN FONDO. «Dreidel non c'è, vero?» chiese il Romano. «No, è uscito con Wes», rispose la ragazza. «Lei è...?» Di nuovo il Romano mostrò il suo badge. «In realtà, sono qui per vedere miss Lapin.» «Certo...» disse la ragazza indicando a sinistra del Romano. «Vuole che l'avverta o...?» «Non è necessario», disse il Romano, avviandosi tranquillamente per il corridoio. «Mi aspetta.» Sulla destra, il Romano superò una dozzina di cornici con medaglie ono-
rifiche provenienti da tutti i paesi più importanti: la Gran Croce dell'Ordine polacca, il Collare dell'Indipendenza del Qatar, perfino l'Ordine di Bath britannico. Il Romano non le degnò di un'occhiata, già concentrato com'era sulla porta aperta a sinistra. Sporse la testa nell'ufficio con la targa CAPO DI GABINETTO. Le luci erano spente, la scrivania vuota. Claudia era già andata a pranzo. Bene. Meno persone c'erano in giro, meglio era. Il Romano andò a sinistra ed entrò nell'ufficio ben illuminato che sapeva di popcorn e di candela alla vaniglia. Guardando in basso, verso la scrivania, ebbe una perfetta visuale del maglione con lo scollo a V che lottava contro le decennali protesi al seno della donna. Prima che lei potesse reagire, il Romano afferrò la porta e se la accostò lentamente alle spalle. «Felice di vederti, Bev», disse chiudendola. «Pare che la Florida ti faccia bene.» 51 «Proprio qui», dice Rogo indicando la colonna di appunti accanto al cruciverba. «Nello spazio di lavoro...» Ricontrollo la colonna verticale di simboli e lettere apparentemente casuali:
«AMB? JABR? FRF?» chiede Dreidel. «Non mi sembrano le iniziali di qualcuno che conosco.» «Non leggere da sinistra a destra, ma dall'alto in basso...» Con la sua penna, Rogo circonda una colonna di lettere:
«M, A, R, J, M, K, L, B», dice Rogo guardandomi fisso. «Completa: Manning, Albright, Rosenman...» «Jeffer», dico. «Chi è Jeffer?» chiede Lisbeth. «Io», risponde Dreidel. «Moss, Kutz, Lemonick», continuo. «E B...» «Boyle», conclude Rogo tutto orgoglioso. «Otto persone, tutte strettamente collegate allo Studio Ovale.» Lisbeth annuisce, continuando a studiare il cruciverba. «Ma perché il presidente avrebbe tenuto un elenco dei suoi più stretti collaboratori?» Guardiamo tutti Dreidel. «È la prima volta che lo vedo», dice ridendo. Da come gli trema la voce, per la prima volta non è affatto contento di essere incluso in una lista esclusiva. Rogo, già in preda all'impazienza, balza dalla sedia e si dirige verso l'estremità del tavolo. «Manning ha scritto i nomi di otto persone, poi li ha camuffati con dei simboli in modo che nessuno si accorgesse che erano lì. Non vorrei sembrare Nancy Drew, ma che cos'hanno in comune questi otto?» Lisbeth spinge il cruciverba in mezzo al tavolo. Osservo la lista dei nomi. Lemonick era consigliere della Casa Bianca, Rosenman era addetto stampa, Carl Moss era consigliere per la sicurezza nazionale. Insieme a Manning, Albright e Boyle, erano le persone più importanti, i cavalieri della nostra tavola rotonda. «È chiaro che è un elenco di potenti.» «Tranne Dreidel», dice Rogo. «Senza offesa», aggiunge voltandosi verso di lui. «Stavate lavorando a qualche cosa, in quel momento?» chiede Lisbeth. «Quand'era... febbraio del primo anno?» «Eravamo lì da neanche un mese», dice Dreidel. Ma quando si accorge del peso delle persone dell'elenco, mi rendo conto che la sua voce è cambiata. «Forse è la lista di quelli che voleva alla riunione del mattino, all'RQ.» Vede la confusione sulla faccia di Lisbeth e di Rogo e spiega: «Tutte le mattine, alle sei, un corriere armato va dal quartier generale della CIA alla Casa Bianca con una valigetta ammanettata al polso. Dentro c'è il Rapporto Quotidiano per il presidente, la sintesi delle notizie più importanti da tutto il mondo. Movimenti di truppe in Corea del Nord... reti di spionaggio in Albania... tutto ciò che il presidente deve sapere, lo riceve alla prima riunione della giornata, insieme ad altre notizie, segrete.»
«Sì, ma tutti sapevano chi era invitato a quelle riunioni», sottolineo. «Alla fine, sì», replica Dreidel, «ma in quelle prime settimane pensi che Rosenman e Lemonick non cercassero di intrufolarsi?» «Non lo so», dice Lisbeth, guardando l'elenco con una leggera ruga sulla fronte. «Se stai scegliendo dei nomi, perché tanti segreti?» «I segreti ci sono sempre per qualche ragione», dice Dreidel. «E mi sembra abbastanza chiaro che non volevano fare vedere a nessun altro quello che stavano scrivendo.» «Va bene, d'accordo. Allora, quali sono le cose che si possono scrivere sui propri dieci stretti collaboratori che non si vogliono far vedere a nessun altro?» chiede Lisbeth. «Non ti piace una persona... non li vuoi più al loro posto... hai paura di loro...» «Ecco, un ricatto!» dice Rogo. «Forse uno di loro aveva un segreto...» «O era a conoscenza di un segreto», dice Dreidel. «Sul presidente?» intervengo. «Su chiunque», dice Lisbeth. «Non lo so. Stiamo parlando di persone di un livello... di un gruppo che non deve preoccuparsi che qualcuno parli.» «A meno che uno di loro non possa fare a meno di parlare», dichiara Dreidel. «Vuoi dire che è un elenco di persone di fiducia?» chiede Lisbeth. «Penso... certo», risponde Dreidel. «Se io avessi dei nuovi collaboratori, è quello che vorrei sapere.» Per la prima volta smise di mordersi la mano ben curata. «Non sono sicuro di seguirti», dico. «Pensa a quello che succedeva in quelle prime settimane alla Casa Bianca. Quell'autobus che era esploso in Francia e tutte le polemiche interne sul fatto se la reazione di Manning era stata abbastanza decisa. Poi i litigi a proposito della ristrutturazione dello Studio Ovale...» «Questi me li ricordo», dice Lisbeth. «È uscito un articolo sul "Newsweek" che parlava della moquette a strisce rosse... Come l'aveva definita la First Lady?» «Un chewing gum alla frutta», risponde Dreidel asciutto. «La bomba e la brutta moquette, erano stupidaggini relative a contrasti interni. "Oh-oh, il capitano non sa guidare la sua nuova nave..." Ma l'unica ragione per cui se ne parlava era che qualche collaboratore chiacchierone aveva deciso di farle venir fuori.» Lisbeth annuisce: lo sa fin troppo bene. «Quindi quello di cui Manning
si preoccupava allora...» «...era di scoprire chi lasciava filtrare le nostre faccende interne», conclude Dreidel. «Quando ci sono tanti collaboratori, investiti dall'oggi al domani di tanto potere, c'è sempre qualcuno che vuole correre fuori a vantarsi con i suoi amici, o con i giornalisti, o con i suoi amici giornalisti. E finché non si scopre chi è, queste storie occupano tutto il tuo tempo.» «Ok», dico. «Questo significa che, quando ha fatto questo elenco, Manning cercava dei collaboratori che parlavano troppo con i giornalisti?» «Non solo collaboratori», riprende Dreidel. «Quelle storie erano su conversazioni che riguardavano gli stretti collaboratori. Per questo Manning era così rabbioso. Una cosa è se un dipendente dichiara che il presidente ha le calze spaiate, un'altra è aprire il "Washington Post" e leggere in prima pagina il verbale della riunione con i tuoi cinque luogotenenti più fidati.» «Se è così, perché includere sé stesso nell'elenco?» chiede Rogo. «Forse è l'elenco dei presenti a una riunione specifica - Manning, Albright, Boyle eccetera - poi l'avrebbero ridotto per tirare fuori un'informazione particolare», dico. «Questo spiegherebbe perché ci sono anch'io», dice Dreidel. «Ma forse non si trattava solo di una soffiata alla stampa.» «Che altro c'è?» chiede Lisbeth. «Pensa a quello che hai detto del Romano e dei milioni di dollari che non gli hanno dato. Anche il pagamento degli informatori di alto livello è argomento di cui si parla nell'RQ.» Annuisco, rammentando le vecchie riunioni. «Non è una cattiva ipotesi. Chiunque passava le informazioni, poteva darle al Romano e dirgli chi gli aveva negato quei soldi.» «E pensi che per questo abbiano sparato a Boyle? chiede Lisbeth. «Perché Boyle si era opposto a dare quei soldi al Romano?» «Io ci credo», dice Rogo. «Sei milioni di dollari sono un sacco di soldi.» «Senza dubbio», dice Dreidel. «Ma è abbastanza chiaro che la persona meno affidabile dell'elenco è proprio quella che fino a poco tempo fa credevamo morta. Sai, quella a cui sta dando la caccia l'FBI... quella che fa rima con Doyle...» «Per questo ho chiesto alla Presidential Library di tirare fuori i documenti su Boyle», intervengo. «Hanno tutto: i suoi orari, gli argomenti di cui si occupava, perfino il suo file personale con i controlli dell'FBI. Avremo tutti i fogli di carta che sono passati sulla scrivania di Boyle, o che sono stati scritti su di lui...»
«Bene, due di noi possono andare alla biblioteca, allora», dice Lisbeth. «Ma questo non ci spiega perché un elenco segreto che Manning ha fatto durante il primo anno della sua amministrazione ha qualcosa a che fare con il fatto che tre anni dopo hanno sparato a Boyle.» «Forse Boyle era arrabbiato col presidente perché non si fidava di lui», dice Rogo. «No», ribatte Dreidel. «Secondo i tizi dell'FBI che hanno parlato con Wes, Boyle e Manning erano alleati, qualunque cosa stessero tramando.» «E dev'essere così», osservo. «L'ambulanza... con il sangue del tipo giusto... come poteva fare una cosa del genere Boyle, senza l'aiuto di Manning e dei Servizi?» «Cosa vuoi dire, allora? Che era qualcun altro quello di cui non si fidavano?» chiede Lisbeth, puntando gli occhi su Dreidel. Scuoto la testa. «Io dico solo che il presidente Manning e Albright hanno passato uno dei loro primi giorni alla Casa Bianca stilando un elenco segreto coi nomi di otto persone che avevano libero accesso ad alcuni dei segreti meglio custoditi del mondo. Cosa ancora più importante, scrivendo quell'elenco su un cruciverba avevano trovato il modo per ottenere l'impossibile: un documento presidenziale - che poteva contenere i pensieri più reconditi di Manning - che non sarebbe stato esaminato, catalogato, studiato o visto da nessun altro.» «A meno che, naturalmente, soprappensiero non avessero scritto qualche parola sul retro», dice Rogo. «Il fatto è che l'elenco è ancora troppo ampio», dico. «E a quel che ne so, a parte il presidente, le altre persone presenti quel giorno all'autodromo erano Boyle e Albright, e Albright è morto.» «Sei sicuro che fossero i soli?» chiede Lisbeth. «Cosa vuoi dire?» «Hai mai guardato le riprese d'archivio di quel giorno? Hai mai dato un'occhiata per vedere se quello che credi di ricordare corrisponde alla realtà?» Scuoto la testa. Una settimana dopo la sparatoria, quando ero ancora in ospedale, mentre facevo zapping mi è capitato di vedere un frammento di registrazione. Ci vollero tre infermieri per calmarmi, quella sera. «Non ho mai visto le registrazioni», dico. «Sì, immaginavo che non fossero il tuo film preferito. Ma se vuoi davvero sapere quello che è successo, devi incominciare dalla scena del delitto.» Prima che possa reagire, fruga nel suo faldone e tira fuori una videocasset-
ta nera. «Per tua fortuna, ho degli agganci con la tv locale.» Mentre si alza e si dirige alla credenza di formica con il videoregistratore, mi si chiude la gola e le mani mi si riempiono di sudore. So già che questa è una cattiva idea. 52 «E Claudia?» chiese tranquillamente il Romano, avvicinandosi alla finestra di Bev e guardando dall'alto gli agenti, lo sceriffo, e gli infermieri dell'ambulanza nella rotonda davanti al palazzo. «Mi hai detto di no... che era un'indagine interna», disse Bev guardando il Romano dalla scrivania e pescando ansiosamente da un sacchetto aperto di popcorn. «E Oren?» «Ti ho appena detto...» «Ripetimelo!» insistette il Romano girandosi davanti alla finestra, la pelle pallida e i capelli neri, quasi scintillanti al sole di mezzogiorno. Bev rimase in silenzio, con la mano bloccata sui popcorn. Il Romano sapeva di averla spaventata, ma non aveva intenzione di scusarsi. Non prima di avere ottenuto quello che voleva. «Hai detto di non dirlo a nessuno, e io non l'ho detto a nessuno», dichiarò finalmente Bev. «Né a B.B., né al presidente... a nessuno.» Giocherellando con le punte dei suoi capelli, aggiunse: «Anche se non capisco in che modo tutto ciò sia di aiuto a Wes.» Il Romano si girò di nuovo verso la finestra, aspettando un attimo per scegliere bene le parole. Bev conosceva Wes da quando era arrivato alla Casa Bianca. Come tutti i genitori protettivi, non avrebbe ceduto il suo bambino se non per il suo bene. «Noi aiutiamo Wes se scopriamo chi ha visto quella sera in Malaysia», spiegò il Romano. «Se quello che dice nel rapporto è vero - che si trattava solo di un ubriaco in cerca di un bagno non c'è niente di cui preoccuparsi.» «Ma farmi mettere un microfono sulla sua spilla... di nascosto da tutti i colleghi... Perché non puoi dirmi semplicemente chi pensate che abbia incontrato?» «Bev, te l'ho detto fin dall'inizio, siamo all'interno di un'inchiesta lunga e pensiamo - speriamo - che Wes vi sia finito dentro per caso. Credimi, vogliamo proteggerlo quanto te, e proprio per questo...» «Ha a che fare con Nico? È per questo che è scappato?»
«Nico non c'entra niente», disse il Romano. «Pensavo... la tua mano...» disse Bev indicando la garza avvolta intorno al palmo del Romano. Il Romano sapeva di rischiare, andando in quell'ufficio. Ma la cimice era silenziosa, Boyle ancora non si trovava... Certe cose dovevano essere fatte di persona. Seduto sull'orlo della scrivania di Bev, il Romano le prese una mano fra le sue. «Bev, so che non mi conosci. E so che è strano ricevere all'improvviso una telefonata da un agente a proposito di un'indagine di cui non sai nulla, ma ti giuro che Nico non c'entra. Capisci? Non c'entra niente. Tutto ciò che ti ho chiesto... è solo nell'interesse della sicurezza nazionale e per il bene di Wes», aggiunse guardandola negli occhi. «Io apprezzo il fatto che ti preoccupi per lui... sappiamo tutti quanta pena...» «Non è pena. È un bravo ragazzo.» «...che avrebbe dovuto lasciare il suo posto anni fa, ma non l'ha fatto perché ha paura di uscire dal rifugio amichevole, ma castrante, che tutti voi gli avete costruito intorno. Pensaci, Bev. Se davvero ci tieni tanto a lui, questo è il momento in cui ha davvero bisogno di te. C'è qualcun altro che potremmo avere trascurato? Vecchi contatti della Casa Bianca? Attuali rapporti di lavoro? Ti viene in mente qualcuno a cui potrebbe rivolgersi, trovandosi nei guai?» Bev fece scorrere all'indietro la sedia sulle sue ruote e rimase in silenzio sotto quella raffica di domande. Per un attimo, i suoi occhi fissarono quelli azzurro pallido del Romano. Più lui insisteva, più lei si guardava intorno. La sua tastiera. La sua cartelletta di cuoio. Perfino la foto attaccata allo schermo del suo computer, con la festa di compleanno di qualche anno prima. L'intero staff rideva, mentre il presidente soffiava sulle candeline della torta di Bev. Era il tipo di foto che non esisteva, alla Casa Bianca, ma qui decorava quasi tutti gli uffici. Leggermente decentrata, abbastanza divertente, un po' sfocata. Non una foto professionale, scattata da un fotografo della Casa Bianca ma una foto di famiglia, fatta da uno di loro. «Scusa», disse Bev, ritirando la sua mano e guardando la garza del Romano. «Non mi viene in mente nessun altro.» 53 «...ore e signori, il presidente degli Stati Uniti!» ruggisce l'annunciatore nel microfono mentre il nastro incomincia a scorrere e la Cadillac One, ne-
ra e lucente, emerge sulla pista. Dall'angolazione, che mostra di profilo metà del corteo di macchine, immagino che le riprese siano state fatte dalla tribuna stampa dello stadio. «Ecco l'ambulanza col sangue di Boyle», indica Dreidel correndo intorno al tavolo per avvicinarsi allo schermo. Si ferma proprio accanto a Lisbeth, che è proprio a sinistra del video. Sulla mia destra, Rogo è tornato a capotavola, ma invece di avvicinarsi all'apparecchio torna indietro. Verso di me. Non deve dire neanche una parola. Accenna col mento a sinistra e abbassa le sopracciglia. Stai bene? Stringo i denti e annuisco fiducioso. Rogo è mio amico da prima che prendessi la patente. Conosce la verità. «Lisbeth», dice, «forse dovremmo...» «Lascia perdere, sto bene», insisto. Quando la limousine esce dall'ultima curva e si dirige verso la linea del traguardo, la telecamera si allontana per mostrare l'intero corteo, che si dirige verso di noi. Avevo l'abitudine di chiamarlo processione funebre. Non avevo idea. Sullo schermo, la telecamera fa una zoomata sulla Cadillac One. Giuro, mi sembra di sentire l'odore dei seggiolini di pelle della macchina, l'aroma oleoso del lucido delle scarpe di Manning, il tocco dolce della benzina. «Ecco, ci siamo», dice Lisbeth. Il filmato passa di colpo a un'altra telecamera all'interno del tracciato, siamo ad altezza d'uomo. Dalla parte del passeggero, il capo dei Servizi segreti scende dalla limousine e corre ad aprire la portiera posteriore. Altri due agenti prendono posto, bloccando la visuale della folla. I miei piedi si raggrinziscono mentre le dita tentano di bucare le suole delle scarpe. So cosa sta per succedere. Ma appena la portiera si apre, l'immagine si blocca. «Slow motion?» chiede Dreidel. «È l'unico modo per vedere bene chi c'è sullo sfondo», spiega Lisbeth, afferrando lo spigolo superiore sinistro del televisore. Dreidel si avvicina e fa lo stesso dall'altra parte. Entrambi si chinano. Non vogliono perdere niente. All'estremità opposta del tavolo, mi contorco sulla mia sedia. In slow motion, altri due agenti dei Servizi segreti entrano lentamente nello sfondo vicino alla portiera aperta rivolta verso la folla. «Queste sono tutte persone che conoscete?» chiede Lisbeth facendo un cerchio intorno ai cinque agenti in borghese sullo schermo.
«Geoff, Judd, Greg, Allan, e...» Dreidel si ferma sull'ultimo. «Eddie», dico io senza distogliere lo sguardo. «Ancora pochi secondi», dice Dreidel, come se ciò dovesse farmi sentire meglio. Torna a rivolgersi al televisore, appena in tempo per vedere cinque dita che si aggrappano come minuscoli vermi rosa al tetto della limo. Le dita dei piedi mi si contraggono ancora di più, praticamente penetrano nelle suole. Chiudo gli occhi per un istante e, giuro, sento odore di popcorn e birra vecchia. «Eccolo», sussurra Dreidel mentre Manning lentamente lascia la macchina, con una mano già alzata in un gesto di saluto e di trionfo. Alle sue spalle, anche lei con la mano alzata, la First Lady fa lo stesso. «Adesso guardate il presidente», dice Lisbeth mentre i fotogrammi passano e lui si gira lentamente verso la telecamera per la prima volta. Sullo schermo, il sorriso di Manning è talmente ampio che si vedono le gengive superiori. Idem per la First Lady, che lo tiene per mano. Si stanno evidentemente godendo la folla. «Non ha propriamente l'aria di un uomo che sappia che sta per scoppiare una sparatoria, no?» chiede Lisbeth mentre Manning continua a salutare, con la giacca a vento nera che si gonfia come un pallone. «Te l'ho detto, non sapeva niente», conferma Dreidel. «Insomma, non mi interessa cosa si aspettavano, o quanto sangue di Boyle avevano nell'ambulanza, è impossibile che Manning, i Servizi o chiunque altro rischiassero un colpo di testa.» «Continui a pensare che il loro obiettivo fosse Manning», dice Lisbeth mentre Albright appare sullo schermo, uscendo come una lumaca dalla macchina. «Io credo che Nico abbia colpito esattamente chi voleva colpire. Pensa alla sua fuga dall'ospedale, ieri sera. Entrambi gli infermieri colpiti direttamente al cuore e al palmo della mano destra. Conosci un'altra persona del genere?» Sullo schermo, al centro di un cespuglio di capelli grigi, una macchiolina calva emerge al di sopra del tetto della limousine, come un sole sorgente. Ecco Boyle. «È lui che è ansioso», dice Lisbeth, toccando la sua faccia sul monitor. «È sempre stato triste, però, fin dal primo giorno», replica Dreidel. Inghiotto a fatica mentre il profilo di Boyle scintilla sullo schermo. La pelle olivastra è la stessa, ma il suo naso sottile e appuntito è molto più aguzzo di quello massiccio che gli ho visto due giorni fa. Neppure la chirurgia plastica può arrestare il processo di invecchiamento.
«Vedete? Non si guarda neanche in giro», aggiunge Dreidel mentre Boyle segue il presidente. «Nessuno dei due ha idea di quello che sta per succedere.» «Eccoti qui», riprende toccando l'angolo a destra dello schermo, dove mi si intravede di profilo. Mentre esco dalla macchina, la telecamera si sposta a destra - allontanandosi da me - cercando di seguire il presidente. Ma siccome sono pochi passi dietro di lui, c'è un momento in cui mi si vede sullo sfondo. «Ragazzi, eri ben giovane», dice Lisbeth. Il video trema e la mia testa ruota come quella di un robot verso la telecamera. È la prima volta che vediamo tutti chiaramente. Il medio e l'indice della mia mano destra si stringono rapidamente contro il palmo. Gli occhi mi si riempiono di lacrime a quella vista. La mia faccia... Dio, quanto tempo, ma eccolo lì, il vero Wes. Sullo schermo, la mano del presidente Manning si alza per salutare il direttore della NASCAR e la sua famosa moglie. La First Lady si sistema la collana di zaffiri, le labbra dischiuse in un eterno saluto. Albright si mette le mani in tasca. Boyle si aggiusta la cravatta. E io resto dietro a tutti, bloccato a metà di un passo con il mio zaino attaccato alla spalla e gli occhi leggermente socchiusi. So cosa succede adesso. Pop, pop, pop. Sullo schermo, la telecamera si sposta improvvisamente verso l'alto, con immagini sfocate, passando oltre i fan delle tribune mentre il cameraman si butta a terra per evitare i colpi. Lo schermo si riempie di cielo azzurro. Ma per me sta già diventando bianco e nero. Un ragazzo con la maglietta dei Dolphin grida chiamando la mamma. Boyle cade a terra, a faccia in avanti, nel suo stesso vomito. E un'ape mi punge sulla guancia. La testa mi scatta all'indietro al solo pensiero. La telecamera sussulta di nuovo, finendo a terra, oltre la confusione di fan che corrono, gridano e scappano dalle tribune. Sulla sinistra dello schermo, la Cadillac One romba e si allontana. Il presidente e la First Lady sono già dentro. Al sicuro. Mentre la macchina si allontana, la telecamera oscilla avanti e indietro, mostrando il seguito dell'azione e addentrandosi nel caotico balletto in slow motion: agenti dei Servizi segreti con le bocche aperte, bloccate in un grido... persone che sfrecciano in tutte le direzioni... e in alto a destra, proprio mentre la limousine se ne va, un ragazzo pallido e magro che cade per terra, contorcendosi come un verme per il dolore sull'asfalto e tenendosi la
faccia con una mano. Le lacrime mi scendono sulle guance. Le dita mi premono sul palmo con tale forza che mi sento pulsare il sangue. Mi dico di guardare altrove... di alzarmi e accendere le luci... ma non riesco a muovermi. Sullo schermo, due agenti in borghese allontanano Boyle, portandolo verso l'ambulanza. Poiché ci danno la schiena, è impossibile riconoscerli. Ma nella nuvola di polvere dietro alla limo, io sono ancora disteso sulla schiena e mi premo le mani sulla faccia con tale forza che sembra mi voglia incollare la nuca sull'asfalto. E mentre sullo schermo è ancora tutto a colori, io continuo a vedere in bianco e nero. Una lampadina esplode come una supernova. Le dita toccano il metallo acuminato che ho sulla faccia. Le porte dell'ambulanza di Boyle sbattono. «Wes, ci sei?» sussurra Rogo. Perché non la smettono di sbattere...? «Wes...» continua a sussurrare Rogo. Lo ripete e mi accorgo che non sta sussurrando. Parla a voce alta. Come se gridasse. Qualcosa si chiude intorno alla mia spalla destra, vibrando. «Wes!» urla Rogo mentre torno alla realtà sbattendo gli occhi e scopro che la sua grossa mano mi trattiene per la camicia. «No, no... sto bene», dico, liberando la spalla dalla sua presa. È solo quando mi guardo intorno nella sala che mi accorgo che il video è finito. In un angolo, Lisbeth sta riaccendendo le luci e si guarda alle spalle per vedere cosa succede. «Sta bene», dice Rogo, cercando di bloccarle la visuale. «È solo... lasciagli un secondo, ok?» Tornando dagli interruttori, Lisbeth continua a fissarmi, ma se capisce quello che sta succedendo è abbastanza gentile da tenerselo per sé. «Insomma, tutto questo non ci porta proprio da nessuna parte, vero?» chiede Dreidel, chiaramente ancora irritato perché siamo qui. «A parte il fatto, cioè, di fornire a Wes un incubo nuovo di zecca da affrontare.» «Non è vero», dichiara Lisbeth, tornando dall'altra parte del tavolo. Invece di sedersi accanto a Dreidel, decide di restare in piedi. «Siamo riusciti a vedere gli agenti che hanno portato via Boyle.» «Il che non vuol dire niente, dato che non riusciamo a vederli in faccia, per non dire che, siccome i Servizi facevano parte del gioco, non mi pare prudente chiedere aiuto ai loro agenti.» «Avremmo di più, se la telecamera non si fosse messa a girare come quella di mia madre quando usa la cinepresa», osserva Lisbeth.
«Già, quel cameraman è stato un vero stupido a buttarsi per terra in quel modo, solo per salvarsi la vita», ribatte Dreidel. «Dreidel», intervengo. «Niente Dreidel, Wes.» «E se te lo dico io, Dreidel?» minaccia Rogo. «Perché non ti siedi e lasci che il ragazzo combatta la sua battaglia, una volta tanto?» replica Dreidel. «Wes, non offenderti, ma è stata una stupidaggine. A parte qualche spunto per quando la nostra giornalista scriverà il suo best-seller rivelatore, siamo venuti qui senza una vera ragione. Poteva mandarci lei le informazioni che ci servivano.» «Io cercavo di aiutare», insiste Lisbeth. «E questo sarebbe un aiuto? Abbiamo mille domande senza risposta, mezza dozzina di teorie assurde, e tu vuoi passare la giornata a guardare l'unico video che il Congresso, il pubblico e tutti i dietrologi del mondo hanno setacciato senza trovarci niente di sospetto? Non c'è neanche una bella immagine di Nico, per verificare se ci è sfuggito qualcosa.» Scuoto la testa. «Non è...» «Ha ragione», ammette Lisbeth alle spalle di Dreidel, che deve girarsi per guardarla. Lisbeth ci sta dando le spalle ed è in piedi di fronte alla grande finestra. «Non abbiamo visto delle buone immagini.» Si gira verso di noi con lo stesso sorriso sottile con cui ci teneva sulla corda ieri sera, e aggiunge: «Per fortuna, io so come fare per cambiare le cose.» 54 «Tu lo sai se c'è un'entrata sul retro?» chiese Micah, fermo nel posteggio, controllando per la terza volta nel giro di un minuto lo specchietto retrovisore. In diagonale alle loro spalle, la Toyota di Wes non si era mossa. «Potrei dare rapidamente un'occhiata e...» «Non è necessario», disse O'Shea seduto al posto del passeggero, con il gomito che sporgeva dal finestrino abbassato, mentre risolveva il cruciverba del mattino. «Siamo in Florida, non va da nessuna parte senza macchina.» «A meno che non prenda quella di qualcun altro. Ti ricordi di quella donna in Siria?» «In Siria era diverso. Avevamo bisogno che scappasse.» «Perché? Per poterla prendere tu?» «Ti avrebbe ucciso, Micah. Lo sai benissimo.»
«La stavo per prendere.» «Questo lo dici tu», ribatté O'Shea. «Ma se tenti un altro colpo di testa come in Siria, ti garantisco che sarò io a puntarti una pistola alla tempia.» Senza distogliere lo sguardo dal cruciverba, O'Shea indicò alle sue spalle con la penna. «Vedi quella Subaru tutta rovinata laggiù in diagonale? con gli adesivi dei Grateful Dead? L'abbiamo vista anche ieri sera. È di Lisbeth. Quella lì è di Wes. Rogo è ancora dentro. Nessuno se ne andrà.» Micah, non convinto, controllò lo specchietto per la quarta volta, poi guardò il gomito di O'Shea, appoggiato al finestrino aperto. «Dovresti chiuderlo», disse indicando il vetro. «Se per caso arriva...» «Micah, ci sono ventuno gradi. A dicembre. Sai che freddo c'era in Francia? Lascia che mi goda questo benedetto caldo.» «Ma Wes potrebbe...» «È tutto sotto controllo.» «Sì, certo», disse Micah indicando col dito la foto di Nico sulla prima pagina del giornale appoggiato sul bracciolo in mezzo a loro. «Cos'è, pensi ancora che sia stato il Romano?» chiese O'Shea. «Per forza. Boyle viene visto... Nico scappa... un diavolo di coincidenza, non ti pare?» O'Shea annuì, alzando finalmente gli occhi dal cruciverba. «Ma se ha usato il nome di Wes per entrare...» «Sono contento che tu l'abbia cancellato dal rapporto ufficiale. Se si fosse saputo, tutti sarebbero corsi davanti alla casa di Wes e noi avremmo perso la miglior...» «Sssst!» sibilò O'Shea, interrompendo Micah. Alle loro spalle, una voce familiare echeggiò sulle pareti del garage. «...ancora chiamare in ufficio», disse Wes mentre Dreidel lo seguiva sullo scivolo di cemento. «Perché, per gettarli nel panico?» chiese Dreidel. Studiando i rispettivi specchietti, O'Shea e Micah osservarono la scena che si svolgeva diagonalmente rispetto a loro. Dal punto in cui erano, vedevano perfettamente il posto del passeggero della Toyota di Wes. E ciò era sufficiente a notare che Rogo non c'era più. «Dov'è il ciccione?» bisbigliò Micah. «Ci proverà con la ragazza», ipotizzò O'Shea. Mentre Wes si avvicinava alla portiera del guidatore e la apriva, le chiavi gli scivolarono di mano. Girandosi per cercare di prenderle al volo, Wes si rivolse verso O'Shea e Micah, che non batterono ciglio. Dalla loro po-
stazione, era quasi impossibile vederli. Ci fu un sonoro tintinnio, quando le chiavi toccarono terra. Per una frazione di secondo, O'Shea vide Wes che puntava gli occhi nella sua direzione. O'Shea rimase immobile. Era impossibile che Wes fosse così abile. «Cosa c'è?» chiese Dreidel all'amico. O'Shea guardava fisso lo specchietto e mantenne la posizione. Al suo fianco, guardando il proprio specchietto, Micah fece lo stesso. Facevano quel mestiere da troppo tempo per farsi cogliere dal panico. «Hai sentito qualcosa?» chiese Wes. «Non fare il paranoico», ribatté Dreidel. Sul bordo dello specchietto, O'Shea vedeva il profilo della nuca di Wes che si girava verso la sua Toyota, raccoglieva le chiavi e si infilava in macchina. «No, hai ragione», rispose Wes. Pochi secondi dopo, il motore della Toyota prendeva vita e le sue ruote stridevano sul cemento. Seguendo anni di addestramento, Micah aspettò ad accendere il motore. Almeno fino a quando non sentirono il tonfo metallico della Toyota di Wes che superava il dosso all'uscita del garage. Quando Micah e O'Shea raggiunsero il dosso, la Toyota di Wes era in mezzo al traffico e stava svoltando a sinistra, sulla South Dixie. «Hai idea di dove sia diretto?» «Al suo ufficio, immagino...» «Immagina meglio», disse O'Shea mentre la Toyota svoltava nuovamente a sinistra al primo semaforo nella direzione opposta all'ufficio di Manning. Restando per precauzione ad almeno tre macchine di distanza, Micah svoltò a sua volta a sinistra proprio mentre la Toyota superava un cartello della I-95. «Guida veloce.» «Forse è diretto all'autostrada», ipotizzò O'Shea mentre la Toyota si allontanava, rimpicciolendo in lontananza. Calmo come sempre, Micah rimase nascosto dietro a due furgoncini e a una Honda bianca, senza mai perdere di vista le due teste nella macchina di Wes. Un minuto più tardi, la Toyota svoltò a sinistra, seguendo i cartelli per la I-95 South e risalendo la rampa della Belvedere Road. Entrando in autostrada, però, O'Shea e Micah furono sorpresi nel vedere che Wes non prendeva velocità. Anzi, rallentava. «Va esattamente a ottanta», disse Micah, controllando il tachimetro.
«Pensi che voglia seminarci?» Indicando il cartello dell'uscita più vicina, O'Shea suggerì: «Forse è diretto a casa.» «Uno a zero», disse Micah mentre la Toyota si spostava nella corsia centrale. «Okeechobee è dall'altra parte.» «L'aeroporto?» «Due a zero», disse Micah mentre la macchina di Wes superava lentamente le rampe del Southern Boulevard. «Vuoi fare un terzo tentativo?» O'Shea rimase zitto, si sporse dal finestrino e sistemò lo specchietto. «Hai qualcosa?» «Non è chiaro», rispose O'Shea studiando le macchine dietro di loro. «Non lasciarlo allontanare troppo.» Nascosti dietro un camion carico di SUV, O'Shea e Micah passarono i venti minuti successivi inseguendo la Toyota di Wes, che continuava a procedere sulla I-95, oltre Lake Worth, Lantana, Boynton Beach, Delray... Oltrepassava tutte le città, ma non superava mai i novanta all'ora e non si spostava mai dalla corsia centrale. Attraverso il lunotto posteriore, sporco, mentre le macchine sfrecciavano a destra e a sinistra per superarli, Wes e Dreidel sedevano perfettamente immobili, senza mai inquietarsi e senza guardarsi alle spalle. Era come se non avessero fretta. O se non sapessero dove... «Supera», sbottò O'Shea. «Che cosa...?» «Andiamo, raggiungili», insisté O'Shea, battendo sul cruscotto e indicando il parabrezza. «Subito.» Micah premette l'acceleratore e la testa di O'Shea arretrò, i suoi capelli color sabbia toccarono per un istante il reggitesta. Lasciata la protezione del camion, Micah non ci mise molto a farsi largo nel traffico e a mettersi dietro a Wes. Per la prima volta da quando era entrato in autostrada, Wes si portò sulla corsia di sinistra, accelerando quanto bastava per tenersi affiancato a una Mercedes decappottabile. Premendo di nuovo l'acceleratore, Micah sterzò a sinistra, facendo finire la macchina sulla corsia di emergenza male asfaltata in mezzo alla strada. Sassi, rifiuti e pezzi di vetro schizzarono sotto le ruote, svolazzando nella loro scia. Facendo attenzione a che la portiera non toccasse il divisorio di cemento, Micah non ebbe difficoltà a raggiungere la Toyota di Wes, che superava ancora di poco i novanta.
Mentre procedevano affiancati, il finestrino si abbassò lentamente. «Attenti a guidare in quella corsia, è illegale!» gridò Rogo dal posto di guida, battendo con le dita sul volante mentre le due macchine sfrecciavano. L'altro occupante della macchina era Dreidel, che non li guardò neppure.» «Figlio di...» Frenando di colpo a un cartello con la scritta VEICOLI DI EMERGENZA, Micah sterzò bruscamente sulla macchia d'erba alla sua sinistra e fece un'inversione a U, ritornando da dove erano venuti. A quel punto, Wes aveva già almeno un'ora di vantaggio. 55 Sdraiato sulla schiena sotto un'Audi argentata, premo il mento sul petto e guardo fuori tra le ruote di dietro e la marmitta oscillante nel silenzio del parcheggio del «Palm Beach Post». Sono passati quasi quindici minuti da quando Rogo e Dreidel se ne sono andati con la mia Toyota. E quasi quattordici da quando la Chevrolet blu di Micah e O'Shea è passata sulla rampa del garage e ha seguito Rogo in strada. Dal microfono sul bavero della mia giacca, abbiamo capito che avevamo a che fare con dei professionisti. Dreidel ha detto che era l'FBI. Dovevamo verificare se aveva ragione. Quando sono arrivato con Dreidel alla macchina, ho tirato fuori le chiavi e ho aperto le portiere. Ma è stato solo quando ho afferrato la maniglia della portiera che ho scorto la sua ombra. Da sotto la macchina, Rogo ha sporto la testa come un meccanico e ha sbattuto le palpebre. «Mi devi un vestito nuovo», ha sussurrato in mezzo a una macchia d'olio. Gli erano bastati dieci minuti per strisciare sulla pancia sotto le auto. «Sei fortunato che ci passo», ha detto. Guardando l'assale unto e sporco che ho sopra alla testa, gli do ragione. Proprio come quando ha detto che, se ci muovevamo abbastanza veloci, nessuno se ne sarebbe accorto. Io dovevo arretrare per lasciargli un po' di spazio, ma da lì in poi Rogo era un professionista. Ho aperto la portiera mentre veniva fuori da sotto. Le chiavi che cadevano hanno coperto il rumore. Incominciavo a eccitarmi anch'io. Mettendosi in ginocchio, Rogo ha iniziato a contare alzando le dita. Uno... due...
Con un rapido movimento, mi sono chinato a prendere le chiavi mentre Rogo si alzava al mio posto e si infilava in macchina. «No, hai ragione», ho detto da terra per rendere più completa l'illusione. Rotolando rapidamente mi sono spostato sotto la macchina vicina, dove sono rimasto da allora. Houdini sarebbe orgoglioso di me. Guardando fuori tra le ruote posteriori, mi giro su un fianco e il gomito mi scivola sul grasso. Ormai Rogo dovrebbe avere portato Micah e O'Shea a metà strada verso Boca Raton. Ma non so cosa sia peggio. Il fatto che fossero di vedetta, o il fatto che ci siamo liberati di loro. Con Nico ancora in circolazione... Almeno, con l'FBI in giro, mi sento al sicuro. Quando sto per scivolare fuori, sento un leggero scricchiolio sulla mia sinistra. Sommesso... come uno sfregare di velluto... o il gemere della pelle quando viene piegata. Allungo il collo e guardo fuori da sotto la macchina, controllando il pavimento di cemento del garage. Il rumore è scomparso, ma qualcos'altro prende il suo posto. Lo conosco, dopo anni di sguardi da parte della gente. È ancora peggio nei luoghi pubblici - al cinema, o al supermercato - quando vogliono fare finta di non guardare. Non c'è un termine scientifico per definirlo. Ma lo provo tutti i giorni. Ormai, probabilmente, l'ho perfezionato. Quella sensazione in fondo alla nuca... la voce quasi telepatica che ti grida di girarti. Quella sensazione indescrivibile quando sai che ti stanno guardando. Dei passi echeggiano nel garage, seguiti dal ruggito di un altro motore. Appena in tempo. Le gomme stridono e i freni fischiano mentre la macchina risale la rampa a marcia indietro e si infila a metà nel posto lasciato vuoto dalla mia Toyota. Esco dal mio nascondiglio e mi trovo davanti a una fila di autoadesivi dei Grateful Dead, fermi a pochi centimetri dalla mia fronte. «Ehi, mago, ha chiamato David Copperfield... vuole sapere se puoi ancora tuffarti per lui giovedì prossimo», dice Lisbeth, sporgendosi dal finestrino. Molte persone riderebbero, e tanto basta perché mi sforzi di sorridere. Non ci crede neanche per un istante. I falsi sorrisi sono il pane quotidiano, per una giornalista di pettegolezzi. Mi rialzo e mi tolgo lo sporco dai vestiti. «Se ti fa sentire meglio, Wes, nascondersi e scivolare sotto le macchine era la parte più difficile del piano.» Aspetta che risponda con qualche battuta, come se fossi l'eroe di un film d'azione. «Non è affatto vero», ribatto.
Scuote la testa e mi studia attentamente. «È davvero contro la legge tentare di rallegrarti un po'.» Aspetta di nuovo un sorriso. E di nuovo glielo nego. «Sali in macchina, Wes. L'unico modo per cavarcela è muoverci.» Ha ragione. Salto su e sbatto la portiera, mentre Lisbeth mi tira un cellulare argentato con una coccinella adesiva sopra. «L'ho preso in prestito da un'amica che scrive di giardinaggio», spiega. «Adesso siamo irrintracciabili.» Rifiuto di festeggiare, ma apro il telefono e faccio il numero. «È una bella giornata nell'ufficio del presidente Manning. Come posso aiutarla?» risponde la centralinista. «Jana, sono Wes. Puoi passarmi Oren?» «Ciao, Wes. Certo, ti metto subito in comunicazione con Oren.» C'è un leggero clic, due squilli e poi... «Oren», risponde il mio collega. «Come andiamo?» «Stanno sistemandolo in questo momento», risponde. È più veloce di quello che pensavo. «Dovete solo prenderlo.» Annuisco a Lisbeth. Lei preme l'acceleratore. E ce ne andiamo. 56 «Ha trovato quello che cercava?» chiese la segretaria al Romano che lasciava l'ufficio di Bev e passava sulla moquette col sigillo presidenziale nell'atrio principale. «Sembra di sì», rispose il Romano, nascondendo alla vista la mano fasciata. «Anche se...» Il telefono squillò sul tavolo della reception. «Ops, mi scusi», disse mettendosi le cuffie. «È una bella giornata nell'ufficio del presidente Manning. Come posso aiutarla?» Il Romano si diresse alla porta. La telefonista lo salutò con un cenno, senza distogliere l'attenzione dall'interlocutore che aveva in cuffia. «Ciao, Wes. Certo, ti metto subito in comunicazione con Oren...» Il Romano si bloccò con la punta del piede sinistro che affondava nella testa dell'aquila del sigillo presidenziale. Un sottile sorriso gli tornò sul volto mentre si girava. La telefonista premette qualche tasto sul suo telefono e inviò la telefona-
ta al suo destinatario, poi alzò gli occhi sul visitatore. «Mi scusi... stava dicendo?» «Solo che ho bisogno di qualche indicazione», rispose il Romano additando a destra e a sinistra. «Mi può ripetere dov'è l'ufficio di Oren?» «Il secondo sulla sua destra. Lo vede?» Il Romano annuì. «Lei è un angelo.» Si fermò davanti all'ufficio e attese il clic con cui Oren riagganciava. Tamburellò deciso sulla porta, entrò e mostrò il badge. «Oren, giusto? Agente Roland Egen. Servizi segreti degli Stati Uniti.» «Qualcosa non va?» chiese Oren, già pronto ad alzarsi. Il Romano si strinse nelle spalle. «Possiamo parlare per qualche minuto?» 57 Davanti alle porte di cipresso mediterraneo che danno su un atrio a volta di marmo corallino, suono il campanello di madreperla e sorrido alla telecamera di sicurezza rivolta verso di noi. «Chi è?» chiede una delicata voce femminile attraverso il citofono, anche se ci ha già aperto tre minuti fa quando siamo arrivati davanti all'altissima siepe e al cancello di ferro battuto che protegge la residenza. «Mrs Sant, sono Wes Holloway», dico al citofono, «dell'ufficio del presidente Manning.» Con un clic, il portone viene aperto automaticamente. A tre metri da noi, una giovane donna con le sopracciglia perfettamente arcuate, le labbra scintillanti di rossetto e i fluenti capelli biondi che sembrano usciti dalla pubblicità di uno shampoo ci viene incontro nell'atrio. Indossa un maglione di cachemire color pesca con uno scollo a V sufficiente a rivelare perché sia una moglie trofeo: come i migliori trofei della città, ha un seno perfetto e vero, come il braccialetto di diamanti che le copre quasi tutto il polso. Ansioso di sottrarmi alla vista, entro. Lisbeth mi trattiene tirandomi per la camicia. Il protocollo dice che devo aspettare di essere invitato dentro. E quando ci sono di mezzo tanti soldi, il protocollo va rispettato. «Che piacere rivederla», dice Mrs Sant con il suo accento australiano, anche se non ci siamo mai visti. Come molte mogli di Palm Beach, non vuole correre rischi. Raggiunge finalmente l'ingresso, studia la mia faccia, poi guarda la mac-
china tutta rovinata di Lisbeth alle mie spalle. Un altro elemento del perfetto stile Palm Beach: prima il giudizio, poi le gentilezze. «Vedo che il presidente non è con lei», dice continuando a osservare la macchina. È solo quando ha finito con me che nota Lisbeth. «No, in realtà ci raggiungerà...» «Miss Dodson?» chiede emozionata afferrando la mano di Lisbeth come se le stesse facendo una proposta di matrimonio. «Ci siamo incontrate quella sera dagli Alsop... Oh, mi scusi», continua toccandosi il petto, «Cammie Sant, Victor è mio marito», spiega come se questa presentazione fosse più che sufficiente. «Che fortuna! Leggo la sua rubrica tutti i giorni! Entri, entri...» Non so perché sono sorpreso. Quando scrivi dell'alta società, una parte del tuo mestiere è farti coccolare dall'alta società. Ma anziché compiaciuta, Lisbeth appare intimidita, rallenta volutamente in modo da restare un buon passo dietro di me mentre percorriamo l'atrio. «Oh, e quell'articolo su Rose DuVall... ottimo. Sapevamo tutti che era stato suo marito a trascinare i bambini in tribunale.» Accanto a me, Lisbeth distoglie lo sguardo, evitando di guardarmi negli occhi. Prima penso che sia per modestia, ma dall'espressione del viso... da come si tocca ansiosamente le lentiggini sul collo... Riconosco la vergogna, quando la vedo. Soprattutto se deriva dal sentirsi al di sotto delle proprie aspettative. «Oh, vi prego, non badate al disordine», continua Cammie, guidandoci in un sontuoso salotto in stile mediterraneo e indicando i drappi bianchi posti su tutte le opere d'arte alle pareti. «La giuria è attesa per domani.» Due anni fa, i precedenti proprietari della spettacolare villa di quattordici stanze e mille metri quadri sono stati brutalmente assassinati dal loro unico figlio. Morti i genitori, la casa è stata venduta a Cammie e a suo marito, erede della fortuna del Tylenol, che, a quanto si dice, erano talmente desiderosi di tuffarsi nella scena sociale di P.B. che sono corsi ad acquistarla per ventisette milioni di dollari ancora prima che venissero cancellate le sagome di gesso dai vasti pavimenti di cipresso. «I drappi sono un'idea di Victor», spiega Cammie. «Sapete, la giuria deve esaminare l'antica scena del delitto e noi abbiamo pensato... trattandosi della collezione... che non è necessario che tutti sappiano quanti Francis Bacon abbiamo.» Alza le sopracciglia rivolta verso di noi. Io annuisco guardando i drappi bianchissimi. Accompagnando il presidente, sono stato in molte case di miliardari che avevano un Rembrandt o
un Monet o un Warhol alle pareti. Qualcuno ne aveva anche due o tre. Ma qui... mentre passiamo dal salotto alla biblioteca, alla sala da biliardo rossa sul retro, conto almeno trenta quadri coperti. «Ma certo. È naturale che vogliate un po' di riservatezza», dice Lisbeth, alzando finalmente gli occhi. Cammie si ferma davanti alle portefinestre che si aprono sul retro e si volta alla parola riservatezza. Una donna meno esperta la prenderebbe come una minaccia, ma non lo è, e Cammie è espertissima in tutto. Si tocca l'orlo del maglione color pesca, se lo tira sulla pancia piatta e sorride fra sé. È il sogno di tutte le donne della buona società: essere in credito con la regina del pettegolezzo locale. «Sentite, io ho da fare qualcosa, è stato un piacere conoscervi», dice Cammie scusandosi allegramente. «Tommaso è qui fuori, si prenderà cura di voi nel migliore dei modi.» Con uno scatto dell'antica maniglia di ottone, le portefinestre si aprono su un vialetto di pietra che ci porta oltre la piscina di acqua salata, attraverso un lussuoso giardino all'italiana, in un frutteto pieno dei dolci profumi dei pompelmi, dei mandarini e dei lime persiani. «Sono meschina se odio il suo sedere così sodo e perfetto?» chiede Lisbeth mentre superiamo un albero di lime. «O dovrei accontentarmi di disprezzarla per il semplice fatto che adesso sono in debito con lei?» «Se vogliamo essere precisi, siamo in debito due volte», le dico accennando alla nostra destinazione. Al di là del frutteto, al di là dell'anfiteatro di pietra, al di là anche del prato meticolosamente curato e grande come un campo di calcio che scende fino alla riva, c'è un megayacht nuovo di zecca, color crema e nero, lungo cinquanta metri, con tre ponti, torreggiante su tutte le altre barche che si dondolano sulle tranquille correnti del lago Worth. Pequod, c'è scritto a lettere d'oro a poppa. È solo quando ci siamo vicini che apprezzo le dimensioni dello yacht: da poppa a prua, dev'essere lungo come tre tir, uno in fila all'altro. «Sei sicuro che sia abbastanza veloce?» chiede Lisbeth, alzando la testa e schermandosi gli occhi dal sole. Non parla della barca. Dobbiamo fare alla svelta, non abbiamo tempo per un viaggio di piacere. E non possiamo rischiare di andare all'aeroporto locale e di essere identificati grazie ai nostri documenti e ai biglietti aerei. Faccio due passi indietro per vedere meglio il nostro obiettivo. Si trova sul ponte posteriore, con le sue tre pale immobili leggermente piegate all'in-
giù. In macchina ci vorrebbero più di quattro ore. Un idrovolante ci metterebbe un'ora e quaranta minuti. Ma un elicottero francese, con due motori, senza code, taxi o check-in, essendo parcheggiato su uno yacht... Ci arriveremo facilmente in un'ora. Abbiamo tutto il tempo di prendere quello che ci serve e tornare a casa di Manning entro sera. «È splendido, eh?» dice un uomo con un forte accento spagnolo. Tommaso sporge la testa dalla murata e ci guarda dal ponte. «Il presidente si unirà a noi, vero?» «No», dico, guardando in su. «Ci raggiunge là.» Tommaso si stringe nelle spalle senza badarci. Indossa la divisa da pilota, un blazer blu e una camicia a strisce bianche e azzurre, il che significa che è abituato al fatto che riccastri viziati cambino idea all'ultimo momento. «Andiamo», dice indicando una scaletta metallica che conduce al ponte principale. In pochi secondi siamo a bordo. Per questo ho telefonato a Oren, prima. Quando siamo andati in Arabia Saudita, Oren ha trovato uno sceicco tutto contento di prestare al presidente il suo jet personale. Quando siamo andati in vacanza nel North Carolina, ha scoperto un erede della famiglia del Kentucky Fried Chicken che ha fatto lo stesso. Non è snobismo. È il lavoro di Oren. In quanto responsabile dei viaggi, il suo compito è prendere nota di tutte le persone che dicono la frase più spesso ripetuta agli ex presidenti: «Mi faccia sapere se ha bisogno di qualcosa.» Di solito, quando viaggia, il presidente ha bisogno soprattutto di privacy. Oggi la stessa cosa capita a me. Naturalmente, Oren ha esitato. Ma quando gli ho detto che facevo fatica a respirare... che la fuga di Nico... che il semplice fatto di vederlo nei notiziari... e il dolore al petto... «Per favore, Oren, sai che non chiedo mai niente. Ho solo bisogno di andarmene... il più in fretta possibile...» Altro che la presidenza. Le carte migliori da giocare sono la pietà e il senso di colpa. Una telefonata più tardi, i donatori e New Best Friends Victor e Cammie Sant erano onorati, semplicemente onorati, di offrire il loro elicottero personale al presidente e al suo staff. Nessuna domanda, nessun piano di volo da dichiarare, nessuna possibilità di essere rintracciati. «Benvenuti sul Pequod», dice Tommaso quando arriviamo in cima alla scaletta metallica e saliamo a bordo dello yacht. Sul ponte trasformato in pista d'atterraggio gira una maniglia e apre la portiera dell'elicottero nero e
crema come la barca. «Pronti a cavalcare la balena bianca?» «Torre di controllo di Palm Beach, elicottero due-sette-nove-cinque Juliett al decollo», dice Tommaso nella radio. «Sette-nove-cinque», risponde tranquillamente una voce, «decollate a vostro rischio.» Lisbeth mi guarda sentendo le parole attraverso il microfono, poi bussa sullo schermo di plexiglas che separa la nostra cabina - con le sue quattro poltroncine di pelle - dai due seggiolini accanto al pilota. «A nostro rischio?» chiede a Tommaso, premendo il bottone dell'interfono. «Tutto a posto, miss. È il regolamento», spiega lui premendo un pulsante per avviare il primo motore. Dietro di noi, sulla coda dell'elicottero, un tubo di scappamento tossicchia e si anima. Sussulto al rumore, che mi sembra più forte di un colpo di pistola. Pochi secondi dopo, Tommaso preme un altro pulsante e avvia il secondo motore. Un secondo tubo di scappamento si mette a borbottare e io sussulto di nuovo e mi guardo alle spalle, pur sapendo che non c'è nessuno. Continuo a sbattere le palpebre. «Respira», dice Lisbeth, allungando una mano e afferrandomi il polso. Tutto l'elicottero si mette a vibrare mentre le pale incominciano a ruotare. Vrrrrrr... rrr... rrr... come una macchina che faccia il giro del circuito. «Fai finta che sia il Marine One», aggiunge riferendosi all'elicottero che usavamo alla Casa Bianca. Mi giro verso l'ampio finestrino alla mia destra e trattengo il fiato. Non serve a niente. Un'ondata di nausea mi prende allo stomaco. Vrrrrrr... rrr... rrr... le pale acquistano velocità. Mi avvicino al finestrino e appoggio la fronte al vetro. Le pale ruotano talmente veloci da essere invisibili sopra di noi. «Wes, te lo giuro, non c'è nessuno, là fuori. Siamo al sicuro.» Pensa che stia guardando lo splendido terreno verso la villa mediterranea dei Sant. O che scruti su ogni albero, cespuglio e statua pseudogreca per vedere se qualcuno ci segue. Ma mentre l'elicottero si inclina in avanti e si alza dalla pista di atterraggio, l'unica cosa che vedo è il mio riflesso nel finestrino. «E volevi startene nascosto tutto il giorno», mi ricorda Lisbeth, nel tentativo di rassicurarmi mentre saliamo nel cielo azzurro e lo yacht dei Sant rimpicciolisce sotto di noi. «Ciao, ciao, riccastri con vite perfette che mi
fate sentire inadeguata e grassa, andiamo a metterci nei guai!» Io resto zitto e tengo la fronte appoggiata al vetro. Alla punta sabbiosa della baia di Palm Beach, dove il lago Worth sfocia nell'Oceano Atlantico, l'acqua verdeazzurra si distende fino all'orizzonte, con colori più cangianti della coda di un pavone. La vedo appena. «Forza, Wes, ti meriti un sorriso», continua Lisbeth, con voce agitata. «Siamo in vantaggio sul Romano, abbiamo degli indizi sul cruciverba, Rogo e Dreidel stanno andando a scoprire qualcosa su Boyle e noi, grazie a un tuo colpo di genio, stiamo volando su un uccellino da tre milioni di dollari verso la persona che si trovava nella posizione migliore per dirci quello che è successo davvero quel giorno. Non ti dico di ordinare i coriandoli e organizzare la parata della vittoria, ma certo non puoi startene lì così abbattuto.» Con la testa premuta sul finestrino, chiudo gli occhi e ripenso al video. Non capirà mai. «Senti, lo so che è stata dura guardare quel filmato...» Mi appoggio ancora più forte. «...e vederti senza cicatrici...» Al contrario di molti, Lisbeth non rifugge dall'argomento. Sento che mi guarda senza troppa insistenza. L'elicottero si mette in posizione e si dirige a sud lungo la spiaggia dorata, poi svolta bruscamente a destra e penetra nell'entroterra, verso sud-ovest, sulle colline verdi del campo di golf. A centocinquanta metri di altezza, siamo più o meno al livello di un aereo che si prepari all'atterraggio. I carrelli da golf si muovono come formiche bianche sull'erba, mentre le buche sabbiose punteggiano il panorama come decine di cassonetti per bambini. In pochi minuti, le case sul lungomare e gli splendidi yacht di Palm Beach lasciano il posto alle umide paludi piene di zanzare di Everglades. Il cambiamento è maledettamente rapido. «Voglio dire», continua Lisbeth, «che qualsiasi cosa tu abbia passato... sei sempre tu.» Guardo fuori del finestrino e vedo gli alti ciuffi di canne che spuntano oscillando dalle acque marroni di Everglades. «Non si tratta della mia faccia», sbotto. Ignorando la mia immagine e tirandomi leggermente indietro, uso il riflesso sul finestrino per guardarmi alle spalle. Lisbeth non si muove, continua a osservarmi attentamente, senza esitare a studiarmi il viso. «Hai visto il filmato», continuo. «Come sono uscito dalla limousine... salutando la folla... l'atteggiamento sicuro delle mie spalle...»
«Stavi meglio. Sembravi Dreidel.» «Ma è proprio questo il punto. Quando vedo quel filmato, quando vedo il vecchio Wes... non mi manca solo la faccia. Mi manca la mia vecchia vita. È questo che mi hanno portato via, Lisbeth. Sul video si vede benissimo: un ragazzo di ventitré anni che cammina come solo un ragazzo di ventitré anni può fare. Allora, quando pensavo al mio futuro, mi vedevo dalla Casa Bianca a... ad altezze tali da non riuscire neanche a immaginarle. Tutto era possibile, accidenti. È questa la promessa, no? Corro e corro in questa gara, e poi, un giorno, per una stupida pallottola...», mi trema il mento, ma dopo tanti anni so come stringere i denti per fermarlo, «...scopro che non arriverò mai neanche... a metà di quella strada.» Il tremito è cessato. Non che sia una grande vittoria. «Ecco la mia vita. Tutto a metà.» Nel riflesso sul finestrino, Lisbeth si mette un ricciolo rosso dietro l'orecchio. «Puoi avere di più, Wes.» «Perché, perché porto al presidente le sue Diet Coke e so quali dei suoi amici gli sono antipatici? Rogo me lo dice da anni, e non gli ho mai dato retta. Doveva essere un trampolino di lancio ed è diventata la mia meta. Ti rendi conto di quanto bisogna essere patetici per lasciare che ti succeda una cosa del genere?» «Probabilmente non è molto diverso dall'accontentarsi dei pettegolezzi locali, quando il sogno era di sfidare il mondo con temi rischiosi e inchieste originali.» Per la prima volta da quando siamo partiti, mi giro e guardo Lisbeth. «È una cosa diversa», dico. «No», ribatte. «Hai visto il mio ufficio. Tutte quelle lettere sulle pareti del mio cubicolo...» «Quelle a tuo padre.» «Non a mio padre, ma su di lui. Quelle lettere sono prove, Wes. Prove che puoi usare il tuo lavoro per migliorare la vita a qualcuno. Prove che il giornalismo è potere. E che cosa faccio io con questo potere? Passo le giornate a cercare notizie sui divorzi locali, sui litigi al country club e sulle ripicche di chi ha avuto il tavolo meno in vista da Morton. Quando ho accettato questo lavoro, mi sono detta che l'avrei fatto per un anno o due, tanto per mettere via qualcosa. Sono passati sette anni, Wes, e sai qual è la cosa peggiore?» È terribilmente seria, adesso. «Che hai rinunciato al tuo sogno?» Scuote la testa. «Che potrei andarmene quando voglio.»
58 «E i tabulati telefonici?» chiese O'Shea seduto al posto del passeggero mentre Micah guidava in mezzo al traffico dell'ora di pranzo che bloccava la I-95. «Buco nell'acqua» rispose Paul Kessiminan al telefono, con un pesante accento di Chicago. Studente di matematica applicata, espulso dall'accademia navale USA, Paul non era uno scienziato. Antico collaboratore del settore inchieste tecnologiche dell'FBI, era un genio. E raramente sbagliava. «Il ragazzo non ha fatto una sola telefonata da ieri notte.» «Carte di credito?» «Ho controllato tutto: carte, bancomat, prenotazioni aeree, perfino la sua tessera di Blockbuster. Chiunque sia, questo Wes non è un idiota. È più silenzioso di un topolino.» «Allora rintraccia il telefono», disse O'Shea mentre la Chevrolet si fermava di colpo a pochi centimetri da un camion nero. Batté il pugno sul cruscotto e indicò la corsia più a sinistra dell'autostrada, accennando a Micah di muoversi. «Il segnale dovrebbe essere captato da qualche antenna delle vicinanze, mentre parliamo.» «Davvero? Mi ero completamente dimenticato del satellitare, per questo andava tutto così bene», disse Paul. O'Shea non rise. «Non prendermi per il culo, Paul.» «Ehi, ehi, piano con le parole... Non mi avevi detto che era una cosa tanto importante.» «Be', lo è. Si trova o no?» «Si dovrebbe», rispose Paul mentre O'Shea lo sentiva battere sui tasti attraverso il telefono. «Ma se è un telefono dell'ufficio di Manning - e qui pare che lo sia - i loro satellitari sono tutti schermati per garantire all'ex presidente un po' di privacy.» «Quindi non puoi rintracciarlo?» «Ma certo che posso rintracciarlo. Pensi davvero che lasciamo andare in giro questa gente senza protezione? Purtroppo però non trovo niente di rintracciabile.» «Perché? Lo tiene spento?» «Anche da spento, un telefono cellulare dovrebbe continuare a trasmettere», spiegò Paul mentre Micah si infilava nella corsia centrale. «Il che significa che è in volo, sotto terra o comunque fuori tiro.» «È in volo», disse O'Shea a Micah indicando l'uscita per il Palm Beach
Airport. «Usciamo qui!» Senza esitare, Micah sterzò e la Chevrolet blu attraversò due corsie e si diresse verso l'uscita. I clacson rabbiosi delle altre macchine svanirono dietro di loro. «Forse Wes sta usando il telefono di qualcun altro», disse Micah, tenendo gli occhi sulla strada. «Chiedigli di controllare le chiamate di Dreidel.» «Paul, fammi un favore verifica ed esamina gli altri tre nomi: i due ragazzi e la donna», disse O'Shea mentre scendevano lungo la rampa. «Ti richiamo fra un minuto.» «Che cosa fai?» chiese Micah mentre O'Shea interrompeva la comunicazione. «Abbiamo bisogno di queste informazioni subito.» «Per questo cerco di trovarle», disse O'Shea componendo un nuovo numero. «Se Wes non usa la carta di credito o i suoi documenti, non può prendere un aereo senza l'aiuto di qualche pezzo grosso.» «È una bella giornata nell'ufficio del presidente Manning», rispose la centralinista. «Come posso aiutarla?» «Salve, sono l'agente O'Shea dell'FBI. Stiamo facendo delle indagini sul caso di Nico. Posso parlare con la persona responsabile dei viaggi del presidente? Dobbiamo assicurarci che sia a conoscenza di tutte le precauzioni che abbiamo deciso di adottare con i Servizi segreti.» «Certo», rispose la ragazza. «Le passo subito Oren.» Ci fu un breve clic, seguito da due squilli acuti. «Sono Oren.» «Oren, sono l'agente O'Shea, del...» «Wow, sto diventando famoso. Due in un solo giorno...» lo interruppe Oren. «Prego?» «Lei è dei Servizi segreti, no? Ho appena parlato col suo collega, se n'è andato un minuto fa.» «Ma certo», disse O'Shea senza la minima esitazione. «Quindi lei ha parlato con l'agente...?» «Egen. Roland Egen? È corretto?» «Proprio lui», rispose O'Shea stringendo il telefonino nel pugno. «Viso pallido e capelli neri, giusto?» Micah si girò sentendo la descrizione, il mento gli finì quasi sul volante. «Aspetta, è...?» O'Shea alzò una mano per bloccarlo. «E gli ha detto dove si trova Wes?» «Certo. Anche se l'unica cosa che sapevo è che sta volando a Key
West», spiegò Oren. «Apprezziamo molto il fatto che vi preoccupiate per lui. Sa, è sempre stato un po', come dire, teso, dopo l'incidente, ma con l'improvvisa fuga di Nico - glielo si sentiva nella voce - era davvero a pezzi.» «Chi può dargli torto?» disse O'Shea, ansioso di troncare. «Oren, è stato preziosissimo. Grazie per il suo aiuto.» O'Shea chiuse il telefonino e Micah lo guardò in faccia. «Bastar...» «Dimmi che il Romano era lì nel suo ufficio», disse Micah. «Basta», replicò O'Shea. «O abbiamo appena vinto la lotteria, o stiamo per finire su una mina ancora più grossa.» Micah annuì, premette l'acceleratore e accennò con le sopracciglia a un cartello che offriva voli giornalieri per Key West. O'Shea stava già facendo il numero. «Salve, vorrei noleggiare uno dei vostri idrovolanti», disse. «Pensa che sia possibile partire nel giro di cinque minuti?» 59 «Sei sicuro che non abbia chiamato?» chiese Dreidel seduto nella macchina bloccata in mezzo al traffico che riempiva regolarmente la US-1 di Miami. «Fammi un piacere, controlla il tuo telefono.» Rogo tamburellò con le dita sul volante e non si diede la pena di controllare. «Non ha chiamato.» «Ma se è successo qualcosa... se non è riuscito ad arrivare a Key West...» «Wes è in gamba. Sa che se chiama lo rintracciano. Se ci fosse qualche problema lo sapremmo.» «Potrebbe esserci un problema e noi non lo sappiamo», insistette Dreidel. «Accidenti, perché non ci siamo informati: come si chiama il tizio dell'elicottero... da dove partono... non sappiamo neanche dove va, a Key West...» Prima che Dreidel potesse finire il pensiero, il suo cellulare si mise a vibrare. Dreidel lo tirò fuori di tasca, lo aprì ansiosamente e controllò il numero. Rogo gettò un'occhiata e riuscì a vedere il prefisso 202: Washington, D.C. «Pronto?» disse Dreidel. La bocca gli si contorse subito in una smorfia. «Senti, sono impegnato. Possiamo parlarne più tardi?... Sì, d'accordo... d'accordo... Ciao.» Si rivolse a Rogo mentre chiudeva il telefono: «Mia
moglie.» «Con un numero di Washington?» chiese Rogo smettendo di tamburellare. «Credevo che stessi a Chicago.» «È il mio vecchio cellulare. Abbiamo tenuto il numero del D.C.», spiegò Dreidel. La macchina accelerò, poi rallentò fino a fermarsi e rimase immobile nel traffico. Rogo non disse una parola. «Cos'è, pensi che ti stia mentendo?» sbottò Dreidel. «Non ho detto niente. Basta con i processi alle intenzioni.» Dreidel si agitò sul seggiolino, si guardò alle spalle e controllò la corsia accanto alla loro. «È libero sulla destra.» Rogo si aggrappò al volante e non si mosse. «Rogo, hai sentito quello...?» «Il traffico è già abbastanza brutto. Non dirmi come devo guidare.» Nella corsia centrale, la macchina superò lentamente la causa dell'ingorgo: una gru con i lampeggianti che caricava una Cadillac scura sulla corsia di sinistra. «Non sono un imbecille, Rogo. So quello che pensi di me.» «Dreidel...» «Te lo leggo sulla faccia. E quando ci siamo separati, sei stato prontissimo a impedirmi di andare con Wes. Non dirmi che mi sbaglio. Lascia che ti chiarisca come stanno le cose: non gli farei mai del male. Mai.» «Ne sono sicuro», disse Rogo. «Non sarò il migliore dei mariti, va bene. Ma sono un ottimo amico. Non dimenticare che sono stato io a procurare a Wes il suo lavoro.» «La cosa non mi era sfuggita.» «Ah, è una colpa anche questa, adesso?» chiese Dreidel. «Un geniale piano per metterlo al mio posto in modo che una pallottola vagante potesse colpirlo in faccia?» «Non ho detto questo.» «E allora parla chiaro, una buona volta, e smettila di trattare Wes come una bambola di porcellana fragile e bisognosa di protezione. Io so perché lo fai, Rogo. Conosco un sacco di falliti che hanno bisogno di sentirsi necessari.» «E io conosco un sacco di falliti che mollano le persone nel momento in cui non gli servono più. Smettila di riscrivere la storia. Ero là quando gli hanno tolto le bende... e quando il giornalista del "Times" ha sbattuto in prima pagina la sua faccia rovinata... e quando finalmente Wes ha deciso
di guardarsi allo specchio e ha detto che avrebbe voluto morire lui, al posto di Boyle. Ma il fatto è questo, Dreidel, per otto anni, Wes è stato effettivamente morto. Tu e gli altri della banda della Casa Bianca siete andati avanti con i vostri show alla televisione, i vostri articoli sui giornali, ma Wes non ha mai accettato la sua nuova vita. Adesso che ha l'occasione di farlo, non permetterò che qualcuno gliela porti via.» «Splendido discorso, Rogo, ma fammi un piacere: se non ti fidi di me, abbi il coraggio di dirlo e fammi scendere qui.» «Se non mi fidassi di te, Dreidel, ti avrei lasciato a Palm Beach.» «Non è vero», lo provocò Dreidel. «Mi hai portato qui perché vuoi vedere i documenti di Boyle e sai che sono l'unico che può procurarteli.» Rogo mise la freccia e si portò sulla corsia di destra. Guardò il suo passeggero e rimase in silenzio. Dreidel annuì fra sé, mordendosi l'interno del labbro inferiore. «'Fanculo anche tu, Rogo.» Tamburellando sul volante, Rogo svoltò bruscamente sulla Stanford Drive e si diresse verso un cancello custodito e un prato che costituivano l'ingresso principale del campus. Sulla destra, un cartello verde scuro e oro incastonato nel muro di cemento diceva: BENVENUTI ALL'UNIVERSITÀ DI MIAMI SEDE DELLA PRESIDENTIAL LIBRARY DI LELAND F. MANNING I due non si dissero una sola parola finché non furono entrati. 60 Jacksonville, Florida Nico, forse dovremmo fermarci. «Non ce n'è bisogno.» Ma se non ti riposi... «Mi sono riposato per otto anni, Edmund. Questa è una missione», disse Nico, seduto tanto avanti che il petto gli toccava il volante del camion. Alle sue spalle, sul seggiolino, c'era appallottolata la giacca militare che aveva rubato all'Irish Pub. Con il sole di mezzogiorno della Florida che gli ardeva sulla testa, l'inverno sembrava lontano. Non aveva bisogno della
giacca. Né del sangue di Edmund, che l'aveva macchiata sul petto. Vuoi dire che non sei stanco? Nico guardò il corpo senza vita di Edmund afflosciato sul seggiolino accanto al suo. Il suo amico lo conosceva fin troppo bene. Sono quasi dieci ore che guidi, Nico. È giusto fare una pausa, anzi, è necessario, figliolo. Soprattutto se vogliamo non farci notare. Nico sapeva dove sarebbe andato a parare. «Pensi ancora che...?» Nico, per quanto tu sia un guidatore prudente, se porti un camion da quaranta tonnellate nelle strade del centro di Palm Beach, qualcuno lo noterà. Nico guardò il rosario di legno che pendeva oscillando dallo specchietto retrovisore e capì che Edmund aveva ragione. Finora avevano avuto fortuna, ma se la polizia li avesse fermati... se li avesse arrestati... No, a questo punto, la causa era troppo importante. Ed erano così vicini... a Wes... a Boyle... a realizzare la volontà di Dio e a redimere sua madre... No, non era il momento di rischiare. «Dimmi qual è la cosa migliore da fare, secondo te», disse guardando Edmund. Per quanto sembri difficile, dobbiamo abbandonare il camion e cercare qualcosa che si noti meno in mezzo al traffico. «Va bene, ma come facciamo?» Come facciamo sempre, Nico... Mentre il camion prendeva una buca nella strada, la testa di Edmund si rialzò verso il poggiatesta, rivelando lo squarcio nero e rosso sul collo. Guarda fuori del finestrino e cerca l'occasione giusta. Nico seguì lo sguardo di Edmund attraverso il parabrezza e osservò l'asfalto dell'autostrada finché non scorse in lontananza quello che il suo amico gli indicava. Appena lo vide, un ampio sorriso gli sollevò le guance. «Pensi che dovremmo...?» Ma certo che dovremmo, Nico. Perché, se no, Dio li avrebbe messi li? Annuendo fra sé, Nico premette il freno. Il camion rombò e finalmente si arrestò vibrando e stridendo, proprio dietro a una Pontiac rosso scuro ferma sulla corsia di emergenza. Al posto del passeggero, una donna con i capelli neri corti guardava il suo ragazzo che tentava di cambiare una gomma a terra. «Avete bisogno di aiuto?» chiese Nico scendendo dalla cabina. «Lei è del soccorso stradale?» chiese la donna. «No. Ma sembrava che aveste bisogno di aiuto e abbiamo pensato di in-
tervenire.» «In realtà, penso di avere finito», disse il ragazzo, stringendo l'ultimo bullone.» «Wow, un buon samaritano», scherzò la donna. «Bello», disse Nico avvicinandosi troppo alla donna, «ma preferisco l'espressione angelo custode.» La donna arretrò. Ma non fu abbastanza svelta. 61 Key West, Florida «Eccoci arrivati», dice il tassista mentre la sua macchina rosa si ferma. Ha macchie di crema solare bianca sul naso e un vecchio asciugamano da spiaggia con Shrek appoggiato sul sedile. «327 di William Street.» «Sta scherzando? Avremo fatto sì e no tre isolati...» grida Lisbeth da dietro. «Perché non ci ha detto che potevamo andare a piedi?» «Siete saliti sul taxi», dice l'autista, per nulla turbato, alzando il volume della sua radio. Tipico di Key West, splende sempre il sole. «Sono due dollari», aggiunge, premendo un pulsante sul tassametro. «Non dovremmo darle neanche...» «Grazie», intervengo buttando tre dollari sul sedile davanti. Quando il nostro elicottero è atterrato su un altro yacht privato nel porticciolo vecchio di Key West, abbiamo deciso che il resto del viaggio doveva essere sottotono e irrintracciabile. Il tassista studia la mia faccia nello specchietto e io capisco che abbiamo già commesso un errore. Per fortuna, abbiamo ancora qualche asso nella manica. Spalanco la portiera e saltiamo fuori. Guardiamo il taxi che si allontana sulla strada elegante, ma stretta, del quartiere residenziale. Siamo davanti a un modesto cottage a due piani, il numero 327 di William Street, ma quando il taxi svolta l'angolo in fondo, attraversiamo la strada e seguiamo i numeri delle case fino alla nostra vera destinazione: il cottage color pesca con le imposte bianche e le decorazioni troppo vistose, al numero 324. Lisbeth afferra il corrimano di legno, che si inclina leggermente sotto il suo peso, e sale sul portico rovinato come se corresse a casa per prendere della limonata. Ma prima che raggiunga la porta d'ingresso, squilla il suo telefono, o meglio, il telefono della sua collega, dato che se li sono scambiati al giornale. «Lasciami controllare», dice Lisbeth tirando fuori il tele-
fono dalla borsa. Ha detto alla sua amica di chiamare solo se si tratta di vita o di morte. Sbircio sopra la sua spalla mentre controlla il numero. È quello dell'ufficio di Lisbeth. Si tratta di morte. «Eve?» risponde Lisbeth. «Oh, grazie a Dio», dice la sua collega, che si occupa di giardinaggio, a voce tanto alta che sento senza fatica. «Aspetta, te la passo subito.» «Eh? Mi passi chi?» «La tua telefonata. Lo so che hai detto di non chiamarti, ma quando ho visto chi era... insomma, non si dice di no a Lenore Manning.» «Aspetta... la First Lady?» «Ha chiesto di te. Dice che vuole parlarti dell'articolo uscito stamattina.» Annuisco per farle capire che va bene e con un click Eve annuncia: «Dottoressa Manning, le passo Lisbeth.» «Buongiorno», attacca la First Lady, prima come al solito. «B... buongiorno, dottoressa Manning.» «Oh, santo cielo... sembra occupata», continua la First Lady, intuitiva più che mai. «Non voglio farle perdere tempo, volevo solo ringraziarla per l'accenno alla fibrosi cistica. È stato molto gentile da parte sua.» Lisbeth è senza parole, mentre la ascolta. Ma per Lenore Manning è un comportamento standard. Faceva lo stesso alla Casa Bianca, ogni volta che veniva citata, nel bene o nel male, telefonava o mandava un biglietto di ringraziamento al giornalista. Non è gentilezza. È un trucco usato da quasi tutti i presidenti. Se il giornalista sa che dall'altra parte c'è una persona, diventa più difficile farla a pezzi. «No, sono felice di contribuire», dice Lisbeth, sinceramente. «Chiedile se Manning è andato in ufficio», le sussurro all'orecchio. «Signora, posso...?» «La lascio libera», dice la First Lady, con una mossa talmente aggraziata che Lisbeth quasi non si accorge di non avere potuto neppure formulare la domanda. Con un click, la dottoressa Manning è sparita. Lisbeth si gira verso di me e chiude il telefono. «Wow, non perde un colpo, eh?» «È solo contenta che tu l'abbia definita un'icona.» «Davvero dà importanza a...?» «Lascia che ti spieghi una cosa: è in giornate come oggi, quando tutti parlano della fuga di Nico e mandano in onda vecchi filmati dell'amministrazione Manning, che la Casa Bianca le manca più che mai.» Lisbeth torna di corsa sul portico scolorito dal sole. Sulla porta, un gran-
chio di legno dipinto sostiene un cartello con la scritta «ABBIAMO SEMPRE LA LUNA DI TRAVERSO». Bussa sulla porta e suona il campanello. «È aperto!» grida da dentro una voce roca da fumatore, che mi risveglia una marea di ricordi. Mi allungo oltre Lisbeth e strattono la porta. Dentro, l'odore acido delle sostanze chimiche mi penetra nelle narici. «Scusate, ho dato aria alla camera oscura», annuncia un uomo piccolo e sovrappeso, con la barba grigia e i radi capelli dello stesso colore pettinati all'indietro. Si asciuga le mani con un minuscolo strofinaccio, si rimbocca le maniche della camicia tutta stropicciata e si avvicina troppo a Lisbeth. È il solito problema dei fotografi della Casa Bianca, non mantengono le distanze. «Tu non sei Wes», dice a Lisbeth senza traccia di ironia. «Tu devi essere Kenny», risponde lei stringendogli la mano e facendo un passo indietro. «Sono Lisbeth, della Presidential Library.» Non la ascolta neppure. È troppo concentrato su di me, che sto ancora entrando. Mai distogliere lo sguardo dal soggetto. «Il Reuccio», dice tirando fuori il mio vecchio soprannome. «Popeye il Fotografo», dico io, rimandandogli il suo. Si tocca col dito le zampe di gallina dell'occhio sinistro. Dopo anni che guarda nell'obiettivo con l'occhio destro, l'altro resta sempre un po' più chiuso. «Forza, Brutus, dammi un bacio», scherza, abbracciandomi come un vecchio compagno di gioventù, una stretta profonda, che porta con sé un'ondata di ricordi. «Sembri in gran forma», dice convinto. Durante i viaggi sull'Air Force One, Kenny giocava a poker coi giornalisti in fondo all'aereo. Quando entro, sta già chiedendosi dov'è il bluff. «Non riesci proprio a staccartene, eh?» dice seguendo il mio sguardo sul «New York Times» posato sul tavolo della cucina in stile Arts and Crafts. In prima pagina c'è un'enorme foto dell'attuale presidente Ted Hartson, in piedi su un palco, con le mani appoggiate sotto il microfono. «Chi l'ha fatta? Kahan?» chiedo. «Braccia rigide... nessun movimento... nessuna reazione... certo che è Kahan. Il presidente sembra un cadavere.» Nel mondo dei fotografi della Casa Bianca, l'unica foto in movimento si ha quando il presidente fa qualcosa: un gesto con la mano, un'alzata di sopracciglia. È allora che il plotone d'esecuzione dei fotografi preme il grilletto. Se perdi quell'istante, hai perso la foto.
Kenny la perdeva raramente. Soprattutto quando era importante. Ma dopo trentacinque anni di corse da città a città e da paese a paese, si accorse che quel mestiere, se non era adatto a un giovane, non lo era neanche a un vecchio. Kenny non se la prese. Anche i cavalli migliori vanno in pensione. «Come sono gli anni del tramonto, allora?» scherzo. È solo intorno ai sessanta. Kenny strizza l'occhio e ci fa entrare in soggiorno, che è senza dubbio più accogliente del suo studio. La stanza, con un tavolino di abete al centro circondato da quattro poltrone in arte povera, è rivestita fin quasi al soffitto da decine di fotografie in bianco e nero, tutte con passepartout bianchi e cornici nere, come in un museo. Mi avvicino e sono sorpreso nel notare che, mentre la maggior parte delle foto rivelano l'ingenuo stile giornalistico per cui i fotografi della Casa Bianca sono famosi, i soggetti sono giovani spose che tirano bouquet e sposi eleganti ai quali vengono offerti bocconi di torta. «Fai i matrimoni?» chiedo. «Sei presidenti diversi, quarantadue re, innumerevoli ambasciatori... e la festa di nozze di Miriam Mendelsohn, compreso il brindisi con i suoi vecchi compagni di classe», dice Kenny, pieno di entusiasmo e senza la minima traccia di vergogna. «Parli seriamente?» «Non ridere, Wes. Lavoro due giorni al mese e per il resto passo la settimana in barca. Devo solo dargli l'illusione di essere come i Kennedy.» «Sono davvero belle», dice Lisbeth esaminando le foto. «Devono esserlo», dice Kenny, raddrizzando una delle cornici. «Ci metto l'anima. Insomma, la vita non è solo alla Casa Bianca, no?» Istintivamente, annuisco. Anche Lisbeth allunga una mano e raddrizza una delle cornici. Alle sue spalle, su un tavolo vicino, scorgo una delle foto più famose che Kenny ha fatto a Manning: uno scatto in bianco e nero col presidente nella cucina della Casa Bianca, mentre si sistema la cravatta nel riflesso di una caraffa d'argento, poco prima di una cena ufficiale. Tornando alla parete piena di spose, scopro una bellezza bionda che si guarda dietro le spalle e ammira la sua acconciatura alla francese nello specchio. La nuova foto è altrettanto bella, forse di più. «Come sta il Martin Pescatore?» chiede Kenny, riferendosi a Manning. «È ancora arrabbiato con me per la foto?» «Non è arrabbiato con te, Popeye.»
«Davvero? Gli hai detto che venivi qui?» «Sei matto?» dico. «Non sai quanto è arrabbiato con te?» Kenny ride, ben consapevole del suo status in casa Manning. «Certe leggi sono immutabili», dice, prendendo all'estremità del tavolo uno spesso faldone con le foto di Manning. «Le macchine usate bianche si vendono meglio... i locali porno chiudono solo in caso di incendio... e il presidente Leland Manning non perdonerà mai l'uomo che gli ha fatto questo...» Apre il faldone e rivela la copia originale, protetta nella plastica, della foto più famosa scattata a un presidente dopo quella che accompagnava il titolo Dewey batte Truman: il Leone Codardo, la foto in bianco e nero di Manning che grida durante l'attentato, facendosi apparentemente scudo con la moglie del direttore della NASCAR. «Dio, mi ricordo quando l'ho vista in prima pagina il giorno dopo», dice Lisbeth, sedendosi su una poltrona mentre Kenny le porge il faldone. «Questa... è una foto storica...» «Su che giornale?» chiede Kenny. «"Palm Beach Post"», risponde Lisbeth alzando gli occhi. «Sì, era la mia. Qualche altro migliaio di dollari che non vedrò mai.» Leggo la perplessità sul volto di Lisbeth e le spiego: «Siccome Kenny lavorava per la AP, a quell'epoca, sono loro che hanno fatto i soldi vendendo i diritti di riproduzione.» «Centinaia di giornali e quarantanove copertine di riviste, tutte per pochi spiccioli», dice Kenny. «E intanto il ragazzino che la NASCAR aveva preso per fare qualche foto per il suo sito web... Era un freelance, beato lui, e ha guadagnato 800.000 dollari, ottocentomila dollari! E aveva mancato la foto!» «Sì, ma chi ha preso il Pulitzer per tutta la sequenza?» osservo. «Pulitzer? È stato un premio di consolazione», dichiara Kenny. «Non ho scattato fotografie durante una sparatoria. Mi sono fatto prendere dal panico e casualmente ho premuto il pulsante. Manning si vede solo in tre delle foto.» Si rivolge a Lisbeth e dice: «È successo così alla svelta che se gettavi un'occhiata da un'altra parte ti eri perso tutto prima di tornare a guardare lì.» «Mi sembra che tu non abbia perso proprio niente», dice lei, girando la prima pagina del libro e guardando i provini a contatto che occupano le due pagine successive, una sessantina di scatti in bianco e nero, ciascuno dei quali poco più grande di un francobollo. «Se vai avanti, dovrebbero essercene altri sei, otto rullini in totale, com-
presi gli scatti involontari», dice Kenny. «Li ho stampati quasi tutti in 8 x 10, ma hai detto che la biblioteca cercava nuovi punti di vista, per cui...» Dalla tasca tira fuori una piccola lente di ingrandimento rotonda, per vedere i dettagli delle foto e la porge a Lisbeth. Per un brevissimo istante lei dimentica di essersi presentata come dipendente della biblioteca. «No... no, va benissimo», dice. «Siccome si avvicina il decimo anniversario dell'attentato, volevamo fare una mostra che non riproponesse semplicemente le cose già viste.» «Certo, è logico», dice Kenny asciutto, con l'occhio da Popeye che si socchiude scrutatore su di me. «È logico che veniate fino a Key West con due anni di anticipo, anziché chiedermi qualche copia e farvela spedire alla biblioteca.» Lisbeth si blocca. Anch'io. L'occhio di Kenny è una fessura sottilissima. «Basta con le stronzate, Wes. È per te o per lui?» chiede. Dice «lui» con il tono che la gente riserva di solito a Dio. Lo stesso tono che usavamo tutti ai tempi della Casa Bianca. «Per me», rispondo con la gola secca. Kenny non reagisce. «Te lo giuro, Kenny. Su mia madre.» Ancora niente. «Kenny, ti prego...» «Ascolta, è il mio telefono», mi interrompe, anche se la casa è perfettamente silenziosa. «Lasciami andare a rispondere. Se avete bisogno di me, sono di sopra. Capito?» Annuisco, trattenendo il fiato. Kenny mi accarezza le cicatrici come un padrino, poi sparisce su per la scala, senza voltarsi indietro. È solo quando sento chiudersi la porta della sua stanza che riprendo a respirare. Lisbeth apre gli anelli del faldone con uno schiocco metallico. «Tu prendi l'ingranditore, io le stampe 8 x 10», dice tirando fuori i primi otto fogli e allungandomeli. In ginocchio accanto al tavolino, metto la lente sulla prima foto e mi chino come un gioielliere che studi un diamante. La prima foto ha in primo piano la limousine che entra nel circuito. Al contrario del video che abbiamo visto nell'ufficio di Lisbeth, lo sfondo qui è chiaro e nitido. Ma l'inquadratura è occupata quasi tutta dalla macchina, dietro si vedono solo le teste di qualche pilota della NASCAR e la prima fila di persone sedute in tribuna. Meno una... mancano solo altre 287 foto...
62 «Stiamo cercando Kara Lipof», disse Rogo, entrando nella stanza disordinata, larga e lunga quanto due piste da bowling affiancate. «Seconda a destra», disse un archivista con un numero di telefono scritto sulla mano, puntando il pollice verso una scrivania. Poiché accoglieva tutti e otto gli archivisti, separando i loro tavoli con una semplice scaffalatura metallica, la stanza era piena di fogli di carta: scrivanie, scaffali, sedie, computer, frigobar e davanzale della finestra ne erano ricoperti. Per fortuna di Rogo, i fogli non coprivano la targhetta di plastica col nome sulla scrivania di Kara. «Kara?» chiese Rogo con calore, preferendo come al solito ricorrere al suo fascino. Dietro la scrivania, una donna sui trent'anni, con capelli castani e una camicetta a fiori all'ultima moda alzò gli occhi dallo schermo del suo computer. «Posso aiutarla?» «Lo spero», rispose Rogo sorridendo. «Sono Wes Holloway, dell'ufficio privato di Manning. Ci siamo sentiti ieri per le cartelle relative a Ron Boyle.» Prima che lei possa registrare una qualche differenza tra la voce di Wes e quella di Rogo, quest'ultimo aggiunse le parole che gli avrebbero garantito la sua attenzione: «Il presidente voleva sapere se li ha già messi insieme.» «Sì... certo», disse Kara, trafficando con i fogli che aveva sul tavolo. «È solo che... mi dispiace, non avevo capito che sarebbe venuto a prenderli.» «Ha detto che c'erano 36.000 pagine da copiare», aggiunse Rogo, continuando a sorridere mentre ripeteva i dettagli che gli aveva passato Wes. «Abbiamo pensato che venendo qui e dandogli un'occhiata prima, avremmo risparmiato qualche cambiale.» Kara rise. Così Dreidel, per la scena. «Lei non sa quanto mi fa risparmiare, in questo momento», aggiunse Rogo. «Grazie a lei, arriverò al mio ventitreesimo compleanno. Ok, venticinquesimo... Ventinovesimo, basta.» «Non trasformatemi ancora in una santa», disse Kara, tirando fuori una busta sottile. «Faxare un cruciverba è una cosa, ma se volete accesso a tutti i documenti di Boyle, ho bisogno di una richiesta ufficiale, più l'autorizzazione che...» «Vede, è questo il bello», intervenne Dreidel, mettendo una mano sulla
spalla di Rogo e cercando di spostarlo di lato. Rogo non cedette. «Se il presidente fa una richiesta ufficiale, la gente lo nota. Incomincia a pensare che sia successo qualcosa. Che ci siano delle novità riguardanti il caso di Boyle. E ben presto la famiglia di Boyle vorrà sapere che cosa sta nascondendo il governo. Noi diciamo niente, loro dicono tutto, e così nascono le cospirazioni. Perché non ci risparmiamo tutti quei mal di testa e la facciamo passare per una richiesta non ufficiale? Per quanto riguarda l'autorizzazione, la firmo volentieri.» «Mi scusi... lei è...?» «Gavin Jeffer», rispose Dreidel. «Sono... della biblioteca anch'io.» Puntò un dito sulla scrivania e indicò un foglio di carta intestata, dove il suo nome compariva accanto al margine sinistro. Fino a quel momento, era stato il più importante successo di Dreidel. Per poter creare la Manning Library, era stata creata una fondazione indipendente, con un consiglio di direzione che comprendeva gli amici intimi del presidente, i maggiori donatori e i collaboratori più fedeli. Il gruppo selezionato comprendeva le figlie di Manning, il suo ex segretario di stato, l'ex presidente della General Motors e - sorpresa generale - Dreidel. C'erano volute telefonate chirurgiche e preghiere in tutti i posti giusti, ma queste erano sempre state la specialità di Dreidel. «E allora?» chiese all'archivista. Kara guardò Rogo, poi Dreidel. Da come passava il pollice sul bordo della busta, era ancora indecisa. «Kara, se vuole, telefoni all'ufficio del presidente», disse Dreidel. «Conosco il numero di Claudia.» «Non è questo che...» «Non stiamo parlando di documenti top secret», aggiunse Dreidel, battendo il ferro finché era caldo. «Boyle è un affare interno.» «Ed è morto», aggiunse Rogo, ondeggiando sui piedi. «Suvvia, che cosa può mai succedere? Che all'improvviso torni in vita?» Per la seconda volta, Kara rise. Per la seconda volta, Dreidel fece finta. «E lei firmerà?» chiese Rara a Dreidel. «Mi dia il modulo e sono suo. Se la cosa può farla sentire meglio, le farò scrivere dal presidente Manning un biglietto di ringraziamento personale.» Kara scuote la testa e si alza in piedi. «È meglio se non mi...» Il telefono di Rogo si mise a squillare nella sua tasca. «Scusate», disse lui, tirandolo fuori e aprendolo. C'era scritto PB UFF. SCER., Ufficio dello sceriffo di Palm Beach.
«Vi raggiungo fra un attimo», disse a Dreidel e Kara che si dirigevano alla porta. Avvicinò il telefono alla bocca e rispose: «Sono Rogo.» «Ehi, ciccio, ci sei mancato oggi in tribunale», scherzò un uomo con la voce forte e un inconfondibile accento di New York. Rogo lo riconobbe immediatamente: il vice Terry Mechaber, numero uno delle multe illegali per inversione a U... e miglior amico di Rogo nelle forze dell'ordine. «Già, la segretaria è ammalata e sono dovuto stare in ufficio a fare tutto da solo, oggi», rispose. «Strano, perché le ho appena parlato. Le sue labbra sembrava che stessero benone, soprattutto quando ha detto che sei fuori da stamattina.» Per un attimo, Rogo rimase in silenzio. «Ascolta, Terry...» «Non voglio saperlo, non voglio sentirlo, non voglio leggerlo domani sul giornale», disse Terry. «E a giudicare dalla battaglia che stai intraprendendo, non voglio neanche vedere il brutto film in cui ti passo queste informazioni.» «Che cosa... cosa stai...?» «I Tre... sai, i tizi che mi hai chiesto di controllare qui...» «Hai trovato qualcosa?» «Sì, qui in Florida gli sceriffi hanno dati su tutti i cattivi a livello internazionale. No, ho chiesto aiuto al cognato della sorella del mio collega, che negli ultimi anni ha fatto dei lavori al computer, per me..., ancora per me incomprensibili, per il DD.» «Di di?» «Dipartimento della difesa», continuò Terry con voce lenta e seria. «E quando ha cercato i Tre là dentro... be', ti ricordi di quando quel TIR carico di traversine si è ribaltato sulla I-95 e ha fatto volare giavellotti di metallo che hanno impalato praticamente tutti gli occupanti delle dieci macchine dietro di lui?» «Sì...» «Be', è ancora peggio.» 63 «Benvenuto a Key West», disse il pilota, risistemandosi i capelli biondi. Seguendolo attraverso la portiera dell'idrovolante, giù dall'impalcatura, sui galleggianti bianchi che sostenevano il velivolo rosso e arancione, O'Shea e Micah aspettarono a stento che l'aereo attraccasse al molo. «Quanto vi fermate?» chiese il pilota.
«Non molto», rispose O'Shea, facendo attenzione a calibrare il salto. Aspettò che le piccole onde del porto si ritirassero, poi risalissero, e saltò dall'orlo del galleggiante, atterrando sul molo. «Si assicuri...» «Non sia così noioso», ribatté il pilota. «Conosco tutti i capitani che lavorano qui. Appena attracchiamo, me ne occupo io. Nessuno saprà che siamo qui.» «Dovremmo chiamare di nuovo l'ufficio di Wes», disse Micah, che lo seguiva a pochi passi. «Forse è rientrato.» «Non è rientrato.» Seguendo il labirinto del molo di legno fra le decine di barche ormeggiate, O'Shea si fermò solo quando raggiunse William Street. Micah si bloccò alle sue spalle. Il suono della musica folk rock giungeva dal bar in lontananza sulla destra. O'Shea socchiuse gli occhi, scrutando la folla di turisti che si accalcava intorno ai negozi del porto. Dalle vie laterali, arrivava una corrente continua di auto e di taxi, che rifornivano il quartiere di turisti. «Che cosa stai...?» «Tutti i taxi sono rosa», dichiarò O'Shea, e ne chiamò uno. Sulla loro destra, una macchina rosa frenò stridendo e si fermò. O'Shea aprì la portiera posteriore e si infilò dentro. «Avete la radio, su queste macchine?» Il magro tassista afroamericano si guardò alle spalle, osservò l'abito scuro di O'Shea, poi Micah, con la cravatta che gli pendeva mentre si chinava nella macchina. «Mi lasci indovinare... ha perso il portafoglio su un taxi rosa.» «In realtà, ho perso un amico», rise O'Shea, facendo il gentile. «È difficile dimenticarlo, però... ha un bel po' di cicatrici sulla faccia. Ed è in giro con una rossa. Che ne dice», aggiunse appoggiando venti dollari sul bracciolo del seggiolino davanti, «può aiutarmi?» Il tassista sorrise. «Accidenti, amico, perché non me l'ha detto subito?» Dopo una rapida descrizione, una lenta voce tranquilla gracchiò nel ricevitore. «Sì, li ho visti, Rogers. Il tizio con le cicatrici... Li ho mollati venti minuti fa. 327, William Street.» «È lontano da qui?» chiese O'Shea al tassista che lo guardava nello specchietto. «Potete andarci a piedi, se volete.» Micah saltò dentro e chiuse la portiera. «Ci andiamo in macchina», disse O'Shea mettendo altri venti dollari sul bracciolo. «Il più velocemente possibile.»
«Come se ne andasse della sua vita», aggiunse Micah. 64 Con le ginocchia affondate nella moquette, il petto incollato al tavolino e la faccia premuta sull'ingranditore, studio un profilo del presidente e della First Lady che lasciano la Cadillac One, col mento alzato verso la folla entusiasta. Come le foto migliori della Casa Bianca, l'istante è pieno di solennità presidenziale, mescolata all'umanità dei presenti. Manning tiene una mano sulla schiena della moglie, la aiuta gentilmente a uscire dalla limousine per entrare nel mondo. Mentre lei lascia la macchina, con un piede già sull'asfalto del circuito, ha gli occhi semichiusi, a metà fra la quiete privata della limousine e il ruggito della folla. Per sostenersi, la First Lady si afferra alla mano che il presidente le porge. Ma anche in quell'istante - lei che lo afferra, lui che le sfiora la curva della schiena - la tenerezza che può esserci tra marito e moglie è annullata dal fatto che, invece di guardarsi, entrambi sorridono ai loro fan sulle tribune. «Queste sono irreali», dice Lisbeth, facendo passare le foto che ha in grembo. Alzo la testa per vedere che cos'ha davanti. È circa dieci secondi più avanti rispetto a me, pochi istanti dopo che era stato sparato l'ultimo colpo e Manning era stato gettato a terra dall'onda di autisti, ospiti e agenti dei Servizi segreti. Nella sua foto, la gente sulle tribune urla e scappa in tutte le direzioni, coi capelli sconvolti dalla corsa. Nella mia, la folla è calma e affascinata, seduta completamente immobile. In quella di Lisbeth, sento le grida. Nella mia, sento l'emozione di chi vede per la prima volta dal vivo il presidente e sua moglie. Eccolo... Eccolo... Eccoli... Dieci secondi. Dieci secondi che hanno cambiato tut... No. Non hanno cambiato tutto. Hanno cambiato me. Uno squillo elettronico interrompe i miei pensieri. Individuo rapidamente la fonte del rumore nel telefono cellulare che abbiamo preso in prestito dalla collega di Lisbeth al giornale. Lo tiro fuori dalla tasca interna della giacca e vedo la scritta PRES. MANNING LIBRARY. Meno male che non telefona dal suo... «Sono tutti sulla stessa barca», dice prima ancora che possa rispondere pronto. «Per questo ce l'hanno fatta.» «Cosa stai...?»
«È come ti dico, Wes, non puoi farcela da solo.» «Frena... di chi stai parlando?» «Dei Tre. Così li chiamava Boyle. Ma non sono quello che...» «Da chi l'hai saputo? Da Dreidel o da qualcun altro?» «Il mio...» «Dreidel lo sa?» «Vuoi chiudere il becco e lasciarmi spiegare?» grida Rogo. Mi giro per vedere se Lisbeth ha sentito, ma è troppo concentrata sulle foto. Rogo approfitta del silenzio per riprendere fiato e incomincia a sussurrare. Dovunque sia, di sicuro non è solo. «Hanno iniziato come un mito, Wes. Come una vecchia leggenda delle forze dell'ordine. La sentiamo da anni: politici che si lamentano che le nostre forze dell'ordine non collaborano come dovrebbero, che l'FBI non condivide le informazioni con la CIA, che non le passa ai Servizi segreti. Il risultato è che metà delle agenzie si lamentano di essere tenute all'oscuro di tutto. Ma alcuni sostengono non in pubblico, ovviamente - che la mancanza di coordinazione non è poi tanto male. Più sono in competizione fra loro, più le agenzie si controllano a vicenda. Se la CIA fa qualcosa di sporco, l'FBI è pronto a denunciarlo. Ma se tutte si unissero contro di noi... be', sai il potere che avrebbero?» «Aspetta. Stai cercando di dirmi che qualcuno ha convinto migliaia dei migliori agenti del nostro paese a cambiare atteggiamento all'improvviso?» «Non migliaia», risponde Rogo, sempre sussurrando. «Solo tre.» Mi rialzo in piedi e mi siedo sul divano. Accanto a me, Lisbeth esamina attentamente una delle foto. «Ehi, Wes», dice indicandola. Le faccio segno di aspettare un minuto alzando l'indice e resto concentrato sul telefono. «Tre persone», continua Rogo, «una dell'FBI, una della CIA e una dei Servizi segreti. Da sole, possono fare danni limitati. Ma insieme, conoscendo tutti i trucchi, compreso il modo per sfuggire a tre delle nostre istituzioni più potenti... Possono far crollare il cielo.» «Wes, credo proprio che dovresti dare un'occhiata qui», dice Lisbeth. Di nuovo le faccio segno di aspettare. «Apparentemente, era la realizzazione del grande mito delle forze dell'ordine, fino a otto anni fa, quando è incominciata la prima indagine interna», dice Rogo. «Il mio uomo sostiene che esiste un rapporto di Boyle al presidente, in cui lo invitava ad approfondire la cosa.» «Quindi Manning e Boyle davano la caccia ai Tre?»
«Oppure i Tre davano la caccia a loro, per quel che ne sappiamo, la posta in gioco era la stessa.» «E credi davvero che tre tizi potessero conservare il loro lavoro e starsene nascosti per tanto tempo?» «Vuoi scherzare? Robert Hanssen ha venduto i segreti dell'FBI per vent'anni prima che qualcuno se ne accorgesse. I Tre sono professionisti, nelle rispettive agenzie. E siccome si sostengono a vicenda, fanno danni tripli. Se vuoi che ti rovini la giornata ancora un po', ti dirò che l'ultima - e unica - volta che uno di loro è stato visto era in quel bel nido di terroristi chiamato Sudan.» «Sudan? Cioè il paese di cui è esperto il Romano?» «Wes, è una cosa seria», interviene Lisbeth aprendo gli anelli del faldone. «Un secondo», le rispondo. «Niente scherzi, Rogo», dico al telefono. «Pensi che il Romano riceva informazioni dai Tre?» «O passa informazioni ai Tre. Al diavolo, per quel che ne sappiamo, potrebbe fare parte dei Tre, anche se potrebbe trattarsi di chiunque.» Accanto a me, Lisbeth tira fuori la foto e se la avvicina al naso per guardarla meglio. «Vuoi dire che è della CIA o dell'FBI?» chiedo a Rogo. «No, è dei Servizi», risponde lui un po' troppo sicuro. Riconosco il suo tono. «Rogo, non fare lo stupido. Dimmi quello che sai.» «Wes, fermati un secondo e dai un'occhiata qui», dice Lisbeth, irritata per il fatto che la sto ignorando. «È un'idea di Dreidel, in realtà», dice Rogo. «Quando ha sentito l'FBI, ha chiesto al mio amico se poteva controllare i tuoi investigatori prediletti, gli agenti O'Shea e Micah. Secondo i suoi archivi, O'Shea fa parte del Bureau dal 1986, lo stesso anno di Micah.» «E qual è il problema?» «Wes...» prega Lisbeth. «Il problema», dice Rogo senza rallentare, «è che Micah non lavora per il Bureau. A quanto pare, è un agente distaccato. Dalla CIA.» «Guarda!» grida Lisbeth, mettendomi la foto in grembo. I miei polmoni collassano, come se qualcuno mi avesse piantato una freccia nel petto. La cosa peggiora quando getto un'occhiata alla foto. In grembo ho un'immagine in bianco e nero, scattata pochi minuti dopo la sparatoria. Al contrario delle altre, questa riprende l'interno del circuito,
dove i piloti della NASCAR, i meccanici e i loro collaboratori si abbracciano, piangono e si raccontano quello che è appena successo. La maggior parte ha l'aria scioccata. Qualcuno sembra rabbioso. E uno - tutto solo all'estremità destra della foto, che si guarda alle spalle mentre si allontana pare stranamente incuriosito. Dapprima lo si confonde con gli altri, perché indossa una tuta da gara. Ma non è possibile confondere quei capelli ben pettinati e l'angolo mancante sull'orecchio. Otto anni fa, a me hanno sparato in faccia, Boyle è stato ufficialmente ucciso, la presidenza di Manning è stata distrutta. E Micah era lì presente. «È lui, vero?» chiede Lisbeth. «È Micah...» I Servizi segreti sono incaricati di proteggere il presidente. L'FBI ha gestito le indagini su Nico. «Che cosa ci faceva lì la CIA quel giorno?» esclamo. «La CIA?» chiede Lisbeth. «Wes, non risponderle!» grida Rogo al telefono. «Cosa stai dicendo?» «Rifletti. Eri sempre da solo quando O'Shea e Micah ti hanno parlato, giusto? Se Lisbeth non ha mai visto Micah, come diavolo ha fatto a riconoscerlo in una foto?» Guardo Lisbeth, ancora seduta accanto a me sul divano. «Cosa c'è?» mi chiede prendendo la foto. Me la toglie di mano prima che possa reagire. «Ti richiamo», dico a Rogo chiudendo il telefono. 65 «Mi spiace di non potervi aiutare di più», disse una donna nera anziana con un braccialetto di perline accompagnando O'Shea alla porta del suo modesto cottage al numero 327 di William Street. «Spero che lo troviate comunque.» «Ne sono sicuro», rispose O'Shea, tornando all'aperto e rimettendosi il badge nel taschino della giacca. «Grazie per averci lasciato controllare, comunque.» Pochi passi dietro di lui, Micah teneva il cellulare all'orecchio, sforzandosi di non lasciare trasparire la sua delusione. Non disse una parola finché la donna non ebbe chiuso la porta. «Te l'avevo detto che è un ragazzo sveglio», disse il Romano all'apparecchio.
«Sei di grande aiuto», replicò Micah. «Quasi come quando sei arrivato in Florida e ti sei precipitato all'ufficio di Manning senza dire niente a nessuno.» «Conosci le regole», disse tranquillamente il Romano. «Nessun contatto, a meno che...» «Mi stai dicendo che questa non è una fottuta emergenza?» esplose Micah. «Abbiamo Wes che ficca il naso dappertutto, nessuna notizia di Boyle e tu che volteggi nell'unico posto in cui c'è la possibilità che ti chiedano cosa diavolo ci fai lì. Quando pensavi di informarci, prima o dopo che gli venissero dei sospetti e chiedessero informazioni al quartier generale?» Come prima, il Romano conservò la calma. «Non ti ho forse chiamato, Micah? Per questo stiamo parlando. E se la cosa ti può fare sentire meglio, nessuno sta chiedendo informazioni su di me da nessuna parte. Sono qui perché è il mio mestiere, cosa che non si può dire di te e della mezza dozzina di persone a cui ti sei presentato come agente dell'FBI. Vi insegnano all'Agenzia a fare queste stupidaggini, o avevi paura che O'Shea ti tradisse se non gli restavi attaccato?» «Ho detto al quartier generale che mio padre è ammalato. O'Shea ha detto che si diplomava sua nipote. O pensavi che non ci fossimo coperti le spalle?» «E questo ti fa credere di potere apparire in pubblico così? Usando i vostri veri nomi, per di più? O'Shea lo capisco, Wes potrebbe chiamare il Bureau per controllarlo. Ma tu? Hai dimenticato come abbiamo fatto ad arrivare fin qui?» «Non ho dimenticato proprio niente», ribatté Micah. «È per questo che, quando ho incominciato a sentire puzza di bruciato, ho chiamato O'Shea e non te. Tu, piuttosto, non dimenticare che all'FBI O'Shea è ufficialmente un attaché - il che vuol dire che coordina le risorse per le inchieste straniere, il che significa che è autorizzato, anzi incoraggiato, a collaborare con quelli dell'Agenzia come me. È il suo lavoro! Senza offesa, quindi, ma finché c'è in gioco il mio culo, intendo stare in prima linea, e al centro dello schieramento, per salvarmelo!» Il Romano rimase in silenzio per un istante. «Nessun contatto», disse alla fine. «Mai.» Micah si rivolse a O'Shea, che gli fece cenno di chiudere. Dopo quasi dieci anni passati insieme, entrambi sapevano che non valeva la pena di litigare. Quando il Romano voleva qualcosa, la cercava di persona. Era lo stesso per tutti loro. L'ambizione personale li aveva uniti tanti anni prima
al War College. Non era per caso che ciascuno di loro era stato invitato a uno dei prestigiosi seminari di formazione dell'esercito, dove gli alti ufficiali e i rappresentanti del Dipartimento di stato, della CIA, dell'FBI, della DIA e dei Servizi segreti passano due settimane a studiare la difesa nazionale e le interazioni militari. Lì avevano imparato le tattiche militari. Lì avevano imparato a elaborare una strategia. E lì tutti e tre avevano capito quanto avevano dato al loro governo, e quanto poco il governo aveva restituito loro. Così erano nati i Tre. Senza dubbio, l'ambizione era alla base del loro successo. Li aveva spinti a manovrare all'interno del sistema, conservando finora il loro posto di lavoro senza che i loro colleghi si accorgessero di nulla. Ma l'ambizione, lo sapevano bene, un giorno li avrebbe distrutti. Boyle li chiamava i Tre, ma anche nei loro giorni migliori essi cercavano sempre il numero uno. «Trovate Wes, è lui che Boyle ha contattato, il che vuol dire che lo contatterà di nuovo», aggiunse il Romano. «E malgrado l'indirizzo dato da Wes sia falso, dovreste comunque riuscire a...» Con un click, Micah interruppe la comunicazione. «Questo è fuori», si sfogò con O'Shea. «Prima arriva senza dirci niente, adesso vuol fare il regista...» «È solo nervoso», disse O'Shea. «E personalmente non gli do torto.» «Ma far scappare Nico...» «Involontariamente.» «Gli credi?» «Micah, il Romano è un bastardo, ma non è uno stupido. Sa che Nico può scoppiare da un momento all'altro, per questo ha dovuto verificare se Boyle si era messo in contatto. Ma lascia che ti dica una cosa: se non troviamo Wes - e Boyle - alla svelta, io ho chiuso. Davvero. Basta.» «Vuoi smetterla con gli ultimatum?» «Non è un ultimatum», insistette O'Shea. «Ma stare qui, così vicini, dando a questo ragazzo tutte le ragioni per fare qualche verifica su di noi... sai cosa stiamo rischiando?» «Siamo troppo furbi.» «No, la cosa furba sarebbe mollare adesso e ringraziare il cielo che abbiamo fatto un po' di soldi e che è durata così a lungo.» «Ci sono ancora molti soldi da fare. Il Romano ha detto che il mese prossimo, in India, c'è...» «Ma certo, in India. E otto mesi fa era in Argentina, e otto anni fa a Daytona. Basta, Micah. Sì, abbiamo aggiunto qualche piuma al nostro nido,
ma la grossa pentola piena d'oro... non arriverà mai.» «Ti sbagli.» «È così.» «Ti sbagli!» ripeté Micah. I capelli ben pettinati si scomposero. O'Shea si fermò sul marciapiede, interrompendo la discussione. Non aveva importanza, in ogni caso, aveva preso la sua decisione nel momento stesso in cui aveva ricevuto quella telefonata il giorno prima: se riuscivano a risolvere il problema alla svelta, bene; se no, pazienza, per questo aveva messo da parte i suoi soldi e si era comperato quel bungalow a Rio. Guardò Micah. Sapeva che, se tutto fosse crollato e qualcuno avesse incominciato a puntare il dito, lui non avrebbe avuto problema a spezzare quel dito. «Tutto bene?» chiese Micah. O'Shea annuì. Sul marciapiede, entrambi studiarono le case della stretta ed elegante via. O'Shea controllò porte e finestre, in cerca di ombre e tende che si chiudevano all'improvviso. Micah controllò i porticati e i vialetti, in cerca di impronte sul leggero strato di sabbia che regolarmente il vento spargeva su Key West. Non trovarono niente. Poi... «Là», disse O'Shea, attraversando in diagonale la strada e dirigendosi verso il cottage color pesca con le imposte bianche e le eccessive decorazioni. «Dove?» chiese Micah, continuando a cercare per conto suo. «La macchina.» Qualche passo dietro a O'Shea, Micah osservò la vecchia Mustang rossa posteggiata nel vialetto del numero 324. Targa della Florida. Bollo aggiornato. Niente di insolito. A parte il vecchio, logorato adesivo dei WASHINGTON REDSKINS attaccato al paraurti posteriore. «Forza Skins», sussurrò Micah, incapace di trattenere un sorriso. Accelerò il passo e seguì il suo socio, salì i gradini davanti alla porta d'ingresso con il granchio di legno dipinto a mano. «Un secondo», disse Micah frugandosi nella giacca e togliendo la sicura della pistola. Fece un cenno di assenso a O'Shea e arretrò di mezzo passo, nel caso in cui avessero dovuto abbattere la porta. Con la punta del dito, O'Shea suonò il campanello e controllò la propria arma. «Vengo», disse una voce dall'interno. Micah controllò la strada alle loro spalle. Nessuno in vista. La maniglia si mosse cigolando e la porta si aprì. «Salve», esordì O'Shea, evitando volutamente di tirare fuori il badge dell'FBI. «Siamo amici di Wes Holloway e volevamo controllare che stes-
se bene.» «Oh, sta benissimo», disse Kenny, bloccando l'accesso, anche se l'unica cosa in vista era la cucina e il salotto, vuoti. «Ma purtroppo se n'è andato da molto tempo.» Allungando il collo per guardare alle spalle di Kenny, Micah ignorò cucina e salotto e si concentrò invece sulla parete di fondo della casa, su cui c'era una porta scorrevole che dava sul giardino posteriore. «Sì, lo temevamo», disse O'Shea. «Ma le dispiace se entriamo comunque e le facciamo qualche domanda?» 66 «Dunque non è la prima volta che scendete in archivio?» chiese Kara mentre le porte dell'ascensore si aprivano, rivelando un corridoio di cemento con piccole finestre da entrambi i lati e tutto il fascino di una prigione. «Certamente», rispose Rogo, mantenendo il tono allegro e la testa bassa mentre superavano le prime due telecamere di sicurezza attaccate al muro. Due passi avanti a lui, accanto a Kara, Dreidel si sistemò la cravatta. Quando un presidente costruisce la propria biblioteca, ha la possibilità di riscrivere la storia. Nella biblioteca di Lyndon Johnson, per esempio, ci sono innumerevoli prove del perché gli Stati Uniti dovettero andare in Vietnam. In quella di Manning, l'unico accenno al Leone Codardo era negli archivi. «Le siamo molto grati per avere tirato fuori tutto così alla svelta», disse Dreidel. «È il nostro mestiere», rispose Kara mentre raggiungevano una porta blindata spessa come la cassaforte di una banca. «Spero solo che non soffriate di claustrofobia.» «No... anzi, noi odiamo la luce del sole», disse Rogo. «Quella maledetta vitamina D mi fa orrore!» Kara si guardò alle spalle e fece un'altra delle sue risate ansimanti. Stavolta Dreidel non si unì a lei. «Ci indichi le cartelle dei documenti e ce ne andremo in un lampo», disse. Kara inserì un codice a cinque cifre. «L'avete voluto voi», disse mentre la pesante porta metallica si apriva e l'odore dolciastro di vecchia libreria aleggiava nell'aria. Davanti a loro, in una stanza grande come un campo da basket, c'erano file e file di scaffali grigi di metallo. Ma invece di essere
pieni di libri, erano pieni di migliaia di scatole di cartone rettangolari. Sulla destra, in fondo, oltre gli scaffali, una grata metallica si levava dal pavimento al soffitto e li separava da una decina di altri scaffali, che contenevano i documenti segreti relativi alla sicurezza nazionale. Proprio davanti alla grata, un latinoamericano magro con gli occhiali era seduto davanti a due computer. «Se avete dei problemi, chiedete a Freddy», disse Kara indicando uno dei quattro addetti alle ricerche della biblioteca. Freddy fece un cenno a Rogo e a Dreidel. Rogo e Dreidel risposero allo stesso modo. Ma da come Kara guardò Freddy, e Freddy guardò Dreidel... perfino Rogo capì: Kara poteva essere gentile e portarli nell'archivio, ma non era stupida e in nessun modo li avrebbe lasciati lì senza sorveglianza. «La nostra roba...» disse Dreidel. «...è qui», rispose Kara indicando l'estremità di uno degli scaffali metallici, dove c'era un tavolino sepolto sotto almeno quaranta scatole. «Queste piccole sono già state controllate dal FOIA», spiegò, accennando con la mano a una dozzina di scatole alte e strette, che avrebbero potuto contenere ciascuna una guida telefonica. «E questi FRC... questi vengono dagli archivi riservati», aggiunse indicando la trentina di scatole delle dimensioni di una cassetta da frutta. «E questo è tutto quello che aveva Boyle?» chiese Rogo. «Se tornaste indietro nel tempo e apriste i suoi cassetti quand'era alla Casa Bianca, questo è quello che trovereste - i suoi documenti, i suoi scritti, le sue e-mail - in più, avete domandato il suo file personale e le 12.000 pagine già richieste dal vostro ricercatore...» «Carl Stewart», disse Rogo, ricordando le istruzioni di Wes, mentre Kara gli porgeva l'elenco di tutti i documenti chiesti da Boyle con il suo falso nome. «Avete già il cruciverba, vero?» chiese Kara. «Proprio qui», disse Rogo, toccandosi il taschino della camicia. «Kara, non sappiamo come ringraziarla», aggiunse Dreidel, ansioso di allontanarla. Kara capì e si diresse verso la porta. Senza dimenticare il suo ruolo di protettrice degli archivi, però, si girò e disse: «Freddy, grazie per l'assistenza.» Mentre Kara svoltava l'angolo e scompariva, Dreidel fece un sorriso all'addetto, poi si rivolse rapidamente a Rogo. «Perché non ti occupi dei cassetti di Boyle, mentre io guardo l'elenco delle sue richieste?»
«Ho un'idea migliore», ribatté Rogo. «Tu fai i cassetti e io esamino le sue richieste.» Per un attimo, Dreidel rimase in silenzio. «Bene», disse aprendo la prima scatola. Alle sue spalle, Rogo fece lo stesso. Rogo tirò fuori la prima cartelletta, si leccò le dita e la aprì. «Ok, Boyle, brutto figlio di puttana, adesso vediamo quello che stavi cercando.» 67 Melbourne, Florida «No, non lei», disse Nico, guardando fuori dal parabrezza della Pontiac Grand Prix marrone mentre la piccola peruviana sorseggiava il suo caffè andando verso la propria macchina. Perché? Cos'ha che non va'? Nico sembrava scosso. «Assomiglia alla mia infermiera. Scegliamo qualcun altro.» E lui? Nico non si girò neppure alla proposta di Edmund. Dal loro angolo di osservazione, nel posteggio della Waffle House, guardava ancora la donna che assomigliava in maniera così straordinaria all'infermiera di notte. Aveva passato quasi un giorno intero senza pensare all'ospedale. I dottori si sbagliavano. E anche gli avvocati. Si sbagliavano tutti. Fuori, da solo, anche senza medicine, stava benissimo. Anzi, meglio. Più chiaro. Più limpido. Nico, concentrati. Lui? Nico seguì lo sguardo di Edmund e studiò l'uomo barbuto con gli occhi piccoli e i capelli sporchi. «Non posso. No, non posso. Me lo sono sognato stanotte.» Va bene, allora lei, la mamma coi due bambini... «Il più piccolo deve fare la pipì, guarda come si tiene... La madre non si fermerebbe. Il più grande credo che voglia degli M&M. Glielo leggi sulle labbra: M... e... M...» Nico, non tirarla in lungo con me. Nico si rizzò a sedere e si tolse dalla spalla l'immaginaria mano di Edmund. «No... sto bene. Ho solo bisogno di...» Si interruppe e guardò una cameriera grassa, di mezza età, con splendidi occhi castani, che usciva dal ristorante per fumarsi una sigaretta. Sulla cinghia della borsetta, aveva una
spilla con la scritta CHIEDETEMI DI AVON. «Ecco. Lei. Lei sa cosa vuol dire essere rifiutati», decise Nico, afferrando la maniglia della portiera e saltando giù dalla Pontiac. «Sbrigati!» gridò a Edmund mentre attraversava il posteggio e si avvicinava alla cameriera. «Può prestarmi il telefono?» chiese rallentando quando raggiunse la donna. «È un'emergenza. Mia... Devo chiamare mia madre!» Vedendo il bel sorriso di Nico, la cameriera non esitò neppure. «Certo», rispose mentre la sua grossa mano si tuffava nella borsa di finta pelle. Dille che non ci metterai molto. «Non ci metterò molto», disse Nico. «Ci metta quello che deve, caro, ho a disposizione mille minuti al mese, Dio benedica l'avvocato che si è occupato del mio divorzio.» Nico aprì il cellulare, voltò le spalle alla cameriera e fece un numero di sole tre cifre. Ci fu uno squillo dall'altra parte. «Benvenuti al servizio 411. Città e stato?» chiese un'operatrice. «Wes Holloway», disse Nico abbassando la voce. «Città e stato», ripeté l'operatrice, chiaramente irritata. «Palm Beach. Florida.» Ci fu una breve pausa. «Signore? Ho un Wes Holloway a West Palm Beach. Attenda il...» «Non il numero», interruppe Nico. «L'indirizzo.» Di nuovo, ci fu una breve pausa. «Otto tre otto cinque, Okeechobee Boulevard, appartamento 527. È sicuro di non volere il numero di telefono? Sa, nel caso...» «Niente numero», disse Nico alzando i pollici in direzione di Edmund. «No. Sarà una sorpresa.» 68 «Cos'è, adesso non mi credi?» grida Lisbeth. «Andiamocene e basta», rispondo, passando in mezzo a due turisti e correndo oltre la gelateria verso il porto. Non le ha fatto piacere quando le ho chiesto come faceva a sapere che faccia avesse Micah, ma è difficile rispondere alla sua domanda. «Wes, quando eravamo al giornale, mi sono passati proprio di fianco, nel garage», insiste lei. «Ero nascosta accanto all'ingresso - è stata una tua idea, ricordi? - e aspettavo che se ne andassero per poterti prendere. Ti suona familiare, tutto questo?»
Se fossi Rogo, le chiederei come fa a sapere qual era Micah e qual era O'Shea. «Ti credo», le dico saltando due piccoli gradini e toccando il legno della passerella. Negli ultimi due giorni, è possibile che le abbia descritto Micah e O'Shea. Ma la cosa più importante è che con tutto quello che ho passato, con tutto quello che ho visto... Dopo otto anni trascorsi insieme a uomini politici, le stronzate sono la mia seconda lingua. Per quanto ne so, Lisbeth non la conosce affatto. «Wes, se volevo bruciarti...» «Lo so. Ma dovevo chiedertelo, ok?» «Ma se tu...» «Lisbeth, te lo giuro... va tutto bene», grido correndo nel labirintico porticciolo verso lo yacht con il nostro elicottero. «Te lo giuro. Se non fosse così, non avresti tu la foto.» Mentre corre dietro di me, la foto che abbiamo preso da Kenny sventola. È l'unica prova in mio possesso che Micah era presente quel giorno - e la ragione principale per cui siamo scappati dalla porta sul retro di Kenny. Negli ultimi due giorni, O'Shea e Micah si sono comportati in modo relativamente amichevole nella vana speranza che li aiutassi a incastrare Boyle e Manning. Ma se scoprono che sappiamo la verità... che uno di loro è della CIA... che era presente al circuito e che potrebbe essere uno dei Tre... Mi guardo alle spalle, anche Lisbeth si guarda alle spalle, il porto è quasi vuoto. Chiunque volessero colpire quel giorno, Micah e O'Shea non hanno avuto remore a sparare in direzione dell'uomo più potente del mondo. Non voglio neanche pensare alla rapidità con cui farebbero sparire noi. «Pensi che siano vicini?» chiede Lisbeth con voce rotta. In questo momento, è l'unica cosa che conta. Per risponderle, freno di colpo, bloccandomi davanti a un casotto di legno non più grande di una cabina telefonica. «Dì a Tommaso di prepararsi al decollo. Dobbiamo partire subito!» Lisbeth rallenta, già preoccupata che voglia abbandonarla. «E tu allora perché...?» «Controllo solo i nostri amici», insisto, lanciandole un'occhiata mentre un uomo in blazer blu e cappello di paglia esce dal casotto. È il capitano di porto, che assegna le barche ai loro moli. Questo vuol dire che vede chiunque arrivi e chiunque parta. Lisbeth coglie l'accenno e riprende a correre. «Arriva o parte?» chiede l'uomo, spingendo indietro il cappello e rivelando di avere in bocca un grosso pezzo di tabacco.
«In realtà, mi chiedevo se per caso non ha visto dei miei amici, probabilmente sono appena arrivati in elicottero o in idrovolante da Palm Beach.» «Mi dispiace, non registriamo i luoghi di partenza», risponde subito. «Nell'ultima ora? È arrivato qualcuno?» «No, siamo stati molto tranquilli tutta la mattina.» «Sicuro?» Il capitano mi studia, osserva i miei vestiti, i miei pantaloni, le mie scarpe, anche. Sorride leggermente e due fossette gli compaiono sulle guance. «Sicurissimo, Dapper Dan. Non è arrivato nessuno, tranne i milionari là in fondo», dice indicando il nostro elicottero nero e crema all'estremità del molo. Con un cenno di ringraziamento, torno di corsa allo yacht e tiro un piccolissimo sospiro di sollievo. Almeno per ora, nessuno sa che siamo qui - e finché le cose stanno così... finché non sanno che abbiamo trovato... siamo in posizione di vantaggio. «Tommaso, è pronto?» grido rivolto alla poppa dello yacht. «Aspettiamo lei, signore», risponde alzando i pollici. «Dov'è Lisbeth?» Mi indica la cabina a vetri accanto a sé. Lisbeth è dentro, dà le spalle al vetro. Ha ragione. Meglio restare nascosti che rischiare di farsi vedere. Salgo la scaletta metallica due gradini alla volta, mi precipito sul ponte verso la portiera e la spalanco. «Buone notizie!» dichiaro. «Credo che siamo...» Lisbeth si volta, cercando di nascondere nella borsa quello che sembra un minuscolo cellulare. «È per te o per luì?» echeggia la voce di Kenny. «Per me. Te lo giuro...» risponde la mia voce. Lisbeth preme un tasto e la registrazione si ferma con lo scatto sonoro di un... registratore! Resto a bocca aperta, senza fiato. Lisbeth mi guarda, i suoi grandi occhi preparano già le scuse. «Wes, prima che tu dica qualcosa», prega rimettendo il registratore nella borsa. «Hai registrato tutto?» «Non è come...» «Da quando?» «Non è per incastrarti, è solo per sistemare gli appunti...» «Non è quello che ti ho chiesto.»
«Ascolta, Wes, tu... tu sapevi che avrei scritto la storia. Era nei nostri patti.» «Da quando?» «Mi hai detto che era nei patti.» «Maledizione, Lisbeth, da quando?» Mi guarda attentamente, poi si gira dall'altra parte ed evita lo scontro, mettendosi a guardare le onde del Golfo del Messico e dandomi le spalle. «Da quando sei arrivato stamattina», sussurra alla fine. «Compreso il viaggio in elicottero qui?» Si blocca, finalmente ha capito dove voglio arrivare. Tutti i giornalisti hanno un limite che si promettono di non superare mai. Dall'espressione della sua faccia quando si gira verso di me, Lisbeth l'ha appena superato. «Non avrei mai usato quella roba, Wes.» Mi tremano le gambe, non riescono a sostenermi. «Lo sai, vero?» mi chiede allungando una mano verso la mia spalla. Mi allontano e una scarica di adrenalina mi si diffonde in tutto il corpo. Stringo i denti con tale forza che mi sembra di riacquistare la sensibilità al labbro. «Dammi quel registratore», ruggisco. Lisbeth non si muove. «Dammi quel registratore!» Lo prende tremando dalla borsetta e mi guarda come per dire: non è necessario. Ma non le credo più. Le strappo il registratore di mano e torno sul ponte. «Wes, so che non mi credi, ma non ho mai avuto intenzione di...» «Non dirlo!» scatto, rivoltandomi verso di lei e puntandole un dito sulla faccia. «Sapevi quello che stavi facendo! Lo sapevi!» Esco e vado verso la prua dello yacht, mi sporgo dalla murata, butto il registratore in acqua e ritorno subito all'elicottero. «Tutto bene?» chiede Tommaso aprendo la portiera dell'elicottero e facendoci salire. «Benissimo», abbaio. «Ci porti via di qui.» 69 Seduto a gambe incrociate sul pavimento di linoleum e circondato da pile di scatole d'archivio, Rogo sfogliò la quarta cartelletta degli ultimi quindici minuti. «Cosa vuol dire I&W?» «I&W cosa?» chiese Dreidel, ingobbito su una sedia di legno a leggere
uno dei documenti di Boyle. «Non si sa. C'è solo I&W con un sacco di dati accanto a... aspetta, eccone uno: I&W per Berlino.» «Indicators and Warnings - indizi e segnalazioni - ovvero, come diceva il generale Bakos, tutte le chiacchiere e gli avvertimenti che i nostri agenti raccolgono a proposito di minacce specifiche», spiegò Dreidel. «Perché? È questo che...?» Guardò l'addetto e ridusse la voce a un sussurro. «È questo che chiedeva Boyle? I vari I&W?» «È così grave?» «Non è grave... però... indizi e segnalazioni sono cose che di solito si trovano nell'RQ.» «Il rapporto quotidiano. È quello di cui parlavate prima, tu e quel tizio della CIA con la valigetta ammanettata al polso?» «Quello in cui si è presa la decisione se pagare o meno il Romano», aggiunse Dreidel. «Non dimenticare che un anno prima dell'attentato al Romano è stata negata una grossa somma di denaro per un'informazione sul Sudan, il che ci dice anche - siccome chiaramente non erano così stupidi da farsi vedere insieme - chi di loro usava il Sudan come sede.» «Non so se ti seguo.» «I Tre - il Romano, Micah e O'Shea - fanno parte rispettivamente dei Servizi, della CIA e dell'FBI. Se uniscono i loro cervelli, pensa a tutte le informazioni a cui possono accedere.» «Ho capito come funziona la faccenda, ma metterla in piedi, organizzarla - senza offesa - ... per sei milioni di dollari?» «Che cosa ti fa supporre che l'abbiano fatto una volta sola? Per quello che sappiamo, se i soldi fossero arrivati, sarebbero tornati ogni pochi mesi, e se ogni volta avessero alzato il prezzo, i sei milioni potevano diventare dieci e alla fine avrebbero avuto tra i settanta e gli ottanta milioni. Non è poco, per sfruttare le paure dell'America.» «Quindi tu pensi che...?» «Non pensare solo a loro. Pensa a chi altri aveva accesso alle stesse informazioni. Voglio dire, niente accade nel vuoto. Per chiedere anche solo quei primi sei milioni di dollari, chiaramente dovevano sapere che stava per succedere qualcosa di grosso. E se non fossero stati i soli?» «Quindi tu pensi che lo sapesse anche qualcun altro?» chiese Rogo. «Finora abbiamo sempre pensato che i Tre e Boyle fossero avversari. E se invece fossero stati concorrenti? Se fosse per questo che il pagamento milionario ai Tre fu rifiutato, perché la Casa Bianca aveva già avuto un'in-
formazione simile, ma da qualcun altro?» «Ho capito. Quindi mentre i Tre o il Romano o come diavolo si fanno chiamare continuavano a proporre alla Casa Bianca le loro informazioni più preziose, Boyle - o qualcun altro del gruppo - cercava di accreditarsi come pezzo grosso passando quelle stesse informazioni alla stampa.» «E così facendo rendeva i cosiddetti scoop del Romano vecchie storie.» «Il che ci riporta alle parole crociate, se davvero contengono un elenco. Se Manning e il suo capo di gabinetto usavano il cruciverba per capire chi parlava coi giornalisti, forse è questo che Boyle cercava», disse Rogo. «L'unica cosa che non mi è chiara è: perché Manning e il suo capo di gabinetto si passavano appunti in codice quando potevano aspettare qualche ora e parlare della faccenda in privato?» «In privato? In un edificio in cui una volta venivano segretamente registrate tutte le conversazioni che si svolgevano nello Studio Ovale?» «Davvero? Lo fanno ancora?» «Ma non capisci? È proprio questo il punto: in quel mondo, tutti ascoltano. Se vuoi dire qualcosa di brutto su uno dei tuoi luogotenenti, devi essere sicuro di non dirlo ad alta voce.» «Sia pure, ma questo non ci aiuta affatto: chi stava indicando Manning, sul cruciverba?» «Dimmelo tu. Che cosa dicono i documenti?» chiese Dreidel. «Ci sono altri nomi?» Rogo guardò intorno a sé le trentotto scatole e i 21.500 fogli di carta, le centinaia di tabelle e le migliaia di appunti che doveva ancora sfogliare. «Pensi davvero che riusciremo a passare in rassegna tutto prima che la biblioteca chiuda?» «Abbi un po' di fede», disse Dreidel facendo scorrere dei fogli. I suoi occhi si illuminarono e un astuto sorriso gli si diffuse sul volto. «Forse, la pistola fumante è proprio davanti ai nostri occhi.» «Hai trovato qualcosa?» «Solo la cartella personale di Boyle», disse Dreidel tirando fuori dalla sua scatola uno spesso documento. «Questo vuol dire che stiamo per sapere ciò che il presidente pensava davvero del suo vecchio amico Ron Boyle.» 70 «Sentite, sono un po' impegnato», disse Kenny chiudendo la porta in
faccia a O'Shea e a Micah. «Potreste tornare un altro...?» O'Shea infilò il piede per impedire alla porta di chiudersi. Tirò fuori di tasca il badge dell'FBI e lo sbatté sul naso di Kenny attraverso la fessura. «Adesso è il momento giusto per noi», insistette. Non era sorpreso dalla reazione di Kenny. Dopo i parenti, i vecchi amici erano i più difficili da fare parlare. L'occhio guercio di Kenny si fissò su Micah, poi tornò sul badge di O'Shea. «Wes è un bravo ragazzo», disse. «Nessuno ha detto il contrario», rispose O'Shea, entrando con Micah. Studiò rapidamente la cucina. Non era importante che Wes se ne fosse andato. L'importante era quello che aveva visto lì dentro. «Lei è di Key West?» chiese Micah guardando negli occhi il suo socio. Micah rimase in cucina, O'Shea passò in salotto. «Nessuno è di Key West», rispose Kenny, già irritato. «E allora dove ha conosciuto Wes?» chiese O'Shea avvicinandosi alla parete con le foto in bianco e nero dei matrimoni. «Vi dispiace dirmi di che cosa si tratta?» chiese Kenny. «Sono molto belle», rispose O'Shea, guardando da vicino l'immagine di una sposa dai capelli corti che mordeva scherzosamente l'orecchio dello sposo. «Le fa lei?» «Sì, ma...» «Lavorava alla Casa Bianca con Wes?» intervenne Micah, tenendolo sulla corda. «In un certo senso», rispose Kenny. «Io ero un...» «Fotografo», esclamò O'Shea afferrando la foto incorniciata del presidente Manning che si guardava riflesso nella brocca della Casa Bianca. «Mi ricordo di questa. Lei è un pezzo grosso, vero, Mr...? Mi scusi, ho dimenticato il suo nome.» «Non ve l'ho mai detto», disse Kenny. «Be', perché non rimediamo?» chiese O'Shea, posando la cornice d'argento. «Io sono l'agente O'Shea e lei è...» «Kenny. Kenny Quinn.» «Aspetti... Kenny Quinn?» chiese Micah. «Perché conosco questo nome?» «Non lo conosce, a meno che non sia un editore o un addetto stampa della Casa Bianca.» «In verità, ho passato un po' di tempo a Washington, D.C.» disse Micah, lasciando la cucina e avvicinandosi a Kenny in salotto.
Alle spalle di Kenny, O'Shea scorse il faldone posato sul tavolino. «Lei è quello che ha vinto il premio, no?» chiese Micah, cercando di attirare l'attenzione di Kenny. «Il Pulitzer», replicò Kenny seccamente. «Dove si trovava quel giorno?» chiese Micah. «All'autodromo? Eravamo in molti.» «Ma lei è quello che ha scattato la foto, no? La foto del Leone Codardo.» «Mi dispiace», disse Kenny, voltandosi verso O'Shea, «ma finché non mi dite cosa state cercando, non credo che dovrei...» Un sibilo sommesso attraversò l'aria e un foro rosso scuro segnò la pelle di Kenny mentre la pallottola gli penetrava nella fronte. Mentre Kenny crollava a terra senza vita, Micah guardò O'Shea, che aveva la pistola in una mano e il faldone aperto nell'altra. «Sei impazzito?» esplose Micah. «Ti hanno identificato, Micah.» «Cosa stai dicendo? È impossibile!» «Davvero? E allora cosa diavolo è questo?» gridò O'Shea, battendo con la pistola su una cartelletta di plastica trasparente nel faldone. «Poteva esserci dentro qualsiasi cosa...» «Non la cartelletta... sotto!» disse O'Shea togliendo la plastica e rivelando la foto successiva. «Vuoi dirmi che non sei tu?» chiese indicando la foto dell'enorme folla tra cui, se si guardava bene, si notava Micah, in disparte. «No... non è possibile, abbiamo comperato tutte le foto... abbiamo visto tutti i filmati...» «Be', evidentemente ce n'era qualcuna che Kenny ha deciso di tenere per sé! Non capisci, Micah? Wes sa! Ha afferrato il bandolo della matassa, e se incomincia a tirarlo, tu sarai il primo a finire sotto i riflettori!» «E allora? Mi facciano pure delle domande. Sai benissimo che non dirò nulla. Ma qui... sai che razza di valanga hai appena messo in moto?» «Non preoccuparti», disse tranquillamente O'Shea. «Se sistemo bene i corpi, sembrerà una rapina finita male.» «I corpi?» chiese Micah confuso. «Cosa stai dicendo? Ce n'è più di uno?» O'Shea alzò l'arma e la puntò al petto del socio. Seguendo anni di addestramento, Micah scattò sulla destra, poi balzò come un ghepardo su O'Shea. Da come Micah teneva l'indice e il medio -
come artigli - era chiaro che mirava agli occhi di O'Shea. O'Shea fu colpito. Senza dubbio, Micah era veloce. Ma nessuno era così veloce. Mentre premeva il grilletto, i suoi capelli biondi brillavano al sole pomeridiano di Key West. «Spiacente, Micah.» Ci fu un sibilo sommesso. Poi un grugnito. E i Tre diventarono Due. 71 «Non dirmi che l'hai perso. Non dire queste parole.» «Non l'ho perso», disse Lisbeth al suo direttore, afferrando il suo cellulare mentre si avvicinava all'ingresso dell'edificio. «L'ho lasciato andare via.» «Ti avevo detto di non dirlo. Io parlo e tu non mi ascolti?» chiese Vincent. «Qual è la Regola sacra n. 1?» «Continua a farli parlare.» «Giusto. E la Regola sacra n. 26 e mezzo? Non perdere mai di vista quel maledetto Wes!» «Tu non eri lì, Vincent, non hai visto quant'era arrabbiato. Per cinquanta minuti - per tutto il volo di ritorno - l'unica cosa che mi ha detto è stata...» Lisbeth si zittì. «Lisbeth? Pronto? Non ti sento!» «Appunto!» rispose lei, salutando la guardia di sicurezza e andando verso gli ascensori. «Cinquanta minuti di silenzio mortale! Non mi guardava, non mi parlava, non mi insultava neanche. E credimi che gli ho offerto tutte le ragioni per farlo. Si è limitato a guardare fuori del finestrino, fingendo che io non ci fossi. E quando se n'è andato non mi ha neppure salutato.» «Ok, hai ferito i suoi sentimenti.» «Ma vedi, è proprio questo, non ho solo ferito i suoi sentimenti. È in questo campo da troppo tempo per prendersela con una giornalista, ma l'espressione sulla sua faccia... Ho ferito lui.» «Risparmiati i sentimentalismi, Lisbeth. Stavi facendo il tuo lavoro. Anzi, non lo stavi facendo. Se l'avessi fatto, quando ti ha lasciato l'avresti seguito.» «E con che cosa? La mia macchina ce l'ha lui!» «Ti ha rubato la macchina?» Lisbeth fece una pausa. «No.»
Vincent fece una pausa ancora più lunga. «Oh, santo cielo... gliel'hai data tu? Gli hai dato la tua macchina?» gridò. «Regola sacra n. 27: non lasciarti commuovere! Regola n. 28: non innamorarti di un sognatore! E n. 29: non lasciare che un ragazzo triste e sfigurato ti manovri il cuore e ti faccia sentire in colpa solo perché è triste e sfigurato!» «Non lo conosci neanche!» «Il fatto che qualcuno sia su una sedia a rotelle non vuol dire che non ti passerà mai sui piedi. Sai benissimo quanto è importante questa storia, Lisbeth, soprattutto per te.» «E per te.» «E per te», ripeté lui mentre Lisbeth saliva nell'ascensore in attesa e premeva il pulsante del secondo piano. «Conosci il tuo lavoro. Sai che devi pisciare in testa alle persone per essere letta. Quindi, per favore, salvami la giornata e dimmi che sei riuscita almeno a registrare tutto.» Mentre le porte si chiudevano e l'ascensore incominciava a salire, Lisbeth si appoggiò al corrimano di ottone, con la testa premuta all'indietro sulla parete di formica. Ripensando agli avvenimenti della giornata, alzò la testa e iniziò a batterla leggermente contro la parete. Tap tap tap. «Allora, hai la registrazione, vero?» chiese Vincent. Lisbeth aprì la borsa e tirò fuori la cassetta in miniatura che conteneva l'ultima parte della loro conversazione. Certo, aveva dato a Wes il registratore, ma non aveva faticato molto a farsi scivolare in mano la cassetta, mentre lui imprecava. Naturalmente adesso..., no, non solo adesso. Mentre lo faceva, d'istinto, un'altra parte del suo cervello la guardava incredula. Tutti i giornalisti devono fidarsi dell'istinto. Ma non quando sopraffa gli ideali. «Per l'ultima volta, Lisbeth, ce l'hai il nastro, sì o no?» L'ascensore raggiunse il secondo piano e Lisbeth si guardò la mano aperta, sfiorando col pollice la minuscola cassetta. «Mi dispiace, Vincent», disse, rimettendola nella borsa. «Ho cercato di fermarlo, ma l'ha buttato in mare.» «In mare? Davvero?» «Davvero.» Mentre lasciava l'ascensore e seguiva il corridoio sulla sinistra, ci fu una lunga pausa all'altro capo della linea. Ancora più lunga di quella di prima. «Dove sei adesso?» chiese freddamente Vincent. «Dietro di te», disse Lisbeth al telefono. Attraverso la porta aperta in fondo al corridoio grigio, Vincent smise di
passeggiare nel suo ufficio e si girò per affrontarla. Tenendosi il cellulare all'orecchio, si leccò i baffi sale e pepe. «Sono le quattro. Mi serve l'articolo per domani. Subito.» «L'avrai, ma... da come sono rimaste le cose con Wes, penso che sia meglio aspettare ancora un giorno prima di mettere in giro una storia che...» «Fai quello che vuoi, Lisbeth. Lo fai sempre, comunque.» Con un gesto del braccio, Vincent sbatté la porta, provocando un rumore che riecheggiò di fronte a Lisbeth e nel suo cellulare. Mentre i colleghi si giravano a guardare, lei se ne andò nel suo cubicolo in fondo alla sala. Crollò sulla sedia e accese il computer, sul cui schermo si disegnò una griglia di tre colonne quasi completamente vuota. Su un angolo della scrivania, un foglio di carta appallottolato conteneva tutte le informazioni essenziali sulla vittoria del giovane Alexander John nel mondo ultracompetitivo dell'arte liceale. A questo punto, non si poteva sfuggire all'inevitabile. Lisbeth distese il foglio col palmo della mano, rilesse i dettagli e istintivamente inserì il codice per ascoltare la sua casella vocale. «Hai sette nuovi messaggi», dichiarò la voce metallica femminile attraverso l'altoparlante. I primi cinque erano di maitre locali che speravano di fare pubblicità gratis ai loro ristoranti rivelando chi andava a pranzo con chi. Il sesto era un seguito della telefonata sul premio artistico di Alexander John. E l'ultimo... «Salve... ehm... questo è un messaggio per Lisbeth», disse una dolce voce femminile. «Io mi chiamo...» La donna fece una pausa, che spinse Lisbeth a sedersi più eretta. Le informazioni migliori venivano sempre da persone che non volevano identificarsi. «Mi chiamo... Violet», disse infine la voce. Nome falso, decise Lisbeth. Meglio ancora. «Io... oggi ho letto la sua rubrica, e quando ho visto il suo nome, lo stomaco mi si è... Non è giusto, va bene? Lo so che è potente, ma...» Lisbeth mentalmente ripassò i nomi citati nell'articolo del giorno. La First Lady... Manning... intende Manning? «... non è giusto, va bene? Dopo quello che ha fatto.» Sta attenta a come porge il colpo. Sa come colpire, ma non troppo duro. «Comunque, se potesse richiamarmi...» Scrivendo furiosamente il numero, Lisbeth aprì il suo cellulare e lo compose immediatamente. Le orecchie le diventarono rosse quando squillò.
Forza... rispondi, rispondi, rispondi... «Pronto?» rispose una donna. «Salve, sono Lisbeth Dodson di Dal buco della serratura - cerco Violet.» Ci furono un paio di secondi di silenzio assoluto. Lisbeth attese. I nuovi informatori avevano sempre bisogno di qualche istante per decidere. «Ciao, tesoro, aspetta un secondo», disse la donna. In sottofondo, Lisbeth sentì un campanello che tintinnava e l'improvviso soffiare del vento nel telefono. Qualunque fosse il negozio in cui si trovava Violet, era uscita per avere un po' di privacy. Il che voleva dire che aveva intenzione di parlare. «Questa non è... Lei non sta registrando, vero?» chiese finalmente Violet. Lisbeth guardò il registratore digitale che si trovava sempre sulla sua scrivania. Ma non lo toccò. «Niente registrazioni.» «E non farà il mio nome? Perché se mio marito...» «Non ci sarà niente di ufficiale. Nessuno saprà chi è lei. Glielo garantisco.» Di nuovo la linea rimase silenziosa. Lisbeth sapeva di non doverle fare fretta. «Voglio solo che sappia che io non sono una spia», disse Violet con voce rotta. Ascoltando l'inflessione e il ritmo della voce di Violet, Lisbeth scrisse 35 anni? sul suo taccuino. «Capisce? Io non voglio questo. Ma lui... vedere il suo nome di nuovo sul giornale... e così felice... la gente non sa che c'è un altro aspetto della sua personalità... e che quello che ha fatto quella sera...» «Quale sera?» chiese Lisbeth. «Quando è stato?» «Io non credo che sia una persona cattiva - davvero - ma quando si arrabbia... allora... se la prende con i migliori. E quando si arrabbia davvero... Sa come sono gli uomini, eh?» «Certo», ammise Lisbeth. «Adesso perché non mi racconta cos'è successo quella sera?» 72 «Non voglio parlarne», dico. «Ha registrato tutto?» insiste Rogo, con voce ancora scioccata, al telefono.
«Rogo, per favore, possiamo...?» «Forse non è come sembra. Voglio dire, ti ha prestato la macchina e il telefono, no? Forse hai frainteso.» «Ho sentito la mia voce su quella cassetta! Come facevo a fraintendere?» grido stringendo il volante e premendo l'acceleratore con più forza. Mentre supero i folti baniani contorti che riparano dal sole County Road da entrambi i lati, sento che la voce di Rogo cambia. Prima è rimasto sorpreso. Adesso è offeso, e leggermente confuso. Quando si tratta di giudicare un carattere, di solito lui è un maestro. «Te l'avevo detto che ci avrebbe bruciato; è vero o no?» sibila Dreidel in sottofondo. La sua voce è poco più di un sussurro, il che vuol dire che non sono soli. «Ti ha detto perché?» continua Rogo. «Cioè, so che Lisbeth è una giornalista, ma...» «È abbastanza, no? Quante volte devo ripetertelo? Non voglio parlarne!» «Dove sei, comunque?» «Non offenderti, ma è meglio se non te lo dico. Qualcuno potrebbe essere in ascolto.» «Wes, affoghi nella merda... dove diavolo sei?» insiste Rogo. «Sulla US-1.» «Bugiardo, hai risposto troppo alla svelta.» «È la verità.» «Di nuovo troppo alla svelta. Su, Pinocchio, riconosco i balbettii e le esitazioni di quando menti. Dimmi dove sei.» «Devi capire, Rogo, lui...» «Lui? Lui con la maiuscola?» geme, più arrabbiato che mai. «Figlio di Betsy Ross, Wes, stai andando da Manning?» «Mi aspetta. Il programma prevede che arrivi alle quattro.» «Programma? Quell'uomo ti ha mentito per otto anni a proposito della più grande tragedia della tua vita, non...» Abbassa la voce e si costringe alla calma. «Non ti viene in mente di mandare il programma aff... per una volta?» «Sta andando da Manning?» chiede Dreidel in sottofondo. «Rogo, tu non capisci...» «Capisco benissimo. Lisbeth ti ha rattristato... i Tre ti hanno messo paura... e come sempre tu corri ad aggrapparti alla tua coperta presidenziale.» «In realtà, sto cercando di fare quello che avremmo dovuto fare fin dal momento in cui ho visto Boyle vivo: andare da chi sa e scoprire che cosa
diavolo è successo davvero quel giorno.» Rogo resta zitto, il che vuol dire che sta friggendo. «Wes, lascia che ti chieda una cosa», dice alla fine. «Quella sera che hai visto Boyle, perché non sei andato da Manning e non gli hai detto la verità? Perché eri scioccato? Perché sembrava che Boyle fosse stato invitato in quell'albergo dal suo vecchio amico? O perché nel profondo del tuo cuore, a dispetto di tutte le razionalizzazioni, tu sai che prima di essere un padre, un mentore, o un marito, Leland F. Manning è un politico, uno dei più grandi politici del mondo, e tanto basta perché sia capace di mentirti per otto anni senza che tu te ne accorga?» «Quello che non capisci, Rogo, è: e se invece non avesse mentito? Se fosse all'oscuro di tutto, quanto noi? Cioè, se O'Shea e Micah e il Romano, chiunque siano, se sono stati loro a mandare Nico a sparare a Boyle, forse Manning e Boyle non sono i cattivi, in questa storia.» «Ah, adesso sarebbero le vittime?» «Perché no?» «Ti prego, Manning è...» Si controlla, sapendo che, se continuasse a urlare, non lo ascolterei e aggiunge: «Se Boyle e Manning fossero due angeli - se non avessero avuto niente da nascondere e stessero facendo la cosa giusta - perché non hanno portato semplicemente Boyle all'ospedale e non hanno lasciato che le autorità indagassero? Wes, questi due tizi hanno mentito al mondo intero e le persone mentono per una sola ragione: perché hanno qualcosa da nascondere. Ora, io non dico di avere tutù i pezzi del puzzle, ma bastano le loro bugie per capire che Manning e Boyle non sono semplici vittime innocenti.» «Questo non vuol dire che siano nostri avversari.» «Lo credi davvero?» «Io credo che Ron Boyle sia vivo. Che i Tre, con i loro agganci, abbiano aiutato Nico a intrufolarsi nell'autodromo quel giorno. Che O'Shea, Micah e questo Romano, facendo parte dei Tre, hanno chiaramente qualcosa contro Boyle. E per questo adesso stanno facendo tutto quanto è in loro potere per scoprire dove si trova. Come Manning entri in tutto questo, non lo so.» «E allora perché corri da lui come una donna maltrattata che torna dal marito violento?» «Quali sono le mie alternative, Rogo? Andare all'FBI, dove lavora O'Shea? O ai Servizi segreti, dove c'è il Romano? O meglio ancora posso andare alla polizia locale e dirgli che ho visto un morto che camminava. Credi che nel giro di dieci minuti non arriverebbero O'Shea e i suoi, a esi-
bire i loro badge federali, a prendermi sotto la loro custodia e a ficcarmi una pallottola nella nuca con la scusa che tentavo la fuga?» «Questo non è...» «Questa è la verità e tu lo sai benissimo, Rogo! Hanno tentato di eliminare una delle persone più potenti della Casa Bianca in uno stadio con 200.000 spettatori. Pensi che non mi taglierebbero la gola in una strada deserta di Palm Beach?» «Digli di non fare il mio nome con Manning», dice Dreidel in sottofondo. «Dreidel vuole...» «L'ho sentito», dico svoltando bruscamente a sinistra via Las Brisas. Mentre costeggio un'aiuola ben curata, la strada si restringe e le recinzioni ai lati diventano più alte, raggiungendo i sei metri e bloccandomi la vista delle case da multimilionari nascoste dietro di loro. «Rogo, lo so che non sei d'accordo, ma negli ultimi due giorni l'unico motivo per cui sono rimasto lontano da Manning è che O'Shea e Micah mi hanno persuaso a farlo. Capisci? Quest'uomo è stato accanto a me per otto anni e l'unico motivo per cui ho dubitato di lui è che loro - due estranei con un badge - mi hanno detto di farlo. Non prendertela, ma dopo tanto tempo, Manning si merita qualcosa di più.» «Va bene, Wes, ma chiariamo una cosa: Manning non è stato accanto a te per otto anni; sei tu che sei stato accanto a lui.» Scuoto la testa e accosto davanti all'ultima casa sulla destra. Per ragioni di sicurezza, non permettono di posteggiare nel vialetto, per cui mi avvicino all'aiuola che divide le due carreggiate della strada e posteggio dietro a una macchina a nolo blu marina. I suoi ospiti sono in anticipo, il che vuol dire che, mentre salto giù e attraverso di corsa la strada, io sono ufficialmente in ritardo. Prima ancora che mi fermi davanti al doppio cancello di legno alto tre metri, il citofono nascosto fra i cespugli gracchia: «Posso aiutarla?» «Salve, Henry», dico all'agente di servizio. «Sono Wes.» «Non sei costretto a farlo», geme Rogo al telefono. Non è mai stato così in errore. È proprio quello che devo fare. Non per Manning. Per me. Devo sapere. Uno schianto metallico sblocca il cancello, che si apre lentamente. «Wes, aspetta almeno che finiamo di esaminare la cartella personale di Boyle.» «La state già esaminando da quattro ore. Adesso basta. Ti chiamo quan-
do ho finito.» «Non essere così cocciuto.» «A dopo, Rogo», dico chiudendo la comunicazione. È facile per chi è fuori dal ring dire a un lottatore come condurre la sua lotta. Ma questa è la mia lotta. Non l'avevo ancora capito. Percorrendo il vialetto, non vedo alcun numero sulla porta e nessuna casella delle lettere che identifichi gli occupanti. Ma i quattro agenti dei Servizi segreti in borghese in piedi davanti al garage sono piuttosto rivelatori. Con Nico in libertà, hanno tenuto Manning a casa. Per fortuna, penso alzando il mento e guardando la villa azzurra in stile coloniale, io so dove abita l'ex presidente. 73 «E come l'ha conosciuto?» chiese Lisbeth, tenendo il cellulare con una mano e prendendo appunti con l'altra. «Un amico comune», rispose Violet, con la voce che già tremava. «È stato anni fa. Al momento, si è trattato solo di una presentazione.» «Presentazione?» «Deve capire che non si va da un uomo come lui a scodinzolare come se niente fosse. In questa città - con tutti i soldi... con tutto quello che questa gente ha da perdere - l'unica cosa di cui si preoccupano è la discrezione, giusto? Per questo l'hanno mandato da me.» «Naturalmente», dice Lisbeth mentre scrive la parola prostituta sul taccuino. «Quindi lei...» «Io avevo vent'anni, ecco tutto», disse Violet con decisione. Non le piaceva essere giudicata. «Ma per mia fortuna sapevo tenere un segreto. Per questo ottenni quel lavoro. E con lui... durante i primi due appuntamenti, non pronunciai neanche il suo nome. Bastò questo per garantirmi un nuovo invito. I gladiatori hanno bisogno di fare conquiste, no?» chiese con una risata dolce e profonda. Lisbeth non rise. Non era piacevole il dolore altrui. «So quello che sta pensando», riprese Violet, «ma all'inizio è stato bello. Lui era... davvero, era dolce, mi chiedeva sempre se stavo bene... sapeva che mia madre era ammalata e chiedeva di lei. Lo so, lo so, è un politico, ma io avevo vent'anni, e lui...» La voce si spense. Lisbeth non disse niente. Ma poiché il silenzio si prolungava... «Violet, è sempre...?»
«Sembra molto stupido, ma ero emozionata all'idea di piacergli», disse Violet, cercando chiaramente di reprimere un singhiozzo. A quanto pareva, l'ondata di emozione aveva sorpreso anche lei. «Mi scusi, mi lasci... Mi scusi.» «Non deve scusarsi.» «Lo so, ma... Era importante che gli piacessi... che continuasse a tornare», spiegò tirando su col naso. «Restavo per un po' senza vederlo, poi il telefono squillava e io saltavo su e giù come se mi avessero invitato a una festa. E così fu fino a quando... fino a quando una sera se ne andò e io non ebbi più notizie di lui per tre mesi. Ero... onestamente, all'inizio ero preoccupata. Forse avevo sbagliato qualcosa. O si era arrabbiato. E poi, quando seppi che era in città, feci la cosa che non avrei mai dovuto fare, la cosa più stupida che potessi fare, contraria a ogni regola», spiegò Violet, con la voce ridotta quasi a un sussurro. «Gli telefonai.» Lisbeth smise di scrivere in quell'istante. «Arrivò a casa mia dieci minuti dopo», disse Violet, con la gola chiusa da un altro singhiozzo. «Quando aprii la porta, lui entrò senza una parola... si assicurò che nessuno potesse vederlo... e poi - le giuro, non l'aveva mai fatto prima...» «Violet, non c'è niente di male se...» «Non mi accorsi neanche che stava arrivando il primo colpo», disse Violet mentre le lacrime sgorgavano. «Continuava a urlare: "Come hai osato! Come hai osato!" Io cercai di reagire - non... non sono mai stata debole ma lui mi prese per i capelli... e mi scagliò verso... c'era uno specchio sulla mia toilette.» Lisbeth guardò il proprio viso riflesso sullo schermo del computer e non si mosse. «Lo vedevo dietro di me nello specchio... proprio mentre ci finivo contro... lo vedevo dietro di me... la sua faccia... gli occhi rossi. Era come se si fosse tolto una maschera e avesse rivelato... come se avesse liberato qualcosa che c'era sotto.» Violet piangeva. «E... e... e quando se n'è andato... mentre sbatteva la porta, e il sangue mi usciva dal naso, io... lo so, è... non ci crederà, ma lo rimpiangevo ancora», dichiarò piangendo incontrollabilmente. «È possibile essere così patetici?» Lisbeth scosse la testa e si sforzò di restare concentrata. «Violet, so che è difficile, per lei. So cosa vuol dire raccontare una storia del genere, ma ho bisogno... Prima di fare qualsiasi cosa, devo chiederle: ha qualche prova di tutto questo? Qualsiasi cosa... un video, un documento...»
«Non mi crede?» «No, no, no... Ma pensi contro chi si sta mettendo. Senza la possibilità di una verifica...» «Ho una prova», disse Violet, chiaramente irritata, mentre riprendeva fiato. «Ce l'ho proprio qui. Se non mi crede, venga a vedere.» «Vengo subito. Lasci solo che... Aspetti un momento.» Lisbeth si premette il cellulare sul petto, balzò su dalla sedia e afferrò gli appunti sul premio di pittura, sfrecciò via dal suo cubicolo e si infilò in quello della giornalista bionda, di fronte. «Eve, puoi prestarmi la macchina?» chiese. «Prima il telefono - che non ho ancora riavuto - adesso la macchina...» «Eve!» Eve guardò l'arnica, studiando la sua espressione. «È quello buono, vero?» «L'articolo è sul mio computer. Qui c'è l'ultimo argomento», disse Lisbeth, dandole gli appunti sul premio di pittura. «Puoi...?» «Contaci», disse Eve mentre Lisbeth rispondeva già grazie e correva via con il cellulare attaccato all'orecchio. «Violet, sto arrivando», disse, facendo del suo meglio per farla parlare ancora. Regola sacra n. 9: mai lasciarsi sfuggire il pesce grosso. «E... per quanto tempo siete stati insieme?» «Un anno e due mesi», rispose Violet, con tono ancora irritato. «Prima dell'attentato.» Lisbeth rallentò. «Aspetti, vuol dire che lui era ancora alla Casa Bianca?» «Certo. Tutti i presidenti tornano a casa per le vacanze. E non avrebbe potuto fare una cosa del genere a Washington, mentre qui... Mi telefonava e poteva...» «Violet, niente scherzi... Mi sta dicendo che, malgrado tutti i sistemi di sicurezza, malgrado le decine di agenti dei Servizi segreti, lei andava a letto ed è stata picchiata dal presidente degli Stati Uniti mentre era ancora in carica?» «Presidente?» chiese Violet. «Pensa che andassi a letto con Manning? No, no, no... era quell'altro, quello che corre per il senato...» «Vuol dire...» «L'animale che mi ha maltrattato. Sto parlando di Dreidel.» 74 «Pensi che se la caverà?» chiese Dreidel, sistemandosi gli occhiali di
metallo mentre leggeva il file personale di Boyle. «Chi... Wes? Difficile dirlo», rispose Rogo, ancora seduto per terra a sfogliare i documenti richiesti da Boyle. «Si è messo in una partita difficile, ma sai com'è quando si tratta di Manning.» «È evidente che tu non hai mai provato la generosità di Manning.» Dreidel guardò il file e aggiunse: «Sapevi che Boyle parlava ebraico e arabo?» «Chi lo dice?» «C'è scritto qui: ebraico, arabo e linguaggio dei segni americano. Pare che sua sorella fosse sorda. Per questo si sono trasferiti nel Jersey, dove c'era una delle prime scuole per non udenti. Dio, mi ricordo di avere compilato questa roba», aggiunse leggendo il Questionario per la sicurezza nazionale di Boyle. «Secondo quello che c'è scritto qui, ha vinto un premio Westinghouse quand'era alle superiori, e una borsa di studio Marshall a Oxford. Il ragazzo era terribilmente sveglio, soprattutto quando si tratt... Aspetta», disse Dreidel. «"Ha mai ritardato il pagamento di un debito per più di 180 giorni? Sì. Se sì, spieghi perché..."» Dreidel passò alla pagina successiva e lesse il foglio allegato alla dichiarazione. «...per un totale di 230.000 dollari...» «Duecentotrentamila? Cos'ha comprato, l'Italia?» «Non credo che abbia comprato niente», disse Dreidel. «Qui dice che il debito l'aveva contratto suo padre. Boyle, a quanto pare, se l'era accollato volontariamente per evitare che suo padre dovesse dichiarare bancarotta.» «Gli voleva proprio bene!» «In realtà Boyle odia suo padre, ma ama sua madre», disse Dreidel, continuando a leggere. «Se il padre avesse dichiarato bancarotta e fossero intervenuti i creditori, la madre sarebbe stata buttata fuori dal ristorante di famiglia, dove aveva lavorato fin da quando Boyle era un bambino.» «Bel lavoro, da parte di suo padre, mettere a rischio l'impresa di famiglia, buttare la moglie in mezzo alla strada e scaricare tutto il debito sulle spalle del figlio.» «Aspetta, adesso viene il bello», disse Dreidel andando alle ultime pagine del questionario. «Ecco qua: "C'è qualcosa nella sua vita privata che potrebbe essere usato per mettere in imbarazzo il presidente o la Casa Bianca? Per favore, lo spieghi chiaramente".» Trovando, nella pagina successiva, un altro allegato, Dreidel scosse la testa, rammentando ciò che Boyle aveva reso noto all'inizio della campagna. Manning era stato da subito accanto all'amico. «Sappiamo quasi tutto: suo padre era stato arrestato prima che Boyle nascesse, poi fu arrestato di nuovo quando lui aveva sei anni, e
di nuovo quando ne aveva tredici, l'ultima volta per aggressione a scopo di rapina in una lavanderia cinese di Staten Island. Poi riuscì a tenersi lontano dai guai finché Boyle non partì per il college. Fu allora che l'FBI lo sorprese a vendere false polizze assicurative in un ricovero di New Brunswick. L'elenco continua... importazione di moto rubate, emissione di assegni falsi per qualche migliaio di dollari... ma chissà come riuscì a non finire quasi mai in carcere.» «È un classico freudiano, eh? Il papà truffatore che infrange tutte le regole e Boyle che si dedica alla precisione della ragioneria. Com'era quell'articolo di "Time", quando il padre è stato arrestato perché rubava nei negozi? Una pecora nera...» «...alla Casa Bianca. Sì, molto divertente. Quasi quanto la vignetta in cui gli facevano rubare giocattoli per bambini.» «Ma io non riesco ancora...» Rogo si interruppe, scuotendo la testa. «Noi continuiamo a dare la caccia a Boyle come se fosse l'orco cattivo, ma se si osservano i particolari: infanzia miserabile, sorella sorda, mamma povera e italiana... eppure lui riesce a farsi strada e ad arrivare alla Casa Bianca...» «Oh, per favore, Rogo, non dirmi che ti dispiace per lui.» «...e poi suo padre mente, truffa, ruba, e per di più gli lascia il conto da pagare. Voglio dire, pensaci, com'è possibile che un padre faccia una cosa simile a un figlio?» «Esattamente come ha fatto Boyle con sua moglie e sua figlia quando è scomparso dalla loro vita e le ha rese vedova e orfana. Le persone sono disoneste, Rogo, soprattutto quando sono disperate.» «Già, ma è questo il punto. Se Boyle era davvero così cattivo, perché l'hanno lasciato arrivare alla Casa Bianca? Non è proprio a questo che servono tutti questi documenti: a escludere le persone come lui?» «In teoria, è così, ma qui non è che si sia scoperto un segreto. Tutti sapevano che suo padre era un rifiuto della società. Lui stesso lo diceva, per guadagnarsi la simpatia dei giornalisti. Diventò un problema solo quando vinse. Ma se il tuo migliore amico è presidente degli Stati Uniti, che bella sorpresa, l'FBI può fare delle eccezioni. Anzi, guarda come... qui...» disse Dreidel sfogliando ancora una volta il documento. «Ecco», aggiunse staccando un foglio mentre Rogo si metteva seduto sul bordo del tavolo e sfogliava il resto del plico. «Boyle era in possesso di un codice segreto. Prima di darlo, devono sapere da che parte stai. L'FBI, i Servizi segreti, tutti danno un'occhiata. Poi Manning controlla i risultati...» Sul piccolo foglio di carta c'era un elenco
di lettere incolonnate, ciascuna tranne una con una spuntatura accanto: BED ٧ MH ٧ WEX ٧ ED ٧ REF ٧ AC PRL ٧ FB ٧ PUB ٧ «È lo stesso che c'è qui?» chiese Rogo girando una pagina del documento e rivelando un foglio quasi identico. «Esatto, è lo stesso rapporto.» «E perché Boyle ne ha due?» «Uno è per quando ha incominciato, l'altro probabilmente per quando gli hanno confermato l'accesso al codice. È lo stesso. BKD vuol dire background, il tuo passato in generale. MH significa Military History, il tuo curriculum militare, WEX vuol dire Work Experience, le esperienze lavorative...» «Quindi qui ci sono tutti i segreti di Boyle?» chiese Rogo, fissando la pagina semicoperta. «No, qui ci sono i segreti, qui sotto», disse Dreidel, indicando le lettere sottolineate AC, a metà dell'elenco. «AC?» «Areas of Concern, elementi preoccupanti.» «E le altre lettere? PRL... FB... PUB...» «PRL è la storia personale, che immagino si riferisca alla vicenda di suo padre. FB è il suo background finanziario; grazie di nuovo, papà. E PUB...» Dreidel fece una breve pausa, leggendo sul suo foglio mentre Rogo seguiva sulla sua copia. «PUB sono le conseguenze di immagine presso il pubblico se il background di Boyle viene alla luce; nel suo caso era già venuto alla luce.» «E PI?» chiese Rogo. «Cosa?» «PI», ripeté Rogo, porgendo a Dreidel il suo foglio. «Non è l'ultima sigla?»
Dreidel guardò il proprio foglio, che terminava con PUB, poi si rivolse a Rogo, stringendo gli occhi per leggere le lettere e ciò che si trovava accanto, scritto a mano: PI - nota 27 maggio Il viso di Dreidel diventò bianco. «Cosa c'è?» chiese Rogo. «Che cosa vuol dire?» «Qual è la data sul tuo foglio?» Rogo guardò l'angolo in alto e lesse a fatica: «16 giugno. Poco prima dell'attentato.» «Il mio è del 6 gennaio, pochi giorni prima che entrassimo alla Casa Bianca.» «Non capisco, però. Cosa vuol dire PI?» «Paternity Issues», rispose Dreidel. «A quanto pare, poco prima che gli sparassero, Boyle aveva avuto un figlio senza che nessuno ne sapesse niente.» 75 «Che cos'hai fatto?» chiese il Romano. La sua voce gracchiava nel satellitare. «Tutto a posto. Problema risolto» rispose O'Shea, tenendo il telefono attaccato all'orecchio e guardando fuori dal finestrino ovale dell'idrovolante. «Che cosa vuoi dire? Fammi parlare con Micah!» «Be'... è un po' più difficile, adesso...» disse O'Shea mentre l'aereo scendeva avvicinandosi alle onde di Lake Worth. Da quell'altezza - poche decine di metri sul livello del mare - i giardini delle ville di Palm Beach si confondevano uno nell'altro. «O'Shea, non dirmi... Che cosa gli hai fatto?» «Non farmi la morale, ok? Non ho avuto scelta.» «L'hai ucciso?» O'Shea guardò fuori del finestrino mentre l'aereo scendeva a pochi metri di altezza. «Fatti furbo. È sotto copertura nella Direzione delle operazioni. Non potrebbe operare sul suolo americano. E per qualche motivo invece vedono che era presente all'autodromo. Appena identificato da Wes, l'avrebbero preso.» «Questo non vuol dire che avrebbe parlato!»
«Tu credi? Tu credi che se gli avessero proposto un patto, promettendogli di trattarlo bene, non avrebbe puntato verso di noi tutte le dita che aveva?» «Comunque, è uno della CIA» gridò il Romano nel suo telefono. «Hai idea del casino che si scatenerà adesso? Hai acceso un maledetto vulcano!» «Pensi che mi abbia fatto piacere? Conoscevo Micah dall'Accademia militare. È venuto alla comunione di mia nipote.» «Be', immagino che non potrai invitarlo alla festa per i diciott'anni!» Con un ultimo sussulto, l'aereo si preparò all'atterraggio. Appena i galleggianti toccarono la superficie dell'acqua, il velivolo oscillò e vibrò, rallentando per poi seguire la corrente. «Basta», disse O'Shea mentre l'aereo si dirigeva lentamente verso il molo dell'imbarcadero Rybovich Spencer. «È stato già abbastanza difficile così.» «Davvero? Forse dovevi pensarci due volte, prima di mettergli una pallottola in corpo. Sai quanto sarà difficile trovare un'altra persona all'interno dell'Agenzia?» «Tu che mi insegni a pensare alle conseguenze delle mie azioni? Ti sei dimenticato perché ci troviamo in questa merda? Non hai fatto lo stesso con i nostri cosiddetti sei milioni per il Corvo? Arrivi, ficchi le dita in tutte le prese della corrente e poi ti arrabbi con me perché cerco di sistemare le cose.» «Non permetterti... il Corvo è stata una decisione che abbiamo preso insieme», esplose il Romano. «Abbiamo votato!» «No, tu hai votato. Sei stato tu a stabilire una cifra così alta. E quando hanno deciso che non avrebbero pagato, sei venuto a piangere e a dire che avevamo bisogno di un aiuto dall'interno.» «Ok, quindi tu non li volevi, quei sei milioni?» «Quello che non volevo era dover chiedere una somma del genere due volte. Ci abbiamo messo quasi dieci anni per costruire la tua maledetta identità di Romano - tutte le informazioni che abbiamo dirottato verso di te in maniera da far sembrare che tu avessi un grande informatore da qualche parte - che diamine, pensano ancora che il Romano sia una persona reale che fornisce informazioni al governo - e tutto per poter puntare su quell'unico colpo multimilionario! Un colpo solo. Unico! Così doveva essere, finché non ti sono venuti gli occhi a forma di dollaro e hai pensato che potevamo farlo regolarmente!» «Potevamo davvero farlo regolarmente: cinquanta, sessanta, settanta mi-
lioni, facili. E tu eri d'accordo.» «Non dovevi darci retta e non dovevi avvicinare Boyle», disse O'Shea, con voce più tranquilla che mai. «E al contrario dell'ultima volta, non ho intenzione di lasciare che un problema irrisolto torni fuori a morderci il sedere. Finché Wes è in giro con quella foto, abbiamo tutti e due un bersaglio disegnato sulla schiena.» «Così adesso pensi di mettere anche Wes nell'elenco delle tue vittime? Pensavo che fossi d'accordo nel considerarlo solo un'esca.» Senza una parola, O'Shea osservò l'idrovolante che virava accanto a una mezza dozzina di yacht nuovi di zecca e si avvicinava al molo galleggiante. «Guardi quella barca davanti a noi», disse il pilota togliendosi le cuffie ed entrando nel retro dell'aereo. «È di Jimmy Buffett. Vede il nome? Chill: freddo.» O'Shea annuì mentre il pilota apriva il portello, usciva e gettava una gomena sul molo. «O'Shea, prima di fare stupidaggini, pensa al mese prossimo», disse il Romano al telefono. «Se questa cosa in India va in porto...» «Mi ascolti o no? Non c'è nessun mese prossimo! Non c'è nessuna India, o Praga, o Liberia, o Lusaka! Abbiamo messo insieme le nostre risorse, abbiamo creato un perfetto informatore virtuale, e abbiamo fatto un po' di soldi. Ma io ho finito, adesso. Capisci, amico? La pentola d'oro, i settanta milioni, sono stronzate. Io sono fuori.» «Ma se tu...» «Non mi interessa», disse O'Shea dirigendosi verso il portello e scendendo sul galleggiante. Un breve salto lo portò sul molo, dove ringraziò con un cenno il pilota e seguì il sentiero verso la sede dell'imbarcadero. «O'Shea, non fare il mulo», continuava il Romano. «Se tocchi Wes adesso...» «Mi ascolti o no? Non. Mi. Interessa. Non mi interessa se è un'esca. Non mi interessa se è il nostro mezzo migliore per arrivare a Boyle. Non mi interessa neanche che Nico potrebbe arrivare a lui per primo. Quel ragazzo sa come mi chiamo, sa che faccia ho, e soprattutto...» Ci fu un beep sommesso nel telefono di O'Shea. Si bloccò di colpo in mezzo al molo. Lo schermo diceva CHIAMATA NON IDENTIFICATA. Su quella linea, poteva essere solo una persona. «O'Shea, ascoltami», minacciò il Romano. «Mi dispiace, la linea è disturbata, qui. Ti richiamo più tardi.» Con un
clic passò sull'altra linea. «Sono O'Shea.» «E questa è la tua coscienza. Smettila di fare sesso con gli uomini nei posteggi dei TIR. Vai in un bar, è più facile», disse Paul Kessiminan ridendo col suo pesante accento di Chicago. O'Shea non rispose neppure allo scherzo. I tecnici - soprattutto quelli del Reparto investigativo dell'FBI - si credevano sempre più spiritosi di quello che erano. «Per favore, dimmi che hai trovato il telefono di Wes», disse. «No. Ma ho seguito il tuo consiglio di controllare i suoi amici e ho qualcosa sul ciccione.» «Rogo?» «Nelle ultime ore è rimasto zitto come una tomba. Poi, ping, chiamata in arrivo da un numero registrato sotto Eve Goldstein.» «Chi è Eve Goldstein?» «Per questo ho controllato. Sai quante Eve Goldstein ci sono nella contea di Palm Beach? Sette. Una è la proprietaria di un Judaica Store, una fa la direttrice scolastica, due sono pensionate...» «Paul!» «...e una scrive sulla pagina di giardinaggio del "Palm Beach Post".» «Si sono scambiati i telefoni!» «Ooooh, sei bravo. Dovresti lavorare all'FBI!» «Quindi Wes è ancora con Lisbeth?» «Non credo. Ho appena chiamato al giornale. A quanto pare, è al telefono. Credo che abbia dato a Wes il suo cellulare e abbia buttato via l'altro, sull'aereo o da qualche parte. Ti garantisco che quel ragazzo è in gamba», disse Paul. «Per tua fortuna, io sono più in gamba di lui.» «Ma sei riuscito a localizzare il nuovo telefono?» «È un modello vecchio, per cui non c'è GPS. Ma posso indicarti l'antenna più vicina, la numero 626 - County Road, pochi isolati a sud di via Las Brisas.» In mezzo al lungo molo, O'Shea si bloccò. «Las Brisas? Pensi che sia andato...?» «C'è un solo modo per saperlo, Pisolo. Stai attento, però. Con la fuga di Nico, il quartier generale ha iniziato una sua indagine.» O'Shea annuì fra sé, si frugò nella tasca interna e tirò fuori un portafoglio nero e un badge della CIA dello stesso colore. Aprì il primo e diede un'ultima occhiata alla foto di Micah sulla patente. A giudicare dai capelli castani in disordine e dai denti inferiori rovinati, la foto doveva avere circa dieci anni. Prima che gli sistemassero i denti. Prima che prendesse l'abitu-
dine di portare i capelli accuratamente pettinati all'indietro. Prima che diventassero ricchi. O'Shea non aveva provato piacere nel prendere il portafoglio dell'amico, ma sapeva che ci avrebbero messo almeno un giorno per identificare il corpo, anche se in quel momento, mentre si riaggiustava la fondina sulla spalla e controllava la pistola, gli bastava un'ora circa per sistemare tutto e lasciarsi la vecchia vita alle spalle. Avevano creato per Egen un alter ego: il Romano. Sicuramente O'Shea avrebbe potuto crearsi qualcosa per sé. «Quanto ci metterai ad arrivare lì?» chiese Paul al telefono. O'Shea sorrise fra sé e buttò in acqua i documenti di Micah. Essi galleggiarono per mezzo secondo, poi sparirono alla vista. «A questo ritmo, sarò dentro e fuori in un lampo.» 76 «Prova a chiamarlo di nuovo», disse Dreidel mentre girava di lato la scatola di cartone e controllava le date sul bordo: BOYLE, RON - MINISTERO DEGLI INTERNI - 15 OTTOBRE, 31 DICEMBRE. «L'ho appena fatto», disse Rogo, lavorando sui suoi materiali e controllando le ultime scatole del mucchio. «Sai com'è Wes sul lavoro. Non risponde, quando è con Manning.» «Devi provare lo stes...» «Per dirgli cosa? Che forse Boyle aveva un figlio? Che c'è un appunto che fa riferimento al 27 maggio? Se non abbiamo altri dettagli, non ci serve a niente.» «Ci serve a tenere Wes informato, soprattutto dov'è adesso. Dovrebbe sapere che Manning era al corrente.» «E tu ne sei sicuro?» chiese Rogo. «Manning sapeva del figlio di Boyle?» «È il suo migliore amico e c'è nel documento», disse Dreidel. La sua voce tremò leggermente, mentre alzava lo sguardo dalle ultime scatole. «Manning sapeva di sicuro.» Rogo guardò Dreidel attentamente, accorgendosi del cambiamento di tono. «Dubiti di lui, vero, Dreidel? Per la prima volta, ti rendi conto che potrebbe esserci una crepa nella maschera di Manning.» «Continuiamo a cercare, ok?» propose Dreidel rovesciando le ultime due scatole e controllando le date. Una recava la scritta MEMORANDUM - 1
GENNAIO, 31 MARZO. L'altra SEDUTE CONGRESSO AIDS - 17-19 GIUGNO. «Maledizione», sussurrò mettendole da parte. «Niente neanche qui», disse Rogo chiudendo l'ultima scatola e rialzandosi in piedi. «Ok, facciamo i conti: quante scatole abbiamo che comprendono la data del 27 maggio?» «Solo queste», disse Dreidel indicando le quattro scatole d'archivio che avevano sistemato sul tavolo. «In più tu hai tirato fuori il programma, giusto?» «Non che ci aiuti», rispose Rogo agitando il programma ufficiale di Manning del 27 maggio. «Secondo questa roba, il presidente era con sua moglie e sua figlia nella loro casa nel North Carolina. A mezzogiorno è andato in bicicletta. Poi ha pranzato e ha pescato un po' nel lago. Si è rilassato e basta, per tutto il giorno.» «Chi c'era con lui?» chiese Dreidel, ben sapendo che il presidente non viaggiava mai senza portarsi dietro un po' di lavoro. «Albright...» «Naturalmente... si portava il capo di gabinetto dappertutto.» «...e Lemonick.» «Insolito, ma non straordinario.» «E poi le stesse persone che, come hai detto, facevano parte dell'ufficio viaggi: Westman, McCarthy, Lindelof...» «E non Boyle?» «No, secondo questo», disse Rogo, sfogliando il resto del programma. «Va bene, quindi il 27 maggio, due mesi prima dell'attentato, Manning era nel North Carolina e Boyle era presumibilmente a Washington, D.C. La domanda quindi è: che cosa faceva Boyle mentre il gatto era via?» «E tu credi che la risposta sia qui dentro?» chiese Rogo indicando con la mano le quattro scatole. «Sono quelle relative a periodi che comprendono il 27 maggio», rispose Dreidel. «Ti dirò», aggiunse aprendo la prima scatola, «che ho un buon presentimento. La risposta è qui dentro.» «Non è possibile che sia qui dentro!» gemette Rogo quarantacinque minuti più tardi. «Forse dovremmo fare passare ancora tutto.» «L'abbiamo già fatto due volte. Ho controllato ogni foglio di carta, ogni documento, ogni stupido appunto su un post-it. Guarda questi ritagli!» disse tenendo l'indice e il medio come nel segno di pace.
«Abbassa la voce!» sibilò Dreidel, accennando all'addetto vicino ai computer. Rogo gettò un'occhiata a Freddy, che fece loro un caloroso sorriso e un cenno. Tornò a Dreidel e aggiunse: «Va bene, e adesso?» «Non abbiamo molta scelta», rispose Dreidel osservando le restanti trentotto scatole ammonticchiate come piccole piramidi sul pavimento. «Forse l'hanno archiviato in disordine. Esaminiamo tutte le scatole, e tiriamo fuori tutto ciò che reca la data del 27 maggio.» «Ma sono 20.000 pagine!» «E prima incominciamo, prima sapremo tutta la storia», disse Dreidel, mettendo una scatola nuova di zecca sul tavolo. «Non lo so», disse Rogo afferrando le maniglie di una vecchia cassa e sollevandola. Mentre la metteva accanto alla scatola di Dreidel, una nuvola di polvere si levò, come una piccola tempesta di sabbia. «Una parte di me teme che stiamo cercando l'ago nel pagliaio sbagliato.» 77 Port St. Lucie, Florida Edmund era morto da quasi dodici ore. Durante la prima ora, mentre Nico lo legava sul camion al posto del passeggero, dense bolle schiumose di sangue si erano moltiplicate nella ferita sul collo. Nico le aveva notate appena, troppo impegnato a raccontare al suo amico di Thomas Jefferson e dei primi Tre. Alla quarta ora, il corpo di Edmund era ormai irrigidito. Le sue braccia avevano smesso di oscillare. La sua testa, stranamente inclinata all'indietro e verso destra, non oscillava più a ogni sobbalzo. Invece di una bambola di pezza, Edmund era un manichino di legno. Era intervenuto il rigor mortis. Nico continuava a non notare nulla. Alla decima ora, la cabina del camion incominciò a soffrire qualche conseguenza. Sui seggiolini, sui tappetini... sull'interno di plastica della portiera del passeggero, il sangue incominciava a decomporsi, le macchie diventavano di un rosso più scuro, più intenso, come spruzzi di rubini liquidi. Ma anche quando si lasciarono tutto ciò alle spalle - quando abbandonarono il camion e, usando una coperta di lana, si trasferirono sulla Pontiac marrone pulita - era impossibile sfuggire all'odore. Esso non proveniva dal corpo - che ci avrebbe messo dei giorni a decomporsi, anche nel caldo del-
la Florida - ma da quello che c'era dentro: la totale mancanza di controllo dei muscoli da parte di Edmund faceva sì che tutto, dalle feci alle flatulenze, uscisse e imbevesse i suoi vestiti, i pantaloni, perfino la stoffa color pergamena del seggiolino e la coperta polverosa che copriva Edmund dal collo in giù. Seduto al posto di guida accanto a lui, Nico non poteva essere più felice. Davanti a loro, a dispetto dell'ora di punta, il traffico scorreva. Sulla destra, verso ovest, il sole era un perfetto disco arancione che incominciava la sua lenta discesa nel cielo. E soprattutto, mentre superavano un altro cartello stradale verde, erano più vicini di quello che Nico sospettava. PALM BEACH 77 CHILOMETRI Meno di un'ora e ci siamo. Quasi incapace di trattenersi, Nico sorrise e inspirò a fondo l'odore di cesso dell'abitacolo. Non sentì nulla. Non poteva, la vita era così dolce... Accelerando rapidamente, pensò di azionare i tergicristalli mentre uno scroscio serotino mandava qualche goccia sul parabrezza della Pontiac. Ma prima di azionarli davvero, ci ripensò a decise di lasciarli fermi. La pioggia era leggera. Appena una spruzzata. Sufficiente a pulire i vetri. Forse dovresti... «Sì, pensavo proprio la stessa cosa», disse Nico annuendo fra sé. Premette un pulsante sul cruscotto e aprì il tettuccio dell'auto, trattenne il cappellino da baseball degli Orioles che aveva rubato e rovesciò la testa all'indietro per guardare il cielo grigio in alto. «Tieni il volante», disse a Edmund mentre chiudeva gli occhi. A centotrenta all'ora, Nico lasciò il volante. La Pontiac si spostò leggermente sulla destra, tagliando la strada a una donna su una Honda argentata. Dicendo mentalmente una preghiera, Nico tenne la testa rovesciata all'indietro. Il vento sferzava la macchina e gli strappò dalla testa il cappellino da baseball. Gocce di pioggia gli danzarono sulla fronte e sul viso. Il battesimo era incominciato. L'indirizzo di casa di Wes era stretto nella sua mano. La salvezza - per Nico e per sua madre - era a meno di un'ora di distanza. 78
Lisbeth si aspettava che il quartiere fosse uno schifo. Invece, mentre si dirigeva a ovest sul Palm Beach Lakes Boulevard e seguiva le istruzioni di Violet - oltre l'Home Depot, Best Buy e Olive Garden, poi a destra sul Village Boulevard - era chiaro che non avrebbe dovuto chiudere a chiave la macchina. In effetti, quando si avvicinò alla guardiola del Misty Lake, villaggio residenziale, dovette solo abbassare il finestrino. «Salve, vado a trovare il numero 326», spiegò alla guardia, ricordando che Violet le aveva detto di non dire il suo nome. Naturalmente, era una sciocchezza. Lisbeth aveva già il suo indirizzo, che cosa importava il suo nome? «Ha un documento, per favore?» chiese la guardia. Mentre gli porgeva la patente, Lisbeth aggiunse: «Mi scusi, credo che sia il 326, io cerco...» «Gli Schopf: Debbie e Josh», disse la guardia, dandole un pass da visitatrice da mettere sul cruscotto per posteggiare all'interno. Lisbeth annuì. «Sono loro.» Aspettò che il cancello si chiudesse alle sue spalle e scrisse il nome Debbie Schopf sul suo taccuino, seguì i cartelli e gli infiniti dossi accanto a file e file di casette rosa tutte uguali, con le lucine accese che pendevano davanti alla porta e l'omino di neve gonfiabile nel giardino verdissimo. Natale in Florida al n. 326. Percorrendo il vialetto di accesso, Lisbeth infilò il taccuino nella borsa, rendendolo invisibile. Violet era già nervosa al telefono. Non c'era bisogno di aggiungere... «Lisbeth?» chiamò una voce femminile mentre la porta della casetta si spalancava. Lisbeth alzò gli occhi al livello normale e si trovò a fissare il collo scuro di Violet. Fu solo quando alzò la testa che vide in faccia la splendida afroamericana di un metro e ottanta in piedi sulla soglia. Violet indossava jeans scoloriti e una maglietta bianca con la scollatura a V e sembrava quasi che cercasse di vestirsi da mamma. Ma l'uniforme da casalinga di periferia non riusciva a mascherare la bellezza sottostante. «Vuole... vuole entrare?» chiese Violet con voce tremante mentre abbassava la testa e distoglieva lo sguardo. Lisbeth pensò che fosse timida. Probabilmente imbarazzata. Ma quando si avvicinò, superò Violet ed entrò in casa, riuscì a vedere bene per la prima volta il suo sopracciglio sinistro, che sembrava tagliato in due da una minuscola cicatrice bianca che attraversava la pelle altrimenti perfetta. «Quello... È stato lui?» chiese Lisbeth, che già sapeva la risposta.
Violet la guardò, inarcando le spalle come un gatto in un angolo, poi, con altrettanta rapidità, il suo atteggiamento si rilassò e ritornò calma. Per Lisbeth, fu come guardare un fulmine con un attimo di ritardo. Due secondi prima, la rabbia esplodeva negli occhi di Violet, poi era scomparsa in un momento. Ma, come nel caso del lampo, era rimasta una traccia, molto forte. Lisbeth non poteva ingannarsi. E in quel momento vide la donna decisa, splendida e sicura di sé che la ventenne Violet era stata. E che non sarebbe mai più tornata a essere. «Non voglio la mia foto sul giornale. E neanche il mio nome», sussurrò Violet, tirandosi la frangia sulla cicatrice bianca. «Non lo farei mai!» garantì Lisbeth, che si sarebbe data un calcio per avere affrettato i tempi. A giudicare dal servizio da tè di plastica rosa sparpagliato per terra e dalla carrozzina per bambole all'ingresso, Violet aveva molto da perdere. Lisbeth non sarebbe mai riuscita a ottenere la sua storia senza dolcezza. «Adorabile», disse percorrendo il corridoio e ammirando la foto incorniciata di una bambina che correva accanto a un irroratore da giardino, con la bocca aperta a leccare l'acqua. Violet reagì appena. Lisbeth si voltò. A tutti i genitori piace parlare dei propri figli. A metà del corridoio Lisbeth osservò le altre foto di famiglia appese alla parete. La bambina era ritratta di nuovo con una donna rossa sulla spiaggia. E di nuovo con la rossa in un campo di zucche. Mentre Lisbeth osservava le foto, notò che tutte ritraevano persone di pelle bianca. Anzi, in nessuna c'erano dei neri. Lisbeth l'aveva sottovalutata. Violet - o come si chiamava - non era una sciocca novizia. «Questa non è casa sua, vero?» chiese. Violet si fermò nella cucina piccola e ingombra. Un tavolino di plastica da bambino era posto accanto a una tavola normale di falso legno. Una mezza dozzina di foto coprivano lo sportello del frigo. Anche lì, erano tutti bianchi. «E il suo nome non è Debbie Schopf, giusto?» continuò Lisbeth. «Lasci Debbie fuori da questa storia.» «Violet, se è sua amica...» «Mi sta solo facendo un favore.» «Violet...» «Per piacere, non la coinvolga. Oh Dio», disse Violet coprendosi gli oc-
chi con una mano. Era la prima volta che Lisbeth poteva osservare la sottile vera d'oro sull'anulare di Violet. L'unico dettaglio a cui credeva. «Senta», disse Lisbeth toccando la spalla di Violet. «Mi sta ascoltando? Non sono qui per incastrarla o per coglierla in fallo o per coinvolgere la sua amica. Lo giuro. Devo solo sapere se quello che mi ha detto di Dreidel...» «Non me lo sono inventato.» «Nessuno lo pensa.» «Ha detto che non avrebbe usato il mio nome. Me l'aveva promesso.» «E glielo ripeto, Violet», disse Lisbeth, sapendo che il nome falso la metteva a suo agio. «Nessuno sa che sono qui. Né il mio direttore, né i miei colleghi, nessuno. Ma si ricordi che mi ha invitato qui per un motivo ben preciso: quello che Dreidel le ha fatto, alzando le mani...» «Non ha alzato le mani, mi ha dato un pugno in faccia e mi ha sfregiato con lo specchio!» esplose Violet, lasciando prevalere la rabbia sulla paura. «Quel bastardo mi ha ferito in maniera tale che ho dovuto dire a mia madre di avere fatto un incidente in macchina! E lei mi ha creduto, dopo che avevo spaccato i fari per dimostrarglielo. Ma quando l'ho visto sul giornale... Se crede che me ne starò zitta mentre lui fa la parte del senatore boy scout... oh, no, no, no!» «La capisco, Violet, davvero. Ma deve comprendere che io non posso fare niente, non posso neanche aiutarla, finché non ho delle prove. Lei ha detto che ne aveva. Sono delle foto? O...» «Foto? Sarà anche stupido, Dreidel, ma non fino a questo punto!» Violet uscì dalla cucina e andò in sala, dove le tende beige impedivano agli ultimi raggi del sole di filtrare dalle portefinestre scorrevoli. Si prese un momento per calmarsi, appoggiando la punta delle dita al centro del petto. «Si sente bene?» chiese Lisbeth. «Sì, ma... provo un certo odio per il passato, capisce cosa intendo dire?» «Scherza? Io odio anche il presente.» Era una battuta facile, ma era proprio quello di cui Violet aveva bisogno per riprendere fiato. «Quando noi... sa, quando abbiamo incominciato», disse inginocchiandosi e frugando sotto un divano a L con il rivestimento a fiori, «non potevo neanche fargli domande sul suo lavoro. Ma questi della Casa Bianca... non sono diversi dai ricchi di Palm Beach o di Miami o di qualsiasi altro posto... tutti egocentrici che amano parlare di sé», aggiunse mentre tirava fuori da sotto il divano un fascio di carte. Tenute insieme da un grosso elastico, sembravano cataloghi e lettere. Quando Violet tolse l'e-
lastico, si sparpagliarono sul tavolino di formica color crema. «Osservazioni del presidente Manning per il Summit APEC. Programma definitivo per i funerali del re del Marocco...» Violet li fece scorrere rapidamente uno per uno. «Guardi qui: biglietto da visita del presidente dei Miami Dolphins con il suo numero personale e quello del cellulare vergati a mano sul retro e la scritta SIG. PRESIDENTE, FACCIAMO UNA PARTITA A GOLF. Bastardo.» «Non capisco. Dreidel ha lasciato qui questa roba?» «Lasciato? Me l'ha data. Me l'ha data vantandosi. Non so, forse era il suo modo di dimostrarmi che stava davvero accanto al presidente. Ogni volta che veniva, prendeva un pezzo dal tavolo delle scartoffie: l'appunto con cui Manning ordinava cosa mangiare a pranzo, i punteggi di una partita di bridge, medaglie militari, cruciverba, i cartellini dei bagagli...» «Che cos'ha detto?» «Cartellini dei bagagli?» «Cruciverba», ripeté Lisbeth sedendosi accanto a Violet sul divano e chinandosi sul tavolino. «Oh, ne ho proprio uno», rispose Violet frugando tra le carte. «Manning era un appassionato. Dreidel disse che riusciva a completare uno schema mentre parlava al telefono con... Eccolo qui», aggiunse tirando fuori un vecchio giornale ripiegato. Quando Violet glielo porse, le braccia, le gambe e tutto il corpo di Lisbeth si fecero di ghiaccio. Finalmente vedeva il cruciverba... e le risposte scritte dal presidente... e le lettere segnate sul margine sinistro. Le tremavano le mani. Lo lesse e rilesse per essere sicura. Non ci credo. Come abbiamo fatto a...? «Cosa c'è?» chiese Violet, chiaramente confusa. «Qualcosa non va?» «Niente... solo... Posso contattarla a questo numero, vero?» Violet annuì, e Lisbeth copiò il numero scritto sulla base del telefono. Si alzò, continuando a tenere il cruciverba in mano. «Senta, posso fare una copia di questo? Glielo riporto subito.» «Certo, ma... Non capisco. Che cos'ha trovato, la scrittura di Dreidel?» «No», rispose Lisbeth correndo verso la porta, mentre apriva il telefonino e faceva il numero di Wes. «Qualcosa di meglio.» 79 Silenzioso da quasi venticinque minuti, Rogo era chino sulla scatola
dell'archivio che teneva in grembo mentre le sue dita sfogliavano i documenti pagina per pagina. «Chi pensi che sia la madre?» chiese finalmente mentre il sole calava attraverso la finestra vicina. «Del figlio di Boyle?» rispose Dreidel, frugando nella sua scatola. «Non ne ho idea.» «Pensi che fosse qualcuna di importante?» «Definisci importante.» «Non lo so; poteva andare a letto con chiunque: una dirigente dello staff... una dipendente... la First Lady...» «La First Lady? Scherzi? Pensi che non ce ne saremmo accorti se la signora Manning - alla Casa Bianca - avesse incominciato tutt'a un tratto a vomitare, ad aumentare di peso e ad andare dal medico, per non dire se un giorno fosse arrivata con un bambino che assomigliava a Boyle?» «Magari non ha tenuto il bambino. Poteva...» «Quella sigla vuol dire che il bambino è nato», ribatté Dreidel, allungandosi sul tavolo e prendendo un'altra scatola. «Se pensavano che ci fosse stato un aborto avrebbero scritto ABT. E comunque, la First Lady? Ma per favore! Quando è stato il momento di lasciare la Casa Bianca, era più arrabbiata lei del presidente. Non avrebbe mai messo tutto a rischio per una stupida storia con Boyle.» «Dico solo che poteva essere chiunque», insistette Rogo. Aveva passato quasi metà della cartella quando arrivò a uno spesso portadocumenti a fisarmonica con dentro due foto incorniciate. Tirò fuori la prima cornice d'argento e osservò la foto di Boyle con la moglie e la figlia. In posa davanti a una cascata, Boyle e sua moglie abbracciavano allegramente la figlia sedicenne, Lydia, che al centro della foto gridava e rideva insieme, mentre l'acqua gelata le bagnava la schiena. Ridendo insieme a lei, Boyle aveva la bocca aperta. A dispetto dei folti baffi di lui, era chiaro che Lydia aveva il sorriso del padre. Un sorriso ampio, tutto denti. Rogo non riusciva a distogliere lo sguardo. Una felicità... «È solo una foto», lo interruppe Dreidel. «Che?» chiese Rogo guardandosi alle spalle. Dreidel, dietro di lui, guardava la foto dei Boyle alla cascata. «È così, è solo una foto», lo avvertì. «Credimi, anche se sorridono, non vuol dire che siano felici.» Rogo guardò la foto, poi tornò a fissare Dreidel, che aveva le labbra strette. Rogo conosceva quell'espressione. La vedeva tutti i giorni sulla faccia dei suoi clienti multati per eccesso di velocità. Tutti conosciamo i
nostri peccati. «Quindi la madre del problema di cui Boyle è padre...» Rogo riprese. «Può essere chiunque», ammise Dreidel, lieto di tornare su quel binario. «Anche se, conoscendo Boyle, scommetto che è una di cui non abbiamo mai sentito parlare.» «Perché dici così?» «Non lo so... è che... quando eravamo alla Casa Bianca, Boyle era fatto così. Essendo un amico d'infanzia di Manning, non ha mai fatto parte davvero dello staff. Era... era lì», disse Dreidel tenendo la mano sinistra a livello degli occhi. «E pensava che noi altri fossimo qui», aggiunse sbattendo la mano destra sul tavolo. «È uno dei vantaggi dell'essere amico del presidente.» «Ma è questo il punto. So che è diventato una specie di santo, quando gli hanno sparato, ma da quello che vedevo stando dentro, Boyle passava un sacco di tempo dietro alla lavagna.» «Forse è perché Manning aveva saputo del bambino.» Per la seconda volta, Dreidel si zittì. Rogo non disse una parola. Tirò fuori la seconda foto dalla scatola, aprì il sostegno della cornice nera e la collocò sul tavolo. Dentro c'era un primo piano di Boyle con sua moglie, stretti guancia contro guancia mentre sorridevano al fotografo. I folti baffi e i folti capelli rivelavano che la foto era vecchia. Due persone innamorate. «Che cos'altro c'è lì dentro, oltre alle foto?» chiese Dreidel, girando leggermente la scatola e leggendo la parola Misc, sull'etichetta. «Per lo più documenti di lavoro», disse Rogo svuotando la scatola e prendendo un libro sulla storia del genocidio, un tascabile sull'eredità irlandese e una copia tenuta insieme con l'elastico di un testo molto critico, intitolato Il mito di Manning. «Mi ricordo quando uscì», disse Dreidel. «Quel presuntuoso non ci aveva neppure chiamato per controllare qualche dato.» «Non riesco a credere che conservino tutta questa merda», disse Rogo prendendo un permesso di posteggio per il Kennedy Center vecchio di dieci anni. «Per te è merda, per la biblioteca è storia.» «Lascia che ti dica una cosa: anche per la biblioteca questa merda è merda», disse Rogo tirando fuori un fascio di ricevute di taxi, un pezzo di carta con delle indicazioni per raggiungere l'Arena Stage, una partecipazione matrimoniale, un disegno con su stampato Zio Ron e un blocco a
spirale con su il simbolo dei Washington Redskins. «Ehi, ehi, che cosa fai?» disse Dreidel. «Questo?» chiese Rogo indicando il disegno. «Quello», insistette Dreidel, afferrando il blocco con il simbolo della squadra di football. «Non capisco. A cosa ti serve un calendario di football?» «Questo non è un calendario.» Dreidel aprì il blocco, lo girò verso Rogo e rivelò una pagina con la prima settimana di gennaio. «È l'agenda di Boyle.» Rogo alzò le sopracciglia e si batté la mano sulla fronte confusa. «Quindi possiamo verificare tutti i suoi impegni...» «Esatto», disse Dreidel, che già lo sfogliava. «Impegni, riunioni, cene, tutto; e in particolare che cosa doveva fare la sera del 27 maggio.» 80 «Signor presidente?» chiamo aprendo la porta d'ingresso. Nessuna risposta. «Signore, sono Wes, è qui?» chiamo di nuovo, pur conoscendo la risposta. Se lui non fosse qui, non ci sarebbero fuori i Servizi segreti. Ma dopo tanti anni, sono sempre attento a restare al mio posto. Un conto è entrare nel suo ufficio. Entrare in casa sua è una faccenda ben diversa. «Quaggiù» dice una voce che riecheggia nel lungo corridoio che conduce alla sala. Mi fermo un attimo, non riuscendo a inquadrare la voce - educata, con una sfumatura di accento britannico - ma entro rapidamente e chiudo la porta. È stato abbastanza difficile prendere la decisione di venire qui. Anche se ha degli ospiti, non ho intenzione di andarmene adesso. Cerco ancora di identificare la voce, vado nel corridoio e getto un'occhiata alla foto incorniciata in bianco e nero, grande come un poster, appesa sopra la credenza sulla mia destra. È la foto preferita di Manning: una visione d'insieme alla sua scrivania nello Studio Ovale, presa da un fotografo che letteralmente ha messo la macchina sulla sedia del presidente e ha scattato. Il risultato è la perfetta riproduzione di ciò che Manning vedeva seduto dietro alla scrivania più potente del mondo: le foto di sua moglie, la penna lasciata per lui dal presidente che l'ha preceduto, un biglietto scritto da suo figlio, una piccola placca dorata con la frase di John Lennon: «A working class hero is something to be» e una foto di Manning seduto accanto a sua
madre il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, il loro primo incontro ufficiale nello Studio Ovale. Sulla sinistra, il telefono incombe grande come una scatola da scarpe, talmente vicino alla macchina fotografica che si riescono a leggere i cinque nomi sui tasti delle chiamate veloci: Lenore (sua moglie), Arlen (il vice), Carl (il consigliere per la sicurezza nazionale), Warren (il capo di gabinetto) e Wes. Io. Bastava premere un pulsante e arrivavamo tutti di corsa. Otto anni dopo, io non sono cambiato. Finora. Percorro il corridoio ed entro nella sala dei ricevimenti, dove Manning, al centro del tappeto tibetano, è in piedi su uno sgabello, e un uomo dalla pelle chiara e dai capelli in disordine che gli coprono a stento la grossa fronte gli svolazza intorno come un sarto all'opera su un vestito. «Per favore, presidente, deve restare fermo», geme. Riconosco adesso un raffinato accento sudafricano. Dietro a Grossa Fronte una fotografa sui venticinque anni con i capelli corti abbassa il mento e un flash scatta. Solo quando vedo che Grossa Fronte ha un calibro per le misurazioni simile a un righello, ma con un'estremità regolabile - capisco quello che sta succedendo. La fotografa scatta un'altra foto. Sul divano, una scatola quadrata che si potrebbe facilmente scambiare per una dama cinese contiene una decina di file di occhi di vetro, tutti di un grigio simile a quello di Manning. Manning stesso resta perfettamente immobile e il calibro fa clic sul suo polso, mentre un numero digitale compare e fornisce a Grossa Fronte un'altra misura. Il Museo delle cere Madame Tussauds si vanta della propria precisione. Anche per le celebrità non più sulla cresta dell'onda. «Cosa ne pensa, sono più scuri, adesso, no?» dice una piccola afroamericana prendendo due occhi color canna di fucile che mi fissano. La cosa strana è che, pur sospesi in aria, assomigliano un po' a quelli di Manning. «Questi vengono dalla figura fatta alla Casa Bianca - sono artigianali, ovviamente - ma ho l'impressione che con gli anni il grigio sia diventato più scuro.» «Sì... certo», balbetto guardando già l'orologio. «Scusi, sa quanto ci vorrà per...?» «Rilassati, Wes», interviene Manning con il tipo di risata che non vorrei assolutamente sentirgli. L'unica occasione in cui si emoziona così è la riunione annuale del consiglio di amministrazione della sua biblioteca. Riunendo il vecchio staff, ha l'impressione di riprendere il potere; la cosa dura al massimo quattro ore, poi Manning torna a essere uno degli ex presidenti
e deve fermarsi ai semafori rossi. Oggi, gli addetti di Madame Tussauds riportano l'atmosfera dei giorni di gloria. Manning non intende rinunciarvi. «Il programma è chiaro», dice. «Dove vorresti andare?» «Da nessuna parte, signore. Ma adesso che... dopo la fuga di Nico...» «Mi sembri Claudia.» Si gira e mi guarda davvero per la prima volta... e si interrompe. Io saprò capirlo bene, ma lui capisce me ancora meglio, soprattutto quando si tratta di Nico. «Wes», dice. Non serve altro. Sto bene, rispondo con un cenno. Sa che è una bugia, ma sa anche perché la dico. Se dobbiamo parlare, non sarà davanti a un pubblico. Mi dirigo verso Grossa Fronte, che sembra il capo. «Declan Reese, di Madame Tussauds. Grazie per averci ricevuto di nuovo», dice lui salutandomi con il calibro e porgendomi la mano. «Cerchiamo di non disturbare mai i nostri soggetti due volte, ma la popolarità del presidente Manning...» «Pensano che stia invecchiando e vogliono assicurarsi che il giro vita sia esatto», dice il presidente sporgendo allegramente la pancia. Tutti i presenti ridono. Soprattutto perché è vero. «No problem», dico io, senza dimenticare il mio obiettivo. «Ma ricordate che...» «Trenta minuti», promette Declan mentre il flash scatta di nuovo. «Non preoccupatevi, ho fatto Rudy Giuliani in ventisette minuti, e senza dimenticare le labbra screpolate e le nocche rosse sulle mani.» Mentre la donna degli occhi si prepara a prendere l'impronta dei denti, Declan mi spinge di lato e mi prende per il gomito. «Ci stavamo chiedendo anche se potevamo avere un nuovo vestito. Qualcosa che rifletta il carattere più informale di un ex presidente», sussurra forte quanto basta perché Manning lo senta. «Gli uffici di Bush e di Clinton hanno mandato delle magliette da golf.» «Mi spiace... noi non facciamo questo tipo di...» «Cos'hanno mandato Bush e Clinton? Magliette da golf?» chiede Manning, che non vuole mai stare in disparte. Tutti i giorni decliniamo decine di richieste, dalla pubblicità per il consumo di latte alle scacchiere del presidente, agli autografi, a un'offerta di dieci milioni di dollari per un cameo di due giorni in un film. Ma quando gli altri ex sono coinvolti, Manning non può trattenersi. «Wes, fammi un piacere, vai a prendere uno dei miei blazer blu. Se gli diamo una maglietta da golf, ci mettono come i Tre Porcellini.» Mentre tutti ridono di nuovo, lancio un'occhiata a Declan, che senza
dubbio sa fare il suo mestiere. Chi ha ottenuto la ricetta per gli occhiali di Woody Allen, può ben fregare degli abiti a un ex presidente. «Grazie, signore», dice con il suo accento levigato mentre io torno in corridoio e salgo le scale. Di solito, replicherei, ma prima se ne vanno, prima potrò scoprire cosa c'è in ballo con Boyle. Concentrato su questo, afferro il corrimano e ripasso mentalmente la mia parte. Quando si tratta di dare a Manning una cattiva notizia, la cosa migliore è essere diretti. Signore, credo di aver visto Boyle l'altra sera in Malaysia. Conosco i trucchi di Manning: so come sorride quando è arrabbiato, come alza il mento quando finge sorpresa. Mi basterà vedere la sua reazione per sapere quello che mi serve. In cima alle scale, il cellulare che ho in tasca si mette a vibrare. Mi porto rapidamente lungo il corridoio, fiancheggiato da due bandiere americane: quella che sventolava in cima alla Casa Bianca il giorno dell'insediamento di Manning e quella che sventolava il giorno in cui se n'è andato. Quando raggiungo la camera da letto sulla sinistra, sto già ripensando la mia strategia. Forse non dovrei essere così brusco. Manning reagisce sempre meglio se lo si prende con dolcezza. Signore, so che sembra strano... Signore, non so come dirlo... Signore, sono davvero il coniglio che credo di essere? Rispondendomi da solo, spalanco la porta della camera da letto e... «Aaaah!» grida la First Lady, facendo un salto sulla sedia davanti allo scrittoio antico nell'angolo. Si volta a guardarmi con tale rapidità che gli occhiali le cadono per terra. Benché sia perfettamente vestita, in camicetta azzurra e pantaloni bianchi, io mi copro gli occhi e arretro immediatamente. «Mi scusi, signora. Non sapevo che fosse qui...» «N... niente, niente», dice lei agitando la mano per rassicurarmi. Mi aspetto che mi aggredisca. Invece è stata talmente sorpresa che non succede niente. Ha il volto arrossato e gli occhi che continuano a sbattere, mentre cerca di recuperare la calma. «Solo... mi ha colto di sorpresa, ecco.» Ancora scusandomi, le raccolgo gli occhiali e mi avvicino a ridarglieli. Solo quando mi trovo davanti a lei vedo che con la mano sinistra tenta di nascondere qualcosa sotto il cuscino della sedia. «Grazie, Wes», dice prendendo gli occhiali senza guardarmi. Giro sui tacchi e vado verso la porta, ma non senza lanciare un'occhiata alle spalle. La dottoressa Lenore Manning ha affrontato due campagne presidenziali, tre elezioni governative, due parti naturali e quattro anni di attacchi a lei, a suo marito, ai suoi figli, alla sua famiglia e a quasi tutti gli
amici intimi, compresa una copertina di «Vanity Fair» con una sua foto che più informale non si poteva e il titolo La First Lady è In: Perché la bellezza è Out e il cervello fa furore. A questo punto, il peggiore degli attacchi le scivola addosso. Quando vedo che mi guarda - quando i nostri occhi si incrociano e scorgo il rossore dei suoi, che tenta di nascondere con un sorriso e un altro grazie - le mie gambe si fermano. Può sbattere le ciglia finché vuole: riconosco le lacrime, quando le vedo! Mentre arrivo alla porta, l'imbarazzo è totale. Vattene, sbrigati, sparisci. Non dovrei essere qui. Senza riflettere, mi precipito in corridoio e torno alle scale. Qualsiasi cosa, pur di andarmene. Il mio cervello lavora a tutta velocità, tentando di capire. Non è neanche... In tanti anni con loro... Cosa può esserci stato di cosi terribile da farla piangere? Cercando una risposta, mi fermo in cima alle scale e mi guardo alle spalle. Sulla destra ho la bandiera del giorno in cui abbiamo lasciato la Casa Bi... No, non abbiamo lasciato la Casa Bianca, ci hanno sbattuto fuori. Sbattuto fuori per il modo in cui Manning ha reagito all'autodromo. Sbattuto fuori dopo che avevano sparato a Boyle. Dopo che Boyle era morto nell'ambulanza. Ho visto i funerali alla televisione dal mio letto in ospedale. Ovviamente, continuavano a inquadrare le reazioni del presidente e della First Lady. Nascosta dall'ampio cappello nero, lei teneva la testa immobile, cercava di controllarsi, ma quando la figlia di Boyle ha incominciato a parlare... La telecamera l'ha inquadrata solo per un istante, senza neanche capire quello che succedeva. La First Lady si era soffiata il naso e si era rizzata sulla sedia, più rigida che mai. Fine. Era l'unica volta che l'avevo vista piangere. Finora. Mi guardo ancora alle spalle, vedo il corridoio con la porta della camera aperta. Non c'è dubbio, dovrei scendere. Non sono affari miei. Potrebbe piangere per infinite ragioni. Ma proprio adesso, due giorni dopo che ho visto Boyle con i suoi occhi castani e azzurri... il giorno dopo che Nico è scappato dal St. Elizabeths... e chissà cosa stava nascondendo sotto il cuscino la First Lady... Mi odio per questi pensieri. Dovrebbero licenziarmi per questo. Ma con tutto quello che sta succedendo, andarmene adesso, rinunciare, fare finta di non avere visto niente, scendere senza sapere perché una delle donne più potenti del mondo è improvvisamente devastata... No, non posso. Devo sapere. Torno verso la camera da letto camminando silenziosamente sulla passatoia dorata del corridoio. Sento un leggero sospiro provenire dalla sua direzione. Non un pianto. Un forte sospiro conclusivo, che mette fine a tutto.
Stringo i pugni e trattengo il fiato, faccio altri due passi in punta di piedi. Per otto anni mi sono impegnato a difendere la loro privacy. Adesso la sto invadendo io stesso. Ma se lei sa qualcosa... qualcosa di quello che è successo... Mi fermo, quasi sulla soglia. Ma invece di entrare nella stanza sulla sinistra, allungo il collo, mi assicuro che la First Lady non possa vedermi e mi infilo nel bagno aperto sulla mia destra. Poiché il sole è al tramonto, il bagno è buio. Mi nascondo dietro la porta, col cuore che mi martella nelle tempie. Per sicurezza, socchiudo la porta e spio dalla fessura verticale tra lo stipite e la costa della porta. Al di là del corridoio, nella sua stanza, la First Lady mi dà le spalle, seduta alla scrivania. Dalla mia angolazione vedo solo la metà destra del suo corpo - ma è quella che mi serve, soprattutto adesso che tira fuori da sotto il cuscino quello che aveva nascosto. Premo il naso sulla fessura e cerco di vedere che cos'è. Una foto? Un documento? Niente da fare. La sua schiena mi nasconde tutto. Ma quando abbassa la testa per esaminare l'oggetto, il suo atteggiamento cambia all'improvviso. Le cadono le spalle. Il braccio destro incomincia a tremarle. Si tocca il naso, come se volesse stringerselo, ma un nuovo sospiro, seguito da un gemito quasi impercettibile, mi fa capire che non si sta stringendo il naso, si sta asciugando gli occhi. E sta piangendo di n... Con la stessa rapidità, si irrigidisce e rialza le spalle. Come prima, supera il momento con un sospiro che getta l'ultima manciata di terra sulla tomba dell'emozione da cui è stata momentaneamente sopraffatta. Anche da sola, con il braccio che continua a tremare, la moglie del presidente rifiuta di cedere alla debolezza. Muovendosi come se fosse di fretta, piega il documento o la foto o quello che è, e lo infila tra le ultime pagine di quello che sembra un libro tascabile, sulla sua scrivania. Me n'ero quasi dimenticato. Manning non è l'unico per cui quelli di Madame Tussauds sono venuti qui. Con un ultimo, profondo sospiro, la First Lady si sistema la gonna, si asciuga gli occhi e rialza il mento. La maschera pubblica è di nuovo al suo posto. Mentre si gira per lasciare la stanza, guarda in corridoio, nell'angolo buio in cui mi trovo, ed esita un istante. Mi allontano dalla fessura della porta e lei riprende a muoversi, distogliendo rapidamente lo sguardo. No, è impossibile. Non ha visto niente. Nascosto nel buio, la vedo venire verso di me, passarmi sulla sinistra, pochi secondi dopo i suoi passi risuonano allontanandosi sulle scale di legno. Non oso neppure respirare finché non sento i suoi passi svanire sulla moquette da basso, e anche allora conto fino
a dieci, per sicurezza. Un'ondata di nausea mi sta montando dentro. Cosa diavolo sto facendo? Cerco di reagire, tiro l'acqua del water, apro un rubinetto ed esco dal bagno come se tutto fosse normale. Una rapida occhiata in corridoio mi conferma che non c'è nessuno. «Dottoressa Manning?» chiamo sottovoce. Nessuna risposta. Sono solo. Attraverso la porta aperta della camera dei Manning, l'antico scrittoio è a tre metri di distanza. In tutti gli anni che abbiamo passato insieme, non ho mai tradito una sola volta la loro fiducia. Me lo ripeto mentre fisso il libro. È proprio lì. Con la sua risposta dentro. So fossi Rogo, lo farei. Se fossi Dreidel, lo farei. Se fossi Lisbeth, l'avrei già fatto da due minuti. Ma sono io. E qui sta il vero problema. Mi conosco. Conosco i miei limiti. E so che se entro, compio un'azione che non posso più cancellare. Un tempo non ci avrei neanche pensato. Ma non credo di essere lo stesso uomo di un tempo. Stringo i pugni e faccio quattro passi nella stanza, verso la scrivania. Il libro nero è grosso e ha il titolo scritto in oro. La Sacra Bibbia. Non so perché, ma ne sono sorpreso. Prendo la Bibbia e faccio scorrere le pagine. Il foglio praticamente schizza fuori. Lo apro con tale rapidità che quasi lo straccio. Pensavo che fosse una foto o un documento ufficiale. Invece no. È una lettera. Scritta a mano su un foglio bianco. La scrittura è sconosciuta, ma precisa, lettere piccole e perfette, prive di tratti distintivi o idiosincrasie. Come se l'autore avesse dedicato anni a studiare il modo per passare inosservato. Naturalmente, giro subito il foglio per vedere la firma. Come le altre parole, è scritta in modo semplice, comune. La punta della R è un po' allungata. Ron. Ron Boyle. Cara Lenore, leggo tornando alla prima pagina, col cervello in tale subbuglio che riesco solo a scorrere il testo rapidamente. Ti prego perdonami... non ho mai inteso ingannarti... Pensavo solo che, per il bene di tutti... per i miei peccati... proteggere finalmente coloro che avevo ferito... La mia punizione, Lenore. Il mio pentimento. Ti prego di capire, hanno detto che poteva essere chiunque, che potevi essere anche tu... E dopo il mancato pagamento per il Corvo, quando ho scoperto che lui... Lui? Chi è lui? mi chiedo, continuando a saltare qua e là. E il Corvo? È quello che chiamavano l'affare da sei milioni di...? «Ehi!» grida una voce femminile alle mie spalle. Mi manca il fiato. Mi blocco di colpo. Sto già perdendo l'equilibrio
quando mi giro per fronteggiarla. La First Lady è sulla soglia, con gli occhi verdi in fiamme. «Che cosa credi di fare?» 81 «Che presa in giro.» «Cos'è che non va?» chiese Rogo chinandosi a leggere sopra la spalla di Dreidel. Sulla scrivania di fronte a loro, l'agenda di Boyle era aperta sulla settimana del 22 maggio. Nello spazio dedicato al lunedì 23 maggio c'era scritto Manning a NY. Mercoledì 25 recava l'annotazione Elliot, intervista al mattino. E su giovedì 26 c'era scritto senatore Okum raccolta fondi Wash. Hilton, 19.00. Ma ciò che attirò lo sguardo di Rogo fu la nota del 27 maggio, cancellata con un pesante pennarello nero:
«L'hanno cancellato?» chiese Rogo. «È il compito della biblioteca, leggere tutti i documenti e decidere quello che può diventare di dominio pubblico.» «Questo l'ho capito anch'io. Ma voglio dire... Aspetta», aggiunse interrompendosi e allungando una mano per toccare la pagina destra dell'agenda. Ancora prima di sfiorarla con le dita, Rogo si accorse che la carta era più sottile e lucida di quella bianca da ufficio che costituiva il resto dell'agenda. «Non è neanche l'originale, vero?» «Fotocopia, è così che vengono fatti gli interventi», spiegò Dreidel. «Non possono rovinare l'originale, per cui ne fanno una copia, la cancellano e la mettono al posto dell'originale.» «Ok, va bene, e dove troviamo l'originale?» «In realtà, di solito... Fammi vedere», disse Dreidel, prendendo l'agenda e guardando all'interno della copertina. Come era prevedibile, piegato e attaccato alla prima pagina c'era un altro foglio di carta. Dreidel lo aprì e Rogo lesse le parole foglio di ritiro in alto al centro. «Ogni volta che cancellano qualcosa, devono documentarlo», disse Dreidel mentre tutti e due leggevano. TIPO DI DO-
ARGOMENTO
DATA
RESTRIZIONE
CUMENTO
TITOLO
1. agenda
programma di Boyle 1 p parziale programma di Boyle 1 p parziale
1. agenda
27/5
B6
6/3
B6
«Cosa vuol dire B6?» chiese Rogo. Sforzandosi di leggere i caratteri minuscoli, Dreidel scorse la lista di restrizioni in fondo al foglio. «B1 vuol dire classificato... B2 vuol dire che un'agenzia proibisce di...» «E B6?» «La diffusione costituirebbe una chiara mancanza di rispetto della privacy», lesse Dreidel. «Quindi qui c'è qualche segreto che riguarda la vita di Manning?» «O la sua», precisò Dreidel. «Le riunioni e gli impegni possono riguardare il lavoro per la Casa Bianca, ma se Boyle scrive qualcosa... Non so, il codice PIN del suo bancomat... chiaramente questo non ha nulla a che fare con la presidenza e quindi viene cancellato.» Rogo tornò alla pagina del 27 maggio.
«Sembra troppo lungo per essere il codice PIN del bancomat.» «Già», ammise Dreidel. «Forse possiamo tornare dall'archivista e puoi lisciarla ancora finché non ci fa vedere l'originale.» «Scherzi? Dopo quello che abbiamo detto, ha già abbastanza sospetti.» «Possiamo trovarlo da soli? È qui dentro?» chiese Rogo indicando la grata metallica in fondo alla stanza, che conteneva almeno altre dieci file di scaffali piene fino al soffitto di scatole d'archivio. «Giusto, dobbiamo solo cercare alla cieca fra altri cinque milioni di documenti, dopo avere superato il tizio che ci sta controllando e avere capito come aprire la serratura a prova di bomba che protegge tutti i documenti sulla sicurezza nazionale. Guarda quell'affare, è come il deposito di Die Hard.» Rogo si girò a guardare. Anche a distanza, lo spessore della serratura di
acciaio era inconfondibile. «E allora? Rinunciamo?» Dreidel abbassò il mento e lanciò a Rogo un'occhiata, prese l'agenda e la mise sotto il tavolo. «Ti sembra che assomigli a Wes?» disse guardando alle spalle di Rogo. Seguendo lo sguardo di Dreidel, Rogo si girò di nuovo verso Freddy, che stava ancora scrivendo al computer. «Ragazzi, avete finito?» chiese Freddy. «Sono quasi le cinque.» «Ancora dieci minuti al massimo», rispose Dreidel. Fuori, attraverso le lunghe finestre che davano sulla statua di bronzo di Manning, il sole di dicembre calava rapidamente nel cielo. Senza dubbio, si stava facendo tardi. Rannicchiandosi sulla sedia e nascondendosi alla vista di Freddy, Dreidel sussurrò a Rogo: «Spostati appena sulla tua sinistra.» «Cosa...?» «Niente», disse Dreidel tranquillo, tenendo le mani nascoste e l'agenda sotto il tavolo. «E certo non voglio rovinare una proprietà del governo strappando un foglio da questa preziosa agenda storica.» Un sogghigno si allargò sulla faccia di Dreidel, mentre Rogo sentiva un sommesso kk, kk, kk sotto il tavolo, come se scoppiassero le bolle di un imballaggio, o un foglio venisse strappato dalla spirale che lo tratteneva. Con un ultimo strattone, Dreidel staccò il foglio, piegò la pagina del 27 maggio e se la infilò nella tasca della giacca. «Ti dico che non è qui!» disse poi ad alta voce, rimettendo l'agenda sul tavolo. «Ehi, Freddy, può venire a dare un'occhiata? Secondo me, da questi documenti manca una pagina.» Dreidel si alzò dalla sedia e porse l'agenda a Freddy, indicando il foglio di ritiro. «Vede, qui dice che c'è stato un intervento sulla pagina del 27 maggio, ma se andiamo a cercarla... salta all'inizio di giugno.» Freddy tornò al foglio di ritiro, poi tornò di nuovo a giugno. «Già... no, la pagina manca, non c'è dubbio. Non possiamo aspettare domani? Stiamo per chiudere e...» «Mi creda, siamo anche noi in ritardo», disse Dreidel guardando l'orologio. «Senta, non può farci un piacere e tirare fuori l'originale? Se non portiamo questa roba a Manning entro stasera, ci taglia le palle. Davvero. Con le sue stesse mani!» «Sentite, io vorrei potervi aiutare, ragazzi, ma se è...» «Freddy, quando ho lasciato Palm Beach stamattina il presidente ha detto che voleva una copia di questa agenda per il pezzo che sta scrivendo in ricordo di Boyle», insistette Dreidel. «Stiamo parlando di un documento di
quasi dieci anni fa, di un uomo che è morto da quasi dieci anni. Se c'è scritto qualcosa di imbarazzante - tipo: Odio il presidente o Sono un terrorista e una spia o qualche altra cosa che riguarda la sicurezza nazionale non ce la faccia leggere. Ma se è uno stupido dettaglio che non interessa a nessuno, come il compleanno di sua sorella, lei ci potrebbe salvare.» Grattandosi col dito il brufolo sulla guancia, Freddy guardò l'agenda, poi guardò di nuovo Dreidel e Rogo. «Dia un'occhiata», pregò Rogo. «Se c'è qualcosa di imbarazzante, lo rimette via.» Freddy si alzò e indicò la scrivania piena di documenti. «Datemi il numero della scatola. Vedrò quello che posso fare.» «Freddy», attaccò Rogo, con la voce che rimbombava nel corridoio, «quando mi sposerò, lei sarà il mio damigello!» «Faldone OA16209», disse Dreidel leggendo sulla scatola. Quindici minuti più tardi, nell'angolo in fondo alla stanza, la porta di metallo della gabbia si apriva e Freddy usciva con un foglio di carta in mano. «Ecco qua», disse porgendolo a Dreidel. «Ma credo che avreste preferito la data di compleanno di sua sorella.» 82 «Io... io stavo... solo...» «Frugando sulla mia scrivania!» urla la First Lady. «Lo vedo bene! Proprio tu... dopo tanto tempo... tradire così la mia fiducia!» «Signora, la prego, non...» «Niente stronzate, Wes! Ho visto bene. Lo vedo bene! Ma questi non sono affari tuoi!» ruggisce strappandomi di mano la lettera di Boyle. Faccio un passo indietro, tremando. Non ho paura che mi licenzi, per un attimo ho paura che mi voglia picchiare! Ma quando grida le ultime parole - «Questi non sono affari tuoi!» - qualcosa si gonfia e mi esplode nella pancia. Il sangue mi colora le guance e non posso fare a meno di scuotere la testa. «Non è vero», sussurro guardandola fisso. La First Lady si blocca. «Come?» Resto zitto, stupito dalle parole che mi sono uscite di bocca. «Cos'hai detto?» insiste. «Che... che non è vero», ripeto, cercando il suo sguardo. «C'ero anch'io all'autodromo, sono affari miei.»
Stringe gli occhi. Io guardo fuori della finestra alle sue spalle. Come tutte le finestre della casa, è a prova di proiettile e non si può aprire. Ma in questo momento sembra pronta a buttarmi giù da lì. Agitando la lettera di Boyle, mi chiede: «Chi ti ha mandato?» «Cosa?» «È stato un giornalista? Ti hanno pagato per scrivere?» «Signora, pensa davvero che...» «O è uno stupido scherzo per verificare la mia reazione? Ho un'idea», dice fingendosi un'altra persona, «riviviamo i peggiori momenti della vita della dottoressa Manning e vediamo se possiamo distruggere il suo mondo fino a farla crollare.» «Signora, non è uno scherzo...» «O meglio ancora, facciamo in modo che il segretario di suo marito frughi in camera sua...» «Signora...» «...e prenda dal suo scrittoio...» «Dottoressa Manning, io l'ho visto.» «...così si lascerà prendere dal panico e si chiederà se è mai successo davvero, innanzitutto.» «Ho visto Boyle. In Malaysia. È vivo.» La First Lady si blocca, le dita le corrono alle labbra. Scuote lentamente la testa. Poi più veloce. No-no. Oh, no, no. «Era lui, signora. L'ho visto.» Continua a scuotere la testa e porta le dita dalla bocca al mento, alla spalla. Chinandosi in avanti e stringendosi la spalla, si chiude su sé stessa. «Come è possibile? Come hanno potuto? Oh Dio...» Torna a guardarmi e i suoi occhi si riempiono di lacrime con tale rapidità che non fa in tempo a scacciarle. Prima pensavo che fossero lacrime di colpevolezza, che lei nascondesse qualcosa. Ma adesso - di fronte all'angoscia che le stravolge la faccia, allo shock che le fa scuotere ancora la testa come a negare qualcosa - vedo che queste lacrime nascono dal dolore. «Dottoressa Manning, sono sicuro che questo... Lo so che sembra impossibile...» «Non sono... Dio! Non sono un'ingenua, non sono un'ingenua», ripete. «Sapevo cioè che mi avrebbe nascosto qualcosa, non per ingannarmi, ma perché è suo dovere farlo. È quello che deve fare un presidente.» Mentre parla a fatica, capisco che non sta più pensando a Boyle. Sta pensando a suo marito.
«Ci sono dei segreti che deve mantenere, Wes. La posizione delle truppe... gli strumenti di controllo... questi sono segreti necessari... Ma una cosa del genere! Santo Dio, sono andata al funerale di Ron, ho letto un Salmo!» «Signora, cosa...?» «Sono andata a casa sua e ho pianto con sua moglie e con sua figlia! Mi sono messa in ginocchio e ho pregato perché riposasse in pace!» grida, passando dalla tristezza alla rabbia. «E adesso scopro che era tutta una commedia... una fuga da vigliacco...» Le lacrime riprendono a scorrere e la First Lady perde l'equilibrio. «Oh Dio... se quello che Ron dice... se è vero...» Mi si avvicina, si aggrappa all'angolo della toilette in stile Impero alla mia sinistra, sembra che non riesca a stare in piedi. «Signora!» Alza una mano per tenermi a distanza. I suoi occhi dardeggiano nella stanza. Prima penso che sia vittima di un attacco di panico. Ma continua a guardare - dal suo comodino a sinistra del letto a quello di Manning sulla destra, allo scrittoio, alla toilette Impero - tutti sono pieni di foto, in cornici di ogni forma e dimensione - tutte foto di Manning. «C... come ha potuto... Come hanno potuto fare questo?» chiede guardandomi come se si aspettasse una risposta. Posso offrirle solo uno sguardo sconvolto. Non mi sento le braccia. Tutto è confuso. Sta dicendo che Manning sapeva...? «Boyle ha detto qualcosa quando l'ha visto? Ha fornito qualche spiegazione?» «Io... l'ho sorpreso per caso», spiego, sentendo a malapena le mie parole. «È scappato ancora prima che capissi quello che stava succedendo.» La mano della First Lady riprende a tremare. È come me in Malaysia. Grazie alla lettera, finalmente viene a sapere che il suo amico morto in realtà è vivo. E da quello che Boyle le scrive, per qualche ragione egli si attribuisce la colpa, dicendo che l'ha fatto per proteggere la sua famiglia. Sopraffatta dal momento, la dottoressa Manning si siede sul baule dipinto coi colori della bandiera americana in fondo al letto e guarda la lettera di Boyle. «Io non riesco a...» «Mi ha telefonato ieri e mi ha detto di non impicciarmi della faccenda», aggiungo senza un vero motivo. «Che non era la mia battaglia.» Sento un'ondata di rabbia: «Ma invece è la mia battaglia.» La First Lady mi guarda con aria assente, come se si fosse dimenticata della mia presenza. Stringe i denti e si preme la mano in grembo finché
non smette di tremare. È già abbastanza brutto che sia così sconvolta. È ancora peggio che le capiti davanti a me. In un attimo, il mento e la postura si irrigidiscono e il suo istinto politico, allenato da anni di riservatezza, interviene. «Ha ragione», dichiara. «Cosa intende dire?» «Dia retta a Boyle», dice. Poi, come correggendosi: «Per favore.» «Ma signora...» «Dimentichi di averlo visto, dimentichi che l'ha chiamata.» Quando la voce le si spezza, capisco che mi sbagliavo. Non è emotivamente sconvolta. Sta cercando di proteggere qualcuno. E non solo suo marito. Anche me. «Wes, se si allontana ora, almeno non sapranno che...» «Lo sanno già. Sanno che l'ho visto.» «Chi? Chi è che lo sa?» domanda aggrottando la fronte con ansia. «I Tre», dico. Alle mie parole alza la testa e vedo nei suoi occhi la comprensione. Ce l'avevano anche col suo amico, ovviamente, lei conosce i particolari. Ma ciò non significa che voglia mettermi al corrente di tutto. «So chi sono», le dico. «Non credo, Wes.» «Come può...?» Mi interrompo mentre l'adrenalina maschera il senso di nausea che provo. Le ho permesso di proteggermi per otto anni. Adesso basta. «Lo so. I Tre lottavano con il presidente e con Boyle. So che il Corvo, qualunque cosa fosse, valeva sei milioni di dollari per il Romano, che a quanto pare era uno degli informatori più preziosi del governo. So che il pagamento venne rifiutato dal presidente in una riunione sulla sicurezza nazionale. E so che perdere quei soldi - e quelli che avrebbero potuto seguire - deve averli fatti arrabbiare. L'unica cosa che non riesco a capire è dove entra in gioco Boyle e cosa può avere fatto per spingere i Tre a premere il grilletto.» Mi aspetto che si senta sollevata, avendo qualcuno dalla sua parte, ma sembra più spaventata che mai, il che mi ricorda che questa lettera per lei è uno shock come per me è stato vedere Boyle. E anche se ho portato alla luce i suoi peggiori segreti, a dispetto di quello che Boyle o suo marito possono avere fatto, non vuole che ciò mi provochi dei guai. «Come ha fatto a sapere dei Tre?» mi chiede. Esito un momento. «Un amico di un amico che lavora per il DD.» «E chi le ha detto che lottavano con il presidente?» «L'ho indovinato da solo.»
In preda al panico, mi studia, soppesando la nuova situazione. Sa che non sono suo nemico, ma ciò non significa che mi voglia come amico. Però sono sicuramente vicino, troppo vicino per mandarmi via così. «Io posso aiutarla», dico. Scuote la testa, dubbiosa. «Signora, sanno che ho visto Boyle. Se cerca di proteggermi, è già troppo tardi. Mi dica cos'ha fatto Boyle e...» «Non è quello che Boyle ha fatto», sussurra. «È quello che non ha fatto.» Si riprende, già pentita. «Non ha fatto a chi? Al presidente?» «No!» Ma non mi dice altro. Abbassa lo sguardo e si rannicchia di nuovo. «E allora a chi? A lei? Ad Albright? Mi dica chi era.» La First Lady resta in silenzio. «Dottoressa Manning, per favore, mi conosce da otto anni. Ho mai fatto qualcosa che l'abbia danneggiata?» Lei continua a tenere gli occhi bassi, e non posso dire che abbia torto. È la ex First Lady degli Stati Uniti. Non vuole confidare le sue paure a un giovane segretario. Ma non mi interessa. Io devo sapere. «Dunque? Devo andarmene così?» Ancora nessuna risposta. Senza dubbio, spera che come al solito io mi ritiri dal conflitto. Due giorni fa l'avrei fatto. Oggi no. «Va bene», dico andando alla porta. «Lei ha tutto il diritto di mantenere il segreto, ma deve capire questo: andandomene da qui, non sto rinunciando. Quella pallottola ha colpito la mia faccia. E finché non scopro cos'è successo davvero quel giorno, continuerò a cercare, a scavare, a fare domande a tutti quelli che...» «Ma non capisce? Era un'offerta.» Mi giro, ma non sono sorpreso. Qualsiasi cosa abbia fatto Boyle, se lei mi dice la verità, almeno ha la possibilità di controllarla. E per chi ha già ustioni di terzo grado dovute al fuoco dell'attenzione pubblica, il controllo è tutto. «Un'offerta di che tipo?» chiedo, ben sapendo che è in un angolo. Se c'è qualcosa che deve nascondere, non può rischiare che io esca di qui armato di domande imbarazzanti. Ma esita ancora. «Mi dispiace che non si fidi di me», dico andando alla porta. «L'ha detto lei stesso, Wes. Essendo un informatore, il Romano ha in-
cominciato a passare informazioni.» «Ma in realtà il Romano era un agente dei Servizi segreti, giusto?» «Questo è quello che pensano adesso. Ma allora nessuno lo sapeva. A quel tempo le agenzie erano contente di avere le informazioni del Romano. Soprattutto dopo l'Iraq, una informazione ben fondata su un campo di addestramento segreto in Sudan... Lei sa come funziona la guerra al terrorismo, indizi e avvertimenti rappresentano ciò che abbiamo. Nel caso del Romano, sorprendentemente, se passava un'informazione su un omicidio ai Servizi segreti, quando i Servizi andavano a verificarla con le altre agenzie, l'FBI la confermava, e così la CIA. Se passava un'informazione all'FBI, veniva confermata dalla CIA e dai Servizi, e questa conferma è quello che gli serviva per essere pagato come informatore.» «Così, tramite il Romano, i Tre passavano informazioni alle rispettive agenzie e poi se le confermavano a vicenda.» «...facendo sembrare che tutti - FBI, CIA e Servizi - concordassero. È triste dirlo, ma accade continuamente, l'anno scorso, al Dipartimento di Stato, qualcuno si è inventato un'informazione. La differenza è che, nella maggior parte dei casi, i truffatori vengono presi perché la loro informazione non corrisponde a quello che dicono le altre agenzie. Ma in questo caso... be', se non fossero diventati troppo avidi, avrebbe potuto essere un buon modo per integrare il loro salario da impiegati governativi.» «E invece sono diventati troppo avidi?» «Tutti siamo avidi», dice la First Lady mentre anni di rabbia repressa emergono di nuovo in superficie. «Conoscevano il sistema. Sapevano che piccole informazioni su un campo di addestramento segreto potevano garantire loro qualcosa come cinquantamila dollari. E sapevano anche che l'unico modo per arrivare alle cifre grosse a cui ambivano era tenere un profilo basso e risparmiare le energie per le informazioni davvero preziose: stanno preparando un attentato al Golden Gate Bridge... quella fabbrica di scarpe in Pakistan in realtà è un centro chimico... Una volta che tutti si sono convinti che le nove piccole informazioni fornite dal Romano erano giuste, pagheranno qualsiasi cosa per la decima gigantesca, anche se non accade nulla. E quando FBI, CIA e Servizi segreti sono tutti d'accordo nel dichiarare che la minaccia è reale? Ecco in che modo l'informatore ottiene il suo compenso milionario.» «E che problema avevano?» chiedo cercando di apparire forte. L'adrenalina dura fino a un certo punto. A ogni nuovo dettaglio della nostra vecchia vita, la nausea torna più forte.
«Il problema era che i dirigenti dell'FBI e della CIA possono approvare pagamenti fino a 200.000 dollari. Per il livello multimilionario che avrebbe mandato i Tre in pensione, il pagamento doveva essere approvato dalla Casa Bianca.» «Era questo il Corvo, vero? Stavano per incassare la loro prima somma importante, ma il presidente gliel'ha bloccata.» La First Lady annuisce e mi guarda colpita. «È stato allora che hanno capito di avere bisogno di qualcuno all'interno. Boyle era stato avvertito, che potevano tentare di contattarlo, a causa del suo background...» «Aspetti, ehi, ehi, quindi i Tre...» «La smetta di chiamarli così. Non capisce? Niente di tutto questo è dovuto ai Tre. Tutto è successo perché si sono fatti furbi e hanno trovato un nuovo membro. I Tre erano finiti. Qui stiamo parlando dei Quattro.» 83 «Sei sicuro che sia giusto?» chiese Rogo, leggendo la pagina originale del 27 maggio dell'agenda di Boyle. La affiancò alla fotocopia censurata per assicurarsi che corrispondessero. Sotto a
c'erano scritte le parole: Dr Eng 2678 Griffin Rd. Ft. L. «È questo il gran segreto che nascondevano alle masse?» continuò Rogo. «Che Boyle aveva un appuntamento dal dottore?» «È un'informazione personale», osservò Freddy, avvicinandosi lentamente mentre Rogo infilava l'originale in una cartella. «È perfettamente comprensibile», ammise Dreidel. «In tutte le amministrazioni, metà della gente va dallo strizzacervelli.» Fermo all'estremità di uno dei lunghi scaffali, Rogo si voltò verso l'amico, seduto all'angolo di un tavolo vicino. «Chi ha detto che è uno strizzacervelli?» chiese. «Come?» «Il dottor Eng. Che cosa ti fa pensare che sia uno strizzacervelli?» «Non lo so, davo per scontato che...»
«Sentite, ragazzi, mi farebbe piacere passare il resto della serata a discutere del settore di attività di Eng», intervenne Freddy, «ma questo è un ufficio pubblico e in tutti gli uffici pubblici, quando la lancetta corta arriva sul cinque...» «Puoi fare solo un'altra ricerca?» chiese Rogo, indicando i computer della biblioteca. «Io voglio aiutarvi, ma insomma... la biblioteca è chiusa.» «Solo una.» «Sono già...» «Inserisci le parole Dr Eng», pregò Rogo. «Per favore. Ci vogliono meno di trenta secondi. Si tratta di scrivere due parole - Dr e Eng - se lo fa ce ne andiamo talmente veloci che riuscirà ad arrivare a casa per il primo telegiornale.» Freddy guardò Rogo. «È l'ultima ricerca che faccio per voi.» Freddy premette qualche tasto, chino sulla tastiera, e sullo schermo comparve una risposta: NESSUN FILE TROVATO «E...?» «Ho controllato tutto: l'archivio WHORM, i documenti dello staff e dei dipendenti, la posta elettronica, perfino le poche vecchie microfiche della sicurezza nazionale», disse Freddy, più che irritato. «Adesso la biblioteca è ufficialmente chiusa», aggiunse alzandosi e indicando la porta. «Perciò, se non volete che vi presenti il nostro esperto addetto alla sicurezza, vi auguro una buona giornata.» Attraversando rapidamente il cortile di mattoni e cemento di fronte alla biblioteca, Rogo precedeva di tre metri Dreidel verso la macchina. «Un'impresa. Sì, a Fort Lauderdale», disse nel cellulare. «Sto cercando il numero di un certo dottor Eng. E, enne, gi.» «Ho un dottor Brian Eng, a Griffin Road», disse l'operatore. «Due sei sette otto, perfetto», disse Rogo leggendo l'indirizzo dal foglio su cui l'aveva copiato. «E dice che tipo di dottore è?» «Mi dispiace, non registriamo l'occupazione. Attenda in linea il numero.» Pochi secondi dopo, una voce femminile meccanica annunciò: «Su richiesta del cliente, il numero non è di pubblico dominio e non è nei nostri
elenchi.» «Ma che ca... Qual è il dottore che non mette il suo numero sull'elenco?» Rogo si volse a Dreidel e aggiunse: «C'è qualcosa sul web?» Dreidel fissava il piccolo schermo del suo cellulare e schiacciava i tasti come un pensionato col telecomando. «So che posso navigare in Internet, ma non riesco a capire come...» «E allora che cosa stai facendo da cinque minuti? Dammi qui», scattò Rogo strappandogli di mano il telefono. Con pochi clic, Rogo inserì il nome DOTTOR BRIAN ENG e premette INVIO. Per quasi due minuti cliccò e lesse senza dire una parola. «Trovato?» chiese Dreidel mentre camminavano tra le macchine nel posteggio. «Incredibile», gemette Rogo continuando a premere i tasti del telefonino. «Non solo questo tizio non è sull'elenco, ma è riuscito in qualche modo a nascondersi a tutti i principali motori di ricerca: Google... Yahoo!... tutti! Inserisco dottor Brian Eng e non viene fuori niente, è ridicolo! Se scrivo Puffi ebrei mi viene fuori una pagina di siti, e dottor Brian Eng mi dà nessun risultato?» Si avvicinò al posto del guidatore della Toyota, chiuse il telefonino e lo passò a Dreidel sul tetto della macchina. «Il che ci riporta a: qual è il dottore che si tiene tanto nascosto da essere quasi introvabile?» «Non lo so, un dottore della malavita?» propose Dreidel. «O un medico abortista.» «Forse un chirurgo plastico... sai, di quelli per i molto ricchi, che non vogliono che la gente sappia...» «Non è una cattiva ipotesi. Wes ha detto che Boyle sembrava avere cambiato lineamenti. Forse l'appuntamento del 27 maggio era un primo incontro.» Dreidel si infila al posto del passeggero e guarda l'orologio. Fuori, sta già diventando buio. «Possiamo passare domattina, quando aprono.» «Scherzi?» disse Rogo accendendo il motore. «Dobbiamo andarci subito.» «Probabilmente è chiuso.» «Ma se c'è una portineria, sono sicuro che ci diranno almeno che tipo di lavoro fa.» «Ma arrivare fino a Fort Lauderdale...» Già con l'auto uscita per metà dal parcheggio, Rogo frenò di colpo e ritornò nella posizione di partenza. Si girò sulla destra e guardò fisso Dreidel, ancora rivolto al parabrezza.
«Cosa c'è?» chiese Dreidel. «Perché non vuoi che andiamo dal dottore adesso?» «Ma cosa dici? Cercavo solo di non perdere tempo.» Rogo abbassò il mento. «Bene», disse rimettendo la marcia. «Prossima fermata, dottor Brian Eng.» 84 «Aspetti, mi sta dicendo che Boyle...» «L'hanno coinvolto», spiega la First Lady, con la voce che trema a ogni parola. «Perché restare in tre, se si può essere tanto più efficienti in quattro?» «E Boyle ha detto di sì?» «Non lo sappiamo...» Fa una pausa, si chiede se dirmi il resto. Ma sa che, se non lo fa, andrò in giro a fare domande. «Pensavamo di no», aggiunge alla fine. «Non capisco», dico sentendomi mancare il fiato. «Pensi che abbiano lasciato a Ron la possibilità di scegliere? I Tre avevano accesso agli stessi file dell'FBI a cui avevamo accesso noi. Conoscevano il suo punto debole, il bambino che lui credeva segreto...» «Bambino? Aveva un...?» «Avevo detto a Lee che sarebbe saltato fuori a rovinarci. Gliel'avevo detto», ripete più arrabbiata che mai. «L'avevo già capito durante la campagna. Quando hai uno scheletro del genere nell'armadio, qualcuno prima o poi lo trova.» Annuisco, per non interromperla. «Ma perché Boyle si unisse davvero a loro...» «Non ho detto questo. Ho detto che l'anno avvicinato. Ma i Tre non capivano che Ron... malgrado il figlio... malgrado tutti i casini che aveva combinato... non si sarebbe mai messo contro di noi. Mai, a nessuna condizione», dice alzando lo sguardo. Capisco che si aspetta lo stesso da parte mia. «Dottoressa Manning, mi dispiace, ma da come l'ha detto... Sapevate tutto già allora?» «Wes, tu eri lì con noi. Sai cosa c'era in ballo. Con uno come Ron... con un punto debole del genere... pensi che l'FBI non lo tenesse d'occhio?» Mi lancia un'occhiata che mi manda quasi al tappeto. «Aspetti... vuol dire che l'FBI controllava Boyle? Mentre eravamo alla Casa Bianca?»
«Cercavano di proteggerlo, Wes. E anche allora, Lee ha lottato contro questi controlli con ogni mezzo, ha chiamato personalmente Barry e Carl.» Si riferisce al nostro vecchio direttore dell'FBI e al consigliere per la sicurezza nazionale. «Due giorni dopo, hanno trovato il deposito. Undicimila dollari su un conto corrente intestato alla figlia di Boyle. Capisci? Usava il nome di sua figlia! Hanno detto che probabilmente era la prima offerta dei Tre. O prendeva il denaro che avevano messo sul conto, o gli rovinavano la vita informando la moglie del figlio che teneva nascosto.» Mentre parla, sento il bisogno di appoggiarmi alla toelette. «Ma... ma nei verbali delle riunioni... non ho mai visto niente...» «Non tutti i documenti erano destinati a te, Wes.» «Ma se i Tre erano così vicini, non potevate...?» «Pensi che non abbiamo scavato dappertutto? Allora non avevamo neanche un nome. Sapevamo che c'era qualcuno dell'FBI, perché chiaramente avevano visto i documenti di Ron. Poi, quando hanno trasferito i soldi sul conto corrente di Ron - i Servizi segreti si occupano dei reati finanziari hanno detto che era stato inviato usando tecniche interne al sistema. E il ricatto? Questo è affare della CIA. Abbiamo allertato tutte le agenzie con un messaggio in codice e abbiamo incominciato a dirgli di guardare al loro interno!» «Lo so... ma...» Mi fermo. «Forse mi sfugge qualcosa, signora, ma se sapevate che Boyle riceveva pressioni per entrare a fare parte dei Tre, perché non avete avvertito lui - perché almeno non gli avete detto che sapevate che lo ricattavano?» Lenore Manning guarda la lettera manoscritta e non dice una parola. «Cosa c'è?» chiedo. «Lo ricattavano, no?» Lei si siede sul baule dipinto, sempre in silenzio. «C'è qualcosa che non...?» «Volevamo vedere cosa faceva», dichiara alla fine, con voce più bassa che mai. Un brivido gelato mi corre per la schiena. «Lo stavate mettendo alla prova.» «Quando il Romano è arrivato così vicino - è entrato in quel modo nella nostra cerchia - non si trattava più di Boyle, dovevamo prendere i Tre.» Le trema la voce. Da troppo tempo si tiene dentro questo segreto. Praticamente mi sta chiedendo di perdonarla. «Ce l'ha chiesto l'FBI. Se il mito era reale, se davvero degli agenti corrotti si erano messi in contatto, era la loro occasione per prenderli.»
Annuisco come se capissi. Ron Boyle era il loro più vecchio e più caro amico, ma quando i Tre l'hanno spinto verso la trappola, i Manning - il presidente e la First Lady sono rimasti a vedere se addentava il formaggio. «So quello che pensi, Wes, ma ti giuro che stavo proteggendo Ron. Ho detto: dategli il tempo di dimettersi. Fate in modo di...» Inghiotte a fatica, continuando a scuotere la testa. Ho visto la First Lady arrabbiata, irritata, triste, offesa, sconvolta, ansiosa, preoccupata e perfino - dopo un intervento all'anca, qualche anno fa - sofferente. Ma non l'ho mai vista così. Neppure quando abbiamo lasciato la Casa Bianca. Si controlla, stringe il mento sul petto per fermare il tremito della testa. Da come si volta dall'altra parte, spera che non me ne accorga. Ma come sempre, essendo il mio mestiere, vedo tutto. «Avrebbero dovuto proteggerlo», sussurra, persa nella sua promessa non mantenuta. «Avevano... avevano garantito che sarebbe stato al sicuro.» «E Boyle non vi ha mai detto che i Tre l'avevano avvicinato?» «Aspettavo che lo facesse... pregavo che si aprisse con noi. Ogni giorno ci arrivava un rapporto su di lui: nessuna risposta, diceva sempre. Sapevo che Ron lottava. Lo sapevo», ripete stringendosi nelle spalle e rannicchiandosi ancora di più. «Ma ci dicevano di continuare ad aspettare... per sicurezza. E quando è stato colpito...» Guarda per terra mentre un singhiozzo inatteso e un decennio di sensi di colpa le afferrano la gola. «Pensavo che l'avessimo perduto.» Guardo la lettera che ha in grembo e i pezzi del puzzle si incastrano nella mia mente. «Quindi il motivo per cui Boyle è stato colpito non è che ostacolava i Tre, è che non si era unito a loro?» La First Lady mi guarda con la testa inclinata. La sua voce è ancora un sussurro. «Non sai neanche contro chi lotti, vero?» «Che cosa vuole...?» «Hai letto questa?» chiede sbattendomi la lettera sul petto. «Il giorno in cui è stato colpito, Ron non aveva ancora dato ai Tre una risposta!» Il tono è più alto, gli occhi spalancati, la bocca aperta. Dapprima penso che sia arrabbiata, invece ha paura. «Dottoressa Manning, si sente bene?» «Wes, devi andartene. Questo non è... Io non posso...» «Non può cosa? Non capis...» «Per favore, Wes, vattene!» mi prega, ma io sto di nuovo guardando la lettera. Il cervello lavora talmente veloce che non riesco a leggere. Ma lei ha detto che il giorno dell'attentato Boyle non aveva ancora dato una rispo-
sta ai Tre, per quello che ne sapevano, poteva ancora unirsi a loro. Corrugo la fronte, cerco di elaborare. Ma se era così... «Allora perché ucciderlo?» chiedo. «Wes, non arrivare a delle conclusioni che...» «A meno che non sapessero che Ron aveva dei dubbi...» «Hai sentito quello che ho detto? Non puoi...» «...o forse temevano di avergli rivelato troppo... oppure... si sono accorti che era sotto sorveglianza...» «Wes, perché non mi ascolti?» grida la First Lady, cercando di riprendersi la lettera. «O forse hanno trovato qualcun altro per occupare la quarta casella», dico trattenendo la lettera. La First Lady la lascia andare e il foglio mi finisce sul petto con un colpo. Mi sento il corpo pesantissimo, oppresso dal terrore confuso e totale che si prova di fronte a una cattiva notizia dal dottore. «È questo che è avvenuto?» chiedo. La sua risposta è troppo lenta. «No.» Mi sento la bocca secca. La lingua come un pezzo di carta di giornale. «Non è... Ron non...» dice la First Lady. «Forse Ron si sbaglia...» «Ron era vice capo di gabinetto. Non ci sono molte altre persone che possono...» «Tu non capisci. Lui è una brava persona. Devono averlo ingannato» continua, praticamente fuori di sé. «Signora...» «Non avrebbe mai accettato di farlo...» «Signora, per favore...» «...neanche se gli avessero promesso altri quattro anni...» «Vuole calmarsi?» ripeto. «Chi possono avere trovato, al posto di Boyle?» Ancora rannicchiata sul baule ai piedi del letto, la First Lady alza il mento e mi guarda fisso. Come il presidente, come tutti i miei colleghi, non mi guarda le cicatrici. Sono anni che non lo fa. Fino ad ora. La domanda continua a riecheggiarmi nel cervello. Cercavano un quarto. Chi poteva essere il pezzo più grosso? Guardo la lettera che ho ancora in mano. In fondo alla pagina, la scrittura meticolosa dice: Ma non pensavo che sarebbero riusciti a prendere lui.
Il sangue mi defluisce dalla faccia. Ecco cos'ha capito. Ecco perché mi ha chiesto di andarmene. Non denuncerebbe mai... «Lui?» chiedo. «Non intenderà...?» «Wes, tutto bene lassù?» grida il presidente Manning dai piedi della scala. «Stiamo ancora aspettando quella giacca sportiva!» Mi giro verso la First Lady. I passi del presidente salgono le scale. 85 La First Lady fa per dire qualcosa, ma è come se parlasse sott'acqua. Arretro e finisco contro il tavolo con tutte le foto di Manning, che vibra e si inclina. Come me. Farmi questo... La stanza gira e la mia vita sembra un caleidoscopio. Tutti questi anni... mentirmi in... Dio, come ha potuto? Non c'è tempo di rispondere. Dai passi che sento, è chiaro che il presidente è ormai in cima alle scale. Se mi vede con lei... «Wes?» chiama. «Vengo, signore», grido correndo all'armadio e prendendo dall'appendino la giacca sportiva blu. Do un'ultima occhiata alla First Lady, ancora immobile sul baule dipinto a mano. Alza le sopracciglia, le sue guance sembrano quasi cave. Non dice una parola, ma il grido di aiuto è assordante. «Lui non ha... non farebbe mai... apposta», sussurra mentre le ridò la lettera di Boyle. Annuisce ripetutamente, come per convincersi. «Anzi, forse... forse è stato ingannato. Forse è stato avvicinato dal Romano e non ha capito con chi stava parlando. Ha l'aria di un vero agente, no? Quindi... quindi... quindi forse si sono preoccupati perché Ron ci impiegava tanto tempo e hanno provato una strada diversa, per arrivare direttamente in cima - e allora... potrebbe aver pensato di aiutare i Servizi. Forse... forse non si è neanche reso conto di quello che ha fatto.» Annuisco. Forse ha ragione. Forse non l'ha fatto apposta. Forse è stato il più grosso e terribile errore di Manning, e lui ha cercato di dimenticarsene. Il problema è che vedo ancora il presidente che attraversa per l'ultima volta il Giardino Sud, tenendo la First Lady per mano e rifiutandosi di guardare indietro mentre raggiungono il Marine One. A quel tempo, le voci nel nostro staff dicevano che lei era più devastata di lui. Ma io ero presente. Ho visto come le stringeva la mano. I passi del presidente sono arrivati in cima alle scale.
Corro verso la porta, esco in corridoio e giro sulla destra, quasi scontrandomi con lui. «E... eccomi, signore», dico arrestandomi, con il blazer blu sulle braccia. Manning fa un altro passo verso di me. Io resto al mio posto, per impedirgli di andare oltre. Per un istante, gli occhi di Manning si socchiudono, le sue famose iridi grigie assomigliano a due lame di ghiaccio. Ma quasi nello stesso tempo un ampio, caloroso sorriso gli solleva le guance e rivela un angolo dei denti ingialliti. «A proposito, hai visto le parrucche?» chiede riferendosi agli addetti di Madame Tussauds da basso. «Hanno portato quella di quando abbiamo lasciato l'incarico. Ti dico, Wes, è più grigia di come sono adesso. Che stia ringiovanendo?» Mi costringo a ridere e vado verso le scale prima che possa guardarmi bene. «Cosa c'è?» chiede. «No... niente», rispondo accennando alla giacca e sentendo un'onda di caldo che mi sale dal collo. «Volevo solo assicurarmi di non dare via una delle sue giacche buone.» «Mi fa piacere che ti preoccupi della mia statua di cera», scherza mettendomi una mano sulla spalla. È la sua mossa: mano sulla spalla significa intimità immediata e fiducia garantita. Gliel'ho visto fare con i suoi ministri, con i senatori, con i deputati, perfino con suo figlio. Adesso lo sta facendo con me. A metà delle scale, affretto il passo. Lui mi resta vicino. Anche se collaborare col Romano è stato un errore da parte sua, mentirmi in faccia ogni singolo... È per questo che mi ha tenuto qui? Perché si sentiva in colpa? Nella mia tasca, il telefono si mette a vibrare. Lo tiro fuori e controllo sullo schermo. Il messaggio dice: wes, sono lisbeth. rispondi. mistero risolto. Un secondo più tardi, il telefono vibra nella mia mano. «Mi scusi un secondo, signore», dico al presidente. «È Claudia che... Pronto?» rispondo. «Devi uscire di lì», dice Lisbeth. «Ehi, Claudia. Davvero? Ok, aspetta un secondo.» All'ultimo gradino, metto Lisbeth in attesa e mi giro verso Manning, sentendomi il corpo in fiamme. «Dice che ho lasciato le chiavi di casa nel suo ufficio. Mi scusi,
signore, se per lei va bene, io tornerei là di corsa e...» «Tranquillo, Wes, sono autonomo», risponde ridendo. La sua mano sulla spalla mi dà una pacca rapida e robusta che quasi mi fa cadere. «Vai a fare quello che devi. Ho affrontato problemi più grandi di questo.» Gli porgo il vestito, rido a mia volta e vado alla porta d'ingresso. Sento gli occhi del presidente che mi bruciano la nuca. «A proposito, Wes, fammi un favore, di' anche ai Servizi dove stai andando - nel caso che dobbiamo metterci in contatto.» La sua voce è forte quanto basta perché gli agenti all'esterno la sentano. «Certo, signore», dico scendendo i gradini. «Sei solo?» chiede Lisbeth al telefono. Appena la porta mi si chiude alle spalle, i due agenti in borghese che aspettano davanti al garage alzano gli occhi. «Tutto bene?» chiede il più basso, Stevie. «Non assumere un'aria sospetta», dice Lisbeth al telefono. «Digli che hai dimenticato le chiavi.» «Sì... no, ho dimenticato le chiavi», dico affrettandomi verso l'alto cancello di legno in fondo al vialetto e fingendo che tutto ciò su cui ho costruito la mia vita fino a oggi non stia crollando. Il respiro mi si fa più corto. Conosco Stevie da quasi tre anni. Non gliene frega niente se mi sottopongo ai controlli o no. Ma quando arrivo al cancello e aspetto che si apra, con mia sorpresa resta immobile. «Dove stai andando, allora, Wes?» chiede Stevie. «Wes, ascoltami», dice Lisbeth. «Grazie a quel delinquente del tuo amico Dreidel, ho scoperto un altro tassello del puzzle. Mi ascolti?» Mi giro verso i due uomini, ancora in piedi davanti al garage chiuso e alla Chevrolet posteggiata a pochi passi di distanza. La mano di Stevie scompare nella tasca dei pantaloni. È solo in questo momento che me ne rendo conto: la sera che ho rivisto Boyle in Malaysia, Stevie guidava la prima auto del corteo. «Wes», dice freddamente, «ti ho chiesto...» «Sto solo tornando in ufficio», dichiaro. Mi giro goffamente verso il cancello e guardo le doppie porte di legno massiccio che impediscono alla gente di guardare dentro. Mi aggrappo al cellulare per impedire alla mano di tremare. Il sole sta per tramontare nel cielo viola e arancio. Alle mie spalle, sento un clic metallico. «A presto», dice Stevie. Con un ronzio sonoro il cancello scorre verso destra, aprendosi quanto basta per farmi passare. «Sono fuori», sussurro a Lisbeth.
«Bene, allora stai attento. Hai con te il vecchio cruciverba?» Mentre attraverso la strada diretto alla macchina, non rispondo. Vedo solo il sorriso di Manning e i suoi denti gialli... «Wes! Hai sentito quello che ho detto?» grida Lisbeth. «Tira fuori l'originale!» Annuisco, anche se non può vedermi, mi frugo in tasca e spiego rapidamente il cruciverba originale. «Vedi le iniziali scritte nella colonna centrale?» chiede. «M, A, R, J...»
«Manning, Albright, Rosenman, Jeffer... E allora?» «Ha lo stesso elenco sul nuovo cruciverba. Le stesse iniziali. Lo stesso ordine. Tutto uguale.» «Ok, e allora? Abbiamo due elenchi di dirigenti», dico fermandomi davanti alla macchina. Devo appoggiarmi alla portiera per non cadere. «No. Fai attenzione, Wes. È tutto uguale, compresi i segni di fianco.» «Cosa vuoi dire?» «Sulla sinistra, prima di ogni gruppo di lettere. I quattro puntini, il piccolo ovale, la croce con un taglio in mezzo...» Li guardo: , , . «Questi scarabocchi?» «Ecco il punto, Wes», dice Lisbeth, mortalmente seria. «Non penso affatto che siano scarabocchi.» 86 «Ma quegli sgorbi», dico studiando i segni di Manning accanto al cruciverba. «Mi ascolti?» grida Lisbeth al telefono. «È quello che volevano, che sembrassero degli scarabocchi e delle lettere a caso, fra cui nascondere le iniziali. Ma se guardi quest'altro schema, ci sono le stesse figure e sono esattamente nello stesso ordine! Non c'è niente di casuale, Wes: i quattro
puntini, l'ovale... per Manning erano una specie di codice.» «Ma perché...?» «L'hai detto tu stesso. Tutti i politici hanno bisogno di alleati - e tutti i presidenti devono decidere di chi possono fidarsi. Forse questo è il modo in cui Manning classificava le persone più vicine a lui. Una specie di pagellino, capisci?» Riconosco la logica del discorso, guardo di nuovo l'elenco e aggiungo mentalmente i nomi: Manning Albright Rosenman Dreidel Moss Kutz Lemonick Boyle «E non offenderti», aggiunge Lisbeth, «ma il tuo amico Dreidel è un bel pezzo di merda! Proprio uno stronzo, Wes - uno capace di picchiare una prostituta e di sfregiarla con uno specchio rotto!» Mentre racconta la storia di Violet, rivedo la donna con la vestaglia viola nella stanza d'albergo di Dreidel. Ma da questo a rompere la faccia... «Sei sicura di poterti fidare di questa Violet?» chiedo. «Guarda l'elenco», dice Lisbeth. «È la scrittura di Manning, giusto?» Non rispondo e lei insiste: «Wes, allora... è la scrittura di Manning o no?» «Sì», dico mentre il respiro mi accelera di nuovo. «Bene. Allora, se è lui che compila queste pagelline, il voto che dà a sé stesso - i quattro pallini - secondo te è un dieci o un misero quattro?» «Un dieci», dico con tono interrogativo guardando i . «Naturalmente è un dieci. Anzi, scommetto che quei quattro puntini vogliono dire dieci e lode. E adesso guarda chi ha avuto la fortuna di ottenere lo stesso punteggio.» Osservo l'elenco. È la prima volta che noto che Manning e Dreidel hanno entrambi quattro puntini. «Fuoco, fuochino», dice Lisbeth al telefono. «Lisbeth, questo non dimostra niente. E se anche Manning si fidava di Dreidel più che degli altri?»
«Forse si fidava di lui per fare cose che nessun altro avrebbe fatto.» «Aspetta: vuoi dire che Dreidel è un gorilla?» «Tu eri presente, Wes. Non dirmi che il presidente non doveva mai affrontare dei problemi personali...» «Ma certo, però di loro si occupava sempre...» Mi interrompo. «Cosa c'è? Se ne occupava sempre Boyle?» «Già... così avrebbe dovuto essere. Ma se a un certo punto... Se questa abitudine...» «...fosse cambiata all'improvviso?» «E di queste cose avesse incominciato a occuparsi Dreidel?» continuo. «Nessuno si sarebbe accorto del cambiamento, a meno che...» «...a meno che non avessero visto i loro voti sull'elenco», finisce Lisbeth con voce eccitata. «Così, quando Boyle l'ha scoperto, quando ha visto che Dreidel e Manning avevano lo stesso punteggio...» «...ha avuto chiara la struttura del totem.» Un'ora fa, avrei detto a Lisbeth che era pazza - che era impossibile che il presidente e Dreidel avessero complottato insieme. Ma adesso... Ripenso agli ultimi dieci minuti. A quello che ha detto la First Lady... alle accuse di Boyle al presidente... e a quello che Lisbeth mi sta confermando... Se solo la metà di tutto questo è vero... Inspiro una gran sorsata di aria umida, poi serro le labbra per rallentare il ritmo della respirazione. Ma non ottengo risultati. Il mio petto sale e scende. Il collo, la faccia sono bagnati. In fondo all'isolato, all'angolo con la County Road, c'è una macchina bianca con la freccia accesa, che aspetta di svoltare nella mia direzione. «Allontanati subito da lì», dice Lisbeth. «Sto andando.» Spalanco la portiera, salto nella macchina e mi frugo freneticamente in tasca per cercare le chiavi. Sono venuto qui per confessare... per chiedere aiuto al più grande, al migliore... Ma adesso - adesso che il presidente è il Quarto e Dreidel ci ha dato in pasto al Leone... Inserisco la chiave nel cruscotto, ma la mano mi trema troppo e la chiave cade per terra. Tento di nuovo. Maledizione, vuoi...? La infilo una seconda volta e la punta sfrega sulla colonna di metallo e mi pizzica un dito. Il dolore è intenso, come quello di un ago. Ma gli occhi mi si riempiono di lacrime non per il male, o almeno non solo per questo male. Un singhiozzo mi nasce come una bolla nella gola. Stringo i denti, ma non se ne va. No, non farlo, non adesso... prego premendo la fronte con tutte le mie forze sul volante. Ma quando immagino il presidente - in tutti
questi anni... Non ho imparato solo il suo numero di scarpe e come gli piace il cuscino. Io so quello che pensa: chi lo irrita, di chi si fida, chi odia, perfino chi pensa che lo stia ancora usando. Conosco i suoi scopi, di cosa ha paura, che cosa sogna, che cosa spera... che cosa speravo anch'io... La bolla nella mia gola scoppia e il mio corpo è scosso da singhiozzi silenziosi e profondi. Dopo otto anni... giorno dopo giorno... Oh, Dio, com'è possibile che non conosca quest'uomo? «Wes, sei lì?» chiede Lisbeth al telefono. Continuo a respirare a fondo per recuperare la calma, inghiotto, mi siedo eretto e finalmente infilo la chiave nel cruscotto. «Un secondo», sussurro nel telefono. Premo l'acceleratore, sentendo le gomme che slittano sull'erba dell'aiuola, poi fanno presa e mi proiettano in avanti. Mentre mi tolgo dagli occhi le ultime lacrime, noto il menu del ristorante cinese infilato sotto il tergicristallo. Giro il volante con una mano e intanto con l'altra abbasso il finestrino; aziono i tergicristalli, mi allungo fuori e afferro il menu quando la spazzola si avvicina. Mentre butto il menu sul seggiolino di fianco, noto una grafia familiare sul retro del foglio, proprio sotto i coupon dello sconto. Freno di colpo, la macchina si blocca a una decina di metri dallo stop in fondo all'isolato. «Tutto bene?» chiede Lisbeth. «Aspetta...» Riprendo il menu. La grafia è inconfondibile. Piccole lettere maiuscole perfette. Wes, torna indietro. Assicurati di essere solo. (Scusa il tono melodrammatico) Mi volto sul seggiolino e controllo dal lunotto posteriore, tirando indietro le lacrime residue. Il cancello di casa Manning è chiuso. I marciapiedi sono deserti. E l'aiuola erbosa in mezzo alla strada è occupata solo dalla macchina blu degli addetti di Madame Tussauds. «Hai trovato qualcosa?» chiede Lisbeth. Cerco di leggere il resto del biglietto, riesco a malapena a tenere ferme le mani. Devi sapere il resto. Ore 19.00 a... Spalanco gli occhi quando vedo il luogo dell'appuntamento. Come pri-
ma, è firmato con un semplice svolazzo. La punta della R è più lunga del resto. Ron. Un'onda di liquido agrodolce mi copre la parte sinistra della lingua. Mi tocco il labbro e vedo sulle mie dita il liquido rosso vivo. Sangue. Mi stavo mordendo il labbro con tanta forza che non mi sono neanche accorto di essermi ferito. «Che cosa c'è, Wes? Cos'hai trovato?» chiede Lisbeth freneticamente. Sto per dirglielo, ma mi trattengo, ricordando quello che ha fatto. «Wes, cosa c'è che non va?» «Sto bene», dico rileggendo il biglietto. «Sono solo nervoso.» C'è una pausa nella comunicazione. Le hanno mentito i migliori. Io non sono neanche nella top ten. «Ok, che cosa mi nascondi?» chiede. «Niente è che...» «Wes, se stai pensando al nastro, mi dispiace. E se potessi tornare indietro...» «Possiamo non parlarne?» «Voglio solo scusarmi. L'ultima cosa che desideravo era ferirti.» «Non mi hai ferito, Lisbeth. Mi hai semplicemente trattato come una notizia.» Per la seconda volta resta zitta. L'ho colpita più a fondo di quel che pensassi. «Wes, hai ragione. Questa è una notizia. Una grossa notizia. Ma c'è una cosa che devi capire. Questo non vuol dire che per me sia solo una notizia.» «Tutto qui?» chiedo. «Qualche bella parola, un po' di musica di sottofondo, e io dovrei ridarti la mia fiducia?» «Naturalmente no. Se fossi in te, io non mi fiderei di nessuno. Ma ciò non vuol dire che non hai bisogno di aiuto. O di amici. E, tanto perché tu lo sappia, se avessi voluto bruciarti, quando ho avuto il nuovo cruciverba... quando ho avuto la storia di Violet e di Dreidel... avrei chiamato il mio direttore, invece di te.» Ci penso un momento. E penso anche al nostro primo viaggio in elicottero. «E ti ricordi che hai promesso di dare a me la storia? Bene, dimenticatene. Io sono fuori. Non la voglio più.» «Dici sul serio?» «Wes, negli ultimi dieci minuti, il mio taccuino è rimasto nella mia borsa.» Le credo. Penso che dica la verità. E sono convinto che sta cercando di
fare la cosa giusta. Ma dopo oggi, dopo Manning, dopo Dreidel... dopo quasi tutti... l'unica persona di cui possa davvero fidarmi sono io stesso. «E la tua visita dai Manning?» chiede Lisbeth. «Hanno detto qualcosa che ti può essere utile?» Guardo il biglietto manoscritto di Boyle e la firma con la lunga R. «No, le solite cose», rispondo rileggendo il messaggio fra me. Devi sapere il resto. Ore 19.00 87 «E la tua visita dai Manning?» disse Lisbeth al telefono camminando rapidamente sotto la pioggia davanti alla casa in cui aveva incontrato Violet. «Hanno detto qualcosa che ti può essere utile?» Wes fece una breve pausa. Per Lisbeth, fu più che sufficiente. Se voleva mentire, si sarebbe già preparato una storia. Una pausa del genere, qualunque cosa stesse pensando, per lui è dolorosa. E, con sua grande sorpresa, più capiva ciò che lui aveva passato - e che stava ancora passando - più anche lei si sentiva addolorata. Regola sacra n. 10, si disse: Affezionati alla storia, non ai suoi protagonisti. «No, le solite cose», rispose finalmente Wes. E aggiunse un breve saluto per porre fine all'imbarazzo. Invano. Lisbeth non poteva dargli torto. Con quel registratore, aveva scosso la sua fiducia. Ma mentre si infilava dietro al volante della sua auto e incominciava a fare un nuovo numero, era chiaro che non se ne sarebbe rimasta tranquilla a osservare, né gli avrebbe permesso di tenerla a distanza. «"Palm Beach Post"», disse una voce femminile all'altro capo. «Sono Eve.» «Eve, sono Lisbeth. Sei...?» «Non preoccuparti, la tua rubrica è pronta.» «Lascia perdere la rubrica.» «Ho inserito anche quello stupido premio di pittura.» «Eve!» Ci fu una pausa all'altro capo. «Ti prego, dimmi che non mi hai rovinato la macchina.» «Puoi ascoltarmi, per piacere?» chiese Lisbeth osservando il cruciverba che le aveva dato Violet, disteso sul volante. «Ti ricordi quel tizio dei fumetti, sai, quello con gli occhiali orrendi e il mento da mezzaluna?»
«Kassal? Il tizio che ci faceva le parole crociate...» «Sì, proprio lui... ehi, aspetta, perché faceva? - non mi dirai che è morto?» «Lisbeth, il giornale è talmente in crisi che riducono il corpo dei titoli per risparmiare sull'inchiostro. Credi davvero che terrebbero un dipendente, con i benefit, l'assicurazione e il resto, potendo acquistare un cruciverba d'agenzia per trenta dollari?» disse Eve. «L'hanno licenziato due anni fa. Ma per tua fortuna ho davanti a me un elenco degli impiegati di tre anni fa.» «Davvero non riordini la tua scrivania da tanto tempo?» «Vuoi il numero o no?» Dieci cifre più tardi, Lisbeth guardava la pioggia sottile scivolare sul parabrezza. Il suo piede batteva irrequieto in attesa che qualcuno rispondesse. «Devi essere a casa, devi, devi...» «Salve», rispose un uomo con la voce roca e un accento del Midwest. «Salve, sto cercando il signor Kassal», spiegò Lisbeth. «Martin, per servirla. E lei è...» «Lisbeth Dodson - eravamo colleghi al "Palm Beach Post" - e le garantisco, signore, che sto per farle la domanda più strana che...» «Accelera, dolcezza, ho dei biscotti in forno e morirei di dolore se bruciassero.» «Be', allora, un mio amico ha un problema...» Lisbeth inspirò a fondo, fece per prendere la penna, poi si fermò. «Lei è bravo a risolvere i cruciverba?» 88 Con il tettuccio aperto e la pioggia leggera che continuava a entrare, Nico uscì dall'autostrada, tagliando la strada a una Lexus bianca per immettersi sulla rampa dell'uscita Okeechobee Boulevard. «Edmund, ripetimi l'indirizzo?» disse Nico sistemando la coperta sul petto di Edmund mentre si avvicinavano al semaforo in fondo alla rampa. 8385 Okeechobee Boulevard. Annuendo fra sé, Nico si chinò in avanti, allungando il collo sopra al volante per vedere meglio la strada che correva perpendicolare davanti a loro. Sulla sua destra, il traffico leggero passava accanto a distributori di benzina e negozi di tagliaerba. Sulla sinistra, l'acqua azzurra del Clear Lake si stendeva davanti al Performing Arts Center, mentre un cartello autostrada-
le verde indicava gli splendidi grattacieli in lontananza. Nella foto che Nico aveva rubato, Wes era distrutto, devastato, corrotto dal contatto di Boyle. Non c'era niente di bello in lui. Nico si portò sulla destra e tagliò di nuovo la strada alla Lexus bianca, che suonò il clacson per cinque secondi buoni. Nico non lo sentì neppure, premette l'acceleratore e si immise nel traffico. «Riesci a leggere laggiù?» chiese indicando il numero di un rivenditore di automobili. Una goccia di pioggia passò dal tettuccio e finì sulla gota di Edmund. 2701. «E quello?» chiese Nico, indicando un magazzino mezzo isolato più avanti. Quello... fammi vedere... 2727. Nico si illuminò e, con uno scintillio negli occhi, premette ancora più a fondo l'acceleratore. Splendido lavoro, Nico. Dio è proprio dalla tua parte, stavolta. Pensandola nello stesso modo, Nico si allungò verso il rosario di legno che oscillava dallo specchietto della Pontiac. «Ti spiace, Edmund?» Ne sarei onorato. Te lo sei guadagnato, figliolo. Figliolo. Nico ebbe un sussulto a quella parola. Senza dubbio Edmund sapeva cosa voleva dire... e una volta uditala, Nico sentì il profumo della liquirizia nera e l'aroma di noce dei vecchi sigari fatti a mano di suo padre. Di quando... Di prima che sua madre si ammalasse. Quando andavano in chiesa. Quando le cose andavano bene. Incapace di nascondere il suo sorriso, Nico continuò ad annuire mentre si metteva il rosario al collo e guardava verso il sedile del passeggero. Cosa c'è? Qualcosa non va, Nico? «Niente... è solo che...» Annuì di nuovo e inalò ancora l'aroma della liquirizia. «Sono felice», disse. «E fra pochi minuti la mamma, come il papà, avrà giustizia.» 89 Cinque minuti fa ho incominciato a raccontare a Rogo la storia dei Quattro, e il biglietto di Boyle e quello che Lisbeth ha detto di Dreidel. In circostanze normali, Rogo si sarebbe messo a urlare e avrebbe attaccato la litania dei te-l'avevo-detto. Ma, come tutti i bravi attori, sente il suo pubblico.
«Che cosa dice?» chiede Dreidel in sottofondo. «Digli che i Manning mi hanno dato un giorno libero domani», dico al telefono, con la mia nuova rabbia che copre appena la mia eterna ansia. «I Manning gli hanno dato un giorno libero domani - per calmarsi dopo il casino di Nico», dice Rogo come un vecchio professionista. Poi, rivolto a me, aggiunge: «Hai idea del perché l'abbia fatto?» «Chi? Manning? Nessuna idea. La First Lady ha detto che forse l'hanno ingannato. Io so solo che i Tre hanno assoldato Boyle con il ricatto del presunto bambino. Ma per costringere un presidente degli Stati Uniti in carica...» «...dev'esserci in ballo un segreto enorme», concorda. «Wes, devi stare attento.» «Attento a cosa?» interviene Dreidel, chiaramente frustrato. «Che cosa sta dicendo?» «Rogo», lo avverto, «non dargli...» «Rilassati, ok? Stiamo parlando di O'Shea e Micah», dice Rogo, controllando la situazione. Dreidel non risponde e io mi chiedo se non sono troppo duro. Se anche Lisbeth avesse ragione, e Manning e Dreidel fossero valutati allo stesso modo... «Chiedigli se vuole che ci vediamo», dice Dreidel in sottofondo. «Per confrontare i nostri appunti.» «In effetti, è una grande idea», dice Rogo. A Dreidel, il tono di Rogo deve apparire entusiastico. A me, il sottinteso è altrettanto chiaro: preferirebbe staccarsi le dita a morsi che permettere un simile incontro. Poiché Rogo continua a tenerlo a bada, svolto bruscamente a destra per sfuggire al traffico dell'ora di punta sull'Okeechobee Boulevard e attraverso l'ampio posteggio del supermercato Publix. Non è il mio percorso abituale, ma l'ampio deserto del posteggio mi offre il modo migliore per controllare nello specchietto se sono ancora solo. «Allora, quando possiamo vederci?!» chiede Rogo, per tenere Dreidel allegro. «Immagino che tu stia scherzando, vero?» dico tornando indietro nel posteggio e seguendo la stradina a due corsie fino all'edificio familiare in fondo all'isolato. «Sì... certo.» «Bene, allora tienilo lontano», dico. «Lontano da me e lontano da Boyle.» «Dannazione, Rogo, non hai svoltato!» grida Dreidel in sottofondo. «La
rampa di accesso è lì dietro!» Senza una parola, so che Rogo capisce. Ora che arriveranno all'ufficio del dottor Eng e saranno tornati a Palm Beach, Dreidel sarà per me ufficialmente un problema in meno da affrontare. «Ok, alle otto stasera all'albergo di Dreidel, contaci, Wes», dice Rogo. «Sì... certo», aggiunge, benché io non dica nulla. Al telefono, respira a fondo. La voce si calma. «Assicurati di non correre rischi, però, ok?» Conosco quel tono. L'ultima volta che l'ho sentito, era accanto al mio letto d'ospedale. «Seriamente, Wes. Stai attento.» «Lo farò», rispondo svoltando bruscamente a destra e imboccando il vialetto di mattoni a ferro di cavallo che si trova davanti al mio condominio. Supero l'ingresso principale ed entro nel posteggio all'aperto sul retro. «Ma, onestamente, Rogo, pensavo che ti avrebbe fatto piacere vedere che finalmente reagisco....» «Sì, be'... la prossima volta, prima di attraversare la Manica, prova a fare qualche vasca in piscina!» «Gli ho dato la mia vita, Rogo. Devo riprendermela.» «Lo dici a me? Wes, io lotto con tutti - perfino col garzone moccioso che vuole rifilarmi la borsa di plastica al posto di quella di carta. Ma lasciati dire una cosa: con gente del genere non si lotta. Si trovano delle prove, le si mette al sicuro da qualche parte e si corre dai giornalisti... dalle autorità... da chi è nella posizione migliore per impedire che ti facciano finire i denti nel colon. E credimi, quando ti scopriranno, reagiranno.» «Stai parlando ancora di Micah e O'Shea?» interviene Dreidel in sottofondo. «E di chi dovremmo parlare?» ribatte Rogo. «Rogo», dico, «io so come reagiranno. Non avranno alcuna possibilità.» «Bene, è quello che volevo sentire. Ok, se non puoi andare a casa, dove intendi nasconderti nelle prossime ore - quell'orrendo albergo in cui stava mia madre, o magari qualche posto più frequentato, come l'atrio dei Breakers o qualcosa di simile?» Resto zitto un istante, accostando al mio posteggio sul retro. «Che cosa vuoi dire?» «Guarda l'ora, Wes - devi ammazzare ancora due ore - dando per scontato che tu non voglia andare a casa...» Resto di nuovo in silenzio. Giuro che sento Rogo che scuote la testa. «Sei già a casa, vero?» «Non esattamente», dico mentre la macchina supera un dosso.
«Non esattamente? Cosa vuol dire non esattamente?» «Cioè... sono... vuol dire che sono nel parcheggio.» «Oh, Gesù! Wes, e perché...? Vattene via di lì!» «Non pensi che il sistema di sicurezza all'ingresso...?» «Non è un sistema di sicurezza. È un custode con un badge cucito sulla divisa!» «Parlo delle telecamere, Rogo. È di questo che hanno paura - di essere visti! E senza offesa, ma finché non l'hai detto a Dreidel pensavo di essere al sicuro.» «Vattene. Subito.» «Sei sicuro?» chiedo entrando in un posto libero per fare manovra. «Gira la macchina e porta fuori di lì il tuo culo prima che...» Metto la retromarcia, ma sento un colpo al finestrino. Mi giro a sinistra e vedo la canna di una pistola che batte sul vetro. O'Shea punta l'arma verso di me mentre si porta l'indice alle labbra. «Digli che va tutto bene», dice O'Shea con voce attutita dal vetro. Guardo la pistola. «A... ascolta, Rogo, va tutto bene», dico al telefono. Rogo dice qualcosa, ma io non lo sento. «Digli che lo richiami quando hai trovato un posto sicuro», continua O'Shea. Esito un attimo. O'Shea contrae il dito sul grilletto. «Rogo, ti richiamo quando trovo un posto sicuro.» Chiudo il telefono. O'Shea apre la mia portiera. «Lieto di rivederti», dice. «Com'era Key West?» 90 «Andiamo, Wes. Fuori», dice O'Shea afferrandomi per la spalla della camicia e tirandomi fuori della Subaru. Mentre incespico sull'asfalto del posteggio, mi accorgo che la macchina è ancora accesa. Non gli interessa. Non pensa che ci metterà molto. «Continua a camminare... Verso la siepe», aggiunge, a meno di un passo dietro di me. La sua pistola non è più visibile. Ma nella tasca della sua giacca, vedo che è ancora puntata verso di me. Ci dirigiamo all'angolo in fondo al posteggio, dove c'è un passaggio tra i cespugli che porta alla pista per cani che corre lungo tutto l'isolato. La pista è stretta e non molto lunga. Ma, essendo nascosta fra i cespugli, ci renderà invisibili.
«Key West», dice O'Shea, sempre dietro di me. «Il tuo amico Kenny ti saluta.» Mi guardo alle spalle proprio mentre raggiungiamo i due lampioni all'ingresso della pista. O'Shea mi fa un sorriso cinico, ma a giudicare dal modo in cui i suoi capelli color sabbia sono incollati alla sua testa, ha avuto una giornata più dura di quel che vuole ammettere. Le gocce di pioggia sembrano di sudore, sul suo naso da pugile. «Non so di cosa tu stia parlando», dico girandomi per affrontarlo. Non mi risponde neanche. «Dov'è la foto che hai preso, Wes?» «Te l'ho detto, non so...» Di scatto, il suo pugno mi colpisce in faccia, sull'occhio sinistro, e mi fa cadere sul sentiero fangoso. Mentre striscio all'indietro col sedere sull'erba umida, l'orbita mi pulsa come una campana appena percossa. «So che hai la foto. Dammela e sei libero di andartene.» «È... è nel cassetto del cruscotto», dico indicando l'auto con una mano e tenendomi l'altra sull'occhio. O'Shea guarda la Subaru, mentre altre due auto entrano nel posteggio. Hanno le luci accese che bucano l'oscurità e trasformano la pioggia leggera in minuscoli fuochi d'artificio, brillanti in lontananza. Condòmini che tornano a casa dal lavoro. O'Shea mi pianta un piede sulla spalla e studia la scena come se leggesse la mano di qualcuno. Senza una parola si china, mi afferra per la camicia e mi rimette in piedi. Ancor prima che ritrovi l'equilibrio, mi dà una spinta e io finisco contro l'albero più vicino. La guancia mi gratta sulla corteccia e mi costringe a dimenticare momentaneamente il dolore all'occhio. Dietro di me, O'Shea mi apre le gambe a calci e si mette a frugarmi nelle tasche, buttando per terra quello che contengono: portafoglio, chiavi di casa, il foglio con gli appuntamenti quotidiani di Manning. «Cosa fai?» dico mentre mi tocca sul petto e prosegue scendendo sulle mie gambe. «Ti ho detto che è nel...» C'è un leggero scricchiolio quando le sue dita mi toccano sulla caviglia. Io guardo in giù. Lui guarda in su. Cerco di liberarmi dalla sua stretta, ma è troppo forte. Mi stringe la caviglia, mi tira su la gamba dei pantaloni e rivela la foto in bianco e nero che sporge per metà dalla mia calza. Rabbiosamente, O'Shea me la strappa via e mi spinge di lato. La sua rabbia monta quando vede la foto di Micah all'autodromo. Ne stropiccia un angolo, ma subito ritrova la calma e riprende fiato. Sollevato dal non es-
serci, ritorna a me. Il fatto che io sia ancora vivo significa che la foto non è l'unica cosa che vuole. «Dov'è Lisbeth?» chiede. «Abbiamo litigato.» «E ti lascia ancora usare la sua macchina? È davvero servizievole.» «Se vuoi sapere se ha intenzione di scrivere...» «Voglio sapere dov'è, Wes. Subito. E non dire Non lo so.» «Ma io non...» «Non dire non lo so!» grida tirando fuori la pistola e puntandomela in faccia. Poi abbassa la voce e aggiunge: «So che stavi parlando con lei del cruciverba. Adesso...» Si sente uno scricchiolio di rametti rotti e un rumore come di campanelle. Dietro a O'Shea, attraverso il passaggio che porta al posteggio, una donna piccola con un tailleur gessato agita un guinzaglio di metallo a cui è attaccato il suo vaporoso cocker spaniel. Prima che la donna si accorga di quello che sta succedendo, O'Shea incrocia le braccia e nasconde la pistola sotto l'ascella. «Scusate», dice la donna, ridendo nervosamente e chinandosi per passare in mezzo a noi. «Non volevo interrompervi.» «Non c'è nessun problema», dice O'Shea, girandosi quanto basta perché lei non possa vederlo bene in faccia. «Stavamo solo aspettando i nostri cani, a loro piace correre fino in fondo.» La donna annuisce e si volta appena il tempo necessario per vedere che nessuno di noi ha un guinzaglio. Fa finta di niente, si gira subito e segue il suo cane diretto a un ciuffo d'erba qualche metro più in là. Ho la tentazione di mettermi a correre. Questa donna è una distrazione perfetta e una testimone. Ma quando O'Shea abbassa il mento e i suoi occhi nocciola spariscono nell'ombra, sento il messaggio forte e chiaro: se faccio una mossa, uccide anche lei. «Bravo, Murphy, ecco», dice la donna trascinando il cane in mezzo a noi e ritornando nel posteggio. Per un minuto intero la guardiamo da dietro mentre attraversa il posteggio e si dirige alla porta sul retro del condominio. La donna guarda il cane, l'orologio, le chiavi - ma devo darle atto che non si volta mai indietro. Con un debole rumore, la porta metallica del palazzo si chiude e la donna scompare. Le braccia di O'Shea si riaprono e la sua pistola torna davanti ai miei occhi. «Mi dispiace, Wes», dice caricando l'arma. «Ti farà male.» «Aspetta... Cosa intendi fare?» chiedo arretrando e finendo contro un al-
bero vicino. La pioggia leggera gli batte sul volto, ma lui lo nota appena. La sua pelle chiara scintilla con una luminosità giallastra nel buio. «O'Shea, se lo fai... apriranno un'inchiesta e non riuscirai mai a cavartela.» O'Shea sorride mentre il suo dito si contrae sul grilletto. «Strano. È quello che ci hanno detto anche l'ultima vol...» Pop, pop, pop. Il rumore attraversa l'aria come un singhiozzo. Il corpo mi diventa gelato - non per il freddo, per il rumore. Pop, pop, pop - un'eco del passato - stanno sparando. Davanti a me O'Shea, con un'aria di sorpresa rabbiosa sulla faccia, trema e oscilla, abbattendosi all'indietro contro il lampione. Si dà una pacca sulla spalla come se volesse colpire un insetto. Le ginocchia incominciano a cedere. La testa si inclina leggermente di lato. Ma è solo quando vedo il sangue che gli esce dalla spalla che capisco che gli hanno sparato. Il suo sangue, mentre cola sul vestito nella luce fioca, sembra nero. «Nooo!» geme O'Shea mentre la testa gli sbatte contro il lampione. La pistola gli cade nel fango. Da come trema e si appoggia al lampione, sta per seguirla. Alle mie spalle c'è uno scricchiolio. Prima che me ne accorga, un'ombra alta e confusa con una giacca a vento nera mi passa accanto di corsa, verso O'Shea. «Muoviti, Wes! Muoviti!» grida l'ombra, mettendomi il braccio dietro alla schiena e trascinandomi via. Ma scivolando sull'erba, tentando di mantenere l'equilibrio, non posso confondere quella voce, la voce della Malaysia... la voce dell'avvertimento telefonico... Boyle. 91 «Wes, vattene via! Subito!» sibila Boyle, con la pistola puntata su O'Shea. Un filo di fumo esce dalla canna. Scivolando a terra con la schiena appoggiata al lampione, O'Shea finisce in ginocchio. Lotta per restare in piedi, ma invano. È scioccato. Boyle non corre rischi: si precipita avanti e spinge la canna della pistola contro la testa di O'Shea. «Dov'è Micah?» chiede. In ginocchio, O'Shea digrigna i denti per il dolore. «Finalmente hai scoperto il suo nome, eh? Gliel'avevo detto che...»
«Te lo chiedo solo un'altra volta», minaccia Boyle. Allontana l'arma dalla testa di O'Shea e punta la canna sulla ferita che ha sulla spalla. O'Shea tenta di gridare, ma Boyle gli mette una mano sulla bocca. «Per l'ultima volta, dove si nasconde?» Boyle tira indietro il cane e preme la pistola sulla ferita. Il corpo di O'Shea si agita mentre lui tenta di parlare. Boyle gli libera la bocca. «È... è morto», ruggisce, più rabbioso che mai. «Chi è stato? Tu o il Romano?» O'Shea esita, Boyle infila la canna ancora più dentro. «Io. Io. Io» geme con lo sguardo di un animale selvaggio. «E farò lo stesso con t...» Boyle non gliene lascia la possibilità, preme il grilletto e gli spara nella stessa ferita. C'è un botto soffocato e un pezzo di carne esplode via dalla schiena di O'Shea. Il dolore è talmente intenso che non ha neppure il tempo di gridare. Gli occhi gli si rovesciano, le braccia diventano molli. Afflosciandosi come un sacco di patate, cade in avanti a peso morto. Nel momento in cui tocca terra, Boyle è su di lui, gli tira le mani sulla schiena e gli infila i polsi in un paio di manette di plastica che ha tirato fuori dalla tasca. «C... che cosa ci fai qui?» chiedo quasi senza fiato. Con un sonoro zzzip, le manette si chiudono e bloccano i polsi di O'Shea. Se Boyle volesse ucciderlo, gli sparerebbe un altro colpo, ma da come lo sta legando è chiaro che vuole qualcos'altro. È sorprendente il modo in cui si muove - sistemando il corpo di O'Shea, lavorando veloce - il modo in cui i suoi tricipiti si tendono sotto la giacca a vento... si è allenato per questo. È la prima volta che lo guardo bene negli occhi. Benché la luce sia scarsa, scintillano come quelli di un gatto. Castani con un lampo azzurro. In lontananza, la portiera di un'auto sbatte con un tonfo metallico. Boyle scatta sulla sinistra, seguendo il rumore. Gli alti cespugli gli impediscono di vedere, ma da come si blocca, si china ad ascoltare... sembra che sappia che sta arrivando qualcuno. «Dobbiamo andare!» ripete improvvisamente frenetico, raccogliendo da terra la pistola di O'Shea e mettendola in tasca. «Come facevi a sapere che sarei venuto qui?» Invece di rispondermi, fa rotolare furiosamente O'Shea, svenuto, come un ciocco e lo mette sulla schiena. «Aiutami ad alzarlo!» ordina. «Mi stavi seguendo?» riprendo mentre rimettiamo O'Shea in piedi. Boyle ignora la domanda, si mette davanti all'uomo ferito e piega un gi-
nocchio. Quando cade in avanti, Boyle infila la spalla sotto la pancia di O'Shea e lo solleva come se fosse un tappeto arrotolato. «Ti ho fatto una...» «Ti ho sentito, Wes. Togliti di lì.» Cerca di superarmi. Io invece gli blocco la strada. «Mi stavi seguendo? E lo facevi per sorprenderli o...?» «Mi dai retta, Wes? Nico può arrivare da un momento all'altro!» A queste parole vacillo. Mi sento la bocca secca e giuro che tutte le ghiandole del mio corpo si mettono a produrre sudore. «Adesso via di qui, prima che ci ammazzino tutti e due!» Boyle scuote la testa e corre con O'Shea in spalla. Io lo guardo correre verso il fondo della pista per i cani. «Dove lo porti?» «Non fare lo stupido!» dice lui, dandomi un'ultima occhiata per assicurarsi che lo stia ascoltando. «Avremo tempo di parlare più tardi!» A distanza, mentre si allontana da me, la giacca a vento nera di Boyle lo rende del tutto invisibile, tranne la testa pelata. È lo stesso per O'Shea, sulle sue spalle, il cui collo chiaro brilla mentre la testa pende all'ingiù. Boyle grida qualcos'altro, ma non riesco a sentirlo. Velocemente scendono lungo il sentiero e svaniscono nell'oscurità. Il sole è ormai calato. E io sono di nuovo in silenzio. Scioccato. Solo. Alle mie spalle, una portiera sbatte nel posteggio. Sulla sinistra, lo stridere di un grillo graffia l'aria notturna. La pioggia continua a cadere e un altro ramoscello si spezza. Poi un altro. È più che abbastanza. Torno nel posteggio correndo più veloce che posso. Un'altra portiera sbatte. Sommessa, come se fosse all'altro capo del piazzale. Non è il momento di rischiare. Raccolgo il portafoglio, le chiavi e la foto, sfreccio tra i lampioni, passo fra due macchine, non c'è nessuno. Mi rimetto il portafoglio in tasca - e la foto nella calza - poi corro, controllando fila dopo fila e verificando l'abitacolo di tutte le macchine. Su tutti i tetti metallici, i lampioni gettano riflessi circolari che si infrangono a ogni goccia di pioggia. Se Boyle mi ha seguito per tutto il tempo, chiunque poteva... No, non voglio neanche pensarci. Mi metto a correre a tutta velocità, arrivo alla macchina di Lisbeth, apro la portiera e praticamente mi tuffo al posto di guida. La macchina è ancora accesa. Il mio telefono è ancora appoggiato sul bracciolo. Lo apro, faccio freneticamente il numero di Rogo e inserisco la retromarcia. Ma intanto penso solo a chi è accanto a Rogo, e a quante domande
farà Dreidel e a come faceva O'Shea a sapere che ho parlato con Lisbeth. Rogo e io eravamo convinti che Dreidel non potesse sentire niente, della nostra ultima conversazione, ma se non è così... Interrompo la chiamata e ripeto mentalmente le parole di Boyle: «Avremo tempo di parlare più tardi». Guardo l'orologio digitale sul cruscotto. Un'ora e quarantacinque minuti, per la precisione. Mentre compongo un numero completamente nuovo e premo sull'acceleratore, mi dico che è l'unico modo. E così è. Comunque sia riuscito a cavarsela Boyle, anche se mi stava usando come esca per i Tre, ferendo O'Shea e scoprendo che Micah è morto, finalmente ci ha dato una possibilità. Invece di arrivare alle sette, stasera, invece di andare avanti alla cieca, devo ottenere tutti i vantaggi possibili. Anche se ciò comporta qualche rischio. Quando finisco di fare l'ultimo numero, devo solo premere INVIO. Invece mi blocco. Non perché non mi fidi di lei. Ma proprio perché mi fido. Rogo mi direbbe che non devo. Ma non ha sentito le sue scuse. Non ha sentito il dolore nella sua voce. Sapeva di avermi ferito. E ciò la faceva stare male. Premo INVIO, sperando di non pentirmene. Ascolto il telefono squillare. Squillare di nuovo. Sa chi sono, ha il numero identificativo. Il telefono suona per la terza volta mentre sfreccio nel posteggio verso l'ingresso del palazzo. Non la rimprovero, se non risponde. Una mia chiamata significa solo g... «Wes?» dice finalmente Lisbeth, con voce più dolce di quel che mi aspettassi. «Sei tu?» «Si.» Non è difficile interpretare il mio tono. «Va tutto bene?» chiede. «N... non credo», dico aggrappandomi al volante. Lei non ha la minima esitazione. «Come posso aiutarti?» chiede. 92 Percorrendo in macchina il vialetto di mattoni davanti al palazzo di Wes, Nico ricontrollò la coperta di lana di Edmund e toccò il freno, dicendosi che doveva rallentare. Nell'esercito, all'autodromo, e anche adesso, il suo primo obiettivo era sempre quello di non farsi notare. Ma era ormai così vicino... Nico tolse il piede dal freno e accelerò leggermente. Il rosario di
legno sembrava scottare, sul suo petto. Ci siamo quasi, figliolo. Non agitarti. Nico annuì, facendo un cenno di saluto a uno dei condòmini che usciva dal portone per fare jogging. Mentre la Pontiac seguiva la strada diretta al posteggio sul retro, i suoi fari penetravano nell'oscurità come due lance di luce. Sai dove stiamo andando? «527», rispose Nico indicando col mento i numeri dipinti in nero sui paletti di cemento davanti ai vari posti auto. In un minuto, aveva percorso le prime due corsie. 525... 526... e... Nico frenò, bloccando l'auto. 527. Il numero dell'appartamento di Wes. Ma il posto auto era vuoto. Potrebbe essere comunque in casa. Nico scosse la testa. «Non è in casa.» Allora dobbiamo salire ad aspettarlo. «Non credo che sia una buona idea», disse Nico, continuando a studiare il posteggio. Non poteva rinunciare. Proseguì nella corsia successiva. Socchiuse gli occhi e abbassò il finestrino per vedere meglio. Alle sue orecchie, le gocce di pioggia sulle macchine vicine sembravano i colpi di un bambino che giocasse con una batteria. Andando su e giù nel posteggio, la Pontiac si trovò alla fine nello stesso punto da cui erano entrati. Sai che macchina ha, almeno? Nico, rallentando, scosse la testa e aprì la sua portiera. «Non cerco la sua macchina.» Cosa vuoi...? La Pontiac non era ancora del tutto ferma quando Nico scese, andò davanti ai suoi fari e si chinò per terra. Sull'asfalto, una coppia di segni paralleli lasciati dalle gomme formavano delle V sovrapposte, proprio davanti al posto macchina di Wes. Come se qualcuno se ne fosse andato molto in fretta. Nico si rialzò, si guardò alle spalle, ricontrollò tutto il posteggio. Lampione per lampione, corsia per corsia, osservò tutto, compresi i cespugli che circondavano completamente... No, non completamente. Inclinando la testa, Nico ammiccò un paio di volte per assicurarsi di avere visto bene. Era facile trascurarlo, nascosto dalle macchine e coperto da altri cespugli, lo stretto passaggio praticamente scompariva, si mimetizzava natural-
mente. Per fortuna, Nico era un esperto di mimetizzazioni. Hai trovato qualcosa? Nico tirò fuori la pistola dai pantaloni e toccò con la canna il rosario che aveva sul petto. Ma mentre si dirigeva all'apertura, verso la pista per i cani, non vide altro che impronte fangose, confuse, e pezzetti di erba sparpagliati. A prima vista, sembrava che ci fosse stata una lotta, ma la pioggia... le impronte che si allontanavano... poteva anche non essere nulla. Senza perdersi d'animo, osservò i rami (quante croci!), i cespugli, i tronchi di tutti gli alberi. Dio l'aveva condotto lì. Il Signore avrebbe provveduto. Si piegò sulle ginocchia per scrutare sotto ai cespugli, immerse la mano libera nelle pozzanghere. C'erano impronte di cani e di piedi sotto qualche ramo, ma il terreno era per lo più troppo bagnato per poterlo leggere. Strisciando sull'erba inzuppata, Nico sentì il fango che gli imbeveva le ginocchia dei jeans. Il cuore gli si fece pesante. Non capiva. Dio avrebbe... Dio avrebbe dovuto provvedere. Ma mentre Nico continuava a cercare freneticamente... mentre continuava a strisciare come un cane, a tastare il fango in cerca di una prova... per capire dov'era andato Wes... sembrava che fosse tutto finito. «Ti prego... ti prego... smetti di piovere», disse Nico al cielo ormai buio. La pioggia continuò a cadere fine fine dall'alto. «Ti prego... smetti di piovere!» esplose Nico buttando in aria una manciata di fango ed erba. La pioggia continuò. A quattro zampe, Nico abbassò la testa e guardò il rosario che gli pendeva dal collo. Com'era possibile? Perché Dio l'aveva condotto fin lì? Con la pioggia che gli scendeva sulla faccia, Nico si rialzò e si diresse deciso tra i lampioni, verso il posteggio. Aveva ancora la testa bassa quando raggiunse la Pontiac. Afferrò il rosario, tentò di pregare, ma non ci riuscì. Tentò di chiudere gli occhi, ma vide solo la confusione di fango, erba e ramoscelli che copriva tutti i sentieri. La sua mano si strinse intorno al rosario e tirò con forza crescente. Dio aveva fatto una promessa. Mi aveva giurato - giurato! - che la porta del diavolo sarebbe rimasta chiusa, che vendicare la morte di mia madre avrebbe garantito la redenzione. E adesso mi abbandona così... Con uno schiocco, il rosario si spezzò e decine di grani si sparpagliarono sull'asfalto del posteggio. «No... Dio, mi dispiace, mi dispiace tanto!» disse Nico isterico, mettendosi a recuperarli mentre rotolavano e saltellavano disperdendosi in tutte le
direzioni. Tuffandosi di lato mentre se li stringeva al petto, Nico seguì un grano disperso come un bambino che cerca di afferrare un saltamartino. Ma fu solo quando scivolò sulle ginocchia già bagnate... quando il grano, saltellando saltellando, finì sotto alla Pontiac, che Nico vide il foglio bagnato e incollato a terra proprio davanti alla ruota della macchina. Dal suo aspetto - il lato superiore perfettamente liscio, quello inferiore già inzuppato di pioggia - il foglio era già stato calpestato. Ma alla luce della luna, benché la metà superiore fosse distrutta e spezzettata dal passaggio delle ruote, Nico riuscì comunque a leggere il nome del ristorante cinese, scritto a grosse lettere rosse in cima al menu. E soprattutto la nota manoscritta in fondo: Devi sapere il resto. Ore 19.00 a Woodlawn. Ron Ron. Nico lesse di nuovo quel nome. E di nuovo. La Bestia. Ron. Le lettere si confusero davanti ai suoi occhi. Staccò delicatamente il menu dall'asfalto, controllando a stento le mani... che tremavano come la testa di sua madre. Metà del menu si strappò mentre lo sollevava. Pazienza. Nico si strinse il resto bagnato sul petto, alzò gli occhi al cielo e baciò la manciata di grani del rosario che aveva nell'altra mano. «Capisco, Signore. Wes e Boyle - i traditori - insieme. Un'ultima prova... un ultimo capitolo», sussurrò rivolto al cielo. Si mise a pregare. «Non ti deluderò, mamma.» 93 La porta metallica graffiata del vecchio appartamento si aprì e l'odore di tabacco da pipa investì Lisbeth. «È la giornalista, vero?» chiese un uomo massiccio sui sessant'anni, con occhiali scuri, una camicia a maniche corte bianca e un mento aguzzo da mezzaluna. Non era cambiato dall'ultima volta che l'aveva visto, a parte la fronte, dove un pezzo di pelle ovale delle dimensioni di un grosso bottone si era staccato, presso l'attaccatura dei capelli, e aveva lasciato al suo posto una macchia rosa pallido. «Cancro delle cellule squamose», dichiarò lui. «Non è bello, lo so, ma almeno - aha! - non ha raggiunto l'osso», proseguì stringendosi nelle spalle
con una goffa risata. Eve l'aveva avvertita. Come i vignettisti e i ragazzi degli annunci mortuari da basso, anche gli inventori di parole crociate avevano bisogno di qualche lezione di galateo. Lisbeth entrò e Martin Kassal la seguì un po' troppo da vicino, tentando di nascondere una leggera zoppìa mentre la guidava in salotto, le cui pareti erano tutte ricoperte da scaffali di libri. Perfino al di sopra della libreria c'erano ammonticchiati giornali, riviste, dizionari, tesauri, e l'edizione completa dell'Encyclopaedia Britannica del 1959 e del 1972. Al di là del salotto, un piccolo studio conteneva un tavolo di formica bianca ingiallito dal sole, un divanetto beige a due posti sepolto sotto ritagli di giornale e una lavagna verticale circondata da almeno cinquanta adesivi da auto: Principiante a bordo, Gemelli a bordo, Fan dei Dolphins a bordo, Cacciatore a bordo, Suocera nel bagagliaio, Papà del Michigan a bordo, Nessuno a bordo, un Principessa a bordo color rosa brillante, e naturalmente Enigmista a bordo, in bianco e nero. «Giugno 1992», si illuminò Kassel alzando il mento aguzzo. «Abbiamo organizzato una caccia al tesoro per la redazione della sezione weekend. Roba impossibile: il tappo di una vecchia bottiglia di bibita, una foto di una partita di baseball con un giocatore senza cappello e questi», disse indicando la collezione di adesivi. «Qualsiasi cosa che non fosse Bambino a bordo.» Lisbeth annuì delicatamente e si concentrò sulla lavagna, con il suo grosso schema di parole crociate. La metà superiore dello schema era piena di parole e caselle nere; la metà inferiore era quasi completamente vuota. «Li fa ancora a mano?» chiese. «Invece di usare un computer che faccia tutto il lavoro al mio posto? Senza offesa, ma - aha! - sono abbastanza obsoleto già così. Mi manca solo di alzare bandiera bianca e seppellirmi da solo, se fosse possibile.» «Naturalmente», disse Lisbeth, guardando i due cruciverba che aveva in mano. «Così quelli sono gli schemi di cui parlava?» chiese Kassal, alzando il naso e guardandola attraverso la metà inferiore delle sue lenti bifocali scure. Lisbeth gli porse i cruciverba e lui guardò per qualche istante il primo. «Il 56 orizzontale dovrebbe essere taser, non tasks.» «Non sono le parole crociate il problema», spiegò Lisbeth. «Sono i simboli di fianco.»
Seguendo il dito di Lisbeth, Kassal studiò i simboli manoscritti: , ,
,
. «È sicura che non siano semplici scarabocchi?» «L'abbiamo pensato anche noi, finché non abbiamo trovato questo», spiegò Lisbeth, prendendo il cruciverba di Violet. «Aha!» disse Kassal, con la sua strana risatina. «Bravissimi. Il loro piccolo codice!» «Vede, il problema è che, secondo me, non l'hanno inventato loro.» Già immerso nel gioco, Kassal borbottava tra sé. «Se i quattro puntini rappresentano la lettera D, cioè la quarta, e i due puntini sono la B... No, no, non è un crittogramma, non ci sono abbastanza simboli. Non è neanche un anagramma.» Scrutò Lisbeth al di sopra degli occhiali e aggiunse: «Potrebbero essere simboli atmosferici... forse sono segni Navajo. Chi ha detto che li ha fatti?» «Un amico.» «Ma un amico intelligente, un amico stupido...?» «Intelligente. Molto intelligente. Un primo della classe.» «E a cosa le serve?» «Io... non... curiosità.» Kassal la guardò fisso, leggendola come un cruciverba. «Non mi mette nei guai, vero?» «Senta, al giornale hanno detto che lei era il migliore nel decifrare queste cose.» «Adesso cerchi di adularmi, cara.» «No, io voglio solo...» «Va bene. Di questi tempi, le ragazze giovani non mi adulano troppo spesso. La cosa mi manca.» Avvicinandosi al tavolo di formica ingiallito, Kassal prese un foglio di carta e ricopiò i simboli uno per uno. «Mi aiuterà?» chiese Lisbeth. «Meno chiacchiere e più lavoro», disse Kassal, di nuovo immerso nell'enigma. Lisbeth gli andò vicino, incapace di nascondere la sua eccitazione. «Incominciamo con i quattro puntini che ci sono qui», disse lui indicando . «Se tracciamo una riga verticale nel mezzo, così:
«... e una linea orizzontale così:
«...il simbolo è identico da entrambi i lati della linea, il che significa che è un simbolo con più assi di simmetria.» «E perché è importante?» chiese Lisbeth. «Ha mai cercato un simbolo in un dizionario? Quattro puntini che formano un quadrato non si trova sotto la lettera Q. Ma come ogni enigma ha la sua soluzione, ogni simbolo ha la sua classificazione, in base a quattro criteri: primo, è simmetrico o no? Secondo, è chiuso come un triangolo o aperto come i nostri quattro puntini? Terzo, le linee sono rette o curve? E quarto: ha delle linee che si incrociano?, perché questo ci porta in un campo religioso del tutto nuovo.» «E quando abbiamo risposto a queste domande?» «Quando abbiamo risposto», disse Kassal, zoppicando verso uno scaffale e tirando fuori dei libri spessi come elenchi telefonici, «andiamo a cercare sulle enciclopedie.» Con un tonfo, posò il mucchio di libri sul tavolo. Dizionario dei simboli, Enciclopedia dei simboli tradizionali, Guida all'iconografia religiosa, Almanacco illustrato dei segni occulti... «Ci vorrà un bel po' di tempo, eh?» chiese Lisbeth, aprendo uno dei libri. Le prime pagine della sezione intitolata Simmetrici, Chiusi, Linee curve, Linee incrociate, contenevano quattro voci per il simbolo (compreso il suo significato in matematica, genealogia e botanica) e sei per , , e vari altri cerchi sovrapposti. «Naturalmente ci vorrà tempo», ribatté Kassal, mentre catalogava gli altri simboli dell'elenco. «Perché, deve andare da qualche...?» Il telefono di Lisbeth squillò con un suono acuto. Lei lo aprì e stava per rispondere, ma si trattenne quando vide il numero da cui giungeva la chiamata.» «Cattive notizie?» chiese Kassal, notando la sua esitazione. «No... per niente», disse lei mentre il telefono squillava di nuovo. «Se lo dice lei», replicò Kassal stringendosi nelle spalle. «Secondo la mia esperienza, però, espressioni come quella sono riservate a due tipi di persone: i capi e i fidanzati.» «Sì... ma questo è un problema del tutto diverso.» Ma al terzo squillo del telefono Lisbeth non poté ignorare il fatto che, malgrado il suo taccuino sporgesse dalla borsa, lei non lo stava prendendo. Naturalmente, ciò non vuol dire che le fosse facile. Ma dopo dieci anni passati a trasformare sto-
rie da duecento parole in titoli di prima pagina... be', c'erano cose più importanti della prima pagina. Finalmente rispose e disse: «Wes? Sei tu?» «Sì», rispose lui, con una voce ancora più brutta di quando avevano guardato il video dell'attentato. «Va tutto bene?» «N... non credo.» Sentendo la sofferenza nella voce di Wes, Lisbeth voltò le spalle a Kassal. «Vada pure», disse il vecchio sistemandosi gli occhiali. «La chiamo appena trovo qualcosa.» «È sicuro?» «Vada», ripeté lui, tentando di sembrare irritato. «Le ragazze sono solo una distrazione, in ogni caso.» Accennando un grazie e mentre gli scriveva il suo numero su un post-it, Lisbeth corse alla porta. Riprese il cellulare e chiese a Wes: «Come posso aiutarti?» All'altro capo, finalmente Wes sospirò. Lisbeth non capì se per il sollievo o l'emozione. «Dipende», rispose. «Quanto ci metteresti per arrivare a Woodlawn?» «Al cimitero di Woodlawn? Perché?» «È lì che Boyle mi ha chiesto di incontrarlo. Alle sette. Davanti alla sua tomba.» 94 Dopo un'ora in mezzo al traffico, Rogo svoltò a destra e scese dall'autostrada all'uscita di Griffin Road, a Fort Lauderdale. «Sai, per essere uno che tratta multe tutti i giorni», disse Dreidel, aggrappato alla maniglia della sua portiera, «pensavo che preferissi una guida un po' più prudente.» «Se ci danno una multa, gliela faccio togliere», rispose Rogo freddamente, premendo l'acceleratore e aumentando ancora la velocità. Wes aveva un margine sufficiente. Adesso l'importante era sapere perché Boyle era andato a trovare il dottor Eng - in Florida - il giorno prima dell'attentato. «È impossibile che sia ancora là», disse Dreidel, guardando l'orologio. «Non esiste un solo dottore che lavori dopo le cinque del pomeriggio», aggiunse con una risata nervosa. «Smettila di chiacchierare, ok? Ci siamo quasi.»
Con una brusca svolta a sinistra, passarono sotto alla I-95 e si diressero a ovest sulla Griffin, seguendo una fila di cambiavalute, hard discount e distributori di video per adulti. «Bellissima zona», disse Rogo mentre superavano un'insegna al neon viola e verde con la scritta FANTASY LOUNGE. «Non c'è ma...» Proprio sopra di loro, un rombo lacerò l'aria e un 747 rosso e bianco passò diretto alla pista d'atterraggio dell'aeroporto di Fort Lauderdale, che a giudicare dall'altezza dell'aereo si trovava a poco più di un chilometro di distanza. «Forse al dottor Eng piace spendere poco di affitto», disse Dreidel mentre Rogo rileggeva l'indirizzo sulla vecchia agenda di Boyle. «Se siamo fortunati, glielo puoi chiedere di persona», rispose Rogo, indicando qualcosa davanti a loro. Attraverso il parabrezza, oltre un'agenzia di pompe funebri, dei lampioni illuminavano un parco e un palazzo di uffici di quattro piani, con le porte e le finestre di vetro smerigliato. Sulla metà superiore del palazzo, proprio sotto il tetto, correva una striscia orizzontale gialla. 2678 Griffin Road. 95 Il primo anno, Ron Boyle aveva avuto paura. Passare di paese in paese... rifarsi il naso e modificare le guance... tentare anche di cambiare l'accento, senza riuscirci, in realtà. Gli uomini dell'ufficio del dottor Eng dissero che sarebbe stato al sicuro, che nessuno avrebbe potuto seguire le sue tracce. Ma ciò non gli impediva di fare un salto nel letto tutte le volte che sentiva sbattere una portiera davanti al suo motel, al suo albergo o alla sua pensione. Il peggio fu quando dei fuochi d'artificio esplosero davanti alla cattedrale vicina, come è tradizione durante i matrimoni a Valencia, in Spagna. Naturalmente Boyle sapeva che non sarebbe stato facile: nascondersi, lasciare gli amici, la famiglia... Soprattutto la famiglia. Ma sapeva cosa c'era in ballo. E alla fine, quando fosse ritornato, ne sarebbe valsa la pena. Da lì, le razionalizzazioni erano facili. Al contrario di suo padre, egli prendeva i suoi problemi per le corna. E quando chiudeva gli occhi, alla sera, sapeva che nessuno poteva rimproverarlo per questo. Il secondo anno, quando si era sistemato in Spagna, la solitudine lo colpì molto più di quanto il suo cervello avesse calcolato. Al contrario del suo
vecchio amico Manning, quando Boyle aveva lasciato la Casa Bianca non aveva mai sofferto per la mancanza di attenzioni. Ma la solitudine... non tanto per sua moglie (il loro matrimonio era finito da anni), ma per il sedicesimo compleanno di sua figlia, quando si immaginava il suo sorriso senza più apparecchio sulla foto nuova della patente, quelli erano giorni da rimpiangere. Giorni per cui Leland Manning avrebbe dovuto rispondere. Il terzo anno si era ormai abituato a tutti i trucchi che gli avevano insegnato nell'ufficio del dottor Eng: camminare per strada a testa bassa, controllare le porte dopo essere entrato in un palazzo, stare sempre attento a non lasciare mance troppo generose per non essere ricordato dai camerieri o dal personale di servizio. Tanto abituato da commettere il primo errore: chiacchierare con un ex poliziotto locale mentre bevevano horchatas in una bodega. Boyle capì nell'istante in cui l'uomo prese una doppia porzione che era un agente della CIA. In preda al panico, ma astuto quanto bastava per restare e finire il suo drink, Boyle andò subito a casa, fece freneticamente due valigie e lasciò Valencia quella sera stessa. Nel dicembre di quell'anno, il «New Yorker» commissionò un'inchiesta sulla comparsa di computer «Corvo» Univar negli uffici governativi di Iran, Siria, Birmania e Sudan. In quanto nazioni terroriste che non potevano importare dagli Stati Uniti, quei paesi avevano acquistato i loro computer da un fornitore ombra in Medio Oriente. Ma ciò che non sapevano era che l'Univar era una facciata dell'Agenzia per la sicurezza nazionale e che sei mesi dopo essere entrati in possesso dei paesi terroristi, i computer si ruppero lentamente e nello stesso tempo mandarono il proprio contenuto all'NSA - da cui il nome in codice Corvo - mentre l'intermediario sgombrava il campo. Ma l'articolo del «New Yorker» dimostrò che, durante l'amministrazione Manning, un computer Corvo non aveva mandato dal Sudan il suo disco rigido all'NSA. E quando gli altri lo fecero, il Corvo che restava fu rubato e finì nel mercato nero. L'informatore che lo deteneva voleva un riscatto di sei milioni di dollari per restituirlo. Ma lo staff di Manning, temendo che fosse una truffa, si rifiutò di pagare. Due settimane prima che l'articolo del «New Yorker» venisse pubblicato, Patrick Gould, autore dell'articolo, morì all'improvviso per aneurisma cerebrale. L'autopsia escluse l'omicidio. Il quarto anno, Boyle era ben nascosto in una cittadina presso Londra, in un appartamento proprio sopra la pasticceria locale. E mentre il profumo di nocciole fresche e di vaniglia lo salutava ogni mattina, la frustrazione e il rimpianto a poco a poco ebbero la meglio sulla paura. Fu peggio ancora
quando la Manning Presidential Library, aprendo con due mesi di ritardo, rese più difficile la sua ricerca di documenti e prove. Ma ciò non voleva dire che non ci fosse per lui niente da scoprire. Su Nico, sulla fine della presidenza Manning e sull'attentato erano stati scritti libri, articoli di riviste e giornali. A ogni lettura, quando Boyle riviveva i sessantatré secondi dell'attentato all'autodromo, la paura risorgeva nel suo petto e nel palmo della mano ferita. Non solo per la ferocia dell'attacco, o per la sua efficienza quasi militare, ma per la sua sfacciataggine: all'autodromo, in diretta tv, davanti a milioni di spettatori. Se i Tre volevano Boyle morto, potevano aspettarlo davanti a casa sua, in Virginia, e tagliargli la gola, oppure provocargli un «aneurisma cerebrale». Abbatterlo all'autodromo, davanti a tutti quei testimoni... un rischio così grosso si correva solo se c'erano dei benefici adeguati. Il quarto anno fu quello in cui Boyle incominciò a scrivere lettere. A sua figlia. Ai suoi amici. Anche ai suoi vecchi nemici, compresi quelli che non erano andati al suo funerale. Facendo domande, raccontando storie, qualsiasi cosa che lo mettesse in contatto con la vita, con la sua vecchia vita. Prese l'idea da una biografia del presidente Harry Truman, che aveva l'abitudine di scrivere lettere sarcastiche ai suoi detrattori. Come Truman, Boyle ne scrisse centinaia. Come Truman, non le inviò. Il quinto anno, la moglie di Boyle si risposò. Sua figlia si iscrisse alla Columbia University, grazie a una borsa di studio intestata a suo padre. Nessuna delle due notizie spezzò il cuore a Boyle. Ma sicuramente gli ficcarono una spina nell'animo. Poco dopo, come faceva fin dal primo anno, Boyle si trovò in un Internet Café a controllare i voli per gli Stati Uniti. Qualche volta aveva perfino fatto una prenotazione. Era molto tempo che pensava a come rimettersi in contatto, soprattutto con sua figlia, e a come svignarsela poi - a dispetto di quelli che, lo sapeva, tenevano sempre gli occhi aperti. Ma il pensiero delle conseguenze lo riportava alla realtà. I Tre... i Quattro..., comunque si chiamassero, avevano già... Boyle non voleva neanche pensarci. Non avrebbe rischiato di nuovo. Invece, quando la Manning Presidential Library aprì i battenti, Boyle si tuffò nelle ricerche sul proprio passato, inviando le sue richieste e cercando tutto ciò che poteva dimostrare quello che il suo istinto gli diceva da anni. Il sesto anno, era immerso nelle fotocopie e nei vecchi documenti della Casa Bianca. Gli uomini del dottor Eng gli offrirono il loro aiuto, ma Boyle aveva smesso da sei anni di essere ingenuo. Nel mondo di Eng, l'unica priorità era Eng - e per questo, quando Manning l'aveva presentato al
gruppo del dottore, tanti anni prima, Boyle aveva detto loro dei Tre e del loro tentativo di farlo diventare il Quarto e delle minacce che l'avevano accompagnato. Ma non aveva mai detto - a nessuno - quello che i Tre avevano già rubato, e Boyle voleva riprendersi. Aveva finalmente avuto fortuna undici giorni prima, un pomeriggio grigio e piovoso dell'ultimo mese del settimo anno. Riparandosi sotto l'arcata all'uscita dall'ufficio postale di Balham High Road, Boyle sfogliava gli ultimi documenti ricevuti dalle cartelle personali di Manning. Tra i pezzi forti c'erano un appunto per il governatore del Kentucky, delle note manoscritte per un discorso in Ohio e un frammento della pagina dei fumetti del «Washington Post», con dei nomi scribacchiati su un margine... e un cruciverba quasi completo sull'altro. Boyle stava per buttarlo via. Poi ricordò che quel giorno all'autodromo, in fondo alla limousine, Manning e il suo capo di gabinetto stavano facendo un cruciverba. Anzi, adesso che ci pensava, facevano sempre dei cruciverba. Boyle guardò lo schema e si sentì il petto stretto come da minuscole catene. I suoi denti morsero il labbro inferiore mentre studiava le due diverse grafie. Quella di Manning e quella di Albright. Ma quando vide i disegnini accanto al cruciverba, trattenne il fiato e rischiò di mordersi a sangue. Quelle iniziali... non erano forse...? Boyle controllò e ricontrollò, evidenziandole con una penna.
Quelli non erano solo dirigenti. La presenza di Dreidel, Moss e Kutz... Quelle erano le persone che ricevevano il rapporto quotidiano del presidente, il documento a cui i Tre gli avevano chiesto di avere accesso. Gli ci vollero tre giorni per capire il resto: due con un esperto di simboli dell'Università di Oxford, mezza giornata con un professore di storia dell'arte e quindici minuti di consultazione nel settore ricerche di storia moderna, e più precisamente con la professoressa Jacqui Moriceau, la cui specialità era il periodo federalista e Thomas Jefferson in particolare.
Li riconobbe immediatamente. I quattro puntini... la croce tagliata... anche le lineette orizzontali. Erano proprio come aveva previsto Thomas Jefferson. Mentre la professoressa Moriceau gli raccontava il resto, Boyle si aspettava che i suoi occhi si riempissero di lacrime e il mento gli si sollevasse per il sollievo di avere compiuto la missione di una vita. Ma mentre teneva il cruciverba nel palmo della mano, e capiva lentamente a cosa mirava Manning, le braccia, le gambe, la punta delle dita delle mani e perfino quelle dei piedi diventavano deboli e insensibili, come se tutto il suo corpo fosse un guscio vuoto. Dio, come aveva fatto a essere tanto cieco, tanto ingenuo, per tanto tempo? Adesso doveva vedere Manning. Doveva chiederglielo direttamente. Certo, aveva risolto l'enigma, ma non era una vittoria. Dopo otto anni, decine di compleanni e sette Natali mancati, sei paesi diversi, due interventi chirurgici, un diploma di scuola superiore e l'inizio dell'università, non poteva esserci alcuna vittoria. Ma questo non voleva dire che non potesse esserci una rivalsa. A quindici minuti da Palm Beach, Ron Boyle si portò sulla corsia di emergenza dell'autostrada e guidò il vecchio furgone bianco in una piazzola di sosta. Senza neanche pensarci, lo infilò dietro a una macchia di cespugli alti e disordinati. Dopo otto anni, era un maestro nelle sparizioni. Dietro di lui, disteso sul nudo pavimento metallico del furgone, O'Shea tremava e gemeva. Si stava finalmente risvegliando. Boyle non era preoccupato. Né spaventato. E neanche eccitato. In realtà, erano settimane che non provava altri sentimenti all'infuori del dolore per il proprio rimpianto. Per terra, con le braccia ancora legate dietro la schiena, O'Shea si mise in ginocchio, lottando col mento e coi gomiti per alzarsi lentamente. A ogni movimento la spalla gli tremava e sussultava. I suoi capelli erano impiastricciati di pioggia e sudore. La sua camicia, un tempo bianca, era zuppa di sangue. Riuscì finalmente a strisciare fino a mettersi in ginocchio e tentò di fare il duro, ma Boyle capì dal colore grigiastro della sua faccia che il dolore stava per sopraffarlo. O'Shea ammiccò due volte per schiarirsi le idee. Fu allora che sentì il clic metallico. Accucciato nel retro del furgone, Boyle si chinò in avanti, premette con forza la pistola sulla tempia di O'Shea e disse le parole che lo tormentavano da quasi un decennio: «Dove cazzo è mio figlio?»
96 «Posso esserle utile?» gracchiò una voce profonda nel microfono mentre l'uomo in macchina accostava al cancello di legno chiuso. Senza rispondere, il guidatore tirò fuori un documento dalla giacca e lo avvicinò alla telecamera nascosta fra gli alti cespugli. Il microfono rimase in silenzio. Alcuni istanti più tardi, la serratura magnetica scattò con un clic metallico e il cancello blindato si aprì. Premendo leggermente l'acceleratore, l'uomo portò la macchina sul vialetto privato di mattoni, dove tre agenti dei Servizi segreti in borghese si girarono a guardarla. Poiché non si avvicinavano, lui capì che venivano avvertiti del suo arrivo attraverso gli auricolari. E a giudicare dalle loro espressioni, ciò li innervosiva. A nessuno fa piacere quando il capo viene a controllare. Ma con Nico in libertà, non ne furono affatto sorpresi. Girando sulla sinistra, portò la macchina fra le Chevrolet nere gemelle, poi si sistemò la fondina di cuoio sotto l'ascella e si assicurò che la fascetta che tratteneva l'arma fosse sganciata. Qui non era come all'ufficio. Con i pezzi grossi in giro, doveva essere pronto. E se i rapporti erano esatti - un vicino aveva già trovato i corpi di Kenny e di Micah e le impronte erano già sotto esame - be', qui c'era in ballo ben più di settanta milioni di dollari e altri quattro anni di lavoro. Era tutto più facile quando avevano incominciato. Dopo l'Accademia militare, avevano passato sei mesi a fare niente, a parte simulazioni e giochi di guerra. Non avevano nessun bisogno di correre. Meglio essere scientifici. Niente rischi, niente contatti, assicurarsi di non lasciare tracce. Naturalmente, la chiave era stata la creazione del Romano, compreso il furto di un pollice in un obitorio della Tanzania, da usare per le impronte digitali richieste per i pagamenti degli informatori. Così, tutti avrebbero dato la caccia a un fantasma. Una volta reso «reale» il Romano, era incominciato il vero lavoro. Era stato Micah a colpire il bersaglio per primo. In quanto agente della CIA a Khartum, aveva ricevuto una soffiata su un agente dei Servizi segreti sudanesi che cercava di vendere undici vecchi visti di ingresso USA tutti sterili e irrintracciabili - ad al-Zaydi, una nota organizzazione terroristica. Secondo la fonte di Micah, al-Zaydi pagava con il solito metodo invisibile, diamanti africani per un valore di 500.000 dollari che sarebbero stati consegnati a Taormina, in Sicilia, il 15 ottobre. Quella mattina, per parlare con i suoi soci, Micah lasciò dei messaggi in
codice nelle chat room on-line che avevano stabilito. Poi scrisse il suo rapporto ufficiale, che conteneva solo uno dei fatti, che correva voce che i Servizi segreti sudanesi stessero vendendo undici visti di ingresso. Trascurò apposta il resto. Quel pomeriggio, O'Shea - che era distaccato dall'FBI a Bruxelles per collaborare con le forze dell'ordine straniere - approfittò dell'informazione sui diamanti passatagli da Micah. Sapendo cosa cercare, grazie ai servizi segreti stranieri, studiò i rapporti doganali e finalmente trovò un sospetto membro di al-Zaydi che si trovava in Italia - legalmente con quasi 500.000 dollari di diamanti addosso. Quella notte l'agente segreto Roland Egen - responsabile dell'ufficio di Pretoria, in Sud Africa - mise la ciliegina sulla torta. Chiamò il suo superiore a Roma e disse: «Ho un informatore che parla di una vendita illegale di visti di ingresso in USA e può indicarci dove e quando avverrà lo scambio.» «Quanto vuole?» aveva chiesto il superiore. «Cinquantamila dollari.» Dopo una breve pausa: «Chi è questo informatore?» «Si fa chiamare Romano», rispose Egen sorridendo. Nel giro di pochi minuti, i servizi segreti si misero a controllare la notizia. Fra di loro, chiamavano questo metodo «backstopping», cioè chiedevano alle altre agenzie di confermare l'informazione. Dopo l'Iraq, era diventato necessario. E dopo la condivisione delle informazioni dovuta all'11 settembre, le risposte arrivavano rapidamente. Grazie a O'Shea, l'FBI esibì un rapporto simile. Grazie a Micah, la CIA fece lo stesso. Tutti confermavano il medesimo quadro. «Pagalo», disse il superiore di Egen. Ventiquattro ore più tardi, Micah, O'Shea e il Romano -semplicemente sostenendosi a vicenda - si dividevano i loro primi 50.000 dollari. Non male, per una giornata di lavoro. Anni prima era più facile. Ma poi avevano chiesto ad altri di entrare nel gioco. «Benvenuto, signore», disse un agente dai capelli castani mentre l'uomo scendeva dalla macchina e si dirigeva verso la casa coloniale azzurra con la bandiera americana sulla porta. A metà strada, un quarto agente in borghese si avvicinò scendendo la scala di accesso. Ben conoscendo il protocollo, l'uomo porse di nuovo il badge, aspettando che lo esaminassero. «Mi scusi, signore... io non... È qui per vedere il presidente?» chiese l'a-
gente, restituendogli prontamente il badge. «Sì», rispose il Romano entrando in casa. «Qualcosa del genere.» 97 «Vuoi provarci di nuovo?» ruggì Boyle nel retro del furgone, premendo la canna della pistola sulla tempia di O'Shea. «Puoi fare quello che vuoi, ma è la verità», disse O'Shea, sputando sangue e contorcendosi per le fitte di dolore che gli attraversavano la spalla. Inginocchiato nel furgone, teneva la voce volutamente bassa. Boyle scosse la testa, sapendo che era un trucco per spingerlo a fare lo stesso. O'Shea insistette. «So che la cosa ti sconvolge, Boyle, ma devi...» «Dove diavolo è mio figlio?» esplose Boyle, puntando la pistola alla testa di O'Shea con tale forza da farlo cadere all'indietro, come una tartaruga sul proprio guscio. Ma mentre cercava di rimettersi in ginocchio, non perse la testa e non tentò di ribellarsi. Boyle non capiva se era stanchezza o astuzia. L'unica cosa che sapeva era che, come un leopardo ferito ancora aggrappato alla sua preda, O'Shea non distoglieva mai lo sguardo dalla sua pistola. Otto anni prima, le mani di Boyle avrebbero tremato. Oggi, erano fermissime. «Dimmi dov'è.» «Perché, così puoi aspettarlo davanti alla scuola - cos'ha, nove, dieci anni, adesso? - aspettarlo quando esce dalla sua quarta classe e dirgli che vuoi avere il diritto di andarlo a trovare? Credi che la tua Tawana...» «Si chiama Tiana.» «Chiamala come vuoi. Ci ha detto tutto, Boyle, come l'hai corteggiata durante la campagna, come ti ha seguito a Washington, D.C...» «Non le ho mai chiesto di farlo.» «...ma non ti sei fatto scrupolo di nasconderla a tua moglie e a tua figlia per quasi quattro anni. E quando poi è rimasta incinta - dannazione! - meglio fare qualcosa.» «Non le ho mai chiesto di abortire.» «Oh, scusa, non mi ero accorto che fossi un santo.» In lontananza, un gruppo di auto li oltrepassò sull'autostrada. O'Shea si piegò e abbassò la testa un momento, sopraffatto dal dolore. «Boyle», balbettò rialzando lo sguardo. «Hai nascosto quel bambino a tutti - hai insistito perché non ti si avvicinassero mai in pubblico - e adesso all'improvviso vuoi portarlo a fare il picnic alla Casa Bianca?»
«È sempre mio figlio.» «E allora dovevi occupartene.» «Me ne sono occupato!» «No, noi ce ne siamo occupati», disse O'Shea. «Tu non hai fatto altro che mandare cinquanta dollari alla settimana, sperando che bastassero per comperare cibo, pannolini e il silenzio della tua ragazza. Noi siamo quelli che abbiamo dato a lei e a tuo figlio un vero futuro.» Boyle scosse la testa, ormai agitato. «È così che te l'ha venduta il Romano? Le stavate dando un futuro?» «Aveva bisogno di soldi e noi glieli abbiamo dati.» «O meglio: l'avete pagata per nascondersi e poi vi siete rifiutati di dirmi dov'era se non diventavo il vostro quarto socio», disse Boyle con voce tonante. «Non mi sembra che le abbiate fatto un gran favore!» O'Shea si premette il mento sulla spalla e alzò gli occhi castani, che scintillarono nell'oscurità del furgone. Un lento sorriso sorse sulla sua faccia. «Ragazzi, abbiamo trovato il tasto giusto, eh? A dire la verità, quando il Romano ha detto che ci tenevi a lei, io ho pensato che fossero stronzate.» Boyle puntò la pistola sulla faccia di O'Shea. «Dove sono? Non te lo chiederò un'altra...» Abbandonandosi all'indietro, sempre in ginocchio, O'Shea scoppiò in una lunga risata che gli uscì dalla gola e riecheggiò nel furgone. «Ma dài, credi davvero che l'abbiamo tenuta d'occhio, dopo tanto tempo? Che abbiamo continuato a scriverle delle cartoline?» Mentre le parole uscivano dalla bocca di O'Shea, Boyle sentiva ogni sillaba colpirlo nella pancia e massacrargli il petto. «C... che cosa intendi dire?» «Ti abbiamo ucciso, pagliaccio. O almeno pensavamo di averlo fatto. Per me, dal quel momento in poi, Tiana e il suo bastardo potevano tornare nell'immondezzaio da cui li avevi presi al D.C.» Ingobbito, Boyle fece un mezzo passo indietro. La mano prese a tremargli. «Aspetta... oh, aspetta», disse O'Shea, già ridacchiando. «Vuoi dire che durante tutto il tempo che hai cercato di identificarci... non ti è mai venuto in mente che potevamo non sapere dov'erano?» Per la seconda volta, si chinò all'indietro per farsi una grassa risata. Poi, senza preavviso, scattò in avanti, come una rana, a testa bassa, e colpì Boyle al mento prima che lui se ne accorgesse. La testa di Boyle scattò indietro all'impatto e lo mandò a sbattere contro i sedili posteriori.
«Ti piace?» gridò O'Shea, con gli occhi dilatati dalla rabbia. «Stavolta ti uccido con le mie mani!» Boyle scosse la testa, prima lentamente, poi più deciso. O'Shea caricò come un camion. Boyle era già in azione e portava avanti la mano destra, che reggeva ancora la pistola. Nel caos, la canna della pistola colpì O'Shea sulla tempia come un martello da dieci chili. Lo colpì all'angolo della fronte e lo fece cadere di lato, dietro al sedile del passeggero. Con le mani ancora legate dietro la schiena, non aveva speranza. Già privo di equilibrio, si girò quanto bastava per cadere con la spalla anziché con la testa. «Questo è per mio figlio», sbuffò Boyle, carico di adrenalina. O'Shea cadde per terra, Boyle non lo lasciò rialzare e si precipitò a mettergli la canna della pistola sulla fronte. «E questo è per mia figlia, ladro di merda!» Boyle alzò il cane dell'arma e incominciò a premere il grilletto. O'Shea sbottò in un'altra risata di sfida. «Fallo», disse con voce roca e stentata, sdraiato sulla schiena. Il suo petto ansimava e il suo corpo si torceva per terra. Tra le ferite ricevute sulla pista dei cani e il colpo di adesso, il dolore doveva essere insopportabile. «Con queste pareti di metallo... forza... voglio proprio vedere come farai a evitare i rimbalzi.» Boyle si guardò intorno. «Non rimbalzerà», disse. «Ne sei sicuro?» ansimò O'Shea, respirando a fatica e scalciando sul pavimento di metallo. Si sentì un tonfo pesante. «A me... a me sembra bello solido.» Boyle non rispose. La sua mano tremava leggermente mentre il dito si contraeva sul grilletto. «È... è un pensiero che mette paura, eh?», chiese O'Shea. «Sei qui pronto a rovinare quel che resta della tua vita diventando un assassino... e adesso devi preoccuparti di non restare ucciso mentre lo fai.» Boyle sapeva che mentiva. Doveva mentire. «Forza, hai l'occasione di farmi scoppiare la testa. Spara!» Con aria di sfida, O'Shea si chinò in avanti e premette la fronte ancora più forte contro la pistola. Il dito di Boyle tremò sul grilletto mentre un filo di sangue gli scendeva dal naso sul labbro. Ecco. Il momento che aveva sperato... per cui aveva pregato... la vendetta che gli aveva dato forza in tutti quegli anni. Ma su un punto O'Shea aveva detto la verità: per quanto gli avessero portato via tutto, per quanto l'avessero ridotto al fantasma di sé stesso, lui non sarebbe
mai diventato un assassino. Anche se ciò non voleva dire che non poteva prendersi la sua rivincita. Spostando il braccio sulla destra, Boyle puntò la pistola sulla spalla ancora sanguinante di O'Shea e premette il grilletto. Il colpo attraversò la spalla, strappando un altro pezzo di carne. Per aumentare il dolore, Boyle tenne la pistola inclinata, sperando di colpire qualche osso. Dal grido di O'Shea - che si spense in un sospiro mentre rovesciava gli occhi e perdeva finalmente conoscenza - era stato più che sufficiente. Buttando da parte O'Shea, Boyle si inginocchiò sulla macchia di sangue che c'era per terra. Sotto lo sporco, sul pavimento del furgone, c'era un piccolo foro. Boyle ci infilò un dito e sentì l'aria umida dell'esterno. Scosse la testa. Naturalmente non avrebbe rimbalzato. Solo la limousine del presidente è antiproiettile. Senza perdere tempo, tornò nella parte anteriore del furgone e si mise al posto di guida. Sulla sinistra, un altro gruppo di macchine ronzava lontano sull'autostrada. Abbassò lo sguardo sull'orologio digitale del cruscotto: segnava le 6:57. Perfetto, pensò premendo l'acceleratore, sterzando e sollevando granelli di ghiaia. Ancora una tappa e tutto sarebbe finito. 98 «Non hanno mai sentito parlare di posteggi, qui?» chiese Rogo passando davanti all'ingresso del palazzo bianco e svoltando sul retro. «Là», disse Dreidel mentre giravano l'angolo. In un ampio spazio sul retro si trovavano otto o dieci macchine. «Questo è un buon segno, no? Sono ancora al lavoro.» «A meno che non siano degli addetti alle pulizie», disse Dreidel, guardando il palazzo dal suo finestrino. «Quanti addetti alle pulizie conosci che vanno in giro con una Mustang nuova di zecca?» chiese Rogo, posteggiando accanto a una Ford Mustang spider di un nero brillante. «L'unica cosa che non capisco è perché, con tutto quello spazio davanti, mettono il posteggio di dietro.» «Forse è una questione di piano urbanistico.» «Sì, può darsi.» «Pensi ancora che sia una specie di medico della mala?» «Io so solo che siamo a un isolato di distanza dal Bada-Bing e dal sex shop, che qui a fianco c'è un'agenzia di pompe funebri e che la Mustang ha una targa personalizzata che dice ALFREDO.»
Dreidel guardò la targa, che diceva MY STANG. «La vuoi smettere? È uno studio medico, Rogo. Si vede anche da qui.» «Be', dammi pure del pignolo, ma preferisco controllare di persona», disse Rogo aprendo la portiera, scendendo sotto la pioggia e mettendosi a correre verso la porta sul retro del palazzo. A metà strada alzò lo sguardo mentre un sibilo acuto si trasformava in un altro terremoto assordante. Un altro 747 stava atterrando. Alle sue spalle, notò che Dreidel restava un po' indietro. Rogo finalmente raggiunse due porte di vetro smerigliato, identiche a quelle davanti. Saltò sulla pedana a molla e aspettò che si aprissero. Non accadde nulla. «C'è nessuno?» chiamò bussando sul vetro e poi avvicinando la faccia per cercare di guardare dentro. In diagonale, sulla sua destra, una spia rossa rivelava una telecamera di sicurezza, sottile come una calcolatrice, con una lente non più grossa di una moneta da un centesimo. Rogo si allontanò, stando attento a non guardarla. Era impossibile che nello studio di un dottore spendessero soldi per una tecnologia così d'avanguardia. «Non guardare in su», sussurrò Rogo mentre Dreidel lo raggiungeva. «Sei sicuro che non ci sia...?» Rogo alzò la mano per bussare di nuovo, ma prima che potesse toccarla la porta si aprì e rivelò una guardia annoiata, con lunghi capelli castani e corti baffetti. «Posso aiutarvi?» disse guardando prima Dreidel, poi Rogo, poi di nuovo Dreidel. «Sì, cerchiamo il dottor Eng», disse Rogo tentando di entrare. Il guardiano gli si mise davanti, bloccandolo, ma Rogo continuò ad avanzare e la sua struttura massiccia si infilò rapidamente sotto il braccio del guardiano, nell'atrio di marmo color salmone. «Scusi... è che piove», disse Rogo indicando fuori e scuotendosi le gocce dalle mani. Il guardiano non disse una parola e continuò a fissare Dreidel. Rogo notò che era armato con una 9mm, che teneva alla cintura. «Comunque», intervenne Dreidel, «siamo qui per vedere il dottor Eng.» «Mi dispiace, è già andato via», rispose il guardiano. «Va bene... possiamo vedere la sua segretaria?» «Il dottor Eng non c'è. Il suo studio è chiuso per oggi.» Più in là, Rogo vide un elenco degli inquilini attaccato accanto agli ascensori. «Senta, ci scusi se siamo venuti in un brutto momento, ma posso
chiederle un favore?» disse Rogo. «Ho guidato per più di un'ora in un traffico da strapparsi i capelli. Ce ne andiamo - chiameremo il dottor Eng domani - ma prima posso usare il suo bagno? È un caso di emergenza, davvero.» Il guardiano lo osservò senza muovere un muscolo. «Per favore», disse Rogo, muovendo ansiosamente i piedi. «Se aspetto ancora...» «Il bagno è dopo gli ascensori, sulla sinistra», disse il guardiano indicando l'atrio. «La mia vescica la ringrazia», disse Rogo allontanandosi. Dreidel fece un passo per seguirlo. Il guardiano gli lanciò un'occhiata e Dreidel si bloccò. «Be'... ti aspetto qui», decise. «Ottima idea», disse il guardiano. Senza voltarsi, Rogo attraversò l'atrio, che come l'esterno del palazzo era vecchio e rovinato: il marmo del pavimento crepato, lampade art déco di scarsa qualità in alto, arte moderna anni Ottanta, stile acqua e schiuma, alle pareti. Trascurando tutto ciò, Rogo si concentrò sull'elenco dei residenti accanto agli ascensori. «L'ho già superato?» gridò al guardiano fermandosi davanti alla targa di bronzo. Scorse l'elenco e vide: ENG, DOTT. BRIAN - INTERNO 127 Con sua sorpresa, non indicava il tipo di attività, né il nome dell'ufficio. Così per tutti gli altri dottori dell'elenco. Sei in tutto, senza alcuna precisazione. «La prima porta», gridò il guardiano, «avanti sulla sinistra.» Con un gesto di ringraziamento, Rogo si infilò nel piccolo bagno, che lo accolse con un aspro odore di disinfettante. Dovendo aspettare un po' prima di uscire, andò al lavabo, azionò il distributore di salviette di carta e si asciugò la pioggia dalla faccia. Si guardò allo specchio per assicurarsi di averla asciugata tutta, e fu allora che notò la pesante porta di quercia alle sue spalle. Si girò e la studiò attentamente. A chiunque sarebbe sembrata la porta di un semplice sgabuzzino. E anche a lui, in un'occasione qualsiasi. Ma quella sera... con quello che stava succedendo... Rogo si guardò a sinistra. C'era un'altra porta stretta con su scritto RIPOSTIGLIO.
Avvicinandosi alla porta di quercia, Rogo tentò la maniglia. Chiusa. Il più rapidamente possibile, si guardò intorno - cabine, orinatoi, cestino in un angolo - e cercò... eccolo! Accanto al lavabo, Rogo corse verso il distributore di salviette di carta e premette la leva con tutte le sue forze. Una salvietta di carta sporse, come una lingua. Perfetto, decise Rogo, tirando via il coperchio e lasciando la leva e le salviette libere. Premette di nuovo la leva di plastica, ma stavolta non la lasciò andare, la trattenne più forte che poteva fra le dita, si avvicinò col petto e vi appoggiò tutto il suo peso. Nel giro di pochi secondi, sentì che cedeva. Ci fu un forte crac mentre il distributore di plastica si spaccava. Rogo continuò, mettendosi in punta di piedi e alzando una gamba per aumentare il peso. Un altro crac lacerò l'aria. C'era quasi. Rogo strinse i denti, respirando a fatica dal naso. Non cedere... deve... Con un ultimo saltello, sollevò anche l'altro piede da terra. Ecco. La plastica si ruppe con uno scricchiolio e la leva di metallo a forma di boomerang usciva da sotto il distributore. Rogo cadde per terra e un sorriso gli si aprì sul volto. Rialzandosi in piedi, esaminò la leva facendola ruotare. Era abbastanza sottile, sì. Corse alla porta di quercia, ma cercando di non fare rumore, infilò la leva di metallo a forma di boomerang nella fessura tra lo stipite e il fondo della porta. La sua fronte e il suo naso erano schiacciati contro lo stipite mentre tirava la leva verso l'alto. Come un bambino che cerchi di recuperare una moneta pescandola da una grata, Rogo girava la mano e cercava di premere con la leva la serratura della porta, che lentamente incominciava a... Click. Freneticamente, Rogo spalancò la porta e infilò la testa per guardare dentro. «C'è nessuno?» sussurrò. Era buio, dentro, ma dal bagno arrivava un po' di luce ed era chiaro che non si trattava di uno sgabuzzino. La stanza era grande, quasi quanto il salotto di Rogo e di Wes. E mentre faceva un passo avanti - e vedeva quello che c'era dentro - Rogo spalancava gli occhi. Era impossibile. Perché avrebbero dovuto...? «Cosa diavolo crede di fare?» chiese una voce profonda dalla soglia del bagno. Rogo si girò giusto in tempo per vedere il guardiano che veniva verso di lui.
99 So dov'è la tomba di Boyle. Ci sono già stato. La prima volta dopo il mio sesto e ultimo intervento chirurgico, quello in cui tentarono di estrarre gli ultimi frammenti di shrapnel dalla mia guancia. Dopo un quarto d'ora, il dottore decise che i pezzi erano penetrati troppo in profondità - ed erano troppo piccoli, come granelli di sabbia d'acciaio - per cui era meglio lasciare tutto com'era. «Lascialo così», mi disse il dottor Levy. Accettai il consiglio, uscii dall'ospedale e mi feci accompagnare qui, al cimitero di Woodlawn, da mia madre. Sette mesi dopo che Boyle era stato seppellito in diretta tv, mi avvicinai alla sua tomba con la mano destra sprofondata nella tasca dei pantaloni a stringere le mie ultime medicine e gli chiesi silenziosamente scusa per averlo fatto salire sulla limousine quel giorno. Sentivo mia madre che piangeva dietro di me, come se io non fossi presente. Fu una delle visite più difficili della mia vita. Con mia sorpresa, quella di oggi è ancora più difficile. «Smettila di pensarci», sussurra Lisbeth, camminando nell'erba non tagliata, alta fino al polpaccio, che si attorciglia intorno alle caviglie. Avvicinandoci alla recinzione in fondo al cimitero, cerco di coprirci tutti e due con l'ombrello, ma lei è sempre due passi avanti e non si accorge neanche della pioggia leggera. Non gliene faccio una colpa perché è eccitata. Anche se non scriverà la storia, la giornalista che è in lei non vede l'ora di arrivare alla verità. «Hai sentito quello che ho detto, Wes?» Non ricevendo risposta, si ferma e si gira a guardarmi. Sta per dire qualcosa del tipo: «Calmati... Non prendertela così.» «So che è difficile per te», dice. «Mi dispiace.» Annuisco e la ringrazio con un'occhiata. «A essere sincero, non pensavo che... Mi aspettavo di essere più deciso.» «Non c'è niente di male ad avere paura, Wes.» «Non è paura - credimi, voglio delle risposte da Boyle - ma trovarmi qui... dove hanno seppellito... hanno seppellito quello che hanno seppellito... è come... Non è il posto migliore, per me.» Alzo lo sguardo e Lisbeth mi si avvicina, sotto l'ombrello. «Sono comunque contenta che tu mi abbia permesso di venire.» Sorrido. «Dai, ho un buon presentimento», dice toccandomi la spalla mentre si allontana di nuovo dall'ombrello. Afferra la recinzione di metallo e infila
un piede in una delle aperture. «Non preoccuparti», dico indicando un mucchio di terra talmente alto che seppellisce la recinzione e conduce direttamente all'interno. A dispetto delle mie parole, esito. È la terra che resta dopo le sepolture. Lisbeth non ha simili problemi. Ignorando la pioggia, che scende ancora dolcemente, sale sulla cunetta e supera in un attimo la recinzione. «Attenta», dico. «Se c'è un allarme...» «È un cimitero, Wes. Non credo che abbiano paura dei furti.» «E i ladri di tom...?» Ma seguendola sulla montagnetta di terra, troviamo solo il sommesso ronzio dei grilli e l'ombra densa dei baniani bicentenari, i cui rami e le cui liane si stendono come ragnatele in tutte le direzioni. Sulla nostra sinistra, i sette ettari del cimitero di Woodlawn formano un perfetto rettangolo, grande come diciassette campi da football. Il cimitero è chiuso, in fondo, da un rivenditore di Jaguar. Probabilmente non era questa l'intenzione nell'Ottocento, quando il fondatore della città, Henry Flageer, trasformò quasi sette ettari piantati ad ananas nel più antico e lussuoso cimitero di West Palm Beach. Io prendo il vialetto principale, ma Lisbeth si attacca all'ombrello, mi tira indietro e va verso sinistra, dietro a un cespuglio rotondo appena dentro la recinzione. Avvicinandomi, ne noto un altro, e poi un altro, un altro, un altro... almeno cento, alti tre metri. I cespugli corrono per tutto il fondo del cimitero. Il suo istinto è perfetto: restando qui, siamo fuori del viale principale, cioè siamo invisibili, nessuno può vederci arrivare. Con quello che abbiamo in mente, non dobbiamo correre rischi. Mentre ci infiliamo dietro al primo cespuglio della fila, ci accorgiamo che sul retro è aperto, come una U, e in mezzo ospita una collezione di bottiglie di plastica e di lattine vuote, sparpagliate a terra. Il cespuglio a fianco contiene un pezzo di Astroturf ripiegato, che si usa per coprire le tombe aperte. «Wes, questi sono perfetti per...» «Senza dubbio», dico lasciandomi finalmente contagiare dal suo entusiasmo. Ma ciò non vuol dire che voglia farle correre dei rischi. Controllo che siamo soli, giro a sinistra, verso il centro, dove un palo sorregge l'unica fonte di luce del cimitero. Da dove ci troviamo, però, circondati da alberi nella zona più lontana, il lampione non fa che creare delle ombre allungate fra i rami, in mezzo al sentiero. «Stai rallentando», dice Lisbeth, afferrando l'ombrello e trascinandomi avanti.
«Lisbeth, forse dovresti...» «Non vado da nessuna parte», dichiara raddoppiando l'andatura e guardando a destra, dove una semplice lapide militare bianca reca le lettere: CPL TRP E 13 REGG CAV GUERRA ISP-AM 1879-1959 «È seppellito vicino ai morti della guerra ispano-americana?» sussurra Lisbeth. «Sei sicuro che non sia nel nuovo settore?» L'avevamo visto quando siamo venuti la prima volta. Sulla sinistra, oltre il lampione illuminato, oltre le migliaia di croci, di lapidi, di cappelle di famiglia, c'era un campo aperto punteggiato di tombe piatte. Come la maggior parte dei cimiteri della Florida, Woodlawn ha imparato a sue spese cosa succede quando un uragano colpisce un cimitero. Oggi i nuovi morti ricevono solo tombe piatte ben incastrate nel terreno. A meno che, naturalmente, non si conosca qualcuno di importante, capace di muovere qualche filo. «Fidati, non è nel nuovo settore», rispondo. Più procediamo sul sentiero, più chiaro sentiamo un nuovo rumore - un mormorio sommesso, un sussurro. Dozzine di sussurri, che vanno e vengono, come se ci fossimo in mezzo. «Non c'è nessuno, qui», dice Lisbeth. Ma sulla sinistra, dietro a una lapide del 1926, c'è uno scricchiolio, come se qualcuno si fosse improvvisamente arrestato. Mi giro per vedere chi è. Le lapidi ci circondano. La pioggia continua a caderci sulla schiena, a bagnarci le spalle, il suo odore rancido supera quello della terra bagnata. Dietro di noi, il rombo del tuono incomincia a... Ma non è il tuono! «Cos'è...?» Il rombo diventa più forte, seguito dal profondo fischio di una sirena. Torno verso i cespugli mentre il ding ding ding del ponte lacera l'aria. Come un proiettile luminoso nell'oscurità, un treno merci appare, passa da destra a sinistra, parallelo alla bassa recinzione che corre in fondo al cimitero. «Dobbiamo muoverci!» mi grida Lisbeth nell'orecchio, tirandomi sul sentiero. Il treno continua a rombare alle nostre spalle, cancellando ogni al-
tro suono, compreso lo scalpiccio che ci farebbe capire che sta arrivando qualcuno. Laggiù? chiede a gesti Lisbeth mentre superiamo una cappella con le porte a vetri colorati. La cappella è una delle più grandi, quasi come un camion della spazzatura. «Neanche per sogno», rispondo, tirandola per il gomito e prendendo il comando. Non sa quanto siamo vicini alla nostra meta. Tre tombe oltre la cappella, il sentiero termina sul tronco di un enorme baniano che, di giorno, protegge tutte le tombe vicine dal sole cocente. Tanto basta a rendere questa una delle aree più esclusive del cimitero. Il presidente Manning aveva telefonato personalmente per assicurarsi il doppio spazio che ora ospita la lapide di marmo nero italiano con la sommità leggermente incurvata e le lettere bianche incise: RONALD BOYLE AMATISSIMO MARITO, PADRE, FIGLIO LA TUA MAGIA SARÀ SEMPRE CON NOI «È lui?» chiede Lisbeth, scorgendo il nome e venendomi quasi addosso da dietro. È stato l'ultimo regalo di Manning al suo amico, un posto dove Boyle può riposare lontano dalla zona delle tombe piatte, accanto a un generale della Seconda guerra mondiale e di fronte a uno dei più rispettati giudici della Palm Beach degli anni Venti. Una Palm Beach d'antiquariato. Anche nella morte, i pezzi grossi vogliono i posti migliori. Dietro di noi, il treno si allontana e il canto dei grilli riprende, avvolgendoci completamente. Resto lì, a guardare la tomba di Boyle fiocamente illuminata. «Tutto bene?» chiede Lisbeth. Pensa che abbia paura. Ma adesso che siamo qui, adesso che so che sotto quella lapide non c'è un cadavere, e soprattutto che io non ce l'ho fatto finire... Stringo i pugni rileggendo l'epitaffio. Come tutto, nelle loro vite, è bello e pulito, e pieno di bugie. Da otto anni Manning - il mio capo, il mio mentore - sapeva che stavo mangiando della merda, ma non me l'ha mai tolta dal piatto. Anzi, me l'ha servita lui stesso. Giorno dopo giorno. Con un perfetto sorriso presidenziale. Stringo i pugni. Poi sento la mano di Lisbeth sulla schiena. Non dice una parola. Non è necessario.
Do un'ultima occhiata al cimitero vuoto. Per otto anni ho avuto paura. È così che succede, quando la morte ti sfiora. Ma in questo momento, in piedi sotto la pioggia, nel buio, sono pronto ad affrontare il mio spettro. E allo stesso modo Lisbeth. Ci mettiamo ai nostri posti, come abbiamo deciso. Lisbeth guarda l'orologio. Non ci resta che aspettare. 100 «Fuori! Subito!» gridò il guardiano afferrando Rogo per la camicia. «Mi lasci!» urlò Rogo liberandosi ed entrando nella stanza fiocamente illuminata. Due passi più avanti, le fotocellule entrarono in azione, inondando la stanza di luce al neon. Sulla sinistra, Rogo vide un letto con una vecchia testata di quercia, coperto da lenzuola bianche immacolate e con una Bibbia appoggiata su una coperta di lana verde oliva. Completava l'arredamento da motel economico un tavolo di formica e una toilette di falso legno con un mucchio di vecchie riviste e un televisore da dodici pollici, vecchio di almeno dieci anni. Sulla destra, una doppia porta di quercia si apriva su quella che sembrava una sala conferenze, con un lungo tavolo di mogano e una mezza dozzina di moderne sedie di pelle. Il tutto era incomprensibile. Perché un bagno pubblico era collegato a una camera da le...? Da dietro, Rogo si sentì afferrare per la camicia. Tentò di liberarsi di nuovo, ma stavolta il guardiano era pronto e lo trascinò di nuovo in bagno. «Sa in che casino si è messo?» gridò. «Io stavo solo... La porta era aperta...» «Stron-za-te!» disse il guardiano, trascinando Rogo e mandandolo a sbattere contro la porta semichiusa della stanza, che fu proiettata contro la parete di piastrelle mentre lui tirava Rogo nel bagno. «È impazzito?» urlò Rogo, contorcendosi per liberarsi. Il guardiano lo teneva fermo e gli fece riattraversare il bagno e l'atrio, fino alla porta d'ingresso. Essendo di tutta la testa più alto di Rogo, gli afferrò i polsi e glieli tirò dietro la schiena. «Sono un avvocato, stupida scimmia! Quando avrò vinto la causa, sarò il padrone di questo posto e ti manderò a lavorare da Arby!» Mentre Rogo incespicava nel bagno e nell'atrio di marmo color salmone, il guardiano lo spinse verso destra, in direzione della porta a vetri dell'ingresso. «Dreidel, digli chi sei!» gridò Rogo. La sua voce riecheggiò nell'atrio.
«Che cos'hai fatto?» chiese Dreidel, arretrando subito per allontanarsi dalla reception. «Fermo!» lo avvertì il guardiano. In preda al panico, Dreidel si girò e si mise a correre verso la porta. «No... no!» gridò il guardiano. Troppo tardi. Prima che Dreidel capisse le sue parole, il suo piede aveva premuto il meccanismo. Ma fu solo quando le porte incominciarono ad aprirsi che Rogo notò delle ombre dall'altra parte del vetro. Con un sibilo, le porte si spalancarono e rivelarono un uomo magro e calvo, con le guance scavate e il naso incrostato di sangue. Afflosciato sulla sua spalla c'era un biondo robusto, con la testa che penzolava, svenuto. La sua camicia era inzuppata, apparentemente di sangue. «Indovina chi ho trovato?» annunciò Boyle entrando. «Manca solo...» Vide Dreidel e si arrestò. Senza neanche riflettere, lasciò andare O'Shea, che cadde per terra e rimase disteso sulla soglia. «Boyle», disse Dreidel. «Boyle?» chiese Rogo. «Fermo!» gridò il guardiano a Boyle, tirando fuori la pistola e spingendo Rogo da parte. «Metta via la pistola», ordinò Boyle. «Ho detto fermo!» ripeté il guardiano. E rivolto alla radio gridò: «Ragazzi, ho bisogno di aiuto quaggiù!» Rogo, ripreso l'equilibrio, non riusciva a distogliere lo sguardo da Boyle. Era proprio come aveva detto Wes. I lineamenti aguzzi... le guance scavate... ma per il resto, identico. «R... Ron, stai bene?» chiese Dreidel, ancora sotto shock. Prima che Boyle potesse rispondere, i suoi occhi castani e azzurri incrociarono quelli di Rogo. «Tu sei il coinquilino di Wes, vero?» Rogo annuì, muovendo la testa lentamente. «Perché?» «È qui anche Wes?» chiese Boyle controllando rapidamente l'atrio. Confuso e completamente sopraffatto, Rogo seguì lo sguardo di Boyle e percorse l'atrio, gli ascensori, il tavolo della reception, come se si aspettasse che Wes potesse saltare fuori da qualche parte. «C... credevo che avesse un appuntamento con te.» «Con lui?» chiese Dreidel. «Con me?» ripeté Boyle. «Sì, cioè... Il biglietto che gli hai mandato... l'appuntamento... alle sette
di sera, sai... al cimitero...» Fissando Rogo, Boyle scosse la testa, chiaramente confuso. «Non capisco di cosa stai parlando, figliolo. Perché dovrei dare appuntamento a Wes in un cimitero?» 101 Gli bastarono sei secondi per strappare le quattro viti e tirare via la vecchia serratura arrugginita, pur avendo un ombrello in mano. Sapeva che non c'era allarme, per questo era venuto in precedenza. Mentre la serratura cedeva, tirò silenziosamente la catena di metallo arrugginita e la tolse dal cancello del cimitero, senza neanche guardare se arrivava qualcuno. Con un'ultima spinta, aprì le ante del cancello quanto bastava per entrare tutti e due. «È qui che...? E chi verrà a trovarti qui?» «Si fidi», disse l'uomo, spingendo indietro l'ombrello per osservare l'arco di pietra che sovrastava il cancello. Inciso sulla pietra in classiche lettere maiuscole c'era l'epitaffio posto all'ingresso del cimitero duecento anni prima, al momento della sua fondazione: CIÒ CHE È UNIVERSALE COME LA MORTE DEV'ESSERE UNA BENEDIZIONE. «Aspetti qui», disse. «Perché? Dove vai?» chiese il suo compagno, riparandosi sotto un altro ombrello e tenendosi prudentemente indietro. «Non mi lascerai in un cimitero...» «Si nasconda», disse l'uomo, sapendo che Wes doveva già essere lì. «Se vuole che sistemi questo casino - come penso - le suggerisco di stare qui finché non le dico che è tutto a posto.» Lasciò indietro il compagno e guardò il palo della luce che illuminava l'ingresso principale, poi si buttò rapidamente a sinistra e si infilò in mezzo alle tombe. Ignorò i vialetti e si diresse verso il lato sud del cimitero riparandosi dietro gli alberi. Alle sue spalle, sentiva il compagno che lo seguiva. Si teneva a distanza quanto bastava per non farsi vedere, ma lo seguiva. Bene. Era quello che gli serviva. Avvicinandosi a Wes, si fermò dietro a una colonna di tufo all'angolo di una cappella con il tetto aguzzo. Sulla destra, al di là della cappella, una piccola lapide grigia del 1928 intitolata a un certo J.G. Anwar aveva incisi il massonico e una stella a cinque punte. Nascosto nell'oscurità, non poté fare a meno di sorridere all'ironia della sorte. Perfetto!
Ignorando il compagno che strisciava venti passi più indietro, l'uomo guardò al di là della cappella mentre le punte del suo ombrello sfregavano contro la muffa umida che saliva lungo la colonna di tufo. Dall'altra parte del cimitero, ai piedi di un enorme baniano, l'ombra sottile di Wes passeggiava avanti e indietro, china sotto il suo ombrello. «È lui?» sussurrò il compagno raggiungendolo rapidamente e restando nascosto dietro la cappella. «Le avevo detto...» Ma prima che potesse finire la frase l'ombra si girò e lui riconobbe immediatamente chi era. Glielo rivelarono le caviglie. La mano dell'uomo si contrasse sul manico dell'ombrello. Socchiuse gli occhi e, mentre si chinava in avanti, le punte dell'ombrello grattarono più forte sulla cappella ammuffita. Di colpo, si precipitò in avanti. Quella stupida... «Aspetta... Dove vai?» «Resti qui!» sibilò al compagno, con aria decisa. Tutto quel tempo... Adesso aveva bisogno che Wes fosse solo. Quasi correndo, attraversò in diagonale la distesa di tombe. Sapeva bene che l'avevano sentito arrivare. L'ombra, come previsto, si girò verso di lui, alzando l'ombrello e rivelando una massa di capelli scuri. «Boyle, è lei?» chiese Lisbeth. Non ricevendo risposta, inclinò la testa per scrutare nell'oscurità. «Boyle...?» A meno di dieci passi, l'uomo si mise la mano in tasca e usò la mano sana - la sinistra - per prendere la pistola. «Boyle, stia tranquillo», disse Lisbeth, arretrando mentre l'uomo si avvicinava con la faccia ancora nascosta dall'ombrello. Poi l'ombrello urtò contro un ramo e fu spostato per un attimo. Nell'istante in cui Lisbeth vide i suoi capelli neri, capì di essere nei guai. Secondo Wes, Boyle era calvo. «Ascolti, chiunque lei sia, io mi trovo qui per...» Attraversando i cespugli e sbucando dall'oscurità, l'uomo tirò fuori la pistola, la puntò al petto di Lisbeth e si avvicinò tanto da costringerla ad appoggiare la schiena alla grossa lapide che recava incisa una croce celtica. «Non mi interessa perché sei qui», urlò il Romano, facendole cadere l'ombrello. Mentre si avvicinava, la sua pelle sembrava più grigia delle lapidi. «Ma se non mi dici subito dov'è Wes, giuro sul mio Dio che ti faccio rimpiangere di non essere morta.» Immobilizzata dallo shock, Lisbeth guardò alle spalle del Romano e vide il suo compagno che avanzava tra i cespugli.
La bocca della giornalista si spalancò mentre l'ultimo membro dei Quattro si avvicinava. 102 Martin Kassal era capace di leggere a tre anni. A quattro sapeva scrivere. E a cinque sedeva accanto a suo padre durante la prima colazione e mangiava uvetta e toast leggendo i titoli dei giornali. Ma fu solo a sette anni che fece il suo primo cruciverba, cioè che lo inventò. Sessantun anni più tardi, Kassal si accarezzava il mento aguzzo, sfogliando un'edizione tascabile tutta rovinata di Miti e simboli nella civiltà e nell'arte indiana. Malgrado gli occhiali da vista scuri, doveva avvicinarsi, per vedere, e mentre si allontanava leggermente per girare una pagina era talmente immerso nei simboli dei fiumi sacri che si accorse solo al terzo squillo che il telefono stava suonando. «Parlo con Ptomaine?» chiese una voce femminile in tono accusatorio. «Scusi... chi parla?» chiese Kassal. «Tattarrattat è il mio nome in rete. Gli amici mi conoscono come Mary Beth Guard», aggiunse soffocando una risata per avere utilizzato il più lungo palindromo riportato nella seconda edizione dell'Oxford Dictionary. «Ho visto il tuo messaggio... sui glifi che stai cercando di identificare... i quattro puntini e la croce tagliata...» «Certo. Certo, sì. E grazie per avere chiamato così rapidamente.» «Ehi, hai lasciato il tuo numero di telefono. Ho pensato che fosse un'emergenza. A proposito, mi piace il tuo nome in rete, Ptomaine. L'hai trovato sulla NPR, vero? Famoso personaggio storico americano. Inserì il proprio nome nel cognome per ottenere una nuova parola: Ptomaine, Tom Paine. Bello», disse la donna come se fosse a caccia di un appuntamento. «Sì... bene... aha!» disse Kassal asciugandosi la fronte. «E allora questi simboli...» «I glifi, certo. Li ho riconosciuti immediatamente. Li vedo tutti i giorni.» «Non sono sicuro di seguirti.» «Lavoro a Monticello. In Virginia, sai? Patria del nostro presidente più grande e più saggio, Thomas Jefferson, e non lo dico per dovere.» «Erano simboli usati da Jefferson?» «Da Meriwether Lewis, in realtà.» «Quello di Lewis e Clark?» «Oh, hai studiato storia, Ptomaine», osservò la donna sarcastica. «Natu-
ralmente. Ma la gente non sa che la principale ragione per cui Meriwether Lewis venne scelto per gestire l'acquisto della Louisiana - anzi, forse l'unica ragione per cui gli fu affidato l'incarico - era che anni prima aveva lavorato come segretario personale di Jefferson.» «Ah», disse Kassal, prendendo un appunto per usarlo in un prossimo cruciverba. «Non sapevo che Lewis fosse stato aiutante di Jefferson.» «Il primo segretario di un presidente in assoluto. Quando Jefferson fu eletto, nel 1801, una delle sue prime decisioni fu la riduzione del numero di ufficiali dell'esercito. La guerra rivoluzionaria era finita da un pezzo, il conflitto con la Francia stava esaurendosi e dovevano ridurre i ranghi.» «E le conseguenze politiche...» «Molto bene. Furono enormi», spiegò Mary Beth. «Anche tu ti appassioni di politica, eh? Sei mai stato a Monticello? Mi farebbe piacere farti da guida.» C'era sempre questo problema, con i messaggi in rete. Le probabilità erano buone, ma la gente era strana. «Scusa, sono un po' di fretta...» «Ok. Capisco, sei sposato. Scusa. Non sono molto brava a capire queste cose...» «Sì, ecco... Aha! Dicevi di Jefferson... che le conseguenze politiche del licenziamento degli ufficiali...» «Giusto. Politicamente c'era un problema, per cui Jefferson, per non restarci impantanato, chiese a Lewis di valutare segretamente la lealtà di tutti gli ufficiali. Così avrebbe saputo chi licenziare e chi tenere.» «E quei simboli», disse Kassal guardando i , , e , «erano...» «...il sistema in codice di Jefferson e Lewis, che garantiva che nessun ufficiale sapesse qual era la vera opinione di Jefferson su di lui - se era affidabile, indifferente o politicamente ostile. Quando il Dipartimento della Guerra fornì a Jefferson l'elenco di tutti i generali e i colonnelli, Lewis usò i simboli segreti e...» «...e mise un segno accanto a ciascun nome», disse Kassal, fissando i medesimi simboli sul cruciverba di duecento anni dopo. «A chiunque altro, sarebbero sembrati degli scarabocchi casuali, o le macchie lasciate da una penna...» «Proprio così. Ma a Jefferson facevano capire quali dei suoi ufficiali erano onesti e fedeli. Anzi, se verrai qui... L'elenco originale è visibile, con accanto la chiave usata da Jefferson per decifrare il codice. È bellissimo da vedere, la grafia tutta svolazzi di quel tempo...» «Mi stai proprio tentando», disse Kassal, facendo la faccia che di solito
si ha quando si morde un limone. «Ma... Mary Beth, giusto?» «Mary Beth», confermò lei orgogliosamente. «Se posso chiederti un ultimo favore, Mary Beth: adesso che ho i simboli - i quattro puntini, la croce tagliata - puoi leggermi la chiave in modo che io capisca cosa vogliono dire?» 103 «Mi stai dicendo che non gli hai scritto nessun biglietto?» disse Rogo a Boyle, sistemandosi la camicia che il guardiano gli aveva strattonato. «Biglietto? E perché avrei dovuto scrivergli un biglietto?» chiese Boyle con tono irritato, mentre gli occhi passavano da Rogo al guardiano. «Ho detto fermo!» gridò quest'ultimo, puntando la pistola contro Boyle. «Se alza ancora la voce con me, si ritroverà quella pistola fra i denti», ruggì Boyle di rimando. «Io voglio subito il mio contatto, o almeno un supervisore, e intendo subito!» «Ma cosa succede?» chiese Dreidel, tenendo le mani in alto, anche se la pistola non era affatto rivolta contro di lui. «Hai detto che dovevamo vederci al mio hotel. Da quando Wes ha un appuntamento in un cimitero?» «Dreidel, la cosa non ti riguarda», dichiarò Rogo. Si rivolse al guardiano e aggiunse: «Senta, lei non mi conosce, ma la vita del mio amico è...» «Anche la sua», disse il guardiano puntando di nuovo l'arma contro Rogo. Tornò a occuparsi del suo walkie-talkie, premette un pulsante e disse: «Ragazzi, abbiamo un problema, dovete trovare Loeb.» «Aspetta... quando Wes ha telefonato, quindi... mi avete mentito?» chiese Dreidel, ricomponendo a poco a poco il puzzle. «Hai convinto anche Wes a non fidarsi di me?» «Non metterti a fare la vittima», lo avvertì Rogo. «Lisbeth ha parlato con la tua ex, quella con il cruciverba...» Boyle si voltò di scatto. «Avete trovato il cruciverba?» «Boyle, tieni la bocca chiusa!» disse il guardiano. «Come ha fatto a trovare Violet?» chiese Dreidel, bianco come il gesso, abbassando lentamente le mani. Rogo scosse la testa rivolto a Dreidel, ma continuò a occuparsi del guardiano, che continuò a occuparsi di Boyle. Rogo si mosse ansiosamente, incapace di stare fermo. Ogni secondo che perdevano qui significava che Wes... Non pensarci, si disse. «Quando avete trovato il cruciverba?» chiese Boyle, cercando di attirare
l'attenzione di Rogo. Rogo lo guardò, fiutando una possibilità. Se non poteva andare da Wes, poteva almeno ottenere qualche risposta. «Vuoi dire che mi spiegherai che cosa c'è scritto?» disse. Boyle ignorò la domanda come se non l'avesse neppure sentita. «No, non fare così», disse Rogo. «Se puoi aiutare Wes, se sai cosa c'è scritto di fianco al cruciverba...» «Io non so niente.» «Questo non è vero. C'è una ragione se sei andato in Malaysia» «Loeb, sei lì?» disse il guardiano nella sua radio. «Boyle, ho sentito Wes che parlava di te. Sappiamo che hai cercato di fare la cosa giusta.» Boyle si volse verso il guardiano, che scosse la testa. «Per favore», disse Rogo. «Wes crede di avere un appuntamento con te.» Boyle continuava a non reagire. «Qualcuno l'ha attirato là fuori», continuò Rogo. «Se sai qualcosa e lo tieni per te, lo stai mettendo al tuo posto.» Ancora niente. «Lascia perdere», disse Dreidel. «Non è...» «Dove l'ha trovato?» intervenne Boyle. «Trovato cosa?» chiese Rogo. «Il biglietto. Hai detto che Wes ha trovato un biglietto. Con l'appuntamento.» «Boyle...» avvertì il guardiano. «Sulla sua macchina», disse Rogo. «Davanti alla casa di Manning.» «Quando?» chiese Dreidel. «Non l'avevi mai detto. Non l'avevano mai detto», ripeté rivolto a Boyle. Boyle scosse la testa. «E Wes ha pensato che fosse...? Ma non avevate risolto l'enigma del cruciverba?» «Abbiamo individuato i nomi, le iniziali», disse Rogo. «Manning, Albright, Rosenman, Dreidel...» «E di fianco... i vecchi crittogrammi di Jefferson», disse Boyle tirando fuori di tasca un vecchio foglio ripiegato. Lo aprì furiosamente e rivelò il cruciverba e i simboli, con i suoi appunti. Manning Albright
Rosenman Dreidel Moss Kutz Lemonick Boyle «È lui», disse Rogo. «Ma a parte il fatto che il presidente si fidava di Dreidel, non siamo riusciti a...» «Ehi, ehi, un momento», lo interruppe Boyle. «Che cosa stai dicendo?» «Boyle, conosci le regole sulla segretezza», gridò il guardiano. «Vuoi smetterla di preoccuparti delle regole?» gridò a sua volta Boyle. «Di' a Loeb di dare la colpa a me.» Tornò a Rogo e aggiunse: «Che cosa vi fa pensare che Dreidel avesse la fiducia di Manning?» «Vuoi dire che non l'avevo?» disse Dreidel. «I quattro puntini», spiegò Rogo indicando i . «Dato che il presidente e Dreidel hanno entrambi quattro puntini, abbiamo pensato che appartenesse alla cerchia degli intimi di cui si fidava.» Boyle si zittì di nuovo. «Non è la cerchia degli intimi?» chiese Rogo. «Questa è la cerchia degli intimi», disse Boyle indicando il accanto al nome del capo di gabinetto di Manning, l'uomo con cui il presidente scambiava i cruciverba. «E allora che cosa vogliono dire i quattro puntini?» chiese Rogo, ancora perso. «Boyle, ora basta», intervenne il guardiano. «Qui le regole di segretezza non c'entrano niente!» lo sfidò Boyle. «I quattro puntini sono un buon segno», intervenne Dreidel. «Manning si fidava di me in tutto e per tutto!» «Dimmi che cosa significano i quattro puntini», insistette Rogo con voce sommessa. Boyle fissò Dreidel, poi Rogo. «I quattro puntini erano il simbolo che Jefferson usava per i soldati senza alcun credo politico, gli opportunisti che avrebbero accettato qualsiasi cosa pur di fare carriera. Per noi indicavano quelli che secondo Manning e Albright passavano informazioni alla stampa. Quando i Tre trovarono una copia e decifrarono il codice, capirono chi potevano contattare per fare il Quarto.» «Io non sono il Quarto!» sbottò Dreidel.
«Non l'ho mai detto», disse Boyle. Rogo guardò il vecchio cruciverba di Manning e studiò i due nomi con quattro puntini: Manning Dreidel Non aveva senso. Wes giurava che la grafia - e le valutazioni - erano del presidente. Ma se era così... «Perché il presidente doveva attribuirsi un voto così basso?» «È questo il punto, non è stato lui», spiegò Boyle. «Ma sul cruciverba... hai detto che i quattro puntini...» Boyle si morse il labbro superiore. «Rogo, dimentica tutto. I Tre volevano qualcuno vicino al centro del potere decisionale, e soprattutto qualcuno che potesse influenzare le decisioni che venivano prese, per questo hanno scelto me invece di Dreidel.» «Boyle, adesso basta! Davvero!» gridò il guardiano. Ma Boyle lo ignorò. Dopo otto anni, non aveva più niente da perdere. «Adesso capisci, no?» chiese Boyle mentre Rogo guardava il foglio. «Avevate il nome giusto. E anche il ragionamento era giusto, mai sottovalutare quello che farebbero per un secondo mandato. Ma avevate sbagliato Manning.» Confuso, Rogo scosse la testa, sempre fissando il cruciverba. «E quale altro Manning...?» Un'ondata di freddo attraversò il corpo di Boyle, come se l'avessero immerso nel ghiaccio. Oh, merda. 104 Riconosco la sua ombra dappertutto. La conosco meglio della mia. La vedo quasi tutti i giorni da dieci anni. È il mio mestiere: stare tre passi dietro di lei, vicino quanto basta per essere presente appena ha bisogno di qualcosa, ma lontano quanto basta per non comparire nelle foto. Ai tempi della Casa Bianca, anche quando era circondata da sciami di dignitari e giornalisti stranieri e nostrani e personale e agenti segreti, stando alle spalle dell'orda, nel mare di gambe riuscivo a vedere lei, al centro, e non solo perché era l'unica ad avere i tacchi alti.
Stasera è la stessa cosa. Anzi, rannicchiato nell'ombra, nel cimitero, nascosto dietro uno dei cespugli cavi, con gli occhi incollati a una fessura sottilissima per cercare di penetrare nell'intrico di rami, oltre i cinquanta metri di buio scanditi dalle lapidi, riconosco immediatamente, sul vialetto di pietra, le caviglie grosse, le spalle forti e il profilo aguzzo della dottoressa Lenore Manning. Un dolore pungente mi si gonfia come un pallone nel petto. No... lei non avrebbe mai... Scuoto la testa e ho l'impressione che le costole stiano per scoppiarmi. Com'è possibile? Perché ha fatto una cosa del genere? In fondo al vialetto, fermandosi accanto all'albero, inclina leggermente l'ombrello e alla luce del lampione lontano le vedo sul volto rabbia e disappunto, e anche paura. La vedo ancora mentre lascia la Casa Bianca, col presidente che le stringe la mano mentre vanno verso il Marine One. L'ha detto lei stessa: «Pur di conservare il potere, avrebbero fatto qualunque cosa.» Abbaia qualcosa all'uomo di fianco a lei, ma sono troppo lontano per sentirla. Non è contenta di trovarsi qui. Qualsiasi cosa abbia fatto, chiaramente se ne sta pentendo. Io mi tiro indietro, ammiccando violentemente. Ma Boyle... Se la First Lady è qui, e l'uomo accanto a lei con la mano fasciata (è una pistola, quella?) è il Romano... Un'ondata di sangue mi sale dal petto fino alla faccia. Mi tocco la guancia, che brucia contro la mia mano, come quando mi hanno colpito. Chiudo gli occhi e rivedo tutto, un altro filmato in bianco e nero. Prima, a casa di Manning, sapeva che la stavo spiando, quando piangeva e mi mostrava la lettera di Boyle... e poi il biglietto sulla mia auto. Per questo la grafia era la stessa. Lei... e il Romano... oh, Dio. Guardo sul vialetto, verso Lisbeth, che è scioccata quanto me. È stata una sua idea quella di scambiarci di posto prima che arrivasse Boyle. Io sarei stato l'esca per attirarlo, lei sarebbe stata la giornalista amica che l'avrebbe spinto a parlare. Ma Boyle non verrà. Non ne aveva alcuna intenzione. Il Romano avanza verso Lisbeth, che si irrigidisce e cerca di apparire forte. Ma da come guarda la sua pistola... e arretra, finendo contro la colonna di tufo... sa di essere nei guai. Lo siamo tutti. A meno che io non riesca ad avere... Mi giro verso la recinzione alle mie spalle e tiro fuori di tasca il telefonino, correndo il più velocemente possibile. Ma prima di poter premere un solo tasto, urto contro un uomo alto e magro che fissa la luce in lontanan-
za. Ha labbra sottili e inespressive, capelli neri spettinati, piccoli occhi castani che sembrano troppo vicini... La mia guancia brucia come se fosse in fiamme. Lo riconosco immediatamente. Da tutti i miei incubi. Nico mi strappa il telefono di mano, lo butta per terra e lo schiaccia sotto il tallone. Allunga un braccio, mi prende per un orecchio e appoggia la canna della pistola sulle cicatrici che mi ha provocato tanti anni fa. «Sei stato corrotto dalla Bestia, Wesley», dice tranquillo, quasi gentile. «Adesso dimmi dov'è Ron Boyle o proverai di nuovo l'ira di Dio.» 105 «Non sapevate che era il Quarto?» chiese Boyle. «Ho detto basta!» gridò il guardiano, afferrando la pistola a due mani. Aveva un fisico - e una faccia - da rinoceronte, ma mentre avanzava Boyle notò che i suoi passi erano esitanti. Otto anni prima, Ron Boyle era un ragioniere. Adesso era chiaramente qualcos'altro. «Chi pensavate che fosse, il presidente?» chiese. «Mi ha davvero classificato così in basso?» chiese Dreidel. «Perché credi che ti abbiano licenziato?» chiese Boyle. «Non mi hanno licenziato, mi hanno promosso.» «Certo.» «Conto fino a tre!» avvertì il guardiano rivolto a Boyle. «Ascolti, per favore», disse Rogo. «Lei deve chiamare la polizia... il mio amico rischia di essere ucciso!» «Mi hai sentito, Boyle?» gridò il guardiano. «Non avete capito contro chi stavate lottando?» gridò Boyle a Rogo. «Dovevate chiamare la polizia giorni fa!» «L'abbiamo fatto! Pensavamo di averlo fatto!» ribatté Rogo. «Micah e O'Shea hanno detto che...» «Uno!» gridò il guardiano. «O almeno riscuotere qualche credito», aggiunse Boyle, rivolgendosi a Dreidel. Dreidel si girò dall'altra parte e rimase in silenzio. Rogo alzò un sopracciglio. «Due!» continuò il guardiano. Boyle li guardò attentamente entrambi, poi si passò la lingua sui denti, più irritato che mai. Aveva lavorato alla Casa Bianca per quasi quattro anni. Aveva già visto quell'espressione.
«L'hai fatto, vero?» chiese Boyle. «E tu hai fatto qualcosa di diverso?» ribatté Dreidel. «Risparmiami la morale.» «Aspetta... cosa?» intervenne Rogo. «Hai chiesto aiuto senza dircelo?» Prima che Dreidel potesse rispondere, il guardiano tirò indietro il cane della pistola. Sempre concentrato su Dreidel, Boyle ignorò la minaccia. «Da chi sei andato per primo? Dall'NSA? Dall'FBI? O sei andato da Bendis a...?» «Sono andato al Marshals Service», sbottò Dreidel. «Dagli sceriffi.» A quelle parole il guardiano si girò verso Dreidel. E si disinteressò di Boyle. Era la fine. Con un balzo, Boyle colpì il guardiano alle spalle, chiudendogli il braccio sinistro intorno alla gola e afferrandogli i capelli con la mano destra. «Ma sei... Lasciami andare!» gridò il guardiano. Tentò di afferrare Boyle alle sue spalle, ma era proprio ciò che sperava. Sfruttando lo slancio, Boyle si gettò indietro e trascinò il guardiano con sé, a terra. Fu solo mentre stava cadendo che il guardiano capì cosa lo aspettava. «Boyle, no!» Scostandosi all'ultimo momento, Boyle si portò a sinistra e fece in modo che il guardiano, anziché di schiena, cadesse di faccia. Sbatté contro il pavimento di marmo color salmone. All'ultimo secondo, con uno strattone ai capelli, Boyle costrinse il guardiano a girare la testa e a restare con l'orecchio destro contro il pavimento. «Tirati via, pazz...!» Con uno schiocco, l'orecchio del guardiano colpì il pavimento con un tonfo sordo, seguito mezzo secondo più tardi da un tonfo più sonoro: la pistola aveva sparato in conseguenza dell'impatto. Boyle, Rogo e Dreidel balzarono tutti indietro mentre la pallottola usciva dall'arma e penetrava nella base di marmo del banco della reception. Prima che si fossero resi conto di ciò che era avvenuto, la testa del guardiano si afflosciò svenuta sul pavimento. Dal timpano sfondato colava sangue. «Ma sei drogato?» chiese Dreidel mentre Boyle si rimetteva in piedi. Senza rispondergli, Boyle indicò la porta. «Dobbiamo andare. Stanno arrivando i rinforzi.» Ancora scioccato, Rogo rimase immobile, con gli occhi che correvano da Boyle a Dreidel, ai corpi immobili di O'Shea e del guardiano. «Io no...
Non...» «Dreidel, tu non abiti qui, vero?» chiese Boyle. «No, ma posso...» «Devi dirmi la strada più veloce per il cimitero», disse Boyle rivolto a Rogo. Rogo annuì, prima lentamente, poi più veloce. I suoi occhi si fissarono su Dreidel, che si avvicinava per fare la pace. «Rogo, non dire niente...» «Hai fatto un patto, eh?» disse Rogo. «Ascolta...» «Che cosa ti hanno promesso gli sceriffi?» «Rogo...» «Che cosa ti hanno promesso, parassita schifoso?» gridò Rogo. Dreidel scosse la testa, tenendo la mandibola storta. «Piena immunità.» «Lo sapevo!» «Ma non è...» «E in cambio di cosa? Dovevi spiarci... aiutarli a prendere i Tre... per dimostrare la tua innocenza?» «Io sono innocente!» scattò Dreidel. «Anche Wes! Anch'io! Ma non ci vedi correre dalle autorità e fare patti segreti per spiare i nostri amici senza dirgli niente!» «Rogo, tutti e due: dobbiamo andare», ripeté Boyle. Rabbioso, ma ben consapevole della situazione in cui si trovava Wes, Rogo corse verso il portone, seguì Boyle all'aperto e arrivò al posteggio con Dreidel alle sue spalle. Sotto le gocce che li colpivano dall'alto, Dreidel accelerò e lo affiancò, diretto al furgone di Boyle. «Non ho fatto la spia», disse. «Non gli hai mai detto che cosa stavamo facendo?» lo sfidò Rogo. «Non ho fatto in tempo, Rogo. Quando Wes è venuto al mio albergo il primo giorno... Avevo bisogno di aiuto. Loro hanno detto che se tenevo d'occhio te e Wes - e gli facevo sapere dove eravate - avrebbero fatto del loro meglio per proteggerci e per tenere il nostro nome lontano dai giornali.» «E questo non è spiare i tuoi amici?» «Senti, non prendertela con me perché sono l'unico abbastanza furbo da capire che in caso di emergenza si deve rompere il vetro e chiamare aiuto. Via, Rogo, pensaci un momento. Non posso permettermi...» Mentre raggiungevano il furgone bianco, spiegò: «Sono candidato al senato».
Mentre si portava di fianco al furgone, Rogo sentì le dita che si contraevano in un pugno. Si morse quasi le labbra, lottando per controllare la rabbia. «Andiamo, apri la porta», disse a Boyle. «Ti giuro, Rogo, non volevo farvi del male», insistette Dreidel. Quando le serrature scattarono, Rogo aprì la portiera del passeggero, allungò un braccio all'interno e bloccò la serratura della porta scorrevole. «Cosa fai?» disse Dreidel. «Aprila!» Rogo non disse una parola, si infilò al posto del passeggero, che era coperto da mucchi di cartellette, fotocopie, vecchi giornali e una macchina fotografica digitale nuova di zecca. Appoggiandosi alla portiera di Rogo, Dreidel infilò il braccio dietro al seggiolino e tentò di aprire la serratura. Senza esitare, Rogo chiuse la portiera. Dreidel tentò di tirarsi indietro, ma non fu abbastanza rapido. La portiera da trenta chili lo bloccò, affondando i suoi denti metallici nelle dita ben curate. «Aaaah! Apri! Apri, bastar...!» «Oh, scusa», disse Rogo riaprendo la portiera, mentre Dreidel si infilava la mano sotto l'ascella. «Ti giuro, Dreidel, neanch'io volevo farti del male!» Guardandolo dal suo seggiolino, Rogo gli scoccò un'occhiata come un colpo di piccone. «Non fare finta di essere amico di Wes, faccia di merda.» Con un singhiozzo, il furgone si animò e Rogo chiuse la portiera. Dreidel rimase lì, sotto la pioggia. «Allora, andiamo o no?» gridò Rogo a Boyle. «Non darmi ordini», ribatté Boyle. «Non sono stato io a sparare in faccia al tuo amico.» «Ma se tu...» «Non sono stato io, Rogo. Hanno sparato a me. E se avessi voluto fare del male a Wes, adesso non starei correndo per salvargli la vita.» Boyle inserì la retromarcia e premette l'acceleratore. Guardando fisso davanti a sé, mentre si allontanavano stridendo dal posteggio e da Dreidel, Rogo strinse i denti, pronto come sempre alla rissa. Ma non trovò alcun appiglio. «Dimmi una cosa», disse alla fine indicando il moderno edificio con le telecamere a raggi infrarossi. «Che cosa diavolo è questo posto e perché hanno un letto e una sala riunioni dietro al bagno?» «Non hai sentito con chi si è accordato Dreidel?» Battendo sul proprio finestrino, Boyle indicò il palazzo di quattro piani, ben posizionato a due chilometri dall'aeroporto. «Dottor Eng è solo un nome di facciata. È un rifugio della WITSEC.»
«Wit sack?» «WITSEC Witness Security.» «Vuoi dire un programma di protezione dei testimoni?» «Esattamente: un programma di protezione dei testimoni. Che, a parte la protezione legale, è gestito unicamente...» «Dal Marshals Service», completò Rogo, annuendo e comprendendo finalmente perché Dreidel non voleva andarci. «La cosa incomincia a puzzare, no?» chiese Boyle. «Ma è il loro stile. Hanno uffici in tutte le città americane. L'unica differenza è che questo è un programma di protezione 2.0. Invece di nasconderti, fanno credere a tutti che tu sia mor...» Sopra di loro, un 747 lacerò il cielo notturno, scendendo verso l'aeroporto e annullando la voce di Boyle. Rogo guardò l'edificio di vetro smerigliato mentre l'adrenalina del litigio con Dreidel si smaltiva e saliva la paura della nuova situazione. «Cioè, quando il guardiano parlava alla radio...?» «...non stava chiamando solo i suoi colleghi», ammise Boyle mentre passavano davanti al palazzo. «Stava chiamando il Marshals Service degli Stati Uniti. E se non ce ne andiamo di qui, lo conosceremo personalmente.» 106 Il gomito di Lisbeth strisciò contro il granito ruvido, mentre si accostava alla lapide color gesso con la croce celtica in cima. «Dimmi dov'è nascosto Wes», ordinò il Romano. La sua pistola era talmente vicina alla testa di Lisbeth che lei vedeva il proprio riflesso distorto sulla canna. Lisbeth non rispose, il Romano ripeté la domanda, ma lei sentì a malapena le parole. Tutta la sua attenzione era concentrata alle spalle del Romano, ancora stupefatta per la vista della First Lady. Bagnata dalla pioggia, Lisbeth tentò di arretrare ancora, ma la lapide glielo impedì. «Wes?» sibilò come una gatta furiosa la First Lady al Romano. «Mi hai portato a vedere Wes?» «Le avevo detto di restare indietro, signora», disse il Romano, senza distogliere lo sguardo e la pistola da Lisbeth. «E io ti avevo detto di non contattarmi mai più, ma ciò non ti ha impedi-
to di venire a casa mia, di entrare in casa mia! Hai idea del rischio che...» Si fermò, pensando alle conseguenze. «Santo Dio! Dov'è, dov'è Wes in questo momento?» Guardò ansiosamente nel vialetto, controllò le lapidi vicine. «L'hai portato qui per... È per questo che gli hai lasciato il biglietto?» Il Romano fissò Lisbeth, poi guardò la First Lady alle sue spalle. «Non reciti per la giornalista, Lenore.» «Recitare? Questo... Perché non me l'hai detto?» esplose la First Lady, agitando selvaggiamente l'ombrello a ogni sillaba. Il Romano rise sommessamente. La sua voce sembrava carta vetrata. «Non è cambiato niente da dieci anni fa, eh? Mi sta dicendo che avrebbe preferito saperlo?» La First Lady rimase in silenzio, mentre la pioggia batteva sul suo ombrello. Di fronte a lei, Lisbeth era scoperta, l'acqua le inzuppava i capelli rossi, che si appiattivano e si incollavano alla sua faccia come fili bagnati. «La prego, mi dica che l'hanno ricattata», disse Lisbeth con la voce rotta e la fronte aggrottata. La First Lady ignorò la domanda e continuò a guardarsi intorno per cercare Wes. Il Romano fece un rapido, minuscolo sorriso. «È così? L'ha fatto e basta?» chiese Lisbeth. «Io non ho fatto niente», dichiarò la dottoressa Manning. «Ma lo sapeva. L'ha appena detto lui: se anche non sapeva...» «Io non sapevo niente», urlò lei. «Perché non voleva!» ribatté Lisbeth. La First Lady fece del suo meglio per conservare la calma. «Sono giunti a me attraverso i Servizi segreti, dicendo che potevano migliorare la sicurezza, i nostri dirigenti ci ostacolavano, rifiutandosi di pagare per il Corvo e per altre buone informazioni. A quel tempo, io... Noi dovevamo mostrarci forti. Pensavo di essere d'aiuto!» «E ha fatto tutto quello che le dicevano?» «Mi ascolta o no? Erano dei Servizi segreti! Erano dalla nostra parte!» insisté la First Lady con voce tonante. «Pensavo che sapessero il fatto loro, capisce? Non avrei mai pensato che... Io li stavo aiutando!» «Fino a quando? Fino a quando Boyle è morto e lei ha capito di essere finita in trappola?» chiese Lisbeth. Senza dubbio, poteva anche essere andata così. Ma ciò non spiegava perché la First Lady era rimasta in silenzio nei giorni seguenti, o perché, quando il Romano l'aveva contattata, quando la Casa Bianca era piena di gente che indagava su Boyle e sul gruppo dei
cosiddetti Tre, era stata tanto ingenua da non chiedersi neppure che cosa le stesse proponendo il Romano. La sicurezza nazionale non era affar suo. A così poca distanza dalle elezioni - soprattutto coi sondaggi sfavorevoli l'unica cosa di cui qualsiasi First Lady si sarebbe preoccupata era ottenere un secondo mand... «Voleva vincere», disse Lisbeth. «Romano, io me ne vado», disse la First Lady girandosi. Il suo mignolo tormentava il manico dell'ombrello. «Per questo non l'ha mai denunciato, vero? Forse voleva crederci. Forse ha fatto finta di non vedere. Ma purché la aiutasse sui temi della sicurezza, se poteva ottenere uno scatto nei sondaggi, solo per una volta...» «Mi hai sentito?» gridò la First Lady al Romano, quasi piangendo. «Avevano imparato la lezione, con Boyle, vero? L'hanno avvicinata con maggiore cautela. Poi, all'improvviso, Boyle venne ucciso...» «Romano, dille che non lo sapevo! Che non sapevo cosa volevate fare!» «E così erano a cavallo: un presidente in carica indietro nei sondaggi, lo scossone garantito dall'attentato di un killer fuori di testa. Se fosse andato tutto bene e il presidente non fosse stato affondato dagli elettori, i Tre avrebbero salutato Boyle e avrebbero messo lei, il nuovo alleato, molto più influente di Boyle, nel punto migliore per dare consigli utili al presidente suo marito...» La mano sana del Romano scattò in avanti e colpì con il calcio della pistola la faccia di Lisbeth. Il sangue le sgorgò dal labbro superiore e la testa le scattò indietro, sbattendo contro la lapide. Ansimando, Lisbeth inghiottì qualcosa di piccolo e tagliente. Un colpo di lingua le rivelò che si trattava dell'incisivo di sinistra. «Ccchhh!» Mentre le graffiava la gola, si chinò in avanti come per vomitare, poi tossì due volte mentre una boccata di sangue le colava sulle scarpe e sull'erba bagnata. A due chilometri di distanza, si sentì il gemito sommesso di un treno che si avvicinava. Guardando in basso, mentre un conato le arrossava tutta la faccia, Lisbeth non sentì neppure il fischio. In realtà, mentre le gocce le cadevano dai capelli, dal naso, dal mento, come da un rubinetto rotto, l'unica cosa che Lisbeth notò furono le scarpe del Romano che si avvicinavano. «Avrà bisogno di un'ambulanza, Wes», disse tranquillamente rivolto al buio. Si chinò sulla testa di Lisbeth, le afferrò una ciocca di capelli sulla nuca e la tenne chinata davanti a sé. «Lasciami andare!» gridò lei.
«Continua a nasconderti, Wes!» disse il Romano stringendole i capelli ancora più forte e facendo un mezzo passo all'indietro. Come per prendere la rincorsa. L'ultima cosa che Lisbeth vide furono le macchie di terra sulle scarpe nere scamosciate del Romano. E il suo ginocchio contro la faccia. 107 Puzza di antisettico da ospedale e carne trita andata a male. Ma quando mi ficca la canna della pistola nelle cicatrici, non è l'odore di Nico che mi stringe lo stomaco. Inghiotto con tale forza che mi sembra di avere in gola un mattone. «Come hai potuto aiutarlo? Come hai potuto?» chiede. «Ti rendi conto di quello che hai scatenato?» I suoi occhi schizzano ora a destra ora a sinistra, a destra, a sinistra... È da due giorni che non prende le sue medicine. «Rispondimi!» sibila, facendomi arretrare con una spinta della pistola. Non ammicca neppure per la pioggia che lo colpisce in volto. Perdo l'equilibrio e cado all'indietro nel cespuglio. Un ramo mi colpisce alla schiena, ma quasi non me ne accorgo. Mi è bastato vedere Nico, sentire la sua voce, per tornare all'autodromo. Con la folla ruggente. Manning che sorride. Centomila fan in piedi che indicano e salutano. Noi, me. E il calabrone. Pop, pop, pop. Le porte dell'ambulanza che si chiudono su Boyle. «...scolti?» chiede Nico mentre torno alla realtà. La sua pistola mi preme sulla guancia, ma continuo a non sentirla. Non sento nulla. Da anni. «Dov'è Boyle?» dice. «Non lo s...» La sua mano sinistra scatta come un cobra, affonda le zanne al centro della mia camicia e mi attira verso di lui. Nico si volta verso sinistra, mi fa uno sgambetto e io cado di nuovo all'indietro, in una pozzanghera, e schizzo acqua dappertutto. Nico mi è subito addosso, a cavalcioni sul petto, bloccandomi le braccia con le gambe, senza mai allontanare la pistola dalla mia guancia. «Ho trovato il suo biglietto», ruggisce Nico mentre il menu del ristorante cinese gli sbuca dalla tasca interna del giubbotto militare. «Dov'è Boyle?» Vorrei dirgli che è un falso, che il Romano... e la First Lady... che non voglio morire. Ma dopo otto anni che immagino questo momento, che immagino di affrontare finalmente Nico, minuto per minuto, ho program-
mato tutto: cosa dire, dove stare, come incrociare le braccia sul petto, cosa fare se cerca di darmi un pugno, come scostarmi all'ultimo momento... sarei preparato, stavolta, lui mi mancherebbe e poi, prima che se ne accorgesse, scatterei a prendergli la gola fra le mani, stringerei talmente forte da sentirlo rantolare, e stringendo sempre più forte, affondando le dita nella sua carne, mentre cadiamo e lui chiede pietà... le uniche parole che mi escono dalle labbra sono quelle che aspettano di farlo dal giorno in cui mi ha distrutto la faccia. L'unica domanda a cui i dottori, gli psicologi, il presidente, i miei parenti, i miei amici, i miei genitori e io stesso non abbiamo trovato risposta: «Nico», chiedo, «perché mi hai fatto questo?». Lui inclina la testa come se capisse perfettamente. Poi corruga la fronte. Non ha sentito una sola parola di quello che ho detto. «So che sei stato in contatto con lui», dice. «Per questo Dio ha deviato la pallottola dalla tua parte. L'ha fatta rimbalzare. Ecco perché sei stato colpito.» «Non è vero!» grido sentendo crescere in me una nuova rabbia. «È vero! Il Libro del Fato è scritto! Tutto ha una ragione!» dichiara lui emettendo una nuvoletta di vapore che sa di carne marcia. «Ti sei messo dalla parte della Bestia! Quella pallottola che ti ha colpito... il tuo destino è scritto... è la volontà di Dio.» «Nico, ti hanno mentito!» «Non è forse vero che gli hai parlato? Eh? Lo vedi... è vero!» grida osservando la mia espressione e premendomi la pistola contro la guancia. «Dio ti ha dato l'occasione per redimerti e tu l'hai disprezzata. Per questo mi ha condotto qui, per finire la Sua opera! Per vedere il tuo sangue!» dice contraendo il dito sul grilletto. Tento di lottare, ma è troppo forte. Non vedo altro che il profilo di Nico sopra di me, la luce alle sue spalle, la sua testa che mi protegge dalla pioggia, il rosario che ha al collo e oscilla come l'orologio di un ipnotizzatore. Alza il cane della pistola. «Ti farà male, Wesley.» Mi stringe a sé. Chiudo gli occhi aspettando l'improvviso lampo di luce, ma sento solo... «Oh, Dio! C... ce l'hai addosso», sussurra Nico con le mani che incominciano a tremare. Vedo che gli occhi gli brillano nell'oscurità. «Ma cosa... Cosa?» chiedo confuso. «Nella foto non si vedeva, ma da vicino...» balbetta fissandomi la faccia. «È chiarissima», continua. «Le tue cicatrici, il modo in cui si incrociano... incisa nella carne... I giornali dicevano: come dei binari ferroviari... ma in realtà è una perfetta, perfettissima... croce! Ma certo! Madre di Dio, come
ho fatto a non...? Tu non eri destinato a morire quel giorno, Wesley, eri destinato a nascere!» Alza la testa verso il cielo e aggiunge: «L'hai trasformato, vero? Grazie alle mie azioni... attraverso la Tua volontà! Questo era il suo ruolo, il portatore della croce!» dice continuando a guardare il cielo mentre borbotta una breve preghiera. Nell'improvviso silenzio, sento in lontananza la debole voce della First Lady. Lisbeth grida qualcosa. Sono troppo lontani perché possa capire, ma con il suo udito eccezionale Nico dovrebbe... Gli occhi gli si spalancano come se avesse sentito il proprio nome. Lentamente abbassa il mento e segue... «Non è vero», sussurra, tenendosi lo stomaco come se qualcuno gli avesse infilato un cavatappi nella pancia. Non sento quello che sta dicendo Lisbeth, ma se guardo Nico non è difficile capirlo. «No... I Tre non hanno mai...» Le ginocchia di Nico mi bloccano ancora le braccia, ma il suo peso - la pressione - non c'è più. Il suo corpo si mette a tremare, sconvolto da un suo personale terremoto. Alle nostre spalle, chilometri più a sinistra, il debole urlo di un treno lacera l'aria. Il mento di Nico trema; i suoi occhi si riempiono di lacrime. Si prende la testa fra le mani, la china e si tira le orecchie, come se volesse strapparsele dalla testa. «Dio, Ti prego», singhiozza. «Dimmi che stanno mentendo...» «Avrà bisogno di un'ambulanza, Wes», ruggisce il Romano in lontananza. Lisbeth. Agitandomi selvaggiamente, riesco a mettermi seduto. Nico non reagisce. Scivola dal mio petto e crolla come un pupazzo sull'erba bagnata, rannicchiandosi in posizione fetale. Da sessanta a zero in meno di dieci secondi. «Non dire così, Dio», singhiozza e geme, tenendosi le mani sulle orecchie. «Ti prego... no... Non voltarmi le spalle! Aiutami a seguire il Libro. Ti prego!» «Continua a nasconderti, Wes!» grida il Romano, ancora più forte di prima. Mi tiro in piedi e spio tra i rami del cespuglio, verso il vialetto di pietra, cercando di distinguere delle forme nella fioca luce. In fondo, alla base dell'antico baniano, vedo due figure: il Romano colpisce col ginocchio la faccia di Lisbeth, la sua testa scatta all'indietro. Più lontana, la First Lady
volta loro le spalle. Vedendola, dovrei sentire rabbia, furore. Ma osservando la nuca, la testa china... provo solo una sensazione di freddo e di vuoto. Devo raggiungere Lis... «Lo so che sei lì!» mi tenta il Romano. Per la prima volta, mi fa imbestialire. Lisbeth è ancora... «Sta soffrendo, Wes!» continua il Romano. «Chiediglielo!» Mi preparo a correre, ma sento uno strattone ai calzoni. E un noto click. Alle mie spalle, Nico si alza dal fango - prima appoggia un ginocchio, poi l'altro - la sua figura massiccia si rizza come un'impalcatura. I capelli neri e corti sono inzuppati e incollati alla fronte, la sua pistola è puntata contro il mio petto. «Nico, lasciami andare.» «Tu sei il mio portatore della croce, Wes», dice asciugandosi le lacrime dagli occhi. «Dio ti ha scelto. Per me.» «Sta sanguinando parecchio, Wes!» grida il Romano. Anche Lisbeth grida qualcosa, ma sono troppo concentrato su Nico. Non riesco a sentirla. «Nico, ascoltami... so che tu li senti...» «Il portatore della croce è colui che porta il peso!» Sorride dolcemente e si punta la pistola alla testa. «Prenderai il mio corpo, quando cadrò?» «Nico, no!» «Mi prenderai quando cadrò, cadrò dalla grazia... il portatore della croce renderà testimonianza?» Abbassa l'arma, poi la rialza e se la preme contro la tempia. Sento Lisbeth che geme. «Dio ti ha mandato per salvare anche lei, vero?» Mi guarda, immobile, con la pistola alla tempia. «Salva anche me, mio angelo.» Alle nostre spalle, il treno fischia talmente vicino da risultare assordante. Nico stringe le labbra, non vuole apparire contratto. Ma vedo che stringe i denti. Per me, è un rumore. Per lui, è insopportabile. Con sguardo selvaggio, punta la pistola contro di me per impedirmi di scappare. Non mi interessa. «Io sono innocente», dico avvicinandomi a lui. Lui capisce che è un avvertimento. «Nessuno è innocente, papà.» Papà? «Dio abbia pietà di mio figlio», continua muovendo la pistola dal mio petto alla mia testa e poi di nuovo al mio petto. Si rimette a piangere. Soffre. «Tu capisci, papà, vero?» chiede. «Dovevo farlo. Me l'hanno ordina-
to... La mamma aveva detto di seguire il Libro! Ti prego, dimmi che capisci!» «M... ma sì», dico mettendogli una mano sulla spalla. «Certo che capisco, figliolo.» Nico si mette a ridere, con lacrime che gli scendono ancora sulle guance. «Grazie», dice afferrando il rosario, incapace di controllarsi. «Lo sapevo... Lo sapevo che saresti stato il mio angelo.» Mi giro sulla sinistra e guardo da un'apertura nel cespuglio. Il Romano ha la pistola puntata verso Lisbeth. «Nico, muoviti!» dico facendomi avanti. Devo solo... Bang! Faccio un salto mentre la pistola del Romano spara. In fondo al vialetto, una stella di luce rompe l'oscurità come se esplodesse una lucciola, poi scompare. Corro più veloce che posso. Lisbeth sta già urlando. 108 «Non mi credi, vero?» chiese Boyle a Rogo mentre il furgone bianco scivolava fuori del posteggio e si immetteva in Griffin Road. «Cosa importa quello che penso io?» replicò Rogo, aggrappandosi alla console tra i loro seggiolini e guardando fuori dal parabrezza. «Non rendere le cose più difficili.» Il furgone sfrecciò attraverso l'incrocio con la 25a Avenue mentre Rogo controllava dal finestrino laterale se qualcuno li seguiva. Fino a quel momento, tutto bene. «Ma devi ascoltarmi, Rogo. Se capita qualcosa a... Qualcuno deve sapere quello che hanno fatto.» «E non potevi scrivere una lettera al giornale, come tutti gli altri?» Boyle non rispose e Rogo scosse la testa e guardò di nuovo fuori del finestrino. Il palazzo bianco dei Marshals era poco più di un puntino all'orizzonte. «Quindi per tutto questo tempo tu eri nel programma per la protezione dei testimoni?» «Te l'ho detto, versione 2.0. Witness Fortification», spiegò Boyle. «Non che abbiano riconosciuto ufficialmente la sua esistenza. Ma quando ho detto a Manning quello che stava succedendo... di solito, al presidente basta una telefonata per fare ottenere qualcosa. Manning ne ha dovuto fare tre,
una dopo l'altra, per farmi entrare.» «E lo fanno spesso? Cioè, di fare credere alle famiglie che i loro cari sono morti?» «Come credi che faccia il governo a portare avanti i processi contro i terroristi fanatici? Credi che i testimoni avrebbero parlato se il Dipartimento della giustizia non avesse potuto garantire la loro sicurezza in maniera assoluta? Ci sono delle bestie, al mondo, Rogo. Se i Tre - i Quattro o come diavolo si chiamano - avessero pensato che ero vivo e nascosto, avrebbero tagliato la gola a mia moglie e ai miei figli e poi sarebbero andati a farsi una birra...» «Ma mentire alla gente in questo modo...» «Non ho scelto io questa vita. Sono stati i Tre a scegliermi. Dopo di che, dopo che mi avevano scartato a favore della First Lady, questo era l'unico modo per tenere al sicuro mia moglie e in vita i miei figli... tutti e due.» «Avresti potuto...» «Cosa? Nascondermi insieme alla mia famiglia? Mettere tutti in pericolo e sperare per il meglio? L'unico nascondiglio assolutamente inespugnabile è quello in cui nessuno sa che ti stai nascondendo. Inoltre i Tre sono riusciti a compromettere le nostre forze dell'ordine, hanno usato i loro database per scopi privati e hanno raccolto migliaia di dollari in pezzi da cinquanta vendendo informazioni confidenziali su attacchi terroristici, e tutto senza che riuscissimo a scoprire chi diavolo fossero. «Fino a due giorni fa, quando hanno perso la testa e si sono buttati sulle tracce di Wes.» «Non hanno perso la testa», disse Boyle frenando lentamente. Due isolati più avanti, le tre corsie di Griffin Road si riducevano a una. Qualcosa bloccava la strada. «Lavori in corso?» chiese Boyle, allungando il collo e strizzando gli occhi nel buio. «Penso che sia un incidente.» «Sicuro?» «Non c'è un'ambulanza?» Boyle annuì mentre la scena si chiariva: un'ambulanza, un carro attrezzi e un'auto argentata cappottata per l'urto. Boyle si guardò a sinistra, controllando le vie laterali. «Qualcosa non va?» chiese Rogo. «Semplice prudenza.» Continuando il discorso, Boyle aggiunse: «Comunque, i Tre non hanno perso la testa. Sono diventati avidi e grassi, soprattutto grazie al Romano.»
«Quindi quello che la First Lady ha detto a Wes è vero», disse Rogo. «Che hanno incominciato con piccole informazioni - gas VX in Siria, campi di addestramento in Sudan - e le hanno usate per farsi una credibilità, in attesa della minaccia-mostro per cui potevano chiedere milioni di dollari e ritirarsi tutti in pensione.» «No, no, no. Non capisci?» chiese Boyle, uscendo improvvisamente dalla colonna di traffico per ricontrollare la causa dell'incidente. Era tutto normale. Ambulanza. Carro attrezzi. Auto argentata. Boyle aprì la console e controllò su una scatoletta delle dimensioni di una videocassetta, poi la richiuse rapidamente. Tentò di nasconderla sotto il braccio, ma Rogo vide la parola HORNADY, scritta a lettere rosse sul lato della scatoletta. Essendo cresciuto in Alabama, conosceva quel marchio grazie alle partite di caccia di suo padre. Proiettili Hornady. «Una volta reso il Romano un informatore affidabile, non avevano bisogno della grande minaccia. Perché credi che la gente sia tanto preoccupata se le agenzie lavorano insieme? Il Romano avrebbe portato la sua informazione ai Servizi, poi Micah e O'Shea l'avrebbero comunicata dalle loro postazioni alla CIA e all'FBI. Così ciascuno avrebbe confermato gli altri. È così che si verificano le informazioni: si controllano con qualcun altro. E una volta che le tre agenzie sono d'accordo... la fiction diventa realtà. È come per la minaccia di attentato alla metropolitana di New York, qualche anno fa: non c'era un grammo di verità, ma l'informatore è stato comunque pagato. A proposito, questa è l'unica strada per raggiungere la I-95?» Rogo annuì e alzò un sopracciglio. «Non capisco, hanno inventato tutto?» «All'inizio no. Ma una volta creata quella reputazione al Romano, potevano mescolare notizie false alle vere e guadagnare un po' di più. Per quanto riguarda la roba grossa... credi che le notizie da sei milioni di dollari ti caschino in bocca?» «Ma inventarsi una cosa così...» «È come fare sparire la Statua della Libertà. È uno di quei trucchi che riescono una volta sola, poi bisogna sparire finché la polvere non si deposita. Per questo, quando hanno fatto il primo tentativo...» «L'operazione Corvo.» «...l'operazione Corvo, l'hanno fatto bene: hanno preso in ostaggio un falso computer dell'NSA per ricevere il denaro. Era una cosa sufficiente per una grossa somma, ma, al contrario di quanto accade se si annuncia che un edificio sta per saltare in aria, non ci sarebbero stati danni o sospetti
se la Casa Bianca avesse deciso di non pagare. Quando poi l'operazione Corvo fallì perché noi non pagammo, furono abbastanza intelligenti da capire che gli serviva qualcuno all'interno della Casa Bianca per assicurarsi che la successiva richiesta passasse.» «Ed è stato allora che ti hanno avvicinato e minacciato.» «Hanno avvicinato e minacciato me, e hanno tentato la via più dolce con qualcuno più potente.» «Ma pensare che tu o la First Lady accettaste, e riusciste a influire su sei milioni di dollari...» «Sei mai andato a pesca, Rogo? A volte è meglio gettare parecchie lenze, con esche differenti, e vedere a quale abboccano. Per questo ci hanno contattato entrambi. E anche se lei lo negherà sempre - anzi, probabilmente ormai si è convinta di non avere fatto niente di male - la First Lady è stata quella che si è avvicinata all'amo», spiegò Boyle. «E per quanto riguarda la possibilità di ottenere sei milioni, o dieci la volta successiva, guarda la storia della Casa Bianca. Le persone più potenti non sono quelle coi titoli più importanti. Sono quelle a cui il presidente dà retta. Io ho questo privilegio da quando avevo ventitré anni. L'unica persona che l'ha da più tempo è quella a cui il presidente è sposato. Qualunque cosa avessero escogitato se lei fosse stata coinvolta e avesse pensato che li avrebbe aiutati sul tema della sicurezza - credimi, l'avrebbero ottenuta.» «Non capisco, però. Una volta fallita l'operazione Corvo, non avevano bisogno almeno di qualche risultato prima di poter fare un'altra richiesta così grossa?» «E io cosa credi che fossi?» chiese Boyle. Rogo si voltò, ma non disse una parola. «Rogo, perché l'inganno funzioni, alla gente basta vedere che la cura sia efficace una volta. E questo gli hanno dato i Tre, sparandomi due pallottole nel petto.» Rogo si sedette più eretto e continuò a studiare Boyle, che fissava le portiere aperte dell'ambulanza a meno di un'auto di distanza. «Venti minuti prima dell'attentato, al sito web dei Servizi segreti arrivò un'informazione su un tizio di nome Nico che progettava di assassinare il presidente Manning quando fosse sceso dall'auto all'autodromo internazionale di Daytona. Era firmata Romano. Da quel momento in poi, qualsiasi cosa avesse detto - soprattutto se corroborato da FBI e CIA... be', sai quanto è paranoide il mondo in cui viviamo. Dimentica la droga e la compravendita di armi. L'informazione è l'oppio delle masse militari. E un'infor-
mazione su un attacco terroristico sul suolo americano... equivaleva a denaro contante», disse Boyle. «Oltre tutto, avendo coinvolto furtivamente la First Lady, non dovevano neanche dividere la torta in quattro.» Mentre superavano l'ambulanza, entrambi guardarono a sinistra, dentro alle porte aperte. Ma prima che potessero rendersi conto che non c'era alcun ferito, né barella, né attrezzature mediche, sentirono un colpo metallico di dietro. Poi uno dall'alto. Su entrambi i lati del furgone, una mezza dozzina di agenti in borghese sbucarono dal carro attrezzi e dalla macchina argentata, prendendo posizione e puntando le armi contro i finestrini e il parabrezza. Accanto alla portiera di Boyle, uno sceriffo con le sopracciglia cespugliose batté sul vetro con la canna della pistola. «Piacere di rivederti, Boyle. Adesso tira giù il culo da quel furgone.» 109 «Sta soffrendo, Wes!» gridò il Romano rivolto all'oscurità vuota, mentre la pioggia gli tamburellava sull'ombrello. «Chiediglielo!» «N... non è uno stupido», sussurrò Lisbeth, seduta sull'erba bagnata. Con la schiena appoggiata alla lapide celtica per sostenersi, si premette entrambe le mani sull'occhio, dove il Romano le aveva dato la ginocchiata. Lo sentiva già gonfiarsi fino a chiudersi. Tornata presso l'albero, la First Lady guardava freddamente il Romano. «Perché mi hai portato qui?» chiese. «Lenore, questo non...» «Hai detto che era un'emergenza, ma portarmi da Wes...!» «Lenore!» La First Lady studiò il Romano, con espressione impassibile. «Pensavi di uccidermi, vero?» chiese. Lisbeth alzò la testa a questa domanda. Il Romano si girò sulla destra, guardò il vialetto rovinato e, grazie al suo addestramento da agente segreto, si mise a dividere il cimitero in sezioni più piccole e più facili da gestire. La chiamavano griglia di ricerca. «Non essere sciocca, Lenore. Se avessi voluto ucciderti, ti avrei sparato in macchina.» «A meno che», disse Lisbeth sputando per terra gocce di saliva mentre il fischio del treno annunciava il suo avvicinarsi, «non volesse fare ricadere la colpa su Wes. Così lui farebbe la figura dell'eroe e non ci sarebbero testimoni per accusarlo...»
Il Romano scosse la testa e continuò a fissare i cespugli rotondi. «Sta sanguinando parecchio, Wes!» La First Lady si girò verso la tomba di Boyle, poi guardò di nuovo il Romano, col mignolo che tormentava più che mai il manico dell'ombrello e disse con voce bassa e velenosa. «È come dice lei, vero?» «Sta solo cercando di confonderti le idee, Lenore.» «No, lei... Avevi promesso che non si sarebbe fatto male nessuno!» esplose la First Lady. Si rivolse verso l'ingresso del cimitero. Ci fu un click metallico. «Lenore», l'avvertì il Romano alzando la pistola, «se fai un altro passo, credo che avremo un grave problema.» La First Lady si bloccò. Rivolgendosi di nuovo a Lisbeth, il Romano inspirò con forza dal naso. Sarebbe dovuto andare tutto più liscio, ma se Wes continuava a nascondersi... Prese attentamente la mira e annunciò a Lisbeth: «Ho bisogno che alzi le mani, per favore.» «Cosa?» chiese lei, sempre seduta per terra. «Alza quelle maledette mani», ruggì il Romano. «Con i palmi rivolti verso di me», aggiunse mostrando la sua mano bendata a Lisbeth. Anche sotto l'ombra dell'ombrello, era impossibile non accorgersi della benda bianca con la macchia rossa circolare al centro. Lisbeth capì quali erano le sue intenzioni. Se avessero trovato il suo corpo con le stigmate una specie di firma - tutta la colpa sarebbe caduta su... Lisbeth smise di vedere la pioggia. Tutto il suo corpo si mise a tremare. «Alza la mano, Lisbeth, o giuro su Dio che te la ficco nella testa.» Stringendosi le mani al petto, Lisbeth guardò la First Lady, che riprese ad allontanarsi. «Lenore», l'avvertì il Romano senza voltarsi. La First Lady si fermò. Lisbeth sentì il terreno bagnato sotto al sedere. Le sue mani erano sempre immobili. «Va bene», disse il Romano mirando alla testa di Lisbeth mentre alzava il cane. «Prendilo nel...» Lisbeth alzò in aria la mano sinistra. Il Romano premette il grilletto e la pistola ruggì con un botto che si lasciò dietro un silenzio sonoro. Un rivolo di sangue schizzò dal dorso della mano di Lisbeth, appena sotto le dita. Ancor prima di sentire il dolore e di mettersi a gridare, il sangue le scorreva sul polso. Scioccata, essa guardò il foro bruciaticcio sul palmo, come se non fosse suo. Quando tentò di stringere il pugno, il dolore si ma-
nifestò, la mano si confuse, come se stesse svanendo. Lisbeth stava per svenire. Senza una parola, il Romano puntò la pistola alla testa ora oscillante di Lisbeth. «No!» gridò una voce familiare dal fondo del cimitero. Il Romano e la First Lady si girarono sulla destra, cercando la voce sul vialetto in mezzo agli alberi. «Non toccarla!» gridò Wes, una sottile silhouette che usciva correndo dal cespuglio. «Sono qui.» Proprio come desiderava il Romano. 110 Con l'aiuto della luce che scende dal palo in lontananza, studio il profilo del Romano dal vialetto. Lui mi guarda fisso, con la pistola ancora puntata su Lisbeth. «Ottima scelta, Wes», dice ai piedi dell'albero. Ha la voce calda, come se fossimo a una cena. «Lisbeth, mi senti?» grido io. È a una cinquantina di metri, ancora per terra. In mezzo alle ombre, sotto al baniano, non è che un'escrescenza nera fra due tombe. «Sta bene», dichiara il Romano. «Ma se non vieni ad aiutarla, ho paura che sverrà.» Sta cercando di farmi avvicinare e, con Lisbeth che sanguina per terra, non ho molta scelta. «Prima devo controllare che stia bene», dico camminando sul vialetto. Lui capisce che cerco di guadagnare tempo. «Vai indietro e io vengo avanti.» «Vaffanculo, Wes». Si gira verso Lisbeth e alza la pistola. «No! Aspetta... sto arrivando!» Corro sul vialetto e alzo le mani in aria per fargli capire che mi arrendo. Lui abbassa leggermente l'arma, ma il suo dito non lascia il grilletto. Se fossi furbo, continuerei a osservarlo, ma mentre passo tra le file di tombe mi giro verso la First Lady. I suoi occhi enormi esprimono una preghiera, tutto il suo corpo è in posizione di preghiera. Stavolta le sue lacrime non sono finte. Ma sta cercando aiuto nel posto sbagliato. «Non prendertela così sul personale», dice il Romano seguendo il mio sguardo.
Avvicinandomi a Lisbeth, cautamente, continuo a guardare la silhouette di Lenore Manning. Da otto anni sa che mi accuso di avere fatto salire Boyle su quella limousine. Per otto anni mi ha guardato in quello che resta della mia faccia e ha finto di considerarmi uno di famiglia. Al mio compleanno, tre anni fa, quando gli altri mi prendevano in giro perché avrei dovuto avere più ragazze, lei mi ha perfino baciato sulla guancia - proprio sulle cicatrici - per dimostrare che non dovevo vergognarmene. Non ho sentito le sue labbra, perché mi toccavano il punto morto. Ma ho sentito tutto il resto. Lasciando l'ufficio, piansi per tutta la strada fino a casa, sorpreso dalla bellezza e dalla sensibilità di quel gesto. Adesso, oltrepassando una cappella di pietra con le porte a vetri rossi e blu, mi sento di nuovo gli occhi pieni di lacrime. Non per la tristezza. Né per la paura. Sbatto gli occhi, scaccio le lacrime sulle guance. Queste sono lacrime di rabbia. Sulla mia sinistra, le labbra di Lenore Manning si contraggono come se volesse fischiare. Sta per dire il mio nome. La guardo per dirle di non darsi tanta pena. Anche in questo cimitero buio, capisce bene i suoi dipendenti. È questo che sono sempre stato. Non uno di famiglia. Non un amico. Neanche un pupazzo ferito che si prende per pulirsi la coscienza dalle altre schifezze che si fanno nella vita. Per quanto sia duro ammetterlo, non sono mai stato altro che un dipendente. Ho la tentazione di gridare, urlare, maledire per quello che mi ha fatto. Ma non è necessario. Più mi avvicino, più lei stessa lo può vedere da sola. È inciso profondamente nella mia faccia. Per un istante, la sua fronte si contrae. Poi la First Lady fa un breve passo all'indietro e abbassa l'ombrello perché non possa vederle il volto. La considero una vittoria. Lenore Manning ha affrontato di tutto. Ma in questo momento non riesce ad affrontare me. Scuoto la testa e mi rivolgo al Romano, che è ormai a una quarantina di metri. «Continua ad avanzare» dice. Io mi fermo. In diagonale sulla mia destra, fra due massicce lapidi, Lisbeth è in ginocchio e si stringe al petto la mano insanguinata. Nella debole luce azzurrina, vedo che ha i capelli inzuppati, l'occhio sinistro gonfio e semichiuso. Sono quasi arrivato. «Mi dispiace», balbetta come se fosse colpa sua. «Ho detto di continuare ad avanzare» grida il Romano.
«No!» interviene Lisbeth. «Ti ucciderà.» Il Romano non reagisce. «Promettimi che la lascerai andare», dico. «Ma certo», cantilena lui. «Wes!» dice Lisbeth col fiato grosso. È l'unica cosa che può fare per non perdere i sensi. Non ci sono sirene in lontananza, nessuno corre in nostro aiuto. Da qui in avanti, Lisbeth può cavarsela solo se io vado avanti e cerco di trattare. Il treno si avvicina da lontano. C'è un sussurro alle mie spalle. Mi giro per seguire il rumore, ma c'è solo il mio riflesso sulle porte rosse e blu della cappella. Dentro, dietro ai vetri, giurerei che qualcosa si muove. «Senti i fantasmi, adesso?» scherza il Romano. Mentre i sussurri si fanno più forti, continuo ad avanzare verso di lui sul vialetto. Mi mancano meno di venti metri. La pioggia si fa più leggera quando raggiungo l'albero. Le sue radici pendono dall'alto come le dita di un burattinaio. Sono talmente vicino che vedo tremare il corpo di Lisbeth... e il mignolo della First Lady che tormenta il suo ombrello... e il cane della pistola del Romano mentre lui lo tira indietro col pollice. «Perfetto», dice con un sorriso astuto. Prima che possa reagire, si volta e punta la pistola. Direttamente al cuore di Lisbeth. 111 «No... no!» grido correndo. C'è un sibilo acuto. Ma non proviene dalla sua pistola, bensì da dietro di me. Prima che capisca cosa sta succedendo, una macchia di sangue sgorga sulla mano destra del Romano, appena sotto l'attaccatura delle dita. Gli hanno sparato. All'impatto, anche la pistola del Romano spara. Con la coda dell'occhio vedo Lisbeth che si porta la mano alla spalla, come per colpire una zanzara. Intravedo qualcosa di scuro - sangue - che le cola fra le dita, come acqua che filtri da un secchio crepato. Si allontana la mano dalla spalla e se la mette davanti agli occhi. Quando vede il sangue, la sua faccia diventa bianca e gli occhi le si rovesciano. È già priva di sensi. «Merda, merda, merda!» grida il Romano, chino in avanti, girando selvaggiamente e tenendosi la mano ferita sul petto. Sulla sua destra, la First Lady scappa correndo verso l'ingresso principale e scompare nell'oscurità.
Il Romano soffre troppo per fermarla. Sulla sua mano, il buco non è più grosso di un centesimo, ma il segno delle stigmate è inconfondibile. «Mi hai mentito! È un angelo!» ulula Nico dal fondo del cimitero, in mezzo ai cespugli. Corre verso di noi nell'oscurità, con la pistola in pugno, pronto al colpo mortale. È una silhouette, non gli vedo la faccia, ma la sua mano è più ferma che mai. «Tu... tu andrai all'inferno», sussurra il Romano calando ansiosamente la sua Ave Maria personale. «Come Giuda, Nico. Sei Giuda, adesso.» Da come Nico sussulta, è chiaro che l'ha sentito. Ma non per questo rallenta. «Le leggi di Dio durano più a lungo di coloro che le infrangono!» dichiara riprendendo le forze. «Il tuo destino è riscritto!» Sul vialetto, afferra il rosario con una mano e punta la pistola con l'altra. «Nico, pensa a tua madre!» prega il Romano. Nico annuisce mentre le lacrime gli scorrono di nuovo sul volto. «Sì», ruggisce, ma mentre prende la mira c'è una forte ventata dal fondo del cimitero. Lungo i binari, un argenteo treno passeggeri appare, talmente veloce che sembra sbucare dal nulla. Il rumore è assordante. Le orecchie mi si bloccano per l'improvviso spostamento d'aria. Per Nico, l'effetto è cinquanta volte peggiore. Lotta comunque, stringendo i denti, e preme il grilletto. Ma il rumore è troppo forte. Il braccio gli vibra per una frazione di secondo, il colpo esce sibilando dalla sua arma e il proiettile sfiora la spalla del Romano e si pianta nella corteccia dell'albero vicino. Nico Hadrian ha sbagliato il colpo. Un cupo sorriso torna sul volto del Romano mentre il treno continua a sfrecciare. Quasi incapace di reggere la pistola con la destra, butta via l'ombrello e si passa l'arma nella sinistra bendata. Da come il suo pugno destro trema, è chiaro che soffre. Ma non gli importa. Rialza le spalle. Si rimette in equilibrio. Quando solleva la pistola e prende la mira, io sto già correndo verso di lui. Anche Nico, che è almeno trenta metri più indietro. Il Romano ha tempo per un solo colpo. Non c'è dubbio su chi sia il più pericoloso. Bang! Quando il colpo esplode, il rumore è annullato dal treno che passa. Dietro di me, sulla destra, c'è un profondo gemito gutturale: Nico è colpito al petto. Continua a correre verso di noi, ma non va lontano. Dopo due passi, le gambe gli cedono e i suoi occhi troppo vicini si allargano enormemente. Cade in avanti, perdendo l'equilibrio, il suo corpo finisce a faccia in giù
per terra. A metà della caduta, il rosario gli sfugge di mano. Non si rialzerà. Mentre Nico crolla, il Romano dirige l'arma verso di me. Ma io mi sto già muovendo troppo veloce. Trascinato dallo slancio, finisco contro di lui come se dovessi placcarlo, gli circondo le spalle con le braccia e lo urto a tutta velocità. L'impatto lo fa oscillare verso sinistra. Con mia sorpresa, è come se avesse una lastra di metallo sul petto. Ha imparato la lezione da Boyle. Giubbotto antiproiettile. La buona notizia è che la ferita alla mano l'ha già indebolito. Calpestiamo il suo ombrello nel fango. Mi stringo al suo petto, lo cavalco come un boscaiolo un albero che crolla. Cadiamo per terra e la pistola gli sfugge di mano sull'erba bagnata. Batte la schiena contro una radice che spunta zigzagando dal terreno e urta con la testa un sasso irregolare. Il giubbotto gli protegge la schiena, ma il volto gli si contrae per il dolore quando il sasso gli ferisce il cranio. Resto di sopra, gli pianto un ginocchio nella pancia, lo afferro per il colletto della camicia con la sinistra, lo tiro verso di me e lo colpisco il più forte possibile con la destra, mirando col pugno appena sopra l'occhio. La sua testa colpisce di nuovo il sasso e sull'occhio gli si apre un piccolo taglio. Digrigna i denti per il dolore, gli occhi gli si chiudono per un istinto di difesa. Animato dall'adrenalina, lo colpisco ancora e il taglio si allarga e si arrossa. Il vero danno, però, è provocato dal sasso sotto la sua testa. A ogni pugno si sente un disgustoso gkkkk, il sasso gli penetra tra i capelli neri e gli affonda nella nuca. Ancora stordito dalla ferita alla mano destra, si porta la sinistra alla testa, cercando di proteggersi dal sasso. Io non lascio che si riprenda e lo colpisco, ancora e ancora. Questo è per le operazioni chirurgiche che ho subito. Questo per avere dovuto imparare a masticare sempre dalla parte sinistra. Questo per non potermi più leccare le labbra... Sotto di me, il Romano infila la mano sinistra fra la sua testa e il sasso. È solo allora, col braccio piegato in aria, che capisco che non intende proteggersi la testa dal sasso. Lo sta tirando fuori dal terreno. Oh, merda. Gli do un pugno più forte che posso. Il Romano muove il braccio sinistro come una mazza da baseball. Ha il sasso nel pugno. Io sono veloce. Lui lo è di più. Il lato acuminato del sasso mi penetra nella mandibola come un rasoio sulla punta di un missile, facendomi cadere sulla spalla sinistra, fra l'erba
bagnata ai bordi del vialetto. Il Romano sente vicina la vittoria ed è quasi in piedi. Mi rialzo, il più velocemente possibile, striscio per portarmi fuori tiro prima che riesca a... Mi colpisce con il sasso, la sua mazza personale. È un colpo forte, appena sopra il collo, alla base del cranio. Lo sento tutto. Mentre precipito in avanti, incapace di fermarmi, la mia visione si offusca, poi torna chiara. Non svenire adesso... Cado sulle ginocchia e sulle mani. La ghiaia del vialetto mi morde i palmi. Il Romano è subito sopra di me. Respira pesantemente dal naso. Il suo piede slitta sul vialetto e manda una manciata di ghiaia contro la mia schiena. «Ci sei!» Mi afferra per la camicia. Cerco di correre, ma mi trattiene con forza. «Sei morto, bastardo!» ruggisce facendomi girare come un martello olimpico e gettandomi all'indietro contro il ferro battuto che protegge le vetrate rosse e blu della cappella. Se ci finisco contro a questa velocità... C'è uno schianto terribile quando la mia schiena li urta e una mezza dozzina di pannelli di vetro si spaccano scoppiettando come fuochi d'artificio, uno dove la mia testa tocca il vetro. C'è qualcosa di caldo e umido sulla mia nuca. Lo sento. Sto sanguinando molto. Quando il Romano mi trascina in avanti, il collo mi cede e la testa mi va all'indietro. La pioggia cade al rallentatore, milioni di aghi di pino d'argento e di ghiaccio. La mia vista si offusca di nuovo. Il cielo trascolora... «Nnnnnnnn», mi sento dire, lottando per restare sveglio mentre mi trascina lontano dalla cappella. Tenendomi per la camicia, si guarda intorno un attimo. Lisbeth è svenuta. La First Lady è scappata. Nico è a terra. Qualunque cosa avesse in mente il Romano, adesso deve improvvisare. I suoi occhi osservano... E lo vede. Mi strattona con violenza, io cado in avanti, incapace di mantenere l'equilibrio. Infilandosi la mia testa sotto il braccio, gira su sé stesso, mi blocca e mi trascina lungo il vialetto come un cane che venga allontanato dalla sala da pranzo. Il suo polso massiccio mi preme sulla gola e mi rende quasi impossibile respirare. Tento di puntare i piedi, ma la mia capacità di lottare si è ormai esaurita. È solo quando attraversiamo il vialetto, però, che capisco qual è la nostra meta. Dietro due lapidi grigie gemelle, c'è una zona d'erba che brilla più chiara di quella circostante. In fondo a quella zona, un pezzetto di erba è rivoltato, come l'angolo di un tappeto. Oh, Dio. Questa è Astroturf. Mi sta trascinando verso... una tomba appena scavata.
112 Trascinato verso il buco aperto, lotto freneticamente, quasi vomitando il mio pomo d'Adamo. Il Romano mi stringe sempre più la testa e mi porta verso il buco. «Lasciami!» urlo aggrappandomi al suo braccio e cercando di liberare la testa. Non cede di un millimetro, anzi accentua la stretta. I piedi mi scivolano sul vialetto, sull'erba bagnata, mentre procediamo verso le tombe gemelle, le braccia e le gambe mi si agitano selvaggiamente in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Ai piedi delle due lapidi uguali, rettangolari, afferro il ramo di un cespuglio vicino. Cerco di trattenerlo, ma stiamo andando così veloci che i rametti mi feriscono il palmo della mano. Il dolore è troppo intenso. Con un ultimo grugnito, il Romano mi lascia libero. La tomba appena scavata è proprio lì davanti, ma mentre ci infiliamo fra le tombe mi butto sulla sinistra e mi aggrappo a una lapide. Le mie dita strisciano come tarantole sulla pietra e si infilano nella lettera R della scritta MARITO. Rabbiosamente, il Romano mi afferra alla gola. Sento la faccia che si gonfia di sangue. Ma non lascio la presa. Lui tira più forte e le mie dita incominciano a scivolare. L'angolazione da cui mi tira fa sì che lo spigolo di granito della lapide rettangolare mi graffi l'interno del braccio. Il Romano dà uno strattone tale che la testa sembra debba staccarsi dal collo. Mi brucia la spalla. Le dita mi scivolano. Il granito è già scivoloso per la pioggia. Allungando la gamba verso la tomba dietro di noi, il Romano allontana la copertura di Astroturf. Io riesco a intravedere il buco di tre metri... le pareti di terra... Affondo le dita, ma le lettere sono poco incise. La mano destra del Romano è coperta di sangue, inutilizzabile a causa della ferita. Senza dubbio sta soffrendo. Ma sa cosa c'è in gioco. Si china, stringe la presa e si serve di tutto il suo peso. I miei piedi scivolano lentamente sull'erba. Cerco di prendere fiato, ma non ci riesco, mi stringe troppo forte. Ho il braccio insensibile. Le dita che tremano, stanno per mollare la presa. Il buio incombe di nuovo da tutte le parti. Dio, ti prego, abbi cura di mia madre e... Bang! Bang! Frammenti di ghiaia mi schizzano in faccia. La presa del Romano si allenta. E io cado sull'erba bagnata, tossendo e ansimando mentre l'ossigeno mi torna a fluire nei polmoni.
Sopra di me, la parte superiore della lapide del marito è scheggiata da una pallottola. Guardo il Romano, che si gira per affrontarmi. I suoi occhi azzurri ammiccano ansiosi. C'è un nuovo buco nella sua camicia, al centro del petto. Ma niente sangue. Arretra incespicando, ma non per molto. Sulla mia sinistra, a pochi passi di distanza, Lisbeth è in piedi, ansimante. La sua mano sanguina reggendo la pistola del Romano. Quando l'abbassa, pensa di avere vinto. «Lisbeth», tossisco lottando per riuscire a parlare. «Il giubbotto!» Lisbeth spalanca gli occhi. Ruggendo come un ghepardo, il Romano si getta su di lei. In preda al panico, la ragazza alza la pistola e preme il grilletto. Partono due colpi. Entrambi si piantano nel petto del Romano. Lui si muove talmente veloce che quasi non lo rallentano neppure. Ormai vicinissimo, fa per prendere la pistola. Lisbeth preme il grilletto un'ultima volta e quando la pistola spara la pallottola colpisce di lato il collo del Romano. Lui è talmente in preda alla rabbia che credo non se ne accorga neppure. Lisbeth arretra, quasi incapace di gridare. Il Romano le è addosso in pochi istanti. Le strappa l'arma dalle mani e l'aggredisce a testa bassa. Cadono entrambi sul vialetto, la testa di Lisbeth sbatte sul cemento. Il suo corpo si accascia. Il Romano, per non correre rischi, spinge il braccio contro la sua gola. Le gambe di Lisbeth non scalciano. Le sue braccia sono immobili. Riscuotendomi, balzo in piedi e passo le mani fra l'erba, tastando con le dita i pezzi di granito della lapide. In un giorno qualsiasi, non avrei alcuna speranza contro un agente segreto alto uno e novanta, pesante ottanta chili e addestrato. Ma in questo momento il Romano ha una ferita fresca al collo e un'altra nella mano. E io impugno un pezzo di granito tagliente. Mentre corro verso di lui, è ancora chino su Lisbeth. Non so se riuscirò ad abbatterlo. Ma sono sicuro che gli lascerò un segno. Tiro indietro il pezzo di granito, stringo i denti e miro alla nuca del Romano con tutte le forze che mi restano. Il pezzo di pietra ha la forma di un mattone spaccato in due, con una punta in un angolo. Lo colpisce proprio dietro l'orecchio. Il suo grido mi ripaga a sufficienza, un gemito profondo che neanche lui riesce a trattenere. Devo riconoscergli che, mentre si porta la mano alla testa, non cade. Riesce invece a mantenere l'equilibrio, si gira per affrontarmi, rimettendosi in piedi. Ma prima che possa girarsi del tutto, io vibro un altro colpo, cogliendolo in piena faccia. Il Romano cade all'indietro, sul sedere. Ma non lo lascio. Imitando la sua tecnica, lo afferro per la camicia, lo tiro verso di
me e miro al taglio sopra l'occhio. Poi prendo lo slancio e lo colpisco di nuovo. Il sangue sgorga abbondante. Un filo di bava pende come seta dal mio labbro inferiore. È colpa sua se la mia bocca non può più chiudersi, mi dico colpendolo di nuovo, ficcando l'orlo della pietra nella sua ferita e guardando il sangue che gli copre mezza faccia. Come me. Come la mia. I suoi occhi si rovesciano all'indietro. Lo colpisco di nuovo, deciso ad allargare la ferita. La mia saliva continua a scendere e io lo martello più forte che mai. Voglio che sappia. Voglio che guardi. Ogni colpo gli porta via un frammento di pelle. Voglio che viva così. Voglio che non riesca più a guardarsi nel riflesso di una vetrina! Voglio che... Mi fermo, con la mano a mezz'aria, il petto ansimante, a riprendere fiato. Abbasso il pugno, mi asciugo le labbra e ricomincio a sentire la pioggia gentile che mi cola dal naso e dal mento. Non lo auguro a nessuno. E con questo lascio andare la camicia del Romano, e lui mi crolla sui piedi. Il blocco di granito mi cade di mano, con un tonfo, sul cemento. Torno da Lisbeth, ancora distesa per terra dietro di me. Un braccio è in una strana posizione al di sopra della testa. Mi inginocchio e controllo il suo petto. È immobile. «Lisbeth, sei...? Mi senti?» grido muovendomi sulle ginocchia accanto a lei. Nessuna risposta. Oh, Dio. No, no, no... Le prendo il braccio per sentire il polso. Non sento niente. Senza perdere tempo, le inclino la testa, le apro la bocca e... «Hgggggh!» Faccio un salto all'indietro quando tossisce violentemente. Con la mano destra, d'istinto, si copre la bocca. Ma la sinistra - quella ferita - resta in quella strana posizione sopra la testa. Sputa con un conato mentre il sangue le riaffluisce al volto. «S... stai bene?» le chiedo. Tossisce con forza. Non c'è male. Guardandosi intorno senza muovere la testa, scorge il corpo del Romano a pochi passi di distanza. «Ma dobbiamo... abbiamo bisogno...» «Rilassati», dico. Scuote la testa, più insistente che mai. «Ma... e... e la...?»
«Calma. L'abbiamo battuto, ok?» «Non lui, Wes, lei!» Mi si chiude la gola mentre la pioggia leggera mi batte sulle spalle. «Dov'è la First Lady?» 113 Percorrendo l'isolato, con l'ombrello sulla testa, la First Lady si guardò alle spalle. Dietro di lei, nel cimitero, si sentirono altri due colpi d'arma da fuoco. La caviglia le cedette al rumore. Ma lei non rallentò. Oscillò un istante, recuperò subito l'equilibrio e continuò a procedere, sempre tremando. Sapeva che sarebbe finita così. Anche quando le cose erano tranquille, anche quando aveva capito per la prima volta con chi si era ingenuamente alleata, sapeva che non sarebbe mai finita. Non c'era rimedio a un errore del genere. Altri due colpi furono sparati, poi un ultimo echeggiò dietro gli alberi alti. La First Lady sussultava a ogni esplosione. Era il Romano o...? Non voleva che Wes morisse. Oltre a Boyle, il fatto che Wes fosse stato colpito all'autodromo era una cosa che non si era mai perdonata, in tutti quegli anni. Per questo aveva sempre cercato di aiutarlo... e non aveva mosso obiezioni quando suo marito l'aveva ripreso a bordo. Ma adesso che Wes sapeva la verità... Scosse la testa. No. L'avevano ingannata. Ecco. Lei cercava solo di aiutare. La First Lady svoltò bruscamente a destra, all'angolo. I suoi tacchi risuonavano sul cemento mentre arrivava al piccolo posteggio collocato a sud del cimitero. A quell'ora, era vuoto, tranne che per la Chevrolet Suburban nera con cui il Romano l'aveva portata lì. Si affrettò al posto di guida, spalancò la portiera e salì in macchina, mentre metteva a punto la sua versione dei fatti. La presenza di Nico... il buco nella mano di Lisbeth... questa parte era facile. L'America ama dare la colpa ai pazzi. E anche se Wes riusciva a sopravvivere... Esaminando le possibilità, la First Lady, allungò la mano per sistemare lo specchietto retrovisore. Ci fu un forte sibilo alle sue spalle. Un cerchio nero delle dimensioni di un centesimo si aprì sul dorso della sua mano, mentre lo specchietto finiva in pezzi. In un primo momento, non sentì nulla. Nei pochi frammenti di vetro che rimanevano, vide una figura familiare seduta di dietro, con le dita che facevano scorrere un rosario. «Vi ho visto quando siete arrivati», disse Nico, con voce calma.
«Oh, Dio... la mia mano», gridò lei vedendola e stringendosi il palmo tremante mentre l'acuto dolore le saliva fino al gomito. «Sei più alta di quel che pensavo. Eri seduta durante le udienze preliminari.» «Ti prego», gemette lei con gli occhi già pieni di lacrime, mentre la mano perdeva sensibilità. «Ti prego, non uccidermi.» Nico non si mosse. Con la destra, si teneva la pistola sul grembo. «Mi ha sorpreso vederti con il Numero Uno. Come lo chiamavano? Il Romano? Mi ha anche ferito.» Nello specchio rotto, la First Lady vide che Nico si guardava la sommità del petto, dov'era stato colpito. «Sì... sì, certo», disse. «Il Romano ci ha ferito tutti e due, Nico. Mi ha minacciato, mi ha costretto a seguirlo e...» «Anche Dio mi ha ferito», la interruppe Nico. La sua mano sinistra stringeva il rosario, il suo pollice passava da un grano all'altro, contando le Ave Maria. «Dio mi ha portato via mia madre.» «Nico, tu...» Le si ruppe la voce. «Dio... per favore, Nico... abbiamo perso tutti...» «Ma sono stati i Tre a prendermi mio padre», aggiunse lui alzando la pistola e premendola contro la nuca della First Lady. «È stato un mio errore. Non il destino. Non i massoni. I Tre l'hanno ucciso. Quando mi sono unito a loro... quello che ho fatto in loro nome... non capisci? Ho frainteso il Libro. Per questo Dio ha dovuto inviarmi l'angelo.» Rabbrividendo in maniera incontrollabile, la First Lady alzò le mani in aria e tentò di guardarsi alle spalle. Se riusciva a girarsi... a farsi guardare in faccia... a farsi vedere come un essere umano... «Per favore, no... non farlo!» pregò osservando Nico e lottando contro le lacrime. Erano quasi dieci anni che non veniva assalita da un pianto profondo. Da quando avevano lasciato la Casa Bianca, erano tornati in Florida, avevano tenuto una breve conferenza stampa sul prato di casa e avevano capito, una volta rimasti soli, che nessuno avrebbe raccolto le tazzine del caffè lasciate dai giornalisti sul prato. «Non posso morire così», singhiozzò. Impassibile, Nico tenne la pistola immobile, puntata contro la testa della First Lady. «Ma non c'erano solo i Tre, vero? Ho sentito la giornalista, dottoressa Manning. Io so. I Quattro. È questo che ha detto, vero? Uno, due, tre, e tu sei il Quattro.» «Nico, non è vero.» «Ho sentito. Sei il Quattro.»
«No... perché avrei dovuto?» «Uno, due, tre, tu sei il Quattro», ripeté lui, con le dita che si muovevano sul rosario. «Per favore, Nico, ascoltami...» «Uno, due, tre, tu sei il Quattro.» Le sue dita continuavano a contare tranquillamente, grano dopo grano. Aveva già superato la metà. Mancavano solo sedici grani. «Uno, due, tre, tu sei il Quattro. Uno, due, tre, tu sei il Quattro.» «Perché non mi ascolti?» singhiozzò la First Lady. «Se tu... io posso aiutarti.» «Uno, due, tre, tu sei il Quattro.» «...Posso... Perfino...» La sua voce acquistò sicurezza. «Posso dirti come è morta tua madre.» Nico si fermò. La sua testa si inclinò di lato, ma la sua espressione era calma come sempre. «Menti.» Il suo dito scivolò sul grilletto e lo premette. Facilmente. Ci fu un sibilo acuto, e un pffft che sembrava l'esplosione di un melone. L'interno del parabrezza fu spruzzato di sangue. La First Lady scivolò di lato e quello che restava della sua testa colpì il volante. Senza quasi notarla, Nico si puntò la pistola alla tempia. «Il tuo destino è il mio, dottoressa Manning. Vengo a raggiungerti all'inferno.» Senza chiudere gli occhi, premette il grilletto. Click. Lo premette di nuovo. Click. Vuota... È vuota, realizzò guardando la pistola. Un leggero riso nervoso salì dalla sua gola. Guardò il soffitto della macchina, poi di nuovo la pistola, che ben presto si confuse in un'ondata di lacrime. Ma certo. Era una prova. Per verificare la sua fede. Un segno di Dio. «Uno, due, tre, tu sei il Quattro», sussurrò, mentre il suo pollice contava gli ultimi grani del rosario e si fermava sull'immagine di Maria. Con un sorriso che neanche lui poteva trattenere, Nico rialzò gli occhi al soffitto, si portò il rosario alle labbra, lo baciò. «Grazie... grazie, Signore!» La prova, quindi, era finita. Il Libro poteva finalmente essere chiuso. 114
La mattina successiva, dieci minuti dopo le sette, sotto un cielo coperto, sono seduto da solo nel retro di una Chevrolet Suburban. L'odore di nuovo è sufficiente a farmi capire che non si tratta di una delle nostre macchine abituali. Di solito, questo mi provoca eccitazione. Dopo stanotte, non più. Davanti, i due agenti siedono silenziosi, a disagio, per tutto il viaggio. Naturalmente mi dicono qualche frase di circostanza - «Come va la testa? Ti senti bene?» - ma frequento i Servizi segreti da troppo tempo per non sapere che hanno ricevuto l'ordine di tenere la bocca chiusa. Quando svoltiamo a sinistra su Las Brisas, vedo le camionette della tv e i giornalisti che mi aspettano. Si affollano contro il nastro giallo quando ci vedono arrivare, ma la mezza dozzina di agenti li tiene facilmente sotto controllo. Sulla mia sinistra, quando la macchina si accosta ai cespugli ben curati davanti alla casa e l'alto cancello di legno bianco si spalanca, una giornalista asiatica racconta... di nuovo: l'ex First Lady Lenore Manning... ma arretra gentilmente per lasciarci passare. I giornalisti e la stampa sanno solo che è morta e che Nico l'ha uccisa. Se sapessero che ruolo ha avuto... quello che ha fatto... un esercito di agenti non riuscirebbero a tenerli a bada. I Servizi segreti, che fingono di non sapere nulla, hanno detto che siccome Nico è ancora in circolazione hanno ritenuto più sicuro accompagnarmi. È una buona bugia. E quando gli agenti hanno bussato alla mia porta stamattina ci ho quasi creduto. Mentre il cancello si chiude lentamente dietro di noi, mi guardo bene dal voltarmi per farmi fotografare la faccia, soprattutto con i tagli sul naso e l'occhio gonfio e violaceo. Al contrario, studio il vialetto di mattoni che conduce fino alla familiare casa azzurra. Ai due lati della Suburban, sei agenti, che non ho mai visto prima, osservano il cancello che si chiude, assicurandosi che nessuno si intrufoli dentro. Poi, quando apro la portiera e scendo, mi guardano tutti. Devo riconoscere che distolgono lo sguardo alla svelta, come se non sapessero cosa sta succedendo. Ma quando si tratta di cogliere delle occhiate nascoste, io sono una cintura nera. Mentre raggiungo la porta d'ingresso, tutti mi osservano ancora una volta. «Wes, vero?» chiede un agente afroamericano con la testa pelata aprendo la porta e facendomi entrare. Di solito, gli agenti non stanno all'interno della casa, ma oggi è diverso. «Ti aspetta nella biblioteca. Se vuoi seguirmi...» «So dov'è», dico avanzando per superarlo. Lui fa un passo di lato e mi blocca. «Ne sono sicuro», dice con un falso sorriso. Come gli agenti all'esterno, è in borghese, ma il microfono sul ba-
vero... Quasi mi sfugge, all'inizio. È più piccolo di una capocchia di spillo. Non danno questo tipo di tecnologia agli agenti che si occupano degli ex presidenti. Chiunque sia, questo non è dell'ufficio di Orlando, viene dal D.C. «Se vuoi seguirmi...» Si volta e mi guida lungo il corridoio centrale, nella sala per ricevere, accanto al divano di velluto color oro su cui ieri erano posati gli occhi di Madame Tussauds per Leland Manning. «Eccoci», dice l'agente, fermandosi davanti alle porte scorrevoli in fondo a sinistra. «Io resto qui», dice indicando l'atrio. Non lo fa per rassicurarmi. Lo guardo allontanarsi, mi mordo la pelle morta all'interno della guancia e afferro la maniglia di ottone a forma di aquila. Ma appena tocco l'aquila, la maniglia si muove da sola e la porta si apre. Ero così impegnato a guardare l'agente che non ho visto lui. I nostri sguardi si incrociano immediatamente. Stavolta, però, quando vedo il castano con il lampo di azzurro, lo stomaco non mi sprofonda. E lui non scappa. In piedi sulla soglia, mentre si gratta con le dita la punta della testa, Boyle si costringe a un incerto sorriso. Da quello che Rogo mi ha detto stanotte, dovevo aspettarmi di trovarlo qui. Stupidamente, però, pensavo di essere il primo. È sempre stato il mio problema, quando si tratta del presidente. Boyle fa un passo avanti, si chiude la porta alle spalle e mi blocca ancora più deciso dell'agente di prima. «Ascolta, Wes... ehm... hai un secondo?» Il presidente mi aspetta nella biblioteca. Ma per la prima volta da quando sono nell'orbita personale di Manning... be', per una volta può aspettare. «Certo», rispondo. Boyle annuisce per ringraziarmi e si porta la mano dalla testa alla guancia. È difficile, per lui. «Devi metterci su un impacco caldo», dice alla fine. Vede la mia confusione e aggiunge: «Sull'occhio. Tutti pensano che sia meglio il freddo, ma il giorno dopo il caldo aiuta di più.» Mi stringo nelle spalle, non mi preoccupa il mio aspetto. «A proposito, come sta la tua amica?» chiede Boyle. «Amica?» «La giornalista. Mi hanno detto che è stata ferita.» «Lisbeth? Sì, è ferita», dico osservando i lineamenti aguzzi di Boyle. «Il colpo alla mano è stato il peggiore.» Boyle annuisce, guardandosi la vecchia cicatrice al centro del palmo. Non dice niente, però.
«Wes, io... mi dispiace di averti tenuto all'oscuro in quel modo. In Malaysia, mentre cercavo di arrivare a Manning... In tutti questi anni, pensavo che forse mi aveva ingannato, che forse era lui il Quarto... Quando ho trovato il cruciverba e ho capito che era lei... e poi quando ti ho visto... mi ha preso il panico. E quando O'Shea e Micah si sono messi sulle tue tracce...» Aspetta che io completi il suo pensiero, che mi metta a urlare per il fatto che mi ha usato come esca, negli ultimi giorni; che lo accusi di tutte le bugie, gli inganni... per ogni grammo del senso di colpa che per otto anni ho dovuto sopportare. Ma lo guardo attentamente, e vedo le profonde occhiaie e le dolorose rughe verticali che ha incise in mezzo alla fronte... Stanotte, Ron Boyle ha vinto. Ha battuto tutti - il Romano, Micah e O'Shea, perfino la First Lady - tutti quelli a cui ha dato la caccia per tanto tempo. Ma è doloroso vederlo adesso, mentre si lecca le labbra ansioso. Non c'è gioia nella sua espressione, non c'è vittoria sul suo volto. Otto anni dopo l'inizio della sua ordalia, resta solo un uomo anziano, con il naso schiacciato e il mento rifatto, gli occhi vacui e un invincibile bisogno di controllare tutte le porte e le finestre vicine, cosa che fa per la terza volta da quando abbiamo incominciato a parlare. Soffrire è brutto. Soffrire da soli è molto peggio. Stringo i denti mentre cerco le parole. «Senti, Ron...» «Wes, non compatirmi.» «Io non...» «Invece sì», dice. «Sono qui davanti a te e tu mi compiangi ancora, come se fossi morto. Te lo leggo in faccia.» Si riferisce alle lacrime che mi riempiono gli occhi. Ma si sbaglia. Scuoto la testa e cerco di spiegarglielo, ma è come se le parole mi si fossero piantate nella gola. Dice qualcos'altro per farmi stare meglio, ma non lo odo. Sento solo le parole intrappolate dentro di me. Le parole che ho ripetuto nel sonno - ogni notte - e allo specchio, tutte le mattine, sapendo benissimo che non mi sarebbero mai uscite dalle labbra. Fino ad ora. Deglutisco a fatica e risento la folla all'autodromo, quel giorno. Tutti felici, tutti che salutano, finché, ecco, pop, pop, pop, l'urlo in Do minore mentre le porte dell'ambulanza si chiudono. Deglutisco di nuovo e finalmente, lentamente, le grida incominciano a svanire mentre le prime sillabe mi escono dalla bocca. «Ron», inizio, già ansimante. «Io...» «Wes, non devi...» Scuoto la testa e lo interrompo. Si sbaglia. Devo. E dopo quasi dieci an-
ni, con le lacrime che mi scendono sulle guance, finalmente ho la mia occasione. «Ron, io... mi dispiace di averti messo sulla limousine quel giorno», gli dico. «So che è stupido, ma devi sapere che mi dispiace, ok? Mi dispiace, Ron» ripeto mentre la voce mi si rompe e le lacrime mi colano dal mento. «Mi dispiace di averti fatto salire su quella macchina.» Di fronte a me, Boyle non risponde. Alza le spalle e per un istante sembra ancora il vecchio Boyle che mi urlava contro in quel rovente mattino di luglio. Mentre mi asciugo le guance, lui continua a guardarmi senza dire niente. Non lo capisco. Soprattutto quando non vuole farsi capire. Ma anche le migliori facciate ogni tanto mostrano delle crepe. Si gratta il naso per cercare di nasconderlo, ma noto il tremito del suo mento e la contrazione dolorosa della fronte. «Wes», dice alla fine, «in qualunque macchina mi avessi fatto salire, quella pallottola doveva comunque colpirmi.» Alzo lo sguardo, cercando ancora di riprendere fiato. Nel corso degli anni mia madre, Rogo, i miei psicologi, Manning, perfino l'investigatore capo dei Servizi, mi hanno ripetuto la stessa cosa. Ma io avevo bisogno di sentirmela dire da Ron Boyle. In pochi secondi, un timido sorriso si disegna sul mio volto. Scorgo il mio riflesso nei pannelli di vetro delle portefinestre. Il sorriso è storto, mi solleva una guancia sola. Ma per la prima volta da molto tempo, mi basta. Cioè: finché non scorgo un movimento e una figura familiare dall'altra parte del vetro. La maniglia di bronzo a forma di aquila si muove ancora e la porta si apre verso l'interno, alle spalle di Boyle. Boyle si gira e io alzo la testa. Torreggiante su di noi, il presidente Manning sporge la testa e mi fa un cenno, salutandomi imbarazzato. Il suo ciuffo di capelli grigi è lucido quanto basta per capire che non se li è lavati; il bianco degli occhi è iniettato di sangue. Sua moglie è morta stanotte. Non ha dormito neanche dieci minuti. «Io devo andare», dice Boyle. Da quello che ho saputo, Boyle ha dato la colpa della sua morte e della sua riapparizione a Nico e ai Tre. Non ai Quattro. Basta questo perché Manning ne faccia un eroe. Io non sono sicuro di potergli attribuire delle colpe. Ma, come sa bene Manning, io affronto le cose in maniera diversa da Boyle. Prima che possa dire una sola parola, Boyle mi passa di fianco, mi dà una breve pacca sulla spalla e lascia tranquillamente la stanza, come se andasse a pranzo. Ma quello che sta per essere mangiato sono io. Di solito, Manning si dirigerebbe semplicemente verso la biblioteca, si-
curo che io lo segua. Oggi, invece, apre tutta la porta e mi fa cenno di entrare. «Eccoti qua, Wes», dice. «Incominciavo a temere che non saresti venuto.» 115 «Ti ringrazio per essere arrivato così presto, Wes.» «Mi creda, io volevo venire stanotte.» Manning annuisce sobriamente e mi fa sedere davanti alla sua scrivania. Poi mi volta le spalle e osserva le foto incorniciate e i libri rilegati in pelle sugli scaffali di tiglio che ci circondano da tutte le parti. Ci sono foto che lo ritraggono col papa, con i due presidenti Bush, con Clinton, Carter, perfino con un bambino eritreo di otto anni, che pesava sì e no dieci chili quando Manning l'ha incontrato durante uno dei suoi primi viaggi all'estero. In ufficio le pareti sono tutte coperte di foto, qui a casa invece si trovano solo quelle che Manning preferisce - i suoi grandi successi personali ma solo quando sono sulla sedia dell'epoca della regina Anna mi accorgo che l'unica foto sulla scrivania ritrae il presidente con sua moglie. «Signore, mi dispiace...» «I funerali sono mercoledì», risponde lui continuando a esaminare gli scaffali, come se tra i premi per la pace, i mattoni dell'Hilton di Hanoi e le stampe del Muro del Pianto si trovasse qualche risposta importante. Alle sue spalle, anch'io guardo, la mano di bronzo di Abraham Lincoln appoggiata sulla scrivania. «Ci farebbe piacere se tu portassi la bara, Wes.» Non mi guarda ancora in faccia. La sua voce tirata mi fa capire quanto sia difficile per lui. Così come la mano che trema mentre se la infila in tasca. Da presidente, Manning ha seppellito trecentodue soldati americani, nove capi di stato, due senatori e un papa. Ma non si aspettava di dover seppellire sua moglie. «Portare la bara?» chiedo. «L'ha chiesto lei», dice Manning cercando di riprendersi. «L'ha lasciato scritto.» Quando un presidente e una First Lady lasciano la Casa Bianca, come se non fossero già abbastanza depressi, una delle prime cose che devono fare è dare istruzioni per il proprio funerale. I funerali di stato sono eventi nazionali che devono essere organizzati nel giro di poche ore, quasi sempre senza preavviso, per questo il Pentagono fornisce al presidente un elenco
di tutti i tristi dettagli: se si vuole la tomba nel Campidoglio, se si vuole una camera ardente aperta al pubblico, se si vuole tenere la cerimonia finale nella propria biblioteca o ad Arlington, quanti amici, familiari e dignitari debbano parteciparvi, chi debba pronunciare il discorso commemorativo, chi non debba essere invitato e naturalmente chi debba portare la bara. Una volta hanno addirittura mandato la guardia d'onore negli uffici della Manning Library per fare le prove con la bara che un giorno sarà la sua. Avevo cercato di tenere Manning lontano dall'ufficio, quel giorno, ma lui era lì e guardava dalla finestra la sua bara coperta dalla bandiera, che veniva portata nel giardino sul retro. «Sembro pesante», aveva osservato, facendo del suo meglio per scherzare. Ma era rimasto silenzioso al passaggio della bara. Adesso è ancora più silenzioso. «Signor presidente, non credo che sia più una buona idea. Dopo stanotte...» «È stata una sua scelta, Wes. Lo sai. Una scelta. Nel bene e nel male», dice con la voce che gli si spezza ancora. Cerca di essere forte - di fare il Leone - ma vedo che si aggrappa allo schienale della sedia per non cedere. Comunque sia andata, era sempre sua moglie. Come il fantasma dell'uomo che conoscevo, Manning sospira e si siede. Restiamo seduti tutti e due in silenzio, guardando la mano di Lincoln. «I Servizi segreti le hanno detto qualcosa a proposito di Nico?» chiedo alla fine. «Le sue impronte sono dappertutto, nella macchina. Il sangue sul sedile posteriore è il suo. Non c'è dubbio che sia stato lui a premere il grilletto. Ma dove sia fuggito, non l'hanno ancora scoperto», spiega. «Se temi che possa prendersela con te, in ogni caso, ho già chiesto ai Servizi...» «Non se la prenderà più con me», dico. Manning mi guarda. «Quindi, al cimitero, vi siete parlati?» «Sì.» «E vi siete chiariti?» «Non del tutto... ma...» Ci penso un attimo. «Non tornerà più.» «Bene. Ne sono lieto per te, Wes. Ti meriti un po' di tranquillità.» È generoso a dire così, ma è chiaro che sta pensando ad altro. Va bene. Anch'io. «Signore, so che non è il momento migliore, ma mi chiedevo se posso...» Mi fermo, rammentandomi che non ho bisogno del suo permesso. Guardo la mano di Lincoln. «Vorrei parlarle della mia situazione.» «Quale situazione?»
«Il mio lavoro, signor presidente.» «Certo, certo... è giusto», dice, chiaramente sorpreso. «Pensavo che date le circostanze...» «Non devi dire niente, Wes. Non importa come sia finita, tu fai sempre parte della famiglia per noi. Se temi di non avere più il tuo posto...» «In realtà, signor presidente, pensavo che è il momento di passare ad altro, per me.» I nostri sguardi si incrociano, ma il suo è fermo. Credo che sia colpito soprattutto dal fatto che la mia non è una domanda. Finalmente fa una breve risata gentile. «Buon per te, Wes», dice indicandomi con il dito. «Sai, era molto tempo che aspettavo che me lo dicessi.» «La ringrazio, signore.» «E se hai bisogno di aiuto per trovare un lavoro, o di una raccomandazione o cose simili... non dimenticare che c'è ancora scritto presidente sul mio biglietto da visita. Speriamo che riesca ugualmente a impressionare qualcuno là fuori.» «Ne sono sicuro, signore», dico ridendo a mia volta. «Grazie, signor presidente.» Da come annuisce - con l'aria di un papà orgoglioso - è davvero un bel momento. Un momento di calore. Il momento perfetto per andarmene. Ma non posso. Non ancora. Non prima di avere saputo. «Cosa pensi di fare, allora?» mi chiede. Non rispondo, mi agito sulla sedia e mi dico di lasciare perdere. «Wes, hai dei progetti per il f...» «Lei lo sapeva?» sbotto. Manning alza un sopracciglio. «Prego?» Lo guardo fisso, fingendo che non siano state le tre parole più goffe che mi sono mai uscite di bocca. Mi faccio forza e ripeto: «Lei sapeva della First Lady? Di sua moglie?» Manning incrocia le dita, posando le mani sulla scrivania. Riconosco quando si arrabbia. Il fusibile è saltato. Ma l'esplosione, mentre resta seduto a guardarmi, non arriva. Dischiude le labbra e l'intreccio delle dita si scioglie. Non è arrabbiato. È ferito. «Dopo tutti i nostri... lo pensi davvero?» dice. Sprofondo nella sedia, mi sento alto tre centimetri. Ma non per questo ho intenzione di rinunciare alla mia risposta. «Ho visto il cruciverba... le sue valutazioni... fin dai primi giorni, è evidente che era preoccupato. Quindi...? Lei sapeva che la First Lady era il numero Quattro?»
A questo punto, avrebbe tutto il diritto di afferrarmi per la gola. Di gridare che lei era innocente, che l'avevano ingannata. Invece resta seduto, atterrato dalla domanda. «Wes, non pensarla come una Lady Macbeth. Era molte cose, ma non una manipolatrice.» «L'ho vista, questa notte. Anche nell'ipotesi migliore - anche se non sapeva chi fosse il Romano quando l'avvicinò la prima volta - dopo che Boyle era stato colpito, in tutti questi anni, non ha mai detto niente... Non mi sembra l'atteggiamento di una persona manipolata.» «Non ho detto che lo fosse. Quello che voglio dire è semplicemente che quei cruciverba... quello che hai visto con i tuoi occhi...» Si porta una mano alla bocca e si schiarisce la voce. «Non sono uno sciocco, Wes. Lenore era mia moglie. So bene quali erano le sue debolezze. E quando si trattava di restare nel grande castello bianco... L'hai visto anche tu. Eri con noi... Quando si vola così in alto, al di sopra delle nubi... l'unica cosa che temeva era di perdere quota e precipitare di nuovo a terra.» «Ciò non le dava il diritto di...» «Non la sto difendendo», dice Manning, pregandomi quasi di capire ciò che l'ha tenuto sveglio tutta la notte. Non può confidarsi con i Servizi segreti, né con altre persone dello staff. Senza sua moglie, non ha nessuno con cui parlarne, tranne me. «Sai com'era disperata. Tutti volevamo un secondo mandato. Tutti. Tu compreso, Wes.» «Ma lei ha detto... la storia delle nuvole... e conoscendo le sue debolezze... se sapeva tutto...» «Io non sapevo niente!» grida Manning con le orecchie rosse. «Sapevo che aveva paura. Sapevo che era paranoica. Sapevo che i primi tempi passava informazioni alla stampa, per esempio sui litigi all'interno dell'amministrazione, o sul fatto che non era stata consultata per la sistemazione dello Studio Ovale, perché era convinta che, se fosse riuscita a farsi amare dai giornalisti, non ci avrebbero mandato via, non ci avrebbero portato via tutto. Questo è quello che sapevo.» Abbassa la testa e si massaggia la fronte. «Ma», aggiunge, «non ho mai pensato che si fosse lasciata coinvolgere in una storia del genere.» Annuisco come se capissi. Ma non è così. «Quando abbiamo perso le elezioni, quando tutto si è calmato, perché...?» Cerco una parola più gentile, ma non c'è altro modo di dirlo. «Perché è rimasto con lei?» «È mia moglie, Wes. È stata al mio fianco da quando facevamo i cartelli elettorali a mano nel garage di mia madre. Da quando...» Alzando finalmente la testa, chiude gli occhi e cerca di riguadagnare la calma. «Vorrei
che potessi fare la stessa domanda a Jackie Kennedy o a Pat Nixon o ai Clinton.» Guarda le foto che lo ritraggono con gli altri presidenti. «Tutto è facile... finché non diventa complicato.» «E quando Boyle è stato colpito...» Manning mi guarda mentre dico queste parole. Non ha bisogno di dirmi niente. Ma sa quanto gli ho dato in tutti questi anni. E questa è l'unica cosa che io abbia mai chiesto in cambio. «Sapevamo che poteva succedere, ma non sapevamo quando», dice senza esitazioni. «Boyle mi venne a parlare qualche settimana prima e mi disse dell'offerta che aveva ricevuto dai Tre. Da quel momento... Be', sai con quanta rapidità agiscono i Servizi. Ho fatto tutto quello che potevo per proteggere il mio amico. Gli hanno dato un giubbotto antiproiettile, hanno preparato il suo sangue sull'ambulanza e hanno fatto del loro meglio per tenerlo al sicuro.» «Finché io non l'ho fatto salire sulla limousine.» «Finché Nico non gli ha piantato una pallottola nella mano e una nel petto», ribatte lui, tornando a guardarmi. «A quel punto l'hanno trasportato dai Marshals, che l'hanno curato, facendolo passare di città in città, e l'hanno inserito al livello più alto del programma WITSEC. Naturalmente lui non voleva, ma sapeva quali erano le alternative. Il programma distrugge le famiglie, ma salva più vite di quel che pensi.» Annuisco mentre il presidente si alza dalla sua grossa poltrona. Da come si appoggia ai braccioli per sollevarsi lentamente, è più stanco di quanto lasci capire. Ma non mi chiede di andare via. «Se la cosa ti può consolare, Wes, credo che se ne sia pentita. Soprattutto per quello che è successo a te.» «Lo apprezzo molto», dico cercando di apparire entusiasta. Lui mi studia attentamente. Io sono bravo a capirlo. Lui è ancora più bravo a capire me. «Non lo dico per dire, Wes.» «Signor presidente, non ho mai pensato altrim...» «Pregavamo insieme prima di andare a letto. Lo sapevi? Era un nostro rito, fin da quando ci siamo sposati», mi spiega. «E durante il primo anno ha pregato per te tutte le sere.» L'errore numero uno che molte persone fanno quando incontrano il presidente è che cercano di prolungare la conversazione. È un momento unico, nella loro vita, per cui dicono qualunque sciocchezza, pur di farlo durare. Io mi alzo dalla sedia e vado verso la porta. «Devo proprio andare, si-
gnore.» «Capisco. Vai a fare quello che devi», dice Manning aggirando la sua scrivania. «Ti dico una cosa, però», aggiunge seguendomi verso la porta. «Sono contento che ti abbia scelto per portare la sua bara.» Si ferma per riprendere fiato. «Solo chi fa parte della famiglia dovrebbe portarla.» Già per metà oltre la soglia, mi volto. Porterò queste parole con me per il resto della mia vita. Ma ciò non vuol dire che ci creda. Allunga la mano per stringere la mia e mi fa la stretta avvolgente, a due mani, che di solito usa con i capi di stato e i donatori di livello presidenziale. Mi trattiene addirittura un attimo, toccandomi il polso. Forse era una cosa non detta. Forse l'ha capito. Per quel che ne so, la First Lady potrebbe anche avergli confessato tutto. Ma una cosa è chiara, ed è l'unica cosa che ha detto e che non può essere discussa: Leland Manning non è uno sciocco. Sapeva che Boyle aveva intenzione di dire no ai Tre. Quando Boyle è caduto, quindi, doveva supporre che fossero riusciti a raggiungere qualcuno più in alto di lui. Mentre attraverso il salotto, diretto alla porta d'ingresso, scorgo l'enorme fotografia in bianco e nero che lo mostra, da dietro, alla scrivania dello Studio Ovale. Certo, quei quattro anni sono stati grandiosi. Ma per lui sarebbe stato ancora meglio averne altri quattro. «Fammi sapere se hai bisogno di qualsiasi cosa», mi grida il presidente dalla sala. Lo saluto con un cenno e lo ringrazio un'ultima volta. Il Leone Codardo potrà non avere coraggio. Ma sicuramente ha cervello. Sa che ero in giro con una giornalista. Sa che lei aspetta una mia telefonata. E soprattutto sa che, quando si tratta di tatto politico, il tatto migliore è quello che non si sente. Per otto anni non ho sentito niente. Adesso sento tutto. «Hai avuto quello che volevi?» mi chiede l'agente pelato aprendomi la porta. «Credo di sì.» Esco e tiro fuori di tasca il cellulare, faccio il numero della sua stanza d'ospedale e seguo il vialetto di mattoni rossi. Quando Herbert Hoover lasciò la Casa Bianca, disse che il servizio migliore che può fare un ex presidente è allontanarsi dalla politica e dalla vita pubblica. È ora che io faccia lo stesso. «Gli hai parlato?» chiede Lisbeth, rispondendo al primo squillo.
«Certo che gli ho parlato». «E?» Dapprima non rispondo. «Dai, Wes, non è più una rubrica di pettegolezzi, questa. Che cosa pensi di Manning?» In fondo al vialetto, davanti al garage, mezza dozzina di agenti nuovi di zecca mi osservano attentamente mentre quello più vicino tenta di portarmi verso la Suburban. Davanti al cancello, il branco di giornalisti scuote la testa sconsolato mettendo insieme frammenti di filmati per onorare la First Lady caduta. Alla sua morte si accompagna l'inevitabile ondata di tristezza e di comprensione da parte di commentatori che hanno passato la carriera a farla a pezzi. Mi sembra già di sentire le loro voci sommesse e reverenti. L'amavano. I loro spettatori l'amavano. Tutto il mondo l'amava. Io devo solo tenere la bocca chiusa. «Va bene», dice Lisbeth. Sa che cosa faranno i giornalisti della mia vita, se dovessi essere io a parlare per primo. «Gli dirò di andare avanti con il vecchio programma.» «Ma tu...?» «Tu hai combattuto la tua battaglia, Wes. Nessuno può chiederti di fare di più.» Mi avvicino il cellulare alla bocca e mi ricordo ancora una volta che tutte le opportunità che ho avuto nella mia vita sono venute dai Manning. Le mie parole sono un sussurro. «Fatti mandare il portatile. Voglio che tu scriva tutto. La gente deve sapere quello che ha fatto.» Lisbeth fa una pausa, lasciandomi tutto il tempo di rimangiarmi queste parole. «Ne sei sicuro?» chiede alla fine mentre un agente col naso schiacciato mi apre la portiera della Suburban. Io lo ignoro e oltrepasso l'auto, dirigendomi verso il cancello di legno e la folla crescente che si è raccolta all'esterno. «Lisbeth?» dico aprendo il cancello, mentre il plotone d'esecuzione delle telecamere si volta nella mia direzione. «Nessuna esitazione.» 116 Due settimane più tardi Una rara neve italiana scendeva leggera dal cielo mentre l'uomo attraversava via Mazzarino, spingendo il mento contro il bavero del cappotto di
lana a spina di pesce. Aveva i capelli biondi, adesso, ma si avvicinava comunque con circospezione a Sant'Agata dei Goti, la chiesa cinquecentesca che pareva nascondersi nella stretta via lastricata. Oltrepassando l'ingresso, alzò gli occhi verso la facciata. Il rilievo sulla porta rappresentava sant'Agata che reggeva il proprio seno tagliato su un piatto, vittima di torturatori che l'avevano aggredita perché si era rifiutata di rinunciare alla fede. «Sia lodato», sussurrò fra sé l'uomo girando a destra. Seguì le indicazioni per l'ingresso laterale, in via Panisperna, percorrendo il vialetto irregolare coperto di neve. In fondo al vialetto, si pulì i piedi sullo zerbino consumato e aprì le doppie porte marroni. Dentro, l'odore di legno bagnato e di candele alla rosa lo accolse e lo riportò alla vecchia chiesa di pietra del villaggio in cui era cresciuto, agli inverni del Wisconsin che avevano accompagnato la sua infanzia, al momento in cui sua madre era morta. I cardini stridettero di nuovo - e lui di nuovo sussultò - quando la porta sbatté alle sue spalle. Senza perdere tempo, l'uomo osservò i banchi vuoti e l'altare deserto, poi scrutò fra le colonne di granito orientale che segnavano la navata centrale. Nessuno in vista. I suoi occhi si socchiusero, mentre si metteva in ascolto. L'unica cosa che sentì fu un sussurro sommesso. Proprio come doveva essere. Sentendosi il cuore che batteva nel petto, corse alla sua meta, sui colori spenti del pavimento a mosaico, fino al confessionale di mogano accanto all'altare. Avvicinandosi, seguì il sussurro che proveniva dall'interno del confessionale. Non era mai venuto qui prima, ma quando aveva visto la foto sul dépliant dell'agenzia di viaggi... Sapeva di doversi fidare del destino. Sbottonandosi il cappotto e dando un'occhiata in giro, si inginocchiò davanti al confessionale. Il sussurro si interruppe. Fu solo allora, nel silenzio assordante di Sant'Agata dei Goti, che Nico abbassò la testa verso il confessionale. «Beneditemi, padre, perché ho peccato. È...» «Andiamo, Nico, sbrigati!» gridò l'infermiere alto. Guardandosi alle spalle, Nico vide, sulla moquette beige, il brutto leggio di quercia e la decina di sedie pieghevoli di metallo che costituivano la cappella al quarto piano del padiglione John Howard del St. Elizabeths e mise a fuoco i due infermieri che lo aspettavano presso l'unica porta della stanza. Erano passate circa due settimane da quando l'avevano trovato, nel
Wisconsin. Ma grazie a un nuovo avvocato, per la prima volta da anni aveva il diritto di andare alla cappella. Senza una parola, Nico si girò verso la croce di legno attaccata sulla parete di fronte, per il resto completamente nuda. Nel giro di pochi secondi, la moquette, il leggio e le sedie pieghevoli scomparvero di nuovo, rimpiazzate dal pavimento a mosaico, dagli antichi banchi e dal confessionale di mogano. «...È molto tempo che non mi confesso...» Inspirò a fondo il profumo di rosa - il dolce aroma che aveva sempre addosso sua madre - e chiuse gli occhi. Il resto venne facilmente. Dio gli garantì una fine. E lo riportò a casa per un nuovo inizio. EPILOGO Le ferite peggiori, nella vita, sono sempre quelle che ci infliggiamo da soli. Presidente Bill Clinton Palm Beach, Florida «È solo?» chiede la cameriera avvicinandosi al mio tavolo all'angolo del caffè all'aperto. «In realtà aspetto una persona», rispondo mentre posa un bicchiere d'acqua sulla mia tovaglietta di carta per impedirle di volare via. Siamo ad almeno due isolati dall'oceano, ma grazie alla via stretta c'è sempre una brezza piacevole. «Non vuole altro da bere, a parte l'ac...?» Si blocca quando alzo gli occhi, per la prima volta mi vede la faccia. Devo riconoscere che si riprende subito, finge un sorriso, ma il danno è fatto. «Aspetti, lei è quello che...» dice improvvisamente emozionata. «Prego?» «Ma sì, quella storia col presidente... Era lei, no?» Inclino la testa e faccio un minuscolo cenno di assenso. Lei mi studia per un momento, accenna un sorriso, si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e torna tranquillamente in cucina. «Santo salame, cos'era quella?» chiede una voce familiare dal marciapiede. Alla mia sinistra, Rogo corre verso la recinzione metallica che delimita lo spazio del bar.
«Rogo, non saltare...» Prima che possa dirlo, getta una gamba oltre la recinzione, si tira su e precipita sulla sedia accanto alla mia. «Non puoi usare la porta come tutti gli altri bipedi?» «No, no, no, non cambiare canale. Cos'era quel tête-à-tête con la cameriera?» «Tête-à-tête?» «Non fare il tonto con me, Ethel - ti ho visto - l'occhiata lunga... la ciocca di capelli... il dito-telefono quando si è portata il pollice all'orecchio a ha sussurrato chiamami nel mignolo...» «Non c'è nessun dito-telefono.» «Ti ha riconosciuto, vero?» «Vuoi smetterla?» «Ti ha visto a 60 Minutes? Lei adora il Morley Safer.» «Rogo...» «Non metterti contro di me, Wes, è un fatto indiscutibile: una cameriera può rendere una cena indimenticabile o rovinarla. Cogli il messaggio. Ci sta provando. Pro-van-do», sussurra gettando gli occhi al cielo mentre allunga una mano e mi ruba un sorso d'acqua. Vede il menu davanti a sé e aggiunge: «Hanno le fajitas qui?» «È una paninoteca.» «Paninoteca?» «Sai, dove fanno quelle cose col pane e...» «Scusa, hai un crampo alle palle?» Siccome non rido, fa girare la cannuccia nell'acqua, senza distogliere lo sguardo da me. Allora capisco a cosa mira davvero. «Va tutto bene, Rogo. Non devi cercare di rendermi allegro tutte le volte che parliamo.» «Non sto cercando di renderti allegro», ribatte lui. Fa girare ancora la cannuccia mentre la cameriera torna con un'altra tovaglietta e delle posate. Resta in silenzio mentre gliele sistema davanti. Quando la ragazza si allontana, lo guardo di nuovo. «Stai ancora pensando a una battuta intelligente per farmi ridere?» chiedo. «Ce l'avevo pronta, ma tu me l'hai rovinata!» dice lanciando la cannuccia in acqua, come un minigiavellotto. Siccome continuo a non ridere, scuote la testa e finalmente rinuncia. «Sai, sei davvero poco divertente.» «Tutto qui? Non hai critiche migliori?»
«Eccome!» aggiunge puntandomi contro un dito. «E... e... e... e...» Si interrompe. «Dai», geme, «fai un sorrisino, per favore! Se lo fai, ordino un succo d'arancia e faccio lo scherzo della finta risata alla cameriera, facendomela venire giù dal naso. Brucia che è un piacere. Vedrai!» «Sei molto generoso, Rogo. Ho solo bisogno... lasciami un po' di tempo.» «E cos'erano le ultime due settimane? Sei depresso come se avessi perso le Olimpiadi. Insomma, non è che la tua vita faccia schifo: interviste a ogni piè sospinto, tutti ti elogiano per avere salvato la situazione, le cameriere quasi carine ti riconoscono e ti portano l'acqua con la fettina di limone... Hai avuto i migliori quindici giorni della tua vita. Basta con le lamentele.» «Non sono lamentele. È che...» «...sei triste perché li vedi sprofondare tra le fiamme in questo modo. Ho sentito la solfa ieri, e l'altro ieri, e il giorno prima ancora. Ti hanno dato tante opportunità. Ti senti come Benedict Arnold. Lo capisco, Wes. Davvero. Ma come dicono in ufficio, la cosa che i Manning non ti hanno dato è stata la possibilità di scegliere. Il castello in cui stavi era un castello di sabbia.» Guardo i pedoni che ci passano accanto sul marciapiede. «Lo so, ma in ogni caso... Sono stato accanto a Manning per quasi dieci anni. Ero in ufficio prima che lui arrivasse e ci restavo finché non saliva per andare a letto. E non solo nei giorni di lavoro. Tutti i giorni. Per quasi dieci anni! Sai cosa vuol dire?» Chiudo gli occhi, non voglio dirlo. «Non sono venuto al matrimonio di tua sorella; ero in Ucraina quando i miei hanno festeggiato i trent'anni di matrimonio; il mio compagno di stanza del college ha avuto un bambino e io non sono ancora andato a trovarlo.» «È una bambina, ma non sentirti in colpa.» «Ecco il problema, Rogo, passare da ogni giorno a mai più... Non ho solo lasciato il mio lavoro. Ho lasciato, mi sembra di aver lasciato la mia vita.» Rogo scuote la testa come se io non capissi l'essenziale. «Hai mai giocato a Uno?» mi chiede tranquillamente. «A volte devi perdere tutte le tue carte, per vincere.» Guardo la mia acqua, osservo i cubetti di ghiaccio che galleggiano e fondono nell'alto bicchiere. «Sai benissimo che ho ragione», insiste Rogo. Una fessura si apre zigzagando in un cubetto di ghiaccio. Quando si spacca, i cubetti al di sopra finiscono sotto.
«Prova a vederla così», continua Rogo. «Almeno non sei Dreidel.» Gioco con la cannuccia contro il ghiaccio. Stavolta sono io che scuoto la testa. «Non mi dispererei ancora per Dreidel.» Vedendo la confusione sul volto di Rogo, gli spiego: «Non dimenticare perché ha avuto il suo soprannome. Magari non siederà al Congresso l'anno prossimo, ma segnati le mie parole: sarà sempre in alto loco.» «E Violet? Quando salterà fuori...» «Dreidel è rimasto defilato per una settimana, come è giusto, poi ha incominciato a diffondere abilmente la voce secondo cui avrebbe brillantemente aiutato i Marshals nella loro indagine sui Tre. Credimi, nell'istante in cui l'ho visto insieme alla sua ragazza nella stanza dell'albergo, si è messo a preparare il sorriso per i servizi della tv.» «Ma con Violet... l'ha picchiata, ed è...» «...l'unico tra noi ad avere siglato un patto con il governo. Dio benedica l'America, ho sentito che in questo preciso momento sta organizzando un nuovo programma alla radio, e ieri ha venduto i diritti del suo libro per una cifra a sei zeri, più gli extra se arriva nella lista dei best seller. E quando uscirà il tascabile, scommetto quello che vuoi che aggiungerà un capitolo con le sue scuse a Violet, tanto per vendere qualche centinaio di migliaia di copie in più.» «Aspetta, vuoi dire che l'editore che ha comperato i diritti del libro, è lo stesso tizio che ti ha telefonato la settimana scorsa per...?» «Proprio lo stesso. E con la stessa offerta, compresi gli extra.» «Oh, Dio... colpiscimi con un fulmine!» grida Rogo rivolto al cielo mentre altri clienti e un'anziana signora sul marciapiede si voltano a guardare. «Hai lasciato a Dreidel questa occasione?» «Non gli ho lasciato niente. Del resto, l'avevo promesso al presidente fin dal primo giorno: non l'avrei mai venduto.» «Sua moglie quasi...» Si gira verso l'uomo che ci fissa da un tavolo posto in diagonale rispetto al nostro. «Signore, torni pure alla sua minestra. Grazie.» Si rivolge di nuovo a me, abbassa la voce e si china in avanti. «Sua moglie quasi ti ha fatto uccidere, sciocco. E anche se non puoi dimostrarlo, è possibile che lui sapesse tutto fin dall'inizio. Sono sicuro che il tuo amico Dreidel ha lo stesso stupido codice d'onore - e credimi, anche la mia mamma mi ha insegnato ad apprezzare la lealtà - ma il tentato omicidio di solito è un indizio piuttosto buono del fatto che puoi abbandonare qualcuno senza sentirti in colpa e smettere di invitarlo al tuo compleanno o di andare al suo.»
Poco lontano, una vigilessa segna le ruote delle macchine con un pezzo di gesso attaccato in fondo a un lungo bastone metallico. «Non importa», dico. «Io non intendo guadagnare dei soldi grazie a loro.» «Ma Dreidel venderà anche i diritti cinematografici, anche se al massimo il suo film durerà una settimana.» «Niente soldi, Rogo. Mai.» «E Lisbeth cosa ne dice?» «Dei diritti d'autore o del programma di Dreidel alla radio?» «Di tutto.» Guardo la vigilessa, che sta facendo la multa a una vecchia Plymouth Belvedere gialla. Seguendo il mio sguardo, Rogo si volta e si guarda alle spalle. «Tanto gliele faccio togliere, Richie!» grida. «Solo se sono così stupidi da rivolgersi a te!» ribatte la vigilessa tranquilla. «Io credo che Lisbeth capisca da dove vengo», dico. «E capisce anche altre cose?» chiede Rogo, continuando a guardare la Plymouth gialla. «Cosa intendi dire?» «Lo sai bene. Voi due siete passati dal tritacarne insieme, e in più tu le lasci scrivere la storia, come regalo finale.» «E allora?» «E allora so che parli con lei tutte le sere.» «E come fai a saperlo?» «Alzo la cornetta per sapere con chi stai chiacchierando.» Girandosi finalmente verso di me, aggiunge: «E dai, come va la storia con la nostra rossa preferita? Ci sei? Le conti le lentiggini? Stai cercando di capire se formano delle costellazioni?» «Prego?» «Non fare l'ingenuo. Stai raccogliendo vongole, o sei ancora sulla spiaggia?» Butto gli occhi al cielo. «Potresti cercare di non essere...?» «Vongole!» «No. Frena. Non è vero.» «Giura!» «Giuro.» Rogo si appoggia allo schienale e si mette le mani dietro la testa. «Ok. Bene.»
Faccio una pausa e inclino la testa. «Perché bene?» «Niente», dice Rogo. «Rogo, perché bene?» «Non lo so», dice facendo il tonto. «Pensavo, sai, che se tu non stai nuotando, potrei buttarmi io... e magari... tentare la fortuna...» Non posso impedirmi di ridere. «Aspetta. Tu? Tu vuoi provarci con Lisbeth?» «Perché, credi che non abbia alcuna possibilità?» «Permettimi di essere sincero.» Scelgo le parole il più attentamente possibile. «Non hai alcuna possibilità.» «Ma cosa dici? Io sono basso e grasso. Lei è piccola e piuttosto in carne. Saremmo una bella coppia.» «Sì, è proprio così. Forse dovresti comperare l'anello.» Rogo abbassa il mento e fa roteare la mandibola. «Non dovresti metterti fra il coniglio e il suo trifoglio.» «Ascolta, tu fai quello che vuoi. Ma io ti avverto, credo che abbia qualcun altro.» «Lisbeth? Chi l'ha detto? Lei? O te lo stai inventando tu?» «Ti dico... L'ho capito dalla sua voce.» «E ha detto chi...?» La sua faccia si affloscia. «Non è Dreidel, vero? Oh, mi caverei gli occhi se...» «Non è Dreidel, assolutamente», dico. «Credi che sia un collega di lavoro?» Guardo alle spalle di Rogo, dove una Mustang verde lime nuova di zecca sta avvicinandosi. «Più o meno un collega», dico mentre la macchina accosta nella zona riservata ai pompieri, proprio di fronte a noi. La macchina verde lime si ferma. Impossibile confondere i capelli rossi dell'autista. «Oh, panini!» grida Lisbeth sporgendosi dal finestrino. «Danno davvero degli estrogeni, o vi siete fatti un'iniezione prima di venire qui?» Rogo la guarda. «No... Ma hai detto...» «Ho detto che non ho visto nessuna costellazione», ribatto. «Ma non vuol dire che non ci stia provando», aggiungo allungandomi sul tavolo e dandogli un buffetto sulla guancia. «Almeno tu sei riuscito a sbattere una portiera sulla mano di Dreidel.» Prima che abbia capito cosa succede, mi alzo, salto la ringhiera e vado verso la macchina verde lime. «Madre di Harry S. Truman», borbotta Rogo, seguendomi oltre la ringhiera. «Wes, aspetta!»
Per una volta, non mi guardo indietro. All'inaugurazione della sua biblioteca presidenziale, Manning disse a un giornalista che il suo fumetto preferito, da bambino, era Prince Valiant. Il giorno dopo, un articolo sottolineava che, in quel fumetto, Prince Valiant aveva una maledizione per cui non poteva mai essere soddisfatto. L'articolo diceva che questa era la maledizione di tutti i presidenti. Ed è vero. Ma non è più la mia maledizione. Raggiungo il posto del passeggero accanto a Lisbeth, apro la portiera e mi infilo dentro per un breve saluto. «Mi sono perso la parte in cui i panini diventano femminili?» chiedo. «Hai fatto lo stesso coi martini. E con le Volkswagen Cabriolet», interviene Rogo, infilandosi nel sedile posteriore. «Dovresti leggere la rivista "Jane". Io lo faccio. Oooh, profumo di macchina nuova.» «Anche a me fa piacere rivederti, Rogo», dice Lisbeth. Guardandosi intorno nel retro, Rogo alza un sopracciglio. «Aspetta, come fai a permetterti questo gingillo? Hai firmato anche tu un contratto per un libro?» Lisbeth lo ignora e si rivolge a me. Dalla sua espressione, prevedo guai. «Notizia buona o notizia cattiva? Scegli.» «Cattiva», diciamo insieme Rogo e io. Gli lancio un'occhiata al di sopra della spalla. «Cattiva», ripeto a Lisbeth. Lei giocherella con la benda che ha sulla mano, il che garantisce che è seria. «Ricordi il lavoro al "San Francisco Chronicle" di cui ti ho parlato?» chiede. «Be', mi hanno fatto un'offerta, vere notizie, non gossip. Ma hanno detto - e la cosa non mi sorprende - hanno detto che devo andare a San Francisco.» «Cioè via da qui?» «Molto via», risponde Lisbeth guardando fuori. «E la buona notizia?» chiedo. Lisbeth afferra il volante, poi si gira lentamente verso di me. «Vuoi venire?» Le guance mi si sollevano. Adesso sono io che ho un sorriso da cane di macellaio. «Aspetta aspetta», dice Rogo da dietro. «Prima di prendere decisioni affrettate, sappiamo come funziona la questione delle multe laggiù? Perché un uomo con la mia esperienza...» Mi giro verso Rogo e il sorriso mi si allarga ancora di più. «Sono sicuro
che potremo controllare.» «E non dimentichiamo le leggi tolleranti in materia di traffico e il sistema giudiziario scalcagnato che le favorisce. Questi sono due elementi fondamentali...» «Ma di cosa ti preoccupi? È la California!» «Tra l'altro», aggiunge Lisbeth, «a San Francisco, scommetto che hanno un numero incredibile di incidenti, con tutte quelle colline.» «Ecco qualcosa che mi fa piacere sentire», dice Rogo, raggiante, mentre la macchina supera l'isolato. «Oh, fammi un piacere», aggiunge, «accosta a quella Plymouth con la multa sul parabrezza... Se dobbiamo sostenere le spese di un trasloco, abbiamo bisogno di nuovi clienti.» Dal portafoglio tira fuori un biglietto da visita e cerca di sporgersi dai mio finestrino. «Wes, tira su il seggiolino!» «Da qui, prova da qui», si offre Lisbeth, premendo un pulsante sul cruscotto. Con un ronzio, il tetto della macchina si apre, rivelando un cielo azzurro e lasciando a Rogo tutto lo spazio per sporgersi fuori. Con la pancia premuta contro l'interno dell'auto, Rogo si sporge e infila uno dei suoi biglietti da visita nella fessura del finestrino della Plymouth. «Downwithtickets.com!» grida alle poche persone che lo guardano dal marciapiede. «Adesso tornate alla vostra vita tranquilla! Andate! Pecore!» Lisbeth preme l'acceleratore, le ruote mordono l'asfalto e la macchina prende velocità, mentre il vento ci sferza la faccia. Attraverso il tetto aperto, guardo le palme che costeggiano la strada sparire dietro di noi. Senza sforzo, la macchina sale sul Royal Park Bridge, dove le onde scintillanti dell'Intracoastal sono talmente luminose da risultare quasi accecanti. Butto indietro la testa e mi tuffo nel cielo, mentre il vento mi passa le dita fra i capelli e il sole dolce mi riscalda il viso. Nico si sbagliava. Il Libro del Fato non è già scritto. Viene scritto ogni giorno. Alcune ferite non guariscono mai. Ma altre sì. NOTA DELL'AUTORE La storia è sempre stata ricca di esagerazioni, qualche parola dunque sui massoni. I riferimenti storici alla massoneria presenti in questo libro sono basati su tre anni di ricerche. Tutte le figure storiche identificate come massoni - per esempio Voltaire, Winston Churchill, Mozart e alcuni presi-
denti statunitensi - sono documentate come massoni. Sul piano storico, si dice che Thomas Jefferson fosse massone, ma le prove, a tutt'oggi, come si riconosce nel romanzo, non confermano questa voce. Nondimeno, Jefferson, Washington e l'architetto Pierre Charles L'Enfant, nel progettare la città di Washington, D.C., inserirono davvero il simbolo più famoso della massoneria (il compasso e la squadra) e la stella a cinque punte nella mappa della città. Non c'è accordo su chi abbia avuto il peso maggiore nel definire questa mappa, ma io credo che la mappa sia chiarissima. Da più di duecento anni, quei simboli sono nascosti in piena luce. È vero anche che il 13 ottobre 1792 la loggia massonica n. 9 del Maryland pose la prima pietra della Casa Bianca, con una cerimonia massonica. Lo stesso accadde durante la posa della prima pietra del Campidoglio, quando George Washington in persona presiedette la cerimonia massonica. La cazzuola massonica di Washington fu usata anche per la posa della prima pietra del Monumento a Washington, della Corte Suprema statunitense, della Biblioteca del Congresso, della National Cathedral e della Smithsonian Society. Naturalmente, questi dettagli mi hanno incuriosito e mi hanno spinto a fare ulteriori indagini. Ma questi fatti non significano che i massoni abbiano intenzione di rovesciare governi, di aprire la porta del diavolo o di attuare i piani segreti di satana. Perché dunque distinguere la verità dalla fantasia, soprattutto in un'opera di fiction? Che importanza ha? Ebbene, in questo mondo, in cui così facilmente i fatti vanno a braccetto con la fiction - e in cui, per sei romanzi, mi sono fatto vanto delle mie ricerche - per me è importante, sia come autore, sia come storico dilettante, assicurarmi di non diffondere informazioni errate presso il pubblico, per quanto piccolo, che ho la fortuna di raggiungere. Vi invito quindi a leggere personalmente i documenti storici. Una società segreta che ha annoverato fra i suoi membri John Wayne, Winston Churchill, Benjamin Franklin, Harry Houdini, cinque presidenti della Corte Suprema e quindici presidenti degli Stati Uniti, oltre a mio zio Bernie, merita di essere studiata. E poi dovreste vedere i simboli che hanno nascosto nella mappa stradale di Sandusky, Ohio. Davvero. Andate a: www.bradmeltzer.com/fatesecrets.html. Brad Meltzer Fort Lauderdale, Florida, 2006
FINE