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TESS GERRITSEN IL SANGUE DELL'ALTRA (Body Double, 2004) Per Adam e Danielle PROLOGO Quel ragazzo la stava di nuovo guardando. Alice Rose, quattordici anni, stava cercando di concentrarsi sulle dieci domande del compito che aveva sul banco, ma la sua mente non era rivolta alla prova di composizione, bensì a Elijah. Percepiva il suo sguardo: era come un raggio puntato sul suo volto, ne avvertiva il calore sulla guancia e sapeva di essere arrossita. Concentrati, Alice! La domanda successiva del test era sbavata sul ciclostilato e fu costretta a socchiudere gli occhi per distinguere le parole. Charles Dickens sceglieva spesso nomi che si addicevano al carattere dei suoi personaggi. Citate alcuni esempi e spiegate perché i nomi siano adatti a tali personaggi. Alice mordicchiò la matita sforzandosi di trovare una risposta, ma non riusciva a pensare quando lui era seduto nel banco a fianco, così vicino che ne sentiva il profumo, un misto di sapone al pino e di fumo di legna. Un profumo maschile. Dickens, Dickens, ma a chi importava di Charles Dickens, di Nicholas Nickleby e di quella barba di materia quando lo splendido Elijah Lank la stava guardando? Oh, mio Dio, era così attraente, con i capelli neri e gli occhi azzurri. Occhi alla Tony Curtis. Quello aveva pensato la prima volta che lo aveva visto: assomigliava in tutto e per tutto a Tony Curtis, il cui bel volto le sorrideva radioso dalle pagine delle sue riviste preferite, Modem Screen e Photoplay. Alice chinò la testa e, mentre i capelli le ricadevano sul viso, lanciò un'occhiata furtiva di lato sbirciando attraverso la coltre di ciocche bionde. Sentì un tuffo al cuore quando ebbe conferma che la stava proprio guardando, e non con l'aria sprezzante con cui la guardavano tutti gli altri ragazzi a scuola, quei tipi meschini che la facevano sentire tonta e stupida, che le bisbigliavano frasi di scherno a distanza perché non riuscisse a sentire, a voce troppo bassa perché potesse cogliere le parole. Sapeva che mormoravano alle sue spalle, perché quando lo facevano la fissavano sem-
pre. Erano quegli stessi ragazzi che avevano attaccato la foto di una mucca nel suo armadietto e che muggivano se per sbaglio li urtava passando in corridoio. Elijah no, lui la guardava in un modo del tutto diverso, con occhi ardenti, con occhi da star del cinema. Alice sollevò a poco a poco la testa e lo fissò, stavolta non attraverso la barriera protettiva dei capelli, ma dimostrando chiaramente d'essersi accorta del suo sguardo. Elijah aveva già finito il compito. Posata la matita, aveva girato il foglio sul banco e rivolto tutta la sua attenzione a lei. E lei, incantata dal suo sguardo, riusciva a stento a respirare. Gli piaccio, lo so. Gli piaccio. Si portò la mano alla gola, al primo bottone della camicetta e si sfiorò la pelle con le dita lasciandovi una scia rossa. Pensò allo sguardo passionale con cui Tony Curtis guardava Lana Turner, uno sguardo capace di bloccare la lingua e di far tremare le ginocchia a qualsiasi ragazza. Uno sguardo che precedeva l'immancabile bacio. Ma a quel punto l'immagine sfumava. Perché? Perché si offuscava tutto proprio quando desideravi maggiormente vedere... «Il tempo a disposizione è finito, ragazzi! Consegnate, per favore.» Alice rivolse d'un tratto l'attenzione al banco, al test ciclostilato con metà delle domande ancora senza risposta. Oh, no. Dov'era svanito il tempo? Conosceva le risposte, le serviva solo qualche minuto in più... «Alice... Alice!» Alzò lo sguardo e vide la signora Meriweather con la mano tesa. «Alice, è ora di consegnare.» «Ma io...» «Niente scuse. Devi imparare ad ascoltare, Alice.» La signora Meriweather afferrò il compito di Alice e proseguì lungo il corridoio. Anche se non riusciva quasi a sentire i mormorii, Alice sapeva che le ragazze alle sue spalle stavano spettegolando sul suo conto. Si girò e le vide con le teste chine, ravvicinate, e le mani sulla bocca mentre ridacchiavano sommessamente. Alice sa leggere i movimenti delle labbra, perciò non fatevi vedere quando parlate di lei. Adesso anche alcuni ragazzi stavano ridendo, indicandola col dito. Alice abbassò lo sguardo e con suo grande orrore vide che il primo bottone della camicetta si era staccato e che questa si era aperta. In quel momento suonò il campanello annunciando la fine delle lezioni. Alice afferrò la cartella e, stringendosela al petto, uscì di corsa dall'aula. Non osò guardare nessuno negli occhi, continuò solo a camminare con la
testa bassa, prossima alle lacrime. Si precipitò in bagno e si chiuse in una toilette. Mentre le altre ragazze entravano ridendo per agghindarsi davanti agli specchi, lei restò nascosta dietro la porta chiusa. Ne avvertiva i profumi, percepiva la folata d'aria ogniqualvolta la porta si spalancava. Quelle ragazze a modo, con le loro camicette e i loro maglioni nuovi di zecca, non perdevano mai i bottoni e non venivano mai a scuola con gonne usate e scarpe con le suole di cartone. Andatevene. Andatevene tutte, per favore. La porta infine smise di aprirsi. Premuta contro la parete della toilette, Alice tese l'orecchio per capire se nella stanza ci fosse ancora qualcuno. Sbirciando da una crepa, non vide più nessuno davanti allo specchio. Solo allora strisciò fuori del bagno. Anche il corridoio era deserto. Tutti erano andati a casa, non c'era nessuno pronto a tormentarla. Con le spalle curve in atteggiamento difensivo Alice si avviò per il lungo corridoio con i suoi armadietti ammaccati e i poster alle pareti che annunciavano il ballo di Halloween a cui mancavano due settimane. Un ballo a cui di certo non sarebbe andata. L'umiliazione subita alla festa della settimana precedente le bruciava ancora e probabilmente sempre le sarebbe bruciata. Quelle due ore trascorse da sola, in piedi contro il muro, ad aspettare, a sperare che un ragazzo l'invitasse a ballare. Quando infine uno le si era avvicinato, non era stato per danzare: si era piegato in due all'improvviso e le aveva vomitato sulle scarpe. Per lei non ci sarebbero più stati balli. Viveva in quella cittadina da due mesi soltanto e sperava già che sua madre facesse le valigie e traslocasse di nuovo, che la portasse in un luogo dove avrebbe potuto ricominciare daccapo. Dove alla fine le cose sarebbero state diverse. Solo che poi non lo sono mai. Uscì dall'ingresso principale della scuola nel sole d'autunno. China sulla bicicletta, era tanto assorta ad aprire il lucchetto che non udì i passi. Solo quando la sua ombra le coprì il volto si accorse che Elijah le stava a fianco. «Ciao, Alice.» Lei balzò in piedi lasciando andare la bicicletta che cadde di lato con gran fracasso. Oh, Dio, che idiota. Come poteva essere così goffa? «Era un compito difficile, vero?» Parlò in modo lento, chiaro, il che era un altro particolare che le piaceva di Elijah: a differenza degli altri ragazzi, aveva un modo di parlare comprensibile, non biascicava mai e faceva sempre in modo che gli potesse osservare le labbra. Conosce il mio segreto, pensò Alice, eppure vuol essere mio amico.
«Tu hai finito tutte le domande?» le chiese. Lei si chinò a raccogliere la bici. «Sapevo le risposte. Avevo solo bisogno di più tempo.» Mentre si raddrizzava, vide che lo sguardo gli era caduto sulla camicetta, sulla scollatura creata dal bottone mancante. Arrossendo, incrociò le braccia al petto. «Ho una spilla da balia», disse lui. «Che cosa?» Elijah frugò in tasca e la estrasse. «Anch'io perdo sempre i bottoni. È un po' imbarazzante. Ecco, lascia che te la sistemi.» Alice trattenne il fiato mentre le toccava la camicetta e riuscì a stento a controllare un tremito quando le infilò un dito sotto la stoffa per chiudere la spilla. Sentirà il mio cuore che batte come un matto? si chiese. Sa che quando mi tocca mi sembra di svenire? Quando Elijah arretrò, riuscì a espirare. Abbassò lo sguardo e vide che ora la camicetta era pudicamente richiusa. «Meglio?» le domandò lui. «Oh, sì!» Alice tacque per riprendersi, poi con dignità regale aggiunse: «Grazie, Elijah. Sei stato molto gentile». Passò qualche istante. I corvi gracchiarono e le foglie autunnali erano come fiamme intense che divoravano i rami sopra le loro teste. «Puoi aiutarmi a fare una cosa, Alice?» le chiese Elijah. «Che cosa?» Oh, che risposta idiota, spaventosamente idiota. Avresti dovuto rispondere di sì! Sì, per te farei qualsiasi cosa, Elijah Lank. «Sto facendo una ricerca di biologia e mi serve un compagno che mi dia una mano. Non so a chi altro chiedere.» «Che tipo di ricerca è?» «Ti mostrerò tutto. Dobbiamo andare a casa mia.» A casa sua. Non era mai stata a casa di un ragazzo. Alice annuì. «Lascia che porti i libri a casa.» Elijah prese la sua bicicletta dalla rastrelliera. Era ammaccata quasi quanto quella di lei, con i parafanghi intaccati dalla ruggine e il vinile che si staccava a pezzi dal sedile. Siamo veramente uguali, pensò Alice, Tony Curtis e io. Andarono prima a casa di lei. Non lo invitò a entrare: era troppo imbarazzata all'idea che vedesse i mobili sgangherati e i muri scrostati. Corse dentro, gettò la cartella sul tavolo di cucina e scappò fuori. Purtroppo il cane di suo fratello, Buddy, la seguì. Proprio mentre usciva
dalla porta principale, Alice vide una palla bianca e nera precipitarsi fuori di casa. «Buddy!» gridò. «Torna qui!» «Non ti dà grande ascolto, vero?» osservò Elijah. «Perché è un cane stupido. Buddy!» Il bastardino la guardò dimenando la coda, dopodiché si avviò trotterellando lungo la strada. «Oh, che si arrangi», disse Alice. «Tornerà a casa quando vorrà», aggiunse salendo sulla bicicletta. «Allora, dove vivi?» «Su, a Skyline Road. Non ci sei mai stata?» «No.» «È una bella salita su per la collina. Credi di farcela?» Lei annuì. Per te posso fare qualsiasi cosa. Si allontanarono pedalando. Alice sperava che svoltasse sulla Main Street e passasse davanti al locale dove gli studenti si fermavano sempre dopo la scuola per ascoltare musica al jukebox e bere una bibita. Li avrebbero visti andare in bici insieme, pensò, e le ragazze non si sarebbero forse scatenate con i pettegolezzi? Guarda lì, Alice ed Elijah occhi blu. Lui invece non svoltò sulla Main Street e imboccò Locust Lane, dove non c'erano quasi abitazioni, solo il retro di qualche negozio e il parcheggio dei dipendenti della Neptune's Bounty Cannery. Oh, non importa. Non stava forse andando in bici con lui? Tanto vicina da vedere i muscoli delle sue cosce contrarsi e le natiche appoggiate sul sedile. Elijah si voltò a guardarla e i suoi capelli neri ondeggiarono nel vento. «Tutto bene, Alice?» «Tutto a posto.» A dire la verità, era quasi senza fiato perché erano usciti dal paese e avevano iniziato a risalire la collina. Elijah faceva quella salita per arrivare a Skyline Road tutti i giorni, perciò ci era abituato: non pareva sfinito e le sue gambe si muovevano come robusti pistoni. Lei invece ansimava e faceva fatica a proseguire. D'un tratto con la coda dell'occhio scorse qualcosa di peloso. Lanciò un'occhiata di lato e si accorse che Buddy li aveva seguiti. Anche lui aveva l'aria stanca e la lingua penzoloni mentre cercava di tenere il passo. «Va' a casa!» «Che hai detto?» domandò Elijah voltandosi. «È di nuovo quello stupido cane», rispose ansimando. «Non smetterà di seguirci. Finirà... finirà per perdersi.» Lanciò un'occhiata a Buddy, ma questo continuò a trotterellarle accanto
con la sua aria sciocca e festosa da cane. Allora fa' pure, pensò Alice. Sfiancati, a me non importa. Continuarono a risalire la collina seguendo la strada che faceva ampi tornanti. Attraverso gli alberi Alice scorgeva di tanto in tanto Fox Harbor, molto più in basso: alla luce del sole pomeridiano l'acqua sembrava una lamina di rame battuto. Poi gli alberi divennero troppo fitti e riuscì a vedere solo il bosco con le sue tonalità accese, rosse e arancione. Davanti a loro la strada ricoperta di foglie curvava. Quando finalmente Elijah smise di pedalare e si fermò, Alice sentiva le gambe tanto stanche che riuscì a malapena a stare in piedi senza tremare. Buddy era scomparso. Sperava solo che ritrovasse la via di casa perché di sicuro non sarebbe andata a cercarlo. Non in quel momento, non con Elijah lì davanti a lei, con il suo sorriso e gli occhi scintillanti. Lui appoggiò la bicicletta a un albero e si mise la cartella in spalla. «Allora dov'è casa tua?» Elijah indicò in direzione della strada, verso una cassetta della posta intaccata dalla ruggine fissata a un palo. «Non ci andiamo?» «No, oggi mia cugina è a casa, sta male. Ha vomitato tutta la notte, perciò non entriamo. Comunque, la mia ricerca è qui fuori, nel bosco. Lascia la bici. Dovremmo proseguire a piedi.» Alice appoggiò la bicicletta a quella di lui e lo seguì con le gambe che ancora le tremavano per la salita. Si addentrarono nel bosco. Lì gli alberi erano fitti e il terreno ricoperto da uno spesso strato di foglie. Alice lo seguì coraggiosa scacciando le zanzare. «Così tua cugina vive con te?» chiese. «Sì, è venuta a stare con noi l'anno scorso. Ormai è diventato definitivo: non ha altri posti dove andare.» «Ai tuoi non dà fastidio?» «C'è solo mio padre. Mia madre è morta.» «Oh.» Alice non sapeva che dire e alla fine mormorò semplicemente «mi spiace», ma lui non sembrò ascoltarla. Il sottobosco s'infittì e i rovi le graffiavano le gambe nude. Alice aveva difficoltà a tenere il passo: Elijah la stava distanziando lasciandola indietro con la gonna impigliata tra gli steli dei rovi. «Elijah!» Lui non rispose. Continuò ad avanzare come un baldo esploratore con la cartella in spalla.
«Aspetta!» «La vuoi vedere o no?» «Sì ma...» «Allora sbrigati.» La sua voce aveva assunto una nota impaziente che la fece trasalire. Elijah era alcuni metri davanti a lei: si era voltato a guardarla e Alice notò che aveva stretto le mani a pugno. «Va bene», rispose mitemente. «Arrivo.» Pochi metri più in là il bosco si apriva all'improvviso lasciando spazio a una radura dove Alice notò le vecchie fondamenta di pietra di una casa, tutto ciò che restava di una fattoria da tempo scomparsa. «È proprio qui», disse lui. «Che cos'è?» Elijah si chinò e scostò due assi di legno scoprendo una profonda buca. «Da' un'occhiata dentro», disse. «Ho impiegato tre settimane a scavarla.» Lentamente Alice si avvicinò alla fossa e vi guardò dentro. La luce pomeridiana filtrava obliqua tra gli alberi e il fondo della buca era in ombra. Riuscì a distinguere uno strato di foglie morte che vi si era accumulato. «È una trappola per orsi o qualcosa del genere?» «Potrebbe esserlo. Se vi mettessi sopra un po' di rami per nascondere l'apertura, potrei prendere parecchie cose, perfino un cervo.» Indicando il buco, aggiunse: «Guarda, lo vedi?» Alice si protese un po' di più. Qualcosa riluceva debolmente nell'ombra sottostante: era come se dal tappeto di foglie spuntassero alcune schegge bianche. «Che cos'è?» «È la mia ricerca», rispose lui prendendo la corda e tirandola. In fondo alla fossa le foglie si sollevarono frusciando. Alice osservò mentre la corda si tendeva ed Elijah issava qualcosa dall'ombra. Un cestino. Lo estrasse dalla buca e lo posò a terra. Scostando le foglie, le mostrò quello che prima brillava di bianco in fondo alla buca. Era un piccolo cranio. Mentre lo ripuliva dalle foglie, Alice vide alcuni ciuffi di pelo nero e alcune costole affusolate. La sagoma di una colonna vertebrale e le ossa delle zampe, sottili come ramoscelli. «Non è fantastico? Non puzza nemmeno più», osservò Elijah. «È stato laggiù almeno sette mesi. L'ultima volta che ho controllato c'era ancora un po' di carne attaccata. È incredibile come anche quella scompaia. Ha iniziato a putrefarsi con grande rapidità quando ha fatto caldo, in maggio.»
«Che cos'è?» «Non lo capisci?» «No.» Prendendo in mano il cranio, lo scosse lievemente e lo staccò dalla colonna vertebrale. Alice trasalì quando glielo tirò. «No!» strillò. «Miaooo!» «Elijah!» «Be', mi hai chiesto tu che cosa fosse.» Lei fissò le orbite vuote. «È un gatto?» Elijah estrasse un sacchetto della spesa dalla cartella e cominciò a riporvi le ossa. «Cosa farai dello scheletro?» «È la mia ricerca di scienze. Da gattino a scheletro in sette mesi.» «Dove hai preso il gatto?» «L'ho trovato.» «Hai trovato un gatto morto?» Lui sollevò lo sguardo. I suoi occhi azzurri sorridevano, ma non erano più occhi alla Tony Curtis, erano occhi che le facevano paura. «Chi ha detto che fosse morto?» Il cuore prese d'un tratto a martellarle nel petto e Alice arretrò d'un passo. «Sai, ora devo andare a casa.» «Perché?» «I compiti. Devo fare i compiti.» Elijah si era alzato in piedi. Si era sollevato di scatto, agilmente, e sul suo volto il sorriso era scomparso, sostituito da un'espressione di placida attesa. «Ci... vediamo a scuola», disse lei arretrando e guardando di qua e di là il bosco, che le sembrava uguale in ogni direzione. Da che parte erano arrivati? Da che parte doveva andare? «Ma sei appena arrivata, Alice», obiettò Elijah. In mano teneva qualcosa. Solo quando la sollevò sopra la testa lei vide che cos'era. Una pietra. Il colpo la fece cadere in ginocchio. Si rannicchiò sul terreno con la vista quasi annebbiata e gli arti tutti intorpiditi. Non sentì dolore, solo un'assurda incredulità per il fatto che l'avesse colpita. Prese a strisciare in avanti, ma non vedeva dove andasse. Allora Elijah l'afferrò per le caviglie e la tirò indietro. Mentre la trascinava per i piedi, il suo viso sfregava sul terreno.
Alice cercò di liberarsi scalciando, cercò di urlare, ma la bocca le si riempì di terra e di ramoscelli a mano a mano che lui la trascinava verso la fossa. Proprio mentre i piedi ne superavano il bordo, si afferrò a un alberello e si tenne stretta con le gambe penzoloni nel buco. «Molla la presa, Alice», disse. «Tirami su! Tirami su!» «Ho detto, molla.» Elijah raccolse un sasso e la colpì sulla mano. Alice gridò e perse la presa scivolando in piedi nella fossa, dove atterrò sul tappeto di foglie morte. «Alice. Alice.» Stordita dalla caduta, Alice guardò il cerchio di cielo sopra di lei e vide la sagoma della testa di Elijah china, protesa a guardarla. «Perché lo fai?» chiese tra i singhiozzi. «Perché?» «Non è niente di personale. Voglio solo vedere quanto ci vuole. Sette mesi per un gattino. Quanto pensi ci vorrà con te?» «Non mi puoi fare questo!» «Addio, Alice.» «Elijah! Elijah!» Le assi di legno scivolarono sull'apertura eclissando a poco a poco il cerchio di luce. Poi l'ultimo scorcio di cielo svanì. Tutto questo non è reale, pensò Alice. È uno scherzo. Vuole solo spaventarmi. Mi lascerà qui sotto per qualche minuto, tornerà e mi tirerà fuori. Tornerà, sicuramente. Poi sentì un tonfo sulla copertura del buco. Sassi. Ci sta buttando sopra dei sassi. Si alzò in piedi e cercò di uscire. Trovò un rampicante secco che le si disintegrò subito tra le mani. Allora conficcò le dita nella terra, ma non trovò alcun appiglio. Non riuscì a sollevarsi nemmeno di pochi centimetri senza scivolare. Le sue grida squarciavano il buio. «Elijah!» urlava. In risposta udì solo i tonfi sul legno. 1 Ricordatevi ogni mattino che potreste non arrivare a sera, e ogni sera che potreste non arrivare al mattino. INCISIONE NELLE CATACOMBE DI PARIGI Una fila di crani riluceva in cima a un muro di femori e tibie ben inca-
strati tra loro. Malgrado fosse giugno e sapesse che, venti metri sopra la sua testa, il sole illuminava le strade di Parigi, la dottoressa Maura Isles si sentì gelare mentre percorreva il buio cunicolo con le pareti ricoperte fin quasi al soffitto di resti umani. Aveva familiarità con la morte, l'aveva vista in faccia innumerevoli volte sul tavolo autoptico, ma l'entità di quella raccolta, l'enorme quantità di ossa conservate in quella rete di gallerie sotto la Ville Lumière l'aveva lasciata sbigottita. Il tour di un chilometro le consentiva di visitare solo una piccola parte delle catacombe. Numerosi cunicoli laterali e stanze piene di ossa erano interdetti ai turisti e occhieggiavano allettanti con i loro accessi bui, protetti da cancelli chiusi a chiave. Lì si trovavano i resti di sei milioni di parigini che un tempo avevano sentito il calore del sole sul volto, avevano provato la fame e la sete, avevano amato, percepito il battito del cuore nel petto e il sibilare dell'aria che entrava e usciva dai polmoni. Non avrebbero mai immaginato che un giorno le loro ossa sarebbero state dissotterrate dal luogo in cui riposavano e spostate in quel tetro ossario sotto la città. Che un giorno sarebbero state messe in mostra e ammirate da orde di turisti stupefatti. Un secolo e mezzo addietro, per far fronte al flusso costante di morti che arrivavano nei cimiteri sovraffollati di Parigi, quei resti erano stati disseppelliti e spostati nell'intricato alveare delle antiche cave di calcare sottostanti la città. Gli addetti al trasferimento non le avevano ammucchiate con noncuranza, ma avevano svolto il loro macabro compito con meticolosità e stile, sistemandole in modo da creare fantasiose composizioni. Come pignoli scalpellini, avevano costruito alti muri composti da strati alternati di crani e ossa lunghe trasformando la decadenza del corpo in espressione artistica. E avevano appeso targhe su cui erano incise lugubri citazioni per ricordare a chiunque avesse percorso quei cunicoli che la Morte non risparmiava nessuno. Una delle targhe attirò l'attenzione di Maura, che si fermò a leggere in mezzo al gruppo di turisti. Mentre cercava di tradurla rispolverando il suo incerto francese scolastico, udì il suono incongruo di una risata infantile riecheggiare nei cupi corridoi e l'accento nasale di un texano che bisbigliava alla moglie: «Questo posto è incredibile, Sherry. Maledizione, mi dà i brividi...» La coppia texana proseguì e le loro voci si affievolirono fino a svanire nel silenzio. Per un istante Maura rimase sola nella stanza a inalare la polvere dei secoli. Alla luce fioca della lampada del cunicolo, vide che alcune
muffe erano cresciute su un gruppo di crani e avevano finito per ricoprirli di una patina verdastra. Nella fronte di uno, a mo' di terzo occhio, spiccava il foro di un proiettile. So come sei morto. Il gelo del cunicolo le era penetrato nelle ossa, eppure Maura non si mosse, decisa a tradurre la targa, a vincere l'orrore cimentandosi in un inutile rompicapo. Dai, Maura. Tre anni di francese alle superiori e non riesci a cavartela? Ormai era una sfida personale e qualsiasi pensiero sulla mortalità era temporaneamente passato in secondo piano. Poi le parole assunsero un significato e Maura sentì il sangue gelarle nelle vene... Felice è colui che sempre si confronta con l'ora della sua morte e si prepara alla fine ogni giorno. All'improvviso si accorse del silenzio. Non c'erano voci né echi di passi. Si voltò e uscì da quella macabra stanza. Come aveva fatto a restare tanto indietro rispetto agli altri turisti? Era sola nella galleria, sola con i morti. Pensò a un inatteso blackout, all'idea di imboccare la direzione sbagliata e di vagabondare nel buio pesto. Aveva sentito dire che un secolo prima alcuni operai parigini si erano persi nelle catacombe ed erano morti di fame. Accelerò il passo mentre cercava di raggiungere gli altri, di ritrovare la compagnia dei vivi. In quei cunicoli sentiva la Morte troppo vicina. I crani parevano guardarla con risentimento, un coro di sei milioni di voci la biasimava per la sua curiosità deviata. Una volta eravamo vivi come te. Pensi di poter sfuggire al futuro che vedi? Quando infine riemerse dalle catacombe e mise piede sulla Rue Remy Dumoncel, in pieno sole, inspirò grandi boccate d'aria. Per una volta fu lieta del baccano del traffico e della calca, come se nella vita avesse appena ricevuto una seconda possibilità. I colori le sembrarono più accesi, i volti più cordiali. Il mio ultimo giorno a Parigi, pensò, e solo ora apprezzo veramente la bellezza di questa città. Aveva passato gran parte della settimana bloccata nelle sale conferenza del Congresso internazionale di patologia forense. Aveva avuto così poco tempo per andare in giro e perfino i tour previsti dagli organizzatori del convegno erano ispirati ai temi della morte e della malattia: il museo medico, la vecchia sala operatoria. Le catacombe. Di tutti i ricordi che avrebbe serbato di Parigi, il più vivo era parados-
salmente quello dei resti umani. Non è sano, pensò mentre si sedeva in un caffè all'aperto per godersi l'ultimo espresso e una fetta di crostata di fragole. Tra due giorni sarò di nuovo nella mia sala autopsie, circondata da acciaio inossidabile, privata della luce del sole, costretta a respirare solo l'aria fredda, filtrata, del sistema di ventilazione. Questo giorno mi sembrerà uno scorcio di paradiso. Se la prese con calma e registrò tutti quei ricordi: l'odore del caffè, il sapore del dolce ricco di burro, gli eleganti uomini di affari con i cellulari premuti all'orecchio, i complicati nodi delle sciarpe che ondeggiavano al collo delle donne. Accarezzò la fantasia a cui si abbandonava qualsiasi americano che si recasse a Parigi: che succederebbe se perdessi l'aereo? Se restassi qui, in questo caffè, in questa meravigliosa città per il resto della vita? Alla fine, tuttavia, si alzò dal tavolino e prese un taxi per andare in aeroporto. Rinunciò alla fantasia, rinunciò a Parigi, ma solo perché si ripromise che un giorno ci sarebbe tornata. Purtroppo, non sapeva quando. Il volo di ritorno aveva un ritardo di tre ore. Tre ore che avrei potuto trascorrere passeggiando sola lungo la Senna, pensò mentre se ne stava seduta di malumore al Charles de Gaulle. Tre ore che avrei potuto passare girando per il Marais o curiosando a Les Halles. Invece era bloccata in un aeroporto tanto affollato che non era quasi riuscita a trovare un posto dove sedersi. Quando infine s'imbarcò sul jet dell'Air France, era stanca e decisamente di cattivo umore. Il bicchiere di vino che accompagnava la cena bastò a farla sprofondare in un sonno fondo, senza sogni. Si svegliò solo quando l'aereo cominciò la discesa su Boston. La testa le faceva male e il sole al tramonto l'accecava. Il mal di testa aumentò mentre attendeva al ritiro bagagli osservando tutte le valigie che scorrevano lungo lo scivolo - nessuna delle quali era la sua - e si trasformò in un atroce martellio quando poco dopo si mise in coda per denunciarne lo smarrimento. Quando infine salì sul taxi con soltanto il bagaglio a mano, era già buio e lei non desiderava altro che un bagno caldo e una potente dose di Advil. Si accasciò sul sedile del taxi e si addormentò di nuovo. La brusca frenata dell'auto la risvegliò. L'autista esclamò: «Che succede?» Maura si mosse e fissò con sguardo annebbiato le luci blu lampeggianti. Impiegò qualche istante a rendersi conto di ciò che vedeva. Un minuto dopo capì che avevano imboccato la strada in cui viveva. Allora si raddrizzò
di scatto, in allerta, allarmata dalla scena: quattro auto della Polizia di Brookline parcheggiate, con le luci sul tetto che squarciavano il buio. «Sembra ci sia qualche emergenza», disse l'autista. «Questa è la sua strada, giusto?» «E quella è casa mia, laggiù, nel centro dell'isolato.» «Dove ci sono le macchine della polizia? Credo che non ci lasceranno passare.» Quasi a conferma delle parole dell'uomo, un agente si avvicinò indicandogli a gesti di tornare indietro. Il tassista sporse la testa dal finestrino. «Ho un passeggero a bordo. La signora vive in questa strada.» «Mi spiace, amico, l'accesso all'intero isolato è bloccato.» «Senta, scendo qui», disse Maura protendendosi verso l'autista. Gli pagò la corsa, prese il bagaglio a mano e uscì dal taxi. Fino a pochi momenti prima si sentiva fiacca e stordita, ora invece la stessa sera di giugno sembrava elettrica, carica di tensione. Maura si avviò sul marciapiede e sentì l'ansia aumentare via via che si avvicinava al crocchio di persone e notava i diversi mezzi delle autorità parcheggiati davanti a casa sua. Era successo qualcosa a uno dei suoi vicini? Le passò per la mente una sfilza di terribili possibilità: suicidi, omicidi. Pensò al signor Telushkin, l'ingegnere single che viveva nella casa a fianco. L'ultima volta che lo aveva visto, le era sembrato piuttosto depresso... Pensò anche a Lily e Susan, le altre sue vicine, le avvocatesse lesbiche che, per il loro attivismo a favore dei diritti dei gay, potevano essere un allettante bersaglio. Poi le scorse in piedi ai margini della folla, vive e vegete, e col pensiero tornò al signor Telushkin che non notava tra i curiosi. Lily lanciò un'occhiata di lato e vide Maura avvicinarsi. Non le fece un cenno di saluto, si limitò a fissarla senza parole, e diede una brusca gomitata a Susan. Questa si girò a guardarla e rimase a bocca aperta. Adesso anche altri vicini si stavano voltando a guardarla, tutti con espressioni altrettanto stupite. Perché mi guardano? si chiese Maura. Cos'ho fatto? «Dottoressa Isles?» Un agente di Brookline le si parò davanti con aria stupefatta. «È... è lei, vero?» chiese. Be', che domanda stupida, pensò Maura. «Quella lì è la mia casa. Che sta succedendo, agente?» Questi espirò bruscamente. «Ehm... penso sia meglio venga con me.» La prese per un braccio e la condusse in mezzo alla folla dei vicini, che
si divisero con aria solenne, come per lasciar passare un condannato. Il loro silenzio era sinistro. L'unico rumore era il gracchiare delle radio della polizia. Giunsero alla barriera formata dal nastro giallo della polizia teso tra diversi pali, molti dei quali erano piantati nel giardino anteriore del signor Telushkin. Va fiero del suo prato e non ne sarà molto contento, fu il primo e futile pensiero di Maura. L'agente sollevò il nastro e lei vi passò sotto mettendo piede in quella che - adesso se ne accorgeva - era la scena di un crimine. Lo aveva capito perché nel centro aveva individuato una figura familiare: pur trovandosi dall'altra parte del prato, Maura riconobbe Jane Rizzoli, detective della Omicidi. Ormai all'ottavo mese di gravidanza, la minuta Rizzoli sembrava una pera matura nel suo tailleur pantalone. La sua presenza era un altro particolare sconcertante. Che cosa faceva un detective di Boston lì, a Brookline, al di fuori della sua consueta giurisdizione? Rizzoli non vide Maura avvicinarsi: teneva lo sguardo fisso su un'auto parcheggiata accanto al marciapiede davanti alla casa del signor Telushkin e stava scuotendo il capo, palesemente sconvolta, con i suoi riccioli neri tutti scarmigliati, come sempre. Fu il suo collega, il detective Barry Frost, a scorgerla per primo. La guardò, distolse lo sguardo, poi ebbe un sussulto improvviso e il suo volto pallido si girò di scatto a fissarla. Senza parlare, tirò la collega per il braccio. «Dottoressa?» chiese con un filo di voce Rizzoli. «Sei tu?» «E chi altro dovrei essere? Perché tutti continuano a chiedermi la stessa cosa? Perché mi guardate come se fossi un fantasma?» «Perché...» Rizzoli s'interruppe. Scosse la testa facendo ondeggiare la chioma arruffata. «Gesù. Per un momento ho pensato che fossi proprio un fantasma.» «Cosa?» «Padre Brophy?» chiamò Rizzoli girandosi. Maura non aveva visto il sacerdote tutto solo in un angolo, ai margini della scena. Questi emerse dall'ombra, con il colletto della veste che sembrava uno squarcio bianco sul collo. Il suo viso, di solito piuttosto attraente, appariva emaciato e recava i segni dello shock. Perché Daniel è qui? In genere non si chiamava un prete sulla scena di un crimine a meno che la famiglia della vittima non richiedesse conforto. Il suo vicino, il signor Telushkin, non era cattolico, ma ebreo. Non avrebbe avuto motivo di chiamare un prete.
«Padre, potrebbe accompagnarla dentro?» domandò Rizzoli. «Qualcuno mi vuole dire che sta succedendo?» chiese Maura. «Va' in casa, dottoressa. Per favore. Ti spieghiamo dopo.» Maura sentì il braccio di Brophy cingerle la vita e dalla sua salda presa capì che non era il momento di opporre resistenza, che avrebbe dovuto assecondare la richiesta della detective. Si lasciò condurre alla porta d'ingresso e percepì la segreta eccitazione che le procurava quel contatto ravvicinato, il calore del corpo di Brophy premuto contro il suo. Era così consapevole della sua presenza che armeggiò goffamente per inserire la chiave nella porta. Erano amici da mesi, ma non aveva mai invitato Daniel Brophy a casa sua, e la reazione che stava avendo in quel momento le ricordò perché avesse sempre mantenuto con prudenza le distanze. Entrarono nel soggiorno dove le luci erano già accese, attivate da timer automatici. Maura si fermò per un istante vicino al divano, incerta sul da farsi. Fu padre Brophy a prendere l'iniziativa. «Siediti», le disse indicando il divano. «Ti porto qualcosa da bere.» «Sei tu l'ospite a casa mia. Io ti dovrei offrire da bere», rispose. «Non alla luce delle circostanze.» «Non so nemmeno di che circostanze si tratti.» «Il detective Rizzoli ti spiegherà.» Brophy uscì dalla stanza e tornò con un bicchiere d'acqua: non era esattamente ciò che Maura avrebbe voluto bere in quel momento, ma, a dire il vero, non le sembrava molto opportuno chiedere a un prete di portarle la bottiglia della vodka. Sorseggiò l'acqua sentendosi a disagio per il suo sguardo. Brophy sprofondò nella poltrona di fronte e la osservò come impaurito che potesse svanire. Finalmente Maura udì Rizzoli e Frost entrare in casa e bisbigliare nell'atrio con una terza persona dalla voce sconosciuta. Segreti, pensò. Perché tutti mi tengono all'oscuro dei loro segreti? Che cosa non vogliono che sappia? Alzò lo sguardo mentre i due detective entravano in soggiorno. Insieme a loro c'era un uomo che si presentò come il detective Eckert di Brookline, un nome che di lì a cinque minuti avrebbe probabilmente già dimenticato. Concentrò tutta la sua attenzione su Rizzoli, con cui aveva già lavorato, una donna che apprezzava e rispettava. I detective si sedettero nelle altre poltrone. Rizzoli e Frost le si misero davanti, dall'altra parte del tavolino, e Maura si sentì in minoranza: quattro contro uno, con tutti gli sguardi addosso. Frost estrasse notes e penna. Perché prendere appunti? Perché quel colloquio stava assumendo l'aspetto di
un interrogatorio? «Come va, dottoressa?» le chiese Rizzoli con voce dolce, preoccupata. Maura rise di fronte alla banalità della domanda. «Starei molto meglio se sapessi che sta succedendo.» «Ti posso chiedere dove sei stata stasera?» «Sono appena rientrata dall'aeroporto.» «Perché eri in aeroporto?» «Sono arrivata da Parigi. Dal Charles de Gaulle. È stato un volo lungo e non sono dell'umore adatto per essere bersagliata di domande.» «Quanto ti sei fermata Parigi?» «Una settimana. Sono partita mercoledì scorso.» Maura credette di cogliere un tono accusatorio nelle brusche domande di Rizzoli e l'irritazione che provava si stava trasformando in rabbia. «Se non mi credete, chiedete alla mia segretaria, Louise. È lei che mi ha prenotato il volo. Sono andata a un congresso...» «Il Congresso internazionale di patologia forense, esatto?» Maura restò di sasso. «Lo sapete già?» «Ce lo ha detto Louise.» Hanno fatto domande su di me. Ancor prima che arrivassi a casa, hanno parlato con la mia segretaria. «Ci ha detto che l'arrivo del tuo aereo era previsto alle cinque al Logan», disse Rizzoli. «Adesso sono le dieci. Dove sei stata?» «Siamo partiti in ritardo dal Charles de Gaulle. A causa di ulteriori controlli di sicurezza o qualcosa del genere. Le compagnie aeree sono così paranoiche e ci è andata bene che siamo partiti con tre ore soltanto di ritardo.» «Quindi la tua partenza è stata ritardata di tre ore.» «Te l'ho appena detto.» «A che ora sei atterrata?» «Non lo so. Verso le otto e trenta.» «Hai impiegato un'ora e mezzo per arrivare a casa dal Logan?» «Mi hanno perso la valigia. Ho dovuto presentare denuncia di smarrimento all'Air France.» Maura tacque, improvvisamente al limite della sopportazione. «Sentite, maledizione, di che si tratta? Prima di rispondere ad altre domande ho diritto di sapere. Mi state accusando di qualcosa?» «No, dottoressa. Non ti stiamo accusando di niente. Stiamo solo cercando di definire il lasso temporale.» «Il lasso temporale di che?»
«Ha ricevuto minacce, dottoressa Isles?» chiese Frost. Lei lo guardò sconcertata. «Cosa?» «Conosce qualcuno che possa avere motivo di farle del male?» «No.» «Ne è certa?» Maura scoppiò a ridere, scoraggiata. «Be', chi mai può esserlo?» «Avrai seguito qualche caso in tribunale in cui con la tua testimonianza hai fatto incazzare qualcuno», osservò Rizzoli. «Solo se il motivo per cui si sono incazzati è la verità.» «Ti sarai fatta dei nemici in aula. I criminali che hai contribuito a far condannare.» «Anche tu te li sarai fatti, Jane. Semplicemente perché svolgi il tuo lavoro.» «Hai ricevuto minacce specifiche? Lettere o telefonate?» «Il mio numero di telefono non è sull'elenco. E Louise non fornisce mai il mio indirizzo.» «Lettere che ti siano arrivate sul lavoro, all'ufficio del coroner?» «Ogni tanto arriva qualche lettera strana. Tutti le riceviamo.» «Strana?» «Lettere di persone che scrivono di alieni e complotti, o che ci accusano di occultare la verità a proposito di qualche autopsia. Noi ci limitiamo a catalogarle nel file degli sciroccati. A meno che non si tratti di evidenti minacce, nel qual caso le giriamo alla polizia.» Maura vide Frost scribacchiare sul notes e si chiese che cosa avesse annotato. Era ormai tanto infuriata che avrebbe voluto allungarsi oltre il tavolino e strappargli il blocco di mano. «Dottoressa», disse Rizzoli con dolcezza. «Hai una sorella?» La domanda, così inattesa, sorprese Maura, che fissò l'amica senza più provare il minimo senso d'irritazione. «Come hai detto?» «Hai una sorella?» «Perché me lo chiedi?» «Devo saperlo.» Maura espirò bruscamente. «No, non ho sorelle e sai che sono stata adottata. Quando diavolo mi spiegherai che cos'è tutta questa faccenda?» Rizzoli e Frost si scambiarono un'occhiata. Questi chiuse il notes. «Penso sia ora che veda.» Rizzoli la condusse alla porta d'ingresso. Maura uscì nella calda notte e-
stiva illuminata come una sfarzosa parata di carnevale dalle luci lampeggianti delle auto della polizia. Il suo corpo era ancora sintonizzato sul fuso orario di Parigi, dove in quel momento erano le quattro del mattino, perciò vedeva tutto con sguardo stanco, annebbiato, tanto che la serata le sembrava surreale come un brutto sogno. Nel momento stesso in cui uscì di casa, tutti si voltarono a guardarla. Maura vide i vicini radunati dall'altra parte della strada, che la fissavano da dietro il nastro della scena del crimine. In qualità di medico legale era abituata a stare in pubblico, a essere seguita passo per passo dalla polizia e dai media, ma quella sera l'attenzione che le prestavano era in certo qual modo diversa, più invadente, perfino inquietante. Era contenta di avere a fianco Rizzoli e Frost: era come se potessero proteggerla dagli sguardi curiosi mentre camminavano sul marciapiede in direzione della Ford Taurus scura parcheggiata di fronte alla casa del signor Telushkin. Maura non riconobbe l'auto, ma riconobbe l'uomo con la barba che vi si trovava accanto, con le grosse mani protette dai guanti di lattice. Era il dottor Abe Bristol, il suo collega dell'ufficio del coroner. Abe era una buona forchetta e dal suo giro vita si capiva quanto amasse i cibi gustosi: per tutto il grasso in eccesso, il ventre gli ricadeva sopra la cintura. Bristol fissò Maura e disse: «Cristo, è incredibile. Ci sarei caduto in pieno». Indicando la macchina con un cenno, aggiunse: «Spero tu sia pronta, Maura». Pronta per cosa? Maura guardò la Taurus parcheggiata. Illuminata dalle luci lampeggianti, vide una sagoma riversa sul volante. Alcune chiazze nere oscuravano il parabrezza. Sangue. Rizzoli illuminò la portiera del passeggero con la torcia. Dapprima Maura non capì che cosa dovesse guardare: era ancora concentrata sul vetro macchiato di sangue e sulla sagoma seduta al posto di guida. Poi vide quello che la Maglite di Jane stava illuminando: poco al di sotto della maniglia c'erano tre graffi paralleli, che avevano inciso in profondità la vernice dell'auto. «Sembrano segni di unghie», osservò Rizzoli flettendo le dita come per imitarli. Maura li fissò. Non erano unghie, pensò mentre sentiva un brivido correrle su per la schiena. Era l'artiglio di un rapace. «Vieni dalla parte del guidatore», disse ancora. Maura non fece domande e la seguì girando dietro la Taurus. «Targhe del Massachusetts», affermò Jane mentre illuminava il paraurti
posteriore, ma si trattava solo di un dettaglio secondario. Rizzoli continuò a camminare fino a raggiungere il lato del guidatore. Lì si fermò e guardò Maura. «Questo è quello che ci ha scossi così tanto», disse e puntò la torcia verso la macchina. Il fascio colpì esattamente il volto della donna che guardava fuori del finestrino: aveva la guancia destra appoggiata al volante e gli occhi aperti. Maura non riuscì a dire niente. Restò a bocca aperta a fissare la pelle eburnea, i capelli neri, le labbra carnose lievemente schiuse come se fosse stata colta di sorpresa. Arretrò barcollando: d'un tratto le sembrò di avere arti privi di ossa ed ebbe una sensazione di vertigine, come se stesse fluttuando, come se non fosse più ancorata a terra. Una mano l'afferrò per il braccio. Era padre Brophy, in piedi alle sue spalle. Non si era nemmeno accorta che fosse lì. Adesso capiva perché tutti erano rimasti tanto stupefatti al suo arrivo. Fissò il cadavere nell'auto, il volto illuminato dalla luce della torcia di Rizzoli. Sono io. Quella donna sono io. 2 Si sedette sul divano a sorseggiare vodka e soda, con i cubetti di ghiaccio che tintinnavano nel bicchiere. Al diavolo l'acqua, quello shock richiedeva una medicina più potente. Padre Brophy era stato tanto comprensivo da prepararle un drink forte e da porgerglielo senza fare commenti. Non ti vedi morta tutti i giorni. Non ti capita tutti i giorni di arrivare sulla scena di un crimine e di trovarci la tua sosia cadavere. «È solo una coincidenza», sussurrò. «Quella donna mi assomiglia, questo è quanto. Molte donne hanno i capelli neri. E il suo viso: come si fa a vederlo bene all'interno della macchina?» «Non lo so, dottoressa», rispose Jane. «La somiglianza è piuttosto inquietante.» Sprofondò nella poltrona ed emise un gemito quando i cuscini inglobarono la sua figura appesantita. Povera Rizzoli, pensò Maura. Una donna all'ottavo mese di gravidanza non dovrebbe passare da un'indagine di omicidio all'altra. «Il taglio di capelli è diverso», osservò Maura. «Soltanto un po' più lungo.» «Io ho la frangia, lei no.»
«Non credi sia un dettaglio piuttosto irrilevante? Pensa al suo volto: potrebbe essere tua sorella.» «Aspettiamo di esaminarla con più luce. Forse allora non mi assomiglierà più.» «La somiglianza c'è, Maura. L'abbiamo notata tutti. È identica a te.» «Inoltre, è seduta in macchina nel tuo quartiere», aggiunse Rizzoli. «Parcheggiata in pratica davanti a casa tua. E aveva questo sul sedile posteriore», disse sollevando una busta per le prove. Oltre la plastica trasparente Maura vide un articolo strappato dal Boston Globe. Il titolo era abbastanza grande da consentirle di leggerlo da una parte all'altra del tavolino. IL BAMBINO DEI RAWLINGS È STATO PICCHIATO, DICHIARA IL MEDICO LEGALE. «È una tua foto, dottoressa», affermò Rizzoli. «La didascalia dice: 'Il coroner, dottoressa Maura Isles, lascia l'aula dopo aver testimoniato al processo Rawlings'.» Guardando Maura, aggiunse: «La vittima lo aveva in macchina». Lei scosse la testa. «Perché?» «È quello che ci stiamo chiedendo.» «Il processo Rawlings... è stato quasi due settimane fa.» «Ti ricordi di aver visto quella donna in aula?» «No, non l'ho mai vista prima.» «Ma ovviamente lei ha visto te. Sul giornale, almeno. E poi appare qui. Ti stava cercando? Ti stava pedinando?» Maura fissò il suo drink. La vodka le stava dando alla testa. Meno di ventiquattr'ore fa, pensò, stavo passeggiando per le vie di Parigi: mi godevo il sole, assaporavo i profumi dei caffè. Come ho fatto a piombare in quest'incubo? «Possiedi armi da fuoco, dottoressa?» chiese Rizzoli. Maura s'irrigidì. «Che razza di domanda è questa?» «Non ti sto accusando di niente. Mi chiedevo solo se avessi modo di difenderti.» «Non ho una pistola. Ho visto i danni che può procurare al corpo umano e non ne terrò mai una in casa.» «D'accordo, chiedevo solo.» Maura bevve un altro sorso di vodka, bisognosa di un po' di coraggio in forma liquida per fare la domanda successiva. «Che cosa sapete della vittima?» Frost estrasse il notes e lo sfogliò come un impiegato diligente. Da tanti
punti di vista Barry Frost le ricordava un burocrate dai modi pacati, con la penna sempre pronta. «In base alla patente che aveva in borsa, si chiama Anna Jessop, età quarant'anni, residente a Brighton. L'auto è intestata a lei.» Maura sollevò la testa. «È a pochi chilometri da qui.» «Viveva in affitto in un condominio. I vicini non sembrano sapere molto di lei. Stiamo ancora cercando di rintracciare la proprietaria per poter entrare nell'appartamento.» «Il nome Jessop ti dice qualcosa?» chiese Rizzoli. Maura scosse la testa in un diniego. «Conosci nessuno nel Maine?» «Perché me lo chiedi?» «In borsa aveva una multa per eccesso di velocità. Sembra sia stata fermata due giorni fa, mentre percorreva l'autostrada del Maine in direzione sud.» «Non conosco nessuno nel Maine». Maura inspirò profondamente e chiese: «Chi l'ha trovata?» «Ha telefonato il tuo vicino, il signor Telushkin», disse Rizzoli. «Era fuori col cane quando ha notato la Taurus parcheggiata accanto al marciapiede.» «Che ore erano?» «Verso le otto di sera.» Certo, pensò Maura. Il signor Telushkin portava fuori il cane esattamente alla stessa ora ogni sera. Gli ingegneri erano così, precisi e prevedibili. Ma quella sera si era trovato di fronte all'imprevedibile. «E non ha sentito niente?» domandò Maura. «Ha detto di aver sentito quello che gli era parso il ritorno di fiamma di una macchina, una decina di minuti prima. Ma nessuno ha visto niente. Dopo aver trovato la Taurus, ha chiamato il 911 riferendo che qualcuno aveva appena sparato alla sua vicina, la dottoressa Isles. La Polizia di Brookline è arrivata per prima, insieme al qui presente detective Eckert. Frost e io siamo arrivati verso le nove.» «Perché?» chiese Maura, ponendo infine la domanda che le girava per la testa da quando aveva visto Jane nel giardino anteriore di casa. «Perché sei a Brookline? Non è la tua zona.» Rizzoli guardò il detective Eckert. «Sa, l'anno scorso a Brookline abbiamo avuto un solo omicidio. Abbiamo pensato che, date le circostanze, fosse logico chiamare Boston», rispo-
se questi un po' imbarazzato. Sì, era logico, concluse Maura. Brookline era poco più di un sobborgo residenziale inglobato dalla città di Boston. L'anno precedente il dipartimento di Polizia di Boston aveva indagato su sessanta omicidi. Con la pratica ti perfezionavi, nelle indagini per omicidio come in qualsiasi altra cosa. «Saremmo arrivati comunque», intervenne Rizzoli. «Dopo che abbiamo saputo chi fosse la vittima.» Tacque per qualche istante, poi continuò. «Devo ammetterlo, non mi è mai passato per la mente che potessi non essere tu. Ho dato uno sguardo alla vittima e ho presunto...» «Tutti lo abbiamo fatto», disse Frost. Ci fu silenzio. «Sapevamo che dovevi rientrare stasera da Parigi», proseguì Rizzoli. «Questo è quello che ci aveva detto la tua segretaria. L'unica cosa che non tornava era la macchina. Perché fossi seduta in una macchina intestata a un'altra donna.» Maura finì di bere e posò il bicchiere sul tavolino. Un drink era il massimo che potesse reggere quella sera: sentiva già gli arti tutti intorpiditi e aveva difficoltà a focalizzare lo sguardo. La stanza si era trasformata in una macchia indistinta e le lampade ammantavano ogni cosa con il loro caldo chiarore. Tutto questo non è reale, pensò. Sto dormendo in un aereo, da qualche parte sopra l'Atlantico, e quando mi sveglierò scoprirò di essere atterrata, che niente di tutto questo è accaduto. «Non sappiamo ancora nulla di Anna Jessop», disse Rizzoli. «Tutto quello che sappiamo - quello che abbiamo visto con i nostri occhi - è che, chiunque sia, è la tua copia perfetta, dottoressa. Avrà forse i capelli un po' più lunghi, ci saranno alcune differenze qua e là, ma il punto è che noi ci siamo caduti. Tutti quanti. E noi ti conosciamo.» Tacque per un attimo poi aggiunse: «Capisci dove voglio arrivare, vero?» Sì, Maura lo capiva, ma non voleva dirlo. Rimase semplicemente seduta a fissare il bicchiere sul tavolino e i cubetti di ghiaccio che si scioglievano. «Se noi ci siamo caduti, a chiunque altro sarebbe capitato lo stesso», disse Rizzoli. «Compresa la persona che le ha sparato alla testa. Mancava poco alle otto quando il tuo vicino ha sentito il ritorno di fiamma. Stava già facendo buio. E lei era lì, seduta in una macchina parcheggiata a pochi metri dal tuo vialetto d'accesso. Chiunque l'avesse vista in quell'auto avrebbe pensato fossi tu.» «Credi che fossi io il bersaglio», affermò Maura.
«È logico, non pensi?» Maura scosse il capo. «Niente di tutto questo è logico.» «Sei un personaggio pubblico, visto il lavoro che fai. Testimoni ai processi per omicidio. Sei sui giornali. Sei la nostra Regina dei morti.» «Non mi chiamare così.» «Così ti chiamano i poliziotti. E la stampa. Lo sai, non è vero?» «Non significa che il soprannome mi piaccia. Anzi, non lo sopporto proprio.» «Ma significa che ti notano: non solo per quello che fai, ma anche per il tuo aspetto. Sai che gli uomini ti notano, non è così? Dovresti essere cieca per non accorgertene. Una bella donna attira sempre l'attenzione, giusto, Frost?» Frost trasalì: non si aspettava di essere messo alle strette e arrossì. Povero Frost, così facile all'imbarazzo. «È la natura umana», ammise. Maura guardò padre Brophy che non ricambiò il suo sguardo e si chiese se anche lui fosse soggetto alle stesse leggi dell'attrazione. Amava pensarlo, credere che anche Daniel non fosse immune da certi pensieri che le passavano per la testa. «Una bella donna sotto gli occhi di tutti viene pedinata e aggredita davanti a casa», commentò Rizzoli. «È già successo. Come si chiamava quell'attrice, a Los Angeles? Quella che è stata assassinata?» «Rebecca Schaefer», rispose Frost. «Esatto. E poi c'è il caso di Lori Hwang, qui da noi. Te la ricorderai, dottoressa.» Sì, Maura se la ricordava perché aveva effettuato l'autopsia dell'annunciatrice di Channel Six. Lori Hwang lavorava in televisione da un anno soltanto quando era stata uccisa con un colpo di pistola davanti agli studi. Non si era mai accorta d'essere pedinata. L'assassino la seguiva in TV e le aveva scritto alcune lettere fingendosi un ammiratore. Poi un giorno l'aveva attesa all'esterno degli studi e, quando Lori era uscita e si era diretta alla macchina, le aveva sparato un colpo alla testa. «È il rischio di chi vive sotto gli occhi di tutti», commentò Rizzoli. «Non sai mai chi ti guardi dallo schermo del televisore, chi si trovi nella macchina dietro la tua quando torni a casa dal lavoro la sera. Non è una cosa a cui pensiamo, il fatto che qualcuno ci possa pedinare, che possa nutrire fantasie su di noi.» Rizzoli tacque e poco dopo disse con tono pacato: «Io l'ho vissuto. So che cosa significhi essere l'ossessione di qualcuno. Non sono nemmeno un gran bellezza, eppure mi è successo». Tese le mani
e mostrò le cicatrici sui palmi, ricordo permanente della lotta con l'uomo che le aveva quasi tolto la vita. Un uomo che era ancora vivo, pur intrappolato in un corpo tetraplegico. «Per questo ti ho chiesto se hai ricevuto lettere strane», aggiunse. «Stavo pensando a lei, a Lori Hwang.» «Il suo assassino è stato arrestato», osservò padre Brophy. «Sì.» «Perciò non sta suggerendo che si tratti dello stesso uomo.» «No, sto soltanto evidenziando le affinità. Un unico proiettile alla testa. Due donne sotto gli occhi di tutti. Ti fa pensare.» Rizzoli si mise faticosamente in piedi. Impiegò qualche istante per sollevarsi dalla poltrona e Frost le porse sollecito la mano, ma lei la ignorò. Pur in stato avanzato di gravidanza, Rizzoli non era tipo da chiedere aiuto. Si mise la borsetta in spalla e lanciò a Maura un'occhiata penetrante. «Vuoi dormire da qualche altra parte stasera?» «Questa è casa mia. Perché dovrei dormire altrove?» «Chiedevo solo. Immagino di non doverti dire di chiudere a chiave le porte.» «Lo faccio sempre.» Rizzoli guardò Eckert. «La Polizia di Brookline può sorvegliare la casa?» Questi annuì. «Farò in modo che una pattuglia passi di qui di tanto in tanto.» «Lo apprezzo molto», disse Maura. «Grazie.» Accompagnò i tre detective alla porta e li guardò avviarsi verso le rispettive macchine. Era ormai mezzanotte passata e il quartiere era tornato a essere il luogo tranquillo di sempre. Le auto della Polizia di Brookline erano scomparse e la Taurus era già stata portata al laboratorio della Scientifica. Persino il nastro giallo della polizia era stato tolto. Domani mattina, pensò Maura, mi sveglierò e penserò d'essermi immaginata tutto. Si voltò e guardò padre Brophy, ancora in piedi nell'atrio. Non si era mai sentita tanto a disagio con lui come in quel momento: loro due soli a casa sua. Di certo stavano tutti e due pensando alle diverse possibilità. O lo sto facendo solo io? A tarda sera, solo nel tuo letto, non pensi mai a me, Daniel? Così come io penso a te? «Te la senti davvero di restare qui da sola?» le chiese Brophy. «Andrà tutto bene.» E qual è l'alternativa? Che tu passi la notte con me? È questo che mi stai proponendo?
Lui si girò verso la porta. «Chi ti ha chiamato, Daniel?» gli domandò. «Come hai saputo?» Brophy la guardò. «Il detective Rizzoli. Mi ha detto che...» Tacque per un attimo. «Sai, ricevo spesso chiamate del genere dalla polizia. Una morte in famiglia, qualcuno che ha bisogno di un prete. Io sono sempre disponibile, ma stavolta...» S'interruppe, poi aggiunse: «Chiuditi a chiave, Maura. Non voglio più passare un'altra notte così». Maura lo guardò uscire di casa e salire in macchina. Non accese subito il motore: volle accertarsi che lei fosse al sicuro per la notte. Maura chiuse la porta e girò la chiave. Dalla finestra del soggiorno guardò Daniel allontanarsi. Fissò il marciapiede vuoto e d'un tratto si sentì abbandonata. Per un attimo ebbe il desiderio di chiamarlo. E poi che cosa sarebbe successo? Che cosa voleva accadesse tra loro? Certe tentazioni, pensò, è meglio tenerle a freno. Scrutò la strada buia un'ultima volta, poi si allontanò dalla finestra, consapevole di essere ben visibile nella luce del salotto. Tirò le tende e andò in ogni stanza per controllare chiusure e finestre. Normalmente, in una notte calda di giugno come quella, avrebbe dormito con la finestra aperta, ma quella sera chiuse tutte le finestre e accese il condizionatore. Si svegliò il mattino presto, tremando per l'aria gelida che usciva dalla bocchetta. Aveva sognato Parigi: passeggiava sotto un cielo azzurro passando accanto a secchi pieni di rose e di gigli orientali. Per un istante non ricordò più chi fosse. Non sono più a Parigi, ma nel mio letto, concluse. Ed è successo qualcosa di terribile. Erano solo le cinque del mattino, ma era ben sveglia. A Parigi sono le undici, pensò. In quella città il sole splende e, se adesso fossi lì, mi sarei già bevuta un secondo caffè. Sapeva che il jet-lag si sarebbe fatto sentire più tardi nel corso della giornata, che quella carica di energia mattutina sarebbe svanita nel pomeriggio, ma non riusciva più a dormire. Si alzò e si vestì. La strada davanti a casa sua era la stessa di sempre. I primi bagliori dell'alba screziavano il cielo e Maura guardò le luci accendersi nella casa del vicino, il signor Telushkin. Era un uomo che si alzava presto e di solito andava al lavoro un'ora prima di lei, ma quel mattino era stata lei la prima a svegliarsi e aveva visto il quartiere con occhi nuovi: gli irrigatori automatici che si attivavano dall'altra parte della strada, l'acqua che sibilando creava cerchi sul prato, il ragazzo dei giornali che passava in bici col cappellino da baseball alla rovescia, il tonfo del Boston Globe che colpiva la
porta. Tutto sembra lo stesso, pensò, ma non lo è. La morte ha fatto visita al mio quartiere e tutti quelli che vivono qui se ne ricorderanno. Guarderanno dalle finestre il punto in cui era parcheggiata la Taurus e rabbrividiranno all'idea di quanto sia passata loro vicino. Un paio di fari spuntarono da dietro l'angolo e una macchina percorse la strada rallentando in prossimità di casa sua. Un'auto della Polizia di Brookline. No, niente è lo stesso, pensò mentre osservava la macchina della polizia che si allontanava. Niente più lo sarà. Arrivò in studio prima della sua segretaria. Alle sei Maura era seduta alla scrivania, intenta a smaltire la grossa pila di trascrizioni e di verbali autoptici che si era accumulata nel vassoio della posta in arrivo durante la settimana del convegno parigino. Era già a un terzo dell'impresa quando udì alcuni passi e sollevò lo sguardo, notando Louise in piedi sulla soglia. «È qui», mormorò Louise. Maura la salutò con un sorriso. «Bonjour! Ho pensato di sbrigare subito tutte queste scartoffie.» Louise si limitò a fissarla per qualche istante, poi entrò nella stanza e si sedette di fronte a Maura, come se fosse d'un tratto troppo stanca per restare in piedi. Pur cinquantenne, Louise sembrava sempre avere il doppio dell'energia di Maura, di dieci anni più giovane. Quel mattino, tuttavia, aveva un'aria esausta e il suo viso appariva scarno e giallastro sotto le luci a fluorescenza. «Sta bene, dottoressa Isles?» le chiese con tono calmo. «Sto bene, sono solo un po' stordita dal jet-lag.» «Voglio dire... dopo quello che è successo la notte scorsa. Il detective Frost sembrava così sicuro che fosse lei, in quella macchina...» Maura annuì mentre il sorriso le svaniva dal volto. «È stato come trovarsi nella Zona morta, Louise. Tornare a casa e trovare tutte quelle auto della polizia davanti al portone.» «È stato orribile. Pensavamo tutti che...» Louise deglutì e si guardò le ginocchia. «Ho provato un gran sollievo quando il dottor Bristol mi ha chiamata ieri sera. Per dirmi che si era trattato di uno sbaglio.» Ci fu silenzio, un silenzio carico di biasimo. A Maura venne d'un tratto in mente che avrebbe dovuto chiamare lei la sua segretaria, capire quanto fosse rimasta scossa e quanto desiderasse sentire la sua voce. Vivo sola e
senza legami affettivi da tanto tempo che non mi accorgo nemmeno che a questo mondo ci sono persone a cui sta a cuore la mia sorte. Louise si alzò e fece per andarsene. «Sono così contenta di rivederla, dottoressa Isles. Volevo solo dirle questo.» «Louise?» «Sì?» «Le ho portato una cosina da Parigi. So che sembra una scusa idiota, ma è nella mia valigia. E la compagnia aerea l'ha smarrita.» «Oh.» Louise scoppiò a ridere. «Be', se è cioccolato, di certo i miei fianchi non ne hanno bisogno.» «Non è niente di calorico, glielo giuro.» Lanciò un'occhiata all'orologio sulla scrivania e chiese: «Il dottor Bristol è già qui?» «È appena arrivato. L'ho visto nel parcheggio.» «Sa quando farà l'autopsia?» «Quale? Oggi ne ha due.» «La vittima uccisa con un'arma da fuoco. La donna.» Louise la guardò a lungo. «Penso sia la seconda in lista.» «Hanno scoperto qualcosa di più su di lei?» «Non lo so. Lo deve chiedere al dottor Bristol.» 3 Anche se quel giorno non doveva effettuare autopsie, alle due Maura scese di sotto e indossò un completo da chirurgo. Era sola nello spogliatoio femminile e si tolse con calma gli abiti civili. Piegò camicetta e pantaloni e li ripose impilati con cura nell'armadietto. La veste da chirurgo frusciava a contatto con la sua pelle come un lenzuolo appena lavato e Maura trovò conforto nella familiare routine di vestizione, mentre allacciava la fettuccia dei pantaloni e infilava i capelli nella cuffia. Si sentiva riparata, protetta dal cotone fresco di bucato, dal ruolo che rivestiva e dalla divisa che portava. Lanciò un'occhiata allo specchio, all'immagine riflessa fredda come quella di un estraneo che non lasciava trapelare alcun sentimento. Uscì dallo spogliatoio, percorse il corridoio e spinse le porte della sala autopsie. Rizzoli e Frost erano già in piedi accanto al tavolo, con tanto di camice e guanti addosso, e le loro schiene nascondevano a Maura la vista del cadavere. Fu il dottor Bristol a notarla per primo. Era rivolto verso di lei, con il camice extra-large che gli fasciava il grosso ventre, e incrociò il suo sguardo quando Maura entrò nella sala. Inarcò le sopracciglia al di sopra della
mascherina e lei colse l'occhiata interrogativa. «Ho pensato di assistere», disse. A quel punto Rizzoli si voltò a guardarla. Anche lei aveva un'aria accigliata. «Sei sicura di volerlo fare?» «Tu non saresti curiosa?» «Ma non so se, tutto considerato, vorrei vedere.» «Osserverò soltanto. Se per te va bene, Abe.» Bristol si strinse nelle spalle. «Be', accidenti, anch'io sarei curioso», disse. «Unisciti pure alla festa.» Maura si portò dal lato di Abe e alla prima occhiata che diede al corpo sentì la gola seccarsi. Aveva visto la sua buona dose di orrori in quella sala, aveva esaminato la carne in ogni stadio della decomposizione, cadaveri tanto deturpati dal fuoco o da qualche trauma da risultare a stento definibili resti umani. La donna sul tavolo era, alla luce della sua esperienza, straordinariamente integra. Il sangue era stato ripulito e il foro d'ingresso del proiettile, nella parte sinistra del cuoio capelluto, era nascosto dai capelli scuri. Il volto non presentava alcun danno e il torso era alterato soltanto dalle tipiche macchie cutanee. Nell'inguine e sul collo, là dove Yoshima, l'assistente dell'obitorio, aveva prelevato il sangue per i test di laboratorio, c'erano segni di punture recenti, ma per il resto il busto era intatto. Il bisturi di Abe non aveva ancora praticato un solo taglio. Se il torace fosse stato già aperto e la cavità esposta, quel corpo le sarebbe parso meno inquietante. I cadaveri aperti erano anonimi. Cuori, polmoni, milze erano solo organi, strutture prive d'individualità che potevano essere trapiantate da un corpo all'altro, un po' come pezzi di ricambio. Ma quella donna era ancora integra e i suoi tratti apparivano incredibilmente riconoscibili. La sera prima Maura aveva visto il cadavere vestito, nell'ombra, illuminato solo dalla Maglite di Rizzoli. Adesso che erano illuminati dalle luci violente della sala autoptica, e che i vestiti erano stati rimossi per scoprire il busto, quei tratti le parvero più che familiari. Santo Dio, quello sul tavolo è il mio volto, il mio corpo. Soltanto lei sapeva quanto fosse stretta la somiglianza. Nessun altro nella stanza aveva mai visto la forma del suo seno nudo o la curva delle sue cosce. Conoscevano solo ciò che lei permetteva loro di vedere: il viso, i capelli. Non potevano sapere che le somiglianze tra lei e quel cadavere erano tanto profonde da comprendere perfino le screziature rosso-brunastre dei peli pubici. Maura guardò le mani della donna, le dita lunghe e sottili come le sue.
Erano mani da pianista. Le dita erano macchiate d'inchiostro; anche le radiografie craniche e dentali erano già state effettuate. Sullo schermo luminoso spiccava la panoramica, con due file di denti bianchi che brillavano come il sorriso dello Stregatto. La mia panoramica sarebbe così? si chiese Maura. Siamo identiche, persino a livello dello smalto dentale? Con una voce che le sembrò insolitamente calma chiese: «Avete saputo qualcosa di più su di lei?» «Stiamo ancora indagando sul nome, Anna Jessop», disse Rizzoli. «Tutto quello che abbiamo finora è la patente del Massachusetts, rilasciata quattro mesi fa. Lì c'è scritto che ha quarant'anni. È alta uno e settanta, ha capelli neri e occhi verdi, peso cinquantacinque chili.» Rizzoli squadrò il cadavere sul tavolo. «Direi che corrisponde alla descrizione.» Io pure, pensò Maura. Ho quarant'anni e sono alta un metro e settanta. Solo il peso è diverso: io peso cinquantasette chili. Ma quale donna non mente quando deve dichiarare il peso sulla patente? Osservò, muta, mentre Abe completava l'esame visivo e scribacchiava di tanto in tanto qualcosa su un modulo prestampato raffigurante un corpo femminile. Foro del proiettile nella tempia sinistra. Tipiche macchie cutanee sulla parte inferiore del torso e sulle cosce. Cicatrice di un'appendicectomia. Poi posò il portablocco e si portò ai piedi del tavolo per effettuare i tamponi vaginali. Mentre lui e Yoshima ruotavano le cosce per esporre il perineo, l'attenzione di Maura fu attratta dall'addome della vittima. Fissò la cicatrice dell'appendicectomia, una sottile linea bianca che solcava la pelle eburnea. Anch'io ce l'ho. Effettuati i tamponi, Abe si avvicinò al vassoio portastrumenti e prese il bisturi. La prima incisione fu quasi insopportabile da vedere. Maura si portò la mano al petto come se sentisse la lama tagliare la sua stessa carne. È stato un errore, pensò mentre Abe praticava l'incisione a Y. Non so se riesco a guardare. Rimase tuttavia ferma al suo posto, affascinata e nel contempo inorridita, a osservare Abe che ripiegava la cute della parete toracica e la scostava rapido come se scuoiasse un animale. Bristol procedeva ignorando il suo orrore, concentrandosi solo sul compito di aprire il torso. Un abile patologo può terminare un'autopsia semplice in meno di un'ora e in quella fase della procedura Abe non perdeva tempo in inutili raffinatezze settorie. Maura lo aveva sempre considerato un uomo simpatico, con la sua sana passione per il cibo, l'alcol e l'opera, ma in quel momento, con il suo
addome sporgente e il collo spesso come quello di un toro, sembrava un grasso macellaio che, armato di coltello, squartava la carne. La pelle del petto era stata ormai scostata e i seni giacevano nascosti sotto i lembi ripiegati; costole e muscoli erano esposti. Yoshima si chinò sul corpo e con un paio di cesoie da potatura tagliò le costole. Maura sussultò a ogni schiocco. Quant'è facile spezzare un osso umano, pensò. Crediamo che il cuore sia protetto dalla robusta gabbia toracica, eppure basta impugnare i manici, azionare le lame e a una a una le costole s'arrendono all'acciaio temprato. Siamo fatti di materiali così fragili. Yoshima tagliò l'ultimo osso e Abe resecò le ultime fibre di cartilagine e muscolo. Insieme rimossero quindi lo sterno come se sollevassero il coperchio di una scatola. Dentro il torace aperto luccicavano cuore e polmoni. Organi giovani, fu il primo pensiero di Maura. Ma no, rifletté subito dopo: quarant'anni non è poi un'età così giovanile, vero? Non le era facile ammettere che, a quarant'anni, era a metà della sua vita. Che, come quella donna sul tavolo, non poteva più essere considerata giovane. Gli organi che vide nel torace avevano un aspetto normale, senza segni evidenti di patologie. Con alcune abili incisioni Abe rimosse cuore e polmoni e li posò in una bacinella metallica. Sotto le luci intense praticò quindi alcuni tagli per esaminare il parenchima polmonare. «Non era una fumatrice», disse ai due detective. «Niente edema. Un bel tessuto sano.» Tranne per il fatto che era morto. Rimise i polmoni nella bacinella, dove questi formarono un ammasso roseo, e prese il cuore che gli stava comodamente nella grossa mano. All'improvviso Maura percepì il suo cuore che le martellava nel petto. Come quello della morta, sarebbe stato nel palmo di Abe. All'idea che questi tenesse in mano il suo cuore e lo girasse per esaminare le coronarie come stava facendo, ebbe un senso di nausea. Dal punto di vista meccanico era solo una pompa, eppure occupava una posizione centrale nel corpo di una persona e vedere il cuore di quella donna così esposto le procurò una sensazione di vuoto al petto. Inspirò, ma l'odore del sangue le aumentò la nausea. Diede le spalle al cadavere e si ritrovò a incrociare lo sguardo con Rizzoli, che aveva visto sin troppo. Si conoscevano ormai da quasi due anni e avevano lavorato insieme su tanti casi da arrivare a rispettarsi molto sul piano professionale. Nello sguardo di Jane tuttavia, oltre al rispetto, c'era una nota di premurosa cautela. Maura sapeva quanto fosse sviluppato il
suo istinto e, mentre si guardavano da una parte all'altra del tavolo, si accorse che Rizzoli aveva capito che era sul punto di fuggire dalla sala. Alla tacita domanda che le lesse negli occhi, rispose però contraendo la mascella. La Regina dei morti aveva riaffermato la sua invincibilità. Di nuovo si concentrò sul corpo. Abe, ignaro della tensione sotterranea presente nella stanza, aveva aperto le cavità cardiache. «Tutte le valvole hanno un aspetto normale», commentò. «Le coronarie sono sane. I vasi sono puliti. Caspita, chissà se il mio cuore è così ben messo.» Maura gli guardò il ventre enorme e, conoscendo la sua passione per il foie gras e le salse a base di burro, ne dubitò. Goditi la vita finché puoi, era la filosofia di Abe. Soddisfa le tue voglie ora, perché prima o poi finiamo tutti come i nostri amici sul tavolo. A che serve avere le coronarie sane se nella vita ti privi di ogni piacere? Bristol posò il cuore nella bacinella e si accinse a esaminare il contenuto intestinale. Il bisturi tagliò in profondità, aprendo il peritoneo. Spuntarono stomaco e fegato, milza e pancreas. L'odore della morte, di organi freddi, era familiare a Maura, eppure quella volta le diede fastidio, quasi assistesse per la prima volta a un'autopsia. Non era più la patologa incallita: osservò Abe tagliare con forbici e coltello e la brutalità della procedura la sconvolse. Dio mio, questo è quello che faccio ogni giorno, ma quando il mio bisturi taglia, taglia la carne anonima di uno sconosciuto. Quella donna non era una sconosciuta. Mentre osservava quasi con distacco Abe al lavoro, Maura scivolò in uno stato di vuoto torpore. Stanca per la notte agitata e il jet-lag, ebbe la sensazione di allontanarsi dalla scena che si svolgeva sul tavolo, di ritirarsi in una posizione sicura, di forza, da cui poter osservare tutto con indifferenza. Era solo un cadavere sul tavolo. Non c'erano legami, non che le risultasse. Abe staccò rapidamente l'intestino tenue e lo depose con le sue anse nella bacinella. Con un paio di forbici e un coltello da cucina svuotò l'addome, lasciandone solo le pareti. Portò quindi la bacinella carica di visceri sul banco di acciaio inossidabile, dove estrasse gli organi a uno a uno per esaminarli. Sul tagliere aprì lo stomaco e ne versò il contenuto in una bacinella più piccola. L'odore di cibo non digerito indusse Rizzoli e Frost a voltarsi dall'altra parte con una smorfia di disgusto. «Sembrano i resti della cena», disse Abe. «Direi che ha mangiato un'insalata ai frutti di mare. Vedo lattuga e pomodori. Forse gamberetti...»
«Quanto tempo è passato dall'ultimo pasto all'ora del decesso?» chiese Rizzoli con voce stranamente nasale. Teneva la mano sul volto per il puzzo. «Un'ora, forse più. Deve aver mangiato fuori, dato che l'insalata di frutti di mare non è un piatto che in genere ci si prepara a casa.» Abe guardò Rizzoli. «Avete trovato ricevute di ristoranti nella borsa?» «No. Potrebbe aver pagato in contanti. Stiamo ancora aspettando le informazioni sulla carta di credito.» «Gesù», esclamò Frost continuando a guardare da un'altra parte. «Mi ha fatto passare qualsiasi voglia di gamberetti.» «Ehi, non deve lasciarsi influenzare», replicò Abe che ora stava tagliando il pancreas. «Se ci pensa, siamo tutti costituiti dalle stesse unità di base: grassi, carboidrati e proteine. Quando mangia una gustosa bistecca, mangia muscolo. Pensa forse che rinunci alle bistecche perché sono fatte del tessuto che seziono ogni giorno? Tutti i muscoli hanno gli stessi ingredienti biochimici, anche se in certi casi hanno un odore migliore che in altri», disse allungandosi per prendere i reni. Tagliò con cura varie fette da ognuno e mise alcuni piccoli campioni di tessuto in un barattolo di formalina. «Finora sembra tutto normale», commentò e, guardando Maura, aggiunse: «Sei d'accordo?» Lei annuì meccanicamente, ma non disse nulla, distratta dalla nuova serie di radiografie che Yoshima stava appendendo allo schermo luminoso. Erano radiografie craniche. In quella laterale si vedeva il profilo dei tessuti molli: sembrava il volto semitrasparente di un fantasma di profilo. Maura si avvicinò allo schermo luminoso e fissò l'area radiopaca a forma di stella, incredibilmente brillante rispetto all'ombra più tenue dell'osso. Si era incastrato nel tavolato cranico. Il foro d'ingresso ingannevolmente piccolo presente nel cuoio capelluto non era indicativo dei danni che quel proiettile devastante poteva arrecare al cervello umano. «Gesù», mormorò. «È un proiettile Black Talon.» Abe sollevò lo sguardo dalla bacinella con gli organi. «Non ne vedo uno da un bel po'. Dovremmo procedere con cautela. Le punte metalliche di quel proiettile sono affilate come rasoi. Tagliano un guanto da parte a parte.» Guardò Yoshima, che lavorava all'ufficio del coroner da più tempo dei patologi e che fungeva da memoria storica. «Quando è stata l'ultima volta che è arrivata una vittima di un Black Talon?» «Direi un paio d'anni fa», rispose Yoshima. «Così di recente?»
«Mi ricordo che del caso si era occupato il dottor Tierney.» «Puoi chiedere a Stella di controllare? Di verificare se sia stato chiuso. È un proiettile tanto insolito che ti viene da pensare a un collegamento.» Yoshima si tolse i guanti e si avvicinò all'interfono per chiamare la segretaria di Abe. «Pronto, Stella? Il dottor Bristol vorrebbe verificassi l'ultimo caso riguardante un proiettile Black Talon. Dovrebbe averlo seguito il dottor Tierney...» «Ne ho sentito parlare», disse Frost che si era avvicinato allo schermo luminoso per esaminare con più attenzione la radiografia. «È la prima volta che ho una vittima con un proiettile del genere.» «È a punta cava, fabbricato dalla Winchester», disse Abe. «Concepito per espandersi e lacerare i tessuti molli. Quando penetra nella carne, la camicia di rame si apre e forma una stella a sei punte, ognuna delle quali è più affilata di un artiglio.» Si spostò quindi verso la testa del cadavere. «Sono stati ritirati dal mercato nel '93, dopo che a San Francisco uno squilibrato li ha usati per uccidere nove persone. La Winchester si è attirata tanta pubblicità negativa che ha deciso di bloccarne la produzione, ma ne circolano ancora alcuni. Ogni tanto se ne ritrova uno in una vittima, ma stanno diventando piuttosto rari.» Lo sguardo di Maura era ancora fisso sulla radiografia, su quella stella bianca letale. Pensò a quello che aveva appena detto Abe: Ognuna delle quali è più affilata di un artiglio. E si ricordò dei graffi sull'auto della vittima. Come il segno dell'artiglio di un rapace. Si voltò verso il tavolo proprio mentre Abe stava finendo di incidere il cuoio capelluto. In quel breve istante, prima che ripiegasse il lembo cutaneo, Maura si ritrovò inevitabilmente a osservare il volto della donna. La morte le aveva chiazzato le labbra di blu scuro. Aveva gli occhi aperti con le cornee secche e opache per l'esposizione all'aria. Il luccicare degli occhi nei vivi non è che il riflesso della luce sulle cornee umide: quando le palpebre non battono più, quando la cornea non viene più umettata dal liquido, gli occhi si seccano e si opacizzano. Non è la dipartita dell'anima che priva gli occhi di ogni sembianza di vita, ma la fine del riflesso palpebrale. Maura osservò le due strisce opache sulle cornee e per un istante immaginò gli occhi come dovevano essere da vivi. Fu, incredibilmente, come guardarsi allo specchio: ebbe l'improvvisa, violenta sensazione di essere lei stesa sul tavolo, di guardare il suo corpo che veniva autopsiato. Gli spiriti non restavano negli stessi posti che frequentavano da vivi? È la mia ossessione, pensò, la sala autopsie. Qui sarò condannata a passare l'eternità.
Abe ripiegò il cuoio capelluto in avanti e il volto collassò come una maschera di gomma. Maura rabbrividì. Mentre distoglieva lo sguardo notò che Rizzoli la stava di nuovo guardando. Sta guardando me? O il mio fantasma? Il ronzio della sega Stryker sembrò penetrarle fin nel midollo. Abe tagliò la calotta cranica preservando il segmento in cui era entrato il proiettile. Poi con delicatezza la tirò e la rimosse. Il Black Talon cadde dal cranio aperto e finì tintinnando nella bacinella che Yoshima stava tenendo sotto di esso. Luccicava, con le sue punte metalliche aperte come i petali di un fiore micidiale. Il cervello era chiazzato di sangue scuro. «Emorragia estesa, in entrambi gli emisferi. Proprio quello che mi aspettavo in base alle radiografie», commentò Abe. «Il proiettile è entrato qui, nell'osso temporale sinistro, ma non è uscito. Lo vedete lì, nelle radiografie», affermò indicando lo schermo luminoso, dove il proiettile risaltava con la sua forma a stella contro la curvatura interna dell'occipitale sinistro. «Buffo come sia finito sullo stesso lato del cranio da cui è entrato», osservò Frost. «Probabilmente è rimbalzato. Il proiettile è entrato nel cranio ed è rimbalzato di qua e di là lacerando il cervello. Ha esaurito tutta la sua energia nei tessuti molli, agendo come le lame di un mixer.» «Dottor Bristol?» Era Stella, la sua segretaria, all'interfono. «Sì?» «Ho trovato il caso del Black Talon. Il nome della vittima è Vassilij Titov. Il dottor Tierney ha effettuato l'autopsia.» «Chi è il detective che ha seguito il caso?» «Ehm... ecco qui. I detective Vann e Dunleavy.» «Parlerò con loro», disse Rizzoli. «Verificherò quello che ricordano.» «Grazie, Stella», esclamò Bristol e guardò Yoshima che aveva già preparato la macchina fotografica. «Va bene, scatta.» Questi iniziò a scattare foto del cervello esposto, documentandone in modo permanente l'aspetto prima che Abe lo asportasse dalla sua teca ossea. Lì si trovano i ricordi di una vita, pensò Maura mentre osservava le circonvoluzioni lucenti di sostanza grigia. L'ABC dell'infanzia, il fatto che quattro per quattro fa sedici, il primo bacio, il primo innamorato, la prima crisi sentimentale. Tutto è depositato lì, in quella complessa struttura di neuroni, sotto forma di pacchetti di RNA messaggero. La memoria era pura biochimica, eppure definiva l'individualità di ogni essere umano.
Con un paio di piccoli tagli Abe staccò il cervello e lo portò sul banco reggendolo con due mani, come se stringesse un tesoro. Non lo avrebbe sezionato quel giorno, anzi, lo avrebbe immerso in una bacinella di fissante per sezionarlo soltanto in seguito. Non aveva tuttavia bisogno dell'esame microscopico per rilevare le tracce del trauma: erano lì, nella discromia della superficie causata dal sangue. «Allora, abbiamo il foro d'entrata, qui, nella tempia sinistra», disse Rizzoli. «Sì, e il foro nella cute e quello cranico sono perfettamente allineati», osservò Abe. «Il che è compatibile con un tiro diritto, mirato al lato della testa.» Abe annuì. «Probabilmente l'assassino ha puntato l'arma direttamente nel finestrino del guidatore, che era aperto, perciò il vetro non ha alterato la traiettoria.» «Quindi, lei se ne sta seduta in auto», affermò Rizzoli. «È una notte calda, tiene il finestrino abbassato. Sono le otto e si sta facendo buio. Lui si avvicina alla macchina, punta la pistola e spara.» Scosse la testa e chiese: «Perché?» «Non ha preso la borsa», osservò Abe. «Perciò non si tratta di una rapina», affermò Frost. «Il che ci porta a ipotizzare un crimine passionale. O un omicidio su commissione.» Rizzoli guardò Maura. Ecco che riaffiorava: la possibilità di un assassinio mirato. L'omicida aveva colpito il bersaglio giusto? Abe mise il cervello in un secchio di formalina. «Finora nessuna sorpresa», disse mentre si girava per effettuare la dissezione del collo. «Richiederà l'esame tossicologico?» chiese Rizzoli. Abe si strinse nelle spalle. «Possiamo farlo, ma non credo sia necessario. La causa della morte è lì», rispose indicando con un cenno del capo lo schermo luminoso, dove il proiettile risaltava netto contro l'ombra del cranio. «C'è qualche ragione per richiedere il tossicologico? La Scientifica ha trovato droga o qualche aggeggio strano nella macchina?» «No. L'auto era molto pulita. A parte il sangue, intendo.» «Ed è tutto della vittima?» «È tutto B positivo, in ogni caso.» Abe lanciò un'occhiata a Yoshima. «Hai già tipizzato la nostra ragazza?» Yoshima annuì. «Corrisponde. Gruppo B positivo.» Nessuno stava guardando Maura. Nessuno la vide sollevare di scatto il
mento e inspirare bruscamente. D'un tratto si voltò per non mostrar loro il volto, si slegò la mascherina e se la strappò con un movimento secco. Mentre si avvicinava al cestino dei rifiuti, Abe gridò: «Ti sei già stancata di noi, Maura?» «Sento gli effetti del jet-lag», rispose lei togliendosi il camice. «Credo che andrò a casa presto. Ci vediamo domani, Abe.» Uscì rapida dalla sala senza voltarsi. Fece il tragitto verso casa come stordita. Solo quando giunse alla periferia di Brookline il cervello improvvisamente le si sbloccò. Solo allora uscì dal circuito ossessivo dei pensieri che continuavano a turbinarle in testa. Non pensare all'autopsia, escludila dalla mente. Pensa alla cena, a qualsiasi cosa, ma non a quello che hai visto oggi. Si fermò al negozio di alimentari. Aveva il frigo vuoto e, se non voleva mangiare tonno e piselli surgelati, doveva fare la spesa. Concentrarsi su qualcos'altro fu un sollievo. Con frenesia spasmodica gettò diversi prodotti nel carrello. Era molto più sicuro pensare al cibo, a quello che avrebbe cucinato durante la settimana. Smetti di pensare agli schizzi di sangue e agli organi nelle bacinelle d'acciaio. Devo comperare pompelmi e mele. E quelle melanzane non hanno forse un bell'aspetto? Prese un mazzetto di basilico fresco e ne inalò avidamente il profumo, lieta che con la sua intensità cancellasse, anche soltanto per un istante, tutti gli odori che ricordava della sala autopsie. Una settimana di delicata cucina francese le aveva fatto venire una gran voglia di spezie. Stasera, pensò, mi preparerò un curry verde tailandese così piccante che mi brucerò la bocca. A casa si cambiò. Indossò short e maglietta e si buttò a capofitto nella preparazione della cena. Mentre affettava il pollo, le cipolle e l'aglio, sorseggiò un Bordeaux bianco gelato. Il vapore profumato del riso jasmine riempì la cucina. Non c'era tempo di pensare al sangue B positivo né alle donne more: l'olio nella pentola stava fumando. Era tempo di rosolare il pollo, di aggiungere la pasta di curry e di versare il latte di cocco in lattina. Maura coprì la pentola e lasciò sobbollire il tutto. Sollevando lo sguardo verso la finestra della cucina, si vide all'improvviso riflessa nel vetro. Le assomiglio. Sono esattamente come lei. Sentì un brivido in tutto il corpo, come se il volto sul vetro non fosse un riflesso, ma uno spettro che la osservava. Il coperchio della pentola tintinnò, mosso dal vapore che saliva. Gli spettri cercavano di uscire. Cercavano disperatamente di attirare la sua attenzione. Spense il fornello, si avvicinò al telefono e compose il numero di un cer-
capersone che conosceva a memoria. Un attimo dopo Jane Rizzoli la chiamò. In sottofondo Maura udì un telefono che squillava. Allora Jane non era ancora a casa, ma probabilmente seduta alla sua scrivania a Schroeder Plaza. «Scusa se ti disturbo», disse. «Ma devo chiederti una cosa.» «Stai bene?» «Sì. Volevo sapere ancora una cosa su di lei.» «Su Anna Jessop?» «Sì. Hai detto che aveva una patente del Massachusetts.» «Esatto.» «Quale data di nascita riporta?» «Cosa?» «Oggi, in sala autopsie, hai detto che aveva quarant'anni. In che giorno è nata?» «Perché?» «Ti prego. Vorrei saperlo.» «Va bene. Aspetta.» Maura la udì scartabellare, poi Rizzoli tornò in linea. «Secondo la patente è nata il 25 novembre.» Per un istante Maura non disse nulla. «Sei ancora lì?» chiese Jane. «Sì.» Maura deglutì. «Ti devo chiedere di fare una cosa per me, Jane. Ti sembrerà una pazzia.» «Sentiamo.» «Vorrei che il laboratorio della Scientifica confrontasse il mio DNA col suo.» Maura udì il telefono in sottofondo smettere finalmente di suonare. «Ripeti quello che hai detto perché credo di non aver capito bene», disse Rizzoli. «Voglio sapere se il mio DNA corrisponde a quello di Anna Jessop.» «Senti, d'accordo che la somiglianza è forte...» «C'è di più.» «A che cosa ti riferisci?» «Abbiamo lo stesso gruppo sanguigno, B positivo.» «Quante altre persone hanno il gruppo B positivo? Diciamo, il dieci per cento della popolazione?» replicò con logica Jane. «E il compleanno: hai detto che è nata il 25 novembre. Anch'io, Jane.» A quella notizia dall'altra parte del telefono ci fu silenzio. «Bene, mi hai
appena fatto venire la pelle d'oca.» «Capisci adesso perché voglio saperlo? Tutto di lei, dall'aspetto al gruppo sanguigno, alla data di nascita...» Maura s'interruppe. «Lei è me. Voglio sapere da dove veniva. Voglio sapere chi era.» Ci fu un lungo silenzio, poi Rizzoli disse: «Rispondere a questa domanda sarà molto più difficile del previsto». «Perché?» «Nel pomeriggio abbiamo ricevuto il dettaglio delle spese che ha fatto con la carta di credito e scoperto che il suo conto MasterCard è stato aperto solo sei mesi fa.» «E allora?» «La sua patente è stata rilasciata quattro mesi fa. Le targhe dell'auto le sono state consegnate solo tre mesi fa.» «E il luogo di residenza? C'era un indirizzo di Brighton, giusto? Avrete parlato con i vicini.» «Alla fine, ieri sera tardi, siamo riusciti a contattare la proprietaria. Dice che ha affittato la casa ad Anna Jessop tre mesi fa. Ci ha fatti entrare nell'appartamento.» «E?» «È vuoto, dottoressa. Nemmeno un mobile, né una padella o uno spazzolino da denti. Qualcuno ha pagato per istallare la TV via cavo e la linea telefonica, ma lì non c'era nessuno.» «E i vicini?» «Non l'hanno mai vista. La chiamavano 'il fantasma'.» «Avrà avuto una residenza precedente. Un altro conto bancario...» «Abbiamo cercato. Non riusciamo a trovare niente su questa donna che risalga a un tempo più lontano.» «Questo che significa?» «Significa», disse Rizzoli, «che prima di sei mesi fa Anna Jessop non esisteva.» 4 Quando Rizzoli entrò da J.P. Doyle, trovò i soliti clienti radunati attorno al banco. Poliziotti, per lo più, che si scambiavano racconti di guerra davanti a una birra e a una manciata di arachidi. Situato a destra della sottostazione di Polizia di Jamaica Plain, Doyle era probabilmente il ritrovo più sicuro della città. Fai una mossa falsa e cinque o sei agenti ti piombano
addosso come i New England Patriots. Rizzoli conosceva i suoi frequentatori e questi conoscevano lei. Si divisero per lasciar passare la signora incinta e lei scorse qualche sogghigno mentre avanzava nella calca, con il ventre che sembrava la prua di una nave. «Accidenti, Rizzoli», gridò qualcuno. «Sei ingrassata o che?» «Sì», rispose lei ridendo. «Ma diversamente da te ad agosto sarò un'acciuga.» Si fece strada fino ai detective Vann e Dunleavy che la stavano salutando dal bancone. Sam e Frodo, così li chiamavano tutti. Lo Hobbit grasso e quello magro lavoravano insieme da tanto tempo che si comportavano ormai come una vecchia coppia sposata, e probabilmente passavano più tempo assieme che con le loro mogli. Rizzoli li vedeva di rado divisi e pensava fosse solo questione di tempo perché iniziassero a vestirsi nello stesso modo. Le sorrisero e la salutarono con due pinte identiche di Guinness. «Ehi, Rizzoli», disse Vann. «... sei in ritardo», aggiunse Dunleavy. «Siamo già al secondo giro...» «... Ne vuoi una?» Gesù, uno terminava le frasi dell'altro. «Qui c'è troppo rumore», rispose lei. «Andiamo nell'altra sala.» Si diressero nella sala ristorante, verso il tavolo che Jane occupava di solito, sotto la bandiera irlandese. Dunleavy e Vann s'infilarono sulla panca di fronte a lei, sedendosi comodi fianco a fianco. Jane pensò al suo collega, Barry Frost, un uomo simpatico, persino elegante, con cui però non aveva niente in comune. Alla fine della giornata lei andava per la sua strada, Frost per la sua. Si apprezzavano a vicenda, ma Rizzoli non pensava sarebbe riuscita a frequentarlo con maggiore assiduità. Di certo, non come facevano quei due. «Così ti è capitata la vittima di un Black Talon», affermò Dunleavy. «Ieri sera a Brookline», rispose lei. «Il primo Talon dopo il vostro caso. Che risale a quando: due anni fa?» «Sì, circa.» «È stato chiuso?» Dunleavy scoppiò a ridere. «Chiuso come una bara inchiodata.» «Chi era l'assassino?» «Un certo Antonin Leonov. Un immigrato ucraino, una pedina da due soldi che cercava di entrare nel giro grosso. Se non l'avessimo arrestato, la
mafia russa avrebbe finito per eliminarlo.» «Un vero coglione», sbuffò Vann. «Non aveva idea che lo stessimo sorvegliando.» «Per quale motivo?» domandò Rizzoli. «Avevamo avuto una soffiata: Leonov aspettava un carico dal Tagikistan», rispose Dunleavy. «Eroina. Un carico molto grosso. Lo stavamo pedinando da quasi una settimana e non se n'era mai accorto. Così lo seguiamo fino alla casa del suo compare, Vassilij Titov. Titov doveva averlo fatto incazzare o qualcosa del genere. Lo vediamo entrare. Sentiamo gli spari, poi Leonov esce.» «E noi lo aspettiamo al varco», disse Vann. «Come ho detto, un vero coglione.» Dunleavy sollevò la sua Guinness per fare un brindisi. «Caso chiuso. Il colpevole viene sorpreso con l'arma in pugno. Ci siamo noi a testimoniarlo. Non so nemmeno perché si sia preso la briga di dichiararsi innocente. La giuria ha impiegato meno di un'ora a emettere il verdetto.» «Vi ha mai detto come sia venuto in possesso di quei Black Talon?» chiese lei. «Stai scherzando?» disse Vann. «Non ci avrebbe mai detto niente. Non parlava quasi inglese, ma conosceva bene la parola Miranda.» «Abbiamo chiamato una squadra per far perquisire la casa e il posto di lavoro», proseguì Dunleavy. «Abbiamo trovato, direi, otto scatole di Black Talon impilate nel suo magazzino. Roba da non credere! Non so come abbia fatto a mettere le mani su una quantità del genere, ma ne aveva davvero un mucchio», aggiunse con una scrollata di spalle. «Quindi, questi sono i particolari su Leonov. Non vedo che relazione ci sia con la tua vittima.» «In città ci sono stati solo due omicidi in cui hanno usato proiettili Black Talon», rispose lei. «Il vostro e il mio.» «Sì, be', probabilmente ne girano ancora un po' sul mercato nero. Tutto quello che so è che abbiamo inchiodato Leonov, e anche per bene.» Dunleavy abbassò il boccale. «Il tuo è un altro killer.» Conclusione a cui Rizzoli era già arrivata. Una faida tra piccoli mafiosi russi risalente a due anni prima non pareva rilevante nel caso di Anna Jessop. Il proiettile Black Talon non era un nesso tra i due omicidi. «Mi prestereste il file su Leonov?» chiese. «Vorrei dare comunque un'occhiata.» «Sarà sul tuo tavolo domani mattina.» «Grazie, ragazzi», disse lei spostandosi lungo la panca e alzandosi.
«Allora, quando lo scodelli?» chiese Vann indicando con un cenno il pancione. «Mai abbastanza presto.» «Sai, i ragazzi hanno fatto una scommessa. Sul sesso del bambino.» «Stai scherzando?» «Siamo a settanta testoni per la femmina e a quaranta per il maschio.» Vann sogghignò. «E a venti per qualcos'altro.» Rizzoli sentì il bambino scalciare mentre entrava in casa. Sta' buono, Junior, pensò. È già abbastanza brutto che mi abbia preso per un punching ball tutto il giorno: adesso mi terrai sveglia anche tutta la notte? Non sapeva se aspettava un maschio, una femmina o qualcos'altro, tutto ciò che sapeva era che quel bambino aveva voglia di nascere. Smetti solo di usare il kung-fu per cercare di uscire, d'accordo? Gettò borsa e chiavi sul banco di cucina, si sfilò le scarpe vicino alla porta e buttò il blazer su una sedia della sala da pranzo. Due giorni prima suo marito, Gabriel, era partito per il Montana con una squadra dell'FBI per indagare su un deposito segreto di armi di un gruppo paramilitare, e ora l'appartamento stava ricadendo nella stessa piacevole anarchia che vi regnava prima del loro matrimonio. Prima che Gabriel si trasferisse da lei e istituisse una parvenza di disciplina. Lascia carta bianca a un ex marine e vedi come ti ordina pentole e padelle a seconda della dimensione. In camera Jane si vide fugacemente riflessa nello specchio. Si riconobbe a stento, con quei pomelli rosei sulle guance, la schiena inarcata e il ventre sporgente sotto i pantaloni elastici premaman. Quando sono scomparsa? pensò. Esisto ancora, nascosta da qualche parte sotto questo corpo deforme? Guardò il riflesso di quella sconosciuta ricordando come fosse piatto il suo ventre un tempo. Non le piaceva la rotondità del suo viso né l'idea di avere guance rosee come quelle di una bambina. Lo splendore della gravidanza, aveva detto Gabriel, cercando di convincerla che non assomigliava affatto a una balena dal naso lucido. Quella donna non sono io, pensò. Non è la poliziotta capace di abbattere una porta con un calcio e di far fuori un delinquente. Si buttò di schiena sul letto e aprì le braccia sul materasso come un uccellino pronto a levarsi in volo. Sentiva l'odore di Gabriel tra le lenzuola. Stasera mi manchi, pensò. Non era così che doveva andare un matrimonio. Due carriere, due persone ossessionate dal lavoro. Gabriel in giro, lei sola in quell'appartamento. Ma sapeva, quando aveva fatto il passo, che non sa-
rebbe stato facile, che ci sarebbero state tante notti come quella quando il lavoro di Gabriel, o il suo, li avrebbe tenuti lontani. Pensò di chiamarlo di nuovo, ma quel mattino si erano già sentiti due volte e la bolletta telefonica si mangiava già una bella fetta del suo stipendio. Oh, all'inferno. Rotolò sul fianco, si alzò dal letto e stava per afferrare il telefono sul comodino quando all'improvviso questo squillò. Con un sobbalzo guardò l'ID del chiamante: era un numero sconosciuto, non quello di Gabriel. Sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Detective Rizzoli?» chiese un uomo. «Sì, sono io.» «Mi scuso per l'ora tarda. Sono appena rientrato in città e...» «Con chi parlo, per favore?» «Detective Ballard, Polizia di Newton. Ho saputo che è a capo dell'indagine sull'omicidio di ieri sera, a Brookline. La vittima si chiama Anna Jessop.» «Sì.» «L'anno scorso ho seguito un caso, qui. Riguardava una certa Anna Jessop. Non so se sia la stessa persona, ma...» «Ha detto che è del dipartimento di Newton?» «Sì.» «Saprebbe identificare la signora Jessop se ne vedesse i resti?» Ci fu un attimo di silenzio. «Penso di doverlo fare. Devo essere certo che si tratti di lei.» «E se così fosse?» «Saprei chi l'ha uccisa.» Prima ancora che il detective Rick Ballard le mostrasse il distintivo, Rizzoli capì che quell'uomo era un poliziotto. Mentre entrava nella reception dell'ufficio del coroner, lui scattò subito in piedi, quasi sull'attenti. Aveva due occhi azzurri dallo sguardo diretto, cristallino, capelli castani tagliati corti e una camicia linda e stirata in stile militare. Possedeva la stessa aria autorevole di Gabriel, lo stesso sguardo fermo che sembrava dire: In caso d'emergenza puoi contare su di me. Rizzoli ebbe il desiderio, solo per un istante, d'essere magra e attraente. Mentre gli stringeva la mano e guardava il distintivo, si sentì studiare in volto. Era decisamente uno sbirro, pensò. «È pronto?» chiese. Quando lui annuì, lanciò un'occhiata alla receptio-
nist. «Il dottor Bristol è di sotto?» «Sta terminando un'autopsia proprio in questo momento. Ha detto che potete scendere.» Presero l'ascensore per il seminterrato ed entrarono nell'anticamera dell'obitorio, dove si trovavano vari armadietti contenenti scorte di soprascarpe, mascherine e cuffie. Al di là dell'ampia finestra videro la sala dove il dottor Bristol e Yoshima stavano autopsiando un uomo sparuto dai capelli grigi. Bristol li notò oltre il vetro e fece loro un cenno di saluto. «Dieci minuti ancora!» esclamò. Rizzoli annuì. «Aspetteremo.» Bristol aveva appena praticato l'incisione sul cuoio capelluto e lo stava ripiegando in avanti staccando la faccia. «Odio questa parte», disse Rizzoli. «Quando toccano la faccia. Il resto, riesco a sopportarlo.» Ballard non disse nulla. Lei lo guardò: aveva la schiena rigida e un'aria stoica, cupa sul volto. Dal momento che non lavorava alla Omicidi, probabilmente non faceva spesso visita all'obitorio e la procedura che si stava svolgendo oltre la finestra gli appariva di certo raccapricciante. Jane ricordava la prima volta che vi era entrata, quando era cadetto della polizia. Faceva parte di un gruppo dell'accademia, unica donna tra sei cadetti muscolosi e ben più alti di lei. Tutti si aspettavano che fosse lei la schizzinosa, lei a girarsi dall'altra parte durante l'autopsia, invece si era piazzata davanti, nel centro, e aveva seguito l'intera procedura senza batter ciglio. Fu uno degli uomini, quello più grande e grosso, a impallidire e a dirigersi barcollando fino a una sedia vicina. Rizzoli si chiese se Ballard avrebbe fatto lo stesso. Sotto le luci a fluorescenza la sua pelle aveva assunto un pallore malsano. Nella sala autopsie Yoshima cominciò a segare il cranio. A quanto pareva, il ronzio della lama a contatto con l'osso era più di quello che Ballard potesse sopportare. Il detective voltò le spalle alla finestra e si concentrò sulle scatole di guanti di varie dimensioni impilate sulla mensola. Rizzoli provò sinceramente un po' di pena per lui. Quando eri un tipo dall'aria dura come Ballard, doveva essere umiliante far vedere a una donna che ti tremavano le ginocchia. Rizzoli gli avvicinò uno sgabello, poi ne prese uno per sé. Sedendosi, emise un sospiro. «Oggi non riesco più a stare tanto in piedi.» Anche lui si sedette, sollevato all'idea di pensare a qualcosa che non fosse il gemito della sega ossea. «È il primo?» chiese indicando il pancione.
«Sì.» «Maschio o femmina?» «Non lo so. Ci vanno bene entrambi.» «Pensavo lo stesso quando è nata mia figlia. Chiedevo solo che nascesse con tutte e dieci le dita delle mani e dei piedi...» Tacque per un istante e deglutì vistosamente mentre la sega continuava a gemere. «Quanti anni ha ora sua figlia?» chiese Rizzoli cercando di distrarlo. «Oh, quattordici, è grande. Adesso non sono più rose e fiori.» «È un'età dura per una ragazza.» «Vede tutti i capelli grigi che ho in testa?» Rizzoli scoppiò a ridere. «Mia mamma lo diceva sempre. Indicava la testa e diceva: 'Questi capelli grigi sono tutti colpa vostra'. Devo ammetterlo, a quattordici anni non ho reso la vita facile a chi mi stava accanto. È l'età.» «Be', anche noi abbiamo qualche problema. Mia moglie e io ci siamo separati l'anno scorso. Katie è sballottata un po' di qui e un po' di là. Due genitori che lavorano, due case.» «Dev'essere difficile per una ragazzina.» Il gemito della sega fortunatamente cessò. Dalla finestra Rizzoli vide Yoshima rimuovere la calotta cranica, Bristol liberare il cervello, prenderlo con delicatezza con due mani ed estrarlo dal cranio. Ballard tenne lo sguardo lontano dalla finestra, concentrando tutta la sua attenzione su Rizzoli. «È dura, vero?» disse. «Che cosa?» «Fare il poliziotto. Nelle sue condizioni e tutto il resto.» «Almeno in questi giorni nessuno si aspetta che sfondi le porte a calci.» «Mia moglie era una recluta quando è rimasta incinta.» «Polizia di Newton?» «Di Boston. Volevano toglierla dal servizio di pattuglia, ma lei ha risposto che essere incinta era un vantaggio. Ha detto che i delinquenti erano molto più gentili.» «I delinquenti? Con me non lo sono mai.» Nella stanza accanto Yoshima stava suturando l'incisione sul cadavere con ago e filo, macabro sarto che ricuciva non stoffe, ma carne. Bristol si sfilò i guanti, si lavò le mani e uscì con passo pesante per incontrare i visitatori. «Scusatemi per il ritardo, c'è voluto più del previsto. Quell'uomo aveva tumori sparsi in tutto l'addome, non ha mai visto un medico in vita sua, co-
sì alla fine ha visto me.» Tese la mano robusta ancora umida per salutare Ballard. «Detective. Allora, è qui per dare un'occhiata alla vittima dell'omicidio?» Rizzoli vide Ballard contrarsi in volto. «Me lo ha chiesto il detective Rizzoli.» Bristol annuì. «Be', allora andiamo. È nella cella frigorifera.» Li condusse oltre la sala autoptica, oltre un'altra porta che conduceva all'unità di refrigerazione. Sembrava una qualsiasi stanza frigorifera con gli indicatori della temperatura e una massiccia porta di acciaio inossidabile. Accanto, appeso alla parete, c'era un portablocco con l'elenco degli arrivi. Il nome dell'anziano che Bristol aveva appena finito di autopsiare era lì, in lista, arrivato alle ventitré della sera precedente. Non era di certo un elenco in cui desideravi comparire. Bristol aprì la porta e ne uscirono alcuni sbuffi di condensa. Entrarono e l'odore di carne congelata fece quasi venire il vomito a Rizzoli. Da quando era incinta, non sopportava più i cattivi odori. Bastava il più lieve sentore di marcio a farla correre verso il lavandino più vicino. Stavolta, mentre guardava con cupa determinazione la fila di lettini nella cella frigorifera, riuscì a controllare la nausea. C'erano cinque sacchi per le salme, con il loro contenuto avvolto in un telo di plastica bianca. Bristol si avvicinò alla fila di lettini ed esaminò le etichette, fermandosi alla quarta. «Ecco la nostra ragazza», disse e aprì la zip fino a rivelare la metà superiore del torso con l'incisione a Y ricucita con una sutura da patologo. Un'altra opera di Yoshima. Mentre la plastica veniva scostata, lo sguardo di Rizzoli non si posò sulla donna morta, ma su Rick Ballard che, silenzioso, fissò il cadavere. La vista di Anna Jessop sembrò lasciarlo impietrito. «Allora?» chiese Bristol. Ballard batté le palpebre, come per uscire dalla trance, ed espirò. «È lei», sussurrò. «Ne è assolutamente certo?» «Sì.» Ballard deglutì. «Che cos'è successo? Che cosa avete trovato?» Bristol lanciò un'occhiata a Rizzoli chiedendole tacitamente l'autorizzazione a divulgare le informazioni. Lei annuì. «Un unico colpo d'arma da fuoco, alla tempia sinistra», disse Bristol indicando il foro d'ingresso nel cuoio capelluto. «Danni estesi al lobo temporale sinistro e anche a entrambi i lobi parietali dovuti al rimbalzo intracranico del proiettile. Emorragia endocranica massiva.»
«È l'unica ferita?» «Esatto. L'assassino è stato molto rapido, molto efficiente.» Lo sguardo di Ballard si era fermato sul torso, sul seno. Non era una reazione insolita per un uomo che si trovasse di fronte a una giovane donna nuda, ma Rizzoli ne fu ugualmente infastidita. Viva o morta, Anna Jessop aveva diritto alla sua dignità. Rizzoli fu sollevata quando con professionalità il dottor Bristol richiuse la cerniera del sacco, garantendo alla morta la sua privacy. Uscirono dalla cella frigorifera e Bristol richiuse la pesante porta. «Conoscete i nomi di qualche parente stretto?» chiese. «C'è qualcuno che dobbiamo avvisare?» «Non ne ha», rispose Ballard. «Ne è sicuro?» «Non ha nessun...» La sua voce morì di colpo. Ballard si era bloccato e stava fissando oltre il vetro, nella sala autopsie. Rizzoli si girò per vedere che cosa stesse osservando e capì subito che cosa avesse attirato la sua attenzione. Maura Isles era appena entrata in sala con una busta di radiografie. Si era avvicinata allo schermo luminoso e aveva acceso la luce. Intenta a esaminare le immagini di alcune ossa fratturate di arti, non si accorse d'essere osservata. Che tre paia d'occhi la stavano fissando oltre il vetro. «Chi è?» mormorò Ballard. «Uno dei nostri medici legali», rispose Bristol. «La dottoressa Maura Isles.» «La somiglianza dà i brividi, vero?» commentò Rizzoli. Ballard, stupefatto, scosse la testa. «Per un attimo ho pensato...» «Tutti lo abbiamo pensato quando abbiamo visto la prima volta la vittima.» Nella stanza accanto Maura rimise le radiografie nella busta e uscì senza mai accorgersi d'essere osservata. Com'era facile sorvegliare una persona, pensò Rizzoli. Non c'è niente di simile a un sesto senso che ci dica quando qualcuno ci sta fissando. Non sentiamo il suo sguardo sulla schiena: solo quando fa una mossa ci accorgiamo della sua presenza. Rizzoli si voltò verso Ballard. «Bene, ora ha visto Anna Jessop. Ci ha confermato che la conosceva. Adesso ci dica chi era veramente.» 5
La macchina per antonomasia. Così la definiva la pubblicità, così la chiamava Dwayne, e Mattie Purvis stava svoltando con uno di quei macchinoni potenti sulla West Central Street. Ricacciando indietro le lacrime, pensò: devi essere lì. Ti prego, Dwayne, fa' che ti trovi lì. Ma non sapeva se sarebbe andata così. In quei giorni c'erano molte cose che non capiva di suo marito, era come se uno sconosciuto avesse preso il suo posto, uno sconosciuto che non la degnava quasi di attenzione, che non la guardava quasi. Rivoglio mio marito, ma non so nemmeno come abbia fatto a perderlo. L'enorme insegna PURVIS BMW la chiamava in lontananza. Mattie entrò nel parcheggio superando file di luccicanti macchine per antonomasia e individuò quella di Dwayne, parcheggiata accanto alla porta dello showroom. Posteggiò accanto a essa e spense il motore. Rimase seduta per un istante e inspirò profondamente facendo alcuni respiri di purificazione, proprio come le avevano insegnato al corso Lamaze. Il corso che Dwayne aveva smesso di frequentare un mese prima perché lo riteneva uno spreco di tempo. Sei tu quella che avrà il bambino, non io. Perché ci devo venire? Uh-oh, troppi respiri profondi. D'un tratto ebbe un capogiro e cadde in avanti sul volante. Premette per sbaglio il clacson e trasalì quando questo emise il suo forte suono. Guardò fuori del finestrino e vide uno dei meccanici che la fissava. La moglie idiota di Dwayne che suonava il clacson senza motivo. Arrossendo, aprì la portiera, si dimenò col pancione per uscire dal posto di guida e si avviò verso lo showroom della BMW. Dentro c'era un odore di cuoio e di cera per auto. Un afrodisiaco per gli uomini, diceva Dwayne, ma a lei quel trionfo di odori dava vagamente la nausea. Si fermò tra le sensuali sirene dello showroom: i modelli nuovi usciti quell'anno, tutti curve e cromo, che rilucevano sotto i riflettori. Un uomo poteva perdere l'anima in quella sala. Sfiorava una fiancata metallica blu, fissava troppo a lungo il suo riflesso sul parabrezza e iniziava a sognare. A vedere l'uomo che sarebbe potuto essere se solo avesse posseduto una di quelle macchine. «Signora Purvis?» Mattie si girò e vide Bart Thayer, uno dei venditori del marito, che la salutava. «Oh, salve», disse. «Sta cercando Dwayne?» «Sì. Dov'è?»
«Credo, uh...» Bart lanciò un'occhiata in direzione degli uffici sul retro. «Vado a controllare.» «Non si preoccupi. Lo troverò io.» «No! Voglio dire... ehm, mi permetta di andare a cercarlo, va bene? Lei dovrebbe sedersi, stare tranquilla. Nelle sue condizioni non dovrebbe stare troppo in piedi.» Buffa cosa detta da Bart: aveva una pancia più grande della sua. Mattie riuscì ad abbozzare un sorriso. «Sono solo incinta, Bart, non invalida.» «Allora, quando è il gran giorno?» «Tra due settimane. Almeno così prevedono, ma non si sa mai.» «Giusto. Il mio primo figlio non voleva venire al mondo. È nato con tre settimane di ritardo e da allora è sempre stato in ritardo per tutto», disse ammiccando. «Ora vado a cercare Dwayne.» Mattie lo guardò avviarsi verso gli uffici sul retro e lo seguì, in tempo per vederlo bussare alla porta di Dwayne. Non ci fu risposta, al che bussò di nuovo. Finalmente la porta si aprì e Dwayne fece capolino. Quando vide Mattie che lo salutava dallo showroom, ebbe un sussulto. «Ti posso parlare?» gli gridò lei. Dwayne uscì dall'ufficio e chiuse la porta alle sue spalle. «Che fai qui?» chiese brusco. Bart guardò prima l'uno poi l'altra, poi lentamente si avviò verso l'uscita. «Uh, Dwayne, faccio una piccola pausa caffè.» «Sì, sì», borbottò questi. «Non m'interessa.» Bart si precipitò fuori dello showroom. Marito e moglie si guardarono. «Ti ho aspettato», disse Mattie. «Per che cosa?» «La visita dall'ostetrica, Dwayne. Avevi detto che saresti venuto. La dottoressa Fishman ha aspettato venti minuti, poi non abbiamo più potuto attendere. Ti sei perso l'ecografia.» «Oh... Gesù, me ne sono scordato.» Dwayne si passò la mano sulla testa ravviandosi i capelli neri. Sempre a sistemarsi i capelli, la camicia, la cravatta. Quando tratti un prodotto esclusivo, amava ripetere Dwayne, devi entrare nella parte. «Mi spiace.» Lei frugò nella borsa ed estrasse una Polaroid. «Vuoi vederla?» «Che cos'è?» «È nostra figlia. È la foto dell'ecografia.» Lui lanciò un'occhiata alla foto e si strinse nelle spalle. «Non vedo gran-
ché.» «Qui si vede il braccio, e la gamba. Se guardi con attenzione, riesci quasi a vedere il volto.» «Sì, bello», disse restituendogliela. «Stasera farò un po' tardi, d'accordo? Ho un cliente che viene alle sei per un test di guida. Mi arrangerò per la cena.» Mattie rimise la Polaroid in borsa e sospirò. «Dwayne...» Lui le diede un bacio frettoloso sulla fronte. «Lascia che ti accompagni, dai.» «Non possiamo prenderci un caffè o qualcos'altro?» «Ho dei clienti.» «Ma non c'è nessuno nello showroom.» «Mattie, per favore. Lasciami fare il mio lavoro, va bene?» La porta dell'ufficio di Dwayne si aprì all'improvviso. Mattie girò di scatto la testa mentre ne usciva una donna, una bionda dinoccolata che percorse rapida il corridoio e scomparve in un altro ufficio. «Chi è quella?» chiese Mattie. «Chi?» «Quella donna che era nel tuo ufficio poco fa.» «Oh... Lei?» Dwayne si schiarì la voce. «Una neoassunta. Ho pensato fosse ora di avere nella squadra una donna. Sai, per diversificare. Il mese scorso ha venduto più auto di Bart, il che dice tutto.» Mattie fissò la porta chiusa dell'ufficio del marito e pensò: è allora che è iniziata, il mese scorso. Allora tutto è cambiato tra noi, quando quell'estranea si è infilata nel corpo di Dwayne. «Come si chiama?» chiese. «Senti, devo proprio tornare al lavoro.» «Voglio solo sapere come si chiama.» Mattie si girò, guardò il marito e in quell'istante gli lesse negli occhi un senso di colpa lampante come il sole. «Oh, Gesù.» Dwayne si voltò dall'altra parte. «Mi ci voleva anche questa.» «Uh, signora Purvis?» Era Bart che la chiamava dalla porta dello showroom. «Sa che ha una gomma a terra? Me l'ha appena fatto notare il meccanico.» Stordita, Mattie si girò e lo fissò, «No. Io... io non me n'ero accorta.» «Come hai fatto a non accorgerti di avere una gomma a terra?» chiese Dwayne.
«Forse, be', forse la macchina mi sembrava un po' lenta ma...» «Non ci posso credere.» Dwayne si stava già avviando verso la porta. Scappa da me come sempre, pensò lei. E adesso è arrabbiato. Com'è che all'improvviso tutto è diventato colpa mia? Lei e Bart lo seguirono fino all'auto. Dwayne si era accucciato davanti alla ruota posteriore destra e scuoteva la testa. «Ci credi che non se n'è accorta?» disse a Bart. «Guarda questa gomma! Ha fatto a brandelli questa cazzo di gomma!» «Ehi, sono cose che succedono», osservò Bart e lanciò a Mattie un'occhiata solidale. «Senti, dirò a Eddie di cambiarla. Non c'è problema.» «Ma guarda il cerchione, è completamente rovinato. Quanti chilometri pensi abbia fatto così? Come fa a essere così stupida?» «Dai, Dwayne», esclamò Bart. «Non è niente di grave.» «Non lo sapevo», disse Mattie. «Mi spiace.» «Hai guidato in queste condizioni dallo studio del medico?» Dwayne la guardò da sopra la spalla e la rabbia che Mattie vide nei suoi occhi la spaventò. «Stavi sognando a occhi aperti o che?» «Dwayne, non lo sapevo.» Bart gli diede un colpetto affettuoso sulla spalla. «Forse dovresti calmarti un po', che ne dici?» «Tu stanne fuori, accidenti!» gli rispose brusco Dwayne. Bart arretrò con le mani alzate in segno di sottomissione. «Va bene, va bene.» Lanciò un'ultima occhiata a Mattie, un'occhiata di «buona fortuna, tesoro» e si allontanò. «È solo una gomma», disse Mattie. «Avrai sparso scintille per tutta la strada. Quante persone ti avranno vista mentre te ne andavi in giro in questo modo?» «Ha importanza?» «Sveglia! Questa è una BMW. Quando guidi un'auto del genere, hai un'immagine da mantenere. La gente vede questa macchina e si aspetta che chi la guida sia un tipo in gamba, elegante. E tu te ne vai in giro sferragliando su un cerchione, rovinando l'immagine. Getti un'ombra su tutti gli altri guidatori di BMW. Getti un'ombra su di me.» «È solo una gomma.» «Smetti di ripeterlo.» «Ma è così.» Dwayne sbuffò disgustato e si alzò in piedi. «Ci rinuncio.» Mattie soffocò le lacrime. «La gomma non c'entra, vero, Dwayne?»
«Che cosa?» «Questa lite riguarda noi. Tra noi c'è qualcosa che non va.» Il suo silenzio non fece che peggiorare le cose. Dwayne non la guardò, anzi si voltò in direzione del meccanico che si stava avvicinando. «Ehi», esclamò questi. «Bart mi ha detto di sostituire la gomma.» «Sì, pensaci tu, d'accordo?» Dwayne tacque concentrando tutta la sua attenzione sulla Toyota che era appena entrata nel parcheggio. Ne scese un uomo che iniziò a guardare una BMW. Si chinò per leggere il cartello posto sul parabrezza, con le specifiche della vettura, al che Dwayne si ravviò i capelli, si sistemò la cravatta e si avviò in direzione del nuovo cliente. «Dwayne?» esclamò Mattie. «Ho un cliente.» «Ma io sono tua moglie.» Lui si girò di scatto e il suo sguardo si fece improvvisamente, inquietantemente velenoso. «Smettila. Non insistere, Mattie.» «Che cosa devo fare per attirare la tua attenzione?» gridò lei. «Comprarti una macchina? È questo che devo fare? Perché non mi viene in mente altro modo.» La voce le si spezzò. «Non mi viene in mente altro modo.» «Forse dovresti smettere di provarci, perché non ne vedo più il motivo.» Lei lo guardò allontanarsi e fermarsi un attimo per raddrizzare le spalle, per abbozzare un sorriso. La sua voce tuonò all'improvviso, cordiale e amichevole, mentre salutava il cliente nel parcheggio. «Signora Purvis? Signora?» Mattie batté le palpebre e si voltò a guardare il meccanico. «Mi servono le chiavi della macchina, se non le spiace. Così la posso portare in officina per sostituire la gomma», disse tendendo la mano sporca di grasso. Senza parlare, Mattie gli porse il portachiavi, poi si voltò a guardare Dwayne, ma lui non le diede nemmeno un'occhiata. Era come se fosse invisibile, come se fosse nessuno. Non si ricordò quasi del tragitto fino a casa. Si ritrovò seduta al tavolo di cucina, ancora con le chiavi in mano e la posta del giorno impilata davanti. In cima c'era l'estratto conto della carta di credito, indirizzato al signore e alla signora Purvis. Signore e signora. Ricordava la prima volta che qualcuno l'aveva chiamata signora Purvis e la gioia che aveva provato nel sentire quel nome. Signora Purvis. Signora Purvis. Signora Nessuno.
Le chiavi caddero sul pavimento. Mattie si prese la testa tra le mani e scoppiò a piangere. Pianse mentre la bambina scalciava nel suo ventre, pianse fino a sentire male alla gola e a inzuppare tutta la posta di lacrime. Voglio che torni a essere l'uomo che era. Quando mi amava. Tra i singhiozzi udì cigolare una porta. Proveniva dal garage. Sollevò di scatto la testa e sentì il cuore riempirsi di speranza. Balzò in piedi tanto rapidamente che ribaltò la sedia. Stordita, aprì la porta ed entrò in garage. Batté le palpebre nel buio, perplessa: l'unica macchina in garage era la sua. «Dwayne?» chiamò. Una striscia di luce attirò la sua attenzione. La porta che conduceva al cortile laterale era socchiusa. Mattie attraversò il garage per chiuderla. L'aveva appena chiusa quando udì un rumore di piedi alle sue spalle. S'immobilizzò e il cuore prese a martellarle nel petto. In quell'istante capì di non essere sola. Si girò e a metà movimento la tenebra l'avvolse. 6 Maura passò dal sole pomeridiano alla fresca oscurità della chiesa di Nostra Signora della divina luce. Per un istante vide solo ombre, le sagome indistinte delle panche e la silhouette di una parrocchiana solitaria seduta davanti, con la testa china. Maura s'infilò in una panca e si sedette. Lasciò che il silenzio l'abbracciasse mentre gli occhi si adattavano all'interno buio. In alto, su una finestra di vetro colorato dalle tonalità molto cupe, una donna con i capelli lunghi attorno al corpo guardava adorante un albero da cui pendeva una mela rosso sangue. Eva nel Giardino dell'Eden. La donna come tentatrice, come seduttrice. Come distruttrice. Osservando la finestra, Maura provò un senso d'inquietudine e ne distolse lo sguardo per posarlo su un'altra. Era stata cresciuta da genitori cattolici, ma non si sentiva a suo agio in chiesa. Guardò le immagini dei martiri incorniciate dalle finestre, sfavillanti come gemme, e pensò che, per quanto ora fossero venerati come santi, erano stati uomini di carne e sangue e quindi non privi di difetti. Lei lo sapeva. Il loro tempo sulla terra era stato certamente segnato da peccati, scelte sbagliate e desideri meschini. Sapeva, meglio di chiunque altro, che la perfezione non era umana. Si alzò in piedi, si voltò verso il corridoio e si bloccò. Padre Brophy era lì in piedi e la luce dei vetri colorati creava un mosaico sul suo volto. Si
era avvicinato in modo tanto silenzioso che non lo aveva udito e ora si trovavano faccia a faccia, senza che nessuno osasse rompere il silenzio. «Spero non te ne stia già andando», disse infine Brophy. «Sono venuta solo per riflettere qualche istante.» «Allora sono contento di averti sorpresa prima che te ne andassi. Ti va di parlare un po'?» Lei guardò la porta posteriore, come se meditasse la fuga, poi emise un sospiro. «Sì, penso di sì.» La donna nella prima panca si era voltata e li stava guardando. E che cosa vedeva? si chiese Maura. Un prete giovane e bello e una donna attraente che sussurravano assorti sotto lo sguardo dei santi. Padre Brophy sembrò condividere il disagio di Maura e, guardando l'altra parrocchiana, disse: «Non dev'essere per forza qui». Andarono al Jamaica Riverway Park e presero il vialetto ombreggiato dagli alberi che conduceva sul lungofiume. In quel caldo pomeriggio dividevano il parco con jogger, ciclisti e mamme con i passeggini; in un luogo così pubblico un prete in compagnia di una parrocchiana non dava pressoché adito a pettegolezzi. Così dev'essere sempre tra noi, pensò Maura mentre si chinavano sotto i rami pendenti di un salice: nessun sentore di scandalo, nessun odore di peccato. Quello che voglio di più da lui è quello che non può darmi, eppure sono qui. Eppure siamo tutti e due qui. «Mi chiedevo quando saresti venuta», disse lui. «Volevo farlo. È stata una settimana dura.» Maura si fermò e fissò il fiume. Il sibilo del traffico della strada vicina copriva lo scroscio dell'acqua. «In questi giorni sto prendendo coscienza della mia mortalità.» «Prima non lo avevi mai fatto?» «Non in questo modo. Quando ho assistito a quell'autopsia, la scorsa settimana...» «Assisti a molte autopsie.» «Non assisto solo, Daniel, le eseguo. Tengo il bisturi in mano e taglio. Nel mio lavoro lo faccio quasi tutti i giorni e non mi ha mai creato problemi. Forse significa che ho perso il contatto con l'umanità. Sono arrivata a essere tanto distaccata che non mi rendo nemmeno più conto che quella che taglio è carne umana. Ma quel giorno, mentre guardavo, è diventata una questione personale. La guardavo e vedevo me stessa sul tavolo. Adesso non riesco a prendere in mano il bisturi senza pensare a lei, a come
possa essere stata la sua vita, a quello che provava, a quello che pensava quando...» Maura tacque e sospirò. «È stato duro tornare al lavoro. Ecco tutto.» «Devi proprio?» Perplessa di fronte a quella domanda, Maura lo guardò. «Ho forse scelta?» «Lo fai sembrare una forma di schiavitù.» «È il mio lavoro. È quello in cui sono brava.» «Non è, di per sé, una ragione. Allora perché lo fai?» «Perché tu sei un prete?» Stavolta toccò a lui essere perplesso. Immobile al suo fianco, rifletté per un istante mentre le ombre gettate dai salici attenuavano l'azzurro dei suoi occhi. «Ho fatto questa scelta tanto tempo fa», disse. «Adesso non ci penso più molto, né la metto in dubbio.» «Ci avrai creduto.» «Ci credo ancora.» «Questo non basta?» «Pensi davvero che la fede sia tutto ciò che serve?» «No, ovviamente no.» Maura si girò e riprese a camminare lungo un sentiero chiazzato di luci e ombre, per paura di incrociare il suo sguardo. Per paura che leggesse troppo a fondo nel suo. «A volte fa bene pensare alla propria mortalità», disse Brophy. «Ci induce a riconsiderare la vita.» «Io preferirei non farlo.» «Perché?» «Non me la cavo molto bene con l'introspezione. Alle lezioni di filosofia diventavo impaziente: tutte quelle domande senza risposta. Ma la fisica e la chimica le capivo bene. Mi davano conforto perché insegnavano principi riproducibili e ordinati.» Maura si fermò a guardare una giovane donna con i rollerblade che pattinava spingendo un passeggino. «Non mi piace l'inspiegabile.» «Sì, lo so. Vuoi sempre risolvere le tue equazioni matematiche. Per questo stai tanto male per l'omicidio di quella donna.» «È una domanda senza risposta. Il genere di cosa che detesto.» Maura si lasciò cadere su una panchina rivolta verso il fiume. La luce del giorno stava svanendo e l'acqua scorreva scura nelle ombre sempre più fitte. Anche Brophy si sedette e, anche se non si sfiorarono, lei era tanto consapevole della sua presenza che ne sentiva quasi il calore sul braccio
nudo. «Hai avuto altre notizie dal detective Rizzoli?» «Non è che mi tenga informata.» «Ti aspettavi lo facesse?» «Come poliziotta, no. Non lo farebbe.» «E come amica?» «Questo è il punto. Io pensavo fossimo amiche, ma lei mi dice così poco.» «Non la puoi biasimare. La vittima è stata trovata davanti a casa tua. Si chiederà se...» «Che cosa, se sia sospettata?» «O se sia tu il vero bersaglio. Lo abbiamo pensato tutti quella sera. Che fossi tu in quella macchina.» Brophy fissò oltre il fiume. «Hai detto che non riesci a non pensare all'autopsia. Be', io non riesco a non pensare a quella sera, in piedi nella tua strada con tutte le auto della polizia. Non credevo a niente di quello che stava accadendo. Mi rifiutavo di crederci.» Tacquero entrambi. Davanti a loro scorreva un fiume d'acqua scura, dietro uno di automobili. «Ti andrebbe di cenare con me stasera?» chiese d'un tratto Maura. Lui non rispose subito e la sua esitazione la fece arrossire per l'imbarazzo. Che domanda stupida. Se la sarebbe voluta rimangiare, avrebbe voluto tornare indietro e ripetere gli ultimi sessanta secondi. Avrebbe fatto decisamente meglio a salutarlo e ad andarsene, invece se n'era uscita con quell'invito sconsiderato, che sapevano entrambi che non avrebbe dovuto accettare. «Mi spiace», mormorò. «Non credo sia stata una buona...» «Sì», rispose Brophy. «Mi farebbe molto piacere.» Maura era in cucina, intenta a tagliare i pomodori per l'insalata con la mano che le tremava sul manico del coltello. Sul fornello una pentola di coq au vin bolliva a fuoco lento, emanando una nube di vapore profumata di vino rosso e dell'aroma del pollo. Un piatto facile e familiare che poteva preparare senza guardare la ricetta, senza doversi concentrare. Non era in grado di pensare a niente di più elaborato. La sua mente era completamente assorta dall'uomo che stava versando due bicchieri di pinot noir. Ne posò uno sul banco accanto a lei. «Che altro posso fare?» «Niente.» «Preparare il condimento per l'insalata? Lavare la lattuga?»
«Non ti ho invitato per farti lavorare. Pensavo solo preferissi qui a un ristorante, a un luogo pubblico.» «Devi essere stanca di essere sempre sotto gli occhi di tutti», osservò lui. «Pensavo più che altro a te.» «Anche i preti mangiano al ristorante, Maura.» «No, volevo dire...» Si sentì arrossire e si concentrò ancor di più sul pomodoro. «Credo che la gente si farebbe qualche domanda, se ci vedesse insieme», disse Brophy. La osservò per un momento. L'unico rumore era quello della lama che batteva sul tagliere. Che cosa fa una persona con un prete in cucina? Gli chiede di benedire il cibo? Nessun altro uomo la faceva sentire tanto a disagio, tanto umana e fallibile. Quali sono le tue pecche, Daniel? si chiese mentre metteva i dadini di pomodoro nella terrina dell'insalata e li condiva con olio di oliva e aceto balsamico. Quel colletto bianco ti conferisce l'immunità dalle tentazioni? «Lasciami almeno tagliare il cetriolo», disse lui. «Proprio non riesci a stare tranquillo, vero?» «Non sono bravo a stare con le mani in mano quando altri lavorano.» Lei scoppiò a ridere. «Allora sei bene accetto nel club.» «Intendi nel club dei drogati da lavoro ormai irrecuperabili? Perché sono un socio fondatore.» Brophy prese un coltello dal portacoltelli di legno e iniziò ad affettare il cetriolo che emanò il suo profumo fresco, estivo. «Questo perché ho dovuto aiutare cinque fratelli e una sorella.» «Siete sette in famiglia? Mio Dio.» «Credo mio padre dicesse lo stesso ogni volta che veniva a sapere che ce n'era un altro in arrivo.» «E tu che numero eri?» «Ero il quarto. Esattamente nel mezzo, il che secondo gli psicologi mi rende un mediatore nato. Quello che cerca sempre di mantenere la pace.» La guardò sorridendo. «Significa anche che so farmi una doccia in gran velocità.» «E come sei passato da figlio numero quattro a sacerdote?» Lui abbassò di nuovo lo sguardo sul tagliere. «Come potrai immaginare, è una lunga storia.» «Una di cui non vuoi parlare?» «Le mie ragioni ti sembreranno probabilmente illogiche.» «Be', è buffo come le decisioni più importanti della nostra vita siano di solito le meno logiche. La persona che decidiamo di sposare, per esem-
pio.» Maura bevve un sorso di vino e posò il bicchiere. «Io non potrei di certo sostenere che il mio matrimonio fosse basato sulla logica.» «Sul desiderio sessuale?» chiese lui sollevando lo sguardo. «Quello è il termine giusto. E così ho fatto l'errore più grande della mia vita. Finora, almeno.» Bevve un altro sorso di vino. E tu potresti essere il secondo. Se Dio avesse davvero voluto che ci comportassimo bene, non avrebbe dovuto creare la tentazione. Brophy mise il cetriolo affettato nella terrina e sciacquò il coltello. Maura lo guardò in piedi davanti al lavandino, mentre le dava la schiena. Aveva la corporatura alta e magra di un maratoneta. Fra tutti gli uomini da cui potevo essere attratta, perché proprio lui? «Mi avevi chiesto perché ho scelto il sacerdozio», disse. «Perché?» Brophy si voltò a guardarla. «Mia sorella aveva la leucemia.» Colta alla sprovvista, Maura non seppe che dire. Niente le sembrò appropriato. «Sophie aveva sei anni», proseguì lui. «Era la più piccola della famiglia e l'unica femmina.» Prese uno strofinaccio per asciugarsi le mani e lo riappese con cura al gancio prendendo tempo, come se avesse bisogno di soppesare bene le parole. «Era una leucemia linfocitica acuta, quella considerabile una forma buona, se in una leucemia c'è qualcosa di buono.» «È l'unica che ha una prognosi fausta nei bambini. Un tasso di sopravvivenza dell'ottanta per cento.» Era un dato corretto, ma si pentì nello stesso istante in cui lo disse. La razionale dottoressa Isles, che reagiva alla tragedia con i soliti fatti pratici e le brutali statistiche. Così aveva sempre affrontato i sentimenti problematici di chi la circondava, calandosi nel ruolo di scienziata. Un amico era appena morto di cancro? Un parente restava tetraplegico in seguito a un incidente d'auto? Per ogni tragedia era in grado di citare una statistica, di trarre conforto dalla cruda certezza dei numeri. Ciò nella convinzione che per ogni orrore esistesse una spiegazione. Si chiese se Daniel l'avesse giudicata fredda, persino insensibile per quella risposta, ma lui non parve risentito. Annuì semplicemente, accettando le statistiche con lo spirito con cui lei gliele aveva fornite, come un dato di fatto. «A quel tempo il tasso di sopravvivenza a cinque anni non era così sicuro», affermò. «Quando gliel'hanno diagnosticata, stava già molto male. Non ti posso dire che effetto devastante ha avuto la notizia su tutti noi e, soprattutto, su mia madre. La sua unica figlia, la sua bambina. Allora ave-
vo quattordici anni ed ero quello che in certo qual modo si prendeva cura di Sophie. Nonostante tutte le attenzioni di cui godeva, tutte le coccole, non era viziata. Non aveva mai smesso d'essere la bambina più dolce del mondo.» Brophy continuava a non guardarla: fissava il pavimento, come se non volesse rivelare la profondità del suo dolore. «Daniel?» esclamò lei. Lui ispirò e si raddrizzò. «Non so come raccontarlo a una scettica incallita come te.» «Che cosa accadde?» «Il medico ci informò che era terminale. A quell'epoca quando un medico ti dava il suo parere lo accettavi come vangelo. Quella sera i miei genitori e i miei fratelli andarono in chiesa, a pregare per chiedere un miracolo, suppongo. Io rimasi in ospedale in modo che Sophie non fosse sola. Era già calva: aveva perso tutti i capelli per la chemioterapia. Ricordo che mi si è addormentata sulle ginocchia e ricordo anche che pregavo. Ho pregato per ore, ho fatto ogni sorta di promesse assurde a Dio. Se fosse morta, non credo avrei rimesso più piede in chiesa.» «Ma è sopravvissuta», disse Maura con dolcezza. Lui la guardò e sorrise. «Sì. E io ho mantenuto tutte le promesse. Fino all'ultima. Perché quel giorno Lui mi ha ascoltato, non ho dubbi.» «Dov'è adesso Sophie?» «È felicemente sposata e vive a Manchester. Ha adottato due bambini.» Brophy si sedette a tavola di fronte a lei. «E così sono qui.» «Padre Brophy.» «Ora sai perché ho fatto questa scelta.» Ed era quella giusta? voleva chiedergli, ma rinunciò. Riempirono di nuovo i bicchieri, Maura tagliò una baguette croccante e mescolò l'insalata, poi servì il coq au vin nelle fondine. Gli uomini andavano presi per la gola. Era quello che stava cercando di fare, che voleva veramente? Prendere per la gola Daniel Brophy? Forse è perché non lo posso avere che mi sento al sicuro quando provo desiderio per lui. È al di fuori della mia portata, perciò non mi può ferire come ha fatto Victor. Ma anche quando aveva sposato Victor aveva creduto che non potesse mai farle del male. Non siamo mai impenetrabili come pensiamo. Avevano appena finito di mangiare quando lo squillo del campanello li gelò. Per quanto innocente fosse stata la serata, si scambiarono un'occhiata
tesa, come amanti colpevoli colti sul fatto. Jane Rizzoli era in piedi sul portico anteriore di Maura con i capelli neri tutti arricciati e arruffati per l'umidità della sera. Anche se faceva caldo, indossava uno dei suoi tailleur pantalone scuri che era solita portare sul lavoro. Non era una visita di piacere, pensò Maura mentre incrociava lo sguardo cupo di Jane. Guardando più in basso, notò che aveva una valigetta. «Mi spiace disturbarti a casa, dottoressa, ma dobbiamo parlare. Ho pensato fosse meglio vederci qui che nel tuo studio.» «Riguarda il caso?» Rizzoli annuì. Nessuna delle due aveva bisogno di precisare di quale caso si trattasse. Lo sapevano già. Maura e Rizzoli si rispettavano professionalmente, ma non avevano ancora superato quella linea che contrassegnava un rapporto di serena amicizia, e quella sera si guardarono con un certo disagio. È successo qualcosa, pensò Maura. Qualcosa che l'ha resa diffidente nei miei confronti. «Entra, prego.» Rizzoli mise piede in casa e si fermò sentendo profumo di cibo. «Ho interrotto la tua cena?» «No, abbiamo appena finito.» Il plurale non le sfuggì e Jane la scrutò con aria indagatrice. Poi udì un rumore di passi e si voltò in tempo per vedere Daniel che riportava i bicchieri di vino in cucina. «'Sera, detective!» esclamò questi. Rizzoli batté le palpebre per la sorpresa. «Padre Brophy.» Lui proseguì verso la cucina e Rizzoli si girò di nuovo verso Maura. Non disse nulla, ma era chiaro ciò a cui stava pensando. La stessa cosa a cui aveva pensato la parrocchiana. Sì, sembra losco, ma non è successo niente. Niente oltre a una cena e a un po' di conversazione. Ma perché diavolo devi guardarmi così? «Bene.» Rizzoli disse solo una parola, ma era pregna di significato. Udirono un tintinnio di piatti e di posate. Daniel stava caricando la lavastoviglie. Un prete che si muoveva con disinvoltura nella sua cucina. «Ti vorrei parlare in privato, se possibile», disse Rizzoli. «È proprio necessario? Padre Brophy è mio amico.» «È un argomento di per sé già abbastanza difficile da affrontare, dottoressa.» «Non gli posso chiedere di andarsene.» Maura s'interruppe al rumore dei
passi di Daniel che usciva dalla cucina. «Forse è meglio che io vada», disse questi lanciando un'occhiata alla valigetta di Rizzoli. «Visto che dovete chiaramente parlare di lavoro.» «Sì, effettivamente è così», confermò Rizzoli. Daniel sorrise a Maura. «Grazie per la cena.» «Aspetta», esclamò lei. «Daniel.» Uscì sul portico anteriore con lui e chiuse la porta alle sue spalle. «Non te ne devi andare per forza», disse. «Ti deve parlare in privato.» «Mi spiace così tanto.» «Perché? È stata una serata splendida.» «Mi sembra di cacciarti via.» Lui allungò una mano e le strinse il braccio con fare caloroso, rassicurante. «Chiamami tutte le volte che hai bisogno di parlare», disse. «A qualsiasi ora.» Maura lo guardò avviarsi verso la macchina finché i suoi abiti neri si confusero con la notte estiva. Quando si girò a salutarla, scorse di sfuggita il colletto, l'ultimo barlume di bianco nell'oscurità. Maura tornò in casa e trovò Rizzoli ancora in piedi nell'atrio che la fissava, arrovellandosi su Daniel, naturalmente. Non era cieca e capiva che tra loro stava nascendo qualcosa di più di un'amicizia. «Allora ti posso offrire un drink?» «Sarebbe proprio una bella idea. Niente di alcolico.» Rizzoli si accarezzò il ventre e aggiunse: «Junior è troppo piccolo per fare baldoria». «Certo.» Maura la condusse in corridoio sforzandosi di fare la brava padrona di casa. In cucina mise alcuni cubetti di ghiaccio in due bicchieri e li riempì di succo d'arancia. Al suo aggiunse uno spruzzo di vodka. Quando si voltò per posare i drink sul tavolo, vide Rizzoli estrarre una cartellina dalla valigetta e posarla sul tavolo. «Che cos'è?» chiese Maura. «Perché prima non ci sediamo entrambe, dottoressa? Quello che ti dirò potrebbe scombussolarti un po'.» Maura si lasciò cadere su una sedia di fronte al tavolo e Jane la imitò. Erano sedute l'una in faccia all'altra con la cartellina in mezzo. Un vaso di Pandora pieno di segreti, pensò Maura, fissando il dossier. Non sono sicura di voler sapere che cosa contiene. «Ti ricordi quello che ti ho detto la scorsa settimana, su Anna Jessop? Che non riuscivamo a trovare quasi nessuna traccia su di lei risalente a più
di sei mesi fa? Che l'unica residenza che avevamo individuato era un appartamento vuoto?» «L'hai definita un fantasma.» «In un certo senso è così. Anna Jessop non esisteva veramente.» «Com'è possibile?» «Perché non c'era nessuna Anna Jessop. Era uno pseudonimo. Il suo vero nome era Anna Leoni. Circa sei mesi fa ha assunto una nuova identità. Ha iniziato a chiudere i conti e alla fine ha cambiato casa. Col nuovo nome ha affittato un appartamento a Brighton in cui non aveva intenzione di trasferirsi: era solo un vicolo cieco, in caso qualcuno avesse scoperto il suo nuovo nome. Poi ha fatto le valigie ed è andata a vivere nel Maine. Una cittadina a metà strada lungo la costa. Lì è rimasta negli ultimi due mesi.» «Come hai fatto a sapere tutte queste cose?» «Ho parlato col poliziotto che l'ha aiutata.» «Un poliziotto?» «Un certo detective Ballard di Newton.» «Quindi lo pseudonimo... non era perché stava cercando di sfuggire alla legge?» «No. Probabilmente immaginerai da che cosa stesse cercando di fuggire. È una vecchia storia.» «Un uomo?» «Purtroppo, un uomo molto ricco. Il dottor Charles Cassell.» «Non lo conosco.» «La Castle Pharmaceuticals. È il fondatore. Anna era ricercatrice nella sua azienda. Iniziano una relazione, ma dopo tre anni lei vuole lasciarlo.» «E lui non glielo permette.» «Il dottor Cassell sembra proprio il tipo d'uomo che non puoi mollare. Una notte è finita in un pronto soccorso di Newton con un occhio nero. Da quel momento in poi le cose si sono fatte davvero inquietanti: pedinamenti, minacce di morte, persino un canarino morto nella cassetta della posta.» «Gesù.» «Sì, quel che si dice un vero amore. A volte l'unico modo in cui puoi impedire a un uomo di farti del male è sparargli o nasconderti. Forse, se avesse scelto la prima soluzione, sarebbe ancora viva.» «Lui l'ha rintracciata.» «Tutto quello che dobbiamo fare è dimostrarlo.» «Ne siete in grado?» «Non siamo ancora riusciti a parlare col dottor Cassell. Con grande tem-
pismo ha lasciato Boston il giorno dopo l'omicidio. Nell'ultima settimana è stato in viaggio per lavoro e non è atteso a casa prima di domani.» Rizzoli avvicinò il succo di arancia alle labbra e il tintinnio dei cubetti di ghiaccio scosse Maura. Jane sembrava prendere tempo, ma per che cosa? si chiese Maura. «C'è qualcos'altro su Anna Leoni che devi sapere», proseguì Jane indicando il file sul tavolo. «L'ho portato per te.» Maura aprì la cartellina e sussultò. Conteneva una fotografia a colori formato tessera di una ragazzina con i capelli neri e lo sguardo serio insieme a una coppia anziana che l'abbracciava con fare protettivo. «Quella ragazzina potrei essere io», sussurrò. «La teneva nel portafoglio. Riteniamo sia Anna a circa dieci anni con i genitori, Ruth e William Leoni. Sono entrambi morti ormai.» «Sono i suoi genitori?» «Sì.» «Ma... sono così vecchi.» «Sì, è vero. La madre, Ruth, aveva sessantadue anni quando è stata scattata quella foto.» Rizzoli tacque, poi aggiunse: «Anna era la loro unica figlia». Una figlia unica. Due genitori anziani. So dove vuoi arrivare, pensò Maura, e ho paura di quello che stai per dirmi. Per questo sei venuta qui stasera, non si tratta solo di Anna Leoni e del suo amante violento, ma di qualcosa di più allarmante. Maura la guardò. «È stata adottata?» Rizzoli annuì. «La signora Leoni aveva cinquantadue anni quando Anna è nata.» «Troppo vecchia per gran parte delle agenzie.» «Il che spiega probabilmente perché hanno dovuto ricorrere a un'adozione privata attraverso un legale.» Maura pensò ai suoi genitori, entrambi morti. Anche loro avevano già una certa età, erano sulla quarantina. «Che cosa sai della tua adozione, dottoressa?» Maura fece un profondo respiro. «Dopo la morte di mio padre ho trovato i documenti della pratica. Hanno fatto tutto tramite un avvocato, qui a Boston. L'ho chiamato alcuni anni fa per sapere se mi potesse rivelare il nome della mia vera madre.» «Lo ha fatto?» «Ha detto che la mia pratica non era consultabile e si è rifiutato di divul-
gare qualsiasi informazione.» «E non sei andata più a fondo?» «No.» «L'avvocato si chiamava Terence Van Gates?» Maura ammutolì. Non era necessario che rispondesse, sapeva che Rizzoli era in grado di interpretare il suo sguardo sbalordito. «Come lo sai?» domandò. «Due giorni prima della sua morte, Anna si è fermata al Tremont Hotel, qui a Boston. Dalla stanza ha fatto due chiamate: una al detective Ballard, che in quel momento era fuori città, e una allo studio legale Van Gates. Non sappiamo perché l'abbia contattato: l'avvocato non ha ancora risposto alle nostre telefonate.» Ecco che arriva la rivelazione, pensò Maura. La vera ragione della presenza di Rizzoli qui, stasera, nella mia cucina. «Sappiamo che Anna Leoni è stata adottata. Aveva il tuo gruppo sanguigno e la tua data di nascita. E poco prima di morire ha parlato con Van Gates, l'avvocato che ha seguito la tua adozione. Una serie incredibile di coincidenze.» «Da quanto lo sai?» «Da alcuni giorni.» «E non mi hai detto niente? Me lo hai tenuto nascosto.» «Non volevo turbarti a meno che non fosse proprio necessario.» «Be', io sono turbata dal fatto che tu abbia aspettato così tanto.» «Ho dovuto perché c'era un'altra cosa importante che dovevo scoprire.» Rizzoli inspirò profondamente. «Questo pomeriggio ho parlato con Walt DeGroot del laboratorio analisi DNA. Giorni fa, questa settimana, lo avevo pregato di velocizzare il test che avevi richiesto. Oggi pomeriggio mi ha mostrato le autoradiografie che ha sviluppato. Ha effettuato due profili VNTR distinti. Il primo era di Anna Leoni, il secondo, il tuo.» Maura sedeva immobile, pronta a parare il colpo in arrivo. «Corrispondono», disse Rizzoli. «I due profili genetici sono identici.» 7 L'orologio sulla parete della cucina ticchettò. I cubetti nei bicchieri sul tavolo si scioglievano a poco a poco. Il tempo continuava a scorrere, ma Maura si sentiva intrappolata in quell'istante, con le parole di Rizzoli che le vorticavano all'infinito nella testa.
«Mi spiace», disse Jane. «Non sapevo in quale altro modo dirtelo. Ma pensavo avessi diritto di sapere che hai...» S'interruppe. Avevo. Avevo una sorella e non ho mai saputo della sua esistenza. Rizzoli si allungò e le prese la mano. Un gesto insolito. Rizzoli non era una donna molto incline a confortare e abbracciare il prossimo. Invece eccola lì a stringerle la mano, a osservarla, quasi preoccupata che avesse una crisi. «Raccontami di lei», disse piano Maura. «Raccontami che tipo di donna era.» «Sarebbe meglio parlassi col detective Ballard.» «Chi?» «Rick Ballard. Sta a Newton. È stato assegnato al suo caso dopo l'aggressione da parte di Cassell. L'ha conosciuta abbastanza bene.» «Che cosa ti ha detto di lei?» «È cresciuta a Concord. È stata sposata per un breve periodo, a venticinque anni, ma non è durata. Hanno divorziato amichevolmente, niente figli.» «L'ex marito non è sospettato?» «No. Si è risposato e vive a Londra.» Una divorziata come me. Esiste forse un gene del fallimento matrimoniale? «Come ho detto, lavorava nell'azienda farmaceutica di Charles Cassell, la Castle Pharmaceuticals. Era microbiologa nel reparto ricerche.» «Una scienziata.» «Sì.» Come me, pensò di nuovo Maura fissando il volto della sorella nella foto. Quindi amava anche lei la ragione e la logica. Gli scienziati si affidano all'intelletto, traggono conforto dai fatti. Ci saremmo intese. «È davvero una cosa grossa da digerire, lo so», disse Rizzoli. «Sto cercando di mettermi nei tuoi panni e proprio non riesco a immaginare. È come scoprire un universo parallelo in cui esiste un'altra versione di te. Scoprire che esisteva da tutto questo tempo, che viveva nella stessa città. Se solo...» Rizzoli s'interruppe. C'è un'espressione più inutile di 'se solo'? «Mi spiace», disse Jane. Maura respirò profondamente e raddrizzò la schiena, a indicare che non aveva bisogno d'essere presa per mano, che era capace di affrontare la cosa. Chiuse la cartellina e la restituì a Rizzoli. «Grazie, Jane.»
«No, tienila. È una fotocopia, per te.» Si alzarono entrambe. Rizzoli frugò in borsa ed estrasse un biglietto da visita. «Anche questo ti potrebbe servire. Mi ha detto che puoi chiamarlo e fargli tutte le domande che vuoi.» Maura guardò il nome sul biglietto: RICHARD D. BALLARD, DETECTIVE, DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI NEWTON. «È lui quello con cui dovresti parlare», disse Jane. Si avviarono insieme alla porta d'ingresso. Maura era ancora padrona di sé, recitava ancora il ruolo della brava padrona di casa. Restò sul portico per salutare Jane, poi chiuse la porta e andò in soggiorno. Lì rimase ad ascoltare il rumore dell'auto di Rizzoli che si allontanava e poi il silenzio di una strada di un sobborgo residenziale. Tutta sola, pensò. Sono di nuovo tutta sola. Andò in soggiorno e prese un vecchio album di fotografie dallo scaffale. Non lo sfogliava da anni, da quando il padre era morto e lei aveva sgombrato la casa, alcune settimane dopo il funerale. Aveva trovato l'album sul comodino e se lo era immaginato seduto sul letto, l'ultima notte della sua vita, solo in quella grande casa a guardare le foto della sua famiglia giovane. Le ultime immagini che aveva visto prima di spegnere la luce erano dei volti felici. Aprì l'album e guardò quei volti. Le pagine erano friabili e alcune foto avevano quasi quarant'anni. Si soffermò sulla prima, di sua madre, che sorrideva radiosa all'obiettivo con una bambina mora tra le braccia. Alle loro spalle c'era una casa che Maura non ricordava, con finiture vittoriane e bovindi. Sotto la fotografia sua madre, Ginny, aveva scritto con la sua tipica grafia ordinata: Maura arriva a casa. Non c'erano foto scattate in ospedale, nessuna che ritraesse la madre in gravidanza, solo quell'immagine brusca, improvvisa di Ginny sorridente al sole, con la sua figlia istantanea tra le braccia. Maura pensò a un'altra bambina mora, tenuta in braccio da un'altra mamma. Forse, in quello stesso giorno, un padre orgoglioso in un'altra città aveva scattato una foto alla sua nuova bambina. A una bambina di nome Anna. Maura girò le pagine e si vide crescere dall'epoca dei primi passi a quella dell'asilo. Lì era sulla nuova bicicletta, sorretta dalla mano di papà. Lì al suo primo recital di pianoforte, con i capelli scuri raccolti da un fiocco verde e le mani pronte, sui tasti. Arrivò all'ultima pagina. Natale. Maura a circa sette anni, in piedi con mamma e papà, tutti e tre stretti in un abbraccio d'amore. Dietro c'era un
albero decorato, luccicante di addobbi. Sui loro volti, un sorriso. Un momento perfetto nel tempo, pensò Maura. Però sono momenti che non durano: arrivano e se ne vanno, e non possiamo riaverli. Possiamo solo crearne di nuovi. Era giunta alla fine dell'album. Ce n'erano altri, ovviamente, almeno altri quattro volumi della sua storia in cui i genitori avevano documentato e catalogato ogni evento, ma quello era l'album che il padre aveva deciso di tenere accanto al letto, con le foto della figlia bambina, di se stesso e Ginny nelle vesti di dinamici genitori, prima che i capelli s'ingrigissero, prima che il dolore e la morte di Ginny segnassero la loro vita. Maura fissò i volti dei genitori e pensò: come sono stata fortunata che mi abbiate scelto. Mi mancate. Mi mancate tutti e due così tanto. Chiuse l'album e tra le lacrime ne osservò la copertina di pelle. Se solo foste qui. Se solo mi poteste dire chi sono. Andò in cucina e prese il biglietto da visita che Rizzoli le aveva lasciato sul tavolo. Sulla parte anteriore era stampato il numero di ufficio di Ballard al dipartimento di Polizia di Newton. Girò il biglietto e vide che vi aveva scritto anche quello di casa insieme alle parole: «Mi chiami a qualsiasi ora. Giorno o notte. R.B.». Maura si avvicinò al telefono e compose il numero di casa. Al terzo squillo rispose una voce. «Ballard.» Solo quel nome, pronunciato in modo brusco, efficiente. Un tipo molto professionale, pensò. Non sarà contento di ricevere la telefonata di una donna emotivamente a pezzi. In sottofondo udiva una pubblicità televisiva. Era a casa e si stava rilassando. L'ultima cosa che desiderava era essere infastidito. «Pronto?» disse la voce, ora con una nota d'impazienza. Maura si schiarì la gola. «Mi spiace chiamarla a casa. Il detective Rizzoli mi ha dato il suo biglietto. Mi chiamo Maura Isles e...» E che cosa? Voglio che mi aiuti a superare questa notte? «Aspettavo la sua chiamata, dottoressa Isles», rispose lui. «So che avrei dovuto aspettare domani mattina, ma...» «Niente affatto. Avrà parecchie cose da chiedermi.» «Sto passando un momento davvero brutto. Non sapevo di avere una sorella e all'improvviso...» «Tutto è cambiato, vero?» La voce che solo un attimo prima era brusca adesso era così calma, così comprensiva che Maura si ritrovò a ricacciare indietro le lacrime. «Sì», mormorò.
«Forse sarebbe meglio incontrarsi. Ci possiamo vedere quando vuole la prossima settimana. O se preferisce che ci vediamo la sera...» «Potremmo fare stasera?» «C'è qui mia figlia. In questo momento non posso lasciarla.» Naturalmente, lui ha una famiglia, pensò Maura, e scoppiò a ridere imbarazzata. «Mi scusi. Non stavo pensando con logica...» «Perché non viene qui, a casa mia?» Maura tacque col cuore che le martellava nelle orecchie. «Dove vive?» chiese. Viveva a Newton, in un tranquillo sobborgo residenziale a ovest della città di Boston, a meno di sette chilometri da casa sua a Brookline. L'abitazione di Ballard era come tutte le altre di quella strada tranquilla, anonima, ma ben tenuta, l'ennesima costruzione squadrata di un quartiere in cui nessuna casa era particolarmente bella. Dal portico anteriore Maura vide il bagliore azzurro di uno schermo televisivo e udì un ritmo monotono da pop music. MTV, non il genere di canale che pensava vedesse un poliziotto. Suonò il campanello. La porta si spalancò e sulla soglia comparve una ragazzina bionda con un paio di blue jeans strappati e una maglietta che lasciava scoperto l'ombelico. Un abbigliamento provocante per una ragazzina che non aveva più di quattordici anni, a giudicare dai fianchi sottili e dal seno quasi inesistente. La giovane non disse nulla, si limitò a fissare Maura con aria scontrosa, come se difendesse l'ingresso dalla nuova intrusa. «Ciao», disse Maura. «Mi chiamo Maura Isles, sono qui per vedere il detective Ballard.» «Mio papà la sta aspettando?» «Sì.» «Katie, è per me», esclamò una voce maschile. «Credevo fosse la mamma. Dovrebbe essere qui ormai.» Ballard comparve sulla porta sovrastando la figlia. Maura stentò a credere che quell'uomo, con il suo taglio tradizionale di capelli e la sua camicia oxford ben stirata, fosse il padre di una ragazzina pubescente, fanatica del pop e già così provocante. Ballard tese la mano e strinse la sua con vigore. «Rick Ballard. Entri, dottoressa Isles.» Mentre Maura entrava in casa, la ragazzina si girò e tornò in soggiorno dove si buttò davanti al televisore.
«Katie, saluta almeno la nostra ospite.» «Perdo lo spettacolo.» «Puoi dedicarci un secondo e comportarti in modo educato, no?» Katie emise un forte sospiro e, riluttante, fece a Maura un cenno di saluto. «Salve», disse per tornare subito dopo a fissare lo schermo. Ballard scrutò la figlia per qualche istante, come per decidere se valesse la pena pretendere una maggiore cortesia. «Be', abbassa il volume», disse. «La dottoressa Isles e io dobbiamo parlare.» La ragazzina afferrò il telecomando e lo puntò a mo' di arma verso il televisore. Il volume scese di pochissimo. Ballard guardò Maura. «Vuole un caffè? Un tè?» «No, grazie.» Lui annuì in segno di comprensione. «Vuole solo sapere di Anna.» «Sì.» «Ho una copia del suo dossier nello studio.» Se questo era lo specchio del suo proprietario, allora Rick Ballard era forte e affidabile come la scrivania di quercia che troneggiava nella stanza. Il detective scelse di non arroccarsi dietro il tavolo, ma le indicò il divano e si sedette sulla poltrona di fronte a lei. Tra loro non c'erano barriere se non il tavolino su cui si trovava un unico dossier. Oltre la porta chiusa sentivano ancora il ritmo forsennato della TV. «Deve scusare la scortesia di mia figlia», disse. «Katie sta attraversando un brutto momento e non so esattamente come prenderla. I delinquenti li affronto senza problemi, ma le ragazzine di quattordici anni?» aggiunse scoppiando in una triste risata. «Spero che la mia visita non abbia peggiorato le cose.» «Non ha niente a che vedere con lei, mi creda. La nostra famiglia sta vivendo un periodo di difficili cambiamenti. Mia moglie e io ci siamo separati l'anno scorso e Katie si rifiuta di accettarlo. La cosa ha provocato un sacco di litigi e di tensioni.» «Mi spiace.» «Divorziare non è mai piacevole.» «Nel mio caso di certo non lo è stato.» «Ma lei ormai ne è fuori.» Maura pensò a Victor, che poco tempo prima si era di nuovo insinuato nella sua vita e per un breve istante l'aveva indotta a credere a una possibile riconciliazione. «Non so se si possa uscirne davvero», rispose. «Quando sei stato sposato con qualcuno, questo qualcuno fa sempre parte della tua
vita, nel bene e nel male. Il segreto è ricordare le cose belle.» «A volte non è così semplice.» Rimasero in silenzio per un attimo. L'unico rumore era il martellare irritante, provocatorio, della musica. Poi Ballard si riprese, raddrizzò le spalle larghe e la guardò. Era uno sguardo che Maura non poteva evitare facilmente, uno sguardo che le confermava di essere al centro della sua attenzione. «Be'. È venuta qui per sapere di Anna.» «Sì. Il detective Rizzoli mi ha detto che la conosceva, che ha cercato di proteggerla.» «Non ho fatto un gran lavoro», rispose lui pacato e Maura notò un lampo di dolore nei suoi occhi. Poi lo sguardo di Ballard si posò sul dossier, sul tavolino. Lo prese e glielo porse. «Non è piacevole da guardare, ma ha diritto di vederlo.» Maura lo aprì e fissò la fotografia di Anna Leoni contro una parete bianca. Indossava una camiciola ospedaliera di carta. Aveva un occhio gonfio semichiuso e sulla guancia un'ecchimosi purpurea. L'occhio integro fissava l'obiettivo con espressione sbigottita. «Quello era il suo aspetto la prima volta che l'ho vista», disse Ballard. «La fotografia è stata scattata l'anno scorso al pronto soccorso, dopo che l'uomo con cui viveva l'aveva picchiata. Aveva appena traslocato da casa sua, a Marblehead, e ne aveva affittata una qui a Newton. Una notte Cassell si è presentato alla sua porta e ha cercato di convincerla a tornare. Lei gli ha risposto di andarsene. Be', nessuno può dire a Charles Cassell di fare qualcosa. Così è accaduto.» Maura colse rabbia nella sua voce e sollevò lo sguardo, notando che aveva la bocca contratta. «So che lo ha denunciato.» «Sì, accidenti. L'ho assistita durante tutte le fasi della procedura. Un uomo che picchia una donna capisce solo una cosa: la punizione. Ero maledettamente deciso a fargli pagare quel gesto. Tratto in continuazione casi di violenze domestiche e ogni volta che m'imbatto in uno mi arrabbio. È come se dentro di me scattasse una molla: tutto ciò che desidero è inchiodare il colpevole ed è questo che ho cercato di fare con Charles Cassell.» «E che cos'è successo?» Ballard scosse disgustato la testa. «È finito in prigione per una lurida notte soltanto. Quando hai soldi, te la puoi cavare in quasi tutte le situazioni. Speravo che la smettesse, che stesse alla larga da lei, ma quello è un uomo che non è abituato a perdere. Ha continuato a chiamarla, a presentar-
si sulla porta di casa. Lei ha traslocato due volte, ma ogni volta lui l'ha rintracciata. Alla fine Anna ha ottenuto un ordine restrittivo, che però non gli ha impedito di passare in macchina davanti a casa sua. Poi, circa sei mesi fa, le cose si sono fatte tremendamente serie.» «In che senso?» Ballard indicò il file con un cenno del capo. «È lì dentro. Lo ha trovato un mattino, infilato nella porta di casa.» Maura prese una fotocopia. Sopra, nel centro del foglio bianco, spiccavano solo due parole. Sei morta. Maura sentì la paura strisciarle su per la schiena. Immaginò di svegliarsi un mattino, di aprire la porta d'ingresso per prendere il giornale e di vedere quel foglio di carta bianca cadere svolazzando a terra. Di aprirlo e di leggere quelle due parole. «Quello è solo il primo», spiegò il detective. «Dopo ne sono arrivati altri.» Maura passò al foglio seguente. Conteneva le stesse due parole. Sei morta. Passò al terzo e al quarto. Sei morta. Sei morta. Maura aveva la gola secca. «Non c'era niente che si potesse fare per fermarlo?» chiese guardando Ballard. «Ci abbiamo tentato, ma non siamo mai riusciti a provare che fosse stato lui a scrivere quei biglietti, così come non siamo riusciti a provare che sia stato lui a graffiarle la macchina o a fracassarle le zanzariere. Poi un giorno Anna apre la cassetta della posta: dentro c'è un canarino morto, col collo spezzato. È stato allora che ha deciso di mollare Boston. Di scomparire.» «E lei l'ha aiutata.» «Non ho mai smesso di farlo. Mi chiamava sempre ogniqualvolta Cassell la molestava. L'ho aiutata a ottenere l'ordine restrittivo e, quando ha deciso di lasciare la città, l'ho aiutata anche in quello. Scomparire non è facile, soprattutto quando sei braccato da uno pieno di mezzi come Cassell. Non solo Anna aveva cambiato nome, ma con il nuovo nome si era creata una finta residenza. Aveva affittato un appartamento dove non si era mai trasferita, solo per confondere chiunque cercasse di rintracciarla. L'idea era di andare a vivere in un posto completamente diverso, dove paghi tutto in
contanti. Ti lasci alle spalle tutto e tutti. In quel modo di solito funziona.» «Ma lui l'ha scovata lo stesso.» «Penso sia per questo che è tornata a Boston. Sapeva di non essere più sicura lassù. Sa che mi aveva chiamato, vero? La sera prima?» Maura annuì. «Rizzoli me l'ha detto.» «Mi ha lasciato un messaggio in segreteria dicendomi che era al Tremont Hotel. Io ero a Denver, da mia sorella, perciò l'ho sentito solo al ritorno e a quell'ora Anna era già morta.» Ballard incrociò lo sguardo di Maura. «Cassell negherà ogni responsabilità, ovviamente. Ma se è riuscito a rintracciarla a Fox Harbor, qualcuno lo avrà visto. Questo intendo fare ora: dimostrare che è andato lassù. Trovare qualcuno che si ricordi di lui.» «Ma Anna non è stata uccisa nel Maine. È stata uccisa davanti a casa mia.» Ballard scosse la testa. «Non so a che punto lei s'inserisca in questa faccenda, dottoressa Isles, ma credo che la morte di Anna non abbia niente a che fare con lei.» In quell'istante udirono il trillo del campanello. Ballard non accennò ad alzarsi per andare ad aprire, rimase sulla poltrona con lo sguardo fisso su di lei. Era uno sguardo tanto intenso che Maura non poté evitarlo, ma solo ricambiarlo. Gli voglio credere, pensò, perché non posso sopportare l'idea che la sua morte sia in certo qual modo colpa mia. «Voglio vedere Cassell in galera», disse. «E farò tutto quello che posso per aiutare Rizzoli. Ho seguito l'intera vicenda e sapevo fin dall'inizio come sarebbe finita, eppure non sono riuscito a evitarlo. Lo devo ad Anna», disse. «Devo arrivare in fondo alla faccenda.» Due voci infuriate attirarono d'un tratto l'attenzione di Maura. Adesso nell'altra stanza la TV taceva, ma Katie e una donna stavano discutendo aspramente. Quando le voci si trasformarono in urla, Ballard lanciò uno sguardo verso la porta. «Che diavolo ti è passato per la mente?» stava gridando la donna. Ballard si alzò. «Mi scusi, ma è il caso che vada a vedere che succede.» Uscì e Maura lo udì chiedere: «Carmen, che cosa c'è?» «Dovresti chiederlo a tua figlia», rispose la donna. «Lascia perdere, mamma. Lascia perdere, cazzo.» «Di' a tuo padre che cos'è successo oggi. Forza, digli che cos'hanno trovato nel tuo armadietto.» «Non è niente di grave.» «Diglielo, Katie.»
«Stai avendo una reazione del tutto esagerata.» «Che cos'è successo, Carmen?» chiese Ballard. «Stamattina mi ha chiamato il preside. Oggi a scuola hanno fatto un controllo casuale negli armadietti e indovina cos'hanno trovato in quello di nostra figlia? Uno spinello. Tu che ne dici? Ha due genitori nelle forze dell'ordine e lei tiene la droga nel suo armadietto. Siamo fortunati che il preside ci ha permesso di risolvere la faccenda in famiglia. E se avesse sporto denuncia? Pensa che bello dover arrestare nostra figlia.» «Oh, Cristo.» «Dobbiamo affrontare il problema insieme, Rick. Dobbiamo concordare l'approccio da seguire.» Maura si alzò dal divano e si avvicinò alla porta, incerta su come congedarsi con educazione. Non voleva intromettersi in questioni private, ma era lì e stava ascoltando una conversazione che non avrebbe dovuto ascoltare. Saluto e me ne vado, pensò. Lascio in pace i due affranti genitori. Uscì in corridoio e si fermò in prossimità del salotto. La madre di Katie sollevò lo sguardo, sorpresa di vedere un'ospite inattesa in casa. Se un giorno Katie fosse diventata come lei, ebbene quella teenager imbronciata si sarebbe trasformata in una bionda statuaria. La donna era alta quasi quanto Ballard e aveva la corporatura magra e slanciata di un'atleta. Portava i capelli legati con noncuranza in una coda di cavallo e non era truccata. Una donna con zigomi simili non aveva bisogno di esaltare la sua bellezza. «Scusate l'interruzione.» Ballard si voltò verso di lei e scoppiò in una stanca risata. «Mi spiace, non ci trova nel momento migliore. Questa è la madre di Katie, Carmen. Questa è la dottoressa Isles.» «Ora me ne vado», disse Maura. «Ma non siamo quasi riusciti a parlare.» «La chiamerò in un altro momento. Vedo che ha altre cose a cui pensare.» Facendo un cenno a Carmen, disse: «Lieta di conoscerla. Buona notte». «Lasci che l'accompagni», affermò Ballard. Uscirono di casa e lui emise un sospiro, come se fosse contento di allontanarsi dai problemi della famiglia. «Mi spiace per l'intrusione», disse Maura. «Mi spiace che abbia dovuto sentire.» «Ha notato che non facciamo che scusarci?» «Lei non ha niente di cui scusarsi, Maura.»
Raggiunsero la sua macchina e si fermarono per qualche istante. «Non sono riuscito a dirle molto di sua sorella», osservò lui. «Sarà per la prossima volta?» Ballard annuì. «Sarà per la prossima volta.» Maura s'infilò in macchina e chiuse la portiera. Quando vide che Ballard si stava chinando per parlarle, abbassò il finestrino. «Le dico solo questo di lei.» «Sì?» «Assomiglia così tanto ad Anna che mi toglie il fiato.» Mentre se ne stava seduta in soggiorno a studiare la foto di Anna Leoni insieme ai genitori, Maura non riuscì a smettere di pensare a quelle parole. In tutti quegli anni, pensò, non sei stata parte della mia vita e io non me ne sono mai accorta. Ma avrei dovuto saperlo, in qualche modo avrei dovuto sentire la mancanza di mia sorella. Assomiglia così tanto ad Anna che mi toglie il fiato. Sì, pensò, toccando il volto di Anna in fotografia. Toglie il fiato anche a me. Lei e Anna avevano lo stesso DNA; che cos'altro avevano in comune? Anna aveva scelto una carriera scientifica, una professione che s'ispirava alla ragione e alla logica. Doveva essere anche lei brava in matematica. Chissà se, come Maura, suonava il piano? Le piacevano i libri, i vini australiani e History Channel? Ci sono così tante altre cose che voglio sapere di te. Era tardi. Maura spense la lampada e andò in camera da letto a preparare le valigie. 8 Buio pesto. La testa le faceva male. Un odore di legno, di terra umida e... di qualcos'altro che non aveva senso. Di cioccolato. Sentiva odore di cioccolato. Mattie Purvis sgranò gli occhi, ma avrebbe anche potuto tenerli ben chiusi perché non vedeva niente. Né un tremolare di luce, né un contrasto tra le ombre. Oh, Dio, sono cieca? Dove mi trovo? Non era nel suo letto, ma stesa su qualcosa di duro che le faceva male alla schiena. Sul pavimento? No, sotto di lei non c'era legno lucidato, ma assi grezze, sporche di terra. Se solo la testa avesse smesso di martellarle.
Chiuse gli occhi cercando di controllare la nausea. Cercando, nonostante il dolore, di ricordare come fosse arrivata in quel posto strano e buio, dove niente le sembrava familiare. Dwayne, pensò. Abbiamo litigato, poi sono andata a casa. Mattie si sforzò di recuperare i frammenti perduti del tempo. Ricordava una pila di corrispondenza sul tavolo, ricordava di aver pianto, le lacrime che cadevano sulle buste. Ricordava di essere balzata in piedi e la sedia che cadeva a terra. Ho sentito un rumore. Sono andata in garage. Ho sentito un rumore, sono andata in garage e... Niente. Dopo, non ricordava più niente. Aprì gli occhi. Era ancora buio. Oh, è una brutta situazione Mattie, pensò, molto, molto brutta. Ti fa male la testa, hai perso la memoria e sei cieca. «Dwayne?» chiamò, ma udì solo il battito del suo cuore. Doveva alzarsi. Doveva andare in cerca di aiuto o almeno trovare un telefono. Rotolò sul fianco destro per sollevarsi e sbatté la faccia contro un muro. Rimbalzò per l'impatto e si ritrovò stesa a terra, stordita. Che ci faceva lì un muro? Si protese per toccarlo e sentì altre assi grezze di legno. Va bene, pensò. Adesso rotolo dall'altra parte. Si voltò a sinistra. E si scontrò con un altro muro. Il cuore prese a batterle più forte, più veloce. Mattie restò supina e pensò: pareti da entrambi i lati. Non può essere, non è reale. Sollevandosi dal pavimento, si mise a sedere e picchiò la testa. Di nuovo, cadde di schiena. No, no, no! Il panico la travolse. Prese a mulinare le braccia e cozzò contro una barriera in ogni direzione. Conficcò le unghie nel legno e le dita le si riempirono di schegge. Udì gridare, ma non riconobbe la sua stessa voce. Pareti dappertutto. Spinse con tutto il peso, pestò di qua e di là, batté i pugni alla cieca fino a riempirsi le mani di lividi e di tagli e ad avere le membra troppo stanche per muoversi. Lentamente le grida si trasformarono in singhiozzi e infine in un silenzio sbigottito. Una cassa, sono chiusa in una cassa. Inspirò lentamente e inalò l'odore del suo sudore, della sua paura. Sentì la bambina dimenarsi nel suo ventre, un'altra prigioniera chiusa in un minuscolo spazio. Pensò alle matrioske russe che un tempo la nonna le aveva regalato: una bambola in una bambola in una bambola. Moriremo qui. Moriremo qui, io e la mia bambina.
Chiuse gli occhi e soffocò un'altra ondata di panico. Smettila. Smettila subito. Pensa, Mattie. Con mano tremante si allungò verso destra e toccò una parete, poi si allungò verso sinistra e toccò un'altra parete. Quant'era larga la cassa? Forse un metro e venti. E la lunghezza? Tastò dietro la testa e si accorse di avere una trentina di centimetri a disposizione. Non male in quella direzione, c'era un po' di spazio. Poi le sue dita sfiorarono un oggetto morbido, proprio dietro la testa. Lo tirò a sé e si accorse che era una coperta. Quando la srotolò, qualcosa di pesante cadde con un tonfo sul pavimento. Un cilindro metallico freddo. Il cuore aveva ripreso a martellarle, stavolta non per il panico, ma di speranza. Una torcia. Trovò l'interruttore e l'accese. Quando il fascio di luce squarciò la tenebra, Mattie emise un brusco sospiro di sollievo. Ci vedo, ci vedo! Il fascio si mosse lungo le pareti della prigione. Mattie lo puntò al soffitto e vide che aveva a malapena spazio per mettersi a sedere tenendo la testa dritta. Ostacolata dal pancione, faticò non poco a mettersi a sedere. Solo allora vide ciò che si trovava ai suoi piedi: un secchio di plastica e una padella. Due grandi caraffe d'acqua. Un sacchetto di plastica. Dimenandosi si avvicinò al sacchetto e vi guardò dentro. Per questo sentivo odore di cioccolato, pensò. Dentro c'erano barrette Hershey, pacchetti di carne di manzo essiccata e cracker salati. E batterie, tre confezioni di batterie nuove. Mattie si appoggiò alla parete e d'un tratto si sentì ridere. Era una risata folle, spaventosa, che non sembrava affatto la sua. Era la risata di una pazza. Be', questa è proprio bella. Ho tutto quello che mi serve per sopravvivere tranne... L'aria. La risata svanì. Mattie rimase seduta ad ascoltare il rumore del suo respiro. L'ossigeno entra, l'anidride carbonica esce. Respiri e ti purifichi. Ma alla fine l'ossigeno sarebbe terminato. Una cassa ne conteneva una quantità limitata. Non si sentiva già un odore stantio? Inoltre, aveva avuto una crisi di panico e si era agitata molto, consumando probabilmente gran parte dell'ossigeno. Poi sentì un alito freddo tra i capelli e sollevò lo sguardo. Puntando la torcia proprio sopra la testa, vide una grata circolare. Aveva un diametro di pochi centimetri, ma era abbastanza grande da consentire l'accesso di aria fresca dall'alto. Fissò la grata, sconvolta. Sono chiusa in una cassa, pensò. Ho cibo, acqua e aria. Chiunque l'aveva messa lì dentro voleva tenerla in vita.
9 Rick Ballard le aveva detto che il dottor Charles Cassell era ricco, ma Jane Rizzoli non si aspettava niente del genere. La proprietà di Marblehead era circondata da un muro alto di mattoni e tra le sbarre del cancello di ferro battuto lei e Frost intravedevano la casa, un'imponente villa bianca in stile federale circondata da almeno due acri di prati smeraldo. Dietro scintillavano le acque di Massachusetts Bay. «Uau», esclamò Frost. «Tutto questo grazie all'azienda farmaceutica?» «Ha iniziato commercializzando un solo farmaco per dimagrire», disse Rizzoli. «Dopo vent'anni è arrivato a questo. Ballard sostiene che è il tipo d'uomo che è meglio non contrariare.» Guardando Frost, aggiunse: «E se sei una donna, è meglio che non ti venga in mente di lasciarlo». Abbassò il finestrino e premette il tasto del citofono. Una voce maschile gracchiò all'altoparlante. «Il suo nome, per favore.» «Detective Rizzoli e Frost del dipartimento di Polizia di Boston. Siamo qui per vedere il dottor Cassell.» Il cancello si aprì con un gemito e loro entrarono imboccando il viale d'accesso tortuoso che li condusse davanti a un maestoso portico. Rizzoli parcheggiò dietro una Ferrari rossa, probabilmente il massimo momento di gloria a cui potesse aspirare la sua vecchia Subaru. La porta principale si aprì prima ancora che avessero modo di bussare e un uomo tarchiato apparve sulla soglia con un'aria né cordiale né ostile. Nonostante indossasse una polo e un paio di Dockers color cachi, non c'era niente d'informale nel modo in cui li stava scrutando. «Sono Paul, l'assistente del dottor Cassell», affermò. «Detective Rizzoli», disse Jane tendendo la mano, ma l'uomo non la guardò nemmeno, come se non fosse degna della sua attenzione. Paul li condusse in una casa che non era affatto come Rizzoli s'aspettava. Se l'esterno era in stile federale tradizionale, dentro l'arredamento era spiccatamente moderno, persino freddo, una galleria d'opere d'arte dalle pareti bianche. Nell'atrio troneggiava una scultura di bronzo tutta curve dalla connotazione vagamente sessuale. «Immagino sappiate che il dottor Cassell è rientrato da un viaggio soltanto ieri sera», dichiarò Paul. «Risente ancora del jet-lag e non sta bene, quindi vi prego di essere brevi.» «Era via per lavoro?» domandò Frost.
«Sì. Il viaggio è stato organizzato più di un mese fa, in caso se lo stia chiedendo.» Il che non significava niente, pensò Rizzoli, se non che Cassell era in grado di pianificare per tempo le sue mosse. Paul li condusse in un salotto bianco e nero, con un unico vaso rosso scarlatto che attirava l'attenzione. Un televisore a schermo piatto dominava una parete e un unico mobile dai vetri fumé conteneva una serie incredibile di apparecchi elettronici. La casa dei sogni di uno scapolo, pensò Rizzoli. Non c'era un solo tocco femminile, solo cose maschili. Udiva una musica e suppose si trattasse di un CD. Accordi jazz per pianoforte uniti a creare una scala lamentosa. Non si percepiva alcuna melodia, alcuna canzone, solo note che si fondevano in un muto lamento. La musica si fece più alta quando Paul li condusse vicino a una porta scorrevole. L'aprì e annunciò: «La polizia è qui, dottor Cassell». «Grazie.» «Vuole che resti?» «No, Paul, ci puoi lasciare.» Rizzoli e Frost entrarono nella stanza e Paul richiuse la porta alle loro spalle. Si ritrovarono in uno spazio tanto buio che riuscirono a stento a individuare l'uomo seduto al pianoforte a coda. Così era musica dal vivo, non un CD. Le pesanti tende erano tirate e oscuravano quasi completamente la luce del giorno fatta eccezione per una striscia sottile. Cassell tese una mano verso una lampada e l'accese. Emanava solo una luce fioca oltre il paralume di carta di riso giapponese, eppure socchiuse gli occhi. Accanto a lui, sul pianoforte, c'era un bicchiere di quello che sembrava whisky. Cassell aveva la barba lunga e gli occhi arrossati: il suo volto non pareva affatto quello di uno squalo, di un freddo affarista, ma di un uomo troppo sconvolto per curarsi del suo aspetto. Nonostante ciò, era un volto incredibilmente bello, con uno sguardo tanto intenso che Rizzoli ebbe quasi la sensazione che le perforasse il cervello. Era più giovane di quel che s'aspettava, in base all'immagine che aveva dei magnati che si erano fatti da sé, forse sotto la cinquantina. Ancora abbastanza giovane da credere nella sua invincibilità. «Dottor Cassell», disse. «Sono il detective Rizzoli del dipartimento di Polizia di Boston. E questo è il detective Frost. Sa perché siamo qui?» «Perché lui vi ha aizzati contro di me, giusto?» «Chi?» «Quel Ballard. È come un maledetto pit bull.»
«Siamo qui perché lei conosceva Anna Leoni, la vittima.» Lui prese il bicchiere di whisky. A giudicare dall'aspetto stravolto, non era il primo drink della giornata. «Lasciate che vi dica una cosa del detective Ballard prima che crediate a tutto quello che dice. Quell'uomo è un coglione di prima categoria.» Dopodiché ingollò il resto del whisky d'un fiato. Rizzoli pensò ad Anna Leoni, all'occhio gonfio semichiuso, alla guancia viola per la contusione. Sappiamo chi è il vero coglione qui. Cassell posò il bicchiere vuoto. «Mi dica com'è successo», disse. «Devo sapere.» «Abbiamo alcune domande da rivolgerle, dottor Cassell.» «Prima mi dica che cos'è successo.» Per questo ha acconsentito a incontrarci, pensò Jane. Vuole informazioni. Vuole capire quanto sappiamo. «Ho sentito che si è trattato di un colpo alla testa», affermò. «Ed è stata trovata in macchina?» «Esatto.» «Quello, lo sapevo già dal Boston Globe. Che tipo di arma hanno usato? Qual è il calibro del proiettile?» «Sa che non possiamo rivelarlo.» «Ed è successo a Brookline? Che diavolo faceva lì?» «Nemmeno questo possiamo rivelare.» «Non me lo potete dire?» chiese guardando Rizzoli. «O non lo sapete?» «Non lo sappiamo.» «C'era qualcuno con lei quando è successo?» «Non ci sono state altre vittime.» «Allora chi sono i sospetti oltre a me?» «Siamo qui per farle alcune domande, dottor Cassell.» Lui si alzò con passo incerto e si avvicinò a un mobile. Prese una bottiglia di whisky e si riempì il bicchiere. Volutamente non offrì nulla ai suoi visitatori. «Risponderò all'unica domanda che siete venuti a farmi», disse risedendosi sulla panca del piano. «No, non l'ho uccisa. Non la vedevo da mesi.» «Quando è stata l'ultima volta che ha visto la signora Leoni?» domandò Frost. «Sarà stato in marzo, credo. Un pomeriggio sono passato in macchina davanti a casa sua. Era fuori sul marciapiede, stava prendendo la posta.» «Non è stato dopo l'ordine restrittivo emesso nei suoi confronti?»
«Non sono sceso dall'auto, va bene? Non le ho nemmeno parlato. Lei mi ha visto ed è rientrata subito in casa senza dire una parola.» «Allora qual era lo scopo di quel giro in macchina?» chiese Rizzoli. «L'intimidazione?» «No.» «Allora quale?» «Volevo solo vederla, nient'altro. Mi mancava. Lei...» tacque e si schiarì la voce. «Lei mi manca ancora.» Adesso dirà che l'amava. «Io l'amavo», affermò. «Perché avrei dovuto farle del male?» Come se non avessero mai sentito nessun uomo dire una cosa del genere. «Inoltre, come avrei potuto? Non sapevo dove fosse. Dopo che si è trasferita, l'ultima volta, non sono più riuscito a rintracciarla.» «Ma ci ha provato?» «Sì.» «Sapeva che viveva nel Maine?» chiese Frost. Ci fu un attimo di silenzio. Cassell sollevò lo sguardo con espressione accigliata. «Dove, nel Maine?» «In una cittadina chiamata Fox Harbor.» «No, non lo sapevo. Pensavo vivesse da qualche parte a Boston.» «Dottor Cassell, dove si trovava la sera di giovedì scorso?» disse Rizzoli. «Qui, a casa.» «Per tutta la sera?» «Dalle cinque del pomeriggio. Stavo preparando i bagagli per partire.» «Qualcuno lo può confermare?» «No. Paul aveva la serata libera. Ammetto serenamente di non avere un alibi. Ero qui, solo col mio piano», rispose pestando sulla tastiera e creando un accordo dissonante. «Sono partito il mattino seguente. Con la Northwest Airlines, se volete verificare.» «Lo faremo.» «Le prenotazioni sono state fatte sei settimane fa. Gli incontri erano già programmati.» «Questo è quello che ci ha detto il suo assistente.» «Sul serio? Be', è vero.» «Possiede un'arma?» chiese Rizzoli. Cassell s'immobilizzò e i suoi occhi scuri scrutarono quelli di lei. «Pensa
onestamente che sia io il colpevole?» «Potrebbe rispondere alla domanda?» «No, non possiedo un'arma. Né un revolver, né un fucile né una pistola ad aria compressa. E non l'ho uccisa. Non ho fatto una buona metà delle cose di cui mi ha accusato.» «Intende dire che Anna ha mentito alla polizia?» «Intendo dire che ha esagerato.» «Abbiamo visto la foto che le hanno scattato al pronto soccorso, la sera che le ha fatto un occhio nero. Ha esagerato anche in quel caso?» Lui abbassò d'un tratto lo sguardo, come se non potesse sopportare la sua occhiata accusatoria. «No», rispose pacato. «Non nego di averla colpita. Mi pento d'averlo fatto, ma non lo nego.» «E i passaggi ripetuti in macchina davanti a casa sua? Il detective privato che ha assunto per seguirla? Le volte che si è presentato alla sua porta pretendendo di parlarle?» «Non rispondeva a nessuna delle mie telefonate. Che cosa avrei dovuto fare?» «Magari afferrare il messaggio.» «Io non me ne sto con le mani in mano lasciando che le cose mi succedano, detective. Non l'ho mai fatto. Perciò ora possiedo questa casa, con quella vista là fuori. Se voglio davvero qualcosa, lavoro sodo per ottenerla. E faccio di tutto per tenermela. Non le avrei permesso di uscire così dalla mia vita.» «Che cos'era Anna per lei, esattamente? Uno dei tanti beni?» «Non un bene.» Cassell incrociò lo sguardo e nei suoi occhi si percepiva un profondo senso di perdita. «Anna Leoni era l'amore della mia vita.» La risposta colse Rizzoli alla sprovvista. Quell'affermazione semplice, detta con tanta calma, conteneva una nota onesta, vera. «Mi risulta che siate stati insieme tre anni», disse Rizzoli. Lui annuì. «Anna era microbiologa, lavorava nel mio reparto ricerche. Così ci siamo incontrati. Un giorno ha partecipato a una riunione del consiglio di amministrazione per aggiornarci sui trial di un antibiotico. L'ho guardata e ho detto: È lei. Sa che cosa significa, amare una persona così tanto e vederla andare via?» «Perché se n'è andata?» «Non lo so.» «Avrà un'idea.» «No. Guardi quello che aveva qui! Questa casa, tutto ciò che voleva.
Non penso d'essere brutto. Qualsiasi donna sarebbe entusiasta di stare con me.» «Finché non inizia a picchiarla.» Silenzio. «Quante volte è successo, dottor Cassell?» Lui sospirò. «Ho un lavoro stressante...» «È questa la spiegazione? Picchiava la sua fidanzata perché aveva giornatacce in ufficio?» Cassell non rispose. Prese invece il bicchiere, il che era indubbiamente parte del problema, pensò Rizzoli. Prendi un manager energico, aggiungi la tendenza ad alzare il gomito e ottieni una fidanzata con un occhio nero. Cassell posò di nuovo il bicchiere. «Volevo solo che tornasse a casa.» «E il suo modo di convincerla era infilarle minacce di morte nella porta?» «Non ho fatto niente del genere.» «Anna ha presentato diverse querele alla polizia.» «Non è mai successo.» «Il detective Ballard sostiene di sì.» Cassell sbuffò. «Quel coglione credeva a tutto ciò che lei gli raccontava. Gli piace giocare a Sir Galahad, lo fa sentire importante. Sa che una volta si è presentato qui e mi ha detto che, se l'avessi toccata ancora una volta, mi avrebbe pestato a sangue? Che figura penosa.» «Anna ha dichiarato che le ha spaccato le zanzariere.» «Non è vero.» «Intende dire che le ha rotte Anna con le sue mani?» «Dico solo che non sono stato io.» «Le ha graffiato la macchina?» «Che cosa?» «Le ha sfregiato la portiera dell'auto?» «Questa mi è nuova. Quando sarebbe accaduto?» «E il canarino morto nella cassetta della posta?» Cassell scoppiò in una risata incredula. «Ho l'aria di uno che farebbe una cosa tanto perversa? Non ero nemmeno in città quando, a quanto pare, è successo tutto questo. Dove sono le prove della mia colpevolezza?» Rizzoli lo studiò per qualche istante pensando: ovviamente nega perché ha ragione, non possiamo provare che abbia fracassato le zanzariere, che le abbia graffiato la macchina o che le abbia messo un uccellino morto nella cassetta della posta. Quest'uomo non è arrivato dov'è perché è stupido.
«Perché Anna avrebbe dovuto mentire al riguardo?» gli chiese. «Non lo so», rispose. «Ma lo ha fatto.» 10 A mezzogiorno Maura era in viaggio, una dei tanti vacanzieri del fine settimana bloccati nel traffico che, come salmoni durante la migrazione, fuggivano a nord, lontano dalla città dove le strade erano già roventi per la calura. Chiusi in macchina, con i bambini che si lamentavano sul sedile posteriore, i guidatori potevano solo avanzare truci a passo d'uomo verso settentrione, verso le spiagge fresche e l'aria salmastra. Quella era l'immagine a cui Maura si aggrappò mentre stava seduta in auto a fissare la coda che si perdeva all'orizzonte. Non era mai stata nel Maine. Lo conosceva solo dalle foto del catalogo di L.L. Bean, dove uomini e donne abbronzati indossavano parka e scarponi da trekking mentre, ai loro piedi, un golden retriever ciondolava nell'erba. Nel mondo di L.L. Bean, il Maine era una terra di boschi e di spiagge brumose, un luogo mitico, troppo bello per esistere davvero se non come speranza, come sogno. Sono sicura che mi deluderà, pensò mentre fissava la luce del sole che si rifletteva sulla colonna infinita di macchine. Ma lì si trovavano le risposte. Mesi prima Anna Leoni aveva compiuto quello stesso viaggio verso nord. Doveva essere stato un giorno di inizio primavera, quando ancora faceva freddo e il traffico non era così intenso. Uscendo da Boston, anche lei aveva probabilmente attraversato il Tobin Bridge e poi si era diretta a settentrione sulla Route 95, verso il confine tra il Massachusetts e il New Hampshire. Sto seguendo le tue orme. Devo sapere chi eri. È l'unico modo che ho per arrivare a capire chi sono. Alle due passò dal New Hampshire al Maine e il traffico magicamente svanì, come se la dura fatica a cui si erano sottoposti tutti i guidatori fosse stata solo un test e ora i cancelli si aprissero per accogliere i migliori. Maura si fermò a prendere un sandwich in una stazione di servizio. Alle tre aveva lasciato l'interstatale e viaggiava sulla Route 1 del Maine, lungo la costa, continuando la sua marcia verso nord. Anche tu sei arrivata da questa strada. Il panorama che Anna aveva visto era diverso, i campi stavano appena diventando verdi e gli alberi erano ancora spogli, ma di certo era passata accanto a quella baracca che vendeva panini all'aragosta, di certo aveva
notato il rigattiere con le strutture dei letti disposte sul prato, destinate ad arrugginire in eterno, e aveva reagito, come Maura, scuotendo divertita il capo. Forse anche lei si era fermata nella cittadina di Rockport per sgranchirsi un po' e si era attardata nei pressi della statua della foca André mentre osservava il porto. Forse anche lei aveva avvertito un brivido per il vento che soffiava gelido dal mare. Maura risalì in macchina e continuò verso nord. Quando superò la cittadina costiera di Bucksport e svoltò a sud, sulla penisola, la luce del sole era già obliqua sugli alberi. Maura vide la nebbia arrivare dal mare, un banco grigio: avanzava verso la costa come una bestia famelica che ingoiava l'orizzonte. Al tramonto, pensò, la mia macchina ne sarà avvolta. Non aveva prenotato un albergo a Fox Harbor, era partita da Boston con la bizzarra idea di potersi semplicemente fermare in un motel vicino al mare e trovare un letto per la notte. Ma lungo quel tratto impervio di costa aveva visto pochi motel e tutti quelli che aveva incontrato avevano il cartello COMPLETO. Il sole calò ancora. La strada curvava bruscamente e Maura si aggrappò al volante, riuscendo a stento a restare nella corsia mentre superava un promontorio roccioso con alcuni alberi scheletrici da un lato e il mare dall'altro. All'improvviso eccola, Fox Harbor, annidata al riparo in un'insenatura poco profonda. Non si aspettava un centro tanto piccolo: poco più di un molo, una chiesa col campanile a guglia e una fila di edifici bianchi rivolti verso la baia. Nel porto alcune barche per la pesca dell'aragosta dondolavano agli ormeggi, prede inermi pronte a essere fagocitate dalla nebbia in arrivo. Percorrendo lentamente la Main Street, Maura osservò i portici cadenti, che avrebbero richiesto una mano di pittura, e le finestre con le tendine sbiadite. A giudicare dai furgoni arrugginiti nei vialetti, non era una cittadina ricca. Gli unici veicoli recenti che vide erano nel parcheggio del Bayview Motel: auto con targhe dello Stato di New York, del Massachusetts e del Connecticut. Rifugiati urbani fuggiti dalle città bollenti, in cerca di aragoste e di uno scorcio di paradiso. Si fermò davanti alla reception del motel. Prima le cose più importanti, pensò. Mi serve un letto per la notte e questo sembra essere l'unico motel del posto. Scese dall'auto e stiracchiò i muscoli irrigiditi inalando l'aria umida e salata. Anche se Boston era una città portuale, a casa sua Maura sentiva di rado odore di mare. Gli odori urbani di gasolio, di gas di scarico,
di asfalto caldo contaminavano qualsiasi brezza che soffiasse dal porto. Lì invece riusciva davvero a percepire il sapore del sale, lo sentiva attaccarsi come una sottile nebbiolina alla sua pelle. In piedi nel parcheggio del motel, col vento in faccia, ebbe la sensazione di essere appena emersa da un sonno profondo, di essere di nuovo sveglia. Viva. L'arredo del motel era esattamente come se lo aspettava: pannellatura di legno anni '60, moquette verde logora, un orologio da muro inserito in un timone. Al banco non c'era nessuno. Maura si protese oltre il banco. «Buona sera!» Una porta si aprì cigolando e comparve un uomo grasso, con una calvizie incipiente e un paio di occhiali sottili, appoggiati sul naso come una libellula. «Ha una stanza per la notte?» chiese Maura. La domanda fu. accolta da un silenzio totale. L'uomo la fissò, restando a bocca aperta, con lo sguardo incollato al suo viso. «Mi scusi», disse Maura pensando che non l'avesse sentita. «Ha una stanza libera?» «Lei... lei vuole una stanza?» Non l'ho appena detto? L'uomo guardò il registro degli ospiti, poi di nuovo lei. «Mi... ehm, spiace. Questa notte siamo pieni.» L'uomo deglutì. «È un fine settimana movimentato. Un'ora fa è arrivata una coppia e mi ha chiesto una stanza. Ho fatto qualche telefonata in giro e ho dovuto mandarla fin su a Ellsworth.» «Dov'è?» «A circa cinquanta chilometri.» Maura guardò l'orologio inserito nel timone. Erano già le quattro e tre quarti. La ricerca del motel avrebbe dovuto aspettare. «Devo trovare l'agenzia immobiliare.» «È sulla Main Street. Due isolati più in giù, a sinistra.» Varcata la soglia dell'agenzia immobiliare, Maura si ritrovò in un'altra reception deserta. In quella cittadina nessuno stava mai dietro il banco? L'ufficio puzzava di sigarette e sul bancone c'era un posacenere pieno di mozziconi. In bella mostra sulla parete c'erano le proprietà dell'agenzia. Alcune foto erano piuttosto ingiallite: non era un posto molto fiorente per le attività immobiliari. Dando una scorsa alle offerte, Maura vide un fienile diroccato (IDEALE PER UN ALLEVAMENTO DI CAVALLI!), una casa col portico infossato (IDEALE PER AMANTI DELLA RISTRUTTURA-
ZIONE!) e una foto di alberi (TRANQUILLO E APPARTATO! TERRENO IDEALE PER UNA CASA!). In quella agenzia, si chiese Maura, c'era qualcosa che non fosse ideale? Udì aprirsi una porta sul retro e si voltò in tempo per veder arrivare un uomo con una caffettiera gocciolante, che posò sul banco. Era più basso di Maura, con una testa squadrata e i capelli grigi tagliati a spazzola. Portava vestiti sin troppo larghi per lui: le maniche della camicia e i pantaloni erano arrotolati come se indossasse gli abiti usati di un gigante. Con le chiavi che gli tintinnavano alla cintura, si avvicinò con un'aria un po' sbruffona per salutare Maura. «Mi scusi, ero fuori sul retro a lavare la caffettiera. Lei deve essere la dottoressa Isles.» La voce colse Maura alla sprovvista. Pur rauca, senza dubbio per via di tutte quelle sigarette nel posacenere, era chiaramente femminile. Solo allora Maura notò la forma del seno sotto la camicia larga. «Lei è... la persona con cui ho parlato stamattina?» chiese. «Britta Clausen», rispose stringendole la mano in modo spiccio e brusco. «Harvey mi ha detto che era arrivata.» «Harvey?» «Del Bayview Motel, giù lungo la strada. Mi ha chiamata per avvisarmi del suo arrivo.» La donna tacque e squadrò Maura da capo a piedi. «Be', non credo mi debba mostrare un documento. Guardandola, si capisce subito di chi sia sorella. Vuole che andiamo insieme alla casa?» «La seguo con la mia macchina.» Le signorina Clausen cercò la chiave tra quelle che portava alla cintura ed emise un grugnito di soddisfazione. «Eccola. Skyline Drive. La polizia ha finito di esaminarla, perciò credo di potergliela mostrare.» Maura seguì il pickup della signorina Clausen per una strada che d'un tratto curvava allontanandosi dalla costa per risalire un promontorio. Mentre salivano, vide alcuni scorci del litorale con l'acqua ormai nascosta dalla fitta coltre di nebbia. Il paese di Fox Harbor svanì nella foschia sottostante. Proprio davanti a lei gli stop della signorina Clauser si accesero all'improvviso e Maura ebbe a malapena il tempo di frenare. La Lexus slittò sulle foglie umide fermandosi a un soffio dal cartello IN VENDITA, piantato nel terreno. La signorina Clausen si sporse dal finestrino. «Ehi, tutto a posto?» «Sto bene. Mi spiace, ero distratta.»
«Sì, quell'ultima curva ti coglie di sorpresa. È questo il vialetto d'accesso, a destra.» «La seguo.» La signorina Clausen scoppiò a ridere. «Non troppo, però, d'accordo?» La strada sterrata s'immergeva tanto nel verde che Maura ebbe la sensazione di passare in un tunnel scavato nel bosco, per aprirsi poi all'improvviso davanti a un piccolo cottage di assi di cedro. Maura parcheggiò accanto al pickup della signorina Clausen e scese dalla Lexus. Per un istante rimase immersa nel silenzio della radura a fissare la casa. Alcuni gradini di legno conducevano a un portico coperto, dove un dondolo giaceva immobile nell'aria ferma. In un piccolo giardino in ombra digitali ed emerocallidi lottavano per crescere. Il bosco sembrava incombere da tutte le parti e Maura si ritrovò a respirare più velocemente, come se fosse chiusa in una piccola stanza. «È così tranquillo quassù», disse. «Sì, è lontano dalla città. È questo che rende tanto speciale la collina. Il boom degli immobili sta per arrivare anche qui, sa. Fra qualche anno venderemo tutte le case di questa strada. È un buon momento per acquistare.» Perché è ideale, Maura si aspettava dicesse. «Sto facendo sistemare un lotto proprio qui accanto», disse la signorina Clausen. «Quando sua sorella si è trasferita qui, ho pensato che era ora di preparare anche gli altri lotti edificabili. Vedi una persona che vive qui e hai una reazione a catena: ben presto tutti vogliono comprare in zona.» Dopo aver dato a Maura un'occhiata meditabonda, chiese: «Allora, che genere di dottore è lei?» «Sono patologa.» «Che cosa significa? Lavora in un laboratorio?» Quella donna stava iniziando a irritarla. «Lavoro con i morti», spiegò brusca. La risposta non sembrò affatto infastidirla. «Be', allora avrà orari di lavoro regolari. Molti fine settimana liberi. Le potrebbe interessare un posto per passare l'estate. Sa, il lotto qui accanto sarà presto edificabile. Se ha mai pensato di comprarsi un posticino per le vacanze, non troverà momento migliore di questo per investire.» Così questo significava cadere nelle grinfie di un agente immobiliare. «Non mi interessa, signorina Clausen, davvero», rispose. «Oh.» La donna espirò sbuffando, poi si voltò e salì a passi pesanti sul portico. «Be', allora venga. Adesso che è qui, mi potrà dire cosa fare delle
cose di sua sorella.» «Non so se ne ho l'autorità.» «Non so che fare di tutta la roba. Di certo non ho intenzione di pagare un magazzino per conservarla. Devo svuotare la casa se voglio rivenderla o riaffittarla.» Passò in rassegna le chiavi, facendole tintinnare, alla ricerca di quella giusta. «Gestisco gran parte degli immobili in affitto del paese e questo posto non era facile da dar via. Sua sorella ha firmato un contratto di affitto di sei mesi, sa.» La morte di Anna rappresenta solo questo per lei? si domandò Maura. Niente più assegni per l'affitto, una proprietà da riaffittare? Non le piaceva quella donna, con le sue chiavi tintinnanti e il suo sguardo avido. La regina immobiliare di Fox Harbor, la cui unica preoccupazione sembrava essere quella di assicurarsi la sua quota di assegni mensili. Finalmente Britta Clausen aprì la porta. «Prego.» Maura entrò. Malgrado le ampie finestre del soggiorno, la vicinanza degli alberi e l'ora tarda del pomeriggio riempivano la casa di ombre. Maura vide assi di pino scuro, un tappeto logoro, un divano sfondato. Sulla carta da parati sbiadita erano disegnati alcuni rampicanti verdi che correvano lungo i muri, cosa che aumentò il suo senso di soffocamento. «È completamente arredata», disse la signorina Clausen. «Le ho fatto un buon prezzo, considerato il fatto.» «Quanto?» domandò Maura fissando il muro di alberi oltre la finestra. «Seicento al mese. Se questo posto fosse stato vicino all'acqua, avrei potuto ricavare quattro volte tanto. Ma l'uomo che l'ha costruita, lui amava la privacy.» La signorina Clausen ispezionò la stanza lentamente, con attenzione, come se non la vedesse da tempo. «Sono rimasta sorpresa quando mi ha chiamato per chiedermi di questo posto, soprattutto perché ne avevo altri disponibili lungo la costa.» Maura si voltò a guardarla. La luce del giorno stava svanendo e la signorina Clausen era avvolta nell'ombra. «Mia sorella aveva chiesto specificamente di questa casa?» La donna si strinse nelle spalle. «Immagino che il prezzo le andasse bene.» Uscirono dal soggiorno buio e si avviarono in corridoio. Se una casa rifletteva la personalità del suo occupante, allora qualcosa di Anna Leoni doveva essere rimasto tra quelle pareti. Ma anche altri inquilini avevano fatto loro quel posto e Maura si chiese quali soprammobili, quali quadri alle pareti fossero appartenuti ad Anna e quali fossero stati lasciati da altri
prima di lei. Quel pastello raffigurante un tramonto di certo non era di Anna. Nessuna donna che fosse mia sorella avrebbe appeso una cosa tanto orrenda, pensò. E quell'odore di sigarette di cui era impregnata la casa: di certo non era Anna la fumatrice. Due gemelli identici sono spesso inquietantemente simili: Anna condivideva la stessa avversione di Maura per le sigarette? Anche lei tirava su col naso e tossiva al primo sbuffo di fumo? Arrivarono a una stanza da letto con un materasso senza fodero. «Immagino non usasse questa camera», disse la signorina Clausen. «L'armadio e i cassetti erano vuoti.» Dopo c'era un bagno. Maura entrò e aprì l'armadietto dei medicinali. Sugli scaffali c'erano Advil, Sudafed e gocce Ricola contro la tosse. Quei marchi la colpirono, tanto le erano familiari. Erano gli stessi prodotti che teneva nel suo armadietto del bagno. Perfino nella scelta dei medicinali antinfluenzali, pensò, eravamo identiche. Chiuse l'anta dell'armadietto e continuò lungo il corridoio fino all'ultima porta. «Questa era la stanza che usava», disse la signorina Clausem. La camera era a posto, il letto rifatto, il ripiano del cassettone in ordine. Come la mia camera, pensò Maura. Andò verso l'armadio e aprì la porta. Dentro c'erano pantaloni larghi, camicette stirate e vestiti. Taglia quarantadue. La taglia di Maura. «La Polizia statale è venuta qui la scorsa settimana e ha ispezionato l'intera casa.» «Hanno trovato qualcosa d'interessante?» «Che io sappia no. Anna non teneva molto qui. Ci è vissuta solo per alcuni mesi.» Maura si voltò e guardò fuori della finestra. Non era ancora buio, ma l'oscurità creata dal bosco circostante faceva sembrare prossimo il calare della sera. La signorina Clausen era in piedi poco oltre la soglia della stanza, come se attendesse di riscuotere il pedaggio prima di lasciar uscire Maura. «Non è una brutta casa», osservò. Sì, invece, pensò Maura. È un piccolo, orrendo buco. «In questo periodo dell'anno non ci sono molti posti liberi da affittare. Quasi tutto è già occupato. Alberghi, motel. Non ci sono stanze alla locanda.» Maura tenne lo sguardo fisso sul bosco, tutto pur di evitare di proseguire la conversazione con quella donna disgustosa.
«Be', era solo un'idea. Immagino abbia già trovato un posto dove stare.» Allora è a questo che vuole arrivare. Maura si voltò a guardarla. «A dire il vero, non ho un posto dove stare. Il Bayview Motel è pieno.» La donna rispose con un sorrisino tirato. «Come tutti gli altri.» «Mi hanno detto che ci sono alcune camere libere su, a Ellsworth.» «Sì? Se ha voglia di guidare fin lassù. Col buio impiegherà più di quel che pensa. La strada è tutta curve.» Indicando il letto, la signorina Clausen aggiunse: «Le potrei portare delle lenzuola pulite. Le farei lo stesso prezzo del motel, se fosse interessata». Maura guardò il letto e sentì un vago brivido correrle lungo la schiena. Mia sorella dormiva qui. «Oh, be'. Prendere o lasciare.» «Non lo so...» La signorina Clausen grugnì. «Mi sembra non abbia molta scelta.» Maura restò sul portico anteriore a guardare i fanali del pickup di Britta Clausen scomparire nella coltre nera degli alberi. Indugiò per un attimo nell'oscurità crescente ascoltando i grilli, il fruscio delle foglie. Udì un cigolio alle sue spalle, si voltò e vide che il dondolo si stava muovendo, come spinto da una mano fantasma. Rabbrividendo, Maura rientrò in casa e stava per chiudere la porta quando d'un tratto si bloccò. Di nuovo, percepì una sensazione di gelo sul collo. La porta aveva quattro serrature. Fissò le due catenelle, il chiavistello e la serratura di sicurezza. Le placche di ottone erano ancora lucide e le viti non apparivano ossidate. Serrature nuove. Le chiuse tutte e inserì le catenelle nelle rispettive scanalature. Il metallo era gelido sotto le sue dita. Andò quindi in cucina e accese le luci. Vide il vecchio linoleum del pavimento e una piccola tavola da pranzo con un ripiano di formica scheggiato. Nell'angolo borbottava un frigorifero. Ma fu la porta posteriore ad attirare la sua attenzione. Aveva tre serrature con le placche tutte lucenti. Maura sentì il battito cardiaco aumentarle mentre le chiudeva. Poi si voltò e trasalì quando vide un'altra porta chiusa in cucina. Dove conduceva? Azionò il chiavistello e l'aprì. Vide una scala stretta di legno che scendeva nel buio. Sentì una ventata d'aria fresca salire da sotto e un odore di terra umida. La nuca le formicolò. La cantina. Perché mai qualcuno dovrebbe mettere un chiavistello alla porta della cantina?
Richiuse la porta e fece scorrere il chiavistello. Allora si accorse che quella serratura era diversa: arrugginita, vecchia. A quel punto sentì il bisogno di verificare che tutte le finestre avessero il fermo. Anna era tanto spaventata che aveva trasformato quella casa in una fortezza e Maura avvertiva ancora la paura che permeava ogni stanza. Controllò le finestre di cucina, poi passò al soggiorno. Solo quando fu certa che tutte le finestre del resto della casa fossero bloccate iniziò a esplorare la camera da letto. In piedi davanti all'armadio aperto, guardò gli abiti all'interno. Spostando le grucce sull'asta, osservò ogni capo notando che erano esattamente della sua taglia. Prese un vestito dall'appendiabiti: era nero, di maglia, dalla linea semplice e pulita come piaceva a lei. Immaginò Anna in un grande magazzino mentre indugiava davanti all'abito. Controllava il cartellino del prezzo, lo avvicinava al corpo per guardarsi allo specchio e pensava: è proprio quello che voglio. Maura si sbottonò la camicetta e si tolse i pantaloni. S'infilò il vestito nero e, mentre chiudeva la lampo, sentì la stoffa avvolgerle le curve del corpo come una seconda pelle. Si voltò per guardarsi allo specchio. Questo è quello che ha visto Anna, pensò. La stessa faccia, la stessa figura. Anche lei deplorava l'arrotondarsi dei fianchi, i segni della mezza età incombente? Anche lei si girava di lato per verificare la piattezza del ventre? Sicuramente tutte le donne che si provavano un vestito nuovo si esibivano nello stesso balletto davanti allo specchio: gira di qui, gira di là. Da dietro sembro grassa? Maura si fermò col fianco destro rivolto allo specchio, intenta a fissare un capello attaccato al tessuto. Lo tolse e lo sollevò verso la luce. Era nero come il suo, ma più lungo. Il capello di una morta. Lo squillo del telefono la fece girare di scatto. Si avvicinò al comodino e si bloccò col cuore che le martellava nel petto quando l'apparecchio suonò una seconda, una terza volta. Ogni trillo era insopportabilmente forte in quella casa silenziosa. Prima che suonasse la quarta volta, sollevò il ricevitore. «Pronto? Pronto?» Ci fu un clic, poi il segnale di linea. Hanno sbagliato numero, pensò. Nient'altro. Fuori, il vento stava aumentando e anche attraverso la finestra chiusa Maura sentiva il gemito degli alberi che ondeggiavano. Ma all'interno della casa c'era un tale silenzio che udiva il battito del suo cuore. Così passavi le tue notti? si chiese. In questa casa, circondata da boschi cupi?
Prima di andare a letto, chiuse a chiave la porta della camera e vi sistemò contro anche una sedia. Non c'era nulla di cui avere paura, eppure si sentiva più in pericolo lì che a Boston, dove i predatori erano umani e ben più pericolosi di qualsiasi animale nascosto in quei boschi. Anche Anna qui aveva paura. Sentiva la sua paura, aleggiava ancora nella casa con le sue porte sbarrate. Si risvegliò di scatto udendo uno stridio e rimase stesa senza fiato, col cuore che le batteva all'impazzata. Era solo un gufo, non c'era motivo di lasciarsi prendere dal panico. Si trovava in mezzo al bosco, santo cielo, era ovvio che sentisse gli animali. Le lenzuola erano fradice di sudore. Aveva chiuso la finestra prima di andare a dormire e ora la stanza era soffocante, priva d'aria. Non riesco a respirare, pensò. Si alzò e l'aprì. Respirò l'aria fresca a piene boccate mentre scrutava gli alberi dal fogliame argenteo sotto la luce della luna. Non si muoveva niente, il bosco era tornato silenzioso. Tornò a letto e stavolta dormì profondamente fino all'alba. La luce del giorno cambiò tutto. Maura udì gli uccellini cantare e, guardando fuori della finestra, vide due cervi attraversare il giardino e scomparire nel bosco agitando le code bianche. Con il sole che inondava la stanza, il fatto di aver piazzato una sedia contro la porta la sera precedente le sembrò irrazionale. Non lo dirò a nessuno, pensò, mentre la scostava. In cucina si preparò il caffè usando un pacchetto di macinato francese che aveva trovato nel freezer. Il caffè di Anna. Versò l'acqua calda sul filtro e inalò l'aroma del vapore. Era circondata dagli acquisti di Anna. Il popcorn da cuocere nel microonde e i pacchi di spaghetti. Le confezioni scadute di yogurt alla pesca e di latte. Ogni articolo rappresentava un momento della vita della sorella, un momento in cui Anna si era fermata davanti a uno scaffale di negozio e aveva pensato: mi serve anche questo. E dopo, tornata a casa, aveva svuotato i sacchetti e messo a posto ogni cosa. Quando Maura esaminò il contenuto degli armadietti, quella che vedeva era la mano di sua sorella che impilava le scatolette di tonno sulla carta a fiori che ricopriva la mensola. Uscì sul portico anteriore portando con sé la tazza e sorseggiò il caffè in piedi osservando il giardino là dove il sole illuminava a chiazze il piccolo angolo coltivato. Tutto è così verde, pensò meravigliata. L'erba, gli alberi, la luce stessa. Tra le alte chiome degli alberi gli uccellini cantavano. Ades-
so capisco perché avesse deciso di vivere qui, perché volesse svegliarsi ogni mattina con l'odore del bosco. D'un tratto gli uccelli si levarono in volo sbattendo le ali, spaventati da un nuovo rumore: il rombo sordo di un motore. Maura non riusciva a vedere il bulldozer, ma lo sentiva bene in mezzo agli alberi, ed era fastidiosamente vicino. Si ricordò di quello che le aveva detto la signorina Clausen, che il lotto adiacente stava per essere risistemato. Alla faccia della tranquilla mattinata domenicale. Scese i gradini e girò attorno al lato della casa, cercando di vedere il bulldozer tra gli alberi, ma il bosco era troppo fitto e non riuscì nemmeno a scorgerlo. Abbassando lo sguardo, notò però le tracce di alcuni animali e si ricordò dei cervi che aveva visto quel mattino, dalla finestra della camera. Le seguì lungo il lato dell'abitazione e vide altre prove della loro visita: le foglie masticate delle hoste piantate accanto alle fondamenta. Si meravigliò allora dell'audacia di quei cervi, che erano giunti a brucare fin sotto il muro. Continuò verso la parte posteriore e si fermò quando vide un'altra serie di impronte. Quelle non erano di cervo. Maura rimase perfettamente immobile per qualche istante. Poi il cuore prese a martellarle forte e le mani che stringevano la tazza cominciarono a sudare. Lentamente, seguì le tracce con lo sguardo in direzione di una zona di terra molle sotto una finestra. Nel suolo erano impresse le orme di uno scarpone. Là dove qualcuno si era fermato a sbirciare nella sua camera da letto. 11 Quarantacinque minuti dopo un'auto della Polizia di Fox Harbor arrivò sobbalzando sulla strada sterrata e si fermò davanti al cottage. Ne scese un agente sulla cinquantina, con il collo taurino e i capelli biondi. «Dottoressa Isles?» chiese dandole una vigorosa stretta di mano. «Roger Gresham, capo della polizia.» «Non sapevo che sarebbe venuto il capo in persona.» «Sì, be', avevamo comunque intenzione di venire quassù quando è arrivata la sua telefonata.» «Avevate?» Maura si accigliò quando un altro veicolo, un Ford Explorer, risalì il vialetto e si fermò accanto all'auto di Gresham. Il guidatore scese e le fece un gesto di saluto. «Salve, Maura», esclamò Rick Ballard.
Per un istante lei rimase a guardarlo, sorpresa dal suo arrivo inatteso. «Non avevo idea che fosse qui», disse infine. «Sono arrivato ieri sera. E lei?» «Ieri pomeriggio.» «Ha passato la notte in questa casa?» «Il motel era pieno. La signorina Clausen - l'agente immobiliare - mi ha proposto di dormire qui.» Tacque e, sulle difensive, aggiunse: «Mi ha detto che la polizia aveva terminato le indagini». Gresham sbuffò. «Scommetto anche che le ha chiesto dei soldi per il pernottamento, vero?» «Sì.» «Quella Britta, che tipo. Se potesse, ti farebbe pagare l'aria che respiri.» Girandosi verso la casa, disse: «Allora, dove ha visto quelle impronte?» Maura li condusse oltre il portico anteriore, dietro l'angolo della casa. Si tennero a lato del sentiero e avanzarono scrutando il suolo. Il bulldozer taceva e gli unici rumori erano quelli dei loro passi sul tappeto di foglie. «Qui ci sono tracce fresche di cervo», affermò Gresham indicandole. «Sì, stamattina un paio di cervi sono passati di qui», confermò Maura. «Il che potrebbe spiegare le orme che ha visto.» «Comandante Gresham», osservò Maura con un sospiro. «So distinguere l'orma di uno scarpone da quella di un cervo.» «No, volevo dire che qualcuno potrebbe essere passato di qui a caccia. Fuori stagione, capisce. Potrebbe aver seguito i cervi fuori del bosco.» Ballard d'un tratto si bloccò con lo sguardo fisso sul terreno. «Le vede?» chiese Maura. «Sì», rispose lui con voce stranamente calma. Gresham si accucciò accanto a Ballard. Passarono alcuni secondi. Perché non dicevano niente? Una folata di vento mosse gli alberi. Tremando, Maura sollevò lo sguardo verso i rami ondeggianti. La notte scorsa qualcuno era uscito dal bosco, si era fermato davanti alla sua camera e aveva guardato dalla finestra mentre lei dormiva. Ballard alzò lo sguardo. «È la finestra di una camera?» «Sì.» «La sua?» «Sì.» «Ieri sera aveva tirato le tende?» La guardò da sopra la spalla e lei capì che cosa stesse pensando: Ieri sera si è resa inavvertitamente protagonista di un peep show?
Maura arrossì. «Non ci sono tende in quella camera.» «Sono troppo grandi per essere gli scarponi di Britta», commentò Gresham. «È l'unica persona che se ne sarebbe andata in giro quassù, a controllare la casa.» «Sembra una suola Vibram», disse Ballard. «Misura quarantadue, forse quarantatré.» Con lo sguardo seguì le impronte in direzione del bosco. «Le tracce dei cervi sono sovrapposte.» «Il che significa che è passato di qui per primo», fece notare Maura. «Prima dei cervi. Prima che mi svegliassi.» «Sì, ma quanto prima?» Ballard si rialzò e rimase in piedi a guardare nella stanza da letto attraverso la finestra. Per un bel po' non disse nulla e di nuovo Maura si spazientì per il loro silenzio, ansiosa com'era di avere una reazione, qualsiasi reazione, dai due uomini. «Sa, qui non piove da quasi una settimana», osservò Gresham. «Quelle impronte potrebbero non essere recenti.» «Ma chi se ne andrebbe in giro da queste parti a guardare nelle finestre?» chiese Maura. «Posso chiamare Britta. Forse ha mandato un uomo a fare dei lavori. Oppure qualcuno è venuto a dare una sbirciatina per curiosità.» «Curiosità?» «Tutti qui hanno saputo quello che è successo a sua sorella, giù a Boston. Qualcuno potrebbe essere venuto a dare un'occhiata a casa sua.» «Non capisco questo genere di curiosità morbosa. Non l'ho mai capito.» «Rick, qui, mi ha detto che è un medico legale, giusto? Be', allora credo conosca bene il problema: tutti vogliono sapere i dettagli. Non immagina quanti mi abbiano chiesto dell'omicidio. Non pensa che a qualche ficcanaso sia venuta voglia di curiosare in casa di Anna?» Maura lo fissò, incredula. Il silenzio fu rotto all'improvviso dal gracchiare della radio nell'auto di Gresham. «Scusatemi», disse e si diresse alla macchina. «Be'», fece Maura. «Penso che questo metta fine alle mie ansie, no?» «Io prendo le sue ansie molto sul serio.» «Davvero?» Maura lo guardò. «Venga dentro, Rick. Le voglio mostrare una cosa.» Lui la seguì su per i gradini del portico ed entrò in casa. Maura chiuse la porta e gli mostrò la serie di chiusure di ottone. «Guardi qui», affermò. Lui si accigliò.
«Ce ne sono altre. Venga con me.» Lo condusse in cucina e gli indicò le altre catenelle e i chiavistelli lucenti della porta posteriore. «Sono tutti nuovi. Deve averli montati Anna. Aveva paura di qualcosa.» «E a ragione. Tutte quelle minacce di morte. Non sapeva quando Cassell sarebbe potuto comparire quassù.» Maura lo guardò. «Per questo è qui? Per scoprire se l'avesse rintracciata?» «Ho mostrato la sua foto in giro, agli abitanti.» «E?» «Finora nessuno si ricorda di averlo visto, ma non significa che non sia stato qui.» Indicando le serrature, disse: «Per me quelle hanno perfettamente senso». Sospirando, Maura si lasciò cadere su una sedia della cucina. «Com'è possibile che le nostre vite abbiano preso una piega così diversa? Io scendevo da un aereo di ritorno da Parigi e lei...» deglutì. «E se fossi stata io al posto di Anna? Sarebbe finita nello stesso modo? Forse adesso ci sarebbe mia sorella seduta qui, a parlare con lei.» «Siete due persone diverse, Maura. Lei può avere il suo volto, la sua voce, ma non è Anna.» Maura lo guardò «Mi racconti di mia sorella.» «Non so da dove iniziare.» «Mi dica qualsiasi cosa. Tutto quello che sa. Ha appena detto che ho la sua stessa voce.» Lui annuì. «È vero. La stessa inflessione, lo stesso tono.» «Ricorda anche quello?» «Anna non era una donna di cui ti scordi facilmente», rispose sostenendo il suo sguardo. Continuarono a guardarsi negli occhi anche quando alcuni passi riecheggiarono forti in casa. Soltanto quando Gresham entrò in cucina, Maura interruppe il contatto visivo e si voltò a guardare il capo della polizia. «Dottoressa Isles», disse questi. «Mi chiedo se non mi possa fare un piccolo favore. Venga con me, poco più in su lungo la strada. C'è una cosa che dovrei mostrarle.» «Che genere di cosa?» «Era la centrale operativa alla radio. Hanno ricevuto una chiamata dagli operai di un'impresa edile su questa strada. Il loro bulldozer ha riportato alla luce delle... Be', delle ossa.»
Maura si accigliò. «Umane?» «È quello che si stanno chiedendo.» Maura salì in auto con Gresham e Ballard li seguì con il suo Explorer. Per un tratto così breve non sarebbe valsa nemmeno la pena di salire in macchina: una curva su per la strada ed ecco il bulldozer, parcheggiato in un terreno appena ripulito. Quattro uomini con il casco attendevano all'ombra accanto ai loro pickup. Uno si mosse per andare incontro a Maura, Gresham e Ballard mentre questi scendevano dai mezzi. «Salve, comandante.» «Salve, Mitch. Dov'è?» «Là, vicino al bulldozer. Ho notato quell'osso e ho spento subito il motore. Qui, su questo terreno, c'era una fattoria. L'ultima cosa che voglio è scavare in un cimitero di famiglia.» «La dottoressa Isles, qui, darà un'occhiata prima che mi metta a fare qualsiasi telefonata. Non vorrei chiamare il medico legale da Augusta per un mucchio d'ossa di orso.» Mitch fece loro strada nella radura. Il suolo smosso di recente era una sorta di pista a ostacoli, pieno com'era di radici che s'avvinghiavano alle caviglie e di pietre rovesciate. Le scarpe décolleté di Maura non erano adatte per camminare nei boschi e, nonostante si facesse strada con attenzione, non poté evitare di sporcare la pelle nera scamosciata. «Maledetti simuliidi. Ci hanno individuato subito», esclamò Gresham dandosi una pacca sulla guancia. La radura era circondata da folti alberi. Lì non c'era vento e mancava l'aria. Gli insetti avevano ormai sentito il loro odore e stavano arrivando a sciami, bramosi di sangue. Maura si rallegrò di aver indossato un paio di pantaloni lunghi quel mattino. Il viso e le braccia, privi di protezioni, si erano infatti già trasformati in un lauto banchetto per i simulidi. Quando raggiunsero il bulldozer, Maura aveva il risvolto dei pantaloni tutto sporco. Il sole picchiava, riflettendosi su alcuni pezzi di vetro. Una vecchia pianta di rose giaceva sradicata con i suoi steli, agonizzando nella calura. «È lì», disse Mitch indicando un punto. Prima ancora di chinarsi per esaminarlo con più attenzione, Maura capì che cosa fosse conficcato nel suolo. Non lo toccò, si accucciò solo, e le sue scarpe sprofondarono nella terra smossa. Esposto di recente agli elementi, l'osso spuntava col suo pallore sotto la crosta di terra secca. Maura udì
gracchiare tra gli alberi e sollevò lo sguardo notando alcuni corvi svolazzare come spettri scuri tra i rami. Anche loro sanno cos'è. «Che ne pensa?» chiese Gresham. «È un ilio.» «Che cos'è?» «Quest'osso qui», rispose Maura toccandosi il corpo nel punto in cui il bacino si allargava e sporgeva sotto i pantaloni. D'un tratto le sovvenne tristemente che sotto la pelle, sotto i muscoli, anche lei era soltanto uno scheletro, una struttura portante di calcio e fosforo che si sarebbe conservata a lungo dopo la putrefazione della carne. «È umano», aggiunse. Rimasero in silenzio per qualche istante. L'unico rumore in quella luminosa giornata di giugno proveniva dai corvi, un intero stormo appollaiato sugli alberi sopra di loro, simili a frutti neri tra i rami. Fissavano gli umani con intelligenza inquietante e i loro versi crebbero sino a formare un coro assordante. Poi, quasi avessero atteso un segnale, smisero d'un tratto di gracchiare. «Che cosa sa di questo posto?» domandò Maura al guidatore del bulldozer. «Che cos'era una volta?» «Qui c'erano alcuni vecchi muri di pietra. Le fondamenta di una casa. Abbiamo spostato tutte le pietre laggiù pensando che potessero essere usate per qualcos'altro», rispose Mitch indicando un mucchio di sassi quasi al confine del lotto. «Vecchi muri, niente di particolarmente insolito. Se cammina per i boschi, trova tante vecchie fondamenta come questa. Un tempo lungo tutta la costa c'erano fattorie per l'allevamento delle pecore. Adesso non esistono più.» «Potrebbe essere una vecchia tomba», suggerì Ballard. «Ma quell'osso si trova proprio dove c'era uno dei vecchi muri», osservò Mitch. «Non credo che qualcuno abbia voglia di seppellire la cara vecchia mammina così vicino a casa. Porta male, a mio parere.» «Alcuni credevano invece portasse bene», replicò Maura. «Che cosa?» «Nei tempi antichi si credeva che un bambino sepolto vivo sotto la pietra d'angolo proteggesse la casa.» Mitch la fissò come per chiedere: Ma lei, signora, chi diavolo è? «Dico solo che le pratiche di sepoltura cambiano nei secoli», proseguì Maura. «Potrebbe benissimo essere una vecchia tomba.» Dall'alto provenne un forte battito d'ali. I corvi si alzarono contemporaneamente in volo, sferzando l'aria con le loro penne. Maura li osservò, in-
nervosita alla vista di tante ali nere che si sollevavano insieme, quasi a comando. «È strano», disse Gresham. Maura si alzò in piedi e guardò gli alberi. Ricordandosi del rumore del bulldozer quel mattino e di quanto le fosse sembrato vicino, chiese: «Da che parte è la casa? Quella in cui mi sono fermata stanotte?» Gresham guardò il sole per orientarsi, poi indicò una direzione. «Da quella parte. Nella direzione in cui sta guardando.» «Quant'è lontana?» «È proprio oltre quegli alberi. Ci potrebbe andare a piedi.» Il medico legale dello Stato del Maine arrivò da Augusta un'ora e mezzo dopo. Quando scese dall'auto con il suo kit, Maura riconobbe subito l'uomo col turbante bianco e la barba ben curata. Aveva incontrato il dottor Daljeet Singh a un congresso di patologia l'anno prima e a febbraio, quando questi aveva partecipato a un incontro regionale di medicina legale a Boston, avevano cenato insieme. Non era un uomo alto, ma il suo portamento solenne e il copricapo tradizionale sikh lo rendevano più temibile di quanto in realtà non fosse. Maura era sempre rimasta colpita dalla sua aria di pacata competenza e dai suoi occhi: Daljeet aveva occhi castani, liquidi, e le ciglia più lunghe che avesse visto in un uomo. Si strinsero la mano: fu un saluto cordiale di due colleghi che si apprezzavano sinceramente. «Allora, che fai qui, Maura? Non hai abbastanza lavoro a Boston? Devi venire a rubarmi i casi?» «Il mio fine settimana di vacanza si è trasformato in lavoro.» «Hai visto i resti?» Lei annuì e il sorriso le svanì dal volto. «C'è una cresta iliaca sinistra residua, semisepolta. Non l'abbiamo ancora toccata. Sapevo che volevi prima vederla in situ.» «Nessun altro osso?» «Finora no.» «Bene, allora.» Singh guardò la radura spianata, come per prepararsi all'attraversata del suolo smosso. Maura notò che si era munito delle calzature adatte: scarponi L.L. Bean che sembravano nuovi di zecca, al primo test su un terreno fangoso. «Vediamo che cos'ha trovato il bulldozer.» Era ormai primo pomeriggio e l'aria era tanto calda e umida che il volto di Daljeet s'imperlò ben presto di sudore. Quando iniziarono ad attraversare la radura, gli insetti si gettarono su di loro per fare della carne fresca un
sanguinoso banchetto. I detective Corso e Yates della Polizia statale del Maine erano arrivati venti minuti prima e stavano ispezionando il terreno insieme a Ballard e Gresham. Corso fece un gesto di saluto e gridò: «Non è il modo migliore per passare la domenica, eh, dottor Singh?» Daljeet ricambiò il saluto, poi si accucciò per esaminare l'ilio. «È la sede di una vecchia casa», spiegò Maura. «Secondo la squadra qui c'erano delle fondamenta di pietra.» «Ma niente resti di bare?» «Non ne abbiamo visti.» Il medico scrutò l'area piena di sassi infangati, di piante sradicate e di ceppi d'albero. «Il bulldozer potrebbe aver sparpagliato le ossa dappertutto.» «Ho trovato qualcos'altro!» gridò in quel momento il detective Yates. «Laggiù?» chiese Daljeet mentre insieme a Maura attraversava la radura per raggiungerlo. «Stavo passando di qui e il piede mi è rimasto impigliato in quell'ammasso di radici di rovo», disse Yates. «Sono inciampato ed è saltato fuori dal terreno.» Mentre Maura gli si accovacciava accanto, Yates scostò un groviglio di steli sradicati. Un nugolo di zanzare si levò dal suolo umido investendo Maura, intenta a fissare l'oggetto semisepolto, in pieno volto. Era un cranio. Un'orbita vuota la fissava, perforata dalle radici tentacolari dei rovi che si erano fatte strada nelle aperture che un tempo alloggiavano gli occhi. «Hai una cesoia?» chiese guardando Daljeet. Lui aprì il kit. Ne estrasse guanti, un paio di cesoie da rose e una paletta da giardiniere. Insieme si inginocchiarono sul terreno e lavorarono per estrarre il cranio. Maura recideva le radici e Daljeet scostava la terra. Il sole picchiava e il suolo stesso pareva irradiare calore. Maura dovette fermarsi più volte per asciugarsi il sudore. Il repellente contro gli insetti che si era messa un'ora prima aveva esaurito il suo effetto e i simulidi le stavano di nuovo ronzando davanti al viso. Lei e Daljeet posarono gli attrezzi e cominciarono a scavare con le mani protette dai guanti, tanto vicini che per poco le loro teste non si urtarono. Maura infilò le dita più in profondità nella terra fresca per smuoverla. Stava affiorando una parte sempre più vasta del cranio e lei si fermò a osservare l'osso temporale, la frattura ormai visibile. Maura e Daljeet si scambiarono un'occhiata. Avevano pensato entrambi
la stessa cosa: Non è stata una morte naturale. «Credo che ora sia libero», affermò Daljeet. «Tiriamolo fuori.» Stese un telo di plastica, poi affondò le mani nel buco e le sollevò reggendo il cranio. La mandibola era ancora parzialmente attaccata grazie ad alcune provvidenziali volute delle radici di rovo. Singh posò il suo tesoro sul telo. Per un istante nessuno disse niente. Tutti fissarono l'osso temporale fracassato. Il detective Yates indicò il luccichio metallico di un molare. «Quella non è un'otturazione?» chiese. «Sì. Ma i dentisti usavano le otturazioni in amalgama un centinaio di anni fa», osservò Daljeet. «Quindi potrebbe sempre trattarsi di una vecchia sepoltura.» «Ma dove sono i frammenti della cassa? Se è una normale sepoltura, ci dovrebbe essere una bara. E c'è questo piccolo dettaglio», aggiunse Daljeet indicando la frattura da compressione. Guardò i due detective chini sopra la sua spalla e disse: «Qualsiasi età abbiano questi resti, penso che vi troviate davanti alla scena di un crimine». Gli altri uomini nel contempo si erano avvicinati e all'improvviso sembrò che nell'aria non ci fosse più ossigeno. Il ronzio delle zanzare era aumentato fin quasi a trasformarsi in un rombo ritmico. Fa così caldo, pensò Maura. Si alzò in piedi e con passo malfermo si avviò verso i margini del bosco, dove le chiome delle querce e degli aceri creavano una gradita ombra. Accasciandosi su un sasso, si prese la testa fra le mani e pensò: ecco che cosa succede a non fare colazione. «Maura?» esclamò Ballard. «Sta bene?» «È solo il caldo. Ho bisogno di rinfrescarmi un attimo.» «Vuole un po' d'acqua? Ne ho in macchina, se non le dà fastidio bere dalla stessa bottiglia.» «Grazie, ne prenderei un po'.» Maura lo guardò avvicinarsi all'auto. Dietro, sulla camicia, aveva due macchie di sudore simili ad ali. Ballard non si curò di scegliere con cura la strada in quel terreno irregolare, avanzò con decisione calpestando il suolo sconvolto con gli scarponi. Risoluto: quello era il suo passo, il passo di un uomo che sapeva che cosa andava fatto e lo faceva. La bottiglia che le portò era calda perché era rimasta in macchina. Maura ne bevve avidamente una sorsata e l'acqua le gocciolò sul mento. Quando allontanò la bottiglia, si accorse che Ballard la stava osservando. Per un i-
stante non notò il ronzio degli insetti, il mormorio delle voci degli uomini che lavoravano a metri di distanza. Lì, all'ombra verde degli alberi, esisteva solo lui. E il modo in cui le aveva sfiorato la mano quando aveva ripreso la bottiglia, la luce tenue che gli screziava i capelli, le rughe d'espressione attorno agli occhi. Udì Daljeet chiamarla per nome, ma non rispose, non si girò, né lo fece Ballard che sembrava altrettanto rapito da quel momento. Uno di noi deve rompere l'incantesimo, pensò. Uno di noi deve tornare alla realtà, ma io a quanto pare non ci riesco. «Maura?» Daljeet era comparso all'improvviso al suo fianco. Non lo aveva nemmeno sentito avvicinarsi. «Abbiamo un problema interessante», disse. «Quale problema?» «Vieni a dare un'occhiata a quell'ilio.» Lentamente Maura si alzò in piedi. Ora si sentiva più stabile, più lucida di mente. La sorsata d'acqua, la breve sosta all'ombra le avevano dato nuova carica. Lei e Ballard seguirono Daljeet fino al punto in cui si trovava l'osso pelvico. Allora Maura notò che aveva già rimosso parte della terra ed esposto una porzione più ampia del bacino. «Da questa parte sono arrivato fino al sacro», disse. «Qui si riescono a vedere l'apertura inferiore della pelvi e la tuberosità ischiatica.» Maura si accucciò al suo fianco e per un istante non disse nulla, si limitò a fissare l'osso. «Qual è il problema?» chiese Ballard. «Dobbiamo riesumare il resto», disse Maura e guardando Daljeet chiese: «Hai un'altra paletta?» Il medico gliene porse una e per Maura fu come sentire il manico del bisturi nel palmo della mano. D'un tratto era già al lavoro, con un'aria severa, professionale sul volto. Inginocchiati fianco a fianco, lei e Daljeet rimossero un altro po' di terra sassosa. Le radici degli alberi si erano avvinghiate alle fosse ossee, ancorando i resti alla loro tomba, e per liberarli furono costretti a tagliare quel groviglio resistente. Quanto più scavavano, tanto più veloce il cuore di Maura batteva. I cacciatori di tesori scavavano in cerca dell'oro, lei in cerca di segreti, delle risposte che solo una tomba poteva dare. A ogni palettata di terra che rimuovevano, affiorava un pezzo in più di bacino. Adesso lavoravano frenetici e le palette si spingevano sempre più in fondo. Quando finalmente poterono osservare l'intera pelvi, rimasero entrambi tanto sbigottiti che non riuscirono ad aprire bocca.
Maura si alzò in piedi e andò a esaminare il cranio, ancora deposto sul telo di plastica. Inginocchiatasi accanto a esso, si tolse i guanti e passò le dita nude sull'orbita, percependo la curva pronunciata della cresta sovraorbitaria. Poi lo capovolse per esaminare la protuberanza occipitale. Non aveva senso. Restando in ginocchio, Maura inclinò il busto all'indietro. In quel clima soffocante la camicetta le si era impregnata di sudore. Fatta eccezione per il ronzio degli insetti, la radura era avvolta dal silenzio. Gli alberi incombevano da tutte le parti, a guardia di quello spazio nascosto. Fissando quel muro impenetrabile di verde, Maura si sentì osservata, come se il bosco stesso la guardasse in attesa della sua prossima mossa. «Che succede, dottoressa Isles?» «Abbiamo un problema», rispose guardando il detective Corso. «Questo cranio...» «Che cos'ha?» «Vede queste creste marcate, qui, sopra le orbite? E guardi qui, alla base del cranio. Se tocca con le dita, sente una sporgenza. Si chiama protuberanza occipitale.» «E?» «Lì si inserisce il legamento nucale che fissa i muscoli della parte posteriore del collo al cranio. Il fatto che la protuberanza sia tanto marcata significa che il soggetto aveva una muscolatura robusta. Si tratta quasi certamente di un cranio maschile.» «Qual è il problema?» «La pelvi laggiù è di una donna.» Corso la fissò, poi si voltò a guardare il dottor Singh. «Concordo pienamente con la dottoressa Isles», affermò Daljeet. «Ma questo vuol dire che...» «Abbiamo i resti di due soggetti diversi», concluse Maura. «Uno di sesso maschile, l'altro femminile.» Si alzò e incrociò lo sguardo di Corso. «La domanda è: quante altre persone sono sepolte qui?» Per un istante il detective parve troppo sbalordito per rispondere. Poi si voltò e scrutò lentamente la radura, come se la vedesse davvero per la prima volta. «Comandante Gresham», esclamò, «ci serviranno volontari. Un bel gruppo: agenti, vigili del fuoco. Chiamerò la nostra squadra di Augusta, ma non basterà. Non per quello che dobbiamo fare.» «Di quante persone sta parlando?»
«Di tutte quelle che servono per setacciare il luogo.» Corso stava fissando gli alberi circostanti. «Passeremo al vaglio ogni centimetro quadrato di questo posto. La radura, il bosco. Se qui ci sono più di due persone sepolte, le troveremo.» 12 Jane Rizzoli era cresciuta nella cittadina di Revere situata proprio al di là del Tobin Bridge, a poca distanza dal centro di Boston. Era un sobborgo operaio di case squadrate costruite su piccoli fazzoletti di terra, un posto dove il 4 luglio gli hot dog sfrigolavano sulla griglia nel giardino sul retro e la bandiera americana sventolava fiera sul portico anteriore. La famiglia Rizzoli aveva avuto la sua dose di alti e bassi, compresi i mesi terribili in cui, quando Jane aveva dieci anni, il padre aveva perso il lavoro. A quell'epoca era già abbastanza grande da avvertire la paura della madre e da assorbire la disperazione e la rabbia paterne. Lei e i due fratelli sapevano che cosa significasse vivere sul filo del rasoio tra benessere e rovina, e anche se ora riceveva un regolare stipendio, non era mai riuscita a sopire del tutto le insicurezze dell'infanzia. Si vedeva sempre come la bambina di Revere, cresciuta col sogno di possedere un giorno una casa grande in un bel quartiere, una casa con tanti bagni in modo da non dover bussare tutti i giorni per reclamare il suo turno sotto la doccia. Avrebbe dovuto avere un camino di mattoni, la porta d'ingresso a due battenti e un batacchio d'ottone. La casa che ora stava osservando dalla macchina presentava tutte quelle caratteristiche e anche di più: il batacchio d'ottone, la porta d'ingresso a due battenti, e non uno, ma due camini. Tutto ciò che aveva sempre sognato. Ma era la casa più brutta che avesse mai visto. Le altre abitazioni di quella strada di East Dedham erano le tipiche case che ci si aspetterebbe di vedere in un tranquillo quartiere borghese: garage a due posti e giardini anteriori ben curati, automobili nuove parcheggiate nei vialetti. Niente di stravagante, niente che attirasse l'attenzione. Ma quella casa... be', non attirava la tua attenzione. La pretendeva. Era come se Tara, la villa della piantagione di Via col vento, fosse stata risucchiata da un tornado e depositata su un terreno della città. Non aveva un giardino che si potesse definire tale, solo una striscia di terra lungo i fianchi, tanto stretta che tra il muro e il recinto del vicino passava a stento un tagliaerba. Le colonne bianche si ergevano a mo' di sentinelle sul porti-
co, dove Rossella O'Hara avrebbe potuto tenere banco in bella vista, davanti al viavai di Sprague Street. Quella casa le ricordò Johnny Silva del suo vecchio quartiere, che si era bruciato i suoi primi guadagni per una Corvette rosso ciliegia. «Per far finta di non essere un fallito», aveva commentato il padre. «Quel ragazzo non è nemmeno riuscito a lasciare il seminterrato dei suoi e si è comprato una macchina sportiva di lusso. Più sono dei falliti e più si comprano auto imponenti.» O si costruiscono la casa più imponente del quartiere, pensò Rizzoli, fissando la Tara di Sprague Street. Si destreggiò per scendere dal posto di guida col suo pancione e, mentre si avvicinava ai gradini del portico, sentì il bambino scatenarsi in un tiptap sulla sua vescica. Prima le cose più importanti, pensò: chiedi di andare in bagno. Il campanello non trillò, rintoccò come la campana di una cattedrale che chiamava i fedeli a raccolta. La bionda che venne ad aprire sembrava essere finita nella casa sbagliata. Più che a Rossella O'Hara assomigliava a una Barbie: chioma folta, grandi tette, il corpo strizzato in una tuta da ginnastica rosa di spandex, un viso così innaturalmente privo d'espressione da sembrare ritoccato col Botox. «Sono il detective Rizzoli, sono qui per vedere Terence Van Gates. Ho chiamato poco fa.» «Oh, sì, Terry la sta aspettando.» Aveva una voce da ragazzina, alta e dolce. Perfetta a piccole dosi, ma dopo un'ora avrebbe fatto lo stesso effetto di un'unghia strisciata sulla lavagna. Rizzoli entrò nell'atrio e si ritrovò subito di fronte a un gigantesco quadro a olio appeso alla parete: raffigurava Barbie con un abito da sera verde accanto a un enorme vaso di orchidee. Tutto in quella casa sembrava avere dimensioni esagerate, i quadri, i soffitti, le tette. «Stanno ristrutturando il palazzo dove ha lo studio, perciò oggi lavora a casa. È in fondo al corridoio, sulla destra.» «Mi scusi... sono spiacente, ma non so il suo nome.» «Bonnie.» Bonnie. Barbie. C'era poca differenza. «Lei sarebbe... la signora Van Gates?» chiese Rizzoli. «A-ha.» Una moglie-trofeo. Van Gates doveva avere quasi settant'anni. «Posso usare il bagno? In questi giorni a quanto pare mi tocca andarci ogni dieci minuti.»
Per la prima volta Bonnie sembrò notare che Rizzoli era incinta. «Oh, tesoro! Ma certo. La toilette è proprio lì.» Rizzoli non aveva mai visto un bagno dello stesso color fucsia dei bastoncini natalizi di zucchero. Il water era collocato in alto su una pedana, a mo' di trono, e sulla parete accanto c'era un telefono. Come se qualcuno avesse voglia di telefonare mentre, be', mentre era occupato a fare altro. Si lavò le mani con un sapone rosa in un lavandino di marmo rosa e se le asciugò con un asciugamano rosa, dopodiché fuggì dalla stanza. Bonnie era scomparsa, ma Rizzoli udì il battito di una musica ritmata e i tonfi di qualcuno che saltava. Bonnie stava facendo la sua routine di esercizi. Anch'io uno di questi giorni dovrei rimettermi in forma, pensò. Ma mi rifiuto di farlo in una tuta rosa di spandex. Si avviò lungo il corridoio in cerca dello studio di Van Gates. Sbirciò prima in un vasto salotto con un pianoforte a coda bianco, un tappeto bianco e tutti i mobili bianchi. La stanza bianca, la stanza rosa. E dopo che cosa veniva? In corridoio passò accanto a un altro quadro di Bonnie, stavolta ritratta nella posa di una dea greca, con una veste bianca e i capezzoli che s'intravedevano sotto la stoffa trasparente. Dio, quella gente avrebbe dovuto vivere a Las Vegas. Finalmente trovò lo studio. «Signor Van Gates?» chiese. L'uomo dietro la scrivania di ciliegio sollevò lo sguardo dalle carte. Rizzoli vide due occhi azzurri acquosi, un volto flaccido e cadente per l'età e i capelli... di che colore erano mai? Una sorta di giallo-arancione. Di certo non era intenzionale, ma una tinta riuscita male. «Il detective Rizzoli?» disse l'uomo. Il suo sguardo cadde sul ventre di Jane e lì rimase, come se non avesse mai visto una poliziotta incinta. Parla a me, non alla mia pancia. Rizzoli si avvicinò al tavolo e gli strinse la mano. Notò allora sul cuoio capelluto i segni rivelatori del trapianto: capelli che spuntavano qua e là come ciuffetti d'erba gialla in un'ultima, disperata affermazione di virilità. È quello che ti meriti per esserti scelto una moglie-trofeo. «Si accomodi, si accomodi», esclamò Van Gates. Rizzoli si sistemò su una poltroncina di pelle liscia e si guardò attorno, notando che l'arredo della stanza era radicalmente diverso da quello della casa, in stile Avvocato tradizionale, tutto legno scuro e pelle. Gli scaffali erano pieni di riviste e testi di legge. Non c'era un solo tocco di rosa. Chiaramente quello era il suo regno, la zona «Bonnie-free». «Non so come posso aiutarla, detective», esordì l'uomo. «L'adozione di
cui mi ha parlato risale a quarant'anni fa.» «Non è propriamente storia antica.» Lui scoppiò a ridere. «Credo che allora lei non fosse ancora nata.» Era una sottile stoccata? Il suo modo di dirle che era troppo giovane per seccarlo con quelle domande? «Non ricorda gli interessati?» «Dico solo che è accaduto tanto tempo fa. Avevo terminato da poco la facoltà di giurisprudenza e lavoravo in un ufficio preso in affitto, con mobili presi in affitto e senza segretaria. Rispondevo io al telefono e prendevo tutti i casi che mi arrivavano: divorzi, adozioni, guida in stato di ebbrezza. Qualsiasi cosa servisse a pagare l'affitto.» «E naturalmente avrà ancora tutti i dossier dei casi seguiti a quel tempo.» «Dovrebbero essere nel magazzino.» «Dove?» «Nel File-Safe, a Quincy. Ma prima che vada oltre, la devo avvertire che nel caso specifico le parti interessate hanno preteso totale riservatezza. La madre naturale non vuole che venga rivelato il suo nome. La pratica non è consultabile.» «È un caso di omicidio, signor Van Gates. Una delle due adottate ora è morta.» «Sì, lo so, ma non capisco che cos'abbia a che fare con la sua adozione, quarant'anni fa. In che modo ha rilevanza per le sue indagini?» «Perché Anna Leoni l'ha chiamata?» L'uomo ebbe un moto di sorpresa. Niente di quello che disse in seguito poté cancellare la prima reazione, quell'espressione di uh-oh. «Mi scusi?» disse. «Il giorno prima di essere uccisa Anna Leoni ha telefonato al suo studio legale da una stanza del Tremont Hotel dove alloggiava. Abbiamo appena ricevuto il tabulato telefonico. La conversazione è durata trentasette minuti. Ora, in quei trentasette minuti avrete parlato di qualcosa, non avrà certo tenuto quella povera donna in attesa per tutto quel tempo.» Van Gates non disse nulla. «Signor Van Gates?» «Quella... quella conversazione era confidenziale.» «La signora Leoni era sua cliente? Le ha presentato fattura per quella telefonata?» «No, ma...»
«Allora non è vincolato dal segreto professionale tra avvocato e cliente.» «Ma lo sono dalla riservatezza verso un altro cliente.» «La madre naturale.» «Be', lei è stata mia cliente. Ha dato in adozione le bambine a una condizione: che il suo nome non fosse mai rivelato.» «Questo è accaduto quarant'anni fa. Potrebbe aver cambiato idea.» «Non sono in grado di dirlo. Non so dove stia, non so nemmeno se sia viva.» «Per questo Anna l'ha chiamata? Per chiederle di sua madre?» Lui si appoggiò allo schienale. «Chi è stato adottato è spesso curioso di conoscere le sue origini. Per alcuni diventa un'ossessione, così vanno a caccia di documenti, investono migliaia di dollari e si danno tanta pena per rintracciare una madre che non vuole essere trovata. E se riescono a trovarla, di rado hanno il finale da fiaba che si aspettano. Questo è quello che Anna voleva, detective. Un finale da fiaba. A volte sarebbe meglio che lasciassero perdere e continuassero a vivere la loro vita.» Rizzoli pensò alla sua infanzia, alla sua famiglia. Lei aveva sempre saputo chi fosse. Poteva guardare i nonni, i genitori, cogliere il legame nei loro volti. Lei era una di loro, fino al DNA, e per quanto i suoi parenti potessero infastidirla o imbarazzarla, sapeva che erano pur sempre i suoi parenti. Maura Isles non si era mai riconosciuta negli occhi di un nonno. Quando camminava per strada, studiava le facce dei passanti in cerca dei suoi tratti? Una curva familiare della bocca, un'inclinazione particolare del naso? Rizzoli capiva perfettamente l'ansia di conoscere le proprie origini, di sapere che non sei soltanto un ramoscello spezzato, ma il ramo di un albero ben radicato. Guardò Van Gates negli occhi. «Chi è la madre di Anna Leoni?» Lui scosse la testa. «Glielo ripeto. Non è rilevante per le sue...» «Lasci che questo lo decida io. Mi dica solo il nome.» «Perché? Perché lei possa sconvolgere la vita di una donna che potrebbe non voler ricordare un errore giovanile? Che cos'ha a che fare con l'omicidio?» Rizzoli si protese mettendo entrambe le mani sul tavolo, invadendo aggressivamente lo spazio personale dell'uomo. Le piccole e dolci Barbie forse non lo facevano, ma le poliziotte di Revere non avevano timori in merito. «Possiamo ottenere un mandato per i suoi dossier. Oppure glielo posso
chiedere con gentilezza.» Si fissarono per qualche istante, poi Van Gates emise un sospiro di resa. «D'accordo, non ho voglia di passarci di nuovo. Glielo dirò, va bene? Il nome della madre è Amalthea Lank. Aveva ventiquattro anni. E aveva bisogno di soldi, un bisogno disperato.» Rizzoli si accigliò. «Mi sta dicendo che ha ricevuto soldi per dare in adozione le figlie?» «Be'...» «Quanto?» «Una cifra sostanziosa. Abbastanza da permetterle di cominciare una nuova vita.» «Quanto?» Lui batté le palpebre. «Ventimila dollari, ciascuna.» «Per ogni bambina?» «Due famiglie felici se ne sono tornate a casa con una figlia, lei col denaro. Mi creda, oggi i genitori adottivi pagano molto di più. Sa quanto sia difficile adottare un neonato sano bianco? Non ce ne sono abbastanza in giro. È la legge della domanda e dell'offerta, nient'altro.» Rizzoli si appoggiò allo schienale, sconvolta all'idea che una donna avesse venduto le figlie per denaro. «Ora, questo è tutto quello che le posso dire», affermò Van Gates. «Se vuole scoprire di più, be', voi poliziotti dovreste parlare tra di voi. Risparmiereste un bel po' di tempo.» Quell'ultima frase la lasciò perplessa, poi si ricordò di quello che aveva detto poco prima: Non ho voglia di passarci di nuovo. «Chi altro le ha chiesto di questa donna?» domandò. «Voi vi comportate sempre nello stesso modo. Arrivate, minacciate di rendermi la vita impossibile se non collaboro...» «È stato un altro poliziotto?» «Sì.» «Chi?» «Non ricordo. È accaduto mesi fa. Devo aver rimosso il suo nome.» «Perché voleva saperlo?» «Perché lei gli aveva chiesto di aiutarla. Sono venuti insieme.» «Anna Leoni è venuta con lui?» «Il poliziotto lo ha fatto per lei. Un favore.» Van Gates sbuffò. «Dovremmo avere tutti quanti un poliziotto che ci fa dei favori.» «È successo parecchi mesi fa? Sono venuti a trovarla insieme?»
«Gliel'ho appena detto.» «E lei le ha rivelato il nome della madre?» «Sì.» «Allora perché Anna l'ha chiamata la scorsa settimana? Se conosceva già il nome della madre?» «Perché aveva visto una foto sul Boston Globe. Di una donna identica a lei.» «La dottoressa Maura Isles.» Lui annuì. «La signora Leoni me lo ha chiesto direttamente, perciò gliel'ho detto.» «Detto che cosa?» «Che aveva una sorella.» 13 Le ossa cambiarono tutto. Maura aveva programmato di rientrare a Boston quella sera. Invece tornò rapidamente al cottage per indossare un paio di jeans e una maglietta, poi prese l'auto e raggiunse di nuovo la radura. Mi fermerò un po' di più, pensò, e partirò per le quattro. Ma col passare del pomeriggio, quando arrivò la Scientifica da Augusta e le squadre di ricerca iniziarono a perlustrare il terreno secondo la griglia preparata da Corso, Maura perse la nozione del tempo. Fece solo una pausa per divorare uno dei sandwich al pollo portati sul posto dai volontari. Tutto sapeva del repellente contro le zanzare che si era abbondantemente cosparsa sul viso, ma aveva tanta fame che avrebbe rosicchiato anche una crosta di pane secco. Placato l'appetito, si rimise di nuovo i guanti, prese una paletta e s'inginocchiò nella terra accanto al dottor Singh. Le quattro arrivarono e passarono. Le scatole di cartone iniziarono a riempirsi di ossa. Costole e vertebre lombari, femori e tibie. Il bulldozer non le aveva sparpagliate molto lontano: i resti della donna erano tutti localizzati in un raggio di due metri, quelli dell'uomo, tenuti insieme da una rete di radici di rovo, erano in un'area ancora più circoscritta. Sembravano esserci solo due scheletri, ma fu necessario tutto il pomeriggio per riesumarli. In preda all'eccitazione, Maura non riuscì a imporsi di partire, non quando una qualsiasi palata di terra che setacciava poteva rivelare un nuovo tesoro: un bottone, un proiettile o un dente. Quando ancora studiava alla Stanford University, aveva trascorso
un'estate a lavorare in un sito archeologico in Baja California. Nonostante le temperature superassero di molto i trenta gradi e per ripararsi avesse solo un cappello a tese larghe, Maura lavorava sempre sino alle ore più calde, animata dalla febbre che colpisce i cacciatori di tesori, convinti che un nuovo reperto si trovi solo a pochi centimetri di distanza. Ora, inginocchiata tra le felci, tormentata dai simulidi, era in preda alla stessa febbre. Per questo scavò tutto il pomeriggio fino a sera, fino a quando arrivarono le nubi e un tuono brontolò in lontananza. Per questo e per il tacito fremito che provava ogniqualvolta Rick Ballard le si avvicinava. Anche se setacciava la terra, anche se districava radici, era consapevole della sua presenza, della sua voce, della sua vicinanza. Era stato lui a portarle una bottiglia d'acqua fresca e a porgerle il sandwich. Lui che si era fermato per metterle una mano sulla spalla e chiederle come andasse. I suoi colleghi all'ufficio del coroner di rado la toccavano. Forse era per il suo atteggiamento distaccato o per una sorta di segnale indiretto con cui lasciava intendere che non amava i contatti personali. Ballard invece non esitava a sfiorarle un braccio o a posarle la mano sulla schiena. Il suo tocco la faceva arrossire. Quando la squadra della Scientifica cominciò a raccogliere l'attrezzatura al termine della giornata, Maura si stupì che fossero già le sette e che la luce stesse svanendo. Le facevano male i muscoli e aveva i vestiti tutti sporchi. Si alzò in piedi con le gambe tremanti per la stanchezza e osservò Daljeet chiudere col nastro le due scatole di resti. Poi ne presero una a testa e attraversarono il campo fino all'auto di Singh. «Dopo il lavoro di oggi mi devi una cena, Daljeet», disse Maura. «Da Julien, è una promessa. La prossima volta che passo da Boston.» «Credimi, sono decisa a riscuotere il premio.» Daljeet caricò le scatole in macchina e chiuse la portiera. Poi si strinsero la mano: palmo sporco contro palmo sporco. Mentre si allontanava, Maura lo salutò agitando la mano. Gran parte della squadra di ricerca era già andata via, restavano solo alcune auto. Tra queste c'era il Ford Explorer di Ballard. Maura si fermò nella luce del crepuscolo sempre più fioca e guardò la radura. Ballard era in piedi in prossimità del bosco, impegnato a parlare col detective Corso, e le dava la schiena. Maura indugiò, sperando notasse che era sul punto di andarsene. E poi che cosa? Che cosa voleva accadesse tra loro?
Vattene prima di fare la figura dell'idiota. Si voltò di scatto e si diresse alla macchina. Avviò il motore e partì tanto velocemente che sgommò. Tornata al cottage, si tolse gli abiti sporchi e si fece una lunga doccia, insaponandosi due volte per rimuovere ogni traccia del repellente oleoso anti-zanzare. Quando uscì dal bagno, si accorse di non avere più abiti puliti da mettersi. Aveva programmato di restare solo una notte a Fox Harbor. Aprì l'anta dell'armadio e fissò i vestiti di Anna. Erano tutti della sua taglia. Che cosa avrebbe scelto? Prese un abito estivo. Era di cotone bianco, un po' da ragazzina per i suoi gusti, ma in quella serata calda e umida era proprio ciò che le andava di indossare. Infilandolo dalla testa, sentì la stoffa sottile sfiorarle la pelle e si chiese quando era stata l'ultima volta che Anna se lo era sistemato sui fianchi, che si era annodata la cintura in vita. C'erano ancora le pieghe: indicavano il punto in cui aveva fatto il nodo. Tutto quello che vedo e tocco di lei ha ancora la sua impronta, pensò. Lo squillo del telefono la fece voltare verso il comodino. In certo qual modo sapeva, ancor prima di sollevarlo, che era Ballard. «Non l'ho vista andare via», disse. «Sono tornata alla casa a farmi una doccia. Ero in condizioni pietose.» Lui scoppiò a ridere. «Anch'io mi sento piuttosto malmesso.» «Quando torna a Boston?» «È già tardi. Penso che mi fermerò un'altra notte. E lei?» «Anche a me non va di guidare stasera.» Passò un istante. «Ha trovato una stanza da qualche parte?» domandò Maura. «Mi sono portato dietro tenda e sacco a pelo. Mi fermo in un campeggio poco più in su, lungo la strada.» Impiegò cinque secondi a decidere. Cinque secondi per valutare le possibilità, e le conseguenze. «Qui c'è una camera libera», disse. «Se vuole, ne può approfittare.» «Non vorrei piombarle in casa così.» «Il letto c'è, Rick.» Ci fu un istante di silenzio. «Sarebbe fantastico, ma a una condizione.» «Quale?» «Che tu mi permetta di portare la cena. Sulla Main Street c'è un posto che vende cibi per asporto. Niente di particolarmente raffinato, forse avranno delle aragoste bollite.» «Non so per te, Rick, ma per me l'aragosta è un piatto raffinato.»
«Preferisci vino o birra?» «Stasera è una sera da birra.» «Sarò da te tra circa un'ora. Conserva l'appetito.» Maura riagganciò e all'improvviso si accorse d'essere affamata. Solo pochi attimi prima si sentiva troppo stanca per guidare fino in centro e aveva considerato l'idea di saltare la cena e andare a letto presto. Adesso aveva fame, non solo di cibo, ma anche di compagnia. Girò per casa, agitata, in preda a troppi desideri contraddittori. Solo poche sere prima aveva cenato con Daniel Brophy, ma la Chiesa lo aveva da tempo reclamato per sé e lei non avrebbe mai potuto competere. Le cause perse potevano anche essere seducenti, ma di rado ti rendevano felice. Udì il rombo di un tuono e si avvicinò alla zanzariera. Fuori il crepuscolo aveva ceduto il posto alla sera. Non vedeva fulmini, ma l'aria era carica di elettricità. Di possibilità. Alcune gocce cominciarono a ticchettare sul tetto. Dapprima erano pochi, esitanti picchiettii, poi il cielo si aprì e le sembrò di avere una miriade di tamburi che le rullavano sopra la testa. Eccitata dall'energia del temporale, Maura rimase in piedi sul portico a osservare la pioggia che scrosciava e sentì una gradita ventata d'aria fresca incresparle il vestito e sollevarle i capelli. Una coppia di fari squarciò la coltre argentea dell'acquazzone. Maura rimase perfettamente immobile sul portico, col cuore che le batteva come la pioggia, mentre la macchina si fermava davanti a casa. Ballard scese portando un grosso sacchetto e una confezione da sei di birra. Con la testa china sotto il diluvio, si avvicinò tra gli schizzi di pioggia fino al portico e salì i gradini. «Non sapevo di dover nuotare», osservò. Lei scoppiò a ridere. «Vieni, ti prendo un asciugamano.» «Ti spiace se salto subito nella doccia? Non sono ancora riuscito a lavarmi.» «Fa' pure», rispose lei prendendo il sacchetto con la spesa. «Il bagno è in fondo al corridoio. Nell'armadietto ci sono degli asciugamani puliti.» «Prendo la borsa con i vestiti dal bagagliaio.» Maura portò il cibo in cucina e mise le birre in frigorifero. Udì la zanzariera richiudersi quando Ballard rientrò in casa e, un attimo dopo, l'acqua della doccia che scrosciava. Si sedette a tavola ed emise un profondo sospiro. È solo una cena, pensò. Una notte sotto lo stesso tetto. Pensò alla cena che aveva preparato per Daniel pochi giorni prima, a com'era stata diversa l'atmosfera di quella sera
fin dall'inizio. Quando guardava Daniel, vedeva l'irraggiungibile. E che cosa vedo quando guardo Rick? Forse più di quello che dovrei. L'acqua della doccia non scrosciava più. Maura rimase seduta immobile ad ascoltare, ogni senso improvvisamente tanto acuto che sentiva l'aria frusciarle sulla pelle. Il rumore di passi sulle assi scricchiolanti si avvicinò e d'un tratto lui era lì, profumato di sapone, con un paio di blue jeans e una camicia pulita addosso. «Spero non ti spiaccia cenare con un uomo scalzo», disse. «Gli scarponi erano troppo sporchi perché li potessi mettere in casa.» Maura rise. «Allora anch'io starò scalza. Sembrerà un picnic», disse. Si sfilò i sandali e si avvicinò al frigorifero. «Pronto per una birra?» «Lo sono da ore.» Lei aprì due bottiglie di birra e gliene porse una. Sorseggiò la sua osservandolo reclinare la testa e berne una buona sorsata. Non vedrò mai Daniel così, pensò. Spensierato e scalzo, con i capelli bagnati dopo la doccia. Si girò e andò a sbirciare nel sacchetto della spesa. «Allora, cos'hai preso per cena?» «Ora vedrai.» Avvicinandosi al banco, frugò nella borsa ed estrasse diversi pacchetti avvolti nella stagnola. «Patate al forno. Burro fuso. Pannocchie di granturco. E il pezzo forte.» Prese un grande contenitore termico e lo aprì mostrandole due aragoste rosso vivo, ancora fumanti. «Come le apriamo?» «Non sai come aprire una di queste bestiole?» «Spero lo sappia tu.» «È facile.» Rick prese due schiaccianoci dal sacchetto. «Pronta per l'intervento, dottoressa?» «Adesso mi rendi nervosa.» «Sta tutto nella tecnica, ma prima ci dobbiamo vestire.» «Che cosa?» Ballard pescò di nuovo nel sacchetto ed estrasse due bavaglini di plastica. «Stai scherzando!» «Pensi che i ristoranti diano questi cosi solo per far sembrare i turisti degli idioti?» «Sì.» «Dai, sta' al gioco. Così non ti macchierai quel bel vestito.» Ballard si portò alle sue spalle e le sistemò il bavaglino sul petto. Maura sentì il suo alito tra i capelli quando le allacciò la fettuccia dietro il collo. Non scostò
subito le mani e quel contatto le procurò un brivido. «Adesso tocca a te», sussurrò lei. «A me?» «Non ho intenzione d'essere l'unica a mangiare con questo ridicolo affare.» Lui emise un sospiro rassegnato e si legò un bavaglino al collo. Si guardarono, tutti e due con la stessa caricatura di un'aragosta sul petto, e scoppiarono a ridere. Continuando a ridere, si lasciarono cadere sulle sedie di fronte al tavolo. Un paio di sorsi di birra a stomaco vuoto e perdo il controllo, pensò Maura. Ed è così piacevole. Rick afferrò uno schiaccianoci. «Ora, dottoressa Isles, siamo pronti per operare?» Lei prese il suo e lo tenne come un chirurgo pronto a praticare la prima incisione. «Pronti.» La pioggia batteva a ritmo costante mentre loro staccavano le chele, rompevano il carapace, estraevano la carne dolce a pezzetti. Non si curarono di usare la forchetta, mangiarono con le mani. Con le dita unte di burro stappavano nuove bottiglie di birra e aprivano le patate al forno, mettendone in mostra la polpa calda e soffice. Quella sera le formalità erano bandite: era un picnic e loro sedevano scalzi a tavola, leccandosi le dita, lanciandosi occhiate furtive. «È molto più divertente che mangiare con forchetta e coltello», affermò lei. «Non avevi mai mangiato l'aragosta con le mani?» «Che tu mi creda o no, è la prima volta che ne vedo una col carapace», rispose Maura allungandosi per prendere un tovagliolo e pulirsi le dita. «Non sono del New England, lo sai. Mi sono trasferita qui solo due anni fa. Da San Francisco.» «La cosa un po' mi sorprende.» «Perché?» «Sembri una tipica yankee.» «Cioè?» «Padrona di te. Riservata.» «Cerco di esserlo.» «Vuoi dire che in realtà non sei così?» «Tutti recitiamo una parte. Sul lavoro ho la mia maschera ufficiale, che indosso quando sono la dottoressa Isles.» «E quando sei con gli amici?»
Maura bevve un sorso di birra, poi posò la bottiglia senza far rumore. «Non mi sono ancora fatta molti amici a Boston.» «Ci vuole tempo, se sei una outsider.» Una outsider. Sì, così si sentiva, tutti i giorni. Vedeva gli agenti darsi pacche sulle spalle, li sentiva parlare di barbecue, di partite di softball a cui non veniva mai invitata perché non era una di loro, una poliziotta. Il titolo di dottore che si accompagnava al suo nome era una sorta di muro, che li teneva lontani. Anche i colleghi medici dell'ufficio del coroner, tutti sposati, non sapevano come comportarsi con lei. Una divorziata attraente era scomoda, imbarazzante: una minaccia o una tentazione a cui nessuno voleva trovarsi di fronte. «Allora, che cosa ti ha spinta a venire a Boston?» domandò Rick. «Ho pensato che dovessi dare una svolta alla mia vita.» «Insoddisfatta della carriera?» «No, non è stato per quello. Mi trovavo molto bene alla facoltà di medicina laggiù. Ero patologa all'ospedale universitario. Inoltre, avevo la possibilità di lavorare con i medici interni e gli studenti, persone giovani e in gamba.» «Allora, se non è stato per il lavoro, dev'essere stato per questioni sentimentali.» Maura abbassò lo sguardo sul tavolo, sugli avanzi della cena. «Indovinato.» «E ora mi dirai di farmi gli affari miei.» «Ho divorziato, questo è quanto.» «È una cosa di cui ti va di parlare?» Lei si strinse nelle spalle. «Che posso dire? Victor era brillante, incredibilmente carismatico...» «Accidenti, sono già geloso.» «Ma non riesci a restare sposato con una persona del genere. È un rapporto troppo intenso. Ti consuma con tanta rapidità che ti ritrovi sfinita. E lui...» Maura s'interruppe. «Cosa?» Maura prese la birra e la sorseggiò con calma prima di posarla. «Non è stato propriamente onesto con me», aggiunse. «Questo è tutto.» Maura capiva che voleva sapere di più, ma lui aveva colto il tono conclusivo della sua voce, quel per ora ci fermiamo qui. Rick si alzò e si avvicinò al frigorifero per prendere altre due birre. Tolse i tappi e le porse una bottiglia.
«Se dobbiamo parlare di ex», disse, «ci serviranno molte più birre di queste.» «Allora, lasciamo perdere. Se è una cosa che fa male.» «Forse fa male perché non ne parli.» «Nessuno ha voglia di sapere del mio divorzio.» Lui si sedette e incrociò il suo sguardo al di là del tavolo. «Io sì.» Nessun uomo, pensò Maura, le aveva mai rivolto un'attenzione così totale, al punto che non riusciva a distogliere lo sguardo. Si ritrovò a respirare profondamente, a inalare l'odore della pioggia e l'aroma forte, animale, del burro fuso. Vide cose sul suo volto che non aveva notato prima: i capelli screziati di biondo, la cicatrice sul mento, solo una pallida linea bianca sotto il labbro inferiore, il dente anteriore scheggiato. Ho appena incontrato quest'uomo, pensò, eppure lui mi guarda come se mi conoscesse da sempre. Udì vagamente il cellulare che suonava in camera, ma non aveva voglia di rispondere. Lo lasciò squillare finché cessò. Non era da lei non rispondere al telefono, ma quella sera tutto era diverso. Lei era diversa. Sconsiderata. Una donna che lasciava suonare il telefono e mangiava con le mani. Una donna che avrebbe potuto dormire con un uomo che conosceva appena. Il cellulare riprese a squillare. Stavolta l'insistenza del suono riuscì ad attirare la sua attenzione. Non poteva più far finta di niente. Con riluttanza si alzò e disse: «È il caso che io risponda». Quando raggiunse la camera da letto, il cellulare aveva di nuovo smesso di suonare. Compose il numero della sua casella vocale e udì due messaggi, entrambi di Rizzoli. «Dottoressa, ho bisogno di parlarti. Chiamami.» Il secondo messaggio, registrato con voce più querula, diceva: «Sono di nuovo io. Perché non rispondi?» Maura si sedette sul letto e, mentre fissava il materasso, non poté non pensare che era della giusta misura per due. Scacciò il pensiero, fece un profondo respiro e compose il numero di Jane. «Dove sei?» le chiese con tono autoritario Rizzoli. «Sono ancora a Fox Harbor. Mi spiace, non sono riuscita a rispondere in tempo.» «Hai già visto Ballard da quelle parti?» «Sì, abbiamo appena finito di cenare. Come sai che è qui?»
«Perché ieri mi ha chiamata per chiedermi dove fossi andata. Mi è sembrato che avesse l'intenzione di venire lassù.» «È proprio nell'altra stanza. Vuoi che lo chiami?» «No, voglio parlare con te.» Rizzoli tacque per un istante. «Oggi sono andata a trovare Terence Van Gates.» Il brusco cambiamento d'argomento fu per Maura come una frustata. «Cosa?» domandò, sbalordita. «Van Gates. Mi hai detto che è l'avvocato che...» «Sì, so chi è. Che cosa ti ha detto?» «Una cosa interessante. Sull'adozione.» «Davvero te ne ha parlato?» «Sì, è incredibile come alcune persone si aprano quando mostri un distintivo. Mi ha detto che mesi fa tua sorella è andata da lui. Proprio come te, stava cercando di rintracciare la madre naturale. Lui le ha propinato le stesse storie che ha raccontato a te: i documenti non sono consultabili, la madre ha preteso riservatezza, bla, bla, bla. Così è tornata con un amico, che alla fine ha convinto Van Gates che era nel suo migliore interesse fare il nome della madre.» «E lui lo ha fatto?» «Sì.» Maura teneva il telefono premuto con tanta forza all'orecchio che sentiva il battito sordo del suo polso nel ricevitore. «Tu sai il nome di mia madre», disse piano. «Sì, ma c'è qualcos'altro...» «Dimmi come si chiama, Jane.» Silenzio. «Lank. Si chiama Amalthea Lank.» Amalthea. Mia madre si chiama Amalthea. Maura espirò piena di gratitudine. «Grazie! Dio, non ci posso credere, conosco veramente...» «Aspetta, non ho finito.» Il tono di voce di Rizzoli rivelava un avvertimento. C'era qualcosa di brutto in arrivo, qualcosa che a Maura non avrebbe fatto piacere. «Che c'è?» «L'amico di Anna, quello che ha parlato con Van Gates.» «Sì?» «Era Rick Ballard.» Maura restò perfettamente immobile. Dalla cucina proveniva un acciottolio di stoviglie, uno scrosciare d'acqua. Ho appena passato un'intera
giornata con lui e all'improvviso mi rendo conto di non sapere che tipo d'uomo sia veramente. «Dottoressa?» «Perché allora non me lo ha detto?» «Io lo so.» «Perché?» «È meglio che glielo chieda tu. Fatti raccontare il resto della storia.» Quando tornò in cucina, Maura vide che Rick aveva sparecchiato e gettato i carapaci delle aragoste nel secchio dei rifiuti. Era in piedi davanti al lavandino intento a lavarsi le mani: non si accorse che lei si trovava sulla soglia e lo stava osservando. «Cosa sai di Amalthea Lank?» chiese Maura. Ballard s'irrigidì, senza voltarsi. Ci fu un lungo attimo di silenzio, poi afferrò lo strofinaccio e si asciugò con calma le mani. Prende tempo prima di rispondermi, pensò Maura. Ma non avrebbe accettato nessun genere di scusa, nulla di quanto le avesse potuto dire avrebbe cancellato il senso di sfiducia che ora provava. Finalmente si voltò a guardarla. «Speravo che non lo scoprissi. Amalthea Lank non è una donna che avresti piacere di conoscere, Maura.» «È lei mia madre? Maledizione, dimmi almeno questo.» Lui annuì, riluttante. «Sì.» Ecco, lo aveva detto. Lo aveva confermato. Passò un altro istante in cui Maura digerì il fatto che Rick le aveva nascosto un'informazione tanto importante. Per tutto il tempo Ballard non smise di osservarla preoccupato. «Perché non me lo hai detto?» chiese lei. «Pensavo solo a te, Maura. Al tuo miglior interesse...» «La verità non è nel mio migliore interesse?» «In questo caso no, non lo è.» «Che diavolo vorrebbe dire?» «Con tua sorella ho commesso un errore, un grave errore. Voleva disperatamente trovare sua madre e ho pensato di farle un favore. Non avevo idea che sarebbe andata com'è andata», disse Rick avanzando d'un passo nella sua direzione. «Stavo cercando di proteggerti, Maura. Ho visto l'effetto su Anna. Non volevo che a te capitasse lo stesso.» «Io non sono Anna.» «Invece sei proprio come lei. Sei così simile a lei che la cosa mi fa paura. Non è solo l'aspetto, ma anche il modo di pensare.»
Lei scoppiò in una risata sarcastica. «Così adesso mi leggi nella mente?» «Non si tratta della mente, ma della tua personalità. Anna era tenace. Quando voleva sapere qualcosa, non mollava. Tu scavi, scavi in continuazione finché non hai una risposta, come hai fatto oggi nel bosco. Non era tuo compito e non era la tua giurisdizione. Non avevi ragione di stare là fuori se non la pura curiosità. E la pervicacia. Volevi trovare quelle ossa e l'hai fatto. Così era Anna.» Sospirando aggiunse: «Mi spiace solo per quello che ha trovato con tutto il suo scavare». «Chi era mia madre, Rick?» «Una donna che non avresti piacere di conoscere.» Maura impiegò qualche istante a cogliere pienamente il senso di quella risposta. Tempo presente. «Mia madre è viva.» Lui annuì, riluttante. «E sai dove trovarla.» Ballard non rispose. «Maledizione, Rick!» esplose lei. «Perché non me lo dici?» Lui si avvicinò al tavolo e si sedette, come se d'un tratto fosse troppo stanco per continuare a lottare. «Perché so che per te sarebbe doloroso conoscere i fatti. Soprattutto alla luce di quello che sei. Di quello che fai per vivere.» «Che cos'ha a che fare il mio lavoro con questo?» «Tu lavori con le forze dell'ordine. Aiuti a consegnare gli assassini alla giustizia.» «Io non consegno nessuno alla giustizia. Fornisco solo i fatti. A volte i fatti non sono quelli che la polizia vuol sentire.» «Ma lavori dalla nostra parte.» «No, dalla parte della vittima.» «D'accordo, dalla parte della vittima. Per questo non ti piacerà quello che ti dirò di lei.» «Ancora non mi hai detto niente.» Lui sospirò. «Okay. Forse dovrei iniziare dicendoti dove vive.» «Va' avanti.» «Amalthea Lank, la donna che ti ha dato in adozione, si trova nel carcere del Dipartimento correzionale del Massachusetts a Framingham.» Sentendosi le gambe improvvisamente molli, Maura si accasciò su una sedia di fronte a lui. Mise il braccio nel burro versato che si era solidificato sul tavolo, ricordo della piacevole cena che avevano consumato insieme meno di un'ora prima, quando il mondo non si era ancora capovolto.
«Mia madre è in prigione?» «Sì.» Maura lo fissò e non riuscì a formulare l'ovvia domanda, perché temeva la risposta. Ma aveva già fatto il primo passo lungo quel cammino e, anche se non sapeva dove l'avrebbe portata, adesso non poteva tornare indietro. «Che cos'ha fatto?» domandò Maura. «Perché è in carcere?» «Sta scontando l'ergastolo», rispose lui. «Per duplice omicidio.» «Per questo non volevo sapessi», proseguì Ballard. «Ho visto l'effetto su Anna, quando ha saputo di che cosa si era resa colpevole la madre. Quando ha saputo che sangue le scorresse nelle vene. È un lignaggio che nessuno vorrebbe avere: un assassino in famiglia. Naturalmente, non ci ha voluto credere. Ha pensato che fosse un errore, che sua madre potesse essere innocente. E dopo che l'ha vista...» «Aspetta. Anna ha visto nostra madre?» «Sì. Lei e io siamo andati insieme al carcere di Framingham. Alla prigione femminile. È stato un altro sbaglio, perché quella visita non ha fatto che lasciarla ancora più perplessa sulla colpevolezza della madre. Non riusciva semplicemente ad accettare il fatto che la madre fosse un mos...» Rick s'interruppe. Un mostro. Mia madre è un mostro. La pioggia era diminuita e ora si udiva solo un lieve tap-tap sul tetto. Il temporale era passato, anche se Maura ne udiva ancora il debole brontolio mentre si spostava verso il mare. In cucina, tuttavia, tutto era silenzio. Erano seduti l'uno di fronte all'altra: Rick la osservava muto, preoccupato, quasi temesse un suo crollo. Non mi conosce, pensò Maura, io non sono Anna, non andrò a pezzi e non ho bisogno di un maledetto paladino che mi difenda. «Raccontami il resto», disse. «Il resto?» «Hai detto che Amalthea Lank è stata condannata per duplice omicidio. Quando è stato?» «Circa cinque anni fa.» «Chi erano le vittime?» «Non è una cosa facile da raccontare né per te da ascoltare.» «Finora mi hai detto che mia madre è un'assassina. Mi sembra di averla presa piuttosto bene.» «Meglio di Anna», ammise lui.
«Allora dimmi chi sono le vittime e non tralasciare nessun maledetto particolare. È l'unica cosa che non posso sopportare, Rick, quando le persone mi nascondono la verità. Sono stata sposata con un uomo che aveva un sacco di segreti, per questo è finito il nostro matrimonio. Non lo accetto più, da nessuno.» «D'accordo.» Rick si protese e la guardò negli occhi. «Vuoi i particolari, allora sarò brutalmente onesto con te. Perché i particolari sono brutali. Le vittime sono due sorelle, Theresa e Nikki Wells, età trentacinque e ventotto anni, di Fitchburg, nel Massachusetts. Erano in panne sul ciglio della strada con una gomma a terra. Era la fine di novembre e si era scatenata una bufera di neve imprevista. Devono essersi sentite molto fortunate quando un'auto si è fermata per dare loro un passaggio. Due giorni dopo hanno trovato i corpi a una cinquantina di chilometri di distanza, in un fienile bruciato. Una settimana dopo ancora la polizia della Virginia ha fermato Amalthea Lank per una violazione del codice stradale. Hanno scoperto che la sua auto aveva targhe rubate e hanno notato tracce di sangue sul paraurti posteriore. Quando hanno perquisito la macchina, hanno trovato i portafogli delle vittime nel bagagliaio e una leva per pneumatici con le impronte di Amalthea. I test effettuati in seguito hanno rivelato che la barra recava tracce di sangue. Il sangue di Theresa e Nikki. La prova definitiva è arrivata da una telecamera di sicurezza di una stazione di servizio su, nel Massachusetts. Nella registrazione si vede Amalthea Lank riempire una tanica di plastica di benzina. La benzina che ha usato per bruciare i corpi delle vittime.» Rick incrociò il suo sguardo. «Ecco. Sono stato brutale. È questo quello che volevi?» «Qual è stata la causa del decesso?» chiese Maura con voce stranamente, spaventosamente calma. «Hai detto che i corpi sono stati bruciati, ma come sono state uccise quelle donne?» Lui la fissò per un istante, come se non accettasse del tutto la sua compostezza. «Le radiografie dei resti bruciati hanno dimostrato che i crani di entrambe erano stati fratturati, probabilmente con la leva per pneumatici. La sorella minore, Nikki, aveva ricevuto un colpo sul viso tanto forte che tutte le ossa facciali erano infossate. Il suo volto era ridotto a un cratere. Tanto atroce è stato il suo crimine.» Maura pensò al quadro che Rick le aveva appena tracciato. Pensò a una strada innevata e a due sorelle in panne. Quando una donna si ferma ad aiutarle, hanno tutte le ragioni per fidarsi della buona samaritana, soprattutto se è più vecchia, con i capelli grigi. La solidarietà femminile.
«Hai detto che Anna non credeva fosse colpevole», affermò guardandolo. «Ti ho detto quello che hanno presentato in tribunale. La leva per pneumatici, il video della stazione di servizio. I portafogli rubati. Qualsiasi giuria l'avrebbe condannata.» «È accaduto cinque anni fa. Quanti anni aveva Amalthea?» «Non ricordo. Sessanta e qualcosa.» «Ed è riuscita a soggiogare e uccidere due donne di alcune decine d'anni più giovani di lei?» «Gesù, stai facendo la stessa cosa di Anna. Dubiti di ciò che è ovvio.» «Perché ciò che è ovvio non è sempre vero. Qualsiasi persona fisicamente abile reagirebbe o scapperebbe. Perché Theresa e Nikki non l'hanno fatto?» «Saranno state colte di sorpresa.» «Ma tutte e due? Perché l'altra non è scappata?» «Una di loro non era propriamente abile.» «Cosa intendi?» «La sorella minore, Nikki. Era incinta di nove mesi.» 14 Mattie Purvis non sapeva se fosse giorno o notte. Non aveva orologio e non poteva tenere il conto delle ore o dei giorni che passavano. Quello era l'aspetto più duro di tutti, non sapere da quanto fosse in quella cassa. Quanti battiti, quanti respiri si erano susseguiti mentre se ne stava lì sola con la sua paura. Aveva provato a contare i secondi, poi i minuti, ma aveva rinunciato dopo soltanto cinque. Era una fatica inutile, anche se le serviva per tenere a freno la disperazione. Aveva già esplorato ogni centimetro della prigione e non aveva trovato punti deboli né fessure dove scavare o fare forza. Aveva steso la coperta sotto di sé: era una gradita protezione da quel legno duro. Aveva imparato a usare la padella di plastica senza schizzare troppo in giro. Anche in una cassa, la vita stabiliva una sua routine: dormi, bevi un po' d'acqua, fai pipì. Tutto quello che poteva fare per cercare di tener conto del tempo era controllare la riserva di cibo: quante barrette Hershey mangiava, quante gliene restavano. Nel sacchetto ce n'erano ancora una decina. Mise in bocca un pezzetto di cioccolato, ma non lo masticò. Lo fece
sciogliere per assaporarne il sapore dolce, vellutato, sulla lingua. Aveva sempre amato il cioccolato, non era mai riuscita a passare davanti a una pasticceria senza fermarsi ad ammirare le praline, disposte come gioielli scuri nei loro cestini di carta. Pensò alla spruzzata di cacao amaro in polvere, al ripieno di ciliegia dal sapore aspro e allo sciroppo di rhum che le colava sul mento... tutt'altra cosa rispetto a quella semplice barretta. Ma il cioccolato era cioccolato e assaporò quello che aveva. Non sarebbe durato per sempre. Guardò gli involucri appallottolati sparpagliati sul fondo della sua prigione, sgomenta di aver già consumato tutto quel cibo. Una volta finito, che cosa sarebbe successo? Di certo ne sarebbe arrivato altro. Perché il rapitore le avrebbe dato cibo e acqua, se nei giorni seguenti avesse voluto lasciarla morire di fame? No, no, no. Io vivrò, non morirò. Mattie sollevò il viso verso la grata e respirò grandi boccate d'aria. Io devo vivere, continuò a ripetersi. Devo vivere. Perché? Si accasciò contro la parete, con quell'unica parola che le riecheggiava in testa. L'unica risposta che le venne in mente fu: per un riscatto. Oh, che stupido il suo rapitore. Era caduto nell'inganno di Dwayne: le BMW, l'orologio Breitling, le cravatte firmate. Quando guidi un'auto del genere, hai un'immagine da mantenere. Mattie iniziò a ridere istericamente: sono stata rapita per un'immagine costruita su denaro preso a prestito. Dwayne non poteva permettersi di pagare nessun riscatto. Se lo immaginò mentre entrava in casa e scopriva che lei non c'era. Vedrà la mia macchina in garage e la sedia sul pavimento, pensò. Non capirà finché non troverà il biglietto. Finché non leggerà la richiesta di riscatto. Lo pagherai, vero? Vero? La luce s'indebolì all'improvviso. Mattie afferrò la torcia e la batté sulla mano. La luce aumentò, ma solo per un istante, poi si attenuò di nuovo. Oh, Dio, le batterie. Stupida, non dovevi lasciarla accesa così a lungo! Frugò nel sacchetto e strappò una confezione di batterie nuove che caddero sul pavimento, rotolando in ogni direzione. La luce si spense. Il rumore del suo respiro riempì il buio insieme ai piagnucolii del panico che le cresceva nel petto. Va bene, va bene, Mattie, smettila. Sai di avere batterie nuove. Devi solo metterle nel posto giusto.
Tastò sul pavimento e raccolse le batterie sparse. Inspirò profondamente e svitò la torcia, posando con cura il cappuccio sul ginocchio piegato. Estrasse le vecchie batterie e le mise da parte. Ogni mossa che faceva avveniva nel buio pesto. Se avesse perso un pezzo essenziale, senza luce avrebbe rischiato di non ritrovarlo più. Calmati, Mattie, hai cambiato le batterie tante volte. Infilale dentro, prima il polo positivo. Una, due. Adesso avvita il cappuccio. D'un tratto la luce brillò, viva e intensa. Mattie emise un sospiro e si accasciò contro il muro esausta, come se avesse corso per più di un chilometro. Adesso che hai di nuovo la luce, risparmiala. Non esaurire di nuovo le batterie. Spense la torcia e rimase seduta al buio. Stavolta il suo respiro era profondo e costante. Niente panico. Poteva anche essere cieca, ma aveva il dito sull'interruttore e in qualsiasi momento poteva accendere la torcia. Ho la situazione sotto controllo. Quelle che non riusciva a controllare, lì seduta al buio, erano le paure che da poco l'avevano assalita. A quest'ora Dwayne avrà saputo del rapimento, pensò. Avrà letto il biglietto o ricevuto una telefonata. I soldi o tua moglie. Pagherà, naturalmente, certo che pagherà. Lo immaginava mentre supplicava frenetico al telefono con un anonimo interlocutore. Non le fate del male, per favore, non le fate del male! Lo immaginava singhiozzare, seduto al tavolo di cucina, pentito, davvero pentito di tutte le brutte cose che le aveva detto. Per i mille modi in cui l'aveva fatta sentire piccola, insignificante. Adesso si sarebbe voluto rimangiare tutto, avrebbe voluto dirle quant'era importante per lui... Stai sognando, Mattie. Chiuse gli occhi di fronte a un'angoscia tanto profonda che le sembrò quasi fosse giunta fino al cuore e lo stringesse nella sua morsa crudele. Sai che non ti ama. Lo sai da mesi. Cingendosi il ventre con le braccia, abbracciò se stessa e la bambina. Raggomitolata in un angolo della prigione, non riusciva più a negare la verità. Ricordò lo sguardo disgustato di Dwayne quando una sera era uscita dalla doccia e lui le aveva fissato il ventre. O la sera in cui gli si era avvicinata alle spalle per baciarlo sul collo e lui l'aveva allontanata. O la festa a casa degli Everett, due mesi prima, quando lo aveva perso e infine scoperto nel gazebo del giardino posteriore a flirtare con Jen Hockmeister. Aveva avuto degli indizi, tanti indizi, ma li aveva ignorati tutti perché credeva nel vero amore. Ci aveva creduto fin dal giorno in cui le avevano presentato Dwayne Purvis a una festa di compleanno e aveva capito che era lui quello
giusto, anche se c'erano alcune cose che avrebbero dovuto insospettirla. Per esempio, il fatto che dividesse sempre a metà il conto quando uscivano o che non potesse mai fare a meno di sistemarsi i capelli quando passava davanti a uno specchio. Piccole cose che nel lungo periodo non avrebbero avuto importanza perché c'era l'amore a unirli. Questo era quello che si era detta, una solenne bugia adatta alla storia d'amore di qualcun altro, forse a quelle dei film, non alla sua relazione. Non alla sua vita. La sua vita era quella. Si trovava seduta in una cassa, in attesa che un marito che non la rivoleva pagasse il riscatto. Pensò al vero Dwayne, non a quello immaginario, seduto in cucina a leggere il biglietto: Abbiamo tua moglie. Se non ci dai un milione di dollari... No, era una somma troppo alta. Nessun rapitore sano di mente chiederebbe tanto. Che cosa chiedevano i rapitori per una moglie? Centomila dollari sembrava più ragionevole. Ma anche in quel caso Dwayne si sarebbe rifiutato. Avrebbe considerato tutti i suoi beni. Le BMW, la casa. Quanto valeva sua moglie? Se mi ami, se mi hai mai amata, pagherai il riscatto. Per favore, pagalo. Mattie scivolò sul fondo e si abbracciò chiudendosi nella sua disperazione, nella sua cassa privata, più profonda e buia di qualsiasi prigione in cui la potessero rinchiudere. «Signora. Signora.» S'immobilizzò a metà singhiozzo, non capendo se avesse udito davvero un sussurro. Adesso sentiva le voci. Stava diventando pazza. «Parlami, signora.» Mattie accese la luce e la puntò sopra la sua testa. Di lì veniva la voce, dalla grata per l'aria. «Mi senti?» Era una voce maschile. Bassa e melliflua. «Chi sei?» domandò Mattie. «Hai trovato il cibo?» «Chi sei?» «Sta' attenta, te lo devi far bastare.» «Mio marito ti pagherà. So che lo farà. Per favore, fammi uscire di qui!» «Hai dolori?» «Cosa?» «Hai dolori?» «Voglio solo uscire! Fammi uscire!» «Quando sarà il momento.»
«Per quanto tempo mi terrai qui? Quando mi lascerai uscire?» «Più tardi.» «Che significa?» Nessuna risposta. «Ehi? Ci sei? Di' a mio marito che sono viva. Digli che ti deve pagare!» Udì uno scricchiolio di passi che si allontanavano. «Fammi uscire!» Mattie si allungò e batté sul soffitto. «Devi farmi uscire!» gridò. I passi non si udivano più. Mattie fissò la grata. Ha detto che tornerà, pensò. Domani tornerà. Quando Dwayne lo pagherà, mi farà uscire. Poi le venne un lampo. Dwayne. La voce nella grata non aveva nominato nemmeno una volta suo marito. 15 Jane Rizzoli guidava da bostoniana qual era, con la mano pronta sul clacson, destreggiandosi abilmente con la sua Subaru tra le macchine parcheggiate in doppia fila mentre si dirigevano verso lo svincolo dell'autostrada. La gravidanza non aveva mitigato la sua aggressività, anzi sembrava più impaziente del solito quando il traffico cospirava per rallentarle a ogni incrocio. «Non lo so, dottoressa», disse tamburellando le dita sul volante mentre attendevano il verde. «Questa cosa non farà che incasinarti le idee. Voglio dire, a che pro vederla?» «Almeno saprò chi è mia madre.» «Sai come si chiama. Sai quale crimine ha commesso. Non basta?» «No, non basta.» Dietro di loro un clacson suonò. Il semaforo era diventato verde. «Coglione», esclamò Rizzoli mentre attraversava rombando l'incrocio. Presero l'autostrada del Massachusetts in direzione ovest, per Framingham. La Subaru di Rizzoli sembrava una mosca in mezzo ai minacciosi convogli di autoarticolati e SUV. Dopo anche un solo fine settimana sulle strade tranquille del Maine, per Maura fu uno shock ritrovarsi su un'autostrada trafficata dove bastava un minimo sbaglio, la disattenzione di un istante, per colmare il divario tra la vita e la morte. La guida veloce e impavida di Jane la rendeva inquieta. Lei, che non correva mai rischi, che insisteva per avere sempre la macchina più sicura con doppi air bag, che non restava mai con meno di un quarto di serbatoio di benzina, non cedeva facilmente il controllo. Non quando camion da due tonnellate le passavano
rombando a pochi centimetri dal finestrino. Solo quando uscirono dall'autostrada e presero la Route 126 che le portò nel centro di Framingham, Maura si rilassò e smise di aggrapparsi al cruscotto. Ma ora si trovava di fronte ad altre paure, che non erano i grossi autoarticolati né tutte quelle masse d'acciaio che le sfrecciavano vicino. Ciò che più temeva era arrivare a un faccia a faccia con se stessa. E detestare ciò che avrebbe visto. «Puoi rinunciare in qualsiasi momento», disse Rizzoli quasi leggendole i pensieri. «Basta che tu me lo chieda e torno indietro. Potremmo andare da Friendly a prenderci una tazza di caffè e magari anche una fetta di torta di mele.» «Le donne incinte non smettono mai di pensare al cibo?» «Non questa donna incinta.» «Non intendo rinunciare.» «D'accordo, d'accordo.» Rizzoli guidò in silenzio per un po'. «Stamattina Ballard è venuto da me.» Maura la guardò, ma lei mantenne lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé. «Perché?» «Voleva spiegarmi perché non ci ha mai detto di tua madre. Senti, so che sei incazzata con lui, dottoressa, ma secondo me voleva davvero proteggerti.» «È quello che ha detto?» «Io gli credo e posso capirlo. Anch'io avevo pensato di non dirti niente.» «Ma non lo hai fatto. Tu mi hai chiamata.» «Però capisco perché non volesse dirtelo.» «Non ha scuse per non avermi informata.» «È una cosa maschile, sai? Forse anche da sbirro. Voleva proteggere la piccola signora...» «E per questo nasconde la verità?» «Dico solo che capisco le sue motivazioni.» «Tu non saresti arrabbiata?» «Certo.» «Allora perché lo difendi?» «Perché è un gran figo?» «Oh, per favore.» «Ti sto solo dicendo che è davvero dispiaciuto, ma credo che abbia cercato di spiegartelo di persona.» «Non ero dell'umore adatto per le scuse.»
«Perciò resterai arrabbiata con lui?» «Perché stiamo discutendo di questo?» «Non lo so. Penso sia per il modo in cui ha parlato di te. Come se lassù fosse accaduto qualcosa tra voi. È così?» Maura sentì che Jane la fissava con i suoi occhi vivi da poliziotta e capì che, se avesse mentito, se ne sarebbe accorta. «In questo momento non ho bisogno di relazioni complicate.» «Che c'è di complicato? Voglio dire, oltre al fatto che sei incazzata con lui?» «Una figlia. Un'ex moglie.» «Gli uomini della sua età hanno fatto tutti le loro esperienze. Hanno tutti un'ex moglie alle spalle.» Maura fissò la strada davanti a sé. «Sai, Jane, non tutte le donne sono fatte per sposarsi.» «Questo è quello che pensavo io e guarda che cosa mi è successo. Prima non potevo sopportare un certo uomo e adesso non smetto un secondo di pensarlo. Non avrei mai creduto di finire così.» «Gabriel è uno di quelli a posto.» «Sì, è un uomo tutto d'un pezzo. Ma il punto è che ha tentato di fare la stessa bravata di Ballard, quell'atteggiamento da macho protettivo, e io mi sono incazzata. Il punto è che non puoi mai sapere quando un uomo è quello giusto.» Maura pensò a Victor, al disastro del suo matrimonio. «No, è vero.» «Ma puoi partire da ciò che è possibile, da ciò che ha una chance di riuscire e dimenticare gli uomini che non ti potranno mai dare niente.» Non lo nominarono, ma Maura sapeva che stavano pensando entrambe a Daniel Brophy. La personificazione dell'impossibile, un miraggio seducente che avrebbe potuto affascinarla per anni, per decenni, fino alla vecchiaia, relegandola a una vita di solitudine. «L'uscita è questa», disse Rizzoli svoltando in Loring Drive. Il cuore di Maura prese a martellarle forte quando vide l'indicazione per il carcere di Framingham. È giunta l'ora del faccia a faccia, di scoprire chi sono veramente. «Puoi sempre rinunciare», affermò Jane. «Ho già preso la mia decisione.» «Sì, volevo solo sapessi che possiamo tornare indietro.» «Tu lo faresti, Jane? Dopo esserti chiesta per una vita chi sia tua madre, che aspetto abbia, ti fermeresti qui? Quando sei tanto vicina ad avere una
risposta a tutte le domande che ti sei sempre fatta?» Rizzoli si voltò a guardarla. Rizzoli, che sembrava essere sempre in subbuglio, sempre nell'occhio di un ciclone, adesso guardava Maura con aria di serena comprensione. «No», rispose, «non lo farei.» Nell'ala amministrativa del Betty Cole Smith Building mostrarono entrambe i documenti e firmarono. Pochi minuti dopo la sovrintendente Barbara Gurley scese a incontrarle al banco d'ingresso. Maura si aspettava una direttrice imponente, invece quella donna aveva l'aria di una bibliotecaria, con i capelli corti più grigi che castani e il corpo esile fasciato da una gonna chiara e da una camicetta di cotone rosa. «Piacere di conoscerla, detective Rizzoli», disse Gurley. Poi si voltò verso Maura. «E lei è la dottoressa Isles?» «Sì. Grazie per avermi ricevuta.» Anche Maura tese la mano per salutarla e sentì che la stretta dell'altra donna era fredda, riservata. Sa chi sono, pensò. Sa perché sono qui. «Andiamo di sopra, nel mio ufficio. Le ho preparato il dossier.» Gurley fece loro strada muovendosi con brusca efficienza. Non compì nessun movimento inutile, non si voltò mai indietro a vedere se la seguissero. Entrarono infine in ascensore. «È una struttura di livello quattro?» chiese Rizzoli. «Sì.» «Non è un livello medio di sicurezza?» domandò Maura. «Stiamo realizzando un'unità sperimentale di livello sei. Questa è l'unica struttura correzionale femminile nello Stato del Massachusetts, perciò per il momento ci siamo solo noi. Dobbiamo occuparci dell'intera gamma di criminali.» «Persino di chi commette omicidi di massa?» chiese Rizzoli. «Se sono donne e vengono condannate per un crimine, arrivano qui. Non abbiamo esattamente gli stessi problemi di sicurezza delle strutture maschili. Inoltre, il nostro approccio è un po' diverso: noi poniamo l'accento sul trattamento e sulla riabilitazione. Molte delle nostre carcerate hanno problemi di salute mentale o di abuso di sostanze. In più, c'è la complicazione che numerose sono madri, quindi dobbiamo anche affrontare tutti i problemi emozionali legati alla separazione dai figli. Quando termina l'orario di visita, i bambini in lacrime non si contano.» «E Amalthea Lank? Nel suo caso ci sono problemi particolari?» «Ce ne sono...» Gurley esitò e tenne lo sguardo fisso davanti a sé, «... al-
cuni.» «Come per esempio?» La porta dell'ascensore si aprì e Gurley uscì. «Questo è il mio ufficio.» Passarono in un'anticamera. Le due segretarie fissarono Maura, poi abbassarono rapide lo sguardo sul monitor del loro computer. Tutti cercano di evitare il mio sguardo, pensò lei. Che cosa temono che veda? Gurley condusse le visitatrici nel suo ufficio e chiuse la porta. «Prego, accomodatevi.» La stanza fu una sorpresa. Maura aveva immaginato rispecchiasse la direttrice, sobria ed efficiente, invece c'erano dappertutto fotografie di volti sorridenti: donne che tenevano bambini, bambini in posa, con la riga tra i capelli e la maglietta stirata. Due neosposi, circondati da una miriade di bambini: quelli di lui, quelli di lei e i nuovi arrivati. «Le mie ragazze», osservò Gurley sorridendo alla parete di fotografie. «Queste sono quelle che sono tornate alla società. Quelle che hanno fatto le scelte giuste e sono andate avanti nella vita. Purtroppo», aggiunse mentre il sorriso le scompariva dal volto, «Amalthea Lank non sarà mai su questa parete.» Si sedette alla scrivania e si concentrò su Maura. «Non so se la sua visita qui sia una buona idea, dottoressa Isles.» «Non ho mai visto la mia madre naturale.» «È questo che mi preoccupa.» Gurley si appoggiò allo schienale e la studiò per qualche istante. «Tutte desideriamo voler bene a nostra madre. Desideriamo che sia una donna speciale perché questo rende noi speciali, come figlie.» «Io non mi aspetto di volerle bene.» «Cosa si aspetta allora?» La domanda indusse Maura a restare in silenzio per un po'. Pensò alla madre immaginaria che si era inventata da bambina, quando sua cugina le aveva crudelmente spiattellato in faccia la verità, ossia che era stata adottata. Quella era la ragione per cui, in una famiglia di biondi dai capelli color stoppa, lei sola era mora. E proprio in base al colore dei capelli si era inventata una madre da fiaba: un'ereditiera italiana costretta a separarsi dalla figlia concepita nello scandalo. O una bellezza spagnola abbandonata dall'innamorato, morta tragicamente per le pene d'amore. Sempre tuttavia, come aveva detto Gurley, aveva immaginato una donna speciale, perfino straordinaria. Adesso stava per conoscere non la persona immaginaria, ma la donna vera, e la prospettiva le lasciava la gola secca. «Perché ritiene che non dovrebbe vederla?» chiese Rizzoli a Gurley.
«Le sto solo chiedendo di affrontare l'incontro con cautela.» «Perché? La detenuta è pericolosa?» «Non nel senso che possa scattare in piedi e aggredire fisicamente qualcuno. Anzi, apparentemente è piuttosto docile.» «E in realtà?» «Pensi a quello che ha fatto, detective. Quanta rabbia ci vuole per usare un piede di porco con tanta forza da fracassare il cranio di una donna? Adesso risponda lei alla domanda: com'è Amalthea in realtà?» Gurley guardò Maura. «Deve affrontare quest'esperienza con gli occhi bene aperti, perfettamente consapevole del tipo di persona con cui ha a che fare.» «Possiamo anche avere lo stesso DNA», disse Maura. «Ma non provo alcun attaccamento emotivo per lei.» «Quindi è soltanto curiosa.» «Devo mettere la parola fine. Devo andare avanti.» «Questo è probabilmente quello che pensava anche sua sorella. Sa che è venuta a trovare Amalthea?» «Sì, l'ho saputo.» «Non credo che l'incontro le abbia dato serenità d'animo. L'ha sconvolta e basta.» «Perché?» Gurley le avvicinò il dossier sul tavolo. «Questa è la cartella psichiatrica di Amalthea. Tutto quello che ha bisogno di sapere su di lei è qui. Perché non legge questo? Lo legge, se ne va e si dimentica di lei.» Maura non toccò il dossier. Fu Rizzoli a prenderlo e a chiedere: «È sottoposta a trattamento psichiatrico?» «Sì», rispose Gurley. «Perché?» «Perché Amalthea è schizofrenica.» Maura fissò la sovrintendente. «Allora perché è stata condannata per omicidio? Se è schizofrenica, non dovrebbe trovarsi in carcere, ma in un ospedale.» «Come numerose altre detenute. Lo dica ai tribunali, dottoressa Isles, perché io ci ho già provato. Il sistema stesso è folle. Anche se sei gravemente psicotico quando commetti un omicidio, l'infermità mentale addotta come difesa di rado fa breccia nella giuria.» «È sicura che sia pazza?» chiese con gentilezza Rizzoli. Maura si voltò verso di lei e vide che fissava la cartella psichiatrica della detenuta. «Ci sono dubbi sulla diagnosi?»
«Conosco la psichiatra che la segue, la dottoressa Joyce O'Donnell. Di solito non perde il suo tempo a occuparsi di comuni schizofrenici.» Fissando Gurley, Rizzoli aggiunse: «Perché è stata coinvolta O'Donnell?» «Mi sembra che la cosa la turbi», commentò Gurley. «Se conoscesse la dottoressa O'Donnell, avrebbe la stessa reazione.» Rizzoli chiuse bruscamente la cartella e inspirò. «C'è qualcos'altro che la dottoressa Isles deve sapere prima di vedere la prigioniera?» Gurley osservò Maura. «Non sono riuscita a farle cambiare idea, vero?» «No. Sono pronta a incontrarla.» «Allora vi condurrò all'accettazione visitatori.» 16 Posso ancora cambiare idea. Quel pensiero continuò a ronzarle in testa mentre si sottoponeva al controllo visitatori, mentre si toglieva l'orologio e lo riponeva, insieme alla borsa, in un armadietto. Non poteva portare gioielli né portafoglio nella sala visite e senza la borsa, privata di qualsiasi prova della sua identità, di tutte le piccole carte di plastica che dicevano al mondo chi fosse, Maura si sentiva nuda. Chiuse l'armadietto e il rumore metallico che questo emise le ricordò dolorosamente il mondo in cui stava per entrare: un mondo dove le porte si richiudevano sbattendo, dove le vite erano chiuse in scatola. Maura sperava che l'incontro si sarebbe svolto in privato, ma quando la guardia la fece entrare nella sala visite, capì che avere un po' di privacy sarebbe stato impossibile. Le visite pomeridiane erano iniziate da un'ora e la sala era rumorosa per il vociare dei bambini e il chiasso delle famiglie riunite. Si udiva anche il tintinnio delle monete nel distributore automatico, che sputava sandwich impacchettati, patatine e barrette. «Amalthea sta scendendo», disse la guardia a Maura. «Perché intanto non prende posto?» Maura si diresse a un tavolo libero e si sedette. Il ripiano di plastica era appiccicoso di succo di frutta. Maura tenne le mani in grembo e attese col cuore che le batteva all'impazzata e la gola secca. La classica reazione del combatti o fuggi, pensò. Perché diavolo sono così nervosa? Si alzò e andò a un lavandino. Riempì d'acqua un bicchiere di carta e lo bevve d'un fiato, ma aveva ancora la gola secca. Quel genere di sete non poteva essere placata dalla pura e semplice acqua. La sete, il polso accelerato, le mani sudate facevano tutti parte dello stesso riflesso: il corpo si
stava preparando a un pericolo imminente. Rilassati, rilassati. La incontrerai, le dirai qualche parola, soddisferai la tua curiosità e te ne andrai. Quanto difficile potrà mai essere? Schiacciò il bicchiere di carta, si girò e restò impietrita. Una porta si era appena aperta e una donna era entrata nella sala: spalle dritte, mascella sollevata, un'aria di regale sicurezza sul volto. Posò il suo sguardo su Maura e per un istante la fissò. Ma proprio quando questa si era detta, è lei, la donna si girò, sorrise e allargò le braccia per stringere un bambino che correva da lei. Maura si bloccò, confusa, incerta se sedersi o restare in piedi. Poi la porta si aprì di nuovo e la guardia con cui aveva parlato riapparve, conducendo una donna per il braccio. Una donna che non camminava, ma strascicava i piedi, con le spalle curve e la testa china, come se scrutasse ossessivamente il pavimento in cerca di qualcosa che aveva perso. La secondina la portò al tavolo di Maura, scostò la sedia e la fece sedere. «Ecco, Amalthea. Questa signora è venuta a trovarti. Perché non fai due chiacchiere con lei, eh?» La testa di Amalthea rimase china, il suo sguardo fisso sul ripiano del tavolo. Varie ciocche arruffate le ricadevano sul volto formando una coltre unta di capelli. Pur essendo ormai molto brizzolata, si vedeva che un tempo era stata mora. Come me, pensò Maura. Come Anna. La guardia scrollò le spalle e la guardò. «Be', vi lascio sole, d'accordo? Quando ha finito, mi faccia un cenno e verrò a prenderla.» Amalthea non sollevò nemmeno lo sguardo quando la secondina si allontanò. Né sembrò notare la visitatrice che le si era appena seduta di fronte. Restò immobile, col volto nascosto dai capelli sporchi. La camicia della divisa carceraria le cadeva sulle spalle, come se il suo corpo si stesse rattrappendo sotto i vestiti. La mano posata sul tavolo si muoveva in avanti e all'indietro, scossa da un tremito incessante. «Ciao, Amalthea», disse Maura. «Sai chi sono?» Nessuna risposta. «Mi chiamo Maura Isles. Io...» Maura deglutì. «Ti cerco da tanto tempo.» Da tutta la vita. La testa della donna si mosse lateralmente di scatto, non in risposta alle parole di Maura, soltanto per un tic involontario, un impulso impazzito trasmesso da nervi e muscoli. «Amalthea, sono tua figlia.» Maura la guardò in attesa di vedere una reazione. Desiderando quasi di
vedere una reazione. In quel momento il resto nella stanza sembrò svanire. Non udì più la cacofonia di voci dei bambini, i quarti di dollaro che cadevano nel distributore automatico o lo strisciare delle sedie sul linoleum. Tutto ciò che vedeva era quella donna stanca, devastata. «Mi puoi guardare? Per favore, guardami.» Finalmente la testa si sollevò a piccoli scatti, come quella di una bambola meccanica con gli ingranaggi arrugginiti. I capelli spettinati si divisero e lo sguardo si concentrò su Maura. Era uno sguardo impenetrabile. Maura non vi colse nulla, né consapevolezza né un'anima. Le labbra di Amalthea si schiusero, ma non emisero suono. Era solo un'altra contrazione muscolare involontaria. Un bambino piccolo le passò vicino con andatura incerta, lasciandosi dietro un odore di pannolino sporco. Al tavolo accanto una bionda slavata con la divisa carceraria di jeans sedeva con la testa china e singhiozzava piano mentre l'uomo che era andato a trovarla la guardava inespressivo. In quel momento si stavano svolgendo una decina di drammi familiari come quello di Maura: lei non era che l'ennesima comparsa incapace di vedere oltre il suo dolore. «Mia sorella Anna è venuta a trovarti», disse Maura. «Era identica a me. Te la ricordi?» Adesso Amalthea muoveva la mandibola come se masticasse un po' di cibo. Un pasto immaginario che solo lei poteva assaporare. No, ovviamente non se ne ricorda, pensò Maura fissando scoraggiata l'espressione assente di Amalthea. Non si rende conto di me, di chi io sia o della ragione per cui sono qui. Sto gridando al vento e solo la mia voce mi risponde. Decisa a suscitare una reazione, qualsiasi tipo di reazione, Maura disse con tono quasi volutamente crudele: «Anna è morta. L'altra tua figlia è morta. Lo sapevi?» Nessuna risposta. Perché diavolo continuo a insistere? Lì dentro non c'è nessuno. Non c'è luce in quegli occhi. «Bene», affermò Maura. «Tornerò un'altra volta. Forse allora mi parlerai.» Con un sospiro si alzò e si guardò attorno in cerca della guardia. La individuò dall'altra parte della stanza. Aveva appena sollevato la mano quando udì la voce: un sussurro tanto flebile che pensò d'esserselo immaginato: «Va' via». Sorpresa, Maura abbassò lo sguardo su Amalthea, seduta nella stessa i-
dentica posizione con le labbra che si contraevano e lo sguardo vitreo. Lentamente Maura si risedette. «Che cos'hai detto?» Lo sguardo di Amalthea si sollevò e incrociò quello di lei e, per un istante soltanto, Maura vi colse un senso di consapevolezza, un bagliore d'intelligenza. «Va' via, prima che lui ti veda.» Maura la fissò. Sentì un brivido lungo la schiena che le fece drizzare tutti i peli sulla nuca. Al tavolo accanto la bionda slavata piangeva ancora. Il suo visitatore si alzò e disse: «Mi spiace, ma devi accettarlo. È così». Poi se ne andò, tornando alla sua vita, al mondo esterno dove le donne indossavano camicette graziose, non casacche di jeans azzurro. «Chi?» chiese dolcemente Maura. Amalthea non rispose. «Chi mi può vedere, Amalthea?» la incalzò. «Che cosa vuoi dire?» Ma lo sguardo della donna si era di nuovo appannato. Il breve lampo di consapevolezza era svanito e Maura stava di nuovo fissando il vuoto. «Allora, la visita è finita?» chiese allegra la secondina. «È sempre così?» domandò Maura guardando le labbra di Amalthea formare parole prive di suono. «Per la maggior parte del tempo. Ha giornate buone e giornate cattive.» «Non mi ha quasi parlato.» «Lo farà se riuscirà a conoscerla meglio. Se ne sta quasi sempre per conto suo, ma a volte esce dal suo mondo: scrive lettere, usa persino il telefono.» «A chi telefona?» «Non lo so. Alla sua strizzacervelli, credo.» «La dottoressa O'Donnell?» «La signora bionda. È venuta alcune volte, perciò Amalthea si sente abbastanza a suo agio con lei. Non è vero, tesoro?» Prendendo la detenuta per un braccio, disse: «Vieni, oplà, torniamo in cella». Obbediente, Amalthea si alzò e lasciò che la guardia l'allontanasse dal tavolo. Fece alcuni passi, poi si fermò. «Amalthea, andiamo.» Ma la detenuta non si muoveva. Rimase lì, come se i muscoli le si fossero improvvisamente solidificati. «Tesoro, non posso aspettare tutto il giorno. Andiamo.» Lentamente Amalthea si girò. Aveva ancora lo sguardo assente e le parole che disse furono pronunciate da una voce che non era del tutto umana, ma meccanica. La voce di un'entità estranea trasmessa da una macchina.
Amalthea guardò Maura. «Adesso morirai anche tu», disse. Poi si voltò e si allontanò strascicando i piedi per tornare in cella. «Ha una discinesia tardiva», affermò Maura. «Per questo la sovrintendente Gurley ha cercato di convincermi a non incontrarla. Non voleva che vedessi le condizioni di Amalthea. Non voleva che scoprissi che cosa le hanno fatto.» «Che cosa le hanno fatto esattamente?» chiese Rizzoli. Era di nuovo al volante e stava guidando impavida tra i camion che facevano vibrare il suolo stradale e scuotevano la piccola Subaru con gli spostamenti d'aria. «Intendi dire che l'hanno trasformata in una specie di zombi?» «Hai visto la cartella psichiatrica. I suoi primi medici l'hanno trattata con fenotiazine, una classe di antipsicotici. Nelle donne anziane quei farmaci possono avere effetti collaterali devastanti. Uno di questi si chiama discinesia tardiva: è una serie di movimenti involontari della bocca e della faccia. Il paziente non riesce a smettere di masticare, di gonfiare le guance o di fare la lingua. Non riesce a controllare nessuno di questi movimenti. Pensa a quello che significa: tutti ti guardano mentre fai smorfie. Diventi un fenomeno da baraccone.» «Come blocchi i movimenti?» «Non puoi farlo. Avrebbero dovuto interrompere subito i farmaci, all'insorgenza dei primi sintomi, ma hanno aspettato troppo. Poi il caso è passato alla dottoressa O'Donnell. È stata lei a interrompere la somministrazione dei farmaci, a capire quello che stava succedendo.» Maura emise un sospiro rabbioso. «La discinesia tardiva è probabilmente permanente.» Guardò fuori del finestrino il traffico che le stringeva sempre più nella sua morsa. Stavolta non provava ansia nel vedere quelle tonnellate di acciaio che le sfrecciavano accanto. Pensava invece ad Amalthea Lank, alle sue labbra che si muovevano senza sosta come se sussurrassero segreti. «Vuoi dire che in primo luogo non aveva bisogno di quei farmaci?» «No. Dico che avrebbero dovuto interromperli prima.» «Quindi è pazza? O non lo è?» «Quella è la diagnosi iniziale. Schizofrenia.» «E qual è la tua?» Maura pensò allo sguardo vitreo di Amalthea, alle sue parole criptiche. Parole che non avevano giustificazione se non in un delirio paranoide. «Devo ammetterlo», disse, e con un sospiro si appoggiò allo schienale. «In lei non mi riconosco, Jane. Non vedo nessuna parte di me in quella don-
na.» «Be', è un sollievo, considerando la situazione.» «Ma c'è lo stesso, il legame tra noi. Non puoi rinnegare il DNA.» «Conosci il vecchio detto: il sangue non è acqua? Tutte stronzate, dottoressa. Tu non hai niente in comune con quella donna. Lei ti ha avuta e quando sei nata ti ha data via. Questo è quanto. Relazione finita.» «Lei conosce molte risposte. Chi è mio padre, chi sono io.» Rizzoli le lanciò un'occhiata penetrante, poi si voltò a guardare la strada. «Ti voglio dare un consiglio. So che ti chiederai da dove venga quello che ti sto per dire, ma, credimi, non salta fuori dal nulla. Quella donna, Amalthea Lank, è una persona da cui devi stare alla larga. Non incontrarla, non le parlare. Non pensarla nemmeno. È pericolosa.» «Non è altro che una schizofrenica irrecuperabile.» «Non ne sono tanto certa.» Maura la guardò. «Cosa sai di lei che io non so?» Per un istante Jane guidò senza parlare. Non era il traffico a impensierirla: sembrava soppesare la risposta, cercare il modo migliore per formularla. «Ti ricordi di Warren Hoyt?» chiese infine. Nonostante avesse pronunciato quel nome senza palese coinvolgimento, la mascella le si era contratta e le mani avevano stretto con forza il volante. Warren Hoyt, pensò Maura. Il chirurgo. Così lo aveva soprannominato la polizia. Si era guadagnato quel nomignolo a causa delle atrocità che aveva commesso sulle sue vittime. Usava nastro adesivo e bisturi come strumenti, e come prede sceglieva donne addormentate nel loro letto, ignare dell'intruso nascosto nel buio, intento a pregustare il piacere del primo taglio. Jane Rizzoli era stata il suo bersaglio finale, la sua avversaria in un gioco di abilità mentale che non si sarebbe mai aspettato di perdere. Invece era stata proprio Rizzoli a stenderlo al primo colpo e il proiettile gli aveva leso il midollo spinale. Ormai tetraplegico, con gli arti paralizzati, inutilizzabili, Hoyt aveva visto il suo universo ridursi a una stanza d'ospedale dove i pochi piaceri che gli restavano erano quelli della mente. Una mente rimasta sveglia e pericolosa come non mai. «Certo che me lo ricordo», rispose Maura. Aveva visto il risultato del suo lavoro, la terribile mutilazione che il bisturi aveva inferto al corpo di una delle sue vittime. «Lo tengo d'occhio», proseguì Rizzoli. «Sai, solo per assicurarmi che il mostro sia ancora in gabbia. È ancora lì, su questo non ci piove, nell'unità
midollolesi. E ogni mercoledì pomeriggio, da ormai otto mesi, riceve una visita. La dottoressa O'Donnell.» Maura si accigliò. «Perché?» «Lei sostiene che rientri nelle sue ricerche sul comportamento violento. Secondo la sua teoria gli assassini non sono responsabili delle loro azioni. Da bambini hanno preso una botta in testa che li ha resi inclini alla violenza. Ovviamente, gli avvocati della difesa ci vanno a nozze. Probabilmente ti direbbe che Jeffrey Dahmer non era capito, che John Wayne Gacy ha preso troppi colpi sulla zucca. Difenderebbe chiunque.» «La gente fa quello per cui è pagata.» «Non credo lei lo faccia per soldi.» «Allora per che cosa?» «Per avere la possibilità di avvicinare persone che uccidono e di instaurare con loro un rapporto personale. Dice che è il suo campo di studio, che lo fa per la scienza. Sì, be', anche Josef Mengele lo faceva per la scienza. Quella è solo la scusa, un modo per rendersi rispettabile.» «Che cosa fa O'Donnell?» «Ama il brivido. Si eccita ad ascoltare le fantasie degli assassini, adora entrare nella loro mente, analizzarla, vedere quello che loro vedono. Sapere che cosa si prova a essere un mostro.» «La dipingi come se fosse una di loro.» «Forse le piacerebbe esserlo. Ho visto le lettere che ha scritto a Hoyt quando era in prigione, esortandolo a raccontarle tutti i dettagli degli omicidi. Oh, sì, lei adora i dettagli.» «Molti provano curiosità per le cose macabre.» «Lei va oltre la curiosità. Vuole sapere che cosa si prova a tagliare la pelle e a vedere la vittima che sanguina. A godere di quel potere totale. Brama i dettagli come un vampiro il sangue.» Rizzoli tacque, poi scoppiò in una risata sorpresa. «Sai, ho appena capito una cosa. Questo è esattamente O'Donnell: un vampiro. Lei e Hoyt si nutrono a vicenda. Lui le racconta le sue fantasie e lei gli dice che è lecito trarne piacere. Che è lecito eccitarsi al pensiero di tagliare la gola a qualcuno.» «E adesso va a trovare mia madre.» «Sì.» Rizzoli la guardò. «Mi chiedo quali fantasie condividano.» Maura pensò ai crimini per cui Amalthea Lank era stata condannata e si chiese che cosa le fosse passato per la mente quando aveva raccolto le due sorelle sul bordo della strada. Aveva provato eccitazione, un senso inebriante di potere?
«Il solo fatto che O'Donnell trovi Amalthea degna d'essere andata a trovare ti dovrebbe dire qualcosa», affermò Jane. «Che cosa?» «O'Donnell non perde tempo con i comuni assassini. Non si interessa di chi spara a un commesso di un 7-Eleven durante una rapina o del marito che si incazza con la moglie e la butta giù dalle scale. No, lei passa il tempo con gli squilibrati che uccidono perché traggono piacere nel farlo. Con quelli che rigirano il coltello ancora una volta perché amano sentirlo sfregare sull'osso. Passa il tempo con quelli speciali. Con i mostri.» Mia madre, pensò Maura. Anche lei è un mostro? 17 La casa della dottoressa Joyce O'Donnell a Cambridge era un grande edificio coloniale situato a Brattle Street, in un quartiere di abitazioni eleganti. Il recinto di ferro battuto cingeva un giardino anteriore con il prato perfettamente curato e aiole pacciamate con frammenti di corteccia in cui i cespugli bassi di rose fiorivano obbedienti. Era un giardino disciplinato in cui il disordine non era ammesso, e mentre risaliva il vialetto lastricato di granito fino alla porta d'ingresso, Maura si era già fatta un quadro della proprietaria: molto curata, ben vestita, organizzata come il giardino. La donna che venne ad aprire era proprio come se l'era immaginata. La dottoressa O'Donnell aveva i capelli biondo cenere e la pelle chiara, perfetta. La camicetta oxford azzurra, infilata in un paio di pantaloni larghi di colore bianco, metteva in risalto la sua vita sottile. O'Donnell guardò Maura con scarsa cordialità: anzi, ciò che questa vide nei suoi occhi fu uno sguardo di freddo interesse. Lo sguardo dello scienziato che osserva un nuovo esemplare. «Dottoressa O'Donnell? Sono Maura Isles.» Lei rispose con una brusca stretta di mano. «Entri.» Maura entrò in una casa gelida ed elegante come la proprietaria. L'unica nota di calore era rappresentata dai tappeti orientali che coprivano i pavimenti scuri di teak. O'Donnell fece strada conducendola dall'atrio in un salotto formale, dove Maura si accomodò con un certo disagio su un divano di seta bianca. O'Donnell scelse la poltrona che le stava di fronte. Sul tavolino di palissandro in mezzo a loro c'era una pila di dossier e un registratore digitale. Malgrado fosse spento, la presenza inquietante dell'apparecchio fu un ulteriore elemento che aumentò il disagio di Maura.
«Grazie per avermi ricevuta», disse questa. «Ero curiosa. Mi chiedevo come fosse la figlia di Amalthea. Io la conosco, dottoressa Isles, ma solo da quello che leggo sui giornali», disse appoggiandosi allo schienale della poltrona, perfettamente a suo agio. Il vantaggio di essere a casa propria: era lei quella che elargiva favori, Maura era solo una postulante. «Non so niente della sua sfera personale, ma mi piacerebbe.» «Perché?» «Conosco bene Amalthea e non posso fare a meno di chiedermi se...» «Tale madre, tale figlia?» O'Donnell sollevò con eleganza un sopracciglio. «Lo ha detto lei, non io.» «Questa è la ragione della sua curiosità, vero?» «E qual è la sua? Perché è qui?» Lo sguardo di Maura si spostò su un dipinto appeso sopra il caminetto: un olio brutalmente moderno a strisce rosse e nere. «Voglio sapere chi sia davvero quella donna.» «Lei sa chi è, solo che non ci vuole credere. Nemmeno sua sorella ci credeva.» Maura si accigliò. «Ha incontrato Anna?» «A dire il vero no, non l'ho mai fatto, ma circa quattro mesi fa ho ricevuto la telefonata di una donna che si è presentata come la figlia di Amalthea. Ero in partenza per un processo di due settimane in Oklahoma, perciò non ho potuto incontrarla. Abbiamo soltanto parlato al telefono. Era stata a trovare la madre al carcere di Framingham, di conseguenza sapeva che ero la psichiatra di Amalthea. Voleva sapere qualcosa di più su di lei, sulla sua infanzia, sulla sua famiglia.» «E lei conosce tutte queste cose?» «Alcune le ho ricavate dai documenti scolastici, altre da quello che è riuscita a dirmi quando era lucida. So che è nata a Lowell. Quando aveva circa nove anni, sua madre è morta e lei è andata a vivere con lo zio e un cugino nel Maine.» Maura sollevò lo sguardo. «Nel Maine?» «Sì. Ha preso il diploma di scuola media superiore in una cittadina chiamata Fox Harbor.» Adesso capisco perché Anna avesse scelto quella cittadina. Io ho seguito le orme di Anna e Anna ha seguito quelle di nostra madre. «Dopo le superiori le tracce cartacee si perdono», affermò O'Donnell.
«Non sappiamo se si sia trasferita altrove né come si sia mantenuta. È in questa fase che probabilmente è insorta la malattia: di solito si manifesta nella prima fase dell'età adulta. Amalthea si sarà barcamenata per un po' per finire come la vede oggi: delirante e irrecuperabile.» O'Donnell guardò Maura. «È un quadro piuttosto brutto. Sua sorella aveva molta difficoltà ad accettare che fosse davvero sua madre.» «Io la guardo e non vedo niente di familiare. Niente di me stessa.» «Ma io noto la somiglianza. Noto lo stesso colore di capelli, la stessa mascella.» «Non siamo affatto simili.» «Sul serio lei non la nota?» O'Donnell si protese e fissò intensamente Maura. «Mi dica una cosa, dottoressa Isles. Perché ha scelto patologia?» Perplessa per la domanda, Maura si limitò a fissarla. «Avrebbe potuto scegliere qualsiasi ambito della medicina: ostetricia, pediatria. Avrebbe potuto lavorare con pazienti vivi, invece ha scelto patologia e per la precisione patologia forense.» «Qual è il senso della sua domanda?» «Il senso è che lei è, in certo qual modo, attratta dai morti.» «Questo è assurdo.» «Allora perché ha scelto quel campo?» «Perché amo le risposte definitive. Non mi piace tirare a indovinare. Amo vedere la diagnosi al microscopio.» «Non le piace l'incertezza.» «A qualcuno forse sì?» «Allora avrebbe potuto scegliere matematica o ingegneria. Ci sono tanti altri campi che riguardano la precisione, le risposte definitive. Lei invece è all'ufficio del coroner, vive in comunione con i cadaveri.» O'Donnell tacque, poi chiese con tono pacato: «Prova mai piacere nel fare il suo lavoro?» Maura la guardò direttamente negli occhi. «No.» «Ha scelto una professione che non le piace?» «Ho scelto la sfida. In questo c'è soddisfazione, anche se il compito in sé non è piacevole.» «Non capisce dove voglio arrivare? Lei mi dice di non vedere niente di familiare in Amalthea Lank. La guarda e probabilmente vede una persona orribile, o quanto meno una donna che ha commesso atti orribili. Ci sono persone che la guardano, dottoressa Isles, e che forse pensano la stessa cosa.»
«Non ci può assolutamente paragonare.» «Sa per che cosa è stata condannata sua madre?» «Sì, me lo hanno detto.» «Ma ha visto i verbali autoptici?» «Non ancora.» «Io sì. Durante il processo la difesa mi ha chiesto una perizia sullo stato mentale di sua madre. Ho visto le foto, riesaminato le prove. Sa che le vittime erano due sorelle? Due giovani donne in panne sul ciglio della strada.» «Sì.» «E che la minore era incinta di nove mesi?» «So tutte queste cose.» «Allora sa che sua madre ha dato loro un passaggio. Le ha portate a una cinquantina di chilometri di distanza, in un capanno in mezzo al bosco, e ha fracassato loro il cranio con una leva per pneumatici. Poi ha fatto qualcosa di sorprendentemente - stranamente - logico: è andata in macchina a una stazione di servizio e ha riempito una tanica di benzina. È tornata al capanno e lo ha incendiato, con i due corpi dentro.» O'DonnelI drizzò la testa. «Non lo trova interessante?» «Lo trovo ripugnante.» «Sì, ma a un certo livello forse prova qualcos'altro, qualcosa che non vuole nemmeno ammettere: di essere affascinata da quegli atti, non solo dal punto di vista dell'enigma intellettuale. C'è qualcosa che l'attrae, che la eccita persino.» «Nello stesso modo in cui evidentemente eccita lei?» O'DonnelI non si offese per la replica, anzi sorrise, incassando la frecciata di Maura. «Il mio interesse è professionale. Il mio compito è studiare gli omicidi. Mi chiedevo solo quali siano le ragioni del suo interesse per Amalthea Lank.» «Due giorni fa non sapevo chi fosse mia madre. Adesso sto cercando di affrontare la realtà. Di capire...» «Chi è?» O'DonnelI chiese con gentilezza. Maura incrociò il suo sguardo. «Io so chi sono.» «Ne è certa?» O'DonnelI si protese ulteriormente. «Quando è in sala autopsie, intenta a esaminare le ferite di una vittima, a descrivere le coltellate che l'assassino le ha inferto, non sente mai un vago brivido di eccitazione?» «Che cosa le fa pensare che lo senta?»
«È la figlia di Amalthea Lank.» «Io sono un accidente biologico. Lei non mi ha cresciuta.» O'DonnelI si appoggiò allo schienale e la studiò con sguardo freddo, indagatore. «Lei sa che la violenza ha una componente genetica? Che alcune famiglie la trasmettono col DNA?» Maura si ricordò di quello che Rizzoli le aveva detto a proposito di O'DonnelI: Lei va oltre la curiosità. Vuole sapere che cosa si prova a tagliare la pelle e a vedere la vittima che sanguina. A godere di quel potere totale. Brama i dettagli come un vampiro il sangue. Ora nei suoi occhi Maura vedeva bramosia. Questa donna trae piacere dalla comunanza con i mostri, pensò Maura. E spera di averne trovato un altro. «Sono venuta qui per parlare di Amalthea», rispose Maura. «Non è di questo che stiamo discutendo?» «Da quel che risulta al carcere di Framingham, lei è andata a trovarla almeno una decina di volte. Perché tanto spesso? Di certo non a suo beneficio.» «In qualità di ricercatrice, mi interesso ad Amalthea. Voglio capire che cosa spinga le persone a uccidere. Perché ne traggano piacere.» «Intende dire che Amalthea lo avrebbe fatto per piacere?» «Be', lei sa perché ha ucciso?» «È chiaramente psicotica.» «Gran parte degli psicotici non uccide.» «Ma lei è d'accordo sul fatto che lo sia?» O'Donnell esitò. «Parrebbe esserlo.» «Non ne sembra molto sicura. Nemmeno dopo le numerose visite che le ha fatto?» «Sua madre ha qualcosa di più di una psicosi. E nel suo crimine c'è qualcosa di più di quello che si vede.» «Che intende?» «Lei ha detto che sa già quello che ha fatto o almeno quello che l'accusa sostiene abbia fatto.» «Le prove erano sufficientemente convincenti da condannarla.» «Oh, di prove, ce n'erano molte. La targa ripresa dalla telecamera della stazione di servizio. Il sangue delle donne sulla leva per pneumatici. I loro portafogli nel bagagliaio. Ma probabilmente lei non sa di questo», affermò O'Donnell prendendo un dossier dal tavolino e porgendolo a Maura. «È del laboratorio della Scientifica della Virginia, dove Amalthea è stata arrestata.»
Maura aprì la cartellina e vide la foto di una berlina bianca con una targa del Massachusetts. «Questa è l'auto che guidava Amalthea», spiegò O'Donnell. Maura passò al foglio seguente: raccoglieva tutte le impronte digitali rilevate. «Dentro la vettura sono state trovate numerose impronte», proseguì O'Donnell. «Entrambe le vittime, Nikki e Theresa Wells, hanno lasciato le loro sulle fibbie delle cinture posteriori: se ne deduce che si siano sedute dietro e si siano allacciate le cinture. C'erano ovviamente le impronte di Amalthea, sul volante e sul cambio.» La psichiatra tacque per un istante. «E poi c'era una quarta serie di impronte.» «Una quarta serie?» «È scritto lì, nel verbale. Sono state trovate nel vano del cruscotto, su entrambe le portiere e sul volante. Quelle impronte non sono mai state identificate.» «Non significa niente. Forse un meccanico le ha riparato l'auto e ha lasciato le impronte.» «È possibile. Adesso guardi il rapporto su fibre e capelli.» Maura girò pagina e vide che sul sedile posteriore erano stati trovati dei capelli biondi, compatibili con quelli di Theresa e Nikki Wells. «Non ci vedo niente di strano. Sappiamo che le vittime sono salite in macchina.» «Ma noterà che nessun capello è stato trovato sul sedile anteriore. Ci pensi. Due donne in panne sul bordo della strada. Una persona si ferma e offre loro un passaggio. Che cosa fanno le sorelle? Salgono tutte e due sul sedile posteriore. Sembra un gesto un po' scortese, non crede? Lasciare la guidatrice davanti, tutta sola. A meno che...» Maura sollevò lo sguardo e la fissò. «A meno che qualcun altro non fosse già seduto sul sedile anteriore.» O'Donnell si appoggiò allo schienale con un sorriso compiaciuto sulle labbra. «Questo è il mistero affascinante. Un mistero che in tribunale non è stato mai risolto, oltre che la ragione per cui continuo a tornare da sua madre. Voglio scoprire quello che la polizia non si è mai curata di appurare: chi sedeva sul sedile anteriore con Amalthea?» «Amalthea non gliel'ha detto?» «Non so il nome dell'uomo.» Maura la fissò. «Dell'uomo?» «Sul sesso faccio solo un'ipotesi, ma credo fermamente che qualcuno si trovasse in macchina con lei quando Amalthea ha visto le due donne per
strada. Qualcuno l'ha aiutata a soggiogarle. Qualcuno abbastanza forte da darle una mano ad ammucchiare i corpi nel capanno e ad incendiarli.» O'Donnell tacque per pochi istanti, poi aggiunse: «Lui è l'oggetto del mio interesse, dottoressa Isles. Lui è quello che voglio trovare». «Tutte le visite ad Amalthea... lei non è mai stata oggetto del suo interesse.» «La malattia mentale non mi interessa. Il male, sì.» Maura la fissò pensando: certo, provi piacere ad avvicinarti al male sino a sfiorarlo, ad annusarlo. Amalthea non ti attrae: lei è soltanto il tramite, quella che ti può portare al vero oggetto del tuo desiderio. «Un complice», commentò Maura. «Non sappiamo chi sia o che aspetto abbia, ma sua madre lo conosce.» «Allora perché non fa il suo nome?» «Questo è il punto: perché lo nasconde? Ha paura di lui? Lo sta proteggendo?» «Non sa neanche se questa persona esista. Tutto quello che ha sono alcune impronte non identificate. E una teoria.» «È più di una teoria. La Bestia è reale.» O'Donnell si protese e con tono calmo, quasi confidenziale, disse: «Questo è il nome che ha usato quando è stata arrestata in Virginia, durante l'interrogatorio della polizia. Ha dichiarato, cito: 'La Bestia mi ha detto di farlo'. Traduco: lui mi ha detto di uccidere quelle donne». Nei silenzio che seguì Maura udì il battito del suo cuore, simile al rullo sempre più veloce di un tamburo. Deglutì e rispose: «Stiamo parlando di una schizofrenica, di una donna che probabilmente ha allucinazioni uditive». «O che descrive una persona reale.» «La Bestia?» Maura riuscì a ridere. «Un demone personale, forse. Un mostro dei suoi incubi.» «Che lascia impronte.» «Il particolare non sembra aver colpito la giuria.» «Hanno ignorato quella prova. Ero presente al processo, ho visto il pubblico ministero costruire l'accusa contro una donna così psicotica che persino lui capiva che non poteva essere responsabile delle sue azioni. Ma era un bersaglio facile, una condanna facile.» «Pur essendo palesemente disturbata.» «Oh, nessuno ha dubitato che fosse psicotica e udisse voci. Quelle voci possono anche urlarti di fracassare la testa di una donna e di bruciarne il
corpo, ma la giuria presume sempre che tu distingua il bene dal male. Amalthea era una vittoria certa per l'accusa, quindi questo hanno fatto: hanno sbagliato. Se lo sono lasciati sfuggire.» O'Donnell si appoggiò alla poltrona. «E sua madre è l'unica che sa chi sia.» Erano quasi le sei quando Maura si fermò dietro l'edificio del coroner. Due auto erano ancora parcheggiate nello spiazzo: la Honda blu di Yoshima e la Saab nera del dottor Costas. Ci deve essere ancora un'autopsia, pensò Maura con un vago senso di colpa. Quel giorno sarebbe dovuta essere reperibile, ma aveva chiesto ai colleghi di sostituirla. Aprì la porta posteriore ed entrò nell'edificio. Si diresse subito al suo studio senza incontrare nessuno nel tragitto. Sul tavolo trovò quello che era passata a prendere. Due cartelline con un post-it giallo appiccicato sopra, su cui Louise aveva scritto: I file che ha chiesto. Maura si sedette al tavolo, inspirò profondamente e aprì il primo dossier. Era il file di Theresa Wells, la sorella maggiore. La pagina di copertina riportava il nome della vittima, il numero del caso e la data dell'autopsia. Non riconobbe il nome del patologo, il dottor James Hobart, ma faceva parte dell'ufficio solo da due anni e quel verbale autoptico risaliva a cinque anni prima. Passò alla trascrizione della dettatura di Hobart. La deceduta è una femmina di età indeterminata in buono stato di nutrizione, di un metro e sessantacinque di altezza e di cinquantadue chili di peso. L'identità definitiva è stata stabilita mediante radiografie dentali; le impronte non sono rilevabili. Si osservano lesioni estese da bruciatura al tronco e alle estremità, con carbonizzazione della cute e aree esposte di muscolatura. La faccia e la parte anteriore del torso sono in certo qual modo integre. Sono presenti resti di abiti, tra cui un paio di blue jeans Gap taglia trentotto con cerniera lampo chiusa e automatici ancora chiusi, una felpa bianca carbonizzata e un reggiseno, anch'esso ancora agganciato. L'esame delle vie aeree non rivela deposito di fuliggine e la saturazione della carbossiemoglobina ematica è minima. Quando il suo corpo è stato dato alle fiamme, Theresa Wells non respirava. La causa della morte risultava evidente dall'interpretazione delle radiografie effettuata dal dottor Hobart. Le radiografie craniche laterale e anteroposteriore rivelano una frattura parietale destra depressa e comminuta con un frammento cuneiforme di quattro centimetri di larghezza. Era stata probabilmente uccisa dal colpo alla testa.
In fondo al verbale battuto a macchina, sotto la firma del dottor Hobart, Maura vide due iniziali familiari: lo aveva trascritto Louise. I patologi andavano e venivano, ma in quell'ufficio Louise era un'istituzione. Maura sfogliò le pagine seguenti del dossier. C'era un modulo che elencava tutte le radiografie effettuate e le prove raccolte: sangue, fluidi, tracce. I moduli amministrativi indicavano la custodia, i beni personali e i nomi dei presenti all'autopsia. Hobart era stato assistito da Yoshima. Maura non riconobbe il nome dell'agente di polizia di Fitchburg che aveva seguito la procedura, un certo detective Swigert. Sfogliò il file sino alla fine, sino a una fotografia. Lì si fermò e arretrò, inorridita. Le fiamme avevano carbonizzato gli arti di Theresa Wells ed esposto i muscoli del torso, ma il viso era stranamente integro e inequivocabilmente femminile. Aveva solo trentacinque anni, pensò Maura. Io ho già vissuto cinque anni di più di Theresa Wells. Oggi avrebbe la mia età, se fosse ancora viva. Se quel giorno di novembre non le si fosse bucata una gomma. Chiuse il dossier di Theresa e prese l'altro. Di nuovo si fermò prima di aprirlo, riluttante all'idea di vedere gli orrori che conteneva. Pensò alla vittima carbonizzata che lei stessa aveva autopsiato un anno prima, agli odori che le erano rimasti nei capelli e nei vestiti anche quando era uscita dalla sala. Per il resto dell'estate aveva evitato di usare il barbecue nel giardino posteriore, incapace di sopportare l'odore della carne alla griglia. Adesso, mentre apriva il file di Nikki Wells, quasi lo sentiva di nuovo, quell'odore: sembrava spandersi dalla sua memoria. Se il volto di Theresa era stato in gran parte risparmiato dal fuoco, lo stesso non si poteva dire della sorella minore. Le fiamme che avevano solo in parte consumato Theresa avevano concentrato tutta la loro furia sulla carne di Nikki Wells. Il soggetto è gravemente carbonizzato. Parti del torace e dell'addome sono completamente bruciate con esposizione dei visceri. Anche i tessuti molli della faccia e del cuoio capelluto sono bruciati. Sono visibili aree della volta cranica, nonché fratture da schiacciamento delle ossa facciali. Non vi sono frammenti residui di abiti, ma radiograficamente si apprezzano piccole opacità metalliche a livello della quinta costola, compatibili con i ganci di un reggiseno, e un singolo frammento metallico sopra il pube. La radiografia dell'addome rivela anche altri resti scheletrici appartenenti a un feto, il cui diametro cranico è compatibile con una gestazione alla trentaseiesima settimana...
La gravidanza di Nikki Wells doveva essere risultata più che evidente all'assassino, eppure quella condizione non aveva suscitato alcuna pietà, alcun riguardo né per lei né per il bambino. L'unica cosa che avevano avuto era una pira funeraria in mezzo al bosco. Maura voltò pagina e si fermò, accigliata, di fronte alla frase successiva del verbale: Marcatamente assenti in radiografia la tibia, la fibula e le ossa tarsali destre. A penna era stato aggiunto un asterisco che rimandava a una nota scribacchiata: * Tre mesi fa nella cartella ostetrica ambulatoriale della paziente è stata documentata un'anomalia fetale. L'ecografia effettuata al secondo trimestre ha rivelato che il feto era privo dell'arto inferiore destro, fenomeno molto probabilmente dovuto a sindrome da banda amniotica. Una malformazione fetale. Alcuni mesi prima di morire Nikki Wells aveva saputo che il suo bambino sarebbe nato senza la gamba destra eppure aveva deciso di continuare la gravidanza. Di tenerlo lo stesso. La pagine finali del dossier, Maura lo sapeva, sarebbero state le più dure da affrontare. Non aveva stomaco di guardare le fotografie, ma si costrinse ugualmente a farlo. Vide degli arti e un torso anneriti. Lì non c'era una ragazza graziosa dall'aspetto florido, tipico delle donne in gravidanza, solo una parvenza di cranio, una maschera carbonizzata con le ossa facciali infossate dal colpo letale. Amalthea Lank ha fatto questo. Mia madre. Ha fracassato loro il cranio e ha trascinato i corpi in un capanno. Quando ha versato la benzina sui cadaveri e ha acceso il fiammifero, ha provato eccitazione nel veder divampare le fiamme? È rimasta nei paraggi del capanno che bruciava a inalare il puzzo della pelle e dei capelli strinati? Incapace di sopportare ancora la vista di quella foto, chiuse il dossier e rivolse l'attenzione ai due bustoni contenenti le radiografie, anch'essi posati sul tavolo. Li portò allo schermo luminoso e appese le radiografie della testa e del collo di Theresa Wells con le apposite clip. Le luci si accesero illuminando le ombre evanescenti delle ossa. Le radiografie erano molto più facili da guardare rispetto alle fotografie: privati della carne che li rende riconoscibili, i cadaveri perdono il loro potere raccapricciante. Uno scheletro è come un altro. Il cranio che ora vedeva sullo schermo poteva essere di qualsiasi donna, di una persona cara o di una sconosciuta. Maura fissò la volta cranica fratturata, il triangolo d'osso che si era incuneato sot-
to il tavolato. Non era stato un colpo casuale: solo un movimento deliberato, brutale, del braccio avrebbe potuto conficcare quel frammento tanto in profondità nell'osso parietale. Tolse le radiografie di Theresa, pescò nella seconda busta le altre due lastre e le appese allo schermo luminoso. Un altro cranio: questo era di Nikki. Come la sorella, anche lei era stata colpita alla testa, ma qui la contusione aveva interessato la fronte: l'osso frontale si era infossato ed entrambe le orbite erano state fracassate con tanta forza che gli occhi si erano probabilmente lacerati. Nikki Wells aveva visto arrivare il colpo. Maura tolse le radiografie craniche e ne appese altre due che mostravano la colonna vertebrale e la pelvi di Nikki, sorprendentemente intatte sotto la carne devastata dal fuoco. Sul bacino c'erano le ossa del feto. Nonostante le fiamme avessero fuso madre e figlio formando un unico ammasso carbonizzato, dalla radiografia Maura vide che si trattava di due soggetti diversi: due serie di ossa, due vittime. Vide anche qualcos'altro: una macchiolina brillante che risaltava malgrado il groviglio di ombre sovrapposte. Era soltanto una scheggia sottile come un ago sull'osso pubico di Nikki. Un minuscolo frammento metallico? Forse un pezzetto dei vestiti: una cerniera lampo, un fermaglio adeso alla pelle bruciata? Maura frugò nella busta e trovò una radiografia laterale del torso, che appese accanto a quella frontale. La scheggia metallica era lì, anche nell'immagine laterale, ma adesso vide che non era sovrapposta al pube: sembrava conficcata nell'osso. Estrasse tutte le radiografie dalla busta di Nikki e le appese, a due a due. Individuò le opacità che il dottor Hobart aveva rilevato in quella toracica, i cerchi metallici che rappresentavano i ganci del reggiseno e gli altri fermagli. Nella radiografia laterale quegli stessi cerchi metallici si trovavano chiaramente sopra i tessuti molli. Appese di nuovo le radiografie pelviche e fissò la scheggia di metallo inclusa nell'osso pubico di Nikki. Il dottor Hobart la citava nel verbale, ma nelle conclusioni non aveva aggiunto ulteriori commenti. Forse l'aveva considerata un reperto irrilevante. Perché no, in fondo, viste tutte le altre atrocità subite dalla vittima. Yoshima aveva assistito Hobart durante l'autopsia e forse si ricordava del caso. Maura uscì dallo studio, imboccò le scale e spinse le porte che conducevano nella sala autopsie. Il locale era deserto e i banchi erano stati puliti per la notte.
«Yoshima?» chiamò. Si mise le soprascarpe ed entrò. Superati i tavoli vuoti di acciaio inossidabile, spinse un'altra porta e raggiunse la zona di consegna. Aprì la porta della cella frigorifera e vi guardò dentro: vide solo i morti, due sacchi per le salme di colore bianco su lettini a rotelle disposti fianco a fianco. Chiuse la porta e rimase un attimo in ascolto per captare voci, passi, qualsiasi cosa le indicasse che nell'edificio c'era ancora qualcuno, ma sentì solo il brontolio del frigorifero e il gemito, più debole, di un'ambulanza all'esterno. Costas e Yoshima dovevano essere andati a casa. Quando, quindici minuti dopo, uscì dall'edificio, vide che la Saab e la Toyota erano effettivamente scomparse. Fatta eccezione per la sua Lexus nera, gli unici altri veicoli nel parcheggio erano i tre furgoni dell'obitorio con su stampigliato: UFFICIO DEL CORONER, COMMONWEALTH DEL MASSACHUSETTS. Era calato il buio e la sua macchina si trovava isolata, sotto la chiazza di luce gialla del lampione. Le immagini di Theresa e Nikki Wells la tormentavano ancora. Mentre si avvicinava alla Lexus, Maura prestava attenzione a ogni ombra nelle vicinanze, a ogni rumore anomalo, a ogni cenno di movimento. A pochi passi dall'auto si bloccò, fissò la portiera del passeggero e sentì rizzarsi tutti i peli sulla nuca. Il pacco di dossier che stava portando le scivolò dalle mani intorpidite e i fogli si sparpagliarono per terra. Tre graffi paralleli segnavano la vernice lucida della macchina. Il segno di un artiglio. Scappa via di qui. Torna dentro. Si girò di scatto e corse verso l'edificio. In piedi davanti alla porta chiusa, armeggiò con le chiavi. Dov'era, dov'era quella giusta? Alla fine la trovò, la ficcò nella serratura ed entrò, richiudendo con forza la porta alle sue spalle e gettandovisi sopra con tutto il peso, come per rinforzare la barricata. Nel palazzo vuoto c'era tanto silenzio che sentiva il suo respiro affannoso. Maura corse lungo il corridoio fino al suo ufficio e si chiuse dentro. Solo allora, circondata da cose familiari, sentì che il polso smetteva di galopparle e le mani di tremarle. Andò alla scrivania, prese il telefono e chiamò Jane Rizzoli. 18
«Hai fatto la cosa giusta. Ti sei subito tolta di lì e rifugiata in un posto sicuro», disse Rizzoli. Maura sedeva alla scrivania e fissava le carte spiegazzate che Jane aveva recuperato dal parcheggio. Una pila disordinata di fogli del dossier di Nikki Wells, sporchi di terra e calpestati nel momento del panico. Perfino ora, seduta in compagnia di Rizzoli, Maura ne avvertiva ancora il contraccolpo. «Hai trovato impronte sulla portiera?» chiese. «Alcune. Quelle che ti aspetti di trovare su qualsiasi portiera.» Rizzoli avvicinò una sedia al tavolo di Maura e si sedette posando le mani sul ventre a mo' di appoggio. Mamma Rizzoli, incinta e armata, pensò Maura. Quale salvatore più improbabile poteva venire in mio soccorso? «Per quanto tempo la tua macchina è rimasta nel parcheggio? Hai detto che sei arrivata attorno alle sei.» «Ma i graffi possono essere stati fatti prima che arrivassi qui. Non uso la portiera del passeggero tutti i giorni: solo se devo caricare la spesa o cose del genere. Li ho visti stasera per via della posizione in cui era parcheggiata l'auto. Era esattamente sotto il lampione.» «Quando è stata l'ultima volta che hai guardato la portiera?» Maura si premette le mani sulle tempie. «Di sicuro ieri mattina, quando ho lasciato il Maine. Ho messo il borsone sul sedile anteriore. In quell'occasione avrei notato i graffi.» «Bene. Così ieri sei tornata a casa. E dopo?» «La macchina è rimasta in garage tutta la notte. Poi, stamattina, sono venuta da te a Schroeder Plaza.» «Dove hai posteggiato?» «In quel garage vicino al quartier generale della polizia. Quello dalle parti di Columbus Avenue.» «Così è rimasta in quel parcheggio per tutto il pomeriggio, mentre eravamo alla prigione.» «Sì.» «Il garage è sorvegliato, sai.» «Davvero? Non me ne sono accorta...» «E poi dove sei andata? Quando siamo tornate da Framingham?» Maura esitò. «Dottoressa?» «Sono andata a trovare Joyce O'Donnell.» Incrociando lo sguardo di Rizzoli, aggiunse: «Non mi guardare così. Dovevo vederla».
«Me lo avresti detto?» «Certo. Senti, dovevo solo sapere qualcosa di più su mia madre.» Rizzoli si appoggiò allo schienale e strinse le labbra. Non è molto contenta, pensò Maura. Mi aveva detto di stare alla larga da O'Donnell e io ho ignorato il consiglio. «Quanto sei rimasta da lei?» chiese. «Circa un'ora. Jane, mi ha detto una cosa che non sapevo. Amalthea è cresciuta a Fox Harbor. Per questo Anna è andata nel Maine.» «E dopo che hai lasciato la casa di O'Donnell? Che cos'è successo dopo?» Maura sospirò. «Sono venuta direttamente qui.» «Non hai notato se qualcuno ti seguiva?» «Perché avrei dovuto controllare? Ho troppe cose per la testa.» Si guardarono per un istante, senza parlare. Tra loro la tensione creata dalla visita a O'Donnell era ancora palpabile. «Sai che la tua telecamera di sicurezza è rotta?» chiese Rizzoli. «Quella del parcheggio.» Maura scoppiò a ridere. «Sai quanti tagli hanno fatto al nostro budget quest'anno? La telecamera è rotta da mesi. Riesci quasi a vedere i fili penzoloni.» «Ciò che intendo è che quella telecamera dissuaderebbe gran parte dei vandali.» «Purtroppo non è andata così.» «Chi altro sa che è rotta? Tutti quelli che lavorano in quest'ufficio, giusto?» Maura fu colta da un attimo di sgomento. «Non mi piace quello che stai sottintendendo. Molti hanno notato che è rotta: poliziotti, autisti dell'obitorio, chiunque sia venuto qui a consegnare un corpo. Devi solo alzare lo sguardo e la vedi.» «Hai detto che due macchine erano parcheggiate qui quando sei arrivata. Quella del dottor Costas e quella di Yoshima.» «Sì.» «E quando sei uscita dall'edificio, verso le otto, non c'erano più.» «Se ne sono andati prima di me.» «Vai d'accordo con loro?» Maura scoppiò in una risata incredula. «Stai scherzando, vero? Perché sono domande ridicole.» «Non mi riempie di gioia dovertele fare.»
«Allora perché? Tu conosci il dottor Costas e anche Yoshima. Non li puoi trattare come dei sospetti.» «Sono entrambi stati in quel parcheggio e sono passati proprio accanto alla tua auto. Il dottor Costas se n'è andato per primo, verso le sei e quarantacinque. Yoshima poco dopo, forse verso le sette e un quarto.» «Hai parlato con loro?» «Mi hanno detto entrambi di non aver visto graffi sulla tua macchina. C'è da pensare che li avrebbero visti. Sicuramente Yoshima li avrebbe notati perché aveva posteggiato vicino a te.» «Lavoriamo insieme da quasi due anni. Lo conosco bene, e anche tu.» «Pensiamo di conoscerlo.» Non lo fare, Jane, pensò. Non indurmi ad aver paura dei miei colleghi. «Lavora in quest'edificio da diciotto anni», disse Rizzoli. «Abe è qui quasi da altrettanto. E anche Louise.» «Sapevi che Yoshima vive solo?» «Anch'io.» «Ha quarantotto anni, non si è mai sposato, abita solo. Viene a lavorare tutti i giorni e tu sei lì, vicina, a stretto contatto. Lavorate tutti e due con i cadaveri, vi occupate di cose piuttosto macabre e questo deve per forza aver creato un legame tra voi. Tutte le cose terribili che tu e lui soltanto avete visto.» Maura pensò alle ore che lei e Yoshima avevano passato in quella sala tra tavoli di acciaio e strumenti affilati. Lui sembrava sempre sapere ciò che le serviva prima ancora che lei lo chiedesse. Sì, c'era ovviamente un legame perché erano una squadra. Ma quando si toglievano il camice e si sfilavano le soprascarpe, ognuno usciva dalla porta e riprendeva la sua vita. Non socializzavano: non erano nemmeno mai andati a bere qualcosa insieme dopo il lavoro. Da quel punto di vista siamo simili, pensò. Due persone solitarie che s'incontrano soltanto davanti a un cadavere. «Senti», disse Rizzoli con un sospiro. «A me piace Yoshima. Odio anche solo dover sollevare la possibilità, ma è un particolare che devo prendere in considerazione, altrimenti non farei il lavoro che faccio.» «Che sarebbe che cosa? Rendermi paranoica? Sono già abbastanza spaventata, Jane. Non è il caso di indurmi ad aver paura proprio di chi mi devo fidare.» Maura raccolse le carte dal tavolo. «Avete finito con la mia macchina? Vorrei andare a casa.» «Sì, abbiamo finito, ma non sono del tutto convinta che tu debba andare a casa.»
«Che dovrei fare?» «Ci sono altre alternative. Potresti andare in albergo. Puoi dormire sul mio divano. Ho appena parlato con il detective Ballard, che mi ha detto di avere una stanza libera.» «Perché parli con Ballard?» «Mi contatta tutti i giorni per sapere del caso. Ha chiamato circa un'ora fa e gli ho detto quello che è successo alla tua macchina. È corso qui a esaminarla.» «Adesso si trova nel parcheggio?» «È arrivato poco fa. È preoccupato, dottoressa, e anch'io lo sono.» Rizzoli tacque. «Allora che vuoi fare?» «Non lo so...» «Be', hai qualche minuto per pensarci.» Jane si tirò su. «Dai, ti accompagno all'uscita.» Ecco una situazione assurda, pensò Maura mentre imboccavano il corridoio insieme. Vengo protetta da una donna che riesce a stento ad alzarsi da una sedia. Ma Rizzoli aveva messo in chiaro che lei gestiva la faccenda, lei si era assunta il ruolo del guardiano. E fu lei quella che aprì la porta e uscì per prima. Maura la seguì nel parcheggio fino alla Lexus, accanto a cui si trovavano Frost e Ballard. «Stai bene, Maura?» chiese Ballard. La luce del lampione creava un'ombra sui suoi occhi e Maura guardò un volto che non riuscì a leggere. «Sì.» «Poteva andare molto peggio.» Guardò Rizzoli. «Le hai detto quello che pensiamo?» «Le ho detto che forse non è il caso che vada a casa stasera.» Maura guardò l'auto. I tre graffi erano bene evidenti, perfino più sinistri di quanto non ricordasse, simili a ferite lasciate dagli artigli di un predatore. L'assassino di Anna mi sta parlando e io non avevo capito quanto fosse vicino. «La Scientifica ha notato una piccola botta sulla portiera del guidatore», disse Frost. «Quella è vecchia. Qualcuno me l'ha ammaccata in un parcheggio mesi fa.» «D'accordo, allora ci sono solo i graffi. Hanno preso alcune impronte e hanno bisogno delle sue, dottoressa. Non appena può, le faccia avere al laboratorio.»
«Certo.» Maura pensò a tutte le dita a cui avevano rilevato le impronte in obitorio, alla carne fredda che premevano abitualmente sui cartoncini. Prendono le mie prima del tempo, quando sono ancora viva. Incrociò le braccia al petto sentendosi gelare nonostante la sera calda. Pensò di rifugiarsi nella sua casa vuota e di chiudersi in camera da letto. Pur con tutte quelle barricate, era sempre una casa, non una fortezza. Una casa con finestre facili da rompere e con zanzariere che potevano essere tagliate con un semplice coltello. «Hai detto che è stato Charles Cassell a graffiare la macchina di Anna», osservò Maura guardando Rizzoli. «Cassell non avrebbe fatto questo, non alla mia macchina.» «No, non ne avrebbe avuto motivo. Forse Anna era la persona sbagliata.» Io sono quella giusta. Io sono quella che doveva morire. «Dove vuoi andare, dottoressa?» chiese Rizzoli. «Non lo so», rispose lei. «Non so che fare...» «Be', ti suggerirei di non stare qui fuori», disse Ballard. «Dove tutti ti possono vedere.» Maura lanciò un'occhiata al marciapiede e vide le silhouette dei passanti create dai lampeggianti delle macchine della polizia. Passanti di cui non vedeva il volto perché restavano nell'ombra mentre lei era lì sotto la luce intensa del lampione, come la stella di uno spettacolo. «Io ho una stanza libera», disse Ballard. Maura non lo guardò, tenne lo sguardo fisso su quelle ombre senza volto e pensò: sta accadendo troppo rapidamente. Troppe decisioni vengono prese su due piedi. Sono scelte di cui potrei pentirmi. «Dottoressa?» chiese Rizzoli. «Che ne pensi?» Finalmente Maura guardò Ballard e di nuovo sentì quell'inquietante attrazione. «Non saprei in quale altro posto andare», rispose. Ballard la seguì standole tanto vicino da accecarla con la luce dei fari nel retrovisore. Temeva quasi che potesse scappare, che tentasse di seminarlo nel folle groviglio del traffico. La tallonò perfino quando entrarono nel sobborgo ben più tranquillo di Newton, quando Maura fece due volte il giro dell'isolato, come le aveva raccomandato, per accertarsi che nessuno li pedinasse. Quando finalmente si fermò davanti a casa sua, se lo ritrovò subito accanto al finestrino, intento a bussare sul vetro. «Entra in garage», disse Rick.
«Ti rubo il posto.» «Non importa. Non voglio che la tua macchina resti in strada. Adesso apro il portone scorrevole.» Maura imboccò il vialetto e osservò il portone aprirsi rimbombando. Dietro c'era un garage ordinato, con gli attrezzi appesi alla tavola e uno scaffale contenente diverse file di barattoli di vernice. Persino il pavimento di calcestruzzo sembrava splendente. Maura entrò e il portone si richiuse immediatamente, nascondendo la sua macchina alla vista. Per un istante rimase seduta ad ascoltare i ticchettii del motore che si raffreddava e a farsi coraggio per la serata che l'aspettava. Solo pochi attimi prima l'idea di tornare a casa le era sembrata azzardata, sconsiderata; adesso si chiedeva se quella scelta non lo fosse ancor di più. Ballard le aprì la portiera. «Vieni. Ti mostro come attivare l'allarme in caso io sia fuori.» La condusse in casa e imboccò un breve corridoio che portava all'atrio. Lì indicò un keypad accanto alla porta d'ingresso. «L'ho aggiornato solo qualche mese fa. Prima inserisci il codice di sicurezza, poi premi ATTIVA. Quando è attivato, se qualcuno apre una porta o una finestra, scatta un allarme tanto forte da assordarti. Parte poi una segnalazione automatica alla società incaricata della sicurezza, che telefona qui a casa. Per disattivarlo, inserisci lo stesso codice e premi OFF. Finora è chiaro?» «Sì. Mi vuoi dire il codice?» «Ci stavo giusto arrivando.» Ballard la guardò. «Capisci, naturalmente, che ti sto dando la chiave numerica per accedere a casa mia.» «Ti stai chiedendo se ti puoi fidare?» «Promettimi solo di non passarlo ai tuoi riprovevoli amici.» «Dio sa quanti ne ho.» «Sì.» Ballard scoppiò a ridere. «E probabilmente portano tutti un distintivo. D'accordo, il codice è 17 12, la data di nascita di mia figlia. Pensi di riuscire a ricordartelo o vuoi che te lo scriva?» «Me lo ricordo.» «Bene. Adesso prova ad attivarlo visto che ormai è sera.» Mentre digitava i numeri, Ballard le restò a fianco, tanto vicino che Maura sentiva il suo respiro tra i capelli. Premette ATTIVA e udì un lieve bip. Sul display digitale ora si leggeva: SISTEMA ATTIVO. «La fortezza è sicura», esclamò lui. «È stato semplice», disse Maura e lo sorprese a guardarla con tale inten-
sità che sentì il bisogno di arretrare, se non altro per ristabilire la distanza di sicurezza. «Hai cenato?» le domandò lui. «Non ne ho avuto il tempo. Sono successe così tante cose stasera.» «Allora vieni. Non ti lascio a stomaco vuoto.» La cucina era esattamente come Maura si aspettava: armadietti robusti di acero e banchi spessi di legno duro, pentole e padelle appese in fila con ordine a una rastrelliera. Nessun tocco stravagante: quello era l'ambiente di lavoro di un uomo pratico. «Non ti preoccupare», disse Maura. «Uova e pane tostato andranno benissimo.» Ballard aprì il frigorifero e prese una confezione di uova. «Strapazzate?» «Posso fare io, Rick.» «Perché non tosti il pane? È proprio lì accanto. Mangerò anch'io qualcosa.» Maura prese due fette di pane dal pacco e le infilò nel tostapane. Quando si girò, Rick era in piedi davanti ai fornelli e stava sbattendo le uova in una terrina. Allora si ricordò della prima volta che avevano cenato insieme, tutti e due scalzi, allegri, apprezzando la reciproca compagnia. Prima che la telefonata di Jane la rendesse sospettosa nei suoi confronti. E se quella sera Jane non avesse chiamato, che cosa sarebbe accaduto tra loro? Lo guardò versare le uova in una padella e alzare il gas. In quel momento si sentì arrossire, come se Rick avesse acceso un'altra fiamma, all'interno del suo corpo. Maura si voltò e guardò piuttosto la porta del frigorifero a cui erano appese varie foto di Ballard e della figlia: Katie da bambina tra le braccia della mamma, Katie a circa un anno e mezzo, seduta su un seggiolone. La sequenza di immagini terminava con la foto di una teenager bionda con un sorriso forzato. «Sta cambiando così in fretta», osservò Ballard. «Non posso credere che quelle foto siano della stessa bambina.» Maura gli lanciò un'occhiata da sopra la spalla. «Che cos'avete deciso di fare per lo spinello che aveva nell'armadietto?» «Oh, quello», rispose sospirando. «Carmen le ha proibito di uscire e, peggio ancora, ha detto niente TV per un mese. Adesso dovrò mettere sotto chiave anche il mio televisore per essere sicuro che Katie non venga qui di nascosto e lo usi quando non sono a casa.» «Tu e Carmen siete bravi a fare fronte comune.»
«A dire il vero non c'è molta scelta. Per quanto sia duro divorziare, devi mostrarti coerente per il bene dei figli.» Rick spense il fornello e servì le uova fumanti su due piatti. «Tu non hai avuto figli?» «No, per fortuna.» «Per fortuna?» «Victor e io non saremmo riusciti a comportarci civilmente come voi.» «Non è facile come sembra. Soprattutto da quando...» «Sì?» «Cerchiamo di salvare le apparenze, ecco tutto.» Apparecchiarono la tavola, disposero i piatti con le uova, il pane tostato e il burro e si sedettero l'uno di fronte all'altra. Parlare dei rispettivi matrimoni falliti li aveva rattristati. Stiamo tutti e due leccandoci le nostre ferite emozionali, pensò Maura. Anche se siamo attratti l'uno dall'altra, è il momento sbagliato per iniziare una relazione. Dopo però, mentre lui l'accompagnava di sopra, capì che a entrambi stavano passando per la mente gli stessi pensieri. «Questa è la tua stanza», fece Rick aprendo la porta della camera di Katie. Maura entrò e si ritrovò davanti allo sguardo seducente di Britney Spears che la osservava da un poster gigante appeso alla parete. Sugli scaffali c'erano le bambole Britney e vari CD. Questa stanza mi farà venire gli incubi, pensò Maura. «Hai un bagno tutto per te, oltre quella porta», disse lui. «Nell'armadietto ci dovrebbero essere un paio di spazzolini di riserva. E puoi usare l'accappatoio di Katie.» «Non si offenderà?» «Questa settimana sta con Carmen. Non saprà nemmeno che sei qui.» «Grazie, Rick.» Lui tacque. Sembrava attendere che dicesse qualcos'altro, qualcosa che avrebbe cambiato tutto. «Maura», esclamò. «Sì?» «Mi prenderò cura di te. Voglio solo che tu lo sappia. Quello che è successo ad Anna... non lascerò che succeda anche a te.» Poi si girò e fece per andarsene. «Buona notte», disse piano e chiuse la porta alle sue spalle. Mi prenderò cura di te. Non è quello che vogliamo tutti? pensò Maura. Qualcuno che ci faccia sentire sicuri. Si era scordata che cosa significasse avere qualcuno che si occupasse di lei. Anche quando stava con Victor, non si era mai sentita
protetta: era un uomo troppo egocentrico per occuparsi di chicchessia. Stesa a letto, ascoltò il ticchettare dell'orologio sul comodino, lo scricchiolio dei passi di Ballard sul pavimento nella stanza accanto. A poco a poco la casa fu avvolta dal silenzio. Maura guardò le ore passare sull'orologio. Mezzanotte. L'una, e ancora non riusciva a dormire. Il giorno dopo sarebbe stata a pezzi. Anche lui sarà sveglio? Non conosceva quasi quell'uomo, come non conosceva quasi Victor quando lo aveva sposato. Che tremendo disastro, il matrimonio: tre anni della sua vita buttati via e tutto per la chimica, le scintille che si scatenavano tra loro. Quando si trattava di uomini, non si fidava del suo giudizio. L'uomo con cui più desideravi dormire poteva essere la scelta peggiore. Le due. Il fascio dei fari di un'auto scivolò sulla finestra. In strada si udiva il ronzio sommesso di un motore. Maura si contrasse, pensando: non è niente, forse è solo un vicino che rientra tardi. Poi udì uno scricchiolio di passi sul portico e trattenne il fiato. All'improvviso il buio urlò. Maura scattò a sedere. Il sistema di allarme. Qualcuno è entrato in casa. Ballard batté sulla porta. «Maura? Maura?» gridò. «Sto bene!» «Chiuditi a chiave! Non uscire.» «Rick?» «Resta in camera!» Maura si precipitò giù dal letto e chiuse la porta a chiave, poi rimase lì accovacciata con le mani sulle orecchie per proteggersi dallo strepito dell'allarme, incapace di udire altro. Pensò a Ballard che scendeva le scale. Immaginò la casa piena di ombre, qualcuno in attesa di sotto. Dove sei, Rick? Non sentiva niente se non il suono lacerante dell'allarme. Lì al buio era cieca e sorda nei confronti di chiunque si fosse avvicinato alla sua porta. L'urlo cessò all'improvviso. Nel silenzio che seguì, Maura udì infine il suo respiro affannoso e il martellare del cuore nel petto. E voci. «Cristo!» stava urlando Rick. «Ti avrei potuto sparare! Che diavolo ti è venuto in mente?» Adesso c'era una voce di ragazza. Ferita, arrabbiata. «Hai messo la catena alla porta! Non sono potuta entrare a spegnere l'allarme!»
«Non urlare con me.» Maura aprì la porta e uscì in corridoio. Adesso le voci erano più forti, alterate dalla collera. Guardando oltre la balaustra, vide Rick in piedi di sotto, in blue jeans e a petto nudo; la pistola che aveva portato con sé era ora infilata nella cintura dei pantaloni. La figlia lo stava guardando in cagnesco. «Sono le due del mattino, Katie. Come sei arrivata fin qui?» «Mi ha portato un amico in macchina.» «Nel cuore della notte?» «Sono venuta a prendere lo zaino, va bene? Mi sono scordata che mi serviva domani. Non volevo svegliare la mamma.» «Dimmi chi è questo amico. Chi ti ha accompagnata?» «Be', ormai se n'è andato! L'allarme lo ha probabilmente spaventato a morte!» «È un ragazzo? Chi è?» «Non ho intenzione di mettere anche lui nei guai!» «Chi è questo ragazzo?» «Lascia perdere, papà. Lascia perdere.» «Resta qui e rispondimi. Katie, non salire...» I suoi passi risuonarono sui gradini e all'improvviso si fermarono. Katie rimase immobile sulle scale a fissare Maura. «Torna qui!» urlò Rick. «Sì, papà», mormorò Katie con lo sguardo ancora fisso su Maura. «Adesso capisco perché hai messo la catena alla porta.» «Katie!» Rick tacque, interrotto all'improvviso dallo squillo del telefono. Si girò a rispondere. «Pronto? Sì, sono Rick Ballard. È tutto a posto. No, non mandate nessuno. Mia figlia è rientrata e non ha disattivato in tempo l'allarme...» La ragazzina stava fissando Maura con palese ostilità. «Allora tu sei la sua nuova fidanzata.» «Per favore, sta' calma», affermò pacatamente Maura. «Non sono la sua fidanzata. Avevo solo bisogno di un posto dove dormire stanotte.» «Oh, certo. E allora perché non con mio padre?» «Katie, è la verità...» «Nessuno in questa famiglia dice mai la verità.» Di sotto il telefono suonò di nuovo e di nuovo Ballard rispose. «Carmen. Carmen, calmati! Katie è qui. Sì, sta bene. Un ragazzo l'ha accompagnata fin qui a prendere lo zaino...»
La ragazza lanciò un'occhiata velenosa a Maura e ridiscese le scale. «È tua madre», disse Rick. «Le dirai della nuova fidanzata? Come puoi farle questo, papà?» «Tu e io dovremo fare due chiacchiere a questo proposito. Devi accettare il fatto che tua madre e io non stiamo più insieme. Le cose sono cambiate.» Maura tornò in camera e chiuse la porta. Mentre si vestiva, sentì che di sotto continuavano a discutere. Rick parlava con voce ferma e decisa, la ragazza con un tono acuto, pieno di rabbia. Maura impiegò pochi istanti a cambiarsi. Quando scese, trovò Ballard e la figlia seduti in soggiorno. Katie era raggomitolata sul divano come un porcospino stizzito. «Rick, io ora me ne vado», disse Maura. Lui si alzò in piedi. «Non puoi.» «No, va tutto bene. Hai bisogno di stare solo con la tua famiglia.» «Casa tua non è sicura.» «Non vado a casa. Vado in albergo. Davvero, starò benissimo.» «Maura, aspetta...» «Lei se ne vuole andare, okay?» esclamò brusca Katie. «Allora lascia che vada.» «Ti chiamo quando arrivo in albergo», disse Maura. Mentre faceva retromarcia, Rick uscì e rimase sul vialetto a guardarla. I loro sguardi s'incrociarono oltre il finestrino e lui fece un passo in avanti, come per cercare ancora una volta di convincerla a restare, a tornare alla sicurezza della sua casa. Altri due fari spuntarono ondeggiando. Poco dopo l'auto di Carmen accostò al marciapiede. La donna scese con i capelli biondi tutti scarmigliati e la camicia da notte che spuntava da sotto un accappatoio. Un altro genitore buttato giù dal letto da quell'adolescente vagabonda. Carmen lanciò un'occhiata nella direzione di Maura, poi disse qualcosa a Ballard ed entrò in casa. Dalla finestra del soggiorno, Maura vide madre e figlia abbracciarsi. Ballard indugiò sul vialetto. Guardò verso la casa, poi Maura, come se fosse tirato da due parti opposte. Fu Maura a decidere per lui. Inserì la marcia, premette l'acceleratore e si allontanò. L'ultima visione che ebbe di lui fu grazie allo specchietto: Rick che si girava ed entrava in casa, che tornava dalla sua famiglia. Anche il divorzio, pensò, non riesce a cancellare i legami plasmati da anni di matrimonio. I vincoli permangono, oltre la firma delle carte, oltre la legaliz-
zazione dei documenti. E il vincolo più potente di tutti è quello scritto nella carne e nel sangue di una figlia. Maura fece un respiro profondo e d'un tratto si sentì al riparo dalle tentazioni. Libera. Come aveva promesso a Ballard, non andò a casa, ma si diresse a ovest, verso la Route 95 che attraversava la periferia di Boston. Si fermò nel primo motel che incontrò per strada. La stanza che le diedero odorava di sigarette e di sapone Ivory. Il water aveva una striscia di carta sull'asse che ne attestava la disinfezione e i bicchieri sigillati del bagno erano di plastica. Il rumore del traffico della strada vicina passava oltre le pareti sottili. Maura non ricordava da quanto non dormisse in un motel tanto scadente e malandato. Chiamò Rick. Fu soltanto una telefonata breve, di trenta secondi, per riferirgli dove fosse. Poi spense il cellulare e s'infilò tra le lenzuola lise. Quella notte dormì più profondamente di quanto non fosse riuscita a fare nell'intera settimana. 19 Nessuno mi ama, tutti mi odiano, finirò per mangiare vermi. Vermi, vermi, vermi. Smetti di pensarci! Mattie chiuse gli occhi e digrignò i denti, ma non riuscì a togliersi di testa il motivo di quella stupida canzoncina per bambini. Continuava a ronzarle in testa e puntualmente la induceva a pensare ai vermi. Però non sarò io a mangiarli, ma loro a mangiare me. Oh, pensa a qualcos'altro, a qualcosa di bello, di piacevole. Ai fiori, ai vestiti. A vestiti bianchi con chiffon e perline. Al giorno del matrimonio. Sì, pensa a quello. Si ricordò che sedeva nella stanza della sposa nella chiesa metodista di St. John e si guardava allo specchio pensando: oggi è il giorno più bello della mia vita, sposo l'uomo che amo. Si ricordò di sua madre, entrata nella stanza per aiutarla col velo. Di come le si era avvicinata e con un sospiro di sollievo le aveva detto: «Non pensavo di vedere questo giorno». Il giorno in cui un uomo avrebbe sposato sua figlia. Ora, sette mesi dopo, Mattie ripensò alle parole della madre e al fatto che non fossero state particolarmente gentili, ma quel giorno niente aveva offuscato la sua gioia: né la nausea mattutina, né i tacchi vertiginosi o il fatto che la sera delle nozze Dwayne avesse bevuto tanto champagne da
addormentarsi sul letto prima ancora che lei uscisse dal bagno. Niente aveva importanza, se non il fatto che adesso era la signora Purvis e che la sua vita, la sua vera vita, stava infine per cominciare. E adesso finirà qui, in questa cassa, a meno che Dwayne non mi salvi. Lo farà, vero? Mi rivorrà con sé? Oh, quello era peggio che pensare ai vermi che la mangiavano. Cambia argomento, Mattie! E se non mi rivolesse? E se non avesse sperato altro che scomparissi, per stare con quella donna? Se fosse lui che... No, non Dwayne. Se l'avesse voluta morta, non l'avrebbe tenuta in una cassa. Perché tenerla in vita? Inspirò profondamente e gli occhi le si riempirono di lacrime. Lei voleva vivere. Avrebbe fatto di tutto per vivere, ma non sapeva come uscire da quella cassa. Aveva passato ore a pensarci. Aveva picchiato sulle pareti, dato calci e calci al soffitto. Aveva pensato di smontare la torcia e di usarne le parti per costruire... che cosa? Una bomba. Sentiva quasi Dwayne che rideva di lei, che la sbeffeggiava. Oh, certo, Mattie, la vera emula di MacGyver. Be', che cosa dovrei fare? I vermi... Si insinuarono di nuovo nei suoi pensieri. Nel suo futuro, scivolandole sotto la pelle, divorandole la carne. Erano là fuori nel terreno, all'esterno di quella cassa, pensò. In attesa che morisse. Poi sarebbero strisciati dentro a banchettare. Si girò sul fianco e prese a tremare. Ci dev'essere una via d'uscita. 20 Yoshima era chino sul cadavere e con la mano protetta dal guanto stringeva una siringa con un ago calibro sedici. Il corpo era di una giovane donna, tanto macilenta che il ventre le ricadeva a mo' di tenda floscia sulle ossa dell'anca. Yoshima tese la pelle dell'inguine e orientò l'ago in direzione della vena femorale. Tirò lo stantuffo e il sangue, così scuro da sembrare quasi nero, cominciò a riempire la siringa. Non alzò lo sguardo quando Maura entrò nella sala, ma rimase concentrato sul suo compito. Lei osservò in silenzio mentre estraeva l'ago e tra-
sferiva il sangue in diverse provette, procedendo con la calma efficienza di chi aveva maneggiato innumerevoli provette di innumerevoli pazienti. Se io sono la Regina dei morti, pensò Maura, allora Yoshima è il Re. Li sveste, li pesa, sonda inguine e collo in cerca delle vene, ne deposita gli organi in barattoli di formalina e, quando l'autopsia è finita, quando termino di tagliare, è lui quello che prende ago e filo e ne ricompone la carne incisa. Yoshima staccò l'ago e mise la siringa usata nel contenitore dei rifiuti infetti. Poi si fermò a osservare la donna a cui aveva appena prelevato il sangue. «È arrivata stamattina», disse. «Il fidanzato l'ha trovata morta sul divano quando si è svegliato.» Maura vide segni di punture sulle braccia del cadavere. «Che scempio.» «È sempre così.» «Chi se ne occupa?» «Il dottor Costas. Oggi il dottor Bristol è in tribunale.» Yoshima avvicinò un carrello al tavolo e iniziò a disporre gli strumenti. In quel silenzio imbarazzante il clangore del metallo sembrava fastidiosamente forte. Il tono della loro conversazione era stato professionale come sempre, ma quel giorno Yoshima non la guardava. Sembrava eludere il suo sguardo, evitare di lanciare anche una sola occhiata nella sua direzione, oltre che di parlare di quant'era accaduto nel parcheggio la sera precedente. Ma il problema tra loro esisteva, tangibile, ed era impossibile ignorarlo. «So che il detective Rizzoli ti ha chiamato a casa ieri sera», disse Maura. Lui si bloccò, voltato di profilo, e le sue mani rimasero immobili sul carrello. «Yoshima», affermò Maura. «Mi spiace se in qualche modo ha insinuato...» «Sa da quanto tempo lavoro nell'ufficio del coroner, dottoressa Isles?» la interruppe lui. «So che sei qui da più di noi.» «Diciotto anni. Il dottor Tierney mi ha assunto quando ho lasciato l'esercito. Servivo nell'unità mortuaria. Era dura, sa, lavorare su tanti giovani, gran parte morti per incidenti o suicidi. Ma in fondo rientra nel gioco: un giovane corre dei rischi, si fa coinvolgere nelle risse, va troppo veloce in macchina. Oppure viene lasciato dalla moglie, e allora prende la pistola e si spara. Pensavo che così potevo fare qualcosa per loro, trattarli con il rispetto dovuto a un soldato. Alcuni erano ancora dei ragazzi, tanto giovani da essere quasi imberbi. Quello era l'aspetto sconvolgente, la giovanissima età, ma io riuscivo ad affrontare il problema. Come faccio qui, perché è il
mio lavoro. Non so quando è stata l'ultima volta che mi sono messo in malattia», disse e poi tacque. «Ma oggi avevo pensato di non venire.» «Perché?» Lui si voltò e la guardò. «Sa che cosa prova uno, dopo diciotto anni che lavora qui, a sentirsi sospettato?» «Mi spiace che Rizzoli ti abbia fatto sentire così. So che può essere brusca...» «No, a dire il vero non lo è stata. È stata molto gentile, molto cordiale. È stata la natura delle sue domande che mi ha fatto capire che cosa stesse succedendo. Com'è lavorare con la dottoressa Isles? Voi due andate d'accordo?» Yoshima scoppiò a ridere. «Ora, perché pensa che me l'abbia chiesto?» «Stava facendo il suo lavoro, nient'altro. Non era un'accusa.» «Ne aveva tutta l'aria.» Yoshima si avvicinò al bancone e iniziò ad allineare i vasi di formalina con i campioni di tessuto. «Lavoriamo insieme da quasi due anni, dottoressa Isles.» «Sì.» «Che mi risulti, non c'è stata una sola volta che sia rimasta scontenta del mio operato.» «Neanche una. Non vorrei lavorare con nessun altro.» Yoshima si girò e la guardò. Alla luce violenta delle lampade a fluorescenza Maura notò che i suoi capelli neri erano fortemente brizzolati. Un tempo aveva creduto che avesse una trentina d'anni: con quel volto liscio e sereno e quella corporatura sottile, sembrava in certo qual modo senza età. Ma ora, osservando le rughe di preoccupazione attorno agli occhi, lo vide per quello che era: un uomo che stava placidamente scivolando nella mezza età. Come me. «Non c'è stato un solo momento», disse, «non un solo istante in cui ho pensato che tu potessi...» «Ma adesso sarà costretta a pensarlo, non è così? Visto che il detective Rizzoli l'ha sollevata, dovrà per forza considerare la possibilità che io le abbia graffiato la macchina. Che sia io quello che la pedina.» «No, Yoshima, non accadrà. Mi rifiuto di farlo.» Lui sostenne il suo sguardo. «Allora non è onesta con se stessa o con me. Perché il pensiero le passerà di certo per la mente, e finché ci sarà il minimo senso di sfiducia, lei si sentirà a disagio con me. Io me ne accorgerò, e anche lei.» Yoshima si sfilò i guanti, si voltò e cominciò a scrivere il nome della deceduta sulle etichette. Maura vedeva la tensione nelle sue
spalle, nei muscoli irrigiditi del collo. «Lo supereremo», disse Maura. «Forse.» «Non forse. Sicuramente. Dobbiamo lavorare insieme.» «Be', questo suppongo dipenda da lei.» Maura lo guardò per qualche istante chiedendosi come recuperare la relazione cordiale che avevano un tempo. Forse, dopotutto, non era così cordiale, pensò. Ho presunto che lo fosse mentre per tutto questo tempo lui mi ha nascosto i suoi sentimenti, come ho fatto io con i miei. Che bella coppia siamo, il duo faccia da poker. Ogni settimana qualche tragedia passa sui nostri tavoli autoptici, ma non l'ho mai visto piangere, né lui ha visto me farlo. Affrontiamo il nostro lavoro a contatto con la morte come due operai in una fabbrica. Yoshima finì di etichettare i barattoli con i campioni e si voltò per vedere se Maura fosse ancora in piedi alle sue spalle. «Aveva bisogno di qualcosa, dottoressa Isles?» le domandò e la sua voce, la sua espressione non lasciavano trapelare nulla di quello che era appena accaduto tra loro. Quello era Yoshima così come lo aveva sempre conosciuto, pacato ed efficiente, pronto a fornire assistenza. Lei rispose nello stesso modo. Estrasse le radiografie dalla busta che aveva portato con sé e appese quelle di Nikki Wells allo schermo luminoso. «Spero ti ricordi di questo caso», disse accendendo la luce. «Risale a cinque anni fa. È accaduto a Fitchburg.» «Come si chiama?» «Nikki Wells.» Yoshima osservò accigliato la radiografia e subito focalizzò l'attenzione sulla serie di ossa fetali poste sopra la pelvi della madre. «È la donna incinta uccisa con la sorella?» «Allora te ne ricordi.» «Entrambi i corpi sono stati bruciati?» «Esatto.» «Me ne ricordo. Era un caso del dottor Hobart.» «Non l'ho mai conosciuto.» «No, non avrebbe potuto. Se n'è andato circa due anni prima che lei arrivasse da noi.» «Dove lavora adesso? Gli vorrei parlare.» «Be', sarà difficile. È morto.» Lei lo guardò accigliata. «Che cosa?»
Yoshima scosse tristemente il capo. «È stata dura per il dottor Tierney. Si sentiva responsabile, anche se non aveva scelta.» «Che cos'è successo?» «Ci sono stati... dei problemi col dottor Hobart. Prima ha perso alcuni vetrini, poi ha messo nel posto sbagliato alcuni organi e la famiglia lo ha scoperto. Hanno fatto causa al nostro ufficio. È venuto fuori un gran casino, un sacco di cattiva pubblicità, ma il dottor Tierney è stato dalla sua parte. Poi però sono scomparsi dei farmaci da una busta di effetti personali e non ha avuto scelta. Ha chiesto al dottor Hobart di rassegnare le dimissioni.» «E poi?» «Il dottor Hobart è andato a casa e ha inghiottito una manciata di Oxycontin. Per tre giorni non hanno avuto sue notizie.» Yoshima tacque, poi aggiunse: «Quell'autopsia, nessuno, qui, voleva farla». «Sono stati sollevati dubbi sulla sua competenza?» «Potrebbe aver commesso qualche errore.» «Di natura grave?» «Non capisco bene quello che intende.» «Mi chiedo se gli sia sfuggito questo», rispose lei indicando la radiografia, il nitido frammento incluso nell'osso pubico. «Nel verbale di Nikki Wells non spiega questa opacità metallica qui.» «Ci sono altre ombre metalliche in quella radiografia», osservò Yoshima. «Vedo un gancio di reggiseno qui. E questo sembra un fermaglio.» «Sì, ma guarda la radiografia laterale. Questo frammento metallico è nell'osso, non sopra. Il dottor Hobart non ti ha detto niente al riguardo?» «Non che me ne ricordi. Non c'è niente nel verbale?» «No.» «Allora lo avrà ritenuto irrilevante.» Il che significa che probabilmente non è stato preso in esame durante il processo di Amalthea, pensò Maura. Yoshima tornò alle sue mansioni: sistemare secchi e bacinelle, riordinare le carte sul portablocco. Anche se una donna giaceva morta a pochi metri di distanza soltanto, l'attenzione di Maura non era rivolta al nuovo cadavere, ma alla radiografia di Nikki Wells e del suo feto, le cui ossa erano state fuse insieme dal fuoco a formare un unico ammasso carbonizzato. Perché li hai bruciati? Qual era lo scopo? Amalthea aveva provato piacere nel vedere le fiamme che li consumavano? O invece sperava che le fiamme consumassero qualcos'altro, una traccia che non voleva fosse sco-
perta? L'attenzione di Maura si spostò dall'arco del cranio fetale al frammento nitido incluso nel pube di Nikki. Un frammento sottile come... Il filo di un coltello. Il pezzetto rotto di una lama. Ma Nikki era stata uccisa con un colpo alla testa. Perché usare un coltello su una vittima a cui hai appena fracassato la faccia con un piede di porco? Maura fissò il frammento metallico e d'un tratto capì la sua importanza. Sentì un brivido lungo la schiena. Si avvicinò al telefono e premette il tasto dell'interfono. «Louise?» «Sì, dottoressa Isles?» «Mi può mettere in contatto con il dottor Daljeet Singh? Dell'ufficio del coroner di Augusta, nel Maine.» «Attenda.» Un attimo dopo Louise annunciò: «Ho il dottor Singh in linea». «Daljeet?» esclamò Maura. «Non mi sono dimenticato della cena che ti devo!» rispose lui. «Potrei essere io a doverti una cena, se riesci a rispondere a una domanda.» «Di che si tratta?» «Quei resti scheletrici che abbiamo riesumato a Fox Harbor. Li hai già identificati?» «No, ci potrebbe volere un po'. Non ci sono denunce di persone scomparse né nella contea di Waldo né in quella di Hancock che siano compatibili con i resti. O sono ossa molto vecchie o non si tratta di persone del luogo.» «Hai già verificato l'NCIC?» domandò Maura. Il National Crime Information Center, gestito dall'FBI, conteneva un database consultabile dei casi di persone scomparse in tutto il Paese.» «Sì, ma dato che non posso circoscrivere la ricerca a un decennio specifico, ho ottenuto pagine e pagine di nomi. Tutto quello che di documentato esiste nell'area del New England.» «Forse ti posso aiutare a restringere i parametri di ricerca.» «Come?» «Richiedi solo i casi di persone scomparse tra il 1955 e il 1965.» «Posso sapere come sei arrivata a quel decennio particolare?» Perché in quel periodo mia madre viveva a Fox Harbor, pensò. Mia madre che ha ucciso altre persone. Ma tutto quello che disse fu: «È un'ipotesi fondata».
«Sei molto misteriosa.» «Ti spiegherò quando ci vedremo.» Per una volta Rizzoli lasciò guidare Maura, ma solo perché erano nella sua Lexus, dirette a nord verso l'autostrada del Maine. Nella notte una perturbazione era arrivata da ovest e Maura si era svegliata col rumore della pioggia che batteva sul tetto. Aveva preparato il caffè e letto il giornale. Aveva fatto in sostanza tutte le cose che faceva di solito in una mattina normale. Con che velocità riprendevi le vecchie abitudini, anche quando avevi paura. La sera prima non si era fermata in un motel, ma era tornata a casa. Aveva chiuso a chiave tutte le porte e lasciato la luce del portico accesa, esigua difesa contro i pericoli della notte, eppure era riuscita a dormire nonostante la furia della tempesta e si era svegliata con la sensazione di aver riacquistato il controllo della sua vita. Ne ho abbastanza di vivere nella paura, pensò. Non mi lascerò scacciare di nuovo da casa mia. Ora, mentre lei e Rizzoli si dirigevano verso il Maine dove incombevano nubi ancor più nere, cariche di pioggia, si sentiva pronta a reagire, pronta a invertire i ruoli. Chiunque tu sia, ti inseguirò e ti stanerò. Anch'io posso trasformarmi in cacciatrice. Erano le due del pomeriggio quando arrivarono all'ufficio del coroner di Augusta. Il dottor Daljeet Singh le accolse nella reception e le condusse di sotto, nella sala autopsie, dove due scatole di ossa attendevano su un bancone. «Questo caso non è stato la mia priorità assoluta», ammise mentre stendeva un foglio di plastica che si posò con un lieve fruscio sul tavolo d'acciaio, come un paracadute di seta. «Erano probabilmente sepolte da decenni e qualche giorno in più non avrebbe fatto molta differenza.» «Hai ricevuto i risultati della nuova ricerca dell'NCIC?» chiese Maura. «Stamattina. Ho stampato l'elenco di nomi. È su quel tavolo laggiù.» «Radiografie dentali?» «Ho scaricato i file che mi hanno spedito per e-mail. Non ho ancora avuto modo di guardarli. Pensavo di aspettare che arrivaste.» Aprì la prima scatola di cartone e iniziò a estrarre le ossa, posandole delicatamente sul telo di plastica. Emersero un cranio con le ossa infossate, un bacino sporco di terra, alcune ossa lunghe e una robusta colonna vertebrale. Un fascio di costole, che tintinnarono come campane a vento di bambù. Per il resto la
sala autopsie di Daljeet era silenziosa, spoglia e bene illuminata come quella di Maura a Boston. Un bravo patologo è di per sé un perfezionista, e Singh stava rivelando proprio quell'aspetto della sua personalità. Sembrava danzare attorno al tavolo, muovendosi con grazia quasi femminile mentre disponeva le ossa nella loro posizione anatomica. «Questo chi è dei due?» domandò Maura. «Il maschio», rispose lui. «La lunghezza del femore indica che era alto tra il metro e settantotto e il metro e ottantadue. C'è una chiara frattura da schiacciamento dell'osso temporale destro. Inoltre, c'è una vecchia frattura di Colles, ben consolidata.» Lanciando un'occhiata a Rizzoli, che aveva un'aria perplessa, spiegò: «È una frattura del polso». «Perché voi medici lo fate?» «Che cosa?» «Usare nomi strani. Perché non la chiamate semplicemente frattura del polso?» Daljeet sorrise. «Ad alcune domande non è semplice rispondere, detective Rizzoli.» Lei guardò le ossa. «Che cos'altro sappiamo di lui?» «Non ci sono alterazioni osteoporotiche o artritiche evidenti della colonna vertebrale. Era un giovane maschio adulto, bianco. Qui ci sono segni di terapie dentistiche: otturazioni in amalgama d'argento, denti diciotto e diciannove.» Rizzoli indicò l'osso temporale infossato. «Quella è la causa della morte?» «Sicuramente lo possiamo definire un colpo letale», rispose Singh che si voltò e guardò la seconda scatola. «Adesso passiamo alla femmina. È stata trovata a una ventina di metri di distanza.» Stese un altro telo di plastica sul secondo tavolo autoptico e, insieme a Maura, dispose la seconda serie di resti ossei in base alle loro posizioni anatomiche. Sembravano due camerieri intenti ad apparecchiare un tavolo per cena. Le ossa tintinnarono sul tavolo: il bacino incrostato di terra, un altro cranio, più piccolo, con creste sovraorbitarie meno pronunciate rispetto a quelle dell'uomo, le ossa degli arti inferiori e superiori, lo sterno. Un fascio di costole e due sacchetti di carta contenenti ossa carpali e tarsali sparse. «Così questa è la nostra Jane Doe», affermò Daljeet controllando la disposizione finale. «Qui non vi so dire la causa della morte perché non c'è niente su cui basarsi. Sembra giovane, anche lei bianca. Dai venti ai venti-
cinque anni, alta circa un metro e sessanta. Non ci sono vecchie fratture e la dentatura è in ottime condizioni. Qui, sul canino, c'è una piccola scheggiatura, e una corona in lega aurea sul numero quattro.» Maura guardò lo schermo luminoso dov'erano appese due radiografie. «Sono le loro radiografie dentali?» «L'uomo a destra e la donna a sinistra.» Daljeet si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani sporche di terra, poi estrasse una salvietta di carta dal distributore. «Così ora avete i vostri John e Jane Doe.» Rizzoli prese la stampata dei nomi che l'NCIC aveva spedito per e-mail a Daljeet quel mattino. «Gesù, qui ci sono decine di nominativi. Così tante persone scomparse.» «E sono solo quelle della regione del New England. Bianchi di età compresa tra i venti e i quarantacinque anni.» «Tutte le segnalazioni riguardano il periodo tra gli anni '50 e gli anni '60.» «Il lasso temporale che Maura mi ha indicato.» Daljeet si avvicinò al suo laptop. «Bene, diamo un'occhiata ad alcune delle radiografie che hanno mandato.» Aprì un file che gli era stato spedito per posta elettronica dall'NCIC: apparve una serie di icone, ognuna denominata con il numero di un caso. Cliccò sulla prima e l'intero schermo fu occupato da una radiografia: una fila di denti storti simili a tessere bianche del domino che qualcuno aveva urtato. «Be', questo non è certamente uno dei nostri», osservò. «Guardate i denti! Un incubo per un ortodontista.» «O una miniera d'oro», commentò Rizzoli. Daljeet chiuse l'immagine e cliccò sull'icona seguente. Un'altra radiografia, stavolta con un considerevole diastema tra gli incisivi. «Niente da fare», disse. L'attenzione di Maura tornò al tavolo, alle ossa della donna senza nome. Fissò il cranio con la sottile arcata sopraccigliare e il delicato arco zigomatico. Un viso di proporzioni aggraziate. «Bene, eccoci», sentì affermare Daljeet. «Credo di riconoscere questi denti.» Maura si voltò, guardò lo schermo del computer e vide una radiografia dei molari inferiori dove brillavano nitide due otturazioni. Daljeet si alzò e andò al tavolo dove si trovava lo scheletro maschile. Prese la mandibola e l'avvicinò al computer per confrontarla. «Otturazioni in amalgama dei denti diciotto e diciannove», osservò.
«Sì, sì, corrisponde...» «Qual è il nome indicato sulla radiografia?» chiese Rizzoli. «Robert Sadler.» «Sadler... Sadler...» Rizzoli sfogliò le pagine della stampata. «Okay, l'ho trovato. Sadler, Robert. Maschio bianco, età ventinove anni. Altezza uno e settantotto, capelli castani, occhi castani.» Guardò Daljeet che annuì. «È compatibile con i nostri resti.» Rizzoli continuò a leggere. «Era un imprenditore edile. Visto l'ultima volta nella sua cittadina natale di Kennebunkport, nel Maine. La sua scomparsa è stata denunciata il 30 luglio 1960 insieme a quella di sua...» Tacque per un istante e si voltò a guardare il tavolo dove erano disposte le ossa femminili. «Insieme a quella di sua moglie.» «Come si chiamava?» domandò Maura. «Karen. Karen Sadler. Ho il numero del caso.» «Me lo dia», affermò Daljeet tornando al computer. «Vediamo se ci sono le sue radiografie.» Maura gli rimase vicino e guardò da dietro la sua spalla mentre cliccava sull'icona e un'immagine appariva sullo schermo. Era una radiografia effettuata quando Karen Sadler era viva, seduta sulla poltrona del dentista. In ansia, forse, all'idea di avere una carie e di doversi sottoporre inevitabilmente al trapano. Non avrebbe mai potuto immaginare, mentre mordeva l'aletta di cartone per tenere ferma la pellicola non impressionata, che la stessa immagine che il dentista avrebbe colto quel giorno sarebbe finita anni dopo sul monitor di un patologo. Maura vide una fila di molari e l'intenso bagliore metallico di una corona. Si avvicinò allo schermo luminoso a cui Daljeet aveva appeso la panoramica dei denti della sconosciuta che lui stesso aveva effettuato. «È lei. Queste ossa sono di Karen Sadler.» «Quindi abbiamo una duplice identificazione», commentò Daljeet. «Marito e moglie.» Alle loro spalle Rizzoli sfogliò la stampata in cerca della denuncia della scomparsa di Karen. «Okay, eccola. Femmina bianca, età venticinque anni. Capelli biondi, occhi azzurri.» D'un tratto s'interruppe. «Qui c'è qualcosa che non va. Sarebbe bene che ricontrollaste le radiografie.» «Perché?» chiese Maura. «Ricontrollatele.» Maura studiò la panoramica, poi si voltò a guardare lo schermo del computer. «Corrispondono, Jane. Qual è il problema?» «Vi è sfuggita un'altra serie di ossa.»
«Quali ossa?» «Quelle di un feto.» Rizzoli la guardò con un'espressione sbalordita sul volto. «Karen Sadler era all'ottavo mese di gravidanza.» Ci fu un lungo silenzio. «Non abbiamo trovato altri resti», affermò Daljeet. «Potreste non averli notati», osservò Rizzoli. «Abbiamo setacciato il terreno, scavato con cura l'area di sepoltura.» «I saprofagi potrebbero averle sparpagliate in giro.» «Sì, è sempre possibile. Ma questa è Karen Sadler.» Maura andò al tavolo e fissò la pelvi della donna pensando alle ossa di un'altra donna, raffigurate su una radiografia appesa a uno schermo. «Daljeet, mi puoi dare un pulisciorecchie bagnato o una garza? Qualcosa per togliere questa terra.» Lui riempì una bacinella d'acqua e aprì una confezione di pulisciorecchie, che posò sul carrello accanto a Maura. «Che cosa cerchi?» Lei non rispose. Era tutta assorta a rimuovere con delicatezza lo strato di terra e a rivelare ciò che si nascondeva sotto di esso. A mano a mano che la crosta si scioglieva, sentì il polso accelerare. Poi l'ultimo frammento di terra si staccò e Maura esaminò quanto era emerso alla lente d'ingrandimento. Raddrizzandosi, guardò Daljeet. «Che cos'è?» «Da' un'occhiata. È proprio sul margine, dove le ossa si articolano.» Singh si chinò a guardare con la lente. «Vuoi dire quella piccola tacca? È di questo che parli?» «Sì.» «È molto lieve.» «Ma c'è.» Maura fece un profondo respiro. «Ho portato una radiografia. È in macchina. Penso che tu la debba vedere.» Quando uscì nel parcheggio, la pioggia colpì con violenza il suo ombrello. Mentre premeva il tasto APRI sul telecomando, non poté fare a meno di guardare i graffi sulla portiera del passeggero. Il segno di un artiglio mirato a spaventarla. Tutto questo mi ha solo fatto arrabbiare. Ora sono pronta a combattere. Prese la busta dal sedile posteriore e la mise sotto l'impermeabile per ripararla mentre la portava nell'edificio. Daljeet assunse un'espressione perplessa quando la vide appendere le radiografie di Nikki Wells allo schermo luminoso. «Di quale caso si tratta?» «Un omicidio avvenuto cinque anni fa a Fitchburg, nel Massachusetts. Il
cranio della vittima è stato fracassato e il suo corpo bruciato in un secondo tempo.» Singh si accigliò guardando le radiografie. «Donna gravida. Il feto sembra quasi a termine.» «Ma è stato questo ad attirare la mia attenzione», disse Maura indicando il frammento brillante incluso nella sinfisi pubica di Nikki Wells. «Secondo me si tratta del filo spezzato della lama di un coltello.» «Ma Nikki Wells è stata uccisa con una leva per pneumatici», disse Rizzoli. «Le hanno fracassato il cranio.» «Esatto», confermò Maura. «Allora perché usare anche un coltello?» Maura indicò la radiografia, le ossa fetali raggomitolate sul bacino di Nikki. «Ecco perché. Questo è quello che l'assassino voleva veramente.» Per qualche istante Daljeet non parlò, ma lei sapeva, nonostante il suo silenzio, che aveva capito ciò che intendeva. Singh si voltò verso i resti di Karen Sadler e prese la pelvi. «Un'incisione lungo la linea mediana, nell'addome», disse. «La lama ha colpito l'osso proprio dove si trova questa tacca...» Maura pensò al coltello di Amalthea che tagliava il ventre di una giovane con tanta decisione che la lama si era fermata solo quando aveva cozzato contro l'osso. Pensò alla sua professione, in cui i coltelli avevano un ruolo così importante e ai giorni che aveva passato in sala autopsie a tagliare cute e organi. Tutte e due tagliamo, mia madre e io. Ma io taglio carne morta, lei persone vive. «Per questo non avete trovato ossa fetali nella tomba di Karen Sadler», spiegò Maura. «Ma nel vostro caso...» disse lui indicando le radiografie di Nikki Wells. «Il feto non è stato preso. È stato bruciato insieme alla madre. Perché praticare un'incisione per estrarlo e poi ucciderlo lo stesso?» «Perché il bambino di Nikki Wells aveva una malformazione congenita. Una banda amniotica.» «Che cos'è?» domandò Rizzoli. «È un cordone membranoso talvolta presente nel sacco amniotico», spiegò Maura. «Se si avvolge attorno a un arto del feto, può restringere il flusso sanguigno e persino amputarlo. Il difetto era stato diagnosticato al secondo trimestre.» Indicando la radiografia, aggiunse: «Vedi, il feto non ha la gamba destra, al di sotto del ginocchio». «È letale?»
«No, assolutamente; il bambino sarebbe sopravvissuto, ma l'omicida deve aver visto subito la malformazione. Si è reso conto subito che non era un bambino perfetto. Credo sia per questo che non l'ha preso.» Maura si voltò, guardò Rizzoli e non poté fare a meno di pensare alla sua gravidanza: al ventre grosso, al rossore delle sue guance causato dagli estrogeni. «Lei voleva un bambino perfetto.» «Ma nemmeno il bambino di Karen Sadler lo era», osservò Rizzoli. «Karen era solo all'ottavo mese di gravidanza. I polmoni non erano maturi, giusto? Avrebbe avuto bisogno di un'incubatrice per sopravvivere.» Maura guardò le ossa di Karen Sadler e pensò al luogo in cui erano state recuperate. Pensò anche alle ossa del marito, sepolte a venti metri di distanza, non nella stessa fossa, in un posto separato. Perché scavare due buche distinte? Perché non seppellire marito e moglie? All'improvviso la bocca le si seccò. La risposta l'aveva lasciata sbigottita. Non sono stati sepolti nello stesso momento. 21 Il cottage se ne stava rannicchiato sotto i rami carichi di pioggia, quasi volesse evitare il loro tocco. Quando Maura lo aveva visto la settimana precedente, l'aveva giudicato deprimente, una piccola scatola scura strangolata dal bosco invadente. Adesso, mentre lo fissava dalla macchina, le finestre sembravano ricambiare il suo sguardo come occhi malevoli. «Questa è la casa in cui è cresciuta Amalthea», disse. «Non credo che Anna abbia avuto difficoltà a scoprirlo. Le sarà bastato consultare i documenti della scuola superiore di Amalthea o cercare il cognome Lank su un vecchio elenco telefonico.» Guardando Rizzoli, aggiunse: «La proprietaria, la signorina Clausen, mi ha detto che Anna le aveva chiesto di affittare proprio questa casa». «Quindi Anna sapeva presumibilmente che Amalthea era vissuta qui.» E come me era desiderosa di sapere di più di nostra madre, pensò Maura. Di capire la donna che ci aveva messe al mondo per poi abbandonarci. La pioggia scrosciava sul tetto dell'auto e scivolava sul parabrezza formando una cascata argentea. Rizzoli si chiuse la lampo dell'impermeabile di gomma e si mise il cappuccio in testa. «Be', allora andiamo a dare un'occhiata.» Corsero sotto la pioggia e salirono in fretta i gradini del portico dove si
scrollarono l'acqua di dosso. Maura estrasse la chiave che poco prima aveva preso nell'ufficio della signorina Clausen e la infilò nella serratura. All'inizio non girò, come se la casa opponesse resistenza, decisa a non lasciarla entrare. Quando infine riuscì ad aprire la porta, questa spalancandosi emise un cigolio di avvertimento, quasi per impedirle fino all'ultimo di procedere. Dentro era ancora più tetra e claustrofobica di quanto non ricordasse. L'aria era acre, pregna dell'odore di muffa, come se l'umidità esterna fosse penetrata attraverso le pareti fino nelle tende, nei mobili. La luce che filtrava dalla finestra creava cupe ombre grigie nel soggiorno. Questa casa non ci vuole, pensò. Non vuole che scopriamo i suoi segreti. Maura toccò il braccio di Rizzoli. «Guarda», disse indicando i due chiavistelli e le catenelle di ottone. «Sono nuovi di zecca.» «Li ha fatti istallare Anna. È una cosa che fa pensare, vero? Chi voleva tenere lontano?» «Forse Charles Cassell.» Rizzoli attraversò il soggiorno diretta alla finestra e guardò fuori il muro di foglie gocciolanti di pioggia. «Be', questo posto è terribilmente isolato. Niente vicini, solo alberi. Anch'io metterei qualche serratura in più», rispose con una risata nervosa. «Sai, non mi è mai piaciuto stare in mezzo ai boschi. Una volta, alle superiori, sono andata in campeggio con alcuni compagni. Abbiamo raggiunto il New Hampshire e abbiamo messo i sacchi a pelo attorno al fuoco. Non ho chiuso occhio. Continuavo a pensare: chissà che cosa c'è là fuori che mi guarda? Appollaiato sugli alberi o nascosto tra i cespugli.» «Vieni», disse Maura. «Voglio mostrarti il resto della casa.» La portò in cucina e accese l'interruttore a muro. Le lampade al neon si accesero con un ronzio sinistro. La luce intensa mise in rilevo ogni crepa, ogni gobba del vecchio linoleum. Guardò il disegno a scacchi in bianco e nero, ingiallito per l'usura, e pensò a tutto il latte versato e a tutto il fango portato dentro casa che negli anni avevano lasciato tracce microscopiche su quel pavimento. Che cos'altro si era infilato tra le sue crepe e le sue giunzioni? Quali spaventosi fatti vi avevano lasciato un segno? «Anche questi chiavistelli sono nuovi di zecca», disse Rizzoli in piedi davanti alla porta posteriore. Maura si avvicinò alla porta della cantina. «Questo è quello che volevo vedessi.» «Un altro chiavistello?»
«Vedi però com'è ossidato? Non è nuovo. Questo chiavistello è qui da molto tempo. La signorina Clausen dice che c'era già quando ha comprato la proprietà a un'asta ventotto anni fa. E questa è la cosa strana.» «L'unico posto dove conduce la porta è la cantina.» Guardò Rizzoli e aggiunse: «Non ci sono altre uscite». «Perché allora metterci un chiavistello?» «È quello che mi sono chiesta.» Rizzoli aprì la porta e dal buio si levò un odore di terra umida. «Oh, accidenti», borbottò. «Odio le cantine.» «La catenella della lampada è proprio sopra la tua testa.» Rizzoli sollevò la mano e la tirò. La lampadina si accese gettando la sua luce anemica sulla stretta scala. Sotto c'erano solo ombre. «Sei sicura che la cantina non abbia altri accessi?» domandò scrutando il buio. «Uno sportello per il carbone o qualcosa del genere?» «Ho ispezionato l'intero perimetro della casa. Non ho visto altre porte che conducessero alla cantina.» «Sei scesa qui sotto?» «Non ne vedevo il motivo.» Fino a oggi. «Bene.» Rizzoli estrasse una mini Maglite dalla tasca e fece un profondo respiro. «Credo che dovremmo dare un'occhiata.» La lampadina dondolava sopra di loro, facendo di volta in volta avanzare o retrocedere le ombre mentre scendevano la scala scricchiolante. Rizzoli si muoveva con lentezza, come se volesse esaminare ogni gradino prima di caricarvi peso. Mai prima di allora Maura l'aveva vista tanto esitante, tanto cauta, e l'apprensione di Jane non fece che aumentare la sua. Quando giunsero in fondo alla scala, la porta della cucina sembrava lontana sopra le loro teste, in un'altra dimensione. La lampadina ai piedi delle scale si era bruciata. Rizzoli ispezionò con la Maglite il pavimento di terra compatta, umida per l'acqua piovana che vi era filtrata. Il fascio evidenziò una pila di barattoli vuoti e un tappeto arrotolato che stava marcendo contro un muro. In un angolo c'era una cassa piena di ciocchi di legna per il caminetto del soggiorno. Lì dentro niente sembrava insolito, niente giustificava il senso di pericolo che Maura aveva avvertito in cima alle scale. «Be', hai ragione», disse Rizzoli. «Non sembrano esserci altre vie d'uscita.» «Solo la porta lassù, in cucina.» «Il che significa che il chiavistello non ha alcun senso. A meno che...» Il
fascio della torcia di Rizzoli si fermò d'un tratto sulla parete in fondo. «Che cos'è?» Rizzoli attraversò la cantina e rimase immobile a osservare. «Perché questo è stato messo qui? Per che cosa lo usavano?» Maura si avvicinò e, quando vide ciò che la Maglite di Rizzoli aveva illuminato, sentì un brivido lungo la schiena. Era un anello di ferro infisso in una delle grosse pietre della cantina. Per che cosa lo usavano? aveva chiesto Rizzoli. La risposta la fece arretrare, piena di ripugnanza per quanto le aveva evocato. Questa non è una cantina, è una prigione sotterranea. La torcia di Rizzoli puntò d'un tratto verso l'alto. «C'è qualcuno in casa», sussurrò. Oltre al martellare del cuore nel petto, Maura udì il pavimento scricchiolare sopra le loro teste e alcuni passi pesanti avanzare in casa. Avvicinarsi alla cucina. Una sagoma si stagliò all'improvviso, incombente, sulla soglia e il fascio di luce che inondò il buio sottostante era tanto intenso che Maura, accecata, dovette girarsi. «Dottoressa Isles?» chiese un uomo. Maura socchiuse gli occhi nella luce. «Non riesco a vederla.» «Detective Yates. È appena arrivata anche la Scientifica. Ci vuol mostrare la casa prima che iniziamo?» Maura espirò bruscamente. «Saliamo.» Quando Maura e Rizzoli emersero dalla cantina, c'erano quattro uomini in cucina. Maura aveva conosciuto Corso e Yates, i detective dello Stato del Maine, nella radura in mezzo al bosco. A loro si erano uniti due tecnici della Scientifica, che si presentarono semplicemente come Pete e Gary. Si fermarono tutti per qualche istante a stringersi la mano. «Allora è una specie di caccia al tesoro?» disse Yates. «Non abbiamo garanzie di trovare qualcosa», rispose Maura. Entrambi i tecnici della Scientifica si stavano già guardando attorno, l'attenzione rivolta al pavimento. «Questo linoleum ha l'aria piuttosto logora», commentò Pete. «Di che periodo stiamo parlando?» «I Sadler sono scomparsi quarantacinque anni fa. Il sospetto viveva ancora qui, con sua cugina. Quando se ne andarono, la casa rimase vuota per anni prima di finire all'asta.» «Quarantacinque anni fa? Sì, il linoleum potrebbe avere quell'età.» «So che il tappeto del salotto è più recente, risale a una ventina d'anni fa», affermò Maura. «Dovremmo toglierlo per controllare il pavimento.»
«Non abbiamo mai provato su materiali più vecchi di quindici anni. Segneremo un nuovo record.» Pete guardò la finestra della cucina. «Non farà buio prima di un paio d'ore.» «Allora iniziamo dalla cantina», propose Maura. «Laggiù è già abbastanza buio.» Diedero tutti una mano per scaricare le attrezzature dal furgone: videocamere e macchine fotografie con treppiedi, scatole con indumenti protettivi, nebulizzatori e acqua distillata, un frigo portatile contenente flaconi di sostanze chimiche, cavi elettrici e torce. Portarono ogni cosa giù per la stretta scala fino in cantina, che con sei persone e tutti gli apparecchi sembrò improvvisamente angusta. Solo mezz'ora prima Maura aveva guardato quel lugubre spazio con un certo disagio; ora, mentre vedeva gli uomini montare treppiedi e srotolare cavi con fare professionale, la stanza perse il suo potere intimidatorio. È solo pietra umida e terra compatta, pensò. Qui sotto non ci sono fantasmi. «Non lo so», osservò Pete girando all'indietro la visiera del cappellino da baseball dei Sea Dogs. «Qui il pavimento è di terra. Avrà un contenuto ferroso elevato. Potrebbe risultare tutto luminescente. Sarà difficile da interpretare.» «Mi interessano di più le pareti», disse Maura. «Macchie, segni di schizzi.» Indicando il blocco di granito con l'anello di ferro, aggiunse: «Iniziamo da quello». «Prima di tutto dobbiamo scattare una foto di riferimento. Lasci che monti il treppiede. Detective Corso, può sistemare la riga su quel muro, laggiù? È luminescente e ci servirà da indicazione.» Maura guardò Rizzoli. «Dovresti salire al piano superiore, Jane. Inizieranno a miscelare il Luminol. È meglio se eviti qualunque contatto.» «Non credevo fosse così tossico.» «Faresti comunque bene a non correre rischi. Non con il bambino.» Rizzoli sospirò. «Sì, d'accordo.» Lentamente salì le scale. «Ma detesto perdermi lo spettacolo.» La porta della cantina si richiuse alle sue spalle. «Santo cielo, non dovrebbe già essere in maternità?» chiese Yates. «Ha ancora sei settimane», rispose Maura. Uno dei tecnici scoppiò a ridere. «Come la poliziotta di Fargo, eh? Come fai a inseguire un delinquente quando hai una pancia del genere?» Oltre la porta chiusa, Rizzoli urlò: «Ehi, posso anche avere una pancia del genere, ma non sono sorda!» «Ed è anche armata», aggiunse Maura.
«Possiamo iniziare?» chiese il detective Corso. «In quella scatola ci sono maschere e occhiali», affermò Pete. «Passatele in giro.» Corso porse una maschera e un paio di occhiali protettivi a Maura, che se li infilò e osservò Gary iniziare a dosare le sostanze chimiche. «Useremo il preparato di Weber», disse. «È un po' più sensibile e credo sia anche più sicuro da impiegare. Questa roba è piuttosto irritante per la pelle e gli occhi.» «Quelle che sta miscelando sono soluzioni madre?» domandò Maura con voce attutita dalla maschera. «Sì, le teniamo nel frigorifero del laboratorio e le misceliamo tutte e tre sul campo, insieme all'acqua distillata.» Chiuse il contenitore e lo agitò vigorosamente, poi chiese: «Qualcuno qui porta lenti a contatto?» «Io», rispose Yates. «È meglio che esca, detective. Anche con gli occhiali protettivi, sarà più sensibile.» «No, voglio assistere.» «Allora stia indietro quando iniziamo a spruzzare.» Diede un'ultima agitata al barattolo, poi versò il contenuto in un nebulizzatore. «Bene, siamo pronti. Lasciate solo che scatti una foto. Detective, si può allontanare da quel muro?» Corso si mise da parte e Pete premette il cavo dell'otturatore. Il flash scattò e la macchina catturò un'immagine del muro che di lì a poco avrebbero cosparso di Luminol. «Vuole che spenga le luci?» chiese Maura. «Lasciamo prima che Gary si metta in posizione. Quando è buio, rischiamo d'inciampare. Scegliete tutti un posto e rimanete lì, d'accordo? Solo Gary si muoverà.» Questi si avvicinò al muro e sollevò il nebulizzatore contenente il Luminol. Con occhiali e maschera sembrava un disinfestatore, pronto a colpire il primo scarafaggio reo d'essergli venuto a tiro. «Spenga le luci, dottoressa Isles.» Maura si allungò verso il riflettore che aveva a fianco e lo spense. La cantina piombò nell'oscurità più totale. «Procedi, Gary.» Udirono il sibilo del nebulizzatore e alcune macchioline blu-verdastre brillarono nel buio come stelle nel cielo notturno. Adesso era apparso un cerchio evanescente, che pareva fluttuare libero nell'oscurità: l'anello di ferro.
«Potrebbe non essere affatto sangue», disse Pete. «Il Luminol reagisce con un sacco di cose: ruggine, metallo, soluzioni decoloranti. Quell'anello di ferro brillerebbe comunque, che abbia o no tracce di sangue. Gary, puoi spostarti mentre scatto una foto? Uso un'esposizione di quaranta secondi, quindi state fermi.» Quando l'otturatore infine scattò, disse: «La luce, dottoressa Isles». Maura armeggiò al buio in cerca dell'interruttore del faro. Quando la luce si accese, aveva lo sguardo fisso sul muro di pietra. «Che ne pensi?» domandò Corso. Pete si strinse nelle spalle. «Niente di particolarmente interessante. Qui sotto avremo molti falsi positivi. C'è la terra che sporca tutte quelle pietre. Proveremo con gli altri muri, ma a meno di non trovare l'impronta di una mano o uno schizzo più rilevante, in questo ambiente non sarà facile identificare del sangue.» Maura notò che Corso stava guardando l'orologio. I due detective del Maine avevano fatto un bel tratto di strada e capiva che Corso stava iniziando a chiedersi se non fosse solo una perdita di tempo. «Continuiamo», disse. Pete spostò il treppiede e puntò l'obiettivo verso la parete vicina. Scattò una foto col flash poi disse: «Luce». Di nuovo l'ambiente piombò nel buio pesto. Il nebulizzatore sibilò e altre macchioline blu-verdastre apparvero magicamente come lucciole nel buio mentre il Luminol reagiva con i metalli ossidati nelle pietre, generando minuscoli puntini luminescenti. Gary lo spruzzò di nuovo ad arco sul muro e apparve un'altra fascia di stelle, che veniva via via eclissata dalla sua sagoma scura. Mentre si muoveva si udì un tonfo e la sagoma barcollò in avanti. «Merda.» «Tutto bene, Gary?» chiese Yates. «Ho battuto la tibia contro qualcosa. Contro le scale, credo. Non vedo un accidente in questa...» S'interruppe e poco dopo mormorò: «Ehi, ragazzi, guardate qui». Mentre si spostava di lato, apparve una chiazza verde-blu: sembrava fluttuare come una macchia spettrale di ectoplasma. «Che diavolo è?» domandò Corso. «Luce!» esclamò Pete. Maura accese la lampada e la macchia verde-blu sparì. Al suo posto vide solo la scala di legno che portava in cucina.
«Era su quel gradino lì», disse Gary. «Quando sono inciampato, sono finito in parte nel Luminol.» «Fammi spostare la macchina fotografica. Poi vorrei che andassi in cima alle scale. Se spegniamo le luci, pensi di riuscire a scenderle a tastoni?» «Non lo so. Se vado abbastanza lento...» «Spruzza i gradini mentre scendi.» «No. No. Inizierò dal basso e procederò verso l'alto. Non mi piace l'idea di scendere le scale al buio.» «Fa' come preferisci.» Il flash della macchina scattò. «Bene, Gary. Ho la foto. Quando vuoi tu.» «Sì. Può spegnere la luce, dottoressa.» Maura spense la lampada. Di nuovo udirono il sibilo del nebulizzatore che spargeva la fine nebbiolina di Luminol nell'aria. In prossimità del suolo comparve una chiazza verde-blu, poi sopra di essa un'altra. Sembravano pozzanghere spettrali. Sentivano Gary respirare affannosamente attraverso la maschera e il cigolio dei gradini mentre saliva le scale e continuava a spruzzare. Uno dopo l'altro i gradini si illuminarono, formando una cascata molto luminosa. Una cascata di sangue. Non poteva trattarsi d'altro, pensò Maura. Imbrattava ogni gradino e gocciolando aveva sporcato anche i lati della scala. «Gesù», mormorò Gary. «Quassù. Sul primo gradino, è persino più brillante. Sembra che provenga dalla cucina: che sia filtrato sotto la porta e gocciolato giù per le scale.» «Restate tutti dove siete. Faccio la foto. Quarantacinque secondi.» «Adesso fuori sarà abbastanza buio», affermò Corso. «Possiamo passare al resto della casa.» Rizzoli li stava aspettando in cucina quando emersero dalle scale con l'attrezzatura. «A quanto pare c'è stato gran spettacolo.» «Mi sa che tra poco vedremo ben di più.» «Da dove vuoi che inizi a spruzzare?» chiese Pete a Corso. «Esattamente da qui. Dalla zona di pavimento più vicina alla porta della cantina.» Stavolta Rizzoli non uscì dalla stanza quando spensero le luci. Arretrò e guardò da lontano mentre il Luminol veniva nebulizzato sul pavimento. D'un tratto ai loro piedi comparve una forma geometrica, una scacchiera verde-blu di sangue vecchio, intrappolato nel disegno ripetitivo del linoleum. Si estendeva anche su una superficie verticale formando ampie curve
e macchie, tracciando archi di minuscole goccioline. «Accendi la luce», disse Yates e Corso eseguì. Le macchie svanirono. Fissarono la parete della cucina che non brillava più d'azzurro e il linoleum consumato col suo disegno in bianco e nero. Non c'era niente di raccapricciante, solo una stanza col pavimento ingiallito e vecchi elettrodomestici, eppure solo un attimo prima, dovunque avessero guardato, avevano visto sangue a profusione. Maura fissò la parete con l'immagine di ciò che vi aveva appena visto impressa nella mente. «Era uno schizzo arterioso», disse piano. «Questa è la stanza dov'è successo. Qui sono morti.» «Ma avete visto del sangue anche in cantina.» «Sui gradini.» «Bene. Allora sappiamo che almeno una vittima è stata uccisa in questa stanza, dato che sulla parete laggiù c'è uno schizzo di sangue arterioso.» Rizzoli attraversò la cucina e i suoi riccioli ribelli le coprirono gli occhi mentre osservava con attenzione il pavimento. «Come sappiamo che non ci siano altre vittime? Come sappiamo che questo sangue sia dei Sadler?» «Non lo sappiamo.» Rizzoli si avvicinò alla cantina e aprì la porta. Rimase per un istante a scrutare la scala buia, poi si girò e guardò Maura. «La cantina ha un pavimento di terra.» Ci fu un istante di silenzio. «Abbiamo un GPR nel furgone. Lo abbiamo usato due giorni fa, in una fattoria dalle parti di Machias.» «Portatelo in casa», disse Rizzoli. «Diamo un'occhiata a quello che c'è sotto terra.» 22 Il GPR, o Ground Penetrating Radar, usa le onde elettromagnetiche per sondare il sottosuolo. L'apparecchio SIR System-2 che i tecnici scaricarono dal furgone aveva due antenne, una per inviare un impulso di energia elettromagnetica ad alta frequenza nel terreno, l'altra per misurare le onde riflesse da oggetti presenti sotto la superficie. I dati venivano visualizzati sullo schermo di un computer, che mostrava gli strati del sottosuolo sotto forma di livelli orizzontali sovrapposti. Mentre i tecnici trasportavano l'attrezzatura di sotto, Yates e Corso divisero il terreno in tratti di un metro per organizzare una griglia di analisi.
«Con tutta questa pioggia», osservò Pete mentre srotolava un cavo elettrico, «il suolo sarà piuttosto umido.» «Fa differenza?» chiese Maura. «La risposta del GPR varia a seconda del contenuto idrico del sottosuolo. Bisogna adattare conseguentemente la frequenza EM.» «Duecento megahertz?» chiese Gary. «Comincerei da lì. Non vorrei aumentarla, altrimenti diventa troppo dettagliato.» Pete collegò i cavi alla console contenuta nello zainetto e accese il laptop. «Avremo un bel po' di problemi qui, soprattutto con tutti gli alberi che ci sono attorno.» «Che cosa c'entrano gli alberi?» domandò Rizzoli. «La casa è stata costruita su un terreno boscoso. Là sotto ci saranno probabilmente un bel po' di cavità create dalle radici marcite. Confonderanno l'immagine.» «Aiutami a indossare lo zaino», disse Gary. «Che cosa devo fare? Regolare gli spallacci?» «No, quelli vanno bene.» Gary ispirò e si guardò attorno nella cantina. «Inizierò da quella parte.» Mentre passava il GPR sul pavimento di terra, il profilo del sottosuolo comparve sullo schermo del laptop sotto forma di strisce ondulate. Grazie alla sua formazione medica Maura aveva una buona familiarità con l'ecografia e la TC del corpo umano, ma non aveva la minima idea di come interpretare quelle onde sullo schermo. «Che cosa vede?» domandò a Gary. «Queste aree scure sono echi radar positivi. Gli echi negativi appaiono bianchi. Stiamo cercando qualsiasi cosa sia anomala: un riflesso iperbolico, per esempio.» «Che cos'è?» chiese Rizzoli. «Sembra una gobba, una sporgenza che solleva tutti gli strati, causata da qualcosa che è sepolto sotto terra e che disperde le onde radar in ogni direzione.» In quel momento si fermò e studiò lo schermo. «Okay, vedete qui? Abbiamo qualcosa a circa tre metri di profondità che emette un riflesso iperbolico.» «Che ne pensi?» chiese Yates. «Potrebbe essere soltanto la radice di un albero. Marchiamolo e proseguiamo.» Pete infilò un paletto nel terreno per contrassegnare il punto. Gary continuò procedendo su e giù lungo le linee della griglia mentre gli
echi radar formavano piccole onde sullo schermo del laptop. Di tanto in tanto si fermava e indicava di piantare un altro paletto per contrassegnare un punto che avrebbero ricontrollato alla seconda passata. Si era girato e stava tornando lungo la parte centrale della griglia quando d'un tratto si fermò. «Questo sì che è interessante», affermò. «Che cosa vedi?» chiese Yates. «Aspetta. Lasciami riesaminare la sezione.» Gary arretrò e passò il GPR sulla sezione appena analizzata. Avanzò a poco a poco con lo sguardo fisso sul laptop e di nuovo si fermò. «Qui c'è un'anomalia considerevole.» Yates gli si avvicinò. «Fammi vedere.» «È a meno di un metro di profondità. Qui c'è una grossa sacca, la vedi?» Gary indicò lo schermo dove una gobba deformava gli echi radar. Fissando il pavimento, disse: «Qui sotto c'è qualcosa e non è molto profondo». Guardò Yates e aggiunse: «Che vuoi fare?» «Abbiamo delle pale nel furgone?» «Sì, una. E anche un paio di palette.» Yates annuì. «D'accordo. Portiamo tutto quaggiù. E ci serviranno altre luci.» «Nel furgone c'è un altro riflettore. Più altre prolunghe.» «Vado a prenderle», disse Corso avviandosi su per le scale. «Le do una mano», affermò Maura, che lo seguì in cucina. Fuori la pioggia battente si era trasformata in un'acquerugiola. Rovistarono nel furgone della Scientifica, trovarono la vanga e altro materiale elettrico che Corso portò in casa. Maura chiuse il portello e stava per seguirlo con la cassetta dei piccoli attrezzi quando scorse due fari baluginare tra gli alberi. Rimase nel vialetto e osservò un pickup familiare risalire la strada e fermarsi accanto al furgone. Ne uscì la signorina Clausen con un enorme impermeabile di gomma che l'avvolgeva quasi come un mantello. «Pensavo aveste finito a quest'ora. Mi chiedevo perché non mi avesse riportato la chiave.» «Ci fermeremo per un po'.» La signorina Clausen scrutò i veicoli sul vialetto. «Ma non dovevate dare solo un'altra occhiata in giro? Che ci fa qui la Scientifica?» «Ci vorrà un po' di più di quel che pensavo. Potremmo restare per tutta la notte.» «Perché? I vestiti di sua sorella non sono nemmeno più qui. Li ho messi nelle scatole, così se li può portare a casa.»
«Non è per via di mia sorella, signorina Clausen. La polizia è qui per un'altra cosa. Una cosa che è successa molto tempo fa.» «Quanto tempo fa?» «Circa quarantacinque anni fa. Prima che comprasse la casa.» «Quarantacinque anni? L'epoca in cui...» La donna s'interruppe. «In cui che cosa?» Lo sguardo della signorina Clausen cadde d'un tratto sulla cassetta degli attrezzi per scavare che Maura teneva in mano. «A che servono le palette? Che state facendo in casa mia?» «La polizia sta ispezionando la cantina.» «Ispezionando? Vuol dire che stanno scavando là sotto?» «Potrebbero essere costretti a farlo.» «Non vi ho dato il permesso.» Si voltò e salì pesantemente sul portico con l'impermeabile che le faceva da strascico. Maura la seguì all'interno pedinandola fino in cucina, dove posò la cassetta degli attrezzi sul banco. «Aspetti. Non capisce...» «Non voglio che si butti per aria la mia cantina!» La signorina Clausen aprì la porta e lanciò un'occhiata torva al detective Yates che teneva in mano la pala. Aveva già iniziato a scavare e ai suoi piedi c'era una montagnola di terra. «Signorina Clausen, li lasci fare il loro lavoro», disse Maura. «Questa casa è mia», urlò la donna dalle scale. «Non potete scavare laggiù se non vi do il permesso!» «Signora, le promettiamo che, quando avremo finito, riempiremo il buco», affermò Corso. «Diamo solo un'occhiatina qui sotto.» «Perché?» «Il radar ha rilevato un considerevole riflesso.» «Che vuol dire, un riflesso? Che c'è là sotto?» «È quello che stanno cercando di scoprire, se solo li lasciasse continuare.» Maura portò via la donna e chiuse la porta. «Per favore, li lasci lavorare. Se si rifiuta, dovranno procurarsi un mandato.» «Prima di tutto, perché diavolo hanno deciso di scavare là dentro?» «Per via del sangue.» «Quale sangue?» «In questa cucina c'è sangue dappertutto.» La donna posò lo sguardo sul pavimento e scrutò il linoleum. «Io non ne vedo.»
«Non può vederlo. Per renderlo visibile ci vuole uno spray chimico. Ma mi creda, c'è. Tracce microscopiche sul pavimento e schizzi su quella parete. È passato sotto la porta della cantina e si è riversato giù per le scale. Qualcuno ha cercato di rimuoverlo lavando il pavimento, pulendo i muri, e forse ha creduto d'esserci riuscito, ma il sangue c'è ancora. È filtrato nelle crepe, nelle spaccature del legno. Resta per anni e anni e non si riesce a toglierlo. È rimasto intrappolato in questa casa, nelle pareti stesse.» La signorina Clausen si girò e la guardò. «Di chi è il sangue?» chiese piano. «È questo che la polizia vorrebbe sapere.» «Non crederà che abbia a che fare con...» «No. Pensiamo che il sangue sia molto vecchio. Probabilmente c'era già quando ha comprato la casa.» La donna aveva l'aria stordita quando si accasciò su una sedia davanti al tavolo di cucina. Il cappuccio dell'impermeabile le era scivolato dalla testa rivelando una cresta di capelli grigi e irsuti, simili agli aculei del porcospino. Seduta scomposta con quell'enorme impermeabile addosso sembrava persino più piccola, più vecchia. Una donna nella sua tomba che già si stava rimpicciolendo. «Adesso nessuno vorrà più comprare questa casa», mormorò. «Non quando lo sapranno. Non riuscirò a vendere questa maledetta casa.» Maura le si sedette di fronte. «Perché mia sorella le ha chiesto di affittare questa casa? Glielo ha detto?» Nessuna risposta. La signorina Clausen stava ancora scuotendo la testa con aria sbalordita. «Lei ha detto che Anna ha visto il cartello IN VENDITA lungo la strada e l'ha chiamata in agenzia.» Finalmente vide un cenno. «Così, all'improvviso.» «Che cosa le ha detto?» «Voleva maggiori informazioni sulla proprietà: chi ci viveva, chi la possedeva prima di me. Ha detto che stava cercando una casa in zona.» «Le ha raccontato dei Lank?» La signorina Clausen s'irrigidì. «Li conosce?» «So che un tempo possedevano questa casa. Erano padre e figlio. C'era anche la nipote dell'uomo, una bambina di nome Amalthea. Mia sorella le ha chiesto anche di loro?» La donna inspirò. «Voleva sapere e io la capisco. Se hai in mente di comprare una casa, vuoi sapere chi l'ha costruita, chi ci viveva.» Guardò
Maura. «Questa faccenda riguarda loro, non è vero? I Lank.» «Lei è cresciuta in questa cittadina?» «Sì.» «Allora avrà conosciuto la famiglia Lank.» La signorina Clausen non rispose subito. Si alzò in piedi e si tolse l'impermeabile. Poi con tutta calma lo appese a uno dei ganci accanto alla porta della cucina. «Era nella mia classe», disse dando sempre le spalle a Maura. «Chi?» «Elijah Lank. Non conoscevo molto bene sua cugina, Amalthea, perché aveva cinque anni meno di noi, era solo una bambina, ma conoscevamo tutti Elijah.» La sua voce si era ridotta quasi a un sussurro, come se fosse riluttante a pronunciare quel nome a voce alta. «Lo conosceva bene?» «Quanto bastava.» «Non mi sembra le piacesse molto.» La signorina Clausen si girò e la guardò. «È difficile che ti piaccia una persona che ti spaventa a morte.» Oltre la porta della cantina sentivano i colpi sordi della pala che si conficcava nel suolo, che scavava più a fondo nei segreti della casa. Una casa che, perfino ad anni di distanza, era ancora una silenziosa testimone di eventi spaventosi. «Questa era una piccola cittadina, dottoressa Isles. Non come adesso, con tutte queste persone che vengono da lontano e si comprano una casa per l'estate. Allora c'erano solo i locali, perciò conoscevi tutti per forza. Sapevi quali famiglie erano a posto e da quali girare al largo. Per quel che riguardava Elijah Lank, l'ho capito a quattordici anni: lui era uno dei ragazzi da cui girare maledettamente al largo.» La donna tornò al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia come se fosse esausta. Fissò la superficie di formica, quasi osservasse la sua immagine riflessa in una pozza. La sua immagine di quattordicenne, spaventata dal ragazzo che viveva su quella collina. Maura attese con lo sguardo fisso su quella testa china dai capelli grigi e ispidi, tagliati a spazzola. «Perché le faceva paura?» «Non ero l'unica. Elijah faceva paura a tutti. Dopo...» «Dopo che cosa?» La signorina Clausen sollevò lo sguardo. «Dopo che ha sepolto viva quella ragazza.»
Nel silenzio che seguì Maura udì un bisbigliare di voci maschili mentre i detective scavavano più in profondità nella cantina, e il battito del suo cuore contro le costole. Che cosa troveranno là sotto? «Era arrivata da poco in città», disse la signorina Clausen. «Alice Rose. Le altre ragazze si sedevano dietro di lei e facevano commenti. Facevano battute. Ad Alice potevi dire qualsiasi cattiveria e farla franca perché non ti sentiva. Non capiva mai che ci prendevamo gioco di lei. So che eravamo crudeli, ma sono cose che una ragazza fa a quattordici anni, prima che impari a mettersi nei panni altrui, prima che provi di persona che significa.» Britta Clausen emise un sospiro pieno di rimpianto per le trasgressioni adolescenziali e per tutte le lezioni apprese troppo tardi. «Che cos'è successo ad Alice?» «Elijah ha detto che era solo uno scherzo. Che aveva sempre pensato di tirarla fuori dopo qualche ora. Ma riesce a immaginare che significa: essere intrappolata in un buco? Terrorizzata al punto da fartela addosso? E nessuno sente le tue urla. Nessuno sa dove sei tranne il ragazzo che ti ha messo lì dentro.» Maura attese in silenzio, atterrita all'idea di sentire la fine della storia. La signorina Clausen vide l'ansia nel suo sguardo e scosse la testa. «Oh, Alice non è morta. L'ha salvata il cane. Lui sapeva dove fosse. Ha continuato ad abbaiare come un matto e ha richiamato la gente.» «Allora è sopravvissuta.» La donna annuì. «L'hanno trovata quella sera stessa, tardi. Era nel buco da ore. Quando l'hanno tirata fuori, non parlava quasi. Era come uno zombi. Poche settimane dopo la sua famiglia si è trasferita. Non so dove siano andati.» «Cos'è successo a Elijah?» La signorina Clausen si strinse nelle spalle. «Lei che cosa pensa gli sia successo? Ha continuato a ripetere che era stato solo uno scherzo, come quelli che tutti facevamo sempre ad Alice a scuola. Ed è vero, tutti la tormentavamo. Le abbiamo reso la vita impossibile. Ma Elijah è andato oltre.» «Non è stato punito?» «Quando hai solo quattordici anni, ottieni una seconda possibilità, soprattutto se a casa hanno bisogno di te. Se tuo padre è ubriaco per metà del giorno e hai una cuginetta di nove anni che vive con te sotto lo stesso tetto.»
«Amalthea», disse piano Maura. La signorina Clausen annuì. «Immagini di essere una bambina in questa casa. Di crescere in una famiglia di bestie.» Di bestie. L'aria parve d'un tratto carica d'elettricità. Maura aveva le mani gelide. Pensò alle parole deliranti di Amalthea Lank: Va' via, prima che lui ti veda. E pensò ai segni dell'artiglio sulla portiera dell'auto. Il segno della Bestia. La porta della cantina si aprì cigolando e Maura sobbalzò. Si voltò e vide Rizzoli in piedi sulla soglia. «Hanno trovato qualcosa», disse Jane. «Che cosa?» «Legno. Una specie di pannello a circa mezzo metro di profondità. Adesso stanno cercando di togliere la terra.» Indicò la cassetta con le palette sul banco. «Ci servono quelle.» Maura portò la cassetta giù per le scale e vide che vari mucchi di terra orlavano il perimetro dello scavo per un tratto di circa un paio di metri. La dimensione di una bara. Il detective Corso, che ora stringeva la pala, sollevò lo sguardo nella sua direzione. «Il pannello ha l'aria piuttosto spessa. Ma ascolti.» Batté la pala sul legno. «Non è pieno. Sotto c'è una cavità d'aria.» «Vuoi che continui io adesso?» chiese Yates. «Sì, la mia schiena sta per dare forfait», rispose Corso porgendogli la pala. Yates scese nello scavo e il rumore delle sue scarpe sul legno riecheggiò sordo. Vuoto. Aggredì la terra con cupa determinazione, gettandola in un mucchio che aumentò rapidamente di dimensione. Nessuno parlò mentre affiorava una parte sempre più vasta del pannello. I due riflettori gettavano la loro luce intensa sulla fossa e l'ombra di Yates rimbalzava come una marionetta sui muri della cantina. Gli altri guardavano, muti come ladri in attesa di dare la prima occhiata all'interno della tomba. «Ho liberato un bordo, qui», annunciò Yates affannato, mentre la pala grattava sul legno. «Sembra una specie di cassa. L'ho già scheggiata con la pala. Non voglio danneggiare il legno.» «Ho palette e spazzole», disse Maura. Yates si raddrizzò ansimante e arrampicandosi uscì dalla fossa. «D'accordo. Forse potete togliere un po' di terra dalla parte superiore. Scattere-
mo qualche foto prima di aprirla.» Maura e Gary si calarono nel buco e lei sentì il pannello vibrare sotto il loro peso. Si chiese allora quali orrori si celassero sotto le assi scurite ed ebbe la terribile visione del legno che cedeva all'improvviso, di loro due che piombavano in mezzo alla carne in putrefazione. Ignorando il cuore che le batteva forte, Maura si inginocchiò e iniziò a ripulire il pannello dalla terra. «Mi passi una di quelle spazzole», affermò Rizzoli, pronta a scendere nel buco. «Lei no», disse Yates. «Perché non se ne sta un po' tranquilla?» «Non sono handicappata. Detesto star qui senza far niente.» Yates scoppiò in una risata ansiosa. «Sì, be', e noi detestiamo che si metta a faticare là sotto. E non vorrei nemmeno dover dare spiegazioni a suo marito.» «Qui non c'è molto spazio per muoversi, Jane», osservò Maura. «Be', lasciate che vi sistemi le lampade. Almeno vedrete quello che fate.» Rizzoli spostò un riflettore e d'un tratto la luce illuminò l'angolo in cui Maura stava lavorando. Stando accovacciata, tolse il terriccio dalle assi con la spazzola e portò alla luce alcune macchioline di ruggine. «Vedo delle vecchie teste di chiodi qui», affermò. «Ho un piede di porco in macchina», disse Corso. «Vado a prenderlo.» Maura continuò a togliere la terra ed emersero altre teste di chiodi. Lo spazio era angusto, e collo e spalle cominciarono a farle male. Raddrizzò la schiena e udì un suono metallico alle sue spalle. «Ehi», esclamò Gary. «Guardi qui.» Maura si girò e vide che la paletta di Gary aveva urtato un segmento di tubo spezzato. «Sembra provenire direttamente dal bordo del pannello», osservò Gary. A mani nude tastò con circospezione la sporgenza arrugginita e sfondò il tappo di terra che ne incrostava la sommità. «Perché inserire un tubo in un...» S'interruppe e guardò Maura. «È una presa d'aria», rispose lei. Gary fissò le assi sotto le sue ginocchia e disse piano: «Che diavolo c'è dentro questa cosa?» «Venite fuori dal buco, voi due», affermò Pete. «Scattiamo alcune foto.» Yates si chinò per aiutare Maura e lei uscì, sentendo un improvviso giramento di testa per essersi alzata troppo in fretta. Batté le palpebre, stordi-
ta dai flash della macchina fotografica, dal bagliore surreale dei riflettori e dalle ombre che danzavano sui muri. Andò verso la scala e si sedette. Solo allora si ricordò che il gradino su cui stava riposando era impregnato di invisibili tracce di sangue. «Bene», disse Pete. «Apriamola.» Corso s'inginocchiò accanto alla fossa e infilò la punta del piede di porco sotto un angolo del coperchio, poi fece forza per aprirlo e le teste dei chiodi arrugginiti gemettero. «Non si muove», disse Rizzoli. Corso si fermò e si pulì il viso con la manica, lasciando però una striscia di terra sulla fronte. «Diamine, domani la mia schiena si farà sentire.» Infilò di nuovo il piede di porco sotto il coperchio e stavolta riuscì a conficcarlo più in profondità. Fece un bel respiro e si buttò di peso sul fulcro. I chiodi si staccarono stridendo. Corso gettò di lato il piede di porco e con Yates scese nel buco, afferrò il bordo del coperchio e lo sollevò. Per un istante nessuno aprì bocca. Fissarono tutti nella fossa, adesso pienamente visibile grazie alla luce intensa dei riflettori. «Non capisco», disse Yates. La cassa era vuota. Tornarono a casa quella sera stessa, su una strada luccicante di pioggia. I tergicristalli del parabrezza di Maura si muovevano con ritmo lento, ipnotico sul vetro appannato. «Tutto quel sangue in cucina», disse Rizzoli. «Sai che cosa significa: Amalthea aveva già ucciso. Nikki e Theresa Wells non sono state le sue prime vittime.» «In quella casa non era sola, Jane. Ci viveva anche suo cugino Elijah. Potrebbe essere stato lui.» «Aveva diciannove anni quando i Sadler sono scomparsi. Non poteva non sapere quello che accadeva nella sua cucina.» «Questo non significa che sia stata lei.» Rizzoli la guardò. «Credi alla teoria di O'Donnell? Alla storia della Bestia?» «Amalthea è schizofrenica. Dimmi come fa una persona con una mente tanto disturbata a uccidere due donne e a pensare poi con fredda logica di bruciarne i corpi e distruggere tutte le prove.» «Non che abbia fatto un gran lavoro quando si è trattato di coprire le
tracce. L'hanno presa, non te lo scordare.» «La polizia della Virginia ha avuto un colpo di fortuna. Catturarla per una violazione del codice stradale non è proprio un fulgido esempio di capacità investigativa.» Maura fissò dritto davanti a sé i tentacoli di nebbia che serpeggiavano sulla strada deserta. «Non ha ucciso quelle donne da sola. Qualcuno deve per forza averla aiutata, qualcuno che ha lasciato le impronte nella sua macchina. Qualcuno che è stato con lei fin dall'inizio.» «Suo cugino?» «Elijah aveva solo quattordici anni quando ha sepolto viva quella ragazza. Che genere di ragazzo fa una cosa simile? Che razza di uomo può diventare?» «Non oso pensarlo.» «Lo sappiamo bene, tutte e due», rispose Maura. «Abbiamo visto il sangue in quella cucina.» La Lexus procedeva ronzando. La pioggia era cessata, ma l'aria era ancora pregna di vapore che si condensava sul vetro. «Se hanno ucciso i Sadler», osservò Rizzoli, «allora viene da chiedersi...» Guardò Maura e aggiunse: «Che cos'hanno fatto del bambino di Karen Sadler?» Maura non disse nulla. Tenne lo sguardo fisso sulla strada e continuò a guidare. Non fece giri lunghi né deviazioni. Continua solo a guidare. «Sai dove voglio arrivare?» domandò Rizzoli. «Quarantacinque anni fa i cugini Lank hanno ucciso una donna incinta. I resti del bambino non sono stati ritrovati. Cinque anni dopo Amalthea Lank si presenta nell'ufficio di Van Gates a Boston con due neonate da vendere.» Maura non sentiva più le dita sul volante. «E se quelle bambine non fossero state sue?» chiese Rizzoli. «E se Amalthea non fosse la tua vera madre?» 23 Mattie Purvis era seduta al buio, intenta a chiedersi quanto tempo impiegasse una persona per morire di fame. Stava consumando le scorte di cibo troppo in fretta: nel sacchetto le restavano solo sei barrette Hershey, mezzo pacchetto di cracker salati e alcune strisce di carne di manzo essiccata. Devo razionarlo, pensò. Lo devo far bastare fino... Fino a che cosa? A morire di sete? Addentò un prezioso pezzo di cioccolato e fu tentata di mangiarne un al-
tro po', ma con un atto di volontà riuscì a trattenersi. Riavvolse con cura il resto della barretta e la ripose per dopo. Se arrivo alla disperazione più nera, posso sempre mangiare la carta, pensò. La carta è commestibile, giusto? È fatta di legno e i cervi affamati mangiano la corteccia degli alberi, quindi deve avere un valore nutrizionale. Sì, conserva la carta. Tienila pulita. Riluttante, rimise quanto restava della barretta di cioccolato nel sacchetto e, chiusi gli occhi, pensò agli hamburger, al pollo fritto e a tutti i cibi proibiti che si era negata da quando Dwayne aveva detto che le donne incinte gli ricordavano le balene. Sottintendendo che lei gli ricordava una balena. Nelle due settimane seguenti non aveva mangiato altro che insalata finché un giorno si era sentita girare la testa ed era crollata per terra al centro di Macy. Dwayne era diventato paonazzo quando diverse signore preoccupate si erano avvicinate chiedendogli se sua moglie stesse bene. Le aveva allontanate tutte a gesti mentre continuava a sibilarle di alzarsi. L'immagine era tutto, era solito dire, e invece ecco lì, Mr. BMW, con una balena per moglie che si dimenava sul pavimento insaccata nei suoi pantaloni premaman. Sì, sono una balena, Dwayne. Una bella e grossa balena che porta in grembo tua figlia. Adesso vieni a salvarci, maledizione. Salvaci, salvaci. Udì lo scricchiolio di un passo sopra la testa. Mattie sollevò lo sguardo mentre il suo carceriere si avvicinava. Aveva imparato a riconoscerne il passo, leggero e cauto come quello di un gatto a caccia. Ogniqualvolta arrivava, lei lo supplicava di liberarla e ogni volta lui se ne andava lasciandola chiusa nella cassa. Adesso il cibo stava scarseggiando, e anche l'acqua. «Signora.» Mattie non rispose. Lascia che s'interroghi, pensò. Si preoccuperà per la mia salute e dovrà aprire la cassa. Deve tenermi in vita altrimenti non otterrà il suo prezioso riscatto. «Parlami, signora.» Lei rimase in silenzio. Nient'altro aveva funzionato, pensò. Forse questo lo spaventerà. Forse ora mi lascerà uscire. Un tonfo sul terreno. «Ci sei?» Ci fu un lungo silenzio. «Be', se sei già morta, non ha senso scavare per tirarti fuori, giusto?» I passi si allontanarono. «Aspetta! Aspetta!» Mattie accese la torcia e iniziò a battere sul soffitto. «Torna indietro, maledizione. Torna indietro!» Rimase quindi in ascolto col cuore che le martellava forte e, quando udì uno scricchiolio di passi
che si avvicinavano, per poco non scoppiò a ridere dal sollievo. Che pena faceva! Si era ridotta a supplicare per ottenere la sua attenzione, come un'innamorata trascurata. «Sei sveglia», osservò lui. «Hai parlato con mio marito? Quando ti pagherà?» «Come ti senti?» «Perché non rispondi mai alle mie domande?» «Rispondi prima tu alle mie.» «Oh, a meraviglia!» «E il bambino?» «Sto finendo il cibo. Me ne serve di più.» «Ne hai abbastanza.» «Scusa, ma sono io quella che sta qui sotto, non tu! Sto morendo di fame. Come farai a ottenere i soldi se muoio?» «Stai calma, signora. Riposa. Andrà tutto bene.» «Non c'è niente che vada bene!» Nessuna risposta. «Ehi? Ehi?» gridò. I passi si stavano allontanando. «Aspetta!» Mattie picchiò sul soffitto con forza. «Torna indietro!» Batté sul legno con entrambi i pugni e d'un tratto la rabbia s'impadronì di lei, una rabbia che non aveva mai provato prima. «Non mi puoi fare questo! Non sono un animale!» Poi si accasciò contro la parete con le mani contuse che le pulsavano e il corpo scosso dai singhiozzi. Erano però singhiozzi di collera, non di sconfitta. «Vaffanculo», disse. «Vaffanculo. E vaffanculo anche a Dwayne e a tutti gli altri coglioni di questa Terra!» Esausta, crollò per terra di schiena e si passò il braccio sugli occhi per asciugarsi le lacrime. Che cosa vuole da noi? Ormai Dwayne dovrebbe averlo pagato, quindi perché sono ancora qua sotto? Che cosa sta aspettando? La bambina le diede un calcio e lei si premette la mano sul ventre, per tranquillizzarla oltre la barriera di pelle che le separava. Poi sentì uno spasmo all'utero. Il primo accenno di una contrazione. Povera creatura. Povera... Bambina. Mattie s'immobilizzò, pensando. Ricordando tutte le conversazioni attraverso la grata. Non avevano mai riguardato Dwayne né i soldi. La cosa non aveva senso. Se quel coglione vuole i soldi, Dwayne è la persona da
cui deve andare. Ma non chiede di mio marito, non parla di Dwayne. E se non gli avesse nemmeno telefonato? E se non gli avesse chiesto alcun riscatto? Che cosa vuole? La luce della torcia si affievolì. La seconda serie di batterie si stava esaurendo. Ne aveva ancora due nuove e poi sarebbe rimasta per sempre al buio. Stavolta non cadde in preda al panico mentre frugava nel sacchetto e apriva una nuova confezione. L'ho già fatto e posso rifarlo. Svitò il fondo, estrasse con calma le vecchie batterie e inserì le nuove. Una luce intensa brillò nel buio, tregua momentanea in attesa della lunga notte che temeva sarebbe arrivata. Tutti muoiono, ma io non voglio morire sepolta in questa cassa, dove nessuno troverà mai le mie ossa. Risparmia la luce, risparmia la luce finché puoi. Spense l'interruttore e si stese al buio mentre la paura l'avvolgeva e la stringeva fra i suoi tentacoli. Nessuno sa, pensò. Nessuno sa che sono qui. Smettila, Mattie. Fatti animo. Sei l'unica che ti può salvare. Si girò sul fianco e si abbracciò, al che udì qualcosa rotolare sul pavimento. Una delle batterie usate, ormai inservibile. E se nessuno sapesse che sono stata rapita? Se nessuno sapesse che sono ancora viva? Si cinse il ventre con le braccia e pensò a tutte le conversazioni che aveva avuto con il suo carceriere. Come ti senti? Questo le chiedeva sempre: come si sentisse. Come se si interessasse a lei, come se a un uomo capace di rinchiudere una donna incinta in una cassa importasse qualcosa delle sue condizioni. Eppure, glielo chiedeva sempre e lei lo supplicava sempre di liberarla. Aspetta una risposta diversa. Avvicinò di più le ginocchia a sé e col piede urtò qualcosa che rotolò lontano. Si mise a sedere e accese la torcia, poi raccolse frenetica le batterie usate. Ne aveva quattro vecchie, più due nuove ancora confezionate. Risparmia la luce, risparmia la luce. Nel buio cominciò a slacciarsi una scarpa. 24 La dottoressa Joyce P. O'Donnell entrò nella sala conferenze della Omicidi come se fosse la padrona dell'intero palazzo. Il suo elegante tailleur St.
John costava probabilmente più dell'intero budget annuale che Rizzoli riservava al vestiario e i tacchi da sette centimetri esaltavano la sua altezza statuaria. Nonostante tre poliziotti la osservassero mentre si sedeva al tavolo, O'Donnell non lasciò trasparire il minimo segno di disagio. Sapeva come assumere il controllo in una sala, abilità che Rizzoli non poté fare a meno di invidiarle, pur disprezzando il personaggio. L'avversione era chiaramente reciproca. O'Donnell le lanciò un'occhiata gelida, posò quindi lo sguardo su Barry Frost e rivolse infine l'attenzione al tenente Marquette, l'ufficiale più alto in grado della Omicidi. Che scegliesse lui come interlocutore, era ovvio: O'Donnell non perdeva mai tempo con i sottoposti. «Un invito inatteso, tenente», esordì. «Non mi chiedono spesso di venire a Schroeder Plaza.» «È stato il detective Rizzoli a proporre l'idea.» «Allora è ancora più inatteso. Considerando la situazione.» Considerando che giochiamo in squadre diverse, pensò Rizzoli. Io catturo i mostri, tu li difendi. «Ma come ho detto al detective Rizzoli al telefono», continuò O'Donnell, «non vi posso aiutare se voi non aiutate me. Se volete che vi aiuti a trovare la Bestia, dovete mettermi al corrente di quello che sapete.» In risposta Jane le avvicinò una cartellina. «Questo è quello che finora sappiamo su Elijah Lank.» Mentre la psichiatra si allungava per prenderla, Rizzoli colse un lampo di bramosia nel suo sguardo. Per quello viveva O'Donnell: per andare a caccia di mostri, per avere la possibilità di avvicinarsi al cuore pulsante del male. O'Donnell aprì il dossier. «Le pagelle delle superiori.» «Di Fox Harbor.» «Un QI di 136, ma nessun voto brillante.» «Il classico studente che non s'impegna.» Sarebbe capace di grandi risultati se si applicasse, aveva scritto un insegnante senza capire dove l'avrebbe portato il suo impegno. «Dopo la morte della madre è stato cresciuto dal padre, Hugo, che non ha mai saputo tenersi a lungo un lavoro. A quanto risulta, passava gran parte dei giorni a bere ed è morto di pancreatite quando Elijah aveva diciotto anni.» «E questa è la stessa casa in cui è vissuta Amalthea.» «Sì. È andata a vivere con lo zio quando aveva nove anni, dopo la morte della madre. Nessuno sa chi fosse il padre. Così, abbiamo la famiglia Lank di Fox Harbor: uno zio ubriacone, un cugino sociopatico e una bambina
che crescendo diventa schizofrenica. Un bell'esempio di famiglia americana.» «Ha chiamato Elijah sociopatico.» «In quale altro modo chiamerebbe un ragazzo che seppellisce viva una compagna di classe per puro divertimento?» O'Donnell passò alla pagina seguente. Qualsiasi altra persona che avesse letto quel dossier avrebbe avuto un'espressione inorridita sul volto, lei invece sembrava affascinata. «La ragazza sepolta aveva soltanto quattordici anni», disse Rizzoli. «Alice Rose era arrivata da poco a scuola e aveva anche problemi di udito. Per questo i compagni l'avevano presa di mira e per questo probabilmente Elijah l'aveva scelta. Era una preda facile, vulnerabile. L'ha invitata a casa sua, l'ha portata nel bosco fino a una buca che aveva scavato. L'ha gettata dentro, ha coperto la fossa con alcune assi e vi ha ammucchiato sopra delle pietre. Quando in seguito lo hanno interrogato, ha detto che era solo uno scherzo, ma io ritengo avesse sinceramente intenzione di ucciderla.» «Secondo il verbale la ragazza ne è uscita illesa.» «Illesa? Non proprio.» O'Donnell sollevò lo sguardo. «Ma è sopravvissuta.» «Alice Rose ha passato i cinque anni successivi della sua vita in terapia, affetta da una grave depressione e da attacchi di panico. A diciannove anni si è infilata in una vasca e si è tagliata i polsi. Per quanto mi riguarda, Elijah Lank è responsabile della sua morte. È stata lei la sua prima vittima.» «Può provare che ce ne siano altre?» «Quarantacinque anni fa una coppia sposata, Karen e Robert Sadler, è scomparsa da Kennebunkport. A quel tempo Karen Sadler era all'ottavo mese di gravidanza. I loro resti sono stati trovati solo la settimana scorsa, nello stesso appezzamento di terreno dove Elijah aveva sepolto Alice Rose viva. Credo che i Sadler siano stati uccisi da Elijah. Da lui e da Amalthea.» O'Donnell era diventata molto silenziosa, quasi stesse trattenendo il fiato. «È stata lei la prima a suggerirlo, dottoressa O'Donnell», osservò il tenente Marquette. «Lei ha detto che Amalthea aveva un complice, qualcuno che chiamava la Bestia. Qualcuno che l'ha aiutata a uccidere Nikki e Theresa Wells. Questo ha detto alla dottoressa Isles, giusto?» «Nessun altro ha creduto alla mia teoria.» «Be', ora noi ci crediamo», disse Rizzoli. «Pensiamo che la Bestia sia
suo cugino, Elijah.» O'Donnell sollevò un sopracciglio, divertita. «Due cugini assassini?» «Non sarebbe la prima volta che due cugini uccidono in coppia», sottolineò Marquette. «È vero», ammise O'Donnell. «Kenneth Bianchi e Angelo Buono, gli Strangolatori della collina, erano cugini.» «Quindi c'è un precedente», disse Marquette. «Due cugini complici in una serie di omicidi.» «Non serve che glielo ricordi.» «Lei sapeva della Bestia prima di chiunque altro», affermò Rizzoli. «Ha cercato di rintracciarlo, di contattarlo tramite Amalthea.» «Ma non ci sono riuscita. Perciò non vedo come vi possa aiutare a trovarlo. Non so nemmeno perché mi abbia chiesto di venire qui, detective, dato che tiene in così scarsa considerazione le mie ricerche.» «So che Amalthea parla con lei. Ieri, quando l'ho incontrata, non mi ha detto una sola parola, ma le guardie mi hanno riferito che con lei parla.» «Le nostre sedute sono confidenziali. Lei è una mia paziente.» «Suo cugino non lo è. Ed è lui che vogliamo trovare.» «Be', dov'è l'ultimo posto conosciuto in cui è stato visto? Avrete qualche informazione da cui partire.» «Non abbiamo quasi niente. Non c'è niente sui suoi spostamenti per decenni.» «Sapete almeno se sia vivo?» Rizzoli sospirò. «No», ammise. «Adesso avrebbe quasi settant'anni, giusto? Un po' troppo geriatrico come serial killer.» «Amalthea ha sessantacinque anni», replicò Jane, «eppure nessuno ha dubitato che avesse ucciso Theresa e Nikki Wells. Che avesse fracassato loro il cranio, ne avesse impregnato i corpi di benzina e li avesse bruciati.» O'Donnell si appoggiò allo schienale della sedia e guardò Rizzoli per un istante. «Mi spieghi perché la Polizia di Boston sta dando la caccia a Elijah Lank. Questi sono vecchi omicidi e non rientrano nemmeno nella vostra giurisdizione. Perché ve ne state interessando?» «L'omicidio di Anna Leoni potrebbe essere collegato.» «Come?» «Poco prima di essere assassinata, Anna ha fatto molte domande in giro su Amalthea. Forse è venuta a sapere troppe cose.» Rizzoli le avvicinò un altro dossier.
«Che cos'è?» «Conosce il National Crime Information Center dell'FBI? Gestisce un database consultabile delle persone scomparse in tutto il Paese.» «Sì, conosco l'NCIC.» «Abbiamo effettuato una ricerca usando le parole chiave femmina e gravida. Questo è quello che ci è arrivato dall'FBI. Tutti i casi inseriti nel database, dagli anni '60 in poi. Tutte le donne incinte scomparse negli Stati Uniti continentali.» «Perché vi siete concentrati sulle donne gravide?» «Perché Nikki Wells era al nono mese di gravidanza, Karen Sadler, all'ottavo. Non trova sia una coincidenza un po' troppo strana?» O'Donnell aprì il dossier e si trovò davanti a pagine e pagine stampate al computer. Sollevando lo sguardo stupita, osservò: «Ma qui ci sono decine di nomi». «Consideri che ogni anno nel Paese scompaiono migliaia di persone. Se di tanto in tanto scompare una donna incinta, nel quadro generale non risalta: non desta alcun allarme. Ma quando scompare una donna al mese nell'arco di quarant'anni, allora i numeri danno da pensare.» «Siete in grado di collegare tutti questi casi di persone scomparse ad Amalthea Lank o a suo cugino?» «Per questo l'abbiamo chiamata. Lei ha fatto più di dieci sedute con Amalthea. Le ha detto qualcosa dei suoi spostamenti? Dove ha vissuto, dove ha lavorato?» O'Donnell chiuse il dossier. «Mi sta chiedendo di infrangere il segreto professionale tra medico e paziente. Perché dovrei farlo?» «Perché gli omicidi non sono finiti. Non si sono fermati.» «La mia paziente non può più uccidere. È in carcere.» «Il suo complice no.» Rizzoli si protese avvicinandosi alla donna che tanto disprezzava, ma in quel momento aveva bisogno di lei e riuscì a controllare la repulsione. «La Bestia l'affascina, vero? Vuole saperne di più. Vuole entrare nella sua mente, sapere quali siano le sue motivazioni. Lei ama sentire i dettagli. Per questo ci dovrebbe aiutare: per poter aggiungere un altro mostro alla collezione.» «E se ci sbagliassimo entrambe? Forse la Bestia è solo un frutto della nostra immaginazione.» Rizzoli guardò Frost. «Perché non accendi la lavagna luminosa?» Frost sistemò il carrello con l'apparecchio e accese l'interruttore. Nell'era dei computer e delle presentazioni PowerPoint una lavagna luminosa sem-
brava un aggeggio da età della pietra, ma Rizzoli e Frost avevano optato per il modo più rapido e semplice per dimostrare la loro tesi. Frost aprì una cartellina ed estrasse più lucidi su cui avevano contrassegnato i punti di rilevamento con diversi pennarelli colorati. Mise un foglio sulla lavagna e sullo schermo apparve una cartina degli Stati Uniti. Poi vi sovrappose il primo lucido: all'immagine si aggiunsero sei punti neri. «Che cosa indicano quei punti?» chiese O'Donnell. «Sono i casi segnalati all'NCIC nei primi sei mesi del 1984», rispose Frost. «Abbiamo scelto quest'anno perché è il primo in cui il database informatico dell'FBI è entrato pienamente in funzione, perciò i dati dovrebbero essere abbastanza completi. Ognuno di quei punti rappresenta la segnalazione di una donna incinta scomparsa.» Orientò quindi il puntatore laser verso lo schermo e proseguì. «Si nota una certa dispersione: un caso su nell'Oregon, uno ad Atlanta. Ma guardate questo piccolo cluster quaggiù, nel sud-ovest.» Frost tracciò un cerchio sull'angolo in questione della cartina. «Una donna scompare in Arizona, una nel New Mexico. Due nella California del sud.» «Che cosa ne dovrei dedurre?» «Be', esaminiamo i sei mesi seguenti, da luglio a dicembre 1984. Forse le risulterà più chiaro.» Frost dispose il lucido successivo sulla cartina: comparve una nuova serie di punti, stavolta di colore rosso. «Di nuovo», disse, «c'è una certa dispersione nel Paese, ma osservi quest'altro cluster», aggiunse tracciando un cerchio attorno a tre punti rossi. «San Jose, Sacramento e Eugene, nell'Oregon.» «La cosa si sta facendo interessante», disse piano O'Donnell. «Aspetti di vedere i sei mesi seguenti», affermò Rizzoli. Con il terzo lucido apparve ancora un'altra serie di punti di colore verde. Ormai il modello era inequivocabile e O'Donnell lo osservava con occhi increduli. «Mio Dio», esclamò. «Il cluster si sposta.» Rizzoli annuì e si voltò cupa verso lo schermo. «Dall'Oregon si dirige a nord-est. Nei sei mesi seguenti due donne incinte scompaiono dallo Stato di Washington, poi una terza due Stati più in là, nel Montana.» Si girò per guardare O'Donnell e aggiunse: «Non si ferma qui». O'Donnell si protese di scatto sulla sedia, l'espressione attenta come quella di un gatto pronto a balzare sulla preda. «Dopo dove si sposta il
cluster?» Rizzoli sollevò lo sguardo sulla carta. «Durante l'estate e l'autunno si sposta direttamente a est, nell'Illinois e nel Michigan, nello Stato di New York e nel Massachusetts. Poi scende di colpo verso sud.» «In che mese?» Rizzoli lanciò un'occhiata a Frost, che frugò tra le stampate. «Il caso seguente è segnalato in Virginia, il 14 dicembre», rispose. «Si sposta in base alle stagioni.» «Che cosa?» «Le stagioni. Vede che si è spostato nelle regioni settentrionali del Midwest nei mesi estivi? In autunno è nel New England e poi, in dicembre, va all'improvviso a sud. Proprio quando inizia a far freddo.» Rizzoli fissò la mappa accigliata. Gesù, pensò. Quella donna ha ragione. Perché non ce ne siamo accorti? «Che cosa accade dopo?» chiese O'Donnell. «Fa un cerchio completo», rispose Frost. «Si sposta a sud, dalla Florida al Texas e infine si dirige in Arizona.» O'Donnell si alzò e si avvicinò allo schermo, dove rimase per un istante a fissare la mappa. «Quanto è durato il ciclo? Quanto tempo ha impiegato per completare il circuito?» «A quell'epoca ha impiegato tre anni e mezzo a fare il giro del Paese.» «Un ritmo tranquillo.» «Sì. Ma osservi come non si fermi mai a lungo in uno Stato, come non mieta mai troppe vittime in un'area. Continua a muoversi, così le autorità non notano mai il modello, non si accorgono mai che si ripete da anni.» «Che cosa?» O'Donnell si voltò. «Il ciclo si ripete?» Rizzoli annuì. «Inizia daccapo, lungo la stessa rotta. Proprio come le vecchie tribù di nomadi che seguivano i branchi di bufali.» «Le autorità non si sono mai accorte del modello?» «Perché questo genere di predatori si muove in continuazione. Stati diversi, giurisdizioni diverse. Alcuni mesi in una regione e poi scompaiono, diretti al successivo terreno di caccia. Sono luoghi in cui tornano ciclicamente.» «Territori familiari.» «Dove andiamo dipende da quel che conosciamo e quel che conosciamo dipende da dove andiamo», disse Rizzoli citando uno dei principi del profiling geografico dei criminali. «Hanno ritrovato qualche corpo?»
«No. Sono tutti casi rimasti irrisolti.» «Quindi dovevano avere dei nascondigli in cui seppellirli, posti adatti a occultare le vittime, a eliminare i corpi.» «Presumiamo si tratti di luoghi fuori mano», disse Frost. «Di aree rurali o zone d'acqua, visto che nessuna di quelle donne è stata ritrovata.» «Ma Nikki e Theresa Wells sì», affermò O'Donnell. «I loro corpi non sono stati seppelliti, ma bruciati.» «Le sorelle sono state ritrovate il 25 novembre. Abbiamo indagato e controllato i bollettini meteo dell'epoca: in quella settimana c'è stata una bufera inattesa, sono caduti quarantacinque centimetri di neve in un solo giorno. Il Massachusetts è stato colto di sorpresa e molte strade sono state chiuse. Forse non sono riusciti a raggiungere il solito luogo di sepoltura.» «E per questo avrebbero bruciato i corpi?» «Come ha osservato lei, i casi di sparizione sono legati alle stagioni», disse Rizzoli. «Quando viene il freddo, si muovono verso sud. Ma quel novembre in New England nessuno si aspettava una nevicata così precoce.» Voltandosi verso O'Donnell, disse: «Ecco la sua Bestia. Quelle sulla carta sono le sue orme. Amalthea lo ha seguito passo per passo lungo il cammino». «Che cosa mi sta chiedendo di fare, un profilo psicologico? Di spiegare perché hanno ucciso?» «Sappiamo perché lo facevano: non uccidevano per piacere o per il brivido dell'eccitazione. Questi non sono i suoi soliti serial killer.» «Allora qual era il movente?» «Una ragione molto pratica, dottoressa O'Donnell. Anzi, probabilmente a una cacciatrice di mostri come lei il loro movente sembrerà piuttosto insulso.» «Non ritengo affatto insulso l'omicidio. Per che cosa uccidevano?» «Sapeva che non esistono documenti lavorativi di Amalthea né di Elijah? Non siamo riusciti a trovare alcuna prova che indichi che svolgessero un'attività, avessero un numero di previdenza sociale o presentassero la dichiarazione dei redditi. Non possedevano carte di credito né conti correnti. Per decenni sono stati persone invisibili, che vivevano ai margini estremi della società. Perciò, come mangiavano? Come pagavano il cibo, la benzina e l'affitto?» «In contanti, presumo.» «Ma dove li prendevano?» Rizzoli si voltò verso la cartina. «Così si guadagnavano da vivere.»
«Non la seguo.» «Alcuni vanno a pesca, altri raccolgono mele. Anche Amalthea e il suo complice raccoglievano cose.» Guardando O'Donnell, aggiunse: «Quarant'anni fa Amalthea ha venduto due neonate a genitori adottivi. Ha ricevuto quarantamila dollari per quelle bambine. Non credo fossero sue». O'Donnell si accigliò. «Parla della dottoressa Isles e di sua sorella?» «Sì.» Rizzoli provò un senso di soddisfazione quando vide l'espressione sbalordita di O'Donnell. Quella donna non sa con che cosa ha a che fare, pensò. La psichiatra che fa comunella con i mostri è stata presa in contropiede. «Ho esaminato Amalthea», disse O'Donnell. «In accordo con gli altri psichiatri ho concluso che...» «Che fosse psicotica?» «Sì.» O'Donnell espirò bruscamente. «Quella che mi state mostrando qui... è una persona completamente diversa.» «Una persona che non è pazza.» «Non lo so. Non so che cosa sia.» «Lei e suo cugino hanno ucciso per denaro. Per vile denaro. Il che non mi sembra affatto indice di malattia mentale.» «Forse...» «Lei va d'accordo con gli assassini, dottoressa O'Donnell. Lei parla con loro, passa ore con gente come Warren Hoyt.» Rizzoli tacque per qualche istante. «Lei li capisce.» «Cerco di farlo.» «Allora che tipo di killer è Amalthea? È un mostro? O solo una donna d'affari?» «È una mia paziente. È tutto ciò che posso dire.» «Ma ora sta mettendo in dubbio la sua diagnosi, vero?» Rizzoli indicò lo schermo. «Quello è un comportamento logico. Di cacciatori nomadi che inseguono la preda. Pensa ancora che sia pazza?» «Ripeto, è una mia paziente. Devo tutelare i suoi interessi.» «A noi non interessa Amalthea. È l'altro che vogliamo, Elijah.» Rizzoli si avvicinò ulteriormente a O'Donnell finché si ritrovarono quasi faccia a faccia. «Non ha smesso di andare a caccia, sa?» «Che cosa?» «Amalthea è in carcere da ormai cinque anni.» Rizzoli guardò Frost. «Mostrale i punti di rilevamento da quando Amalthea Lank è stata arrestata.»
Frost tolse i lucidi precedenti e ne sovrappose un altro alla cartina. «Il mese di gennaio», disse. «Una donna incinta scompare nella Carolina del Sud. In febbraio tocca a una donna in Georgia. In marzo è a Daytona Beach.» Mise un altro lucido e continuò: «Sei mesi dopo, succede nel Texas». «In quei mesi Amalthea Lank era in prigione», disse Rizzoli. «Ma i rapimenti sono continuati. La Bestia non si è fermata.» O'Donnell fissò l'avanzata incessante dei punti di rilevamento. Un punto, una donna. Una vita. «Adesso in che fase siamo del ciclo?» chiese a bassa voce. «Un anno fa», rispose Frost, «ha raggiunto la California per poi dirigersi di nuovo a nord.» «E adesso dov'è?» «L'ultimo rapimento denunciato risale a un mese fa. Ad Albany, nello Stato di New York.» «Albany?» O'Donnell guardò Rizzoli. «Questo significa...» «Che ora è nel Massachusetts», affermò Rizzoli. «La Bestia sta venendo in città.» Frost spense la lavagna luminosa e l'arresto improvviso del ventilatore fece piombare la stanza in uno strano silenzio. Lo schermo era ormai bianco, ma l'immagine della cartina pareva ancora visibile, impressa a fuoco nella mente di ognuno. Lo squillo del cellulare di Frost risuonò ancor più inquietante in quel locale silenzioso. «Scusatemi», disse questi uscendo dalla stanza. «Ci racconti della Bestia. Come facciamo a trovarlo?» domandò Rizzoli a O'Donnell. «Nello stesso modo in cui trovate qualsiasi altro uomo in carne e ossa. Non è quello che fate in polizia? Avete già un nome. Partite da lì.» «Non ha carte di credito, né conti correnti. È difficilmente rintracciabile.» «Non sono un segugio.» «Lei parla con la persona che gli è più vicina. L'unica persona che potrebbe sapere come trovarlo.» «Le nostre sedute sono confidenziali.» «Lo chiama mai per nome? Accenna al fatto che sia suo cugino, Elijah?» «Non sono nella posizione di rivelare le conversazioni private che ho avuto con la mia paziente.» «Elijah Lank non è suo paziente.»
«Ma Amalthea sì, e lei sta cercando di accusarla. Di omicidi plurimi.» «Amalthea non ci interessa. È lei quello che voglio.» «Non è compito mio aiutarvi a catturarlo.» «Che fine ha fatto il suo dannato senso di responsabilità civica?» «Detective Rizzoli», disse Marquette. Lo sguardo di Jane rimase fisso su O'Donnell. «Pensi a quella carta, a tutti quei punti, a tutte quelle donne. Adesso è qui. A caccia della prossima.» O'Donnell abbassò lo sguardo sul ventre grosso di Rizzoli. «Allora credo debba stare attenta, detective. Non pensa?» Rizzoli osservò muta, irrigidita, mentre O'Donnell afferrava la sua valigetta. «In ogni caso, non vi potrei dire granché», affermò. «Come lei ha ricordato, è un killer spinto da motivi logici, pratici, non dal desiderio sessuale. Dal piacere. Deve mantenersi, punto e basta. Solo che l'occupazione che si è scelto è un po' fuori del comune. Il profiling criminale non vi aiuterà a prenderlo perché non è un mostro.» «E sono certa che lei ne riconoscerebbe uno.» «Ho imparato a farlo. Ma anche lei.» O'Donnell si girò verso la porta. Poi si fermò e lanciò un'occhiata dietro di sé con un sorriso mellifluo. «A proposito di mostri, detective, il suo vecchio amico chiede di lei, sa? Ogni volta che vado a trovarlo.» O'Donnell non aveva bisogno di fare nomi. Sapevano entrambe che parlava di Warren Hoyt, l'uomo che continuava a riemergere negli incubi di Jane, il cui bisturi due anni prima le aveva lasciato quelle cicatrici sui palmi. «Pensa ancora a lei», aggiunse O'Donnell con un sorriso furbesco, pacato. «Immagino le faccia piacere sapere d'essere ricordata.» Poi uscì. Rizzoli si sentì addosso lo sguardo di Marquette, che attendeva la sua reazione. Che attendeva di vedere se fosse esplosa di rabbia. Jane si sentì sollevata quando anche lui uscì dalla stanza, lasciandola sola a rimettere a posto la lavagna luminosa. Raccolse i lucidi, tolse la spina e riavvolse strettamente il cavo, sfogando tutta la sua rabbia su di esso mentre lo girava attorno alla mano. Poi spinse la lavagna munita di ruote in corridoio e per poco non si scontrò con Frost, che proprio in quel momento stava chiudendo il cellulare. «Andiamo», disse. «Dove?» «A Natick. Abbiamo una donna scomparsa.»
Rizzoli si accigliò. «È...» Lui annuì. «Al nono mese di gravidanza.» 25 «Se volete la mia opinione», disse il detective Sarmiento di Natick, «questo è soltanto un secondo caso Laci Peterson: un matrimonio che va a rotoli, il marito che si fa l'amante.» «Ha ammesso di avere una donna?» chiese Rizzoli. «Non ancora, ma io lo sento, capite?» Sarmiento si batté il naso e scoppiò a ridere. «C'è odore di un'altra donna.» Sì, probabilmente era in grado di sentirlo, pensò Rizzoli mentre Sarmiento conduceva lei e Frost oltre una serie di tavoli pieni di monitor accesi. Sembrava conoscere bene l'odore delle donne. Sarmiento possedeva la camminata, il passo sicuro e impettito dell'uomo insolente. Teneva il braccio destro lontano dal corpo per l'antica abitudine di portare la pistola alla cintura, proprio come un vero sbirro. Barry Frost non aveva mai assunto quell'andatura da spaccone. Accanto al moro e robusto Sarmiento sembrava uno scialbo impiegatino armato della sua penna e del notes. «Il nome della donna scomparsa è Matilda Purvis», disse Sarmiento fermandosi alla scrivania per prendere una cartellina che porse a Rizzoli. «Trentun anni, bianca. Sposata da sette mesi con Dwayne Purvis, proprietario di una concessionaria BMW qui in città. Ha visto la moglie l'ultima volta venerdì, quando è passata a trovarlo sul lavoro. A quanto risulta, hanno litigato perché i testimoni hanno visto la moglie andarsene in lacrime.» «E quando ne ha denunciato la scomparsa?» «Domenica.» «Gli ci sono voluti due giorni per decidersi?» «Ha detto che dopo la lite voleva che le acque si calmassero, perciò è andato a dormire in albergo. Non è rincasato fino a domenica. Ha trovato l'auto della moglie in garage e la posta di sabato ancora nella cassetta, allora ha immaginato che qualcosa non andasse. Abbiamo compilato la denuncia domenica sera. Poi stamattina abbiamo visto l'avviso che avete diramato, su eventuali donne incinte scomparse. Non so se ci siano affinità con i vostri casi. A me sembra più un classico caso di crisi coniugale.» «Ha verificato all'albergo in cui ha pernottato?» chiese Rizzoli. Sarmiento rispose con un sorrisetto furbesco. «L'ultima volta che gli ho
parlato aveva difficoltà a ricordare quale fosse.» Rizzoli aprì la cartellina e vide una fotografia di Matilda Purvis e del marito, scattata il giorno delle nozze. Se erano sposati da sette mesi soltanto, allora era già incinta di due mesi quando era stata fatta la foto. La sposa aveva un viso dolce, capelli castani, occhi castani e due guance rotonde da bambina. Il suo sorriso esprimeva pura felicità. Al suo fianco, Dwayne Purvis aveva un'aria stanca, quasi annoiata. Guai in arrivo, la si sarebbe potuta intitolare. Sarmiento fece loro strada in corridoio ed entrò in una stanza oscurata. Da una finestra a specchio si vedeva la stanza interrogatori adiacente, in quel momento vuota. Aveva pareti bianche, un tavolo con tre sedie e una videocamera montata in alto, in un angolo. Una stanza concepita per estorcere la verità. Dalla finestra videro aprirsi la porta ed entrare due uomini. Uno di loro era un poliziotto col torace a botte, un principio di calvizie e il volto impassibile, privo di qualsiasi espressione. Proprio il genere di volto su cui speri ansiosamente di scorgere una traccia di sentimento. «Stavolta se ne occuperà il detective Ligett», bisbigliò Sarmiento. «Vediamo se riesce a cavargli qualcosa di nuovo.» «Si sieda», udirono Ligett dire. Dwayne si sedette rivolto alla finestra. Dalla sua parte era un semplice specchio. Sapeva che diversi occhi lo stavano osservando da dietro il vetro? Per un istante il suo sguardo parve focalizzarsi su Rizzoli e lei represse l'istinto di arretrare, di nascondersi meglio nel buio. Non che Dwayne Purvis avesse un'aria particolarmente minacciosa. Aveva da poco superato la trentina ed era vestito casual, con una camicia bianca button down senza cravatta e un paio di pantaloni di cotone grezzo color sabbia. Al polso portava un orologio Breitling: una pessima mossa la sua, andare alla polizia per un interrogatorio ed esibire un gioiello che uno sbirro non si sarebbe mai potuto permettere. Dwayne era un tipo avvenente, ma insulso, e aveva quell'aria presuntuosa e sicura di sé che ad alcune donne poteva piacere, purché amassero gli uomini che ostentavano orologi costosi. «Venderà molte BMW», commentò Rizzoli. «È coperto di ipoteche», rispose Sarmiento. «La casa è della banca.» «Polizze sulla moglie?» «Duecentocinquantamila dollari.» «Non è abbastanza da ucciderla.» «Sono pur sempre duecentocinquantamila testoni. Senza un corpo avrà
tuttavia difficoltà a incassarli. Finora, non abbiamo trovato cadaveri.» Nella stanza accanto il detective Ligett disse: «Bene, Dwayne, vorrei solo riesaminare alcuni dettagli». La sua voce era inespressiva come il volto. «Ho già parlato con quell'altro poliziotto», rispose Dwayne. «Mi sono scordato il nome. Quello che assomiglia all'attore, sa, a Benjamin Bratt.» «Il detective Sarmiento?» «Sì.» Rizzoli udì Sarmiento, in piedi al suo fianco, emettere un lieve grugnito di compiacimento. Faceva sempre piacere sentirsi dire che assomigliavi a Benjamin Bratt. «Non so perché perdiate tempo qui», affermò Dwayne. «Dovreste essere là fuori, a cercare mia moglie.» «La stiamo cercando, Dwayne.» «In che modo tutto questo vi può aiutare?» «Non si sa mai. Non si sa mai quali piccoli dettagli potrebbe ricordare che facciano la differenza nelle indagini.» Ligett tacque. «Per esempio...» «Che cosa?» «Quell'albergo in cui si è fermato. Non ricorda ancora il nome?» «Era solo un albergo.» «Come ha pagato?» «Questo è irrilevante!» «Ha usato una carta di credito?» «Suppongo di sì.» «Suppone?» Dwayne sbuffò, esasperato. «Sì, va bene, ho usato la mia carta di credito.» «Allora il nome dell'albergo dovrebbe essere sul suo estratto conto. Tutto quello che dobbiamo fare è controllare.» Silenzio. «D'accordo. Adesso me ne sono ricordato. Era il Crowne Plaza.» «Quello di Natick?» «No, era fuori a Wellesley.» Sarmiento, in piedi accanto a Rizzoli, allungò d'un tratto la mano verso il telefono a muro e mormorò al ricevitore: «Sono il detective Sarmiento. Devo parlare con il Crowne Plaza Hotel di Wellesley...» Nella stanza interrogatori Ligett disse: «Wellesley è un po' lontana da casa, o no?» Dwayne sospirò. «Mi serviva una boccata d'aria, ecco tutto. Un po' di
tempo per me. Sa, di recente Mattie è diventata così appiccicosa. E poi c'è il lavoro: anche lì tutti mi cavano il sangue.» «Vita dura, eh?» osservò senza mezzi termini Ligett, pur non lasciando trasparire il sarcasmo che sicuramente provava. «Tutti vogliono fare buoni affari e io sono costretto a sorridere a denti stretti a clienti che mi chiedono la luna. Io però non gliela posso dare. Una bella macchina come una BMW, dovrebbero capire che ha il suo costo. E tutti hanno i soldi: questo è quello che mi fa impazzire. Hanno i soldi, ma vogliono scroccarmi fino all'ultimo centesimo.» Sua moglie è scomparsa, forse morta, pensò Rizzoli, e lui è incazzato con chi vuol comprare una BMW a un buon prezzo? «Perciò ho perso il controllo. Questo è il motivo della lite.» «Con sua moglie?» «Sì. Non riguardava noi, ma il lavoro. Siamo tirati con i soldi, sa? Questo era il problema. Siamo tirati con tutto.» «I dipendenti che hanno assistito alla lite...» «Quali dipendenti? Con chi avete parlato?» «Con un venditore e un meccanico. Entrambi hanno detto che sua moglie era piuttosto sconvolta quando se n'è andata.» «Be', è incinta. Si agita per le cose più assurde. Tutti quegli ormoni le fanno perdere il controllo. Con le donne incinte, non ci puoi proprio ragionare.» Rizzoli si sentì arrossire e si chiese se Frost pensasse lo stesso di lei. «Inoltre, è sempre stanca», continuò Dwayne. «Basta un niente a farla piangere. Ha male alla schiena, ha male ai piedi. Deve correre in bagno ogni dieci minuti.» Con una scrollata di spalle, aggiunse: «Tutto sommato, penso di cavarmela abbastanza bene». «Un tipo molto comprensivo», osservò Frost. Sarmiento riagganciò all'improvviso e uscì dalla sala. Poi, dalla finestra, lo videro fare capolino nella stanza interrogatori e chiamare Ligett con un cenno. Entrambi i detective uscirono e Dwayne, rimasto solo, guardò l'orologio dimenandosi sulla sedia. Poi fissò lo specchio e si accigliò. Estrasse un pettine dalla tasca e si sistemò i capelli finché non furono perfettamente a posto. Il marito affranto che si preparava ad affrontare le telecamere del notiziario delle cinque. Sarmiento sgattaiolò di nuovo nella stanza dove si trovavano Rizzoli e Frost e ammiccò loro con aria furba. «Beccato», sussurrò. «Che cosa avete scoperto?»
«State a guardare.» Dalla finestra videro Ligett rientrare nella stanza interrogatori. Chiuse la porta e rimase in piedi a fissare Dwayne, che s'immobilizzò nonostante il suo polso carotideo, sopra il colletto della camicia, fosse visibilmente accelerato. «Allora», disse Ligett, «adesso mi vuol dire la verità?» «Su che cosa?» «Su quelle due notti al Crowne Plaza Hotel.» Dwayne scoppiò a ridere: una risposta inappropriata date le circostanze. «Non so che cosa intenda.» «Il detective Sarmiento ha appena parlato con il Crowne Plaza. Confermano che ha pernottato da loro quelle due notti.» «Be', vede? Gliel'avevo detto...» «Chi era la donna che è scesa in albergo con lei, Dwayne? Bionda, carina. Quella che ha fatto colazione con lei tutte e due le mattine, nella sala da pranzo?» Dwayne ammutolì e deglutì. «Sua moglie sa della bionda? Per questo lei e Mattie stavate litigando?» «No...» «Allora non sa di lei?» «No! Voglio dire, non è per quello che abbiamo litigato.» «Ma certo.» «Sta cercando di dare a questa cosa il risvolto peggiore!» «Allora non c'è nessuna amante?» Ligett si avvicinò di più e gli si parò esattamente di fronte al viso. «Non sarà difficile trovarla. Probabilmente sarà lei a chiamarci. Vedrà la sua faccia al telegiornale e capirà che è meglio per lei spiattellare tutta la verità.» «Questo non ha niente a che fare... voglio dire, so che sembra brutto, ma...» «Lo è.» «D'accordo», sospirò Dwayne. «D'accordo, ho preso una sbandata, va bene? Capita a molti nella mia posizione. È dura quando tua moglie è così grossa e non riesci più a farlo con lei, con quel pancione che sporge. E poi non le interessa.» Rizzoli fissò davanti a sé, irrigidita, chiedendosi se Frost e Sarmiento stessero guardando dalla sua parte. Sì, eccomi qui: un'altra con un pancione enorme e con un marito fuori città. Fissò Dwayne e immaginò Gabriel seduto su quella sedia, a dire le stesse cose. Gesù, non ti fare questo, pen-
sò, frena la testa. Non è Gabriel, ma un fallito di nome Dwayne Purvis che si è fatto sorprendere con l'amante e non sa affrontare le conseguenze. Tua moglie viene a sapere dell'altra e tu pensi: addio orologi Breitling e a metà casa, adesso mi aspettano diciotto anni di alimenti per il figlio. Quel coglione è sicuramente colpevole. Jane guardò Frost che scosse la testa. Entrambi avevano capito che era solo il ripetersi di una vecchia tragedia che avevano visto tante volte. «Sua moglie ha chiesto il divorzio?» chiese Ligett. «No. Mattie non sapeva niente di lei.» «E si presenta così, sul lavoro, e scatena una lite?» «È stata una cosa stupida. L'ho detto a Sarmiento.» «Perché ha dato fuori di matto, Dwayne?» «Perché se n'è andata in giro con una fottuta gomma a terra e non se n'è nemmeno accorta! Voglio dire, quanto ottuso devi essere per non notare che stai grattando il cerchione? L'ha visto anche l'altro venditore: una gomma nuova di zecca ridotta a brandelli, fatta letteralmente a pezzi. Quando l'ho vista, credo di averle urlato qualcosa. Lei si è fatta venire le lacrime agli occhi, cosa che mi irrita ancora di più perché mi fa sentire un coglione.» Tu sei un coglione, pensò Rizzoli e guardò Sarmiento. «Abbiamo sentito abbastanza.» «Di che cosa vi devo tenere informati?» «Ci farà sapere se ci sono nuovi sviluppi?» «Sì, sì.» Lo sguardo di Sarmiento era di nuovo puntato su Dwayne. «È facile quando sono così idioti.» Rizzoli e Frost si girarono per andarsene. «Chissà quanti chilometri avrà fatto con la gomma in quelle condizioni» stava dicendo Dwayne. «Accidenti, forse era già a terra quando è arrivata allo studio del medico.» Rizzoli si bloccò all'istante e si voltò verso la finestra, osservando accigliata Dwayne. All'improvviso sentì la pulsazione alle tempie accelerarle. Gesù. Per poco non mi sfuggiva. «Di che medico si tratta?» chiese a Sarmiento. «Di una certa dottoressa Fishman. Le ho parlato ieri.» «Perché la signora Purvis è andata da lei?» «Per una normale visita ostetrica, niente di particolare.» Rizzoli guardò Sarmiento. «La dottoressa Fishman è un'ostetrica?» Lui annuì. «Ha uno studio alla Women's Clinic. Più in su, a Bacon
Street.» La dottoressa Fishman aveva passato gran parte della notte in piedi in ospedale ed era il ritratto dello sfinimento. Portava i capelli castani non lavati raccolti in una coda e il camice bianco da laboratorio che indossava sopra la tuta stropicciata aveva le tasche tanto piene di strumenti che sembrava incurvarle le spalle. «Larry, della sicurezza, mi ha portato i nastri delle telecamere», disse mentre accompagnava Rizzoli e Frost dal banco della reception dell'ambulatorio a un corridoio posteriore. Le sue scarpe da tennis cigolavano sul linoleum. «Sta predisponendo l'attrezzatura video nella stanza sul retro. Grazie a Dio nessuno si aspetta che lo faccia io. A casa non ho nemmeno un videoregistratore.» «Il suo ambulatorio ha ancora i nastri di una settimana fa?» chiese Frost. «Abbiamo un contratto con la Minute Man Security. Tengono le cassette almeno per una settimana. Abbiamo chiesto che lo facciano, viste tutte le minacce.» «Quali minacce?» «Sa, questo è un ambulatorio a favore della libera scelta in tema di aborto. Qui non facciamo aborti, ma il solo fatto che ci chiamiamo ambulatorio delle donne sembra scatenare quelli di destra. Preferiamo tenere d'occhio chi entra nell'edificio.» «Quindi avete già avuto problemi?» «Quello che può immaginare: lettere minatorie, buste con finto antrace, imbecilli che vanno in giro a scattare foto delle pazienti. Per questo teniamo la telecamera nel parcheggio. Vogliamo controllare tutti quelli che si avvicinano all'ingresso.» Li condusse quindi lungo un altro corridoio decorato con gli stessi poster anonimi che sembrano adornare tutti gli studi ostetrici: grafici sull'allattamento al seno, sull'alimentazione materna, sui «cinque segni d'allarme che indicano che il tuo compagno è un violento». Una raffigurazione anatomica di una donna gravida, col contenuto dell'addome rappresentato in sezione trasversale. Con quel manifesto sulla parete, Rizzoli si sentì a disagio accanto a Frost, come se il suo stesso corpo fosse messo in mostra: intestino, vescica, utero. Il feto raggomitolato col suo groviglio di arti. Solo una settimana prima Matilda Purvis era passata vicino a quel poster. «Siamo tutti addolorati per Mattie», affermò la dottoressa Fishman. «È la persona più dolce della terra ed è così entusiasta all'idea di avere un
bambino.» «All'ultima visita è andato tutto bene?» chiese Rizzoli. «Oh, sì. Toni cardiaci fetali netti, posizione buona. Tutto perfetto.» Fishman lanciò un'occhiata a Jane e con voce cupa chiese: «Pensa sia stato il marito?» «Perché me lo chiede?» «Be', di solito non è il marito? L'ha accompagnata una volta soltanto, proprio all'inizio, e per tutta la visita è apparso annoiato. Dopodiché Mattie è sempre venuta da sola: per me è il segno rivelatore. Un bambino si fa in due e in due si deve affrontare ogni momento. Ma questa è soltanto la mia opinione.» La dottoressa aprì una porta e disse: «Questa è la nostra sala conferenze». Larry della Minute Man Security Systems li aspettava all'interno. «Ho pronto il video da mostrarvi», disse. «Ho circoscritto il periodo temporale che vi interessa. Dottoressa Fishman, dovrebbe guardare il filmato e dirci quando individua la sua paziente sul video.» La Fishman sospirò e si sistemò su una sedia davanti al monitor. «Non ne ho mai dovuto guardare uno prima.» Rizzoli e Frost le si sedettero accanto, uno per lato. «D'accordo», esclamò Jane. «Vediamo che cos'avete.» Larry premette PLAY. Sul monitor comparve un'inquadratura in campo lungo dell'ingresso principale dell'ambulatorio. Era una bella giornata, col sole che scintillava su una fila di macchine parcheggiate davanti all'edificio. «Questa telecamera è montata in cima al lampione del parcheggio», spiegò Larry. «Qui, in basso, vedete l'ora. Le quattordici e cinque.» Una Saab entrò nell'inquadratura e s'infilò in un posto. La portiera del guidatore si aprì e ne uscì una brunetta alta che si diresse con andatura tranquilla verso l'ambulatorio in cui scomparve. «L'appuntamento di Mattie era all'una e trenta», disse Fishman. «Forse dovrebbe tornare un po' indietro.» «Guardate ancora un pezzo», affermò Larry. «Ecco. Le due e trenta. È lei?» Una donna era appena uscita dall'edificio. Si fermò per un istante al sole e si passò le mani sugli occhi come se fosse accecata dalla luce. «È lei», disse Fishman. «È Mattie.» Mattie iniziò ad allontanarsi dall'edificio avanzando con la caratteristica andatura da papero delle donne al termine della gravidanza. Si mosse len-
tamente, frugando nella borsa in cerca delle chiavi con aria assente, senza prestare attenzione. All'improvviso si fermò e si guardò attorno con aria stupita, come se non ricordasse più dov'era parcheggiata l'auto. Sì, era proprio una donna che non si sarebbe mai accorta di avere una gomma a terra, pensò Rizzoli. Adesso Mattie si voltò e si avviò in una direzione completamente diversa, scomparendo dall'inquadratura. «È tutto quello che avete?» chiese Rizzoli. «È quello che voleva, no?» rispose Larry. «La conferma dell'ora in cui ha lasciato l'edificio.» «Ma dov'è la macchina? Non la vediamo salire in macchina.» «Sospettate che non ci sia salita?» «Vorrei solo vederla uscire dal parcheggio.» Larry si alzò e si avvicinò agli apparecchi video. «C'è un'altra ripresa che le posso mostrare, da una telecamera posizionata esattamente dall'altra parte del parcheggio», disse cambiando nastro. «Ma non credo vi sia di grande aiuto perché è molto lontana.» Prese quindi il telecomando e premette di nuovo PLAY. Apparve un'altra inquadratura. Stavolta era visibile solo un angolo dell'ambulatorio e gran parte dello schermo era occupato dalle auto posteggiate. «Il parcheggio è in comune con l'ambulatorio medico-chirurgico che si trova dall'altra parte», spiegò Larry. «Per questo vedete così tante macchine qui. Bene, vediamo. Non è lei?» In lontananza si vedeva la testa di Mattie avanzare lungo una fila di auto, poi d'un tratto scomparve alla vista. Un attimo dopo una macchina blu uscì dal parcheggio e dall'inquadratura. «È tutto quello che abbiamo», affermò Larry. «Esce dall'edificio, entra in macchina e se ne va. Qualsiasi cosa le sia accaduto, non le è accaduto nel nostro parcheggio», aggiunse e fece per prendere il telecomando. «Aspetti», esclamò Rizzoli. «Che c'è?» «Torni indietro.» «Quanto indietro?» «All'incirca trenta secondi.» Larry premette REWIND e i pixel digitali si confusero sul monitor per ricomporsi poco dopo a formare un'immagine di auto parcheggiate. Ecco che si vedeva Mattie entrare in macchina. Rizzoli si alzò dalla sedia, si avvicinò al monitor e fissò la scena mentre Mattie si allontanava. Mentre una
chiazza bianca appariva e si spostava in un angolo dell'inquadratura, nella stessa direzione della BMW di Mattie. «La blocchi», disse Rizzoli. L'immagine si fermò e Jane toccò lo schermo. «Lì. Quel furgone bianco.» «Si muove parallelo all'auto della vittima», osservò Frost. Della vittima. Presumevano già il peggio sulle sorti di Mattie. «E allora?» chiese Larry. Rizzoli guardò Fishman. «Riconosce quel furgone?» La dottoressa si strinse nelle spalle. «Non faccio mai attenzione alle macchine. Non distinguo né marche né modelli.» «Ma ha già visto prima questo furgone?» «Non lo so. Mi sembra identico a qualsiasi altro furgone bianco.» «Perché le interessa quel furgone?» chiese Larry. «Voglio dire, avete visto che entra in macchina sana e salva e se ne va.» «Lo riavvolga», disse Rizzoli. «Vuole rivedere questa parte?» «No, voglio andare ancora indietro.» Guardando Fishman, chiese: «Ha detto che aveva appuntamento all'una e trenta?» «Sì.» Larry premette il telecomando. Di nuovo sul monitor i pixel si mescolarono per poi ricomporsi. L'ora indicata in basso era 1.02. «Ci siamo, più o meno», disse Rizzoli. «Vediamo.» Mentre i secondi scorrevano, videro diverse macchine entrare e uscire dall'inquadratura, una donna prendere due bambini piccoli dai seggiolini e attraversare il posteggio tenendoli saldamente per mano. All'1.08 apparve il furgone bianco. Percorse lentamente la fila di macchine, poi scomparve dal campo visivo della telecamera. All'1.25 la BMW blu di Mattie Purvis entrò nel parcheggio. La donna era parzialmente nascosta dalla fila di macchine posta tra lei e la telecamera, e ne videro solo la testa quando uscì e si avviò verso l'edificio. «È sufficiente?» chiese Larry. «Continui», disse Rizzoli. «Che cosa stiamo cercando?» Rizzoli sentì il polso accelerarle. «Quello», rispose a voce bassa. Il furgone bianco era ricomparso sullo schermo e si stava muovendo lentamente lungo la serie di macchine, poi si fermò fra la telecamera e la BMW blu. «Merda», esclamò Rizzoli. «Ci blocca la vista! Non vediamo quello che
fa il guidatore.» Alcuni secondi dopo il furgone ripartì. Non avevano scorto nemmeno fugacemente il volto del guidatore né avevano visto il numero di targa. «Che significa tutto questo?» chiese la dottoressa Fishman. Rizzoli si voltò e guardò Frost. Non aveva bisogno di dire niente: tutti e due avevano capito che cosa fosse successo in quel parcheggio. La gomma a terra. Anche Theresa e Nikki avevano una gomma a terra. Così le trova, pensò Jane. Nei parcheggi degli ambulatori. Donne incinte che vanno dal medico. Tagli velocemente la gomma e poi è solo questione di attendere. Segui la tua preda quando esce dal parcheggio e, quando si ferma, tu sei pronto, alle sue spalle. Pronto a darle una mano. Mentre Frost guidava, Rizzoli pensò alla vita che portava in grembo, a quanto fosse sottile la barriera di pelle e di muscolo che avvolgeva il suo bambino. Una lama non doveva tagliare in profondità. Una rapida incisione lungo l'addome, dallo sterno al pube, senza curarsi della cicatrice perché non ci sarebbe stata alcuna guarigione, alcuna preoccupazione per la salute della madre. Questa era solo un contenitore usa e getta, che veniva aperto per prelevare il tesoro al suo interno. Jane si premette le mani sul ventre e all'improvviso si sentì male per quello che, in quel momento, Mattie Purvis stava probabilmente passando. Di certo Mattie non aveva fantasticato su quelle visioni grottesche ogniqualvolta si guardava allo specchio. Forse osservava la ragnatela di smagliature sull'addome, afflitta per il fatto di non essere più attraente. Afflitta perché ora il marito, quando la guardava, lo faceva con disinteresse, non con desiderio. Non con amore. Sapevi che Dwayne aveva una relazione? Guardò Frost. «Avrà bisogno di un intermediario.» «Che cosa?» «Quando mette le mani su un nuovo bambino, che cosa ne fa? Lo porta per forza da un mediatore. Qualcuno che predisponga l'adozione, che prepari le carte e che lo paghi.» «Van Gates.» «Sappiamo che l'ha fatto per Amalthea, almeno una volta.» «È stato quarant'anni fa.» «Di quante altre adozioni si sarà occupato da allora? Quanti altri bambini avrà piazzato presso famiglie paganti? Dev'essere una buona fonte di soldi.» Soldi che gli servono per mantenere la moglie trofeo con le sue tu-
tine rosa di spandex. «Van Gates non collaborerà.» «Sicuro, ma adesso sappiamo che cosa tenere d'occhio.» «Il furgone bianco.» Per qualche istante Frost guidò in silenzio. «Sai», disse poco dopo, «se quel furgone compare davanti a casa sua, significa probabilmente...» La sua voce si smorzò. Che Mattie Purvis è già morta, pensò Rizzoli. 26 Mattie premette la schiena contro una parete e posò i piedi su quella di fronte, poi spinse. Contò i secondi finché le gambe le tremarono e il sudore le imperlò il viso. Dai, altri cinque secondi, dieci. Rilassò i muscoli, ansimando, con i polpacci e le cosce che le bruciavano piacevolmente. In quella cassa non li aveva quasi usati, aveva passato troppe ore raggomitolata ad autocommiserarsi mentre i suoi muscoli si rammollivano. Si ricordò di quando aveva preso l'influenza, una brutta influenza che l'aveva stesa, con la febbre alta e i brividi. Pochi giorni dopo era scesa dal letto e si era sentita tanto debole che aveva dovuto gattonare per andare in bagno. Questo ti capita quando te ne stai troppo distesa: perdi le forze. Ben presto avrebbe avuto bisogno dei muscoli: avrebbe dovuto essere pronta quando fosse tornato. Perché sarebbe tornato. Basta riposare. I piedi sulla parete, di nuovo. Spingi! Mattie grugnì con la fronte tutta sudata. Pensò al film Soldato Jane, al corpo tonico e liscio di Demi Moore quando sollevava pesi. Mattie si focalizzò su quell'immagine mentre spingeva le gambe contro la parete della sua prigione. Visualizza i muscoli e reagisci. Sconfiggi quel bastardo. Ansimando, si rilassò di nuovo e riposò appoggiata alla parete, respirando profondamente mentre il dolore alle gambe scompariva. Stava per ripetere l'esercizio quando sentì una tensione al ventre. Un'altra contrazione. Attese trattenendo il fiato, sperando che passasse presto. Ecco, stava già diminuendo. Era solo l'utero che allenava i suoi muscoli, così come lei allenava i suoi. Non provò dolore, ma era segno che il momento si stava av-
vicinando. Aspetta, bambina mia. Dovrai aspettare ancora un po'. 27 Ancora una volta Maura si stava privando di tutte le prove della sua identità. Mise la borsa nell'armadietto, insieme all'orologio, alla cintura e alle chiavi dell'auto. Ma anche con la mia carta di credito, la patente e il numero di Previdenza sociale, pensò, non so chi sono veramente. L'unica persona che conosce quella risposta mi sta aspettando dall'altra parte della barriera. Entrò nell'anticamera visitatori, si tolse le scarpe per l'ispezione, poi passò nel metal detector. Una secondina la stava aspettando. «Dottoressa Isles?» «Sì?» «Ha richiesto una stanza colloqui?» «Devo parlare da sola con la detenuta.» «Sarà comunque osservata, lo sa?» «Purché la conversazione resti riservata.» «È la stessa stanza che le detenute usano per conferire con i loro avvocati. Perciò avrà la sua privacy.» La guardia condusse Maura nell'area ricreativa e lungo un corridoio. Lì aprì una porta chiusa a chiave e le fece cenno di entrare. «La condurremo qui. Si accomodi.» Maura entrò nella stanza colloqui e si ritrovò davanti a un tavolo con due sedie. Si sedette su quella rivolta verso la porta. Una finestra di plexiglas dava sul corridoio e due telecamere di sorveglianza la scrutavano da due angoli opposti del locale. Attese con le mani sudate nonostante l'aria condizionata. Quando sollevò lo sguardo, trasalì vedendo gli occhi scuri, vitrei di Amalthea che la fissavano dalla finestra. La guardia l'accompagnò nella stanza e la fece sedere sulla sedia. «Oggi non è molto in vena di parlare. Non so se le dirà qualcosa, ma eccola qui.» Chinandosi, legò la caviglia di Amalthea alla gamba del tavolo con un paio di manette. «È davvero necessario?» chiese Maura. «È il regolamento, per la sua sicurezza.» La guardia si raddrizzò. «Quando ha finito, prema questo tasto qui, sull'interfono a muro. Verremo a prenderla.» Poi diede una piccola pacca sulla spalla di Amalthea e disse: «Parla, parla con la signora, va bene, tesoro? Ha fatto tutta questa strada
solo per vederti». Lanciò a Maura un'occhiata come per dirle buona fortuna e uscì chiudendo a chiave la porta alle sue spalle. Passò un istante. «La scorsa settimana sono venuta a trovarti», esordì Maura. «Ricordi? Quando stavo per andarmene, mi hai detto una cosa. Hai detto: Adesso morirai anche tu. Che cosa intendevi?» Silenzio. «Mi stavi avvertendo, non è così? Mi stavi dicendo di lasciarti in pace. Non volevi che scavassi nel tuo passato.» Di nuovo silenzio. «Nessuno ci sta ascoltando, Amalthea. Siamo solo tu e io in questa stanza.» Maura posò le mani sul tavolo per mostrare che non aveva registratori o notes. «Non sono un poliziotto né un pubblico ministero. Puoi dirmi tutto quello che vuoi, saremo le sole a sentire.» Chinandosi in avanti, aggiunse pacatamente: «So che sei in grado di capire ogni parola, quindi guardami, maledizione. Ne ho abbastanza di questi giochetti». Amalthea non sollevò la testa, ma sarebbe stato impossibile non notare l'improvvisa tensione delle sue braccia, la contrazione dei muscoli. Mi sta ascoltando, senza alcun dubbio. Aspetta di sentire il resto. «Era una minaccia, vero? Quando mi hai detto che sarei morta, era per suggerirmi di stare alla larga altrimenti avrei fatto la stessa fine di Anna. Ho pensato fossero solo le farneticazioni di una psicotica, invece tu parlavi sul serio. Tu lo stai proteggendo, vero? Stai proteggendo la Bestia.» Lentamente la testa di Amalthea si sollevò e i suoi occhi scuri incrociarono quelli di Maura, freddi, vuoti, tanto che questa arretrò con la pelle che le formicolava tutta. «Sappiamo di lui», proseguì Maura. «Sappiamo di voi due.» «Che cosa sapete?» Maura non si aspettava parlasse. La domanda era stata sussurrata con voce tanto flebile che si chiese se l'avesse sentita davvero. Deglutì e respirò profondamente, scossa dal nero abisso di quegli occhi. Lì non c'era pazzia, solo vuoto. «Tu sei sana di mente quanto me», disse Maura. «Ma non lo fai sapere a nessuno. È molto più facile nascondersi dietro la maschera della schizofrenia. È molto più facile fare la psicotica perché la gente lascia sempre in pace i matti. Non si preoccupano di interrogarti, non scavano più a fondo perché pensano che siano tutti deliri, e adesso non ti danno nemmeno più i farmaci perché sei così brava a fingere gli effetti collaterali.» Maura si co-
strinse a fissare più in profondità in quel vuoto. «Non sanno che la Bestia è reale, ma tu sì. E sai dove si trova.» Amalthea rimase perfettamente immobile, ma il suo viso si era teso. I muscoli si erano contratti attorno alla bocca e formavano cordoni in rilievo sul collo. «Era la tua unica alternativa, vero? Fingerti pazza. Non potevi negare l'evidenza: il sangue sulla leva per pneumatici, i portafogli rubati. Ma se li avessi convinti che eri psicotica, forse avresti evitato ulteriori indagini. Forse non avrebbero scoperto tutte le altre vittime. Le donne che hai ucciso in Florida e in Virginia, in Texas e Arkansas, Stati in cui vige la pena di morte.» Maura si protese ancora. «Perché non lo consegni alla polizia, Amalthea? In fondo, lui ha lasciato che ti prendessi la colpa ed è ancora là fuori a uccidere. Va avanti senza di te, torna negli stessi posti, negli stessi terreni di caccia. Ha appena rapito un'altra donna a Natick. Tu puoi fermarlo, Amalthea. Puoi mettere fine a tutto questo.» Amalthea sembrava trattenere il fiato, in attesa. «Guardati, chiusa qui in prigione.» Maura scoppiò a ridere. «Sei proprio una fallita. Perché devi stare qui dentro quando Elijah è libero?» Amalthea batté le palpebre e in un attimo ogni rigidità parve scomparire dai suoi muscoli. «Parlami», incalzò Maura. «Non c'è nessun altro in questa stanza, solo tu e io.» Lo sguardo di Amalthea si spostò su una delle telecamere posizionate negli angoli. «Sì, ci possono vedere», disse Maura. «Ma non sentire.» «Tutti ci possono sentire», bisbigliò Amalthea e poi si concentrò su Maura. Il suo sguardo insondabile era diventato freddo, sicuro di sé. E spaventosamente lucido, come se d'un tratto fosse emersa una nuova persona che la fissava da quegli occhi. «Perché sei qui?» «Voglio sapere. Elijah ha ucciso mia sorella?» Ci fu un lungo silenzio. Stranamente in quegli occhi comparve un lampo divertito. «Perché mai avrebbe dovuto?» «Sai che Anna è stata assassinata, vero?» «Perché non mi fai una domanda a cui posso rispondere? La vera domanda per cui sei venuta.» La voce di Amalthea era bassa, confidenziale. «Questa faccenda riguarda te, Maura, giusto? Che cos'è che vuoi sapere?» Maura la fissò col cuore che le batteva forte. Un'unica domanda le affiorò dolorosamente alle labbra. «Voglio che mi dica...»
«Sì?» Era solo un mormorio, flebile come una voce mentale nella testa di Maura. «Chi è veramente mia madre?» La bocca di Amalthea si piegò in un sorriso. «Vuoi dire che non noti la somiglianza?» «Dimmi soltanto la verità.» «Guardami. E guardati allo specchio. Lì troverai la verità.» «In me non riconosco niente di te.» «Ma io mi riconosco in te.» Maura scoppiò a ridere, stupita d'essere in grado di farlo. «Non so perché sia venuta. Questa visita è una perdita di tempo.» Scostò la sedia e fece per alzarsi. «Ti piace lavorare con i morti, Maura?» Sorpresa dalla domanda, Maura si bloccò. «È questo quello che fai, giusto?» disse Amalthea. «Li apri, prendi i loro organi, affetti i loro cuori. Perché lo fai?» «È il mio lavoro.» «Perché lo hai scelto?» «Non sono qui per parlare di me.» «Sì invece. Tutto questo riguarda te. Chi sei veramente.» Lentamente Maura si risedette. «Perché allora non me lo dici?» «Tu apri la pancia dei morti, affondi le mani nel loro sangue. Perché pensi d'essere diversa?» Amalthea si era avvicinata tanto impercettibilmente che Maura trasalì quando si accorse quanto le fosse vicina. «Guardati allo specchio, vedrai me.» «Non apparteniamo assolutamente alla stessa specie.» «Se è questo quello che vuoi credere, chi sono io per farti cambiare idea?» Amalthea la fissò risoluta. «C'è sempre il DNA.» Maura restò senza fiato. È un bluff, pensò. Amalthea vuol vedere se abbocco, se desidero veramente conoscere la verità. Il DNA non mente. Infilandole un tampone in bocca, potrei avere la risposta. Potrei vedere confermate le mie peggiori paure. «Sai dove trovarmi», disse lei. «Torna quando sei pronta per la verità.» Poi si alzò, facendo tintinnare la manetta contro la gamba del tavolo, e guardò verso la telecamera, segno per la guardia che se ne voleva andare. «Se tu sei mia madre», disse Maura, «allora dimmi chi è mio padre.» Amalthea le lanciò un'occhiata abbozzando di nuovo un sorriso sulle labbra. «Non lo hai capito?»
La porta si aprì e la guardia fece capolino. «È tutto a posto qui?» La trasformazione fu stupefacente. Un attimo prima Amalthea aveva fissato Maura con sguardo freddo, calcolatore, un attimo dopo quella persona era scomparsa, sostituita dal fantasma di una donna che strattonava la manetta quasi senza rendersi conto di ciò che le impediva di muoversi. «Andare», borbottò. «Voglio... voglio andare.» «Sì, tesoro, certo, andiamo.» La secondina guardò Maura. «Immagino abbia finito con lei.» «Per ora», rispose Maura. Rizzoli non si aspettava la visita di Charles Cassell, perciò restò sorpresa quando il sergente all'ingresso la chiamò per informarla che il dottor Cassell la stava aspettando nell'atrio. Quando uscì dall'ascensore e lo scorse, restò sconvolta nel vedere quanto fosse cambiato: in una settimana soltanto sembrava invecchiato di dieci anni. Aveva chiaramente perso peso e il suo viso era ora smunto, pallido. La giacca del vestito, pur di ottima fattura, pareva cadergli informe sulle spalle curve. «Le devo parlare», disse. «Devo sapere che sta succedendo.» Lei annuì all'agente al banco. «Lo accompagno di sopra.» Mentre entravano nell'ascensore, Cassell affermò: «Nessuno mi dice niente». «Capisce, ovviamente, che è la norma durante un'indagine in corso.» «Mi incriminerete? Il detective Ballard dice che è solo questione di tempo.» Lei lo guardò. «Quando glielo ha detto?» «Ogni maledetta volta che lo sento. È questa la strategia, detective? Spaventarmi, intimorirmi perché scenda a patti?» Lei non disse nulla. Non sapeva delle continue telefonate di Ballard a Cassell. Uscirono dall'ascensore e Rizzoli lo condusse in una sala colloqui, dove si sedettero l'uno di fronte all'altra all'estremità di un tavolo. «Mi deve dire qualcosa?» chiese. «Perché se così non è, quest'incontro non ha alcuna ragione d'essere.» «Io non l'ho uccisa.» «Questo lo ha già detto.» «La prima volta non mi avete ascoltato.» «C'è qualcos'altro che mi vuol dire?» «Avete verificato i miei viaggi aerei, vero? Vi ho dato le informazioni.»
«La Northwest Airlines ha confermato che era su quel volo, ma questo non le fornisce un alibi per la sera dell'omicidio di Anna.» «E vi siete preoccupati di controllare dov'ero quando è accaduto l'episodio dell'uccellino morto nella cassetta della posta? Non ero in città, la mia segretaria ve lo può confermare.» «Di nuovo non capisce che non dimostra la sua innocenza. Potrebbe aver pagato qualcuno perché spezzasse il collo all'uccellino e lo mettesse nella cassetta della posta di Anna.» «Ammetto spontaneamente quello che ho fatto: sì, l'ho seguita. Sono passato in macchina davanti a casa sua forse una decina di volte. E sì, l'ho picchiata quella sera e non me ne vanto. Ma non l'ho mai minacciata di morte. Non ho mai ucciso nessun uccellino.» «È tutto qui quello che è venuto a dirmi? Perché se è così...» Rizzoli fece per alzarsi. Con suo sgomento Cassell si allungò e la prese per un braccio, stringendola con tale forza che lei reagì subito mettendosi sulle difensive. Gli afferrò la mano e con un movimento di torsione gliel'allontanò. Lui grugnì di dolore e si rimise a sedere con un'aria stordita. «Vuole che le spezzi il braccio?» chiese Rizzoli. «Provi solo a rifare quel giochetto.» «Mi spiace», mormorò lui fissandola con sguardo affranto. Tutta la rabbia che aveva accumulato in quello scambio di battute sembrava svanita di colpo. «Dio, quanto mi spiace...» Lei lo guardò, rannicchiato sulla sedia, e pensò: il suo dolore è sincero. «Devo solo sapere che sta succedendo», disse. «Devo sapere se state facendo qualcosa.» «Io sto facendo il mio lavoro, dottor Cassell.» «Tutto quello che fate è indagare su di me.» «Questo non è vero. È un'indagine ad ampio raggio.» «Ballard dice...» «Il detective Ballard non è a capo dell'indagine: io sì. E mi creda, sto considerando tutte le prospettive possibili.» Lui annuì, fece un profondo respiro e si raddrizzò. «Questo è proprio quello che volevo sentire, che state facendo di tutto, che non tralasciate niente. Al di là di quello che pensate di me, la verità vera è che io l'amavo.» Passandosi le mani tra i capelli, aggiunse: «È terribile quando qualcuno ti lascia». «Sì.»
«Quando ami qualcuno, è naturale che tu voglia tenerlo con te. Fai cose folli, disperate...» «Persino uccidere?» «Io non l'ho uccisa.» Cassell incrociò lo sguardo di Rizzoli. «Ma sì, avrei ucciso per lei.» In quel momento il cellulare di Rizzoli prese a squillare e lei si alzò. «Mi scusi», disse e uscì dalla stanza. Era Frost. «La sorveglianza ha appena individuato un furgone bianco nelle vicinanze della residenza di Van Gates», affermò. «È passato lentamente davanti alla casa circa quindici minuti fa, ma non si è fermato. È possibile che il guidatore abbia visto i nostri ragazzi, perciò si sono spostati un po' più in giù lungo la strada.» «Perché pensi sia il furgone giusto?» «Le targhe sono rubate.» «Che cosa?» «Hanno dato un'occhiata alle targhe. Sono state staccate da una Dodge Caravan tre settimane fa, a Pittsfield.» Pittsfield, pensò Jane, proprio oltre il confine di Stato, non lontano da Albany. Dove soltanto un mese fa è scomparsa una donna. Restò immobile col ricevitore premuto all'orecchio e il polso che cominciava a batterle forte. «Dov'è adesso il furgone?» «La nostra squadra è rimasta ferma, non lo ha seguito. Quando hanno avuto le informazioni sulle targhe, era già scomparso. Non è più tornato.» «Cambiamo macchina, spostiamo gli agenti in una strada parallela. Piazzate una seconda squadra a sorvegliare la casa. Se il furgone torna, ci possiamo alternare. Due auto che fanno i turni.» «Bene, io sto andando lì.» Jane spense il cellulare e si voltò a guardare nella sala colloqui dove Charles Cassell era ancora seduto al tavolo con la testa china. Quello che vedo è amore o ossessione? si chiese. A volte non riuscivi a stabilire la differenza. 28 La luce del giorno stava svanendo quando Rizzoli risalì lentamente Dedham Parkway. Individuò l'auto di Frost e parcheggiò dietro di lui. Scese e s'infilò sul sedile del passeggero della sua macchina. «Allora?» chiese. «Che succede?»
«Un accidente di niente.» «Merda. È passata più di un'ora. Lo abbiamo spaventato?» «C'è sempre la possibilità che non fosse Lank.» «Furgone bianco, targhe rubate di Pittsfield?» «Be', non si è fermato in zona. Non è tornato.» «Quando è stata l'ultima volta che Van Gates è uscito di casa?» «Lui e la moglie sono andati a fare la spesa verso mezzogiorno. Dopo sono rimasti a casa.» «Facciamo un giro. Voglio dare un'occhiata.» Frost passò accanto alla villa abbastanza lentamente da consentirle di dare una bella occhiata alla Tara di Sprague Street. Superarono la squadra di sorveglianza, parcheggiata dall'altra parte dell'isolato, svoltarono l'angolo e si fermarono accanto al marciapiede. «Sei sicuro che siano a casa?» «La squadra non ha visto uscire nessuno dopo mezzogiorno.» «L'abitazione mi sembra inquietantemente buia.» Rimasero seduti per qualche minuto mentre la luce del crepuscolo si affievoliva e l'agitazione di Rizzoli aumentava. Non aveva visto luci accese. Marito e moglie dormivano? Erano usciti senza che la sorveglianza li vedesse? Che cosa faceva il furgone in quel quartiere? Rizzoli guardò Frost. «Basta. Non ho intenzione di aspettare oltre. Andremo a fare una visitina.» Frost girò attorno alla casa e parcheggiò. Suonarono il campanello, bussarono alla porta, ma nessuno rispose. Rizzoli scese dal portico, risalì il vialetto e scrutò la facciata da villa coloniale del sud con le sue colonne bianche dall'aspetto fallico. Nemmeno al piano superiore c'erano luci. Il furgone, pensò. Era qui per una ragione. «Che ne pensi?» chiese Frost. Rizzoli sentì il cuore che iniziava a batterle forte e un formicolio d'inquietudine. Drizzò la testa e Frost colse il messaggio: Passiamo dal retro. Rizzoli si avviò verso il cortile laterale e aprì un cancello. Vide solo uno stretto sentiero di mattoni a ridosso di uno steccato. Non c'era spazio per un giardino: ci stavano a malapena i due bidoni delle immondizie. Varcò il cancello. Non avevano un mandato, ma lì qualcosa non andava: le formicolavano le mani, quelle stesse mani che erano state sfregiate da Warren Hoyt. Un mostro ti lascia il segno nella carne, nei sensi: dopo, sarai sempre in grado di capire quando uno della sua specie è nei paraggi.
Con Frost alle calcagna, Rizzoli passò accanto alle finestre buie e all'unità esterna di un condizionatore che soffiò sul suo corpo gelato un getto d'aria calda. Calma. Calma. Stavano violando una proprietà privata, ma tutto ciò che voleva era dare una sbirciata dalle finestre, un'occhiata dalla porta posteriore. Svoltò l'angolo e si ritrovò in un piccolo cortile posteriore delimitato da un recinto, il cui cancello era aperto: gli si avvicinò e guardò nel vicolo retrostante. Nessuno. Si avviò verso la casa e aveva quasi raggiunto la porta posteriore quando notò che era socchiusa. Lei e Frost si scambiarono un'occhiata. Entrambi impugnarono le armi. Era accaduto così rapidamente, così automaticamente che Rizzoli non si ricordò nemmeno di aver estratto la sua. Frost diede una spinta alla porta che si spalancò rivelando una striscia di piastrelle. E di sangue. Frost entrò e azionò un interruttore. Le luci della cucina si accesero e altro sangue balzò ai loro occhi dalle pareti, dai banconi, una cacofonia tanto violenta che Rizzoli arretrò barcollando come se avesse ricevuto uno spintone. Il bambino che portava in grembo scalciò, allarmato. Frost uscì dalla cucina e andò in corridoio. Lei invece rimase immobile a fissare Terence Van Gates: pareva un nuotatore dallo sguardo vitreo immerso in un lago di sangue. Il sangue non è nemmeno secco. «Rizzoli!» udì Frost gridare. «La moglie... è ancora viva!» Jane per poco non cadde mentre, goffa e impacciata a causa del pancione, usciva correndo dalla cucina. Il corridoio era un continuo dispiegarsi di orrori. Gli schizzi di sangue arterioso formavano una lunga scia e qua e là la parete era chiazzata da goccioline sparse. Seguì la traccia fino in soggiorno dove Frost, in ginocchio, stava abbaiando alla radio per chiedere un'ambulanza e nel contempo premeva una mano sul collo di Bonnie Van Gates. Il sangue gli colava tra le dita. Rizzoli si inginocchiò accanto alla donna ferita. Bonnie aveva gli occhi sgranati, rovesciati all'indietro dal terrore, come se avesse visto la Morte in persona lì, sopra di lei, pronta a portarla via. «Non riesco a fermarlo!» gridò Frost mentre il sangue continuava a gocciolargli tra le dita. Rizzoli afferrò un copridivano dal bracciolo del sofà e se lo avvolse attorno al pugno, poi si chinò per premere quel tampone improvvisato sul collo di Bonnie. Frost tolse la mano lasciando fluire sangue proprio mentre Jane cercava di tamponare la ferita. La stoffa appallottolata s'impregnò su-
bito. «Le sanguina anche la mano!» osservò Frost. Guardando in basso, Rizzoli vide un gocciolio rosso, costante, provenire dal palmo squarciato di Bonnie. Non riusciamo ad arrestarlo tutto... «L'ambulanza?» chiese. «Sta arrivando.» Bonnie sollevò all'improvviso la mano e afferrò il braccio di Rizzoli. «Stia ferma! Non si muova!» Bonnie scattò: adesso aveva entrambe le mani sollevate come un animale in preda al panico, pronto ad artigliare l'aggressore. «Tienila giù, Frost!» «Gesù, è forte.» «Bonnie, smettila! Stiamo cercando di aiutarti!» La donna diede un altro strattone e Rizzoli perse la presa. Una sensazione di calore le si diffuse sul volto e Jane avvertì il sapore del sangue. Il suo calore ferroso le fece venire i conati. Bonnie si contorse sul fianco e le sue gambe presero a muoversi a scatti, a mo' di pistoni. «Ha le convulsioni!» disse Frost. Rizzoli premette la guancia di Bonnie sul tappeto e riapplicò il tampone alla ferita. Ora il sangue era dappertutto: aveva macchiato la camicia di Frost e impregnato la giacca di Rizzoli che si sforzava di mantenere la pressione sulla pelle scivolosa. C'era così tanto sangue. Gesù, quanto ne poteva perdere una persona? Alcuni passi risuonarono nella casa. Era la squadra addetta alla sorveglianza, appostata più in su lungo la strada. Rizzoli non alzò nemmeno lo sguardo mente i due uomini si precipitavano nella stanza. Frost urlò loro di tenere ferma Bonnie, ma ormai non era quasi più necessario: le convulsioni si erano trasformate in tremiti agonici. «Non respira», disse Rizzoli. «Giratela sulla schiena! Forza, forza.» Frost posò la bocca su quella di Bonnie e vi soffiò aria. Quando si sollevò, aveva le labbra orlate di sangue. «Non c'è polso!» Uno dei poliziotti le piazzò le mani sul torace e iniziò le compressioni: mille e uno, mille e due, con i palmi sprofondati nel solco del seno hollywoodiano di Bonnie. A ogni spinta dalla ferita fuoriusciva solo un sottile rivolo di sangue. Nelle sue vene non ne restava più molto per mantenere il circolo, per nutrire gli organi vitali. Stavano pompando da un pozzo vuoto.
L'équipe dell'ambulanza arrivò con tubi, monitor e flaconi di liquidi per endovena. Rizzoli si scostò per lasciar loro spazio e d'un tratto si sentì tanto stordita che dovette sedersi. Sprofondò in una poltrona e chinò la testa, poi si accorse d'essere seduta su una stoffa bianca e pensò che probabilmente la stava imbrattando con i suoi abiti sporchi di sangue. Quando sollevò di nuovo la testa, vide che Bonnie era stata intubata. La camicetta le era stata strappata e il reggiseno tagliato. I cavi dell'ECG le serpeggiavano sul petto. Soltanto una settimana prima Rizzoli l'aveva giudicata una Barbie, una donna stupida, di plastica, con la sua camicetta rosa attillata e i suoi sandali con i tacchi a spillo. Proprio di plastica sembrava ora, con la carne simile a cera, gli occhi privi della luce dell'anima. Rizzoli individuò uno dei sandali di Bonnie per terra, a un paio di metri di distanza, e si chiese se avesse cercato di fuggire con quelle scarpe impossibili. S'immaginò il frenetico ticchettare lungo il corridoio mentre si lasciava dietro schizzi di sangue, mentre lottava con i tacchi a spillo. Perfino dopo che l'unità medica di emergenza aveva portato via Bonnie, Rizzoli continuò a fissare quel sandalo inutile. «Non ce la farà», disse Frost. «Lo so.» Rizzoli lo guardò. «Hai del sangue sulla bocca.» «Dovresti guardarti allo specchio. Direi che tutti e due siamo stati più che esposti.» Jane pensò al sangue e a tutte le orribili malattie che poteva trasmettere: HIV, epatite. «Aveva un'aria piuttosto sana», fu tutto ciò che riuscì a dire. «Che cosa c'entra», replicò Frost. «Tu aspetti un bambino, con quel che ne consegue.» Ma che diavolo faceva lì, con i vestiti impregnati del sangue di una donna morta? Dovrei essere a casa davanti al televisore, pensò, con i piedi gonfi sollevati. Questa non è vita per una madre. Non è vita per nessuno. Cercò di alzarsi di spinta dalla poltrona. Frost le porse la mano e lei, per la prima volta, la prese lasciando che la sollevasse. A volte, pensò, devi accettare un aiuto. A volte devi ammettere che non puoi fare tutto da sola. Aveva la camicetta rigida e le mani incrostate di marrone. Ben presto sarebbe arrivata la Scientifica, e anche la stampa. Sempre quella maledetta stampa. Era tempo di ripulirsi e di mettersi al lavoro. Maura scese dall'auto e restò disorientata dall'assalto delle telecamere e dei microfoni puntati. Le luci delle auto della polizia lampeggiavano, bian-
che e blu, illuminando la folla di curiosi radunata lungo il nastro perimetrale. Maura non esitò, non diede ai media alcuna possibilità di avvicinarla mentre si dirigeva a passo svelto verso la casa e faceva cenno al poliziotto che sorvegliava la scena del crimine. Questi rispose al saluto con un'espressione perplessa. «Uh... il dottor Costas è già qui...» «E ci sono anch'io», rispose lei infilandosi sotto il nastro. «Dottoressa Isles?» «È dentro?» «Sì, ma...» Lei continuò a camminare sapendo che non le avrebbe creato problemi. Il suo aspetto autoritario le garantiva una libertà d'azione che pochi poliziotti osavano mettere in dubbio. Maura si fermò davanti alla porta principale per infilarsi guanti e soprascarpe, due accessori indispensabili quando c'era di mezzo il sangue. Poi entrò in casa, dove i tecnici della Scientifica la degnarono a malapena di un'occhiata. La conoscevano tutti e non avevano ragione di opporsi alla sua presenza. Maura avanzò senza difficoltà dall'atrio al soggiorno e vide il tappeto insanguinato, le tracce lasciate dall'équipe dell'ambulanza: siringhe, confezioni strappate, tamponi di garza sporca lordavano il pavimento. Il corpo però non c'era. Si avviò lungo un corridoio sulle cui pareti la violenza aveva lasciato il segno. Da un lato schizzi di sangue arterioso, dall'altro, più piccole, le goccioline sparse dalla lama dell'inseguitore. «Dottoressa?» Rizzoli era in piedi in fondo al corridoio. «Perché non mi hai chiamata?» disse Maura. «Del caso si occupa Costas.» «Così mi hanno appena detto.» «La tua presenza qui non è necessaria.» «Me lo avresti potuto dire, Jane. Avresti potuto informarmi.» «Questo caso non è tuo.» «Questo caso riguarda mia sorella. Riguarda me.» «Per questo non è tuo.» Rizzoli le si avvicinò con sguardo deciso. «Non c'è bisogno che te lo ricordi. Lo sai già.» «Non sto chiedendo di seguire il caso. Quello che mi dispiace è non essere stata avvertita.» «Non ne ho avuto modo, va bene?» «È questa la scusa?» «È la verità, maledizione!» Rizzoli indicò il sangue sulle pareti. «Ab-
biamo due vittime. Io non ho cenato, non mi sono fatta una doccia per togliermi il sangue dai capelli. Santo cielo, non ho nemmeno il tempo di pisciare!» Voltandosi aggiunse: «Ho di meglio da fare che giustificarmi con te». «Jane.» «Va' a casa, dottoressa. Lasciami fare il mio lavoro.» «Jane! Mi spiace. Non avrei dovuto dirlo.» Rizzoli si girò e Maura vide quello che fino a quel momento non era riuscita a cogliere: gli occhi segnati, le spalle curve. Si regge a stento in piedi. «Spiace anche a me.» Jane guardò la parete macchiata di sangue. «Lo abbiamo mancato per tanto così», disse avvicinando pollice e indice. «Avevamo una squadra in strada, incaricata di sorvegliare la casa. Non so come abbia individuato l'auto, ma l'ha superata ed è passato dal cancello posteriore.» Scosse la testa. «In qualche modo sapeva. Sapeva che lo stavamo cercando. Per questo Van Gates era un problema...» «Lo ha avvertito lei.» «Chi?» «Amalthea. Dev'essere stata lei per forza. Una telefonata, una lettera. Un messaggio portato fuori da una guardia. Sta proteggendo il suo complice.» «Pensi sia abbastanza lucida da poterlo fare?» «Sì», rispose Maura con tono esitante. «Oggi sono andata a trovarla.» «E quando me lo avresti detto?» «Lei conosce i segreti che mi riguardano. Conosce le risposte.» «Lei sente le voci, santo cielo!» «No. Sono convinta che sia perfettamente sana di mente e che sappia esattamente ciò che fa. Sta proteggendo il suo complice, Jane. Non lo consegnerà mai.» Rizzoli la guardò per un attimo in silenzio. «Forse dovresti vedere una cosa. Devi sapere quello a cui ci troviamo di fronte.» Maura la seguì in cucina e si fermò sulla soglia, sbalordita di fronte alla carneficina che vide nella stanza. Il suo collega, il dottor Costas, era accovacciato accanto al corpo e sollevò lo sguardo con aria perplessa. «Non sapevo che mi affiancassi.» «Non ne ho l'intenzione. Dovevo solo vedere...» Fissò Terence Van Gates e deglutì visibilmente. Costas si alzò in piedi. «In questo caso è stato maledettamente efficace. Nessuna ferita da difesa, nessuna indicazione che la vittima abbia avuto la possibilità di lottare. Un singolo taglio, quasi da orecchio a orecchio. Si è
avvicinato da dietro. L'incisione inizia in alto a sinistra, attraversa la trachea e si abbassa lievemente sul lato destro.» «L'aggressore è destrimane.» «E anche forte.» Costas si chinò e reclinò il capo della vittima con delicatezza, mostrando un anello cartilagineo lucente esposto. «Qui arriviamo fino alla colonna vertebrale.» Lasciò andare la testa che rotolò in avanti e i due margini dell'incisione tornarono a combaciare. «Un'esecuzione», mormorò. «In piena regola.» «La seconda vittima... in soggiorno...» «La moglie. È morta al pronto soccorso un'ora fa.» «La sua esecuzione non è stata altrettanto efficace», osservò Rizzoli. «Crediamo che l'assassino abbia eliminato prima l'uomo. Forse Van Gates attendeva la sua visita. Forse lo ha condotto in cucina, pensando si trattasse di lavoro, ma non si aspettava di certo un'aggressione. Non ci sono ferite da difesa, nessun segno di lotta. Gli ha dato le spalle e si è accasciato a terra come un agnello sacrificato.» «E la moglie?» «Bonnie è un altro paio di maniche.» Rizzoli fissò Van Gates, i ciuffi colorati di capelli trapiantati, emblema della vanità di un vecchio. «Bonnie deve averli sorpresi. Entra in cucina e vede il sangue. Vede il marito lì per terra, seduto, con il collo quasi completamente reciso. Anche l'assassino è lì, ancora col coltello in mano. Il condizionatore è in funzione e tutte le finestre sono chiuse. Hanno i doppi vetri, così la nostra squadra parcheggiata in strada non sente le urla. Ammesso che sia riuscita a urlare.» Rizzoli si girò a guardare la porta che conduceva in corridoio e si fermò, quasi vedesse la donna morta in piedi davanti a lei. «Vede l'assassino che si getta su di lei, ma, a differenza del marito, reagisce. Fa tutto quello che può mentre il coltello si avvicina: lo afferra per la lama e questa le taglia il palmo della mano, resecando pelle e tendini fin quasi all'osso. Affonda tanto da reciderle l'arteria.» Rizzoli indicò oltre la soglia, verso il corridoio. «Scappa da quella parte col sangue che le zampilla dalla mano. Lui le è alle calcagna e nel salotto la chiude in trappola. Anche in quell'occasione lei reagisce, cerca di difendersi dalla lama con le braccia, ma lui affonda ancora una volta la lama, nel collo. Non lo incide tanto in profondità come nel caso del marito, ma quanto basta.» Rizzoli guardò Maura. «Quando l'abbiamo trovata era viva. Gli eravamo arrivati a tanto così.»
Maura fissò Terence Van Gates, accasciato contro un armadietto e pensò a quella piccola casa nel bosco dove due cugini avevano suggellato il loro venefico legame. Un legame che dura tuttora. «Ti ricordi quello che ti ha detto Amalthea, la prima volta che sei andata a trovarla?» chiese Rizzoli. Maura annuì. Adesso morirai anche tu. «Abbiamo pensato tutte e due che si trattasse delle farneticazioni di una psicotica», proseguì Rizzoli e abbassò lo sguardo su Van Gates. «Ora è più che evidente che era un avvertimento, una minaccia.» «Perché? Io non ne so più di te.» «Forse per via di chi sei, dottoressa. Sei la figlia di Amalthea.» Maura sentì un'ondata di gelo sulla schiena. «Mio padre...» disse a voce bassa. «Se sono davvero sua figlia, allora chi è mio padre?» Rizzoli non fece il nome di Elijah Lank, non ce n'era bisogno. «Tu sei la prova vivente del loro sodalizio», affermò Rizzoli. «Metà del tuo DNA è suo.» Maura chiuse a chiave la porta d'ingresso e azionò anche la serratura di sicurezza. Poi si fermò pensando ad Anna, a tutte le serrature e le catenelle d'ottone che ornavano la sua piccola casa nel Maine. Mi sto trasformando in mia sorella, pensò. Tra poco tremerò di paura dietro le barricate o scapperò da questa casa per cambiare città, per cambiare identità. Due fari tracciarono un arco sulle tende chiuse del soggiorno. Maura guardò fuori e vide passare un'auto della polizia. Non di Brookline stavolta: era un'auto di pattuglia con la scritta DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI BOSTON sulla fiancata. L'avrà mandata Rizzoli, pensò. Andò in cucina e si preparò un drink. Stasera niente di elaborato, non il solito cosmopolitan, ma semplice succo d'arancia, vodka e ghiaccio. Si sedette al tavolo di cucina e lo sorseggiò, con i cubetti che tintinnavano nel bicchiere. Bere sola: non era un buon segno, ma che diamine. Aveva bisogno di un'anestesia, di smettere di pensare a ciò che aveva visto quella sera. Il condizionatore emetteva sibilando il suo flusso gelido dal soffitto. Quella sera niente finestre aperte. Tutto era chiuso, bloccato. Il bicchiere freddo le aveva ghiacciato le dita. Lo posò e si guardò il palmo, il pallido rossore dei capillari. Nelle mie vene scorre il loro sangue? Suonò il campanello. Maura sollevò di scatto la testa e si voltò verso il soggiorno col cuore che le batteva rapido e tutti i muscoli del corpo in tensione. Lentamente si
alzò in piedi e si diresse senza far rumore verso la porta d'ingresso. Lì si fermò chiedendosi con quanta facilità un proiettile avrebbe potuto perforarne il legno. Si spostò verso la finestra laterale, guardò fuori e vide Ballard in piedi sul portico. Con un sospiro di sollievo aprì la porta. «Ho saputo di Van Gates», disse. «Stai bene?» «Sono un po' scossa, ma sto bene.» No, non è vero. Ho i nervi a pezzi e sto bevendo sola in cucina. «Perché non entri?» Ballard non era mai stato a casa sua. Entrò, chiuse la porta e osservò la serratura di sicurezza mentre l'azionava. «Devi far istallare un sistema di allarme, Maura.» «Ne ho tutta l'intenzione.» «Fallo presto, d'accordo?» La guardò e disse: «Ti posso aiutare a scegliere il tipo più valido». Lei annuì. «Grazie del consiglio. Vuoi un drink?» «Non stasera, grazie.» Entrarono in soggiorno. Lui si fermò e guardò il pianoforte nell'angolo. «Non sapevo suonassi.» «Fin da quando ero piccola, ma non mi esercito molto.» «Sai, anche Anna suonava...» S'interruppe. «Forse non lo sapevi.» «No, non lo sapevo. È così strano, Rick, ogni volta che conosco qualcosa di nuovo su di lei, mi sembra sempre più simile a me.» «Suonava divinamente.» Ballard si avvicinò al pianoforte, sollevò il coperchio della tastiera e suonò alcune note. Lo richiuse e rimase a fissarne la superficie nera, lucente. Poi la guardò. «Sono preoccupato per te, Maura. Soprattutto ora, dopo quello che è successo a Van Gates.» Lei sospirò e sprofondò sul divano. «Ho perso il controllo della mia vita. Non posso nemmeno più dormire con le finestre aperte.» Anche lui si sedette. Scelse la poltrona di fronte in modo che, se Maura avesse sollevato la testa, avrebbe dovuto guardarlo. «Non è il caso che tu rimanga sola stasera.» «Questa è casa mia. Non ho intenzione di andarmene.» «Allora non farlo», disse e poi tacque. «Vuoi che resti con te?» Maura sollevò lo sguardo e incrociò il suo. «Perché lo fai, Rick?» «Perché hai bisogno di protezione.» «E tu sei quello che deve provvedere?» «Chi altro lo fa? Guardati! Vivi una vita così solitaria, in questa casa, senza nessuno. Io ti penso qui, sola, e mi fa paura quello che potrebbe suc-
cedere. Quando Anna aveva bisogno di me, non c'ero. Ma posso esserci per te.» Si allungò e le prese le mani. «Posso esserci ogni volta che hai bisogno di me.» Lei guardò le mani di Ballard che coprivano le sue. «Tu l'amavi, vero?» Quando non ebbe risposta, alzò lo sguardo e incrociò quello di lui. «Vero, Rick?» «Aveva bisogno di me.» «Non è quello che ti ho chiesto.» «Non potevo stare a guardare e lasciare che soffrisse. Non a causa di quell'uomo.» Me ne sarei dovuta accorgere fin dall'inizio, pensò. Era chiaro, dal modo in cui mi guardava, dal modo in cui mi toccava. «Se l'avessi vista quella sera al pronto soccorso», continuò. «L'occhio nero, i lividi. Mi è bastata una sola occhiata al suo viso per desiderare di fare a pezzi il responsabile, chiunque fosse. Non ci sono molte cose che mi mandano in bestia, Maura, ma un uomo che picchia una donna...» Inspirò bruscamente. «Non avrei permesso che succedesse di nuovo, ma Cassell non mollava. Continuava a chiamarla, ad appostarsi, perciò sono dovuto intervenire. L'ho aiutata a mettere le serrature di sicurezza, ho cominciato a passare da lei tutti i giorni. Poi una sera mi ha chiesto di rimanere a cena e...» Ballard scrollò le spalle in segno di sconfitta. «Così è iniziata. Lei aveva paura e aveva bisogno di me. È questione d'istinto, sai. Forse è l'istinto del poliziotto che vuole proteggere.» Soprattutto quando una donna è attraente. «Ho cercato di pensare alla sua incolumità, questo è quanto.» Rick la guardò e aggiunse: «Perciò, sì, ho finito per innamorarmi di lei». «E questo cos'è, Rick?» chiese lei guardandogli le mani che ancora stringevano le sue. «Che cosa sta succedendo qui? Questo è per me o per lei? Perché io non sono Anna. Io non sono la sua sostituta.» «Io sono qui perché tu hai bisogno di me.» «Mi sembra un replay. Ti sei calato nello stesso ruolo, nei panni del guardiano. E io sono solo la controfigura che per caso ha preso il posto di Anna.» «Non è così.» «E se non avessi mai conosciuto mia sorella, se tu e io fossimo solo due persone che si sono incontrate a una festa? Saresti qui lo stesso?» «Sì, ci sarei.» Rick si chinò verso di lei stringendole forte le mani. «So che sarei qui.»
Per un istante rimasero seduti in silenzio. Gli voglio credere, pensò. Sarebbe così facile credergli. «Non è il caso che tu resti qui stanotte», disse invece. Lentamente Ballard si mise in piedi. Aveva ancora gli occhi fissi su di lei, ma adesso tra loro c'era distacco. E delusione. Maura si alzò e lui la imitò. Si avviarono in silenzio alla porta. Lì Rick si fermò e si voltò verso di lei. Sollevò dolcemente la mano e le toccò il viso, un contatto a cui Maura non si sottrasse. «Sta' attenta», disse e uscì. Lei chiuse a chiave la porta alle sue spalle. 29 Mattie mangiò l'ultima striscia di carne essiccata. La rosicchiò come un animale fa con una carogna secca, pensando: le proteine mi servono per avere forza! Per vincere! Pensò agli atleti che si preparavano per le maratone, che allenavano il corpo per la performance della loro vita. Anche quella sarebbe stata una maratona, con una sola possibilità di vincere. Perdi e sei morta. La carne di manzo essiccata era come cuoio e quando la inghiottiva le faceva quasi venire i conati, ma riuscì a buttarla già con una sorsata d'acqua. La seconda caraffa era quasi vuota. Sono alla resa dei conti, non posso resistere ancora tanto. E adesso aveva una nuova preoccupazione: le contrazioni cominciavano a diventare fastidiose, le sembrava di avere un pugno, dentro, che la strizzasse. Non erano proprio dolorose, ma foriere di quanto stava per accadere. Dov'era, maledizione? Perché l'aveva lasciata sola così a lungo? Senza un orologio con cui poter misurare il tempo non sapeva se fossero passate ore o giorni dalla sua ultima visita. Si chiese se lo avesse fatto arrabbiare quando gli aveva urlato: quella era la punizione? Stava cercando di spaventarla, di farle capire che doveva essere educata e mostrargli un po' di rispetto? Nella sua vita era sempre stata educata e guarda che cosa le era capitato. Le ragazze educate vengono comandate a bacchetta e finiscono sempre nell'ombra, dove nessuno presta loro attenzione. Si sposano con uomini che in breve si dimenticano perfino della loro esistenza. Be', ne ho abbastanza di essere educata, pensò. Se mai uscirò di qui, imparerò ad avere polso.
Ma prima devo uscire di qui e questo significa che devo fingere d'essere educata. Bevve un altro sorso d'acqua e si sentì stranamente sazia, come se avesse banchettato e bevuto vino. Aspetta il momento opportuno, pensò. Lui tornerà. Si mise la coperta sulle spalle e chiuse gli occhi. Per essere svegliata dalla fitta di una contrazione. Oh, no, pensò, questa fa male. Questa fa decisamente male. Rimase stesa al buio, tutta sudata, cercando di ricordare le lezioni del corso Lamaze, ma le sembravano appartenere a un'era lontana. Alla vita di un'altra. Inspira, espira. Elimina... «Signora.» Mattie s'irrigidì e alzò lo sguardo alla grata da cui era arrivato il sussurro. Il polso le batteva forte. È tempo di agire, soldato Jane. Ma lì stesa al buio, mentre inalava l'odore della sua stessa paura, pensò: non sono pronta, non sarò mai pronta. Perché mai ho creduto di poter fare una cosa del genere? «Signora. Parlami.» È la tua unica possibilità. Forza. Inspirò profondamente. «Ho bisogno di aiuto», piagnucolò. «Perché?» «Il bambino...» «Dimmi.» «Sta per nascere. Ho le doglie. Oh, per favore, fammi uscire! Non so quanto ci vorrà...» Emise un singhiozzo. «Fammi uscire. Devo uscire. Il bambino sta per nascere.» La voce tacque. Mattie si aggrappò alla coperta, timorosa di respirare, di perdere anche il minimo sussurro. Perché non rispondeva? Se n'era andato di nuovo? Poi udì un tonfo, e qualcosa che raschiava. Una pala. Stava iniziando a scavare. Un'unica possibilità, pensò. Ho un'unica possibilità. Altri tonfi. La pala compiva movimenti più lunghi, rimuoveva la terra e tutto quel raschiare le dava fastidio alle orecchie come lo stridio del gesso sulla lavagna. Adesso Mattie respirava affannosamente e sentiva il cuore batterle forte nel petto. O vivo o muoio, pensò. Si decide tutto ora. Il raschiare cessò. Aveva le mani gelide, le dita ghiacciate mentre stringeva la coperta sulle
spalle. Udì il legno cigolare, poi i cardini gemettero e la terra cadde nella sua prigione, nei suoi occhi. Oh, Dio, oh, Dio, non riuscirò a vedere. Io devo vedere! Si girò per proteggersi il viso dalla terra che le scivolava tra i capelli. Batté più volte le palpebre per togliersi i granelli dagli occhi. Con la testa china non lo vide in piedi sopra di lei. E che cosa vide invece quell'uomo quando guardò nella fossa? La sua prigioniera avvolta in una coperta, sporca, sconfitta, distrutta dalle doglie. «È ora di uscire», disse, stavolta non attraverso la grata. Era una voce tranquilla, assolutamente comune. Come poteva il male avere una voce tanto normale? «Aiutami», disse singhiozzando Mattie. «Non posso saltare fin lassù.» Udì uno sfregare di legno contro legno e qualcosa cozzare accanto a lei. Una scala. Aprì gli occhi, sollevò lo sguardo e vide solo una sagoma contro le stelle. Dopo il buio pesto della sua prigione, il cielo notturno le sembrava inondato di luce. L'uomo accese una torcia e la puntò sui pioli. «Sono solo pochi passi», disse. «Ho tanto male.» «Ti prenderò per mano, ma tu devi mettere un piede sulla scala.» Tirando su col naso, Mattie si alzò lentamente in piedi, vacillò e ricadde in ginocchio. Non si alzava da giorni e restò sconvolta nel vedere quanto si fosse indebolita nonostante i tentativi di tenersi in esercizio, nonostante l'adrenalina le scorresse nelle vene. «Se vuoi uscire», disse lui, «ti devi alzare in piedi.» Mattie gemette e si rialzò barcollando, incerta come un vitellino appena nato. Aveva la mano destra ancora infilata nella coperta, che teneva stretta al petto. Con la sinistra si afferrò alla scala. «Ecco. Sali.» Lei mise un piede sul primo piolo e si fermò per stabilizzarsi prima di allungare la mano e salire sul piolo seguente. Fece un altro passo. Il buco non era profondo; pochi pioli ancora e sarebbe stata fuori. La testa e le spalle erano già all'altezza della vita dell'uomo. «Aiutami», lo supplicò. «Tirami su.» «Butta la coperta.» «Ho troppo freddo. Per favore, tirami su!» Lui posò la torcia sul terreno. «Dammi la mano», disse e si chinò verso di lei, ombra senza volto, con un tentacolo esteso nella sua direzione. Ci siamo. È abbastanza vicino.
Adesso la testa dell'uomo era proprio sopra la sua, a tiro. Per un istante Mattie esitò, disgustata all'idea di ciò che stava per fare. «Non farmi perdere altro tempo», ordinò l'uomo. «Forza!» All'improvviso immaginò che fosse la faccia di Dwayne a fissarla. La voce di Dwayne a rimproverarla, a trattarla con sempre maggior sprezzo. L'immagine è tutto, Mattie, e ora guardati! Mattie la balena aggrappata alla scala, che aveva paura di salvarsi, di salvare la sua bambina. Tu per me non vali più niente. Sì invece. Sì INVECE. Mattie lasciò andare la coperta che le scivolò dalle spalle, rivelando ciò che stringeva in mano: la calza, riempita con le otto batterie della torcia. Sollevò il braccio e, spinta da pura e semplice rabbia, la ruotò come fosse una mazza. Prese la mira in modo approssimativo, in preda alla furia, ma con sua soddisfazione udì un tonfo sordo quando le batterie colpirono il cranio. L'ombra barcollò di lato e ruzzolò per terra. In pochi secondi Mattie fu in cima alla scala e arrampicandosi uscì dalla buca. Il terrore non ti rendeva maldestro: acuiva i tuoi sensi, ti rendeva veloce come una gazzella. Dopo aver messo piede sul terreno, in una frazione di secondo Mattie memorizzò una serie di particolari: il quarto di luna che spuntava dietro i rami arcuati contro il cielo, un odore di terra e di foglie umide, e alberi, alberi dappertutto, una cerchia di sentinelle incombenti che oscuravano la vista, tranne per la stretta volta di stelle sopra la testa. Sono in un bosco. Con una sola lunga occhiata, memorizzò tutto, prese una decisione istantanea e scattò verso quello che le pareva un varco tra gli alberi. Si ritrovò all'improvviso a correre a precipizio in una ripida gola, gettandosi di peso tra rovi e alberelli sottili come fruste che non si spezzavano in due, ma le sferzavano il volto come per vendicarsi. Atterrò su mani e ginocchia. Si rimise in piedi in un lampo e riprese a correre, ma ora zoppicava: la caviglia destra le pulsava per la distorsione. Sto facendo troppo baccano, pensò, sono rumorosa come un elefante. Non ti fermare, non ti fermare, lui può essere proprio dietro di te, continua a muoverti! Ma in quel bosco era cieca, con solo le stelle e quella misera parvenza di luna a indicarle la strada. Niente luce, niente punti di riferimento. Non aveva idea di dove fosse o in quale direzione potesse trovare aiuto. Non sapeva niente di quel luogo ed era persa come se stesse vagando in un incubo. Avanzò a fatica nel sottobosco dirigendosi istintivamente a valle, la-
sciando che la gravità decidesse per lei da quale parte andare. Dalle montagne si passava alle valli, dalle valli ai torrenti, dai torrenti alle persone. Oh, accidenti, tutto giusto in teoria, ma era poi vero? Sentiva già le ginocchia irrigidirsi per la caduta. Un'altra caduta e non sarebbe stata più in grado di camminare. E di colpo un altro dolore l'attanagliò, costringendola a fermarsi, togliendole il fiato. Una contrazione. Mattie si piegò in due, in attesa che passasse. Quando infine si raddrizzò, era madida di sudore. Qualcosa frusciò alle sue spalle. Lei si girò di scatto e si trovò davanti a un muro d'ombra impenetrabile. Riprese a scappare, con i rami che le sferzavano la faccia e il panico che la divorava. Più veloce, più veloce! Sul terreno in discesa mise un piede in fallo e perse l'equilibrio. Sarebbe caduta a pancia all'ingiù sul terreno se non si fosse afferrata a un alberello. Povera bambina, per poco non ti piombavo addosso! Non udì rumori dell'inseguitore, ma sapeva che doveva essere dietro di lei, alle sue calcagna. Il terrore la spinse a proseguire oltre una rete di rami intrecciati. Poi come per magia gli alberi svanirono e, superato un ultimo groviglio di rampicanti, Mattie si ritrovò bruscamente su un terreno compatto. Stordita e ansimante, fissò il riflesso ondulato della luce lunare. Un lago. Una strada. E, in lontananza, appollaiata su una punta, la sagoma di un piccolo capanno. Fece alcuni passi e si fermò gemendo mentre un'altra contrazione la stringeva nella sua morsa con tanta forza che non poté più respirare né fare altro che accucciarsi lì sulla strada. La nausea le salì fino in gola. Udì l'acqua lambire la riva e il richiamo di un uccello sul lago. Sentì la testa girarle e rischiò di cadere in ginocchio. Non qui! Non fermarti qui, così in vista, in mezzo alla strada. Avanzò barcollando. Ora la contrazione stava diminuendo. Si costrinse a procedere anche se il capanno le sembrava quasi una chimera. Prese a correre e il ginocchio le pulsava ogniqualvolta posava il piede sulla strada sterrata. Più veloce, pensò. Qui, col riflesso del lago, ti può vedere. Corri prima che la prossima contrazione ti blocchi. Quanti minuti mancano alla prossima? Cinque, dieci? Il capanno sembrava così lontano. Stava dando fondo a tutte le sue energie, con le gambe che si muovevano come pistoni e l'aria che le entrava e usciva bruscamente dai polmoni. La speranza era il suo carburante. Io vivrò, io vivrò. Le finestre del capanno erano buie. Mattie batté comunque sulla porta,
non osando gridare per paura che la voce riecheggiasse lungo la strada, lungo la montagna. Nessuna risposta. Esitò solo un secondo. Al diavolo le buone maniere. Rompi quella maledetta finestra! Afferrò un sasso vicino alla porta d'ingresso e lo sbatté contro una finestra. Il rumore di un vetro in frantumi ruppe il silenzio della notte. Con la pietra eliminò le poche schegge rimaste, infilò la mano dentro e aprì la porta. Hai rotto un vetro e fatto irruzione in una casa. Forza, soldato Jane! Dentro sentì odore di cedro e di aria stantia. Una casa per le vacanze chiusa e trascurata da troppo tempo. Il vetro scricchiolò sotto i suoi piedi mentre cercava un interruttore. Un attimo dopo che la luce si era accesa, pensò: la vedrà. Adesso è troppo tardi. Trova solo un telefono. Si guardò attorno nella stanza e vide un caminetto, una catasta di legna, mobili con la tappezzeria scozzese, ma nessun telefono. Corse in cucina e sul banco individuò un apparecchio con la tastiera incorporata. Lo prese e stava già digitando il 911 quando si accorse che non c'era segnale. La linea era tagliata. Dal soggiorno provenne un rumore di vetri smossi sul pavimento. È in casa. Esci. Esci subito. Uscì dalla porta di cucina e la richiuse piano alle sue spalle. Si ritrovò in un piccolo garage. La luce della luna filtrava da un'unica finestra, abbastanza intensa da consentirle di scorgere la sagoma di una barca a remi su un carrello. Non c'erano altri ripari, nessun posto dove nascondersi. Si allontanò dalla porta della cucina, rintanandosi il più possibile nell'ombra. Con la spalla urtò una mensola: sentì un tintinnio metallico e un odore di polvere secolare si diffuse nell'aria. Tastò alla cieca sullo scaffale alla ricerca di un'arma e trovò vecchi barattoli di vernice con i coperchi tutti incrostati, pennelli rigidi, quasi fossero stati cosparsi di gommalacca. Poi le sue dita si strinsero attorno a un cacciavite. Mattie lo afferrò: un'arma ridicola, letale quanto una lama per unghie. Era il più misero di tutti i cacciaviti. La luce sotto la porta della cucina s'increspò. Un'ombra si mosse lungo la striscia luminosa, poi si fermò. Insieme al suo respiro. Mattie arretrò verso la saracinesca del garage col cuore che le martellava in gola. Le restava solo una scelta. Tastò in basso in cerca della maniglia e tirò. La porta cigolò mentre scorreva nelle rotaie quasi annunciasse: È qui! È qui! Proprio mentre la porta della cucina si spalancava, Mattie passò sotto
quella del garage e corse fuori nella notte. Sapeva che poteva vederla correre sulla riva sconsolatamente priva di nascondigli e sapeva di non poterlo distanziare, ma continuò ad avanzare lungo il lago argenteo sotto la luce della luna col fango che le si attaccava alle scarpe. Lo udiva avvicinarsi fra le tife fruscianti. Nuota, pensò. Entra nel lago. Puntò allora verso l'acqua. D'un tratto, quando arrivò l'ennesima contrazione, si piegò in due. Era un dolore che non aveva mai provato e che la gettò in ginocchio. Mattie cadde con un tonfo nell'acqua alta fino alla caviglia mentre il dolore aumentava, stringendola nella sua morsa con tale violenza che per un istante la vista le si annebbiò ed ebbe la sensazione di cadere di lato, di ruzzolare nel lago. Sentì un sapore di fango in bocca e, tossendo, si dimenò fino a girarsi di schiena, impotente come una tartaruga rovesciata. La contrazione svanì e le stelle lentamente illuminarono il cielo. Sentiva l'acqua che le accarezzava i capelli, che le lambiva le guance. Non era per niente fredda, anzi calda come quella di un bagno. Udì lo sciaguattio dei suoi passi, lo schiocco delle canne spezzate, poi vide le tife dividersi. Ed eccolo lì, in piedi sopra di lei, imponente contro il cielo. Pronto a reclamare la sua preda. S'inginocchiò al suo fianco e il riflesso dell'acqua riverberò nei suoi occhi creando minuscoli punti di luce. Anche quello che teneva in mano luccicava: la lama argentea di un coltello. Sembrava sapere, mentre si chinava su di lei, che era sfinita, che la sua anima aspettava solo d'essere liberata da quel guscio esausto. Afferrò i pantaloni premaman e glieli abbassò, denudando la bianca sommità del suo ventre, ma lei non si mosse: restò ferma, catatonica. Già arresa, già sconfitta. Le mise una mano sull'addome e con l'altra impugnò il coltello, abbassando la lama verso la carne nuda, avvicinandosi per praticare il primo taglio. L'acqua formò uno spruzzo argenteo quando la mano di Mattie si sollevò d'un tratto dal fango, quando orientò la punta del cacciavite verso il suo volto. Con i muscoli contratti per la rabbia, lo alzò mirando quell'arma piccola, patetica, con precisione letale verso il suo occhio. Questo è per me, coglione! E questo per la mia bambina! Spinse in profondità, sentì l'arma penetrare nell'osso e nel cervello, finché il manico infilato nell'orbita non poté più sprofondare. L'uomo si accasciò senza emettere suono.
Per un istante Mattie non riuscì a muoversi. Le era caduto sulle cosce e sentiva il calore del sangue inzupparle i vestiti. I morti pesano, molto più dei vivi. Lo spinse grugnendo per lo sforzo, disgustata all'idea di doverlo toccare. Finalmente riuscì a smuoverlo e lui cadde di schiena tra le canne. Mattie si mise a fatica in piedi e si avviò barcollando verso la terra ferma. Lontana dall'acqua, lontana dal sangue. Crollò più in alto, sulla riva, su un tratto erboso, e lì giacque mentre un'altra contrazione iniziava e svaniva. E poi un'altra, e un'altra ancora. Con occhi offuscati dal dolore guardò il quarto di luna tracciare il suo arco in cielo, vide le stelle svanire e un bagliore rosato diffondersi nel cielo a oriente. Quando il sole spuntò all'orizzonte, Mattie Purvis diede alla luce sua figlia. 30 Gli avvoltoi collorosso volteggiavano pigri in cielo, annunciando con le loro ali nere la presenza di una nuova carogna. I morti non sfuggono a lungo all'attenzione di Madre natura. L'olezzo della decomposizione attira i mosconi della carne e i coleotteri, i corvi e i roditori: tutti convergono per riscuotere il premio offerto loro dalla Morte. In che modo io sono diversa? pensò Maura mentre si dirigeva lungo la sponda erbosa verso l'acqua. Era attratta dai morti, amava sondare e punzecchiare la carne fredda come qualsiasi saprofago. Era un posto così bello per un compito così tetro: il cielo azzurro e terso, il lago, una distesa d'argento. Ma sul bordo dell'acqua un telo bianco copriva ciò che gli avvoltoi in cielo erano tanto ansiosi di divorare. Jane Rizzoli, in piedi accanto a Barry Frost e a due agenti della Polizia statale del Massachusetts, si avvicinò per andarle incontro. «Il corpo giaceva in pochi centimetri d'acqua, laggiù tra quelle tife. Lo abbiamo portato a riva. Volevo solo sapessi che è stato mosso.» Maura fissò il cadavere coperto dal telo, ma non lo toccò. Non era ancora pronta ad affrontare ciò che si trovava sotto quel telo. «La donna sta bene?» «Ho visto la signora Purvis al pronto soccorso. È un po' malconcia, ma si rimetterà e la bambina gode di ottima salute.» Rizzoli indicò la riva dove crescevano ciuffi d'erba soffice. «L'ha partorita laggiù, ha fatto tutto da sé. Quando il ranger del parco ha fatto il giro, verso le sette, l'ha trovata seduta sul ciglio della strada intenta ad allattare la piccola.»
Maura fissò la riva e pensò alla donna che aveva avuto le doglie lì, sotto il cielo, alle sue grida di dolore inascoltate, mentre a una ventina di metri di distanza un cadavere si raffreddava e si irrigidiva. «Dove la teneva?» «In una fossa a circa tre chilometri da qui.» Maura si accigliò. «Ha fatto tutta questa strada a piedi?» «Sì. Immagina: correre al buio, tra gli alberi, con le doglie. È venuta giù da quel pendio, sbucando dal bosco.» «Incredibile.» «Dovresti vedere la cassa in cui l'ha rinchiusa: è come una bara. Sepolta viva per una settimana. Non so come ne sia uscita sana di mente.» Maura pensò alla giovane Alice Rose, intrappolata in una buca tanti anni prima. Una sola notte di buio e di disperazione l'aveva ossessionata per il resto della sua breve vita, finendo per ucciderla. Mattie Purvis invece ne era uscita non solo sana di mente, ma anche pronta a reagire. A sopravvivere. «Abbiamo trovato il furgone bianco», disse Rizzoli. «Dove?» «È parcheggiato più in su, su una strada usata dai guardaparchi, a trenta, quaranta metri dalla fossa in cui l'ha sepolta. Non l'avremmo mai trovata quassù.» «Avete trovato resti? Ci devono essere altre vittime sepolte nei paraggi.» «Abbiamo appena iniziato a cercare. Ci sono molti alberi, è un'area piuttosto ampia da perlustrare. Ci vorrà tempo per passare al vaglio l'intera collina in cerca di tombe.» «Tutti questi anni, tutte quelle donne scomparse. Una potrebbe essere mia...» Maura s'interruppe e guardò gli alberi sul pendio. Una di loro potrebbe essere mia madre. Forse non ho il sangue di un mostro nelle vene. Forse la mia vera madre è morta da anni. Un'altra vittima, sepolta da qualche parte nel bosco. «Prima che tu faccia ipotesi», disse Rizzoli, «devi vedere il corpo.» Maura la guardò accigliata, poi abbassò lo sguardo sul corpo avvolto dal telo ai suoi piedi. Si inginocchiò e fece per prendere un angolo del telo. «Aspetta. Ti devo avvertire...» «Sì?» «Non è quello che credi.» Maura esitò con la mano sopra il telo. Gli insetti ronzavano, ansiosi di gettarsi sulla carne fresca. Inspirò e scostò il telo. Per un attimo non proferì parola mentre fissava il volto che aveva appe-
na scoperto. Quello che la lasciò stupefatta non era l'occhio sinistro devastato o il manico del cacciavite conficcato in profondità nell'orbita. Il macabro dettaglio era solo un dato da rilevare, da archiviare nella mente così come archiviava un verbale dettato. No, fu il volto che catturò la sua attenzione, che la orripilò. «È troppo giovane», mormorò. «Quest'uomo è troppo giovane per essere Elijah Lank.» «Credo avesse trenta, trentacinque anni.» Maura espirò, sconvolta. «Non capisco...» «La noti, vero?» chiese pacatamente Rizzoli. «Capelli neri? Occhi verdi.» Come i miei. «Voglio dire, sì, ci può essere una miriade di persone con gli occhi e i capelli di quel colore, ma la somiglianza...» S'interruppe. «Anche Frost l'ha notata. Tutti l'abbiamo notata.» Maura adagiò il telo sul cadavere e arretrò, rinculando dalla verità tanto inconfutabilmente impressa sul viso del morto. «Il dottor Bristol è per strada», disse Frost. «Pensavamo non volesse effettuare lei l'autopsia.» «Allora perché mi avete chiamata?» «Perché hai detto che volevi essere tenuta al corrente», rispose Jane. «Perché te l'avevo promesso. E perché...» Guardò il corpo nascosto dal telo. «Perché prima o poi avresti scoperto chi era quest'uomo.» «Ma non sappiamo chi sia. Voi credete di vedere una somiglianza, ma non è una prova.» «C'è dell'altro. Qualcosa che abbiamo saputo stamattina.» Maura la guardò. «Cosa?» «Stavamo tentando di ricostruire i vagabondaggi di Elijah Lank, di individuare tutti i posti in cui poteva comparire il suo nome in seguito ad arresti, contravvenzioni, qualsiasi cosa. Stamattina abbiamo ricevuto un fax da un impiegato di una contea della Carolina del Nord. Era un certificato di morte. Elijah Lank è morto otto anni fa.» «Otto anni fa? Allora non era con Amalthea quando questa ha ucciso Theresa e Nikki Wells?» «No, a quell'epoca Amalthea aveva un altro complice. Qualcuno che aveva preso il posto di Elijah, per continuare l'attività di famiglia.» Maura si voltò e fissò il lago, la cui acqua adesso era diventata una distesa di luce accecante. Non voglio sentire il seguito, pensò. Non voglio
sapere. «Otto anni fa Elijah è morto d'infarto in un ospedale di Greenville», disse Rizzoli. «Si è presentato al pronto soccorso lamentando un dolore toracico. Secondo i documenti è stato portato in ospedale dai familiari.» Dai familiari. «Da sua moglie, Amalthea», proseguì Rizzoli. «E dal loro figlio, Samuel.» Maura inspirò profondamente e inalò sia il puzzo della decomposizione sia il profumo dell'estate nell'aria. Vita e morte si mescolavano a formare un solo odore. «Mi spiace», affermò Jane. «Mi spiace che tu abbia dovuto scoprirlo. Sai, c'è sempre una possibilità che ci sbagliamo su quest'uomo. Che non sia affatto imparentato con loro.» Ma non si sbagliavano e Maura lo sapeva. Lo so da quando ho visto il suo volto. Quando Rizzoli e Frost entrarono da J.P. Doyle quella sera, i poliziotti in piedi attorno al banco li salutarono con un forte e fragoroso applauso che fece arrossire Jane. Accidenti, anche i colleghi a cui non era molto simpatica stavano applaudendo, apprezzando cameratescamente il suo successo che in quel momento veniva annunciato dal notiziario delle cinque, dal televisore sopra il bar. Poi tutti presero a battere i piedi all'unisono mentre lei e Frost si avvicinavano al banco, dove il barista sorridente aveva già preparato due drink. Per Frost un bicchierino di whisky, per lei... Un bel bicchiere di latte. Alla risata generale, Frost le si avvicinò e le bisbigliò all'orecchio: «Sai, ho qualche problema di stomaco. Vuoi che scambiamo i drink?» Il buffo era che a Frost il latte piaceva davvero. Jane gli avvicinò il bicchiere e chiese al barista una Coca Cola. Mentre i colleghi si avvicinavano per stringere loro la mano e scambiarsi un cinque, mangiarono arachidi e sorseggiarono i loro sobri drink. A Rizzoli mancava la sua solita Adams. Quella sera le mancavano tante cose: suo marito, la sua birra, il suo giro vita. Eppure, era stata una giornata positiva. Era sempre una giornata positiva, pensò, quando veniva tolto di mezzo un criminale. «Ehi, Rizzoli! Le scommesse sono arrivate a duecento testoni per la femmina e a centoventi per il maschio.» Jane lanciò un'occhiata di lato e vide i detective Vann e Dunleavy in
piedi accanto a lei, al banco. Lo Hobbit grasso e quello magro, con le loro pinte di Guinness sollevate. «E se li avessi entrambi?» chiese lei. «Se fossero gemelli?» «Uh», esclamò Dunleavy. «Non l'avevamo preso in considerazione.» «Allora chi vincerebbe?» «Immagino nessuno.» «O tutti?» osservò Vann. I due rimasero a meditare sulla questione per un po'. Sam e Frodo, bloccati sul Monte Fato dei dilemmi. «Be'», disse Vann, «suppongo che dovremmo aggiungere un'altra categoria.» Rizzoli scoppiò a ridere. «Sì, pensateci voi, ragazzi.» «Ottimo lavoro, tra l'altro», esclamò Dunleavy. «Vedrai, finirai su People. Un criminale di quel genere, tutte quelle donne. Che storia.» «Volete la verità vera?» Rizzoli sospirò e posò la Coca. «Il merito non è nostro.» «No?» Frost guardò Vann e Dunleavy. «Non siamo stati noi a eliminarlo. È stata la vittima.» «Una semplice casalinga», aggiunse Rizzoli. «Una casalinga comune, spaventata e incinta. Non ha avuto bisogno di una pistola o di un randello, solo di una dannata calza piena di batterie.» Alla TV le notizie locali erano terminate e il barista si sintonizzò su HBO, dove davano un film con donne in gonne corte. Donne che avevano ancora un giro vita. «E che mi dici dei Black Talon?» chiese Dunleavy. «Che nesso c'è?» Rizzoli rimase in silenzio per un attimo mentre sorseggiava la Coca Cola. «Ancora non lo sappiamo.» «Avete trovato l'arma?» Jane notò che Frost l'osservava e si sentì a disagio. Quello era un dettaglio che tormentava entrambi. Non avevano trovato armi nel furgone. C'erano corde annodate, coltelli incrostati di sangue, un notes accuratamente compilato con i nomi e i telefoni di altri nove intermediari che si occupavano di adozioni nel Paese: Terence Van Gates non era l'unico. E c'erano i documenti che attestavano i pagamenti in denaro fatti ai Lank negli anni, una miniera di informazioni che avrebbe tenuto occupati gli investigatori per anni, ma l'arma che aveva ucciso Anna Leoni non era in quel furgone. «Oh, be'», affermò Dunleavy. «Forse salterà fuori. Oppure potrebbe es-
sersene sbarazzato.» Forse. O forse ci sfugge ancora qualcosa. Era buio quando lei e Frost uscirono da Doyle. Invece di andare a casa, Rizzoli tornò a Schroeder Plaza rimuginando la conversazione con Vann e Dunleavy, e si sedette alla scrivania sommersa da una montagna di carte. In cima c'erano i documenti dell'NCIC, decenni e decenni di denunce di persone scomparse compilate durante la caccia alla Bestia. Ma era stato l'omicidio di Anna Leoni a mettere in moto le ricerche: come un sasso gettato nell'acqua aveva creato onde via via più ampie. Era stato l'omicidio di Anna a condurli ad Amalthea e infine alla Bestia, eppure la sua morte restava ancora un interrogativo irrisolto. Rizzoli spostò i file dell'NCIC fino a recuperare la cartella di Anna Leoni. Aveva letto e riletto tutto di quel dossier, ma lo sfogliò ancora riguardando le dichiarazioni dei testimoni, il verbale autoptico, il rapporto su capelli e fibre, le impronte digitali, il DNA. Arrivò al rapporto balistico e il suo sguardo si soffermò sulle parole Black Talon. Ricordò la forma a stella del proiettile nella radiografia cranica di Anna Leoni e la devastazione che aveva creato nel suo cervello. Un proiettile Black Talon. Dov'era l'arma che lo aveva sparato? Chiuse la cartella e guardò la scatola di cartone che nell'ultima settimana era rimasta accanto al suo tavolo: conteneva i file che Vann e Dunleavy le avevano prestato, quelli riguardanti l'omicidio di Vassilij Titov. Quell'uomo era stato l'unica vittima di un proiettile Black Talon nell'area di Boston in cinque anni. Prese i dossier dalla scatola e li impilò sulla scrivania, sospirando quando vide l'altezza della pila. Anche le indagini che hanno una svolta improvvisa generano una marea di carte. Vann e Dunleavy le avevano riassunto il caso e lei aveva letto abbastanza documenti da concludere che avessero arrestato la persona giusta. Il processo che era seguito e la veloce condanna di Antonin Leonov non avevano fatto che confermare la sua idea. Eppure eccola lì, a rivedere ancora una volta i dossier di un caso che non dava adito a dubbi: era stata condannata la persona giusta. Il rapporto finale del detective Dunleavy era approfondito e convincente. Leonov era stato sorvegliato dalla polizia per una settimana in vista dell'arrivo di una partita di eroina dal Tagikistan. Mentre i due detective lo tenevano d'occhio dal loro mezzo, Leonov si era presentato davanti alla casa di Titov, aveva bussato alla porta principale ed era stato fatto entrare. Alcuni istanti dopo nella casa erano stati esplosi due colpi. Leonov era uscito, era salito in macchina e mentre stava per allontanarsi Vann e Dunleavy lo a-
vevano bloccato e arrestato. In casa Titov era stato trovato morto in cucina, con due Black Talon nel cervello. L'esame balistico aveva confermato che entrambi i proiettili erano stati sparati dall'arma di Leonov. Caso aperto e chiuso. Il criminale era stato condannato, l'arma era tenuta in custodia dalla polizia. Rizzoli non vedeva alcun legame tra la morte di Vassilij Titov e quella di Anna Leoni, fatta eccezione per i proiettili Black Talon. Munizioni sempre più rare, ma non abbastanza da costituire un vero legame tra gli omicidi. Ciononostante, continuò a sfogliare i dossier, a leggere fin oltre l'ora di cena. Quando arrivò all'ultima cartella, era quasi troppo stanca per prenderla in mano. Finisco questa così non ci penso più, si disse, rimetto via i dossier e chiudo la faccenda. Aprì la cartella e trovò il rapporto della perquisizione nel magazzino di Leonov. Conteneva la descrizione dell'irruzione fatta dal detective Vann, l'elenco degli impiegati arrestati insieme al resoconto di ogni oggetto confiscato, dalle casse al denaro contante ai libri contabili. Scorse il tutto finché giunse alla lista degli agenti presenti sulla scena: dieci poliziotti del dipartimento di Boston. Il suo sguardo si bloccò su un nome in particolare, un nome che non aveva notato quando aveva letto il rapporto una settimana prima. Soltanto una coincidenza. Non significa necessariamente che... Rimase seduta a riflettere per un attimo. Si ricordò di un'operazione antidroga a cui aveva partecipato quando era una giovane agente di pattuglia: c'era un sacco di rumore, un sacco di eccitazione e di confusione mentre una decina di agenti carichi di adrenalina convergevano verso un edificio nemico. Tutti erano nervosi, tutti pensavano alla propria pelle e potevi anche non accorgerti di quello che faceva un collega. Di quello che s'infilava in tasca: soldi, droga, una scatola di proiettili di cui non si sarebbe mai notata la mancanza. La tentazione di prendersi un souvenir c'è sempre. Un souvenir che tempo dopo potrebbe risultarti utile. Prese il telefono e chiamò Frost. 31 I morti non erano una buona compagnia. Maura sedeva al microscopio e osservava dall'oculare alcune sezioni di polmone, fegato e pancreas: frammenti di tessuto sezionati dai resti mortali di un suicida, conservati sotto vetro e colorati di rosa carico e porpora con ematossilina-eosina. Tranne che per il tintinnio occasionale dei vetrini e il
flebile soffio della bocchetta del condizionatore, l'edificio era tranquillo pur non essendo deserto: nella fredda sala di sotto cinque o sei visitatori silenziosi se ne stavano chiusi nei loro sudari. Ospiti con poche pretese, ognuno con una storia da raccontare, ma solo a chi fosse disposto a tagliare e sondare. Il telefono sulla sua scrivania trillò e Maura lasciò scattare la segreteria, come sempre dopo l'orario di lavoro. Qui non c'è nessuno se non i morti. E la sottoscritta. La storia che Maura vedeva al microscopio non era nuova: organi giovani, tessuti sani. Un corpo destinato a vivere molti anni se solo l'anima lo avesse voluto, se una voce interiore avesse sussurrato a quell'uomo disperato: Aspetta un attimo, le sofferenze d'amore si superano. Il dolore passerà e un giorno troverai un'altra ragazza da amare. Finì l'ultimo vetrino e lo mise nella scatola. Restò seduta per un istante con la mente rivolta non ai vetrini appena esaminati, ma a un'altra immagine: un giovane con i capelli scuri e gli occhi verdi. Non aveva assistito alla sua autopsia. Quel pomeriggio, mentre era stato aperto e sezionato dal dottor Bristol, era rimasta di sopra nel suo studio, ma nonostante avesse dettato verbali e passato in rassegna i vetrini al microscopio, aveva continuato a pensare a lui. Voglio veramente sapere chi sia? Non aveva ancora deciso. Quando si alzò dalla scrivania prendendo la borsa e una pila di cartelle, non era ancora giunta a una risposta. Di nuovo il telefono squillò e di nuovo lei lo ignorò. Percorrendo il corridoio silenzioso, superò porte chiuse e uffici deserti. Si ricordò allora di un'altra sera in cui era uscita dall'edificio vuoto e aveva trovato il segno dell'artiglio sull'auto, al che il cuore prese a batterle un po' più forte. Ma adesso non c'è più. La Bestia è morta. Uscì dalla porta posteriore in una serata dolce, pregna del calore estivo. Si fermò sotto la lampada esterna del palazzo per scrutare il parcheggio in ombra. Attratte dal bagliore della luce, le falene volteggiavano attorno alla lampada e Maura udì il frullare d'ali contro la lampadina. Poi udì un altro rumore: una portiera d'auto che si chiudeva. Una sagoma s'incamminò nella sua direzione, prendendo forma e fattezze a mano a mano che si avvicinava alla luce della lampada. Quando vide che era Ballard, Maura emise un sospiro di sollievo. «Mi stavi aspettando?» «Ho visto la tua macchina nel parcheggio. Ho provato a chiamarti.»
«Dopo le cinque inserisco la segreteria.» «Non hai risposto nemmeno al cellulare.» «L'ho spento. Non c'è bisogno che mi controlli, Rick. Sto bene.» «Sul serio?» Lei sopirò mentre si incamminavano verso la macchina di lei. Maura alzò lo sguardo al cielo, dove le stelle apparivano slavate per le luci della città. «Devo decidere che cosa fare per il DNA. Se voglio davvero conoscere la verità.» «Allora non fare il test. Non importa se sei imparentata con loro. Amalthea non ha niente a che fare con chi sei.» «Questo è quello che avrei detto prima.» Prima di sapere quale sangue mi scorre probabilmente nelle vene. Prima di sapere che discendo probabilmente da una famiglia di mostri. «Il male non è ereditario.» «In ogni caso, non è una bella sensazione sapere di avere alcuni pluriomicidi in famiglia.» Maura aprì la portiera e si mise al volante. Aveva appena infilato la chiave nell'accensione quando Ballard si chinò nell'abitacolo. «Maura», disse. «Vieni a cena con me.» Lei tacque senza guardarlo. Restò a fissare la luce verde del cruscotto mentre considerava l'invito. «Ieri sera», proseguì lui, «mi hai fatto una domanda. Ti chiedevi se mi sarei interessato a te se non avessi amato tua sorella. Penso che tu non mi abbia creduto.» Maura si voltò a guardarlo. «Non c'è veramente modo di saperlo, giusto? Perché tu l'amavi.» «Allora dammi la possibilità di conoscerti. Non me lo sono sognato, lassù nel bosco. Tu l'hai sentito, io l'ho sentito. Tra noi c'era qualcosa.» Si chinò di più e aggiunse con dolcezza: «È solo una cena, Maura». Lei pensò alle ore che aveva appena passato a lavorare in quell'edificio sterile, con solo i morti a tenerle compagnia. Stasera, si disse, non voglio stare sola. Voglio stare con i vivi. «Chinatown non è distante, perché non andiamo lì?» propose. Lui s'infilò sul sedile al suo fianco e si guardarono per un istante. La luce del lampione del parcheggio gli illuminava il volto di sbieco, lasciandone metà nell'ombra. Rick alzò la mano e le sfiorò la guancia, poi la cinse con un braccio per avvicinarla a sé, ma Maura era già lì, vicina a lui, pronta a incontrarlo a metà strada. A più di metà strada. Le labbra di lui trova-
rono le sue e Maura sospirò, sentendosi avvolgere dal calore delle sue braccia. L'esplosione la scosse. Trasalì quando il finestrino di Rick implose e il vetro le ferì la guancia. Aprì di nuovo gli occhi per guardarlo, per guardare quello che restava del suo volto ormai ridotto a una poltiglia sanguinolenta di carne. Lentamente il corpo di Ballard si accasciò su di lei. La testa le ricadde sulle cosce e il calore del suo sangue le inondò il grembo. «Rick. Rick!» Un movimento all'esterno attirò il suo sguardo sbigottito. Maura alzò gli occhi e dal buio vide emergere una figura vestita di nero che prese ad avvicinarsi verso di lei con l'efficienza di un robot. Sta venendo a uccidermi. Parti. Parti. Diede uno spintone al corpo di Rick cercando di scostarlo dal cambio, ma dal suo volto devastato continuava a colare sangue che le rendeva le mani scivolose. Riuscì a inserire la retromarcia e premette l'acceleratore. La Lexus scattò all'indietro uscendo dal posteggio. L'aggressore era da qualche parte alle sue spalle e si stava avvicinando. Gemendo per lo sforzo, spostò la faccia di Rick dal cambio e le sue dita affondarono nella carne insanguinata. Poi spostò il cambio su drive. Il lunotto posteriore esplose e Maura si rattrappì mentre i vetri le piovevano tra i capelli. Premette l'acceleratore a tavoletta e la Lexus partì sgommando. L'aggressore aveva bloccato l'uscita più vicina dal posteggio: adesso poteva andare solo in una direzione, verso il parcheggio adiacente del Centro medico della Boston University. I due spiazzi erano separati solo da un cordolo e Maura puntò dritta verso di esso, preparandosi all'urto. Quando le gomme rimbalzarono sul cemento, sentì il mento balzare in avanti e i denti chiudersi violentemente. Un altro proiettile sfrecciò e il parabrezza si disintegrò. Maura si chinò quando le schegge di vetro piombarono sul cruscotto e la colpirono in viso. La Lexus sbandò, priva di controllo. Maura alzò lo sguardo e vide il lampione davanti a sé. Non c'era modo di evitarlo. Chiuse gli occhi poco prima che l'air bag si aprisse e fu scagliata contro il sedile. Lentamente riaprì gli occhi, stordita. Il clacson suonava incessante e non smise nemmeno quando si spostò dall'air bag sgonfio, nemmeno quando spalancò la portiera e si gettò fuori sull'asfalto.
Si mise in piedi barcollando con le orecchie che le ronzavano per il fragore continuo del clacson. Riuscì a ripararsi dietro un'auto parcheggiata nelle vicinanze e, con le gambe che le tremavano, si sforzò di avanzare lungo la fila di macchine finché non si fermò di scatto. Davanti a lei sì apriva un ampio spiazzo di asfalto. Maura s'inginocchiò dietro una gomma, sbirciò oltre il paraurti. Sentì il sangue gelarsi nelle vene quando vide la sagoma scura uscire dall'ombra a grandi passi, implacabile come un automa, e avvicinarsi alla Lexus fracassata. Poi entrò nella chiazza di luce creata dal lampione stradale. Maura vide un riflesso di capelli biondi, il balenare di una coda. L'aggressore spalancò la portiera del passeggero e si chinò a osservare il corpo di Ballard. D'un tratto si risollevò e si guardò attorno muovendo la testa, scrutando il parcheggio. Maura si chinò dietro la gomma con le tempie che le pulsavano, inalando boccate di panico. Guardò in direzione dello spiazzo deserto di asfalto, illuminato a giorno da un altro lampione. Dietro di esso, dall'altra parte della strada, c'era l'insegna rosso intenso URGENZE del pronto soccorso del Centro medico. Doveva solo riuscire ad attraversare quel tratto scoperto e poi Albany Street. Il fragore del clacson doveva già aver attirato l'attenzione del personale ospedaliero. Così vicini, i soccorsi sono così vicini. Col cuore che le batteva forte, si dondolò sui talloni, spaventata all'idea di muoversi, spaventata all'idea di restare ferma. Lentamente si protese e sbirciò oltre la gomma. Due stivali neri erano piantati esattamente dall'altro lato dell'auto. Scappa. In un lampo Maura si gettò nello spiazzo deserto. Non pensò a mosse diversive, a procedere a zigzag: si mise semplicemente a correre in preda al panico. L'insegna rossa URGENZE luccicava davanti a lei. Ce la posso fare, pensò. Posso... Il proiettile fu come una forte botta alla spalla che la scagliò in avanti, facendola cadere scomposta sull'asfalto. Maura cercò di mettersi in ginocchio, ma il braccio sinistro cedette sotto di lei. Che cos'ha che non va il braccio? pensò. Perché non riesco a usarlo? Gemendo, rotolò sulla schiena e vide la luce intensa del lampione brillare sopra di lei. Poi il volto di Carmen Ballard entrò nel suo campo visivo. «Ti ho già uccisa una volta», disse Carmen. «Adesso devo rifare tutto daccapo.»
«Ti prego, Rick e io... noi non siamo mai...» «Non era roba tua.» Carmen sollevò la pistola. La canna era un occhio nero che la fissava. «Maledetta puttana.» La mano della donna si contrasse, pronta a sparare il colpo letale. «Butti l'arma!» esclamò all'improvviso una voce. Una voce maschile. Carmen sbatté le palpebre, sorpresa, e lanciò un'occhiata di lato. A pochi metri di distanza c'era un addetto alla sicurezza dell'ospedale con la pistola puntata su Carmen. «Mi ha sentito, signora?» abbaiò. «La butti!» La mira di Carmen vacillò. La donna guardò Maura, poi la guardia mentre la sua rabbia, la sua sete di vendetta lottavano con la realtà delle conseguenze. «Noi non siamo mai stati amanti», disse Maura con voce tanto flebile che si chiese se Carmen l'avesse sentita con il fragore del clacson in lontananza. «E neanche loro.» «Bugiarda.» Lo sguardo di Carmen tornò subito a posarsi su Maura. «Sei proprio come lei. Lui mi ha lasciata per colpa sua...» «Non è stata colpa di Anna...» «Sì invece. E adesso è colpa tua.» Continuò a fissare Maura anche quando si udì lo stridio di una frenata. Anche quando una voce urlò: «Agente Ballard! Butti l'arma!» Rizzoli. Carmen guardò di lato: un'ultima occhiata per calcolare le possibilità, per soppesare le scelte. Adesso aveva due armi puntate contro. Aveva perso: qualsiasi cosa avesse scelto, la sua vita era finita. Mentre tornava a posare lo sguardo su di lei, Maura le lesse negli occhi la decisione che aveva preso. Vide il suo braccio raddrizzarsi per prendere la mira e puntare la canna per il colpo finale. Vide le mani di Carmen contrarsi sull'impugnatura, pronte a sparare il proiettile letale. L'esplosione scosse Maura e gettò di lato Carmen, che vacillò e cadde. Maura udì un rumore sordo di passi, un crescendo di sirene e una voce familiare che mormorava: «Oh, Gesù, dottoressa!» Vide il volto di Rizzoli chino sul suo. Le luci pulsavano in strada. Tutt'intorno le ombre si stavano avvicinando. I fantasmi che l'accoglievano nel loro mondo. 32
Adesso la viveva dall'altra parte. Nelle vesti di paziente, non di medico, con le luci dei soffitti che scorrevano sopra di lei mentre il lettino veniva spinto in corridoio, mentre l'infermiera con la cuffia la osservava con sguardo preoccupato. Le rotelle cigolavano e l'infermiera ansimava un po' mentre spingeva il lettino oltre le porte, entrando in sala operatoria. Adesso su di lei c'erano altre luci, più violente, accecanti. Come quelle della sala autopsie. Maura chiuse gli occhi. Mentre le infermiere della sala operatoria la trasferivano sul tavolo, pensò ad Anna, stesa nuda sotto lampade identiche, col corpo squartato, osservata da occhi sconosciuti. Sentì il suo spirito aleggiare sopra di lei, osservarla così come Maura aveva fatto con lei. Sorella mia, pensò mentre il pentobarbital si faceva strada nelle sue vene e le luci si affievolivano. Mi stai aspettando? Ma quando si svegliò, non vide Anna, ma Jane Rizzoli. La luce del giorno filtrava dalle veneziane semichiuse, illuminando a strisce la faccia di Jane che si stava chinando su di lei. «Ehi, dottoressa.» «Ehi», rispose in un sussurro Maura. «Come ti senti?» «Non tanto bene. Il braccio...» Maura trasalì. «Mi sembra sia ora di un'altra iniezione.» Rizzoli si allungò e premette il pulsante per chiamare l'infermiera. «Grazie. Grazie di tutto.» Rimasero in silenzio quando l'infermiera arrivò per iniettare una dose di morfina nella linea endovenosa. Il silenzio perdurò dopo che l'infermiera se ne fu andata e il farmaco cominciò a fare la sua magia. «Rick...» sussurrò Maura. «Mi spiace. Tu sai che è...» Lo so. Maura ricacciò indietro le lacrime. «Non abbiamo avuto nemmeno una possibilità.» «Lei non te l'avrebbe mai concessa. Quel graffio sulla portiera: era tutto per via di Rick. Per dirti di stare alla larga da suo marito. Le zanzariere fracassate, l'uccellino morto nella cassetta della posta, tutte le minacce fatte ad Anna che avevamo attribuito a Cassell... è stata Carmen, per spaventare Anna e indurla a lasciare la città, a lasciare in pace il marito.» «Ma poi Anna torna a Boston.» Rizzoli annuì. «Torna perché ha saputo di avere una sorella.» Io.
«Così Carmen scopre che l'amica del marito è tornata in città», proseguì Rizzoli. «Anna lascia quel messaggio nella segreteria di Rick, ricordi? La figlia lo sente e riferisce alla madre. A quel punto svanisce ogni speranza che Carmen aveva di riconciliarsi con lui. L'altra si stava di nuovo avvicinando, stava entrando nel suo territorio, nella sua famiglia.» Maura ricordò le parole di Carmen: Non è roba tua. «Charles Cassell mi ha detto una cosa sull'amore», osservò Jane. «Ha detto che c'è un genere di amore che non molla mai, a nessun costo. Sembra quasi romantico, vero? Finché morte non ci separi. Poi pensi a quante persone finiscono uccise perché un innamorato non molla, non rinuncia.» La morfina le era ormai entrata in circolo. Maura chiuse gli occhi abbandonandosi con piacere al farmaco. «Come hai fatto a capire?» mormorò. «Perché hai pensato a Carmen?» «Il Black Talon. Il proiettile: era l'indizio che avrei dovuto seguire fin da subito. Ma mi sono lasciata fuorviare dai Lank. Dalla Bestia.» «Anch'io», sussurrò Maura e sentì l'effetto soporifero della morfina. «Penso di esser pronta, Jane. Per la risposta.» «La risposta su che cosa?» «Su Amalthea. Devo sapere.» «Se sia tua madre?» «Sì.» «Anche se lo fosse, non significa niente. È solo biologia. Che cosa ricaveresti da un'informazione del genere?» «La verità», disse Maura con un sospiro. «Almeno saprei la verità.» La verità, pensò Rizzoli mentre si avviava all'auto, è raramente quella che le persone vogliono sentire. Non sarebbe forse meglio aggrapparsi al più flebile brandello di speranza di non discendere da una stirpe di mostri? Maura però voleva conoscere i fatti e Rizzoli sapeva che erano brutali. Le squadre avevano già trovato i resti di due donne sepolti nel bosco, sul fianco della montagna, non lontano dal luogo di prigionia di Mattie Purvis. Quante altre donne incinte avevano conosciuto l'orrore di quella cassa? Quante sì erano svegliate al buio e avevano graffiato, urlando, quelle pareti invalicabili? Quante avevano capito, come Mattie, che le attendeva una fine orribile quando la loro utilità quali incubatrici viventi fosse terminata? Io sarei riuscita a sopravvivere a quell'orrore? Non lo saprò mai. A meno che non mi trovi io stessa nella cassa. Quando arrivò alla macchina, si ritrovò a controllare tutte e quattro le
gomme per accertarsi che fossero intatte e a osservare le auto nei paraggi, in cerca di chiunque potesse tenerla d'occhio. Questo è l'effetto che ti fa il lavoro, pensò: inizi a vedere il male dappertutto, anche quando non c'è. Salì nella Subaru e avviò il motore. Rimase per un attimo seduta mentre questo girava al minimo e l'aria che usciva dalle bocchette lentamente si raffreddava. Rizzoli frugò in borsa in cerca del telefono, pensando: ho bisogno di sentire la voce di Gabriel. Ho bisogno di sapere che non sono Mattie Purvis, che mio marito mi ama davvero, come io lo amo. Lui rispose al primo squillo. «Agente Dean.» «Ehi», disse Jane. Gabriel scoppiò in una risata, sorpreso. «Stavo proprio per chiamarti.» «Mi manchi.» «Speravo lo dicessi. Sto andando in aeroporto.» «In aeroporto? Vuol dire che...» «Prendo il primo volo per Boston. Che ne dici quindi di un appuntamento con tuo marito stasera? Credi di potermi inserire nella tua folta agenda?» «Con l'inchiostro permanente. Vieni solo a casa. Per favore, vieni a casa.» Ci fu un attimo di silenzio, poi Gabriel chiese con dolcezza: «Stai bene, Jane?» Lacrime inattese le bruciarono gli occhi. «Oh, sono questi maledetti ormoni», rispose asciugandosi la faccia e scoppiando a ridere. «Ho bisogno di te, ora.» «Tieni bene a mente il concetto perché sto arrivando.» Rizzoli sorrideva mentre guidava verso Natick per recarsi in un ospedale diverso, da una paziente diversa. L'altra sopravvissuta di quella storia di massacri. Sono due donne straordinarie, pensò, e io ho la fortuna di conoscerle entrambe. A giudicare da tutti i furgoni della TV nel parcheggio dell'ospedale e da tutti i reporter che si aggiravano nei paraggi dell'ingresso, anche la stampa aveva deciso che Mattie Purvis era una persona degna d'essere conosciuta. Rizzoli dovette passare sotto le forche caudine dei cronisti per poter mettere piede nell'atrio. La storia della donna incinta sepolta in una cassa aveva scatenato una frenesia mediatica nazionale. Rizzoli dovette esibire il distintivo a due diversi addetti alla sicurezza prima di poter finalmente bussare alla porta di Mattie. Quando non ebbe risposta, entrò.
Il televisore era acceso, con l'audio azzerato. Le immagini guizzavano sullo schermo senza essere degnate d'attenzione. Mattie era stesa a letto con gli occhi chiusi, per nulla somigliante alla giovane ed elegante sposa della foto del matrimonio. Aveva le labbra gonfie e contuse, il viso era tutto pieno di segni e graffi. Una flebo attorcigliata era fissata con un cerotto alla mano dalle dita piene di escare e dalle unghie rotte: sembrava l'artiglio di una creatura ferina. Ma l'espressione sul volto di Mattie era serena. L'espressione di una persona che dormiva senza incubi. «Signora Purvis?» disse piano Rizzoli. Mattie aprì gli occhi e batté alcune volte le palpebre prima di mettere a fuoco la visitatrice. «Oh, detective Rizzoli, è tornata.» «Ho pensato di passare a vedere come stava. Come si sente oggi?» Mattie emise un profondo sospiro. «Molto meglio. Che ore sono?» «Quasi mezzogiorno.» «Ho dormito tutta la mattina?» «Se lo meritava. No, non si metta a sedere, stia tranquilla.» «Ma sono stanca di starmene qui distesa.» Mattie scostò le coperte e si mise a sedere con i capelli tutti in disordine, che le ricadevano spenti, aggrovigliati, sulle spalle. «Ho visto la sua bambina nella nursery. È bellissima.» «Vero?» Mattie sorrise. «La chiamerò Rose. Mi è sempre piaciuto quel nome.» Rose. Rizzoli sentì un brivido. Era solo una coincidenza, una di quelle inspiegabili connessioni dell'universo. Alice Rose. Rose Purvis. Una ragazza morta da tempo, un'altra che iniziava appena a vivere, ma c'era un filo, per quanto sottile, che collegava quei due esseri al di là degli anni. «Deve rivolgermi altre domande?» chiese Mattie. «Be', veramente...» Rizzoli avvicinò una sedia al letto e si sedette. «Le ho chiesto tante cose ieri, Mattie, ma non le ho mai domandato come ci sia riuscita. Come abbia fatto.» «Come abbia fatto che cosa?» «A restare sana di mente, a non cedere.» Il sorriso sulle labbra di Mattie svanì. Guardò Rizzoli con occhi sgranati, allucinati e mormorò: «Non so come ho fatto. Non immaginavo mai di poter...» S'interruppe. «Volevo vivere, questo è tutto. Volevo che la mia bambina vivesse.» Restarono in silenzio per qualche istante. Poi Rizzoli parlò. «Devo metterla in guardia dalla stampa: sono tutti
pronti a sbranarla. Ho dovuto attraversare una folla di cronisti davanti alla porta. Finora l'ospedale è riuscito a tenerli lontani, ma quando arriverà a casa sarà un'altra storia. Soprattutto dal momento che...» Rizzoli tacque. «Che cosa?» «Voglio solo che sia preparata, ecco. Non lasci che nessuno la convinca a fare ciò che non vuole.» Mattie si accigliò, poi sollevò lo sguardo al televisore muto, che ora trasmetteva il notiziario di mezzogiorno. Prese il telecomando e alzò il volume. «Questo è il giorno più felice della mia vita», stava dicendo Dwayne ai reporter. «Ho ritrovato la mia bellissima moglie e mia figlia. È stata un'esperienza tanto atroce che non oso nemmeno parlarne. Grazie a Dio, grazie a Dio, il lieto fine esiste.» Mattie premette il tasto OFF, ma tenne lo sguardo sullo schermo vuoto. «Non mi sembra vero», disse. «È come se non fosse mai successo. Per questo riesco a stare seduta qui e a essere così calma, perché non credo di essere stata davvero là dentro, in quella cassa.» «Invece sì, Mattie. Le ci vorrà del tempo per elaborare quello che ha vissuto. Potrebbe avere degli incubi, dei flashback. Magari entrerà in ascensore o in una cabina armadio e all'improvviso le sembrerà di essere di nuovo nella cassa. Ma le cose miglioreranno, glielo prometto. Si ricordi solo questo: le cose miglioreranno sicuramente.» Mattie la guardò con occhi luccicanti. «Lei sa.» Sì, so, pensò Rizzoli chiudendo le mani per nascondere le cicatrici sui palmi, segno del suo incubo, della sua lotta per conservare la ragione. Sopravvivere è solo il primo passo. Bussarono alla porta. Rizzoli si alzò mentre Dwayne Purvis entrava con un enorme mazzo di rose rosse. Andò dritto dalla moglie. «Ehi, piccola. Sarei arrivato prima, ma di sotto c'è una baraonda. Tutti che vogliono un'intervista.» «L'abbiamo vista in TV», disse Rizzoli cercando di assumere un tono neutro, anche se non poteva guardarlo senza ricordare l'interrogatorio alla stazione di polizia di Natick. Oh, Mattie, pensò. Ti meriti di meglio di quest'uomo. Dwayne si voltò a guardare Rizzoli e lei notò la camicia elegante e la cravatta di seta bene annodata. Il profumo del dopobarba copriva quello delle rose. «E come sono andato?» chiese ansioso. «Sembrava un vero professionista dello schermo» rispose con sincerità.
«Sì? È incredibile, tutte quelle telecamere là fuori. Si sono scatenati tutti.» Guardò la moglie e disse: «Sai, tesoro, dobbiamo documentare ogni momento. In modo da avere un ricordo». «Che vuoi dire?» «Come per esempio ora, questo momento. Dovremmo avere una foto di questo momento: io che ti porto i fiori mentre sei a letto, in ospedale. Ho già le foto della bambina. Ho chiesto all'infermiera di avvicinarla al vetro. Ma ci servono dei primi piani. Tu che la tieni in braccio, per esempio.» «Si chiama Rose.» «E non abbiamo foto di noi due insieme. Ce ne serve assolutamente una. Ho portato una macchina fotografica.» «Non mi sono pettinata, Dwayne. Sono un disastro. Non voglio fotografie.» «Dai. Ce le chiedono.» «Chi? Per chi sono le foto?» «Possiamo deciderlo dopo. Possiamo prenderci un po' di tempo, valutare tutte le offerte. La storia vale molto di più se esce con le foto.» Estrasse una macchina fotografia dalla tasca e la porse a Rizzoli. «Ecco, le spiace farcene una?» «Dipende da sua moglie.» «È tutto a posto, è tutto a posto», insistette Dwayne. «Ci faccia solo una foto.» Si avvicinò quindi a Mattie e le porse il mazzo di rose. «Come va così? Io che le regalo i fiori. Verrà benissimo.» Dwayne sorrise, con i denti tutti luccicanti: il marito affettuoso che protegge la moglie. Rizzoli guardò Mattie. Non vide segni di protesta nel suo sguardo, solo un lampo strano, esplosivo, che non riuscì a decifrare. Sollevò la macchina, inquadrò la coppia nel mirino e premette l'otturatore. Scattò il flash, in tempo per cogliere l'immagine di Mattie Purvis che picchiava il marito sul viso col mazzo di rose. 33 Quattro settimane dopo Stavolta niente recite, niente simulazioni di follia. Amalthea Lank entrò nella sala privata per colloqui e si sedette al tavolo. Lo sguardo che rivolse a Maura era lucido e perfettamente normale. I capelli, un tempo scarmigliati, erano raccolti con ordine in una coda e mettevano nettamente in ri-
salto i tratti del suo volto. Osservando gli zigomi alti di Amalthea, il suo sguardo diretto, Maura si chiese: perché mi sono rifiutata di vederlo prima? È così ovvio. Sto guardando la mia faccia come sarà tra venticinque anni. «Sapevo che saresti tornata», disse Amalthea. «Ed eccoti qui.» «Sai perché sono qui?» «Hai avuto i risultati del test, giusto? Adesso sai che dicevo la verità, anche se non hai voluto credermi.» «Mi servivano prove. Le persone non fanno che mentire, il DNA no.» «Eppure, avresti dovuto conoscere la risposta, ancor prima del tuo prezioso test di laboratorio.» Amalthea si protese sulla sedia e la guardò con un sorriso quasi confidenziale. «Hai la bocca di tuo padre, Maura. Lo sai? E i miei occhi, i miei zigomi. Vedo Elijah e me lì davanti, sul tuo volto. Noi siamo una famiglia, abbiamo lo stesso sangue, tu, io, Elijah e tuo fratello.» Tacque per un attimo. «Sai che era tuo fratello?» Maura deglutì. «Sì.» L'unico bambino che hai tenuto. Hai venduto me e mia sorella, ma il maschio, l'hai tenuto. «Non mi hai ancora detto come sia morto Samuel», disse Amalthea. «Come quella donna lo abbia ucciso.» «È stata autodifesa. Non hai bisogno di sapere altro. Non ha avuto altra scelta se non quella di difendersi.» «E chi è questa donna, Matilda Purvis? Vorrei sapere qualcosa di più su di lei.» Maura non disse nulla. «L'ho vista in televisione. Non mi è sembrata tanto speciale. Non capisco come possa esserci riuscita.» «Le persone fanno di tutto per sopravvivere.» «Dove vive? In quale strada? Alla televisione hanno detto che è di Natick.» Maura fissò gli occhi scuri della madre e all'improvviso ebbe un brivido, non per sé, ma per Mattie Purvis. «Perché lo vuoi sapere?» «Ho diritto di saperlo, come madre.» «Come madre?» Maura per poco non scoppiò a ridere. «Pensi davvero di meritarti la qualifica?» «Sono sempre sua madre. E tu, la sorella di Samuel.» Amalthea si protese ulteriormente. «È nostro diritto sapere. Noi siamo la sua famiglia, Maura. Nella vita non c'è niente di più forte del legame del sangue.» Maura fissò quegli occhi inquietantemente simili ai suoi e vi colse altret-
tanta intelligenza, persino un pizzico di genio, ma la loro luce era sbieca, un riflesso deforme in uno specchio in frantumi. «Il sangue non significa niente», replicò Maura. «Allora perché sei qui?» «Sono venuta perché volevo vederti per l'ultima volta. Poi me ne andrò. Perché ho deciso che, al di là di quello che dice il DNA, tu non sei mia madre.» «Allora chi lo è?» «La donna che mi ha voluto bene. Tu non sai amare.» «Ho amato tuo fratello. Posso amare te.» Amalthea allungò la mano sul tavolo e accarezzò la guancia di Maura. Era un tocco delicato, affettuoso come quello di una vera madre. «Dammi una possibilità», sussurrò. «Addio, Amalthea.» Maura si alzò e premette il pulsante per chiamare la guardia. «Qui ho finito», disse all'interfono. «Sono pronta per uscire.» «Tornerai», disse Amalthea. Maura non la guardò, non lanciò nemmeno un'occhiata oltre la spalla mentre usciva dalla stanza, mentre sentiva Amalthea gridarle: «Maura! Tu tornerai!» Maura si fermò nella stanza con gli armadietti a recuperare borsa, patente e carte di credito. Tutte prove della sua identità. Ma io so già chi sono, pensò. E so chi non sono. Fuori, nella calura di un pomeriggio d'estate, si fermò e inspirò profondamente. Sentì il calore del giorno liberarle i polmoni dal lordume della prigione. Sentì anche il veleno di Amalthea Lank fuoriuscire dalla sua vita. Nel volto, negli occhi, Maura recava la prova della sua discendenza. Nelle sue vene scorreva sangue di assassini, ma il male non era ereditario. Forse lo serbava potenzialmente nei geni, come ogni altro bambino venuto al mondo. In questo non sono diversa. Discendiamo tutti da mostri. Si allontanò da quell'edificio di anime prigioniere. Davanti c'era la sua macchina e la strada verso casa. Non si voltò a guardare. RINGRAZIAMENTI Scrivere è un mestiere solitario, ma in verità nessuno scrittore è solo nella sua impresa. Io ho avuto la fortuna di ricevere aiuto e sostegno da Linda Marrow e Gina Centrello della Ballantine Books, da Meg Ruley, Jane Berkey, Don Cleary e dalla splendida équipe della Jane Rotrosen Agency, da
Selina Walker della Transworld e soprattutto da mio marito Jacob. Il mio più caloroso grazie a tutti! FINE