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JAMES PATTERSON & MAXINE PAETRO IL SESTO COLPO (The 6th Target, 2007) PROLOGO La gita in battello 1 Alfred Brinkley, seduto su una sdraio azzurra sul ponte superiore del traghetto, nutre pensieri omicidi. Il sole di novembre brilla nel cielo come un grande occhio bianco puntato sul catamarano che solca la baia di San Francisco. Fred Brinkley lo guarda. Un'ombra si allunga su di lui e una voce di bimbo domanda: «Signore? Può farci una foto, per favore?» Fred scuote la testa - no, no, no - e la collera, come una molla, scatta dentro di lui, gli attanaglia la testa. Avrebbe voglia di schiacciare quel bambino sul ponte come uno stupido insetto. Distoglie lo sguardo e canta fra sé: Ay, ay, ay, ay, Sau-sa-li-to-lindo, cercando di scacciare le voci. Tocca Bucky per rassicurarsi: è lì, sotto la giacca a vento di nylon blu. Ma le voci continuano a tuonargli nel cervello, più insistenti di un martello pneumatico. Sei uno sfigato. Sei una merda. I gabbiani strillano come bambini. Il sole splende oltre le nuvole e Fred ha la sensazione di essere trasparente, di vetro. Lo sanno tutti: sanno quello che ha fatto. I passeggeri in bermuda e cappellino con la visiera si affacciano a guardare il mare e scattano foto di Angel Island, Alcatraz e del Golden Gate Bridge. Passa una barca a vela che procede con due mani di terzaroli e la schiuma che si alza fino alla battagliola e Fred si piega in due, angosciato al ricordo di quella brutta cosa. Vede spostarsi il boma, sente lo schianto. Oddio, la barca a vela! Qualcuno pagherà! All'improvviso il traghetto comincia ad arretrare e il ponte vibra: sta accostando al molo. Fred si alza, si fa largo fra la folla passando oltre i tavoli bianchi e le file
di logore poltrone azzurre. Gli altri passeggeri lo guardano male. Va a prua e vede una madre che sgrida il figlioletto, un bambino di nove o dieci anni con i capelli castano chiaro. «Mi fai diventar matta!» gli urla. Fred sente che qualcosa dentro di lui si spezza. Qualcuno pagherà. Infila la mano destra nella tasca della giacca a vento e trova Bucky. L'impugna, il dito sul grilletto. Il traghetto urta il molo e sobbalza. Le persone si aggrappano le une alle altre, ridendo. Da prua e da poppa vengono lanciate le cime per l'ormeggio. Fred fulmina con gli occhi la giovane madre che continua a inveire contro il figlio. È bassa di statura, indossa bermuda marroni e una camicia bianca e sottile che lascia intravedere i capezzoli turgidi. «Vorrei tanto sapere cos'hai» urla in mezzo al frastuono dei motori. «Mi fai veramente arrabbiare.» Bucky, una Smith & Wesson modello 10, pare pulsare di vita propria nella mano di Fred. La voce intima: Uccidila. Uccidila. Sta esagerando. Bucky punta verso i seni della donna. BUM. Fred sente il rinculo, vede la donna cadere all'indietro con un grido di dolore, una chiazza scarlatta sulla camicia bianca. Bene! Il bambino segue con gli occhi sbarrati la caduta della madre sul ponte del traghetto. Lascia andare il cono di gelato alla fragola e si fa la pipì addosso. Anche il bambino ha fatto una brutta cosa. BUM. 2 Nella mente di Fred sventolano vele di un bianco accecante e il ponte si copre di sangue. Con la fida Bucky che gli scotta nella mano, perlustra il ponte con gli occhi. La voce dentro la testa gli intima di scappare, di correre. Non l'hai fatto apposta! gli dice. Con la coda dell'occhio, vede un uomo grande e grosso avanzare verso di lui. Ha lo sguardo assatanato, la faccia contorta dall'ira. Fred allunga il braccio.
BUM. Un altro uomo, un orientale con gli occhi scuri e cupi e le labbra sottili come una riga, cerca di disarmarlo. BUM. Una donna di colore, lì accanto, bloccata dalla folla, si volta verso di lui. Ha la faccia rotonda e gli occhi sgranati. Lo guarda negli occhi e... gli legge nel pensiero. «Okay, figliolo» gli dice, allungando la mano tremante. «Basta così. Ora dammi la pistola.» Ha capito, sa della brutta cosa che lui ha fatto. Come può saperlo? BUM. Fred prova un grande sollievo nel vedere la donna capace di leggergli nel pensiero cadere a terra. La folla ondeggia, arretra, si sposta verso sinistra, poi verso destra, a seconda di dove lui si volta. Hanno tutti paura di lui. La nera ha un cellulare nella mano insanguinata. Respira affannosamente, ma riesce a digitare un numero con il pollice. Non ci provare! Fred le calpesta il polso, poi si china a guardarla negli occhi. «Avresti dovuto fermarmi» le dice, a denti stretti. «Questo avresti dovuto fare.» Bucky si appoggia contro la tempia della donna. «Ti prego!» implora lei. «Non mi uccidere!» Una voce urla: «Mamma!» Un ragazzo molto magro, sui diciassette, diciott'anni, si avvicina. Impugna un tubo come fosse una mazza da baseball. Fred preme il grilletto. BUM. Ma il battello ondeggia. Fred manca il bersaglio, il tubo cade sul ponte e rotola da una parte. Il ragazzo corre dalla madre e si butta a terra. Vuole proteggerla? La gente si nasconde sotto i sedili, urla e grida lo lambiscono come lingue di fuoco. Al rumore dei motori si aggiunge il clangore metallico della passerella. Bucky resta puntata contro la folla, mentre Fred guarda oltre il parapetto. E calcola le distanze. Il salto fino alla passerella è di poco più di un metro, quello per arrivare sul molo ben più lungo. Fred si rimette in tasca Bucky e afferra il bordo del parapetto con tutte e due le mani, lo scavalca e atterra rimbalzando sulle sue Nike. Una nuvola oscura il sole, avvolgendolo nell'ombra, rendendolo invisibile.
Svelto, marinaio. Vai! Spicca un salto e riesce a raggiungere il molo. Corre verso il Farmer's Market e si perde tra la gente nel parcheggio. Cammina, quasi come se niente fosse, verso la stazione della metropolitana. Fischiettando, scende a passo svelto la scala che porta alla stazione BART di Embarcadero e continua a fischiettare in attesa del treno che lo riporterà a casa. Ce l'hai fatta, marinaio. PARTE PRIMA Conoscete quest'uomo? 3 Ero fuori servizio quel sabato mattina di inizio novembre, quando venni chiamata sulla scena di un crimine perché nella tasca della vittima era stato trovato il mio biglietto da visita. Ero lì, in piedi nel salotto buio di una villetta bifamiliare di Seventeenth Street, e guardavo un povero disgraziato, tal José Alonso, a torso nudo, pancia prominente, ingobbito su un divano sfondato di un colore indefinibile, con le mani legate dietro la schiena. Stava a capo chino e piangeva. Ma io non provavo nessuna pietà per lui. «Gli avete letto i suoi diritti?» chiesi all'ispettore Warren Jacobi che, dopo aver lavorato in coppia con me per molto tempo, adesso era un mio subordinato. Aveva appena compiuto cinquantun anni e in venticinque anni di servizio aveva visto più omicidi lui di quanti ne dovrebbero vedere dieci poliziotti in tutta la loro carriera. «Sì, tenente. E comunque ha confessato.» Jacobi apriva e chiudeva i pugni, nervoso, e aveva la faccia disgustata. «Ha capito quali sono i suoi diritti?» chiesi ad Alonso. L'uomo annuì e ricominciò a singhiozzare. «Non dovevo, lo so che non dovevo, ma mi faceva diventare matto.» Una bambina con il pannolone fradicio che le scendeva fino alle ginocchia e un nastro sporco fra i capelli si stringeva alla gamba del papà. Il suo pianto mi spezzava il cuore. «Che cosa faceva Rosa per farla diventare matto?» domandai ad Alonso. «Me lo spieghi.»
Rosa Alonso era per terra, il viso grazioso girato verso la parete color caramello, la testa sfondata. Il marito l'aveva prima picchiata e poi uccisa con il ferro da stiro. L'asse da stiro le era crollata addosso e nell'aria si sentiva ancora l'odore dell'appretto spray. L'ultima volta che l'avevo vista, Rosa mi aveva detto che non osava lasciare il marito perché aveva paura che lui la andasse a cercare per ammazzarla. Se solo avesse preso con sé la bambina e fosse fuggita... L'ispettore Richard Conklin, che era il più giovane della squadra e lavorava in coppia con Jacobi, entrò in cucina e riempì la ciotola del grosso gatto rosso che miagolava sul tavolo di formica. Interessante. «Resterà da solo per un po'» disse, senza voltarsi. «Chiama la protezione animali.» «Già fatto. Hanno detto che non ce la fanno a venire a prenderlo subito.» Conklin aprì il rubinetto e riempì di acqua l'altra ciotola. Alonso rispose alla mia domanda. «Sa cosa mi ha detto? Mi ha detto di andarmi a cercare un lavoro. Non ci ho visto più, capisce?» Lo squadrai finché non abbassò lo sguardo e sussurrò alla moglie morta: «Non volevo, Rosa, te lo giuro. Ti prego, dammi un'altra possibilità». Jacobi lo prese per un braccio e lo fece alzare in piedi. «Ti perdona, ti perdona. Ma adesso vieni con me.» La bambina strillava disperata. Entrò Patty Whelk, dei Servizi Sociali. «Ciao, Lindsay» mi disse, passando oltre la vittima. «Dov'è la signorina?» Presi in braccio la piccola, le tolsi il nastrino sporco dai ricci e la porsi a Patty. «Anita Alonso, ti presento il sistema» dissi tristemente. Patty prese in braccio la bambina e mi lanciò un'occhiata sconfortata, poi andò in camera a cercare un pannolino pulito. Lasciai Conklin ad aspettare il medico legale e uscii con Jacobi e Alonso. Salutai Jacobi e salii sulla mia Explorer, che avevo parcheggiato per strada, vicino a un cumulo di sacchi di spazzatura. Avevo appena girato la chiavetta di accensione, quando mi squillò il Nextel alla cintura. È sabato! Volete lasciarmi in pace? Risposi al secondo squillo. Era il mio capo, Anthony Tracchio, con una voce stranamente tesa. In
sottofondo si udiva l'ululato di alcune sirene. «C'è stata una sparatoria a bordo di un traghetto, Boxer. Il Del Norte. Sono morte tre persone e altre due sono rimaste ferite. Ho bisogno di te, devi raggiungermi immediatamente.» 4 Al pensiero di che cosa poteva aver convinto il mio capo a uscire dalla sua bella casa di Oakland di sabato, fui assalita da cattivi presentimenti. E la mia ansia peggiorò quando vidi cinque o sei auto della polizia parcheggiate all'inizio del molo e altre due sul marciapiede, ai lati del terminal traghetti. Un agente mi chiamò: «Da questa parte, tenente!» Mi fece segno verso la strada che portava al molo sul lato sud. Passai oltre volanti, ambulanze e camion dei vigili del fuoco e lasciai la Explorer appena fuori del terminal. Aprii la portiera e uscii nella nebbia. Dovevano esserci quindici gradi e soffiava un vento piuttosto forte, che increspava l'acqua e faceva dondolare il Del Norte. Quello spiegamento di forze aveva incuriosito la gente e fra il mercatino biologico e il terminal si erano assembrate centinaia di persone che scattavano foto e cercavano di capire che cosa fosse successo. Era come se fiutassero sangue e polvere da sparo nell'aria. Passai sotto il nastro teso per impedire l'accesso al molo, salutai con un cenno alcuni agenti che conoscevo e mi guardai in giro. Sentii che Tracchio mi chiamava. Era in cima alla passerella del traghetto. Indossava una giacca di pelle e un paio di Dockers e aveva il suo solito riporto sulla testa. Mi fece segno di salire a bordo. Mi sentii come una mosca invitata da un ragno a farle compagnia. Mi avviai, ma a metà della passerella dovetti farmi da parte per lasciar scendere due uomini dell'ambulanza con una barella. Abbassai gli occhi e vidi che vi era stesa una donna afroamericana, robusta, con una maschera per l'ossigeno che le copriva quasi interamente il volto e una flebo nel braccio. Il lenzuolo che la copriva era zuppo di sangue. Mi sentii mancare e lo shock impedì al mio cervello di mettere insieme le informazioni. Impiegai qualche secondo a capire. Era Claire Washburn!
La mia migliore amica era una delle vittime della sparatoria! Mi aggrappai alla barella e la fermai, fra le proteste del biondo che la reggeva da dietro. «Sono della polizia» gli spiegai, aprendo la giacca per fargli vedere il distintivo. «Potrebbe anche essere Dio in terra, ma si deve spostare: la dobbiamo portare al pronto soccorso» replicò lui. Il cuore mi batteva all'impazzata. «Claire» gridai, camminando di fianco alla barella mentre veniva sbarcata e procedeva sull'asfalto. «Claire, sono io, Lindsay! Mi senti?» Nessuna risposta. «È grave?» chiesi al paramedico. «Si scosti, per favore, dobbiamo portarla urgentemente in ospedale.» «Risponda alla mia domanda, perdio!» «Non lo so!» Rimasi lì attonita a guardare mentre i soccorritori aprivano i portelloni dell'ambulanza. Erano passati più di dieci minuti da quando avevo ricevuto la telefonata di Tracchio e in tutto quel tempo Claire era rimasta lì, su quel traghetto, a perdere sangue e a cercare di respirare con un proiettile in corpo. Le presi una mano, con gli occhi lucidi. La mia amica voltò la testa verso di me e batté le palpebre, sforzandosi di aprire gli occhi. «Lindsay» mormorò, quando le scostai la maschera dal viso. «Dov'è Willie?» In quel momento mi ricordai che nel fine settimana il figlio minore di Claire lavorava sui traghetti. Probabilmente era per quel motivo che Claire era a bordo del Del Norte. «Ci siamo persi» continuò. «Ho paura che sia corso dietro all'assassino.» 5 Claire ruotò gli occhi all'indietro e perse di nuovo conoscenza. I paramedici caricarono la barella sull'ambulanza. Le porte si chiusero, la sirena cominciò a ululare e l'ambulanza che trasportava la mia amica si immise nel traffico, alla volta del San Francisco General Hospital. Sarebbe stata una lotta contro il tempo.
L'assassino era scappato e forse Willie l'aveva seguito. Tracchio mi posò una mano sulla spalla. «Stiamo raccogliendo le testimonianze per capire che cosa è successo...» «Devo trovare il figlio di Claire» lo interruppi io. Mi allontanai di corsa verso il mercato, scrutando ogni faccia nella folla che si muoveva lentamente. Mi sembrava di essere in una mandria di bovini. Guardai tutte le bancarelle e fra una bancarella e l'altra, e perlustrai con lo sguardo tutte le strade, ma alla fine fu Willie a trovare me. Cercò di raggiungermi, chiamandomi: «Lindsay! Lindsay!» Aveva la maglietta sporca di sangue, il fiatone e la faccia terrorizzata. Lo afferrai per le spalle. Mi veniva di nuovo da piangere. «Willie, sei ferito?» Scosse la testa. «Non è sangue mio. Hanno sparato alla mamma.» Lo abbracciai forte e sentii parte della mia paura sciogliersi piano. Almeno lui stava bene. «La stanno portando all'ospedale» dissi, rimpiangendo di non poterlo rassicurare sul fatto che si sarebbe ripresa, che sarebbe tornata come prima. «Tu hai visto chi è stato? Com'era?» «Un uomo. Bianco, molto magro» rispose Willie, mentre camminavamo nella calca. «Con i capelli lunghi, castani, e la barba. Teneva la testa bassa, perciò non gli ho visto gli occhi.» «Età?» «Non so. Un po' più giovane di te, forse.» «Trentadue, trentatré?» «Suppergiù. Più alto di me: uno e ottantacinque, forse di più. Calzoni larghi, giacca a vento blu. L'ho sentito che sgridava mia madre, dicendole che avrebbe dovuto impedirgli di sparare. Che senso ha, Lindsay? Cosa avrebbe dovuto fare, povera mamma?» Claire dirige l'Istituto di medicina legale di San Francisco. Fa l'anatomopatologa, non la poliziotta. «Pensi che ce l'avesse con lei personalmente? Che la conoscesse?» Willie scosse la testa. «Stavo dando volta alle cime, quando abbiamo sentito urlare» mi spiegò. «Ha sparato ad altri, prima che alla mamma. Lei è stata l'ultima. Le ha puntato la pistola alla tempia. Io allora ho preso un pezzo di tubo di ferro e stavo per sbatterglielo sulla testa, ma ha sparato anche a me» continuò. «Poi è saltato sul molo. Io ho provato a raggiungerlo, ma l'ho perso.»
Fu Solo in quel momento che mi resi conto del pericolo che aveva corso. «Willie, che cosa avresti fatto, se fossi riuscito a prenderlo? Ci hai pensato? Era armato, ti avrebbe sparato di nuovo.» Willie scoppiò a piangere e io lo abbracciai. «Sei stato molto coraggioso, comunque» gli dissi. «Hai tenuto testa a un assassino per proteggere tua madre. Penso che tu le abbia salvato la vita.» 6 Baciai Willie sulla guancia dal finestrino della macchina della polizia con cui l'agente Pat Noonan lo avrebbe accompagnato all'ospedale e salii a bordo del traghetto per raggiungere il ponte superiore. Mi aspettava uno spettacolo raccapricciante. Le vittime erano ancora lì, dove erano cadute, sul ponte in fibra di vetro sporco di sangue e pieno di impronte confuse. C'erano indumenti abbandonati qua e là, un berretto da baseball rosso calpestato da chissà quanta gente, tovagliolini, bicchieri di carta e giornali inzuppati di sangue. Mi assalì un'ondata di nausea e di disperazione. L'assassino poteva essere ovunque e le prove che avrebbero potuto aiutarci a catturarlo erano andate perdute con il passaggio di agenti, passeggeri e paramedici. E poi ero preoccupata per Claire. «Stai bene, Lindsay?» mi domandò Traccino. Annuii, temendo che se avessi cominciato a piangere non sarei più riuscita a fermarmi. «Andreina Canello» mi disse Tracchio indicandomi il cadavere di una donna con un paio di bermuda beige e una camicia bianca, appoggiata allo scafo. «Secondo quel ragazzo là, è stata la prima cui ha sparato» mi informò, indicandomi un giovane con un taglio punkeggiante e il naso scottato dal sole. «Poi ha sparato al figlio della donna, un bambino di nove anni.» «Se la caverà?» domandai. Tracchio alzò le spalle. «Ha perso moltissimo sangue, poveretto.» Mi indicò un altro cadavere. Un uomo di razza bianca, con i capelli bianchi, sulla cinquantina, disteso per metà sotto un sedile. «Questo è Per Conrad, un macchinista che lavorava sul traghetto. Probabilmente ha sentito gli spari ed è intervenuto. Questo, invece, si chiamava Lester Ng e faceva l'assicuratore» continuò Tracchio mostrandomi un uomo orientale supino al centro del ponte. «Anche lui ha cercato di fermare l'assassino. I testimoni sostengono che è successo tutto nel giro di due o tre minuti.»
Provai a immaginarmi la scena, sulla base di quello che mi aveva detto Willie, delle informazioni che mi stava dando Tracchio e di quello che vedevo. Volevo mettere insieme i pezzi e cercare di capire se tutto ciò aveva un senso. Mi chiedevo se quella sparatoria fosse stata pianificata o se fosse frutto di un raptus improvviso. Nella seconda ipotesi, che cosa poteva averlo scatenato? «Un testimone ha detto che gli sembra di aver visto l'assassino seduto lì da solo, prima della sparatoria» disse Tracchio. «Gli pare fumasse una sigaretta. Sotto un tavolo abbiamo ritrovato un pacchetto di Turkish Special.» Seguii Tracchio a poppa, dove alcuni passeggeri terrorizzati stavano su un sedile con l'imbottitura azzurra. Alcuni erano sporchi di sangue, altri si tenevano per mano. Tutti erano sotto shock. Gli agenti stavano prendendo i loro nomi e numeri di telefono e le loro dichiarazioni. Il sergente Lexi Rose si voltò verso di noi e disse: «Buongiorno, capo. Buongiorno, tenente. Il signor Jack Rooney, qui, ha buone notizie per noi». Si fece avanti un signore anziano con una giacca di nylon rosso fuoco, grossi occhiali e una videocamera digitale delle dimensioni di una saponetta appesa a un cordino nero intorno al collo. Aveva un'espressione di cupa soddisfazione. «L'ho ripreso mentre sparava» disse, mostrandoci la videocamera. 7 Il capo della Scientifica, Charlie Clapper, salì a bordo insieme con i suoi tecnici subito dopo che i testimoni erano stati congedati. Si fermò davanti a noi, salutò Tracchio, disse: «Ciao, Lindsay» e si guardò in giro. Poi si infilò le mani nelle tasche della giacca di tweed, tirò fuori un paio di guanti di lattice e se li mise. «Che casino» commentò. «Cerchiamo di pensare positivo» dissi io, senza riuscire a mascherare la tensione nella voce. «Parli con un inguaribile ottimista» mi rispose. Rimasi con Tracchio mentre gli uomini della Scientifica si separavano per cominciare a fare i loro rilievi. Alcuni sistemavano cartellini, altri fotografavano i cadaveri e le macchie di sangue.
Uno estrasse un proiettile dallo scafo, un altro infilò in una bustina un indizio potenzialmente importante per identificare l'assassino: il pacchetto mezzo vuoto di sigarette che era stato trovato sotto un tavolo a poppa. «Io ora vado» mi avvertì Tracchio, guardando il Rolex. «Ho appuntamento con il sindaco.» «Voglio occuparmi io del caso» dissi. Tracchio mi guardò negli occhi per un lungo momento. Era l'ultima cosa che avrei dovuto dire, ma ormai mi era scappata. Tracchio era una brava persona e in generale mi stava simpatico, tuttavia era arrivato dove era arrivato facendo carriera come amministrativo. Non aveva mai seguito personalmente un caso in tutta la sua vita lavorativa e tendeva a vedere le cose da un unico punto di vista. Voleva che seguissi il caso dalla mia scrivania. Invece io davo il meglio quando operavo sul campo. L'ultima volta che gli avevo detto che preferivo lavorare sul campo, Tracchio mi aveva dato dell'ingrata, sostenendo che avevo ancora molto da imparare se volevo restare a capo della squadra. A suo dire, avrei dovuto ringraziare di essere stata promossa tenente e continuare a fare il mio lavoro senza discutere. Mi ricordò che uno dei miei uomini era stato ucciso nell'esercizio delle sue funzioni e che soltanto pochi mesi prima io e Jacobi eravamo rimasti gravemente feriti in un vicolo buio del Tenderloin. Era vero, ci avevano sparato. E avevamo rischiato di lasciarci la pelle. Ma io sapevo che non poteva dirmi di no, stavolta: l'assassino aveva sparato alla mia migliore amica ed era fuggito. «Lavorerò con Jacobi e Conklin. Faremo una squadra a tre. McNeil e Chi ci daranno una mano. Se necessario, ci faremo assistere anche dal resto della squadra.» Tracchio annuì, riluttante. Ma mi aveva dato il via libera. Lo ringraziai e chiamai Jacobi sul cellulare. Poi telefonai all'ospedale e parlai con un'infermiera gentilissima che mi disse che Claire era ancora sotto i ferri. Me ne andai con la videocamera di Jack Rooney in mano, intenzionata a tornare in ufficio per visionare le sue riprese. Scesi dal traghetto borbottando contro i giornalisti del Chronicle e di tre TV locali che mi aspettavano sul molo. Li conoscevo tutti. Mi puntarono addosso le telecamere e mi ritrovai una serie di microfoni sotto il naso. «È stato un attentato terroristico, tenente?»
«Chi è l'autore della strage?» «Quante persone sono morte?» «Per favore, lasciatemi fare il mio lavoro. È successo solo stamattina!» replicai, rimpiangendo che non avessero fermato Tracchio o qualcun altro dei quaranta e passa poliziotti nei paraggi, che probabilmente sarebbero stati ben contenti di passare al notiziario delle sei. «Renderemo noti i nomi delle vittime non appena avremo finito di contattare le famiglie» dissi. «Scopriremo chi è stato e lo beccheremo» continuai, con speranza e convinzione. «L'assassino non la farà franca.» 8 Erano le due del pomeriggio quando mi presentai al medico di Claire, Al Sassoon, che aveva in mano la cartella clinica della mia amica. Sassoon dimostrava quarantaquattro o quarantacinque anni, era moro e aveva qualche ruga di espressione intorno alla bocca. Aveva un'aria credibile e sicura di sé e mi ispirò subito fiducia. «È lei che indaga sulla sparatoria?» mi domandò. Annuii. «Sì. Ma sono anche un'amica di Claire.» «Anch'io sono suo amico» mi disse. Sorrise. «Le posso dire questo: il proiettile ha provocato la frattura di una costa e il collasso del polmone sinistro, ma ha mancato sia il cuore sia le arterie principali. Dunque Claire ha male a causa della frattura e dovrà tenere il respiratore artificiale finché il polmone non avrà ripreso le dimensioni normali. Ma sta bene, ed è fortunata ad avere tanta gente intorno.» Le lacrime che trattenevo da quella mattina rischiarono di uscirmi tutte insieme. Abbassai la testa e, con un filo di voce, dissi: «Vorrei parlarle. L'uomo che le ha sparato ha ucciso tre persone». «Dovrebbe svegliarsi a momenti» replicò Sassoon. Mi diede una pacca sulla spalla e mi aprì la porta della camera di Claire. Entrai. Il letto era stato rialzato dalla parte della testa per facilitarle la respirazione. Claire aveva tubicini nel naso e una flebo di soluzione salina attaccata al braccio. Sotto il sottile camice dell'ospedale si vedeva una grossa fasciatura. Aveva gli occhi gonfi e chiusi. Erano tanti anni che la conoscevo, ma non l'avevo mai vista malata. Non l'avevo mai vista giù. Suo marito Edmund si alzò dalla poltroncina vicino al letto appena mi vide. Aveva un'aria stravolta, spaventata e incredula.
Posai il sacchetto di plastica che avevo in mano e lo abbracciai. Edmund mi sussurrò: «Oddio, Lindsay, questo è troppo». Pronunciai insulse rassicurazioni, sapendo benissimo che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata inadeguata. «Si rimetterà in piedi presto, Eddie. Lo sai anche tu.» «Speriamo» mi rispose. «Chissà se tornerà mai come prima. Tu lo sei tornata, dopo che ti hanno sparato?» Non riuscii a rispondere. La verità era che ancora adesso mi svegliavo la notte in un bagno di sudore dopo aver sognato per l'ennesima volta la sparatoria di Larkin Street. Mi sembrava di sentire ancora i proiettili che mi colpivano, il senso di impotenza, la paura di morire. «E Willie?» disse Edmund. «Stamattina gli è caduto il mondo addosso. Aspetta, ti do una mano.» Mi aiutò a tirare fuori dal sacchetto un palloncino color argento con la scritta GUARISCI PRESTO! Lo legai al letto, poi mi avvicinai e presi la mano di Claire. «Ha detto qualcosa?» domandai a Edmund. «Ha aperto gli occhi un secondo e ha chiesto di Willie. Le ho detto che era a casa e che stava bene e lei ha replicato: 'Devo tornare a lavorare'. Poi si è riaddormentata. Sarà successo mezz'ora fa.» Pensai a quando ci eravamo viste l'ultima volta prima della sparatoria. Era stato soltanto il giorno prima: ci eravamo fatte «ciao» con la mano nel parcheggio di fronte alla Corte di Giustizia, uscendo dal lavoro. Un semplice saluto. «Ci si vede!» «Stammi bene, Butterfly!» Un normalissimo saluto. Come si dà per scontata la vita, a volte... E se Claire fosse morta quel giorno? E se non ce l'avesse fatta? 9 Mentre io tenevo la mano a Claire, Edmund tornò a sedersi sulla poltroncina e accese il televisore, con il volume bassissimo. Mi chiese: «Hai visto, Lindsay?» Alzai gli occhi e vidi la scritta che avvertiva che le immagini a seguire erano inadatte ai bambini. «Sì, l'ho visto, ma voglio rivederlo» risposi. Edmund disse: «Sì, anch'io». Sullo schermo apparvero le immagini riprese da Jack Rooney con la sua
videocamera. Guardammo la scena che Claire aveva vissuto in prima persona poche ore prima. Il filmato era sgranato e mosso. Si vedevano tre turisti che sorridevano e facevano «ciao», con una barca a vela che passava alle loro spalle, e quindi una bella immagine del Golden Gate Bridge. Seguiva una panoramica del ponte del traghetto, con un gruppetto di bambini che gettavano pezzi di hot dog ai gabbiani. Un bambino con un berretto da baseball rosso disegnava a un tavolino. Era Tony Canello. Vicino al parapetto un uomo allampanato, con la barba, si tormentava distrattamente i peli di un braccio. L'immagine si fermò e intorno al barbuto venne tratteggiato un circoletto. «Eccolo» disse Edmund. «Ma è uno psicopatico o è un assassino che aveva pianificato tutto quanto?» «L'uno non esclude l'altro» risposi continuando a guardare lo schermo, dove il filmato aveva ripreso a scorrere. Il battello stava per attraccare e la gente si accalcava lungo il parapetto. Improvvisamente la videocamera girava verso sinistra e metteva a fuoco una donna con la faccia terrorizzata, che si portava le mani al petto e quindi si accasciava sul ponte. Anche il bambino, Tony Canello, era inquadrato, ma il suo viso era stato oscurato. Nel vederlo sussultare e cadere, mi sentii mancare. La videocamera sembrava impazzita: forse Rooney aveva urtato contro qualcosa. Dopo un po', l'immagine si stabilizzava nuovamente. Mi coprii la bocca e Edmund si aggrappò ai braccioli: Claire tendeva la mano verso l'assassino. Non potevamo sentire cosa gli dicesse, oltre al fatto che la sua voce era coperta dalle grida dei presenti, ma era chiaro che stava cercando di farsi consegnare l'arma. «Che coraggio» osservai ammirata. «È stata troppo coraggiosa» commentò Edmund, passandosi la mano sui capelli grigi. «Sono stati troppo coraggiosi tutti e due, sia lei sia Willie.» L'assassino veniva inquadrato di schiena, mentre premeva il grilletto. Vidi la pistola sussultargli in mano e Claire che si portava le mani al petto e cadeva. Si vedevano alcune facce sconvolte di gente sotto shock, poi l'assassino, accucciato, di spalle, che calpestava il polso di Claire e gridava. Edmund non riuscì a trattenersi: «Maledetto bastardo!» Claire gemette.
Mi voltai verso di lei, ma dormiva. Mi rimisi a guardare la televisione e vidi l'assassino, ripreso di faccia. Teneva gli occhi bassi e la barba gli copriva metà volto. Avanzava verso la videocamera, che di colpo si spegneva. Jack Rooney evidentemente era troppo spaventato per continuare. «Subito dopo ha sparato a Willie» disse Edmund. Sullo schermo apparve la mia faccia. Spettinatissima dopo la corsa nel mercato, la giacca sporca di sangue (dovevo essermi macchiata abbracciando Willie), gii occhi sbarrati, l'espressione scioccata. Dicevo: «Chiunque abbia informazioni che possano essere utili alla cattura di quest'uomo è pregato di contattare la polizia». Al posto del mio volto tornò sullo schermo l'immagine dell'assassino e in sovrimpressione apparvero il numero di telefono e l'indirizzo web del dipartimento di polizia di San Francisco, più la scritta: CONOSCETE QUEST'UOMO? Edmund si voltò verso di me, con la faccia tristissima. «Avete scoperto niente, Lindsay?» «Abbiamo il video» risposi indicando la TV. «I media trasmetteranno la foto dell'assassino nonstop, abbiamo duecento testimoni... Lo troveremo, Eddie. Te lo giuro.» Non dissi quello che stavo pensando: Se non riesco a prenderlo, cambio mestiere. Mi alzai in piedi e recuperai il sacchetto di plastica. Edmund mi disse: «Non vuoi aspettare altri cinque minuti? A Claire farebbe piacere vederti». «Torno più tardi» risposi. «Adesso devo vedere una persona.» 10 Uscii dalla stanza di Claire al quinto piano e scesi a piedi al reparto di terapia intensiva pediatrica, al secondo, preparandomi a quello che sapevo sarebbe stato un colloquio difficile. Pensavo a cosa doveva aver provato Tony Canello nel vedere la madre stramazzare sul ponte un istante prima di venire colpito anche lui. Dovevo chiedergli se aveva mai visto l'uomo che gli aveva sparato e se prima di sparare aveva detto qualcosa, se sapeva perché avesse preso di mira proprio lui e sua madre. Mi spostai il sacchetto di plastica dalla destra alla sinistra e feci l'ultima
rampa di scale sapendo che dovevo gestire bene l'interrogatorio, se non volevo traumatizzare ulteriormente quel povero bambino. Al dipartimento di polizia avevamo una riserva di orsacchiotti da dare ai bambini per consolarli, ma mi erano sembrati troppo banali per un ragazzino che aveva appena visto la madre morire di morte violenta e così mi ero fermata in un grande negozio di giocattoli e mi ero fatta fare un orsetto apposta per lui. L'avevo voluto vestito da calciatore, con una spilla a forma di cuore sul petto e la scritta GUARISCI PRESTO, TONY! Aprii la porta del reparto di pediatria ed entrai nel corridoio, che era tutto in colori pastello, con murales di arcobaleni e scene campestri. All'ingresso della terapia intensiva mostrai il tesserino all'impiegata della reception, che era sulla quarantina, aveva i capelli grigi e grandi occhi marroni. Le dissi che dovevo parlare con Tony per raccogliere la sua testimonianza, ma che mi sarei trattenuta con lui soltanto pochi minuti. «Tony Canello, intende? Il bambino cui hanno sparato sul traghetto?» Risposi: «Devo fargli solo un paio di domande. Cercherò di metterlo a suo agio». «Mi dispiace, tenente» replicò la donna, guardandomi negli occhi. «È stato operato, ma il proiettile aveva leso troppi organi: è morto venti minuti fa.» Mi dovetti appoggiare alla scrivania. La donna mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Le porsi il sacchetto con l'orsacchiotto dentro e le chiesi di regalarlo al prossimo bambino che fosse entrato in terapia intensiva. Affranta, andai a prendere la macchina per tornare in ufficio. 11 La Corte di Giustizia era un cubo di granito grigio che occupava un intero isolato in Bryant Street. I suoi dieci piani ospitavano aule di tribunale, gli uffici dei procuratori, la divisione sud del dipartimento di polizia di San Francisco e, all'ultimo piano, alcune celle. L'Istituto di medicina legale era nel palazzo adiacente, ma ci si poteva arrivare anche da un passaggio in fondo all'atrio della Corte di Giustizia. Spinsi la pesante porta di acciaio e vetro, uscii nel cortile posteriore e imboccai il corridoio che conduceva all'obitorio. Aprii la porta della sala autopsie e venni subito investita da una corrente di aria gelida. Mi muovevo in quel luogo come se fosse casa mia: era un'a-
bitudine che mi aveva fatto prendere Claire, che era la direttrice dell'Istituto. Non era lei quel giorno a scattare foto alla morta distesa sul tavolo, però. La sostituiva il suo vice, un uomo fra i quaranta e i cinquant'anni, basso di statura, brizzolato e con gli occhiali dalla montatura nera. «Dottor G.» lo salutai, entrando. «Attenta a dove mette i piedi, tenente.» Humphrey Germaniuk era a capo dell'Istituto di medicina legale da meno di sei ore e aveva già sistemato ordinatamente le sue carte in tante pile appoggiate al muro. Aggiustai con la punta della scarpa la pila che avevo accidentalmente urtato per evitare che crollasse sul pavimento. Sapevo che Germaniuk era un uomo spiritoso, perfezionista e molto accurato. Aveva le stesse qualifiche di Claire e si diceva che, il giorno che Claire fosse andata via, Germaniuk avrebbe saputo sostituirla degnamente. «Come va con Andreina Canello?» chiesi, avvicinandomi al cadavere sul tavolo. La donna era nuda, supina, il foro di proiettile proprio in mezzo ai seni. Mi chinai a guardarlo e Germaniuk si frappose fra me e la morta. «Per favore, tenente. Sa che questa zona è off limits.» Il tono era leggero, ma si capiva che non stava scherzando. «Ho già dovuto occuparmi di un possibile abuso su minore, un incidente stradale e una donna con la testa fracassata da un ferro da stiro, oggi. Sto cominciando solo adesso a esaminare le vittime della strage sul traghetto. Se ha delle domande, me le faccia pure. Altrimenti mi lasci semplicemente il numero di cellulare sulla scrivania e la chiamo io appena ho finito.» Mi voltò le spalle e cominciò a misurare la ferita sul petto di Andreina Canello. Mi allontanai, cercando di tenere a freno la collera perché non volevo mettermi contro il dottor G. A parte il fatto che era suo diritto mandarmi via, era vero che, senza Claire, l'Istituto viveva una situazione di emergenza, visto che il personale scarseggiava. Germaniuk mi conosceva appena e doveva proteggere il suo ambiente di lavoro, i diritti dei pazienti e l'integrità delle indagini. Toccava a lui effettuare l'autopsia su tutte le vittime della strage. Se si fosse intromesso un collega, infatti, l'avvocato difensore al processo avrebbe potuto cercare di mettere i due anatomopatologi l'uno contro l'altro giocando sulle più piccole differenze di vedute e su tutte le eventuali incongruenze che potessero minare la credibilità delle loro deposizioni.
Sempre che riusciamo a portare in tribunale questo pazzo furioso, pensai. Erano quasi le quattro del pomeriggio. Se Andreina Canello era la prima cui Germaniuk faceva l'autopsia, probabilmente avrebbe finito a notte fonda. Ma avevo anch'io i miei problemi: erano morte quattro persone e, con il passare delle ore, le probabilità di prendere l'assassino diminuivano. «Dottor G.» Humphrey Germaniuk, accigliato, alzò la testa dal diagramma che stava studiando. «Scusi se sono stata troppo brusca, ma sono morte quattro persone e io non so da che parte cominciare per catturare chi le ha uccise.» «Come 'quattro'?» fece Germaniuk. «Io qui ne ho soltanto tre.» «Il figlio della signora Canello è morto mezz'ora fa al San Francisco General Hospital» gli spiegai. «Aveva solo nove anni. Quindi le vittime sono quattro. E Claire Washburn respira con l'aiuto delle macchine.» Germaniuk assunse un'espressione più comprensiva e, in tono meno perentorio, disse: «Posso fare qualcosa per aiutarla?» 12 Il dottor Germaniuk esplorò delicatamente lo squarcio nel petto di Andreina Canello con un sondino. «Sembra che un K-5 le abbia perforato il cuore. Non ci metterei la mano sul fuoco e preferisco aspettare il perito balistico, ma a occhio direi che le ha sparato con una calibro 38.» Lo avevo pensato anch'io, guardando il video di Rooney, ma volevo esserne certa. La videocamera si spostava subito, dopo lo sparo. Se la signora Canello non era morta all'istante, e se conosceva il suo assassino, forse l'aveva chiamato per nome. «Quanto può essere sopravvissuta allo sparo?» «È morta sul colpo» mi rispose Germaniuk. «Con un proiettile del genere nel cuore, è morta prima di toccar terra.» «L'assassino ha un'ottima mira» commentai. «Sei proiettili, cinque bersagli centrati. E con un revolver.» «Il traghetto era affollato. Non poteva non prendere qualcuno» osservò il dottor G. in tono piatto. Alzammo gli occhi verso le porte di acciaio inossidabile in fondo alla stanza, che si erano aperte rumorosamente. Un inserviente spinse dentro
una lettiga e chiese: «Dove lo metto, dottore?» Il corpo disteso sotto il lenzuolo era lungo non più di un metro e trenta centimetri. Tony Canello. «Lascialo pure lì» rispose Germaniuk. «Ci pensiamo noi.» Ci avvicinammo alla lettiga e Germaniuk abbassò il telo. Vedere un bambino morto è sempre terribile. Tony aveva un colorito bluastro e un'incisione lunga trenta centimetri sul pancino. Provai l'istinto di fargli una carezza, toccargli i capelli, consolare quel povero bambino che aveva avuto la sfortuna di trovarsi sulla linea di fuoco di un pazzo assassino. «Mi dispiace, Tony.» «Le lascio il mio biglietto da visita» disse Germaniuk, porgendomi un cartoncino. «Se ha bisogno, mi chiami pure sul cellulare. E quando vede Claire... le dica che appena avrò un momento la andrò a trovare. La rassicuri che qui va tutto bene e che la aspettiamo presto.» 13 Gli uomini della mia squadra avevano spostato le sedie facendo cerchio intorno a me. Stavamo cercando di capire che cosa poteva essere successo a bordo del Del Norte quando squillò il telefono. Riconobbi il numero di Edmund e risposi. Con voce rotta, mi annunciò: «Le hanno appena fatto i raggi. Ha un'emorragia interna». «Scusa, Eddie, non capisco. Che cosa è successo?» «Pare che il proiettile le abbia leso il fegato. Devono rioperarla.» Mi ero lasciata ingannare dal sorriso del dottor Sassoon, quando mi aveva detto che Claire stava bene. Mi sentii attanagliare dalla paura. Quando arrivai nel reparto di terapia intensiva, vidi un gruppetto di amici e parenti di Claire, oltre a Edmund, Willie e Reggie, il figlio ventunenne appena rientrato da Miami, dove faceva l'università. Li abbracciai e mi sedetti accanto a Cindy Thomas e Yuki Castellano, che assieme a Claire e me formavano quello che chiamavamo scherzosamente «il Club Omicidi». Sedute vicine, aspettammo l'esito dell'intervento. Durante quelle lunghe ore di tensione, cercammo di vincere la paura rievocando momenti passati insieme. Bevemmo caffè cattivo e mangiammo le barrette dei distributori. A tarda notte, Edmund ci chiese di pregare. Con le mani giunte, lo ascoltammo supplicare Dio di risparmiare Claire.
Stando tutti uniti e mantenendo vive le speranze, ci auguravamo di poterla salvare. In quelle ore strazianti ripensai più volte a come le mie amiche mi erano state vicine, dopo che avevano sparato a me. E anche alle numerose altre occasioni in cui mi ero ritrovata in un ospedale ad attendere il responso di un medico. Quando mia madre si era ammalata di cancro, quando il mio uomo era rimasto mortalmente ferito in servizio, quando la mamma di Yuki aveva avuto un ictus. Erano morti tutti. Cindy disse: «Dove sarà adesso quel bastardo? Starà fumando una sigaretta dopo mangiato? Starà dormendo tranquillo nel suo letto, sognando la prossima strage?» «Non dorme nel suo letto» disse Yuki. «Scommetto dieci dollari che dorme in una scatola di cartone.» Verso le cinque del mattino, il dottor Sassoon, esausto, venne a parlarci. «Claire sta bene» disse. «Il fegato ora è a posto e la pressione si sta rialzando. I segni vitali sono buoni.» Lanciammo gridolini di gioia e applaudimmo. Edmund abbracciò i figli, commosso. Il medico sorrise. Io pensai che era un eroe. Feci un salto a casa e portai Martha, il mio border collie, a fare una corsetta per Potrero Hill. Poi, mentre si alzava il sole, chiamai Jacobi e gli diedi appuntamento, insieme con Conklin, davanti agli ascensori della Corte di Giustizia alle otto. Era domenica. Jacobi e Conklin arrivarono con caffè e ciambelle. Li avrei baciati. «Mettiamoci al lavoro» dissi. 14 Io, Conklin e Jacobi ci eravamo appena sistemati nel mio ufficio, ricavato in un angolo dello squallido stanzone di sei metri per nove in cui lavorano i dodici membri della squadra Omicidi, quando vedemmo arrivare gli ispettori Paul Chi e Gappy McNeil. Cappy doveva pesare più di cento chili e, sedendosi, fece scricchiolare la sedia in maniera preoccupante. Paul Chi, agile e snello, si appoggiò al mo-
bile vicino a Jacobi, che era in preda a uno dei suoi frequenti attacchi di tosse. Visto che tutti i posti erano occupati, Conklin non poté fare altro che rimanere dietro di me, con i piedi incrociati e la schiena appoggiata alla finestra che dà sulla rampa di accesso all'autostrada. Insomma, il mio piccolo ufficio era pieno da scoppiare. Sentivo il calore emanato da Conklin e non riuscivo a non pensare al suo fisico perfetto: alto un metro e ottantacinque, capelli e occhi castani, a ventinove anni sembrava un incrocio tra un Kennedy e un marine. Paul Chi posò sulla scrivania l'edizione domenicale del Chronicle. In prima pagina campeggiava la foto dell'assassino, un'istantanea sfocata ricavata dal filmato a bassa risoluzione fatto da Jack Rooney, con la didascalia: CONOSCETE QUEST'UOMO? Ci chinammo tutti quanti a osservare ancora una volta quel viso irsuto. I capelli lunghi e scuri gli arrivavano fino alla mascella, mentre dal labbro superiore al pomo d'Adamo i lineamenti erano completamente nascosti dalla barba. «Gesù Cristo» disse Cappy. Tutti lo guardammo stupiti. «Cosa c'è? Volevo solo dire che assomiglia a Gesù Cristo.» Io dissi: «Di domenica mattina non avremo i risultati dal laboratorio, ma abbiamo questo». Presi dal vassoio della posta in arrivo la fotocopia del pacchetto marrone di Turkish Special. «E anche tutti questi» aggiunsi posando la mano sul fascio di dichiarazioni di testimoni, messaggi telefonici e stampe di e-mail che la nostra segretaria, Brenda, aveva scaricato dal sito del dipartimento di polizia di San Francisco il giorno prima. «Possiamo dividerceli» propose Jacobi. Seguì un'accesa discussione, al termine della quale Paul Chi sentenziò: «Ehi, le sigarette sono un buon indizio. Le Turkish Special sono piuttosto rare e non si trovano dappertutto. Può darsi che il suo tabaccaio lo riconosca». «Okay, occupatevene voi» dissi. Jacobi e Conklin presero due terzi delle dichiarazioni dei testimoni, tornarono alle rispettive scrivanie nella sala operativa e cominciarono a fare telefonate. Paul Chi e Cappy McNeil, invece, uscirono a indagare sul campo. Rimasta sola in ufficio, rilessi le informazioni che Brenda aveva raccolto
sulle vittime: erano tutti cittadini per bene, dal primo all'ultimo. L'assassino conosceva almeno qualcuna delle persone cui aveva sparato? Cominciai a chiamare uno dopo l'altro i numeri riportati sulle dichiarazioni dei testimoni, ma nelle prime telefonate non scoprii nulla di particolarmente importante. Poi parlai con il vigile del fuoco che si trovava a non più di tre metri da Andreina Canello quando quel pazzo aveva aperto il fuoco. «La madre stava sgridando il bambino, quando lui le ha sparato» mi raccontò. «Stavo pensando di intervenire, di calmarla e, da un momento all'altro, me la sono vista morire sotto gli occhi.» «Ricorda che cosa stava dicendo esattamente?» «'Mi fai diventar matta!' O qualcosa del genere. Mi viene male solo a pensarci... Il bambino se l'è cavata?» «Purtroppo no, è morto.» Presi alcuni appunti, cercando di ricomporre, a partire dai frammenti che avevo, pezzi sempre più grandi del puzzle. Buttai giù l'ultimo sorso di caffè e mi accinsi a chiamare il nome successivo sulla mia lista. Si trattava di un certo Ike Quintana, che aveva chiamato nel tardo pomeriggio del sabato dicendo che forse era stato amico dell'assassino una quindicina d'anni prima. «La somiglianza è forte» mi disse. «E se è la stessa persona, siamo stati ricoverati insieme al Napa State Hospital alla fine degli anni Ottanta.» Strinsi con più forza il telefono e me lo premetti all'orecchio per non perdermi nemmeno una sillaba di quello che diceva. «Ha capito cosa intendo?» fece Quintana. «Eravamo tutti e due rinchiusi nel nido del cuculo.» 15 Disegnai un asterisco vicino al numero di telefono di Quintana. «E come si chiama il suo amico?» domandai aggrappata al telefono. Ma di colpo Quintana si fece evasivo. «Preferisco non dirle il nome, caso mai venisse fuori che non è lui» mi rispose. «Ma ho una foto. Può venire a vederla, se vuole. L'importante è che venga subito, perché poi ho un sacco da fare.» Uscii dall'ufficio e annunciai: «Abbiamo una pista. Sto andando in San Carlos Street».
Conklin disse che preferiva rimanere in ufficio, perché al nostro sito erano arrivati nuovi video della sparatoria. Jacobi si alzò, si infilò la giacca e disse: «Andiamo. Guido io». Conoscevo Jacobi da dieci anni. Per tre avevamo lavorato in coppia, prima che io venissi promossa tenente. In quel periodo eravamo diventati molto amici e avevamo addirittura sviluppato una sorta di telepatia, ma forse né io né lui ci eravamo resi conto di quanto fossimo legati fino alla sera in cui due adolescenti strafatti ci avevano sparato addosso. E il fatto di aver sfiorato la morte insieme ci aveva unito ancora di più. Ci recammo all'indirizzo che mi aveva dato Quintana. Era uno squallido edificio a due piani ai margini del Tenderloin, con una chiesa a livello strada e due appartamenti al piano di sopra. Suonai alla porta, la serratura del portone di metallo opaco scattò e io e Jacobi entrammo in un atrio semibuio. Salimmo una scala scricchiolante e ci ritrovammo su un pianerottolo coperto di moquette che odorava di muffa. C'erano solo due porte, ai due lati del pianerottolo. Bussai a quella con scritto 2R. Dopo circa mezzo minuto si aprì cigolando. Ike Quintana era bianco, sui trentacinque anni, aveva i capelli neri dritti sulla testa ed era vestito in modo strano, a strati: si intravedeva una canottiera sotto la camicia di flanella, sopra cui c'erano un gilet di maglia abbottonato e un lungo cardigan color ruggine, aperto. Il tutto completato da un paio di pantaloni da pigiama a righe azzurre e pantofole di panno marroni. Con un sorriso un po' sdentato, Quintana strinse la mano sia a me sia a Jacobi e ci invitò ad accomodarci. Jacobi entrò per primo e io lo seguii in una sorta di galleria tra pile pericolanti di giornali e di sacchetti di plastica trasparenti pieni di bottiglie che arrivavano fino al soffitto. Nel salotto c'erano scatole di cartone che traboccavano di spiccioli, scatole di detersivo vuote e penne biro. «La vedo attrezzata per ogni evenienza» commentò Jacobi. «L'intenzione è quella» replicò Quintana. Quando arrivammo in cucina, vidi pentole e padelle ovunque. Sul tavolo c'erano strati e strati di ritagli di giornali alternati a tovaglie: sembrava una specie di archivio. «Tifo per i Giants da sempre» spiegò timidamente Quintana. Ci offrì un caffè. Io e Jacobi rifiutammo con garbo, ma lui accese comunque il gas sotto il bollitore. «Allora, ha una foto da mostrarci?» chiesi.
Quintana sollevò da terra una vecchia cassetta di legno, la posò sul tavolo e cominciò a frugare velocemente tra mucchi di foto, menu di ristoranti e ricordi vari, che non riuscii a distinguere. «Ecco» disse poi tirando fuori una foto sbiadita formato 12x18. «Dev'essere suppergiù del 1988.» Cinque giovani, due ragazze e tre ragazzi, guardavano la TV in una sala di quello che doveva essere un ospedale o un istituto. «Questo sono io» disse Quintana indicando se stesso più giovane, stravaccato su una poltrona arancione. Anche allora era vestito a strati. «E vedete questo tizio seduto sul davanzale della finestra?» Scrutai l'istantanea. Era un ragazzo magro, con i capelli lunghi e un inizio di barba, ripreso di profilo. Poteva essere l'uomo che cercavamo oppure no. «Vedete come si tira i peli del braccio?» ci fece notare Quintana. Annuii. «Per questo penso che potrebbe essere lui. Lo faceva continuamente. Mi stava simpatico. Lo chiamavo Fred-a-lito-lindo, per via di una canzone che cantava sempre.» «Ma il suo vero nome qual è?» chiesi. Quintana evitò di rispondere. «Era molto depresso. Per questo era stato ricoverato a Napa. Ricovero coatto, intendo. Dopo un incidente. Gli era morta la sorellina. In un incidente in barca a vela, credo.» Quintana spense il gas e fece per andarsene. Per un attimo mi chiesi quale miracolo aveva salvato il palazzo da un incendio fino a quel giorno. «Signor Quintana, non ce lo faccia ripetere ancora: come si chiama quell'uomo?» chiese Jacobi in tono burbero. Quintana tornò verso il tavolo con una tazza da caffè sbeccata in mano, vestito come un poveraccio che accaparra provviste per paura della miseria ma con l'atteggiamento di un re nel suo castello. «Si chiama Fred. Alfred Brinkley. Ma non mi sembra proprio possibile che sia stato lui a uccidere tutta quella gente, perché era il ragazzo più mite del mondo» disse. 16 Telefonai a Rich Conklin dall'automobile e, mentre tornavamo in Bryant Street, gli diedi il nome di Brinkley perché lo controllasse sul database del National Crime Information Center.
Paul Chi e Cappy McNeil ci aspettavano nel MacBain's Beers O' the World, un pub semibuio stretto tra due agenzie di pegni di fronte alla Corte di Giustizia. Io e Jacobi li raggiungemmo e ordinammo due Foster's alla spina. Chiesi ai colleghi di aggiornarci sugli ultimi sviluppi. «Abbiamo interrogato il gestore dello Smoke Shop di Polk Street, all'angolo con Vallejo Street» disse Paul Chi, senza perdere tempo in convenevoli. «Un vecchietto che ci ha detto che sì, vende le Turkish Special. Pare abbia un cliente abituale, che ne compra circa due pacchetti al mese. Ci ha fatto vedere la stecca per mostrarci che ne mancavano giusto due pacchetti.» Arrivò Conklin, si sedette e ordinò una Dos Equis e un hamburger di angus al sangue. Aveva l'aria pensierosa. «Il mio collega si emoziona per una stecca di sigarette» disse Cappy McNeil. «Vedremo se ho ragione o no» ribatté Paul Chi. «Piantatela, okay?» li rimproverò Jacobi. Arrivarono le birre e io, Jacobi e Conklin brindammo a Don MacBain, il proprietario del pub, ex capitano del dipartimento di polizia di San Francisco, uno spirito libero il cui ritratto era appeso in cornice sopra il bancone del bar. Paul Chi continuò: «Così il vecchietto dice che questo cliente abituale è un greco che avrà ottant'anni. A un certo punto, però, ci fa: 'Ferma un momento. Fatemi rivedere quella foto'». Cappy McNeil riprese il racconto dove Paul Chi si era interrotto: «Allora gli metto sotto il naso la foto dell'assassino e lui fa: 'Questo? Ma questo lo vedevo tutte le mattine che comprava il giornale. È stato lui a sparare?'» Jacobi chiamò la cameriera. «Syd, vorrei un hamburger anch'io, media cottura, con patatine.» Paul Chi continuò a parlare. «Così il tizio dello Smoke Shop dice che non sa come si chiama, ma che gli sembra che abiti lì di fronte, al 1513 di Vallejo Street.» «Allora noi andiamo a vedere e...» riprese Cappy McNeil. «Vi prego, non tenetemi ulteriormente sulle spine» implorò Jacobi. Aveva i gomiti posati sul tavolo e si premeva le mani sugli occhi, aspettando impaziente l'esito di quella storia interminabile. «E scopriamo come si chiama» concluse Cappy McNeil. «Il portiere del
civico 1513 di Vallejo Street l'ha riconosciuto dalla foto con certezza. Ci ha detto che è stato sfrattato circa due mesi fa, poco dopo aver perso il lavoro.» «Rullo di tamburi, prego» disse Paul Chi. «Il sospettato si chiama Alfred Brinkley.» Mi dispiaceva deludere McNeil e Chi, ma dovetti farlo. «Grazie, ma lo sapevamo già. Avete scoperto dove lavorava, piuttosto?» «Sì, tenente. In una libreria di Mason Street, ehm, Sam's Book Emporium.» Mi voltai verso Conklin. «Richie, perché sorridi che sembri lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie?» Conklin si era appoggiato allo schienale della sedia e, facendola dondolare sulle due gambe di dietro, seguiva la conversazione con aria divertita. Si rimise dritto sulla sedia e si appoggiò al tavolo. «Brinkley non ha precedenti penali. Però ha prestato servizio nel Presidio per due anni. Congedo per malattia nel '94.» «È stato arruolato nell'Esercito dopo essere stato in manicomio?» chiese Jacobi. «Era minorenne, quando fu ricoverato al Napa State Hospital» spiegò Conklin. «Perciò la cartella clinica è secretata. Ed evidentemente i reclutatori dell'Esercito non sono andati tanto per il sottile.» L'immagine sfocata dell'assassino cominciava a delinearsi più chiaramente. Per quanto spaventosa, avevamo trovato la risposta all'interrogativo che mi frullava per la testa da quando avevo cominciato a indagare sulla sparatoria del traghetto. Brinkley aveva un'ottima mira perché era stato addestrato nell'Esercito. 17 L'indomani mattina alle nove, io, Jacobi e Conklin parcheggiammo le nostre anonime auto in Mason Street, vicino a North Point. Eravamo a un paio di isolati da Fisherman's Wharf, una zona turistica piena di grandi alberghi, ristoranti, noleggi di biciclette e negozi di souvenir. I venditori dell'usato stavano montando le loro bancarelle. Ero piuttosto su di giri quando entrammo nella grande libreria. Jacobi mostrò il tesserino alla prima commessa che incontrammo e le chiese se conosceva Alfred Brinkley. La ragazza chiamò il responsabile del suo reparto, che ci fece strada ver-
so l'ascensore e ci accompagnò nel seminterrato, dove ci presentò il magazziniere capo, un trentenne scuro di pelle che rispondeva al nome di Edison Jones e sfoggiava una vecchia T-shirt dei Duran Duran e un piercing al naso. Ci sistemammo nel magazzino: pareti di cemento, scaffalature regolabili, porte di metallo che si aprivano sul piazzale di carico dietro la libreria, dipendenti che spingevano carrelli stracolmi di libri tutto intorno a noi. «Io e Fred eravamo abbastanza amici» disse Jones. «Non tanto da frequentarci fuori del lavoro, ma era un tipo in gamba e mi stava simpatico. Però da un certo punto in poi è diventato strano.» Abbassò il volume del televisore posato su un tavolo di metallo pieno di fatture e oggetti vari. «Strano in che senso?» chiese Conklin. «Magari mi diceva: 'Hai sentito che cosa mi ha appena detto Wolf Blitzer?' Come se la TV parlasse a lui personalmente. Ed era sempre nervoso, canticchiava, parlava da solo. I capi hanno cominciato a preoccuparsi» raccontò Jones lisciandosi la T-shirt con la mano. «Così, quando ha iniziato a darsi spesso malato, ne hanno approfittato per licenziarlo. Ho conservato i suoi libri» aggiunse e, allungando una mano, prese da uno scaffale una scatola che posò sul tavolo. La aprii e vidi una serie di tomi impegnativi, testi di Jung, Nietzsche e Wilhelm Reich. C'era anche un'edizione economica molto consunta del Crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza di Julian Jaynes. Lo tirai fuori dalla scatola. «Quello era il suo libro preferito» disse Edison Jones. «Mi stupisco che non sia tornato a prenderselo.» «Di che cosa parla?» «Fred mi ha spiegato che, secondo Jaynes, fino a circa tremila anni fa i due emisferi del cervello umano non erano collegati tra loro e quindi non comunicavano direttamente» spiegò Jones. «E allora?» «Jaynes dice che, a quei tempi, gli esseri umani erano convinti che i loro pensieri venissero da fuori, che non fossero pensieri, ma ordini dati dagli dei!» «Quindi Brinkley credeva di sentire la voce degli dei?» cominciò Jacobi. «Alla televisione?» «Io credo che sentisse voci tutto il tempo, e che ubbidisse agli ordini che gli davano» rispose Jones. Mi vennero i capelli dritti. Erano già passate più di quarantott'ore dalla
sparatoria sul traghetto e, mentre noi brancolavamo nel buio, l'assassino, che prendeva ordini da voci misteriose, era ancora a piede libero e armato. «Ha idea di dove possa essere Brinkley adesso?» domandai. «L'ho incontrato circa un mese fa» rispose Jones. «Aveva l'aria piuttosto malmessa, la barba lunga. Scherzando gli ho chiesto se era tornato allo stato brado e lui ha fatto una faccia strana, da pazzo. E non mi ha mai guardato negli occhi.» «Dove l'ha visto esattamente?» «Davanti al Double Shot Bar di Geary Street. Fred non beve, quindi può darsi che fosse lì perché alloggiava all'albergo che sta sopra il bar.» Lo conoscevo: l'Hotel Barbary era una specie di albergo a ore nel Tenderloin, frequentato da prostitute, tossici e disperati vari. Un vero postaccio. Se un mese prima Fred Brinkley stava all'Hotel Barbary, poteva darsi che ci stesse ancora. 18 Le previsioni davano pioggia, ma c'era il sole, benché velato, e quando Fred Brinkley alzò la mano in controluce gli parve di essere trasparente. Si diresse verso la stazione BART del Civic Center e scese trotterellando la scala che portava giù, nel buio. Era lì che prendeva la metropolitana quando andava ancora a lavorare. Abbassò gli occhi e si concentrò sulle lastre di marmo bianco che ben conosceva, in modo da non vedere gli schiavi delle grandi aziende che compravano il biglietto, bottigliette di acqua e mazzi di fiori prima di salire sul treno. Non voleva percepire i loro pensieri, pensieri di criceti affannati a correre inutilmente nella ruota, né vedere gli sguardi curiosi che gli lanciavano con la coda dell'occhio. Prese la scala mobile e scese al binario, ma si rese conto che, invece di calmarsi, più scendeva e più si sentiva agitato e arrabbiato. Le voci ce l'avevano di nuovo con lui, lo insultavano. Brinkley abbassò la testa e continuò a guardare per terra canticchiando mentalmente: Ay, ay, ay, ay, BART-a-lito-lindo nel tentativo di sopraffare le voci, di metterle a tacere. Appena arrivato con la scala mobile al terzo piano sotterraneo, si rese conto dell'errore che aveva commesso. La banchina era piena di inutili pendolari che rientravano dal lavoro.
Sembravano nubi temporalesche, tutti vestiti di scuro, e lo scrutavano implacabili, incombevano su di lui sbarrandogli ogni via di uscita. Gli passarono per la mente le immagini che aveva visto sui televisori nelle vetrine dei negozi di elettrodomestici: in quelle immagini, lui sparava alla folla sul traghetto. Era stato lui! Avanzò furtivo tra la folla, borbottando e canticchiando a bocca chiusa, fino all'orlo della banchina. Si fermò sistemando i piedi su un'unica lastra di marmo, con la punta che sporgeva nel vuoto. Però sentiva lo stesso l'odio e la disapprovazione della gente intorno a lui e la sua rabbia aumentò. Gli pareva che le pareti di marmo bianco pulsassero e si gonfiassero come onde. Con la coda dell'occhio vedeva persone che si voltavano a guardarlo e gli leggevano nel pensiero. Aveva voglia di gridare: Ho dovuto farlo! Attenti, perché i prossimi potreste essere voi. Continuò a fissare i binari, immobile, senza guardare nessuno, con le mani in tasca. Nella destra stringeva Bucky. Lo sanno, gli ripetevano le voci all'unisono. Ti vedono dentro come se fossi trasparente, Fred. All'improvviso una voce acuta alle sue spalle gridò: «Ehi!» Brinkley si voltò e vide una donna con il mento prominente e gli occhi piccoli che lo additava. «È lui! Era sul traghetto. È stato lui! È stato lui a sparare su quel traghetto. Chiamate la polizia.» Le cose si mettevano male. Tutti sapevano la brutta cosa che aveva fatto. Sei uno sfigato. Sei una merda. Ay, ay, ay, ayyyyyyy. Fred tirò fuori dalla tasca Bucky, l'agitò sopra le teste della gente e tutti indietreggiarono gridando. Dalla galleria provenne un boato. Il treno grigio e azzurro entrò nella stazione con un fragore che cancellò ogni altro suono e pensiero. Si fermò e ne scesero a frotte persone che parevano topi, mentre altre salivano a ondate, urtando Fred e mandandolo a sbattere contro una colonna. Senza fiato, Fred sgattaiolò nella ressa e, annaspando contro corrente, riuscì a raggiungere la scala mobile. Salendo a grandi passi, superò i ratti umani che si lasciavano trasportare strisciando e riuscì finalmente ad arrivare in strada, all'aria aperta.
La voce gli gridava dentro la testa: Forza! Scappa! Togliti di qui! 19 L'orologio digitale del forno a microonde segnava le 19.08. Ero fisicamente esausta e psicologicamente provata, dopo aver setacciato il Tenderloin tutto il giorno senza trovare niente, a parte una serie di posti in cui Alfred Brinkley non abitava. E non ero solo frustrata, ma anche spaventata: quel pazzo era ancora a piede libero. Misi una porzione di pasta al gratin Healthy Choice nel forno e premetti cinque volte il pulsante da un minuto. Mentre la mia cena si scaldava ruotando dietro il vetro, ripercorsi mentalmente quel che avevo fatto durante la giornata. Speravo di trovare qualcosa che ci fosse sfuggito nel giro dei cinquanta o sessanta alberghi da tre soldi che avevamo visitato o nei colloqui con inutili receptionist e con i miserabili ospiti di quei postacci. Martha mi si avvicinò. Le accarezzai la testa e le versai nella ciotola la sua dose di cibo per cani. Abbassò il muso e scodinzolò, mettendosi a mangiare. «Tu sì che sei brava» le dissi. «Sei la luce della mia vita.» Avevo appena stappato una birra quando sentii suonare il campanello. Chi sarà? Andai alla finestra per vedere chi aveva la faccia tosta di disturbarmi a quell'ora, ma l'uomo che mi guardava dal marciapiede era un perfetto sconosciuto. Con il viso rasato, in ombra, e una busta in mano. «Che cosa desidera?» «Ho una busta per lei, tenente. È urgente. Devo consegnargliela di persona.» Chi era? Un ufficiale giudiziario? Un informatore? Alle mie spalle sentii il bip del forno a microonde che mi avvertiva che la cena era pronta. «La lasci nella cassetta della posta!» gridai. «Sì, ma alla TV lei ha detto: 'Conoscete quest'uomo?' Si ricorda?» «Perché? Lei lo conosce?» ribattei. «Sono io. Sono stato io.» 20
Per un attimo rimasi stordita, confusa. L'autore della strage del traghetto era venuto a cercarmi a casa? Ma mi ripresi immediatamente. «Scendo subito!» gridai al citofono. Afferrai la pistola e la fondina appese allo schienale della sedia e mi agganciai le manette alla cintura. Mentre scendevo le scale, telefonai a Jacobi con il cellulare, pur sapendo benissimo che non avrei potuto aspettare il suo arrivo. Il rischio era grosso, ma se l'uomo davanti al mio portone era davvero Alfred Brinkley non potevo lasciarmelo scappare. Con la Glock in pugno aprii il portone di uno spiraglio, tenendomi al riparo. «Mani bene in vista» ordinai. L'uomo parve esitare, incerto. Indietreggiò leggermente, poi tornò verso il portone. Si guardava in giro, muovendo gli occhi di qua e di là. Sentii che canticchiava sottovoce. Oh, mio Dio, era pazzo furioso. Ed era un pericolo pubblico. Dove avrà avuto la pistola? «Mani in alto! Fermo dove sei!» gridai di nuovo. Si immobilizzò e alzò le mani, sventolando la busta come sé fosse una bandiera bianca. Lo osservai confrontando mentalmente la sua faccia con la foto dell'assassino. Si era rasato, ma molto malamente: gli erano sfuggiti vari ciuffi di barba scura che risaltavano sulla pelle chiara. A parte quello, tutto il resto corrispondeva. Era alto e magro, ed era praticamente vestito come l'autore della strage. Era Alfred Brinkley, un omicida qualsiasi venuto a consegnarsi alla mia porta, oppure un pazzo di altro genere, in cerca di fama e di attenzioni? Uscii sul marciapiede illuminato dalla luna, impugnando la Glock con entrambe le mani e tenendogliela puntata al petto. L'odore dello sconosciuto, che non doveva lavarsi da un pezzo, arrivò fino alle mie narici. «Sono io» disse guardandosi la punta delle scarpe. «Ha detto che mi cercava. L'ho vista alla TV. Nel negozio di video.» «A terra» gli intimai. «A faccia in giù, con le dita intrecciate dietro la testa, bene in vista.» L'uomo ondeggiò. Gridai di nuovo: «A terra, ho detto! Subito!» L'uomo si buttò sul marciapiede e si mise le mani sulla testa.
Tenendogli la pistola premuta sulla nuca, lo perquisii. Non potevo fare a meno di pensare alle riprese di Rooney. Nella tasca della giacca gli trovai una pistola, che mi infilai alla cintola, dietro la schiena. Cercai ancora, ma non aveva altre armi. Riposi la Glock nella fondina e presi le manette. «Come si chiama?» chiesi mentre gli sistemavo le braccia magrissime dietro la schiena e facevo scattare le manette. Poi raccolsi la busta che era caduta per terra e me la infilai nella tasca davanti. «Alfred Brinkley» mi rispose, agitatissimo. «Lei mi conosce. Ha detto di presentarmi, si ricorda? 'Troveremo l'autore di questo gesto insensato' ha detto. Mi sono scritto tutto.» Continuavo a rivedere le immagini del filmato di Rooney. Ripensavo all'uomo che aveva sparato a cinque persone, che aveva tentato di uccidere la mia amica Claire. Con mano tremante gli sfilai dalla tasca il portafoglio, lo aprii e, alla luce fioca del lampione dall'altra parte della strada, controllai la patente di guida. Era davvero Alfred Brinkley. L'avevamo preso! Gli ricordai i suoi diritti, ma Brinkley disse che rinunciava e ripeté: «Sono stato io. Sono stato io a sparare, su quel traghetto». «Come ha fatto a trovarmi?» chiesi. «Ho cercato il suo indirizzo su Internet. In un computer della biblioteca» rispose. «Mi porti in prigione, okay? Ho paura di farlo di nuovo.» In quel momento arrivò Jacobi sgommando. Frenò di colpo e scese dall'auto con la pistola puntata. «Non potevi aspettarmi, Boxer?» «Il signor Brinkley sta collaborando. È tutto sotto controllo, Jacobi.» Nel vedere il mio collega e al pensiero che il pericolo era ormai passato, fui colta da un gran senso di sollievo. Mi veniva da ridere e da piangere contemporaneamente. Mi sarei messa a gridare: Hip hip hurrà! «Ottimo lavoro» disse Jacobi dandomi una pacca sulla spalla. Presi fiato, cercando di calmarmi. Aiutammo Brinkley a rialzarsi in piedi. Mentre lo sistemavamo sul sedile posteriore della macchina di Jacobi, Brinkley si voltò verso di me. «Grazie, tenente» disse, continuando a guardare nervosamente di qua e di là. Poi fece una smorfia e, fra le lacrime, aggiunse: «Sapevo che mi avrebbe aiutato».
21 Jacobi venne con me nel mio ufficio. Tutti e due avevamo i nervi tesi come corde di violino. Mentre aspettavamo che l'arresto di Brinkley venisse formalizzato, ci sedemmo alla mia scrivania a bere caffè e a discutere delle successive mosse da compiere. Brinkley aveva confessato di essere l'autore della strage a bordo del traghetto e aveva rifiutato di farsi assistere da un avvocato. La dichiarazione che aveva reso a me, però, era una lunga tirata di assurdità tra cui figuravano scoppi di luce bianca, uomini-topo e una pistola di nome «Bucky». Dovevamo ottenere da lui una confessione vera e propria e dimostrare che, pur essendo malato di mente, era abbastanza lucido e in grado di intendere e di volere. Dopo aver telefonato a Tracchio, chiamai Cindy che, oltre a essere una delle mie migliori amiche, era anche la caporedattrice della cronaca nera al Chronicle. La avvertii che Brinkley era stato catturato. Poi mi misi a passeggiare avanti e indietro per la sala operativa guardando le lancette dell'orologio che giravano lentissime, in attesa dell'arrivo di Tracchio. Alle nove e un quarto Brinkley aveva fatto tutta la trafila: gli avevano scattato le foto segnaletiche, gli erano state prese le impronte digitali e gli era stata consegnata una divisa da carcerato. I suoi vestiti sarebbero stati mandati in laboratorio per verificare l'eventuale presenza di macchie di sangue o tracce di polvere da sparo. Lo invitai a lasciarsi fare un prelievo di sangue da uno dei nostri tecnici sanitari, spiegandogli che volevo essere sicura che non avesse assunto alcolici o droghe prima di rendere la sua confessione. «Sono pulito» mi disse, rimboccandosi la manica. Poi lo facemmo aspettare nella prima delle salette per gli interrogatori, che era l'unica in cui la telecamera funzionava. Dopo un po' io e Jacobi lo raggiungemmo, sistemammo due sedie intorno al tavolo di metallo tutto graffiato e ci sedemmo di fronte a lui. Mi si accapponava la pelle al solo guardarlo in faccia. Non riuscivo a scacciare dalla mia mente le parole che mi aveva detto. Sono stato io. 22
Brinkley era agitato. Batteva con le ginocchia sotto il tavolo e aveva incrociato i polsi, malgrado le manette, in modo da riuscire a strapparsi i peli dall'avambraccio. «Signor Brinkley, lei sa di avere il diritto di non rispondere?» gli chiesi. Annuì, mentre io gli ripetevo che aveva anche diritto a essere assistito da un avvocato e che qualsiasi cosa avesse detto durante l'interrogatorio poteva essere usata contro di lui. E rispose di sì anche quando conclusi chiedendogli: «Ha capito quali sono i suoi diritti?» Gli misi davanti il modulo di rinuncia ad avvalersi di tali diritti e lui lo firmò. Sentii muovere una sedia nella saletta adiacente, da dove i nostri colleghi osservavano dietro il vetro, e il lieve ronzio della telecamera montata al soffitto. L'interrogatorio era cominciato. «Sa che giorno della settimana è oggi?» «Lunedì» mi disse. «Dove abita?» «Nelle stazioni della BART. Nei negozi di computer. A volte in biblioteca.» «Sa dove si trova in questo momento?» «Alla Corte di Giustizia, 850 Bryant Street.» «Benissimo, signor Brinkley. Adesso mi dica: lei si trovava a bordo del traghetto Del Norte sabato scorso, cioè avantieri?» «Sì. Era una gran bella giornata. Ho trovato un biglietto per terra, al mercatino biologico» disse. «Non credo sia un reato usare un biglietto trovato per strada, no?» «L'ha preso a qualcuno?» «No, l'ho trovato per terra.» «Allora va bene» disse Jacobi. Brinkley adesso pareva più calmo, e anche molto più giovane. Aveva un atteggiamento infantile, innocuo, che stava cominciando a irritarmi. Sembrava quasi che fosse lui la vittima. Mi chiesi che effetto avrebbe fatto a una giuria. Avrebbe ispirato compassione ai giudici popolari? L'avrebbero dichiarato «non colpevole» perché era simpatico, oltre che completamente pazzo? «Durante il viaggio di ritorno, signor Brinkley...» cominciai. «Mi chiami pure Fred.» «Okay, Fred. Mentre il Del Norte stava attraccando, lei ha estratto una pistola e ha aperto il fuoco contro alcuni passeggeri?» «Ho dovuto» rispose con la voce rotta, agitandosi. «La madre era... Sen-
tite, ho fatto una brutta cosa, lo so, e voglio essere punito.» «Ha sparato a quelle persone, sì o no?» insistetti. «Sì, ho sparato! Ho sparato alla madre e al bambino. E anche a quei due uomini. E a quell'altra che mi guardava come se mi leggesse nel pensiero. Mi dispiace. Davvero. Per un po' è stata una giornata molto piacevole, ma poi, all'improvviso, è andato tutto storto.» «Lei però aveva pianificato la sparatoria, no?» chiesi in tono neutro, cercando addirittura di fargli un sorriso di incoraggiamento. «Non è forse vero che lei aveva addosso una pistola carica?» «Porto sempre con me Bucky» rispose Brinkley. «Però non volevo fare del male a quelle persone. Non le conoscevo. Non ero nemmeno sicuro che fossero vere, finché non ho visto il video alla TV.» «Davvero? Allora perché ha sparato?» chiese Jacobi. Brinkley fissava il vetro a specchio dietro di me. «Perché me lo hanno detto le voci.» Era la verità? O Brinkley stava già preparando il terreno per invocare l'infermità mentale al processo? Jacobi gli chiese di che voci si trattava, ma Brinkley non rispose. Abbassò il mento sul petto e borbottò: «Dovete rinchiudermi. Per piacere, rinchiudetemi. Ho bisogno di dormire». «Sono sicura che al decimo piano una cella libera c'è» risposi. Bussai alla porta ed entrò il sergente Steve Hall, che venne a piazzarsi alle spalle dell'arrestato. Mentre ci alzavamo tutti in piedi, dissi: «Signor Brinkley, lei è accusato dell'omicidio di quattro persone, del tentato omicidio di una quinta e di una quindicina di reati minori. Le consiglio di procurarsi un buon avvocato». «Grazie» disse Brinkley guardandomi negli occhi per la prima volta. «Lei è una persona per bene. Apprezzo molto quello che ha fatto per me.» 23 La mattina dopo sulla prima pagina del giornale che trovai come sempre sullo zerbino campeggiava il titolo di Cindy: CATTURATO LASSASSINO DEL TRAGHETTO. Quando arrivai alla Corte di Giustizia c'era un gruppetto di giornalisti che mi aspettava. «Soddisfatta, tenente?» «Certo» risposi sorridendo. «Meglio di così non poteva andare.»
Risposi alle domande, riconobbi i meriti di tutta la mia squadra e sorrisi ai fotografi. Poi entrai nell'atrio e salii al terzo piano in ascensore. Appena varcai la soglia della sala operativa, Brenda suonò un piccolo gong che teneva sulla scrivania, si alzò in piedi e mi abbracciò. Vidi che nel mio ufficio, in fondo alla sala, c'era un mazzo di fiori. Chiamai tutti quanti e li ringraziai per quello che avevano fatto e, quando l'ispettore Lemke chiese se potevo spiegare anche agli altri come si fa a evocare dal nulla gli assassini, ci fu una risata generale. «So che bisogna arricciare il naso e ho provato, ma non è successo niente» disse. «Bisogna arricciare il naso, incrociare le dita e chiudere gli occhi contemporaneamente!» gridò Rodriguez. Mi stavo versando una tazza di caffè in cucina prima di affrontare la montagna di pratiche da sbrigare che occupava metà della mia scrivania quando Brenda si affacciò sulla porta dicendo: «C'è il capo sulla uno». Andai nella mia stanza e spostai il gran mazzo di fiori dalla scrivania. C'era un biglietto affettuoso, firmato da Joe, il mio uomo meraviglioso. Stavo ancora sorridendo quando premetti il pulsante che lampeggiava sul mio telefono e sentii la voce melliflua di Tracchio che mi diceva di salire un momento da lui. «Chiamo i ragazzi. Saremo lì fra un minuto» dissi. Ma lui ribatté: «No, vieni da sola». Dissi a Brenda che tornavo subito e salii al quinto piano. Appena entrai nel suo ufficio, Tracchio si alzò in piedi, mi strinse con vigore la mano e mi disse: «Boxer, grazie di aver arrestato quel pazzo: oggi è un gran giorno per il dipartimento. Hai fatto un ottimo lavoro». «Grazie a te, capo. E grazie di avermi sostenuto.» Stavo per andarmene, ma vidi che Tracchio aveva l'aria imbarazzata e un'espressione che non gli avevo mai visto. Mi fece cenno di accomodarmi e si sedette, andando avanti e indietro con la sedia un paio di volte prima di incrociare le dita sulla pancia e dire: «Senti, ci ho pensato e sono giunto a una conclusione. Non avrei voluto, ho cercato in tutti i modi di evitare che si arrivasse a questo, però...» Che avesse deciso di assegnarmi più agenti? Di aumentare il budget per gli straordinari? «Ho visto come hai affrontato questo caso e sono rimasto colpito dalla tenacia e dalla determinazione che hai dimostrato durante le indagini.» «Grazie...»
«Quindi devo ammettere, anche se a malincuore, che avevi ragione tu e io mi sbagliavo.» Ragione su cosa? Cercai di indovinare dove voleva andare a parare, di precedere il suo ragionamento anche solo di mezzo secondo, ma non ci riuscii. «Come dici tu, sei fatta per il lavoro sul campo e non per essere incatenata a una scrivania» continuò Tracchio. «Adesso l'ho capito. In poche parole, sei sprecata a fare lavoro amministrativo, visto il tuo talento investigativo.» Con gli occhi sgranati lo vidi posare sul tavolo un distintivo. «Congratulazioni per la tua meritata retrocessione a sergente, Boxer.» 24 Rimasi stordita, incredula. Sentivo che Tracchio continuava il suo discorsetto, ma era come se mi stesse parlando da molto lontano. «Manterremo una relazione di dipendenza funzionale e conserverai il livello retributivo attuale, ovviamente...» Dentro la mia testa gridavo: Retrocessione? Mi retrocedi? E proprio oggi? Afferrai il bordo della scrivania perché mi sentivo mancare. Tracchio si appoggiò allo schienale con un'espressione da cui si capiva che la mia reazione lo aveva stupito tanto quanto la sua proposta aveva lasciato interdetta me. «Cosa c'è, Boxer? Non è quello che volevi? Sono mesi che mi tormenti...» «No, cioè, sì. È quello che volevo, ma non mi aspettavo...» «Forza. Cosa stai cercando di dirmi? Ci ho pensato su tutta la notte, perché mi pareva che ci tenessi molto.» Aprii la bocca e la richiusi. «Dammi un po' di tempo per rifletterci, okay, Tony?» balbettai poi. «Ci rinuncio» disse Tracchio prendendo la cucitrice e battendola sul piano della scrivania. «Non ti capisco e non ti capirò mai. Pazienza.» Non ricordo di essere uscita dall'ufficio del capo, ma so che tornai verso le scale rispondendo con un sorriso tirato a chi mi faceva le congratulazioni mentre passavo tra le scrivanie. I miei pensieri continuavano a girare in tondo.
Che cosa avevo nella testa? E che cosa volevo veramente? Arrivata alle scale, mi appoggiai pesantemente alla ringhiera e cominciai a scendere per tornare alla sala operativa quando vidi Jacobi che, invece, saliva. «Warren, è successa una cosa da non credere.» «Parliamone fuori» disse lui. Scendemmo fino al piano terra, uscimmo in Bryant Street e ci avviammo verso il mercato dei fiori. «Tracchio mi ha chiamato ieri sera» mi spiegò, mentre camminavamo. Mi voltai a guardarlo. Io e Jacobi non abbiamo mai avuto segreti l'uno per l'altra, ma gli lessi in faccia che era dispiaciuto e questo mi preoccupò molto. «Mi ha offerto il posto, Lindsay. Il tuo posto. Gli ho detto che non potevo accettare, a meno che tu non fossi d'accordo.» Mi sentivo tremare la terra sotto i piedi, ma sicuramente era il treno che entrava nella stazione della Caltrain. Sapevo che cosa bisognava dire in un caso così: Congratulazioni, ottima scelta. Farai carriera, Jacobi. Ma non riuscivo a spiccicare parola. «Ho bisogno di riflettere, Jacobi. Mi prendo un giorno di permesso» fu tutto quel che mi uscì dalla bocca. «Certo, Lindsay. Non faremo niente senza che...» «Forse due.» «Per favore, Lindsay! Parliamone assieme!» Ma io me n'ero già andata. Attraversai la strada senza fare caso al traffico, andai a prendere la macchina nel parcheggio e da Bryant Street svoltai in Sixth Street e imboccai la 28 in direzione sud, verso Potrero Hill. Sganciai il cellulare dalla cintura e, mentre guidavo, chiamai il numero memorizzato di Joe. Sentii il segnale di libero, premetti il pedale dell'acceleratore e mi spostai sulla corsia di sorpasso. A Washington era l'una del pomeriggio. Su, rispondi, Joe! Scattò la segreteria telefonica e lasciai Un messaggio: «Chiamami, per favore». Poi telefonai al San Francisco General Hospital e chiesi al centralinista di passarmi Claire.
25 Speravo di parlare direttamente con Claire, invece mi rispose Edmund con la voce di uno che ha passato tutta la notte su una sedia. «Come sta?» chiesi con un nodo alla gola. «Le stanno facendo un'altra risonanza» rispose. «Dille che abbiamo preso l'assassino. Ha confessato ed è in prigione.» Gli promisi di ritelefonare più tardi e chiamai di nuovo Joe al numero dell'ufficio. Mi rispose la segreteria telefonica. Provai a casa: anche lì c'era la segreteria telefonica. Mi fermai al semaforo di Eighteenth Street, tamburellando nervosamente sul volante, e appena scattò il verde premetti l'acceleratore. Mi tornò in mente il giorno in cui ero stata promossa tenente dopo aver catturato il «killer degli sposini», uno squilibrato che sicuramente meritava uno dei primi posti nella hit parade della depravazione. All'epoca la promozione mi era sembrata un gesto quasi politico: nessuna donna aveva mai ricoperto quella carica. Mi ero lasciata appuntare sul petto il distintivo dorato senza quasi rendermi conto del potere e delle responsabilità che comportava quella carica. Forse non me ne rendevo del tutto conto nemmeno adesso. Certo, ero stata io a chiedere di tornare a lavorare per le strade di San Francisco: era naturale che Tracchio non avesse capito la mia reazione. Merda. Non la capivo nemmeno io. A volte però le cose si capiscono soltanto quando ci si è in mezzo. Una relazione di dipendenza funzionale con Tracchio? Che stronzata! La verità era che ero stata retrocessa, degradata. Sarei riuscita a prendere ordini da Jacobi? «Gli ho detto che non potevo accettare, a meno che tu non fossi d'accordo» mi aveva riferito. Dovevo assolutamente parlare con Joe. Raccolsi il cellulare dal sedile del passeggero e riprovai a chiamarlo. La sua voce registrata mi risvegliò un sacco di ricordi: le gite da sogno che avevamo fatto insieme, i momenti di passione, le piccole cose di lui che adoravo, ogni istante vissuto fino in fondo, non sapendo quando ci saremmo rivisti. Che cosa non avrei dato per essere tra le sue braccia quella sera, per sentirmi circondata dal suo amore e dalla sua capacità di leggermi nell'animo.
Sarebbe bastata una sua carezza per farmi dimenticare tutti i dispiaceri... Riagganciai senza lasciare messaggi e provai gli altri due numeri con lo stesso risultato: Joe era irreperibile. Fermai la macchina in un parcheggio, tirai il freno a mano e rimasi a guardare nel vuoto come un'idiota. Provavo un bisogno irrefrenabile di vedere Joe. Ebbi un'idea geniale. Ma certo che posso vederlo! 26 Nella sala d'aspetto dell'aeroporto ero l'unica donna in mezzo a un folto gruppo di uomini in giacca e cravatta. Mi ero messa un maglioncino di cachemire nuovo, color panna, jeans aderenti e una giacca sciancrata di tweed. Avevo i capelli puliti, lucidi e gonfi come un'aureola. Gli uomini mi lanciavano gratificanti occhiate di ammirazione. In attesa dell'imbarco, rifeci un inventario mentale delle cose che non dovevo assolutamente dimenticare: avevo avvertito la dog-sitter di Martha, avevo chiuso a chiave in un cassetto del comò la pistola e il distintivo, avevo lasciato il cellulare in macchina. Veramente il cellulare l'avevo lasciato senza volere, ma non c'era bisogno di uno strizzacervelli per capire che abbandonando i ferri del mestiere intendevo mandare a quel paese il mio lavoro e tutte le sue grane. Viaggiavo leggera, ma avevo con me l'indispensabile: il rossetto e il biglietto di andata e ritorno in business class per il Reagan National Airport di Washington che Joe mi aveva dato insieme con le chiavi di casa sua e un biglietto che diceva: «Questo è un buono per una 'visita a Joe' ed è valido in qualsiasi momento. Baci, Joe». Salendo in aereo, mi sentivo vagamente irresponsabile. E non solo perché partivo lasciandomi alle spalle un grave conflitto irrisolto: a rodermi era anche qualcos'altro. Joe mi aveva fatto varie visite a sorpresa, ma io non mi ero mai presentata a casa sua senza avvertire. Il bicchiere di champagne che ci offrirono prima del decollo, però, mi aiutò a rilassarmi e non appena l'aereo partì abbassai lo schienale della poltrona e mi addormentai. Mi svegliai soltanto quando il pilota annunciò che stavamo per atterrare a Washington. Scesa dall'aereo, presi un taxi e diedi all'autista l'indirizzo. Joe abitava in
uno dei quartieri nordoccidentali della capitale. Mezz'ora dopo il taxi rallentò davanti alle aiuole e alle fontane del lussuoso condominio Kennedy Warren e, dopo pochi minuti, percorso il corridoio moquettato dell'ultimo piano dell'ala storica del grande edificio a forma di L, suonai alla porta di Joe. Eccomi qua. Nessuno venne ad aprire. Suonai di nuovo. Poi infilai la prima chiave nella serratura in basso, la seconda in quella in alto e aprii la porta. Gridai: «Joe?» ed entrai nell'ingresso buio. Lo chiamai di nuovo mentre andavo verso la cucina. Stavo cominciando a chiedermi dove si fosse cacciato. Come mai non rispondeva a nessuno dei suoi telefoni? La cucina comunicava con un grande vano che fungeva sia da sala da pranzo sia da salotto. Il parquet luccicava al sole che entrava dalle grandi finestre in fondo, oltre le quali vidi una terrazza. Notai che era tutto perfettamente in ordine: poltrone, divani, mobili in legno scuro. Guardai meglio e mi si fermò il cuore. Su uno dei divani, rivolta verso la finestra, era accoccolata una donna che leggeva una rivista con i fili bianchi di un iPod che pendevano dalle orecchie. Rimasi paralizzata dallo shock. Assolutamente senza parole. 27 Il battito cardiaco mi andò alle stelle a mano a mano che mettevo a fuoco la scena. C'erano un sandwich e una tazza di tè sul tavolino accanto al divano e la donna, in canottiera nera e pantaloni di una tuta, aveva i capelli biondi raccolti in un nodo sulla nuca e i piedi scalzi. Mi sentivo completamente svuotata, come se tutto il sangue mi fosse finito in fondo ai piedi. Joe aveva una doppia vita, mentre io a San Francisco aspettavo le sue telefonate e le sue visite? Rossa per la rabbia, ma anche per la vergogna, non sapevo se mettermi a urlare o scappare via. Come poteva avermi tradito così? Nel frattempo l'altra doveva avermi visto riflessa nel vetro, perché lasciò cadere la rivista, si coprì il viso con le mani e gridò.
Anch'io gridai. «Chi diavolo è lei?» «Chi è lei?» ribatté la donna togliendosi le cuffie e lasciandosi ricadere i capelli sulle spalle. «Sono la fidanzata di Joe» dissi. Mi sentivo nuda e indifesa, avrei voluto avere un distintivo da mostrarle. Un distintivo qualsiasi. Oh, Joe, che cosa hai fatto? «Mi chiamo Milda» disse la sconosciuta alzandosi dal divano e facendomi strada verso la cucina. «Faccio le pulizie per il dottor Molinari.» Scoppiai a ridere, non perché lo trovassi divertente, ma per lo shock. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni l'assegno che le aveva lasciato Joe e me lo mostrò. Ma io non vedevo nulla: davanti agli occhi della mente mi stavano passando immagini di quegli ultimi giorni. E la presenza di quella ragazza stava disintegrando lo scarso controllo che avevo sulle mie emozioni. «Ho finito prima del previsto e ho pensato di riposarmi un po'» disse mentre lavava i piatti che aveva usato. «Per piacere, non gli dica niente.» Annuii, frastornata. «No, no, stia tranquilla.» «Adesso me ne vado» promise, chiudendo il rubinetto. «Devo andare a prendere mio figlio e non voglio arrivare in ritardo. Posso?» Annuii. Andai nel bagno in fondo al corridoio, aprii il mobiletto dei medicinali e passai in rassegna scatole e boccette in cerca di smalto da unghie, assorbenti, cosmetici. Non trovai nulla e passai alla camera da letto, che era grande, con la moquette e la vista su un cortile. Aprii la cabina armadio, controllai che per terra non ci fossero scarpe da donna, feci scorrere una mano sui vestiti appesi: nessuna gonna né camicetta. Che cosa stavo facendo? Conoscevo Joe, no? Mi voltai verso il letto e stavo per sollevare il copriletto quando vidi una foto sul comodino. Io e Joe sei mesi prima a Sausalito, lui con il braccio intorno alla mia vita, il vento che mi soffiava i capelli sulla faccia. Tutti e due avevamo l'aria innamorata. Mi coprii gli occhi con le mani. Mi vergognavo troppo. Incapace di trattenermi, rimasi lì, in camera di Joe, a piangere e singhiozzare. Poi uscii, e tornai in California.
PARTE SECONDA La bambina dagli occhi castani 28 Madison Tyler saltellava su un piede solo evitando le giunture tra le pietre del marciapiede lastricato. A un certo punto corse indietro, verso la sua baby-sitter, e la prese per mano. Stavano andando all'Alta Plaza Park. Madison disse: «Mi stavi a sentire, Paola?» Paola Ricci le strinse la manina. A volte quell'incantevole bimba di appena cinque anni la sorprendeva per quanto era precoce. «Ma certo che ti stavo a sentire, tesoro.» Madison continuò con quei suoi buffi modi da piccola adulta: «Ti stavo dicendo che, quando suono la Bagatella di Beethoven, le prime note salgono come se fossero una scaletta azzurra...» Canticchiò la scala. «Poi nella parte successiva, quando suono do-re-do, le note sono rosaverde-rosa!» esclamò. «Dunque immagini le note colorate?» «No, Paola» ribatté la bambina, con l'aria di chi è costretto a portare pazienza con una persona che non capisce. «Le note sono colorate. Tu non vedi i colori, quando canti?» «No. Forse sono una tata tonta» scherzò Paola. «Non so cosa vuol dire tatatonta» disse Madison, con gli occhi che le ridevano. «Ma mi sembra divertente.» Scoppiarono in una bella risata tutte e due. Madison abbracciò Paola e le nascose il faccino nei cappotto. Passarono davanti all'esclusiva Waldorf School, poco lontano da dove Madison abitava con i suoi genitori. «È sabato» sussurrò a Paola. «Non voglio nemmeno vederla, la scuola, il sabato.» Il parco era a un isolato di distanza e, vedendo il muro che lo circondava, Madison tutta eccitata cambiò discorso. «La mamma dice che quando sarò un po' più grande mi regalerà un terrier» disse a Paola mentre attraversavano Divisadero Street. «E io lo chiamerò Wolfgang.» «Che nome serio, per un cagnolino!» replicò Paola, facendo attenzione alle macchine che passavano, ma non al minivan nero fermo con il motore
acceso davanti al cancello del parco. A Pacific Heights i minivan neri e costosi erano più comuni dei corvi. Paola dondolò il braccio e Madison saltò sul marciapiede. Ma si bloccò subito, nel vedere un'ombra che scendeva dal minivan e si dirigeva fulminea verso di loro. «Chi è?» chiese alla baby-sitter. «Cosa succede?» chiese Paola all'uomo che era sceso dal minivan. «C'è un problema. Dovete tornare a casa subito. Madison, la tua mamma è caduta dalle scale.» Madison, che si era nascosta dietro la tata, urlò: «Papà dice che non bisogna accettare passaggi dagli sconosciuti!» L'uomo la sollevò di peso e Madison gridò: «Aiuto! Mollami!» Ma quello la caricò di peso sul minivan e poi disse a Paola, puntandole una pistola al petto: «Forza, sali. Altrimenti puoi pure dire addio alla bambina». 29 Io e Rich Conklin eravamo appena rientrati in sede dopo una cupa mattinata sul luogo di una sparatoria compiuta da un'auto in corsa, quando Jacobi ci fece segno di raggiungerlo. Entrammo nel suo ufficio e ci sedemmo. Conklin si appollaiò sul bordo dell'armadietto su cui prima si sedeva sempre Jacobi e io mi accomodai sulla poltroncina vicino alla scrivania e lo guardai prendere quello che era stato il mio posto. Stavo ancora cercando di farmi una ragione di quei cambiamenti. Mi guardai in giro e osservai la confusione che Jacobi era riuscito a fare in meno di due settimane: pile di giornali per terra e sul davanzale, cestino pieno di cartacce unte e bicchieri di plastica. «Sei un maiale, Jacobi» gli dissi. «Nel senso di sporcaccione.» Jacobi rise. Aveva riso più in quelle ultime due settimane che negli ultimi due anni. Nonostante la brutta botta per il mio ego, ero contenta per lui: Jacobi era un grande professionista e sapeva gestire le situazioni più difficili. Insomma, stavo ricominciando a volergli bene. Tossì un paio di volte e disse: «Abbiamo un sequestro di persona». «Cosa c'entriamo noi?» chiese Conklin. «Lo ha seguito per qualche ora la Major Crimes, ma adesso si è fatto avanti un teste e si sospetta che ci sia di mezzo un omicidio» spiegò Jacobi. «Lavoreremo con il tenente Macklin.»
Il computer che Jacobi aveva appena acceso cominciò a ronzare. Prima della promozione, non gliel'avevo mai visto usare. Prese un CD da una pila di scartoffie sulla scrivania e lo infilò nel drive. Disse: «Stamattina alle nove questa bambina stava andando al parco con la baby-sitter. Sono sparite sia lei sia la ragazza, che si chiama Paola Ricci ed è italiana, di Cremona. La bambina invece si chiama Madison Tyler e ha cinque anni». «Tyler? Come i proprietari del Chronicle?» domandai. «Per servirvi. È la figlia di Henry Tyler.» «Hai parlato di un teste?» «Esatto. Una donna che portava a spasso il suo Schnauzer prima di andare a lavorare ha visto un figuro con un cappotto grigio scendere da un minivan nero davanti all'Alta Plaza Park, in Scott Street.» «Un figuro?» esclamò Conklin stupito. «Non sa se era un uomo o una donna. Sa solo che aveva un cappotto grigio. Le dava le spalle e comunque è stata questione di un attimo. Non sa dire nemmeno che tipo di veicolo fosse. È successo tutto molto rapidamente, dice.» «Perché sembra che sia stato commesso un omicidio?» chiesi. «Perché mentre la macchina svoltava in Divisadero Street, la teste ha sentito uno sparo e ha visto schizzare del sangue sul finestrino posteriore.» 30 Jacobi armeggiò con il mouse e voltò il portatile in maniera che io e Conklin potessimo vedere il filmato che aveva fatto partire. «Madison Tyler» spiegò. Era una bambina bionda, che usciva da dietro un sipario durante una recita. Indossava un abitino di velluto blu con il colletto di pizzo, calzettoni di cotone e un paio di scarpette di vernice rossa. Era graziosissima, con un bello sguardo intelligente. Accolta da uno scroscio di applausi, la bambina si sedeva a un pianoforte a coda, uno Steinway. La gente smetteva di battere le mani e lei iniziava a suonare un brano di musica classica a me sconosciuto, che però mi pareva decisamente complicato. Suonava in maniera impeccabile. Terminò il brano con un'infiorettatura, allungando le braccine sulla tastiera, fra gli applausi entusiasti del pubblico.
Poi Madison si voltava e diceva: «Farò meglio quando avrò le braccia più lunghe». Risate. Un bambino sui nove, dieci anni saliva sul palco e le porgeva un mazzo di fiori. «I rapitori hanno già contattato i genitori?» domandai, distogliendo gli occhi dallo schermo. «È passato poco tempo... Comunque no, non li hanno ancora contattati» rispose Jacobi. «Nessuna richiesta di riscatto, per ora. Non una parola.» 31 Cindy Thomas stava lavorando nello studio del suo nuovo appartamento, con il televisore acceso in sottofondo sintonizzato sulla CNN. Stava scrivendo un articolo sull'imminente processo ad Alfred Brinkley. Quando sentì suonare il telefono, lì per lì pensò di non rispondere. Poi guardò il display e accettò la chiamata. «Signor Tyler?» disse. La voce di Henry Tyler era spenta e quasi irriconoscibile. Per un attimo Cindy pensò a uno scherzo, ma non era nel suo stile. Tutta orecchi, senza fiato, cercò di capire che cosa le stesse dicendo: Henry Tyler piangeva e, fra i singhiozzi, perdeva spesso il filo. Si interruppe più volte e dovette chiederle che cosa stava dicendo prima di riprendere. «Che aveva un cappotto blu» gli ricordò Cindy. «Ah, già. Sì, aveva il cappotto blu, una felpa rossa, pantaloni blu e scarpe rosse.» «Le mando l'articolo fra un'ora» promise Cindy. «Vedrà che a quel punto i rapitori l'avranno già chiamata. Riavrà sua figlia, signor Tyler, ne sono sicura.» Salutò l'editore del giornale, posò la cornetta e rimase ferma per un attimo a pensare, con le dita strette sui braccioli della poltroncina, in preda a un panico improvviso. Aveva già seguito troppi sequestri di persona per non sapere che, se Madison non fosse stata ritrovata entro ventiquattr'ore, le chance di riaverla viva si sarebbero come minimo dimezzate. E sarebbero diminuite ulteriormente dopo quarantott'ore. Ripensò all'ultima volta che aveva visto la bambina, all'inizio dell'estate, quando Madison era andata in redazione con il suo papà. Si era seduta sulla poltroncina di fronte a Cindy e per mezz'ora, pren-
dendo appunti su un blocco, aveva fatto finta di essere una giornalista che la intervistava. «Perché gli articoli si chiamano pezzi? Non riuscite a scriverli interi? Qual è l'articolo più stupido che hai scritto?» Maddy era una bambina deliziosa, per nulla viziata. A Cindy era spiaciuto quando la segretaria di Tyler era venuta a prenderla dicendo: «Andiamo, Madison. La signorina Thomas ha da fare». Cindy le aveva dato un bacino sulla guancia e le aveva detto: «Sei una bambina molto in gamba, lo sai?» Madison le aveva gettato le braccia al collo e le aveva restituito il bacino. «Ci vediamo» le aveva detto Cindy. Madison si era voltata e le aveva sorriso. «Certo!» Cindy guardò lo schermo, sconcertata al pensiero che adesso la piccola Maddy fosse prigioniera di chissà chi. Si chiese se l'avessero legata, gettata in un bagagliaio, molestata sessualmente, uccisa... Aprì un nuovo file e, dopo una serie di false partenze, cominciò a scrivere il suo articolo. «La figlia dell'editore del Chronicle Henry Tyler è stata rapita questa mattina a pochi metri da casa. La bambina ha cinque anni e...» Le pareva di sentire ancora la voce rotta di Henry Tyler: «Scriva quell'articolo, Cindy. Sperando che Madison sia di nuovo a casa prima che il giornale vada in macchina...» 32 Yuki Castellano sedette in terza fila nell'aula 22, in attesa che annunciassero l'inizio dell'udienza. Lavorava in procura da un mese soltanto e, benché avesse esercitato la professione in un rinomato studio legale per diversi anni, non aveva immaginato quanto più impegnativo e drammatico fosse fare il pubblico ministero, piuttosto che difendere distinti signori in giacca e cravatta in cause di diritto civile. Ma era quello che desiderava. I suoi ex colleghi non riuscivano a credere che le piacesse davvero così tanto stare «dall'altra parte della barricata». Lo scopo dell'udienza di quel giorno era fissare la data del processo a carico di Alfred Brinkley. C'era un sostituto procuratore che aveva il compito
di seguire quelle udienze tediose e formali e di redigere il calendario. Ma Yuki non voleva delegare nulla di quel caso così importante. Era stata scelta dal sostituto procuratore Leonard Parisi, che l'aveva voluta come assistente nel processo a carico di Brinkley, accusato di ben quattro omicidi. Per fortuna la sua amica Claire Washburn era sopravvissuta, perché altrimenti gli omicidi sarebbero stati cinque. Guardò i sedili occupati da tossicodipendenti e pedofili accompagnati da madri e fidanzate e dai loro avvocati e individuò finalmente Barbara Blanco, difensore d'ufficio dell'autore della sparatoria sul traghetto. Era una donna in gamba e anche per lei, come per Yuki, quel processo era il primo caso veramente importante della sua carriera. All'udienza preliminare aveva consigliato al suo assistito di dichiararsi «non colpevole» ed era determinata a non far ammettere la sua confessione in sede dibattimentale. La sua linea difensiva consisteva nel sostenere che Brinkley non era in grado di intendere e di volere, quando aveva sparato sulla folla, e dimostrare la sua infermità mentale per farlo rinchiudere in manicomio, invece che in galera. Okay: che ci provasse pure. Finalmente fu annunciato l'inizio dell'udienza e a Yuki venne il batticuore. Chiuse il portatile e si diresse al tavolo dell'accusa. Alfred Brinkley seguiva docile il suo avvocato. Era pulito e sbarbato e sembrava meno agitato rispetto all'udienza preliminare. Meglio così. Yuki aprì il cancelletto di legno che separava il pubblico dalla corte e si mise in piedi accanto a Barbara Blanco e ad Alfred Brinkley, davanti al giudice Norman Moore. Moore li guardò solo di sfuggita e tenne gli occhi bassi. «Bene. Vogliamo cercare di accorciare i tempi e cominciare lunedì 17 novembre?» Yuki rispose: «Per l'accusa va benissimo». Ma Barbara Blanco non era d'accordo. «Vostro onore, il signor Brinkley ha una lunga storia di malattia mentale. Dovrebbe essere sottoposto a perizia ai sensi della 1368, per verificare che sia in grado di presenziare al processo.» Moore lasciò cadere le mani sul tavolo e sospirò, poi disse: «Va bene, avvocato. La dottoressa Charlene Everedt è rientrata dalle ferie e proprio stamattina mi ha detto di avere un po' di tempo. La incaricherò della perizia sul signor Brinkley». Spostò gli occhi azzurri su Yuki. «Procuratore? Castellano, dico bene?»
«Sì, vostro onore. Ritengo che quella della difesa sia una tattica per prendere tempo.» Parlò veloce, come suo solito. «Un tentativo di temporeggiare, probabilmente allo scopo di far scemare l'interesse da parte dei media e dell'opinione pubblica. Credo che l'avvocato Blanco sappia benissimo che il signor Brinkley è perfettamente in grado di prendere parte attiva al processo. Ha sparato e ucciso quattro persone e si è costituito. Ha reso una confessione spontanea. La procura desidera pertanto che egli venga processato nei tempi più brevi possibili...» «Ho capito» la interruppe il giudice, rispondendo alla raffica di parole di Yuki con frasi lente e cadenzate. «Chiederemo alla dottoressa Everedt di consegnare la perizia al più presto. Immagino sarà questione di qualche giorno. La procura ritiene di poter aspettare qualche giorno?» Yuki rispose: «Sì». E, mentre il giudice dichiarava chiusa l'udienza e chiamava i successivi, lasciò l'aula passando dal vestibolo. Appena fuori, girò a destra e imboccò il corridoio che portava al suo ufficio, sperando che anche la psichiatra incaricata della perizia si rendesse conto di ciò che sia lei sia Lindsay vedevano chiaramente. E cioè che Alfred Brinkley era squilibrato, ma tutt'altro che incapace di intendere e di volere. Era un assassino e aveva agito con premeditazione. Se tutto fosse andato bene, l'accusa sarebbe riuscita a dimostrarlo. 33 Lanciai le chiavi a Conklin e mi sedetti sul sedile davanti della volante. Lui fischiettava nervosamente. Dopo Bryant Street, si diresse verso nord lungo Sixth Street, attraversò Market Street e puntò verso Pacific Heights. «Se c'è una cosa che ti fa perdere completamente la voglia di mettere al mondo dei figli, è proprio questa» sentenziò. «Perché? Tu ne avresti voglia?» «Mi piacciono le famiglie numerose.» Parlammo del rapimento, valutando se l'ipotesi dell'omicidio era probabile e se la baby-sitter poteva essere complice dei sequestratori. «Viveva con i Tyler» dissi io. «Sapeva tutto quello che succedeva in quella casa: quanti soldi giravano, come si muovevano, che orari seguivano. Se Madison si fidava di lei, rapirla sarebbe stato uno scherzo.» «Perché l'avrebbero ammazzata, allora?» chiese Conklin. «Be', magari non gli serviva più.»
«Una persona in meno con cui dividere il bottino, dici? Però, farla fuori davanti alla bambina...» «Avranno ammazzato la baby-sitter o la bambina?» domandai. Rimanemmo zitti. Svoltammo in Washington Street, una delle strade più belle di Pacific Heights. I Tyler abitavano in una villa vittoriana gialla e marrone, con vasi pieni di piante e fiori. Una casa da sogno, dove mai più penseresti possa succedere una tragedia simile. Conklin parcheggiò sulla strada e ci incamminammo lungo il vialetto che conduceva alla scala e al portone. Sollevai il batacchio e lo lasciai ricadere sulla piastra di ottone della porta di quercia, sapendo che dietro c'erano due persone attanagliate dall'ansia e dalla paura. 34 Henry Tyler venne ad aprire e, riconoscendomi, impallidì. Io avevo tirato fuori il tesserino. «Sono il sergente Boxer. L'ispettore Conklin...» «So chi siete» mi interruppe. «Lei è l'amica di Cindy Thomas, vero? Della squadra Omicidi.» «Esatto. Signor Tyler, non abbiamo notizie di sua figlia.» «Sono già venuti altri ispettori» disse, indicandoci un corridoio che conduceva a un bellissimo soggiorno arredato con mobili dell'Ottocento, tappeti persiani e ritratti di uomini e cani ormai defunti. C'era un pianoforte vicino a una delle finestre, da cui si godeva una vista straordinaria sulla baia. Tyler ci invitò ad accomodarci e si sedette di fronte a noi su un lussuoso divano di velluto. «Siamo qui perché un testimone ha sentito uno sparo subito dopo il sequestro» dissi. «Uno sparo?» «Non abbiamo motivo di pensare che Madison sia stata ferita, signor Tyler. Ma abbiamo bisogno di più informazioni su Paola Ricci e sua figlia.» Entrò Elizabeth Tyler, vestita di seta e cachemire beige, con gli occhi rossi e gonfi. Si sedette accanto al marito e lo prese per mano. «Il sergente mi ha appena detto che la donna che ha assistito al rapimen-
to ha anche sentito uno sparo!» «Oh, mio Dio!» esclamò la signora Tyler, accasciandosi fra le braccia del marito. Spiegai nuovamente la situazione, cercando di tranquillizzarli. In fondo sapevamo solo che c'era stato uno sparo... Evitai di nominare gli schizzi di sangue sul finestrino. Dopo che la signora Tyler si fu ripresa, Conklin chiese se avessero notato qualcosa o qualcuno di strano nei pressi di casa. «No, mai» rispose il papà di Madison. «Questo è un quartiere in cui tutti ci proteggiamo a vicenda» continuò la signora. «Siamo tutti piuttosto curiosi, peraltro. Se qualcuno di noi avesse notato qualcosa di strano, avrebbe avvertito la polizia.» Chiedemmo ai signori Tyler di riferirci le loro abitudini e i loro movimenti negli ultimi giorni: quando uscivano, a che ora andavano a letto la sera. «Parlateci di vostra figlia» dissi poi. «Tutto quello che vi viene in mente.» La signora Tyler si illuminò. «È una bambina gioiosa, allegra. Ama i cani ed è un genio musicale.» «Sì, ho vistò un filmato in cui suonava il piano.» «È sinestesica. Lo sapevate?» mi chiese Elizabeth Tyler. Scossi la testa. «Non so neppure cosa voglia dire.» «Quando ascolta musica o suona, le note le appaiono a colori. È un dono meraviglioso...» «È un fenomeno neurologico» intervenne Henry Tyler spazientito. «Non c'entra niente con il sequestro. L'avranno rapita per chiedere un riscatto, no? Per cos'altro?» «Che cosa sapete dirci di Paola?» domandai. «Parla inglese molto bene» disse Tyler. «È con noi solo da pochi mesi. Da quando esattamente, tesoro?» «Settembre. Da quando Mala è tornata nello Sri Lanka. Aveva referenze eccellenti» disse sua moglie. «E Maddy l'ha presa subito in simpatia.» «Conoscete i suoi amici, la gente che frequenta?» «No» rispose la signora Tyler. «Non aveva il permesso di portare a casa nessuno. Aveva il giovedì e la domenica pomeriggio liberi e cosa facesse in quei giorni proprio non sappiamo.» «Era sempre al cellulare» disse Tyler. «Me lo raccontava Madison. Dunque immagino che avesse degli amici. Che cosa sta insinuando? Che
fosse d'accordo con i rapitori?» «Lo ritenete possibile?» «Be', sì» rispose Tyler. «Ha visto il nostro tenore di vita e magari ha pensato di approfittarne. O forse si è lasciata montare dal suo ragazzo...» «In questo momento, non possiamo escludere nessuna ipotesi» replicai. «Chiunque sia stato, a qualsiasi prezzo... la prego: ci restituisca la nostra bambina» mi implorò Henry Tyler. 35 La stanza di Paola Ricci in casa Tyler era ordinata e molto femminile. Di fronte al letto era appeso un poster della nazionale di calcio italiana e sopra la testiera c'era un crocifisso. La stanza aveva tre porte: una dava sul corridoio, una conduceva al bagno e l'altra alla stanza di Madison. Il copriletto di ciniglia azzurra era senza una piega, i vestiti appesi ordinatamente nell'armadio: maglioni graziosi, gonne sobrie, camicie e felpe di colori neutri. Le scarpe erano morbide, tacco basso. Dietro l'anta era appesa una borsa di pelle nera. L'aprii e controllai il portafoglio. Secondo la patente di guida, Paola Ricci aveva diciannove anni. «Un metro e settantaquattro, capelli castani, occhi azzurri. E si fa le canne.» Feci vedere a Conklin i tre spinelli che avevo trovato nella tasca interna. «Ma niente cellulare. Deve esserselo portato dietro.» Aprii i cassetti, mentre Conklin frugava nel comò. Paola portava biancheria bianca, di cotone, ma aveva anche qualche completino di raso in colori tropicali. «Una brava ragazza, che non disdegna i piaceri della vita» osservai. Entrammo in bagno e aprimmo l'armadietto dei medicinali. Aveva lozioni e creme per la pelle, balsami contro le doppie punte e una confezione aperta di Ortho Tri-Cyclen, il cerotto anticoncezionale. Con chi aveva rapporti sessuali? Un ragazzo? Henry Tyler? Non sarebbe stata la prima baby-sitter ad allacciare una relazione con il padrone di casa. Che ci fosse sotto qualche storia losca? Una relazione finita malamente? «Ho trovato qualcosa di interessante, tenente» mi disse Conklin. «Anzi, sergente.» Rientrai nella camera da letto.
«Se non riesci a chiamarmi Boxer, chiamami semplicemente Lindsay.» «Okay» mi rispose, con gli occhi che gli brillavano. «Lindsay, guarda qui: Paola teneva un diario.» 36 Mentre Conklin andava a perquisire la cameretta di Madison, io sfogliai il diario di Paola. Aveva una bellissima grafia e usava simboli ed emoticon e un sacco di punti esclamativi. Mi accorsi subito che l'America doveva piacerle molto. Scriveva dei caffè e dei negozi di Fillmore Street dicendo di non vedere l'ora che arrivasse il bel tempo per potersi sedere ai tavoli all'aperto con i suoi amici, come in Italia. Descriveva gli abiti che vedeva nelle vetrine, citava i commenti delle sue amiche americane riguardo agli uomini, l'abbigliamento, i personaggi famosi. Indicava le amiche con le iniziali soltanto. Lessi che si faceva le canne con M.E. e L.K. nelle serate libere. Cercai eventuali riferimenti a Henry Tyler, ma Paola ne parlava solo sporadicamente e lo chiamava sempre «Mr B». Tuttavia, scriveva con particolare attenzione la G. iniziale di qualcuno. Riferiva di intensi sguardi di questo G., ma avevo la sensazione che, chiunque egli fosse, dovesse essere un amante più immaginario che reale. La persona di cui Paola parlava di più era Maddy. Si capiva che le era davvero affezionata. Aveva addirittura incollato nel diario alcuni disegni e poesie della bambina. Non trovai alcun riferimento a piani particolari, strani incarichi o sentimenti di vendetta. Chiusi il libriccino rosso con l'idea che fosse il semplice diario di una ragazza innocente all'estero. Che l'avesse scritto apposta per trarci in inganno? Henry Tyler ci accompagnò alla porta. Prima che ci congedassimo, mi mise una mano sul braccio. «Le sono grato di non aver detto tutta la verità di fronte a mia moglie, ma io ho capito perché siete venuti. Potrebbe essere già successo qualcosa a mia figlia, vero? Vi prego, tenetemi informato. E ditemi tutta la verità. Insisto.»
Gli diedi il mio numero di cellulare e promisi di chiamarlo più volte al giorno. I tecnici stavano mettendo sotto controllo i telefoni dei Tyler e gli ispettori della Major Crimes stavano setacciando tutte le case del vicinato, quando io e Conklin ce ne andammo. Andammo al parco di Alta Plaza, luogo splendido e storico, da cui si gode una vista spettacolare. Insieme con i bambini, le baby-sitter, i cani e i loro padroni, nel parco giravano anche molti agenti, che interrogavano i passanti. Io e Conklin ci unimmo a loro e riuscimmo così a parlare con tutti i bambini e rispettive tate che conoscevano Madison, compresa una babysitter con le iniziali M.E., che doveva essere l'amica di cui Paola parlava nel suo diario. Madeline Ellis scoppiò in lacrime e ci disse di avere molta paura. «È come se mi fosse caduto il mondo addosso» disse. «Credevo che questo posto fosse sicuro!» Spingendo la carrozzina, ci disse con voce rotta: «È una bravissima ragazza. Un po' immatura per la sua età». Ci spiegò che il G. che avevamo notato sul diario era un certo George, di cui non conosceva il cognome, che faceva il cameriere al Rhapsody Café. Aveva corteggiato un po' Paola e lei era stata al gioco, ma Madeline era sicura che non fossero mai usciti assieme. Trovammo George Henley mentre serviva ai tavoli all'aperto del Rhapsody Café di Fillmore Street e gli facemmo un vero e proprio interrogatorio. Cercammo di mettergli paura, ma il mio istinto mi diceva che non era coinvolto in nessun sequestro di persona, e meno che mai in un omicidio. Era un ragazzo normalissimo, che lavorava di giorno e studiava la sera per laurearsi in lettere. Si pulì le mani nel grembiule, mi prese di mano la patente di Paola e guardò la foto. «Sì, sì. L'ho vista con le sue amiche» disse. «Ma fino a questo momento non sapevo neppure come si chiamasse.» 37 Il sole stava calando su Pacific Heights, quando uscimmo dalla casa di un certo Willy Evans, un manovale che abitava sopra il garage di uno dei vicini dei Tyler. Era un essere detestabile, con le unghie incredibilmente sporche, e aveva in casa una ventina di terrari con serpenti e lucertole. Ma,
per quanto fosse viscido, aveva un alibi di ferro. Io e Conklin ci abbottonammo il cappotto e continuammo a setacciare il quartiere, mostrando foto di Paola e Madison a tutti quelli che vedevamo tornare a casa dal lavoro. Spaventammo a morte un sacco di ignari innocenti e in cambio non ottenemmo niente di niente. Tornati in ufficio, trasferimmo appunti e osservazioni in un rapporto, prendendo nota dei colloqui che avevamo avuto e del fatto che i Devine, che abitavano proprio accanto alla villa dei Tyler, erano in vacanza da prima del sequestro e continuavano a essere irreperibili, e che tutte le amiche consideravano Paola Ricci una specie di santa. Mi sentii prendere dallo sconforto. L'unica nostra testimone aveva detto a Jacobi di aver sentito uno sparo e di aver visto schizzi di sangue sul finestrino posteriore del minivan in cui erano state fatte salire Paola e Madison alle nove di quella mattina. Era a Paola che avevano sparato? O la bambina aveva opposto più resistenza del previsto e si era beccata una pallottola? Diedi la buonanotte a Conklin e andai all'ospedale. Quando entrai nella sua stanza, Claire dormiva. Aprì gli occhi e mi disse: «Ciao, bellezza». E subito si riaddormentò. Restai con lei per un po' e, accoccolata nella poltrona di finta pelle, mi assopii persino, poi le diedi un bacio sulla guancia e la salutai. Parcheggiai la mia Explorer poco lontano da casa, lungo la salita, tirai fuori le chiavi pensando a Madison Tyler e mi incamminai. Dovetti sbattere le ciglia diverse volte per accertarmi di non avere le traveggole. Seduto sui gradini di casa mia c'era Joe, con il guinzaglio infilato al polso e un braccio intorno a Martha. Si alzò in piedi e mi abbracciò alla luce della luna. Che bello stare fra le sue braccia! 38 Che io sapessi, Joe non era a conoscenza della mia disavventura di Washington e non mi sembrava il momento adatto per raccontargliela. «Hai dato da mangiare a Martha?» gli chiesi, stringendomi a lui e alzando la testa perché mi baciasse.
«Sì, e l'ho portata anche fuori» mi sussurrò. «Ho comprato un pollo arrosto e un po' di verdura per noi umani. E ho messo il vino nel frigo.» «Un giorno o l'altro entro in casa e ti sparo per sbaglio» gli dissi. «Non lo faresti mai, Biondina.» Lo guardai negli occhi, sorrisi e risposi: «No. Non credo proprio». «Così ti voglio.» Mi baciò di nuovo e mi sentii sciogliere. Salimmo in casa, con Martha che abbaiava e ci faceva un sacco di feste. Ridevamo così tanto che, quando arrivammo all'ultimo piano, eravamo senza fiato. Come d'abitudine, rimandammo la cena a più tardi. Joe mi spogliò, si tolse i vestiti e aprì la doccia, regolando l'acqua alla giusta temperatura. Quando fummo dentro la cabina, mi appoggiai al muro e mi lasciai lavare con dolcezza, lentamente, finché non fui così eccitata che mi veniva voglia di urlare. A quel punto Joe mi avvolse in un asciugamano e mi accompagnò sul letto, mi fece coricare e accese l'abat-jour sul comodino, che mandava una soffusa luce rosata. Tolse l'asciugamano e mi guardò e mi accarezzò come se fosse la prima volta, come se dovesse ancora scoprire il mio corpo. Così ebbi il tempo di ammirare il suo torace possente, i peli ricciuti che scendevano fino al pube. Quando lo toccai, era pronto. «Resta lì» mi sussurrò all'orecchio. Il bello di Joe era che quando ero con lui c'era sempre qualcosa da scoprire, anche nella sicurezza della familiarità. Rimasi ferma, sdraiata con la testa sul cuscino, i palmi rivolti all'insù, e Joe mi fece impazzire baciandomi dappertutto, accarezzandomi nelle parti più sensibili e stringendosi a me. Mi stavo sciogliendo nel suo calore ma, nonostante tutto, c'era qualcosa che mi rodeva nella testa. Stavo cercando di mantenere il distacco, e non capivo perché. Poi mi venne in mente: Non voglio fare questo. 39 Mi sentivo una pazza a volerlo e non volerlo al tempo stesso. All'inizio cercai di razionalizzare, mi dissi che ero preoccupata per Madison e per Paola, ma poi mi ricordai la vergogna di quando ero andata a casa di Joe due settimane prima, così bisognosa, e mi ero sentita un pesce fuor d'acqua.
Joe era sdraiato al mio fianco e mi teneva una mano sulla pancia. «Cos'hai, Lindsay?» Scossi la testa - Niente, niente - ma Joe si voltò verso di me e mi costrinse a guardarlo negli occhi. «Ho avuto una giornataccia» risposi. «Non è una novità» replicò lui. «Di solito però non ti fa questo effetto.» Mi vennero le lacrime agli occhi e mi vergognai. Non volevo farmi vedere vulnerabile da lui. Non in quel momento. «Dimmi cos'hai, Biondina.» Rotolai sul fianco e gli posai la mano sul petto, appoggiandogli la testa sulla spalla. «Non ce la faccio più, Joe.» «Lo so, ti capisco. Voglio trasferirmi qui, ma per ora non posso.» Il mio respiro si calmò, mentre Joe mi riferiva come stavano andando le cose, fra la guerra, le elezioni imminenti, gli attentati e i problemi della sicurezza nazionale. A un certo punto smisi di ascoltarlo, mi alzai e mi infilai un accappatoio. «Tornerai?» mi chiese Joe. «Ecco, hai centrato il punto» dissi. «È la domanda che mi faccio continuamente io.» Joe fece per protestare, ma lo zittii. «Aspetta, voglio parlare io.» Mi sedetti sul bordo del letto e cominciai: «Noi due stiamo bene insieme, Joe, ma così non possiamo andare avanti, perché io non posso contare su di te. Sono troppo vecchia per una storia che va avanti a suon di attimi rubati». «Linds...» «Lo sai anche tu. Non so mai quando ci vedremo la prossima volta, non so se quando ti chiamo mi risponderai al telefono. Ti presenti qui all'improvviso, poi te ne vai e mi lasci sola, mi fai sentire abbandonata. Non abbiamo mai abbastanza tempo per rilassarci, per fare una vita normale. Abbiamo parlato e riparlato di trasferimenti, cambiamenti, evoluzioni, ma sappiamo tutti e due che non ci saranno mai.» «Lindsay, ti giuro che...» «Non posso aspettare l'insediamento del nuovo presidente o la fine della guerra, capisci?» Joe si tirò su a sedere e mi guardò con tanto amore che dovetti voltarmi dall'altra parte. «Ti amo, Lindsay. Ti prego, non litighiamo. Domani mattina devo partire.» «Non domani mattina, Joe, adesso» risposi, senza neppure rendermi con-
to di quel che stavo dicendo. «Mi distrugge dirti questo, ma non ne posso più di promesse, per quanto sincere. Finiamola qui, okay? Siamo stati bene. Ti prego, Joe. Se davvero mi vuoi bene, va' via.» Dopo il suo bacio di addio, mi lasciai cadere sul letto e rimasi a lungo a guardare il soffitto, piangendo, e a chiedermi che cosa avevo fatto... 40 Era sabato sera ed era quasi mezzanotte. Cindy dormiva nella sua camera da letto al condominio Blakely Arms, da sola, quando sentì una donna urlare in spagnolo da qualche parte sopra la sua testa. Poi sentì sbattere una porta e qualcuno che correva, quindi un cigolio di cardini e un'altra porta che sbatteva, più vicina alla sua. La porta delle scale, forse? Le grida continuavano, adesso per strada. Voci maschili raggiungevano le sue finestre al terzo piano. Poi si sentirono dei rumori, come di una zuffa. Cindy aveva in testa pensieri che mai le sarebbero venuti nella casa vecchia: si chiedeva se era al sicuro e se aveva davvero fatto un affare a comprare quell'appartamento. Scostò le lenzuola, si alzò e uscì dalla camera, andando nel suo bel salotto e quindi nell'ingresso. Guardò dallo spioncino, ma non vide nessuno. Tirò il chiavistello e andò alla scrivania. Si passò le mani fra i capelli e se li legò, con le mani che le tremavano. Forse non era agitata solo per i rumori nel palazzo, forse era in ansia anche per via dell'articolo su Madison e i bambini rapiti. Dopo la telefonata di Tyler, aveva navigato un po' in Internet e aveva scoperto che ogni anno negli Stati Uniti scomparivano migliaia di bambini. La maggior parte veniva portata via da genitori e parenti e poi ritrovata e restituita alle famiglie, ma alcune centinaia finivano strangolate, pugnalate o sepolte vive. La maggior parte veniva uccisa poche ore dopo il rapimento. Statisticamente, era più probabile che Madison fosse stata rapita per chiedere un riscatto, piuttosto che da un maniaco. Peccato che ci fosse una cosa che non quadrava in quella ipotesi. Nessuno aveva contattato i Tyler chiedendo soldi. Stava tornando in camera da letto quando sentì suonare il campanello. Rimase di stucco e le venne il batticuore: non conosceva nessuno in quel
condominio. Chi poteva essere, a quell'ora? Il campanello continuava, insistente. Stringendosi nella giacca del pigiama, Cindy si avvicinò alla porta e guardò dallo spioncino. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Era Lindsay. Con la faccia stravolta. 41 Stavo già per andarmene, quando Cindy finalmente si decise ad aprire. Aveva un pigiama rosa e i capelli raccolti. E la faccia di chi ha appena visto un fantasma. «Tutto bene?» le chiesi. «Io sì, sto bene. Abito qui, ricordi? Tu, piuttosto: cosa ti è successo?» «Avrei dovuto telefonarti, prima di venire» dissi, abbracciandola e cercando di ricompormi. Ma era chiaro che Cindy si era accorta che stavo male. Francamente, non sembrava in gran forma neppure lei. «Il fatto è che ho deciso di salire solo all'ultimo.» «Vieni, dai. Siediti» mi disse, guardandomi con preoccupazione. C'erano ancora scatole di cartone lungo le pareti e fogli di plastica da imballo dappertutto. «Cosa ti è successo, Lindsay? Yuki direbbe che sembri appena uscita dalla centrifuga della lavatrice.» Feci una risatina. «Mi sento esattamente così.» «Ti faccio un tè? O preferisci qualcosa di più forte?» «No, grazie. Un tè va benissimo.» Mi appoggiai allo schienale del divano e aspettai che tornasse dalla cucina con due tazze fumanti. Si sedette su uno sgabello e disse: «Forza, raccontami tutto». Cindy era un paradosso vivente: tutta ricci e fronzoli, mai senza rossetto, scarpe sempre coordinate alla mise, ma sotto sotto era un bulldog. Quando si metteva in testa una cosa, non mollava. Se decideva di farti parlare, prima o poi ci riusciva. Mi sentii una perfetta cretina. Il solo stare con lei mi rasserenava e non avevo più voglia di parlarle di Joe e dei miei problemi. «Volevo solo vedere la tua nuova casa» dissi. «Ma per favore!»
«Sei insistente, sai?» «Deformazione professionale.» «Ne vai fiera, pure.» «Certamente.» «Sei una stronza.» E risi. «Avanti, sfogati con la tua amica» mi disse. «Mi sono già sfogata dandoti della stronza.» «Okay. Come stai, Lindsay?» Mi coprii la faccia con un cuscino e, al buio, cedetti. Con un sospiro, confessai: «Ho rotto con Joe». Cindy mi tolse il cuscino dal volto. «Stai scherzando?» «Ti prego, Cindy, cerca di capirmi. Sento che sto per vomitare.» «Okay, okay. Ma perché? Joe è un uomo intelligente, è bello, gli vuoi bene. Cosa ti è preso?» Mi avvicinai le ginocchia al mento, abbracciandomi le gambe. Cindy venne a sedersi vicino a me sul divano e mi cinse le spalle con un braccio. Mi sentivo come in balia di uno tsunami. Piangevo troppo, negli ultimi tempi, e avevo paura di impazzire. «Calmati, amica mia. Sono qua e la notte è giovane. Più o meno.» E così cominciai a raccontarle la storia del mio viaggio a Washington, l'umiliazione, e a confidarle come mi sentivo in quella storia tanto travagliata. «Sto male, Cindy. Sto malissimo. Ma credo di aver fatto la cosa giusta.» «Non l'avrai lasciato solo perché ti sei sentita morire quando non l'hai trovato a casa e hai visto quella ragazza?» «Ma no, figurati!» «Oh, Signore! Lindsay, non volevo farti piangere. Dai, sdraiati un momento. Chiudi gli occhi.» Mi fece coricare su un fianco e mi sistemò un cuscino sotto la testa. Un momento dopo, mi sentii coprire con un plaid. La luce si spense e Cindy mi rimboccò la coperta. «Non è finita, Lindsay. Credimi.» «Ogni tanto sbagli anche tu, lo sai?» borbottai. «Scommettiamo?» Mi diede un bacio sulla guancia. Dopo un po', mi sentii cullare in un sogno che mi vedeva protagonista. Precipitai in un sonno tormentato e mi svegliai con il sole che entrava dalle finestre. Mi imposi di tirarmi su a sedere, posai i piedi per terra e vidi il biglietto
che Cindy mi aveva lasciato sul tavolino. Diceva che era uscita a comprare caffè e brioche. Poi mi venne in mente che Jacobi e Macklin avevano appuntamento alle otto con tutti quelli che stavano lavorando al caso Tyler-Ricci: ero già in ritardo. Scrissi un biglietto a Cindy, mi infilai le scarpe e uscii di corsa. 42 Quando gli passai davanti, Jacobi alzò gli occhi al cielo. Mi andai a sedere in fondo. Il tenente Macklin mi lanciò un'occhiataccia e mi riassunse cos'era stato detto fino a quel momento. In assenza di nuovi indizi riguardo a Madison Tyler e Paola Ricci, il programma era andare a parlare con una serie di maniaci già noti alla polizia. «Patrick Calvin» lessi sull'elenco che era stato distribuito, mentre salivo in macchina con Conklin. «Precedenti per atti osceni, è in libertà vigilata da qualche tempo. Era stato condannato per molestie alla figlia di sei anni.» Conklin mise in moto. «Certe cose non le capisco proprio. E sai cosa ti dico? Manco le voglio capire.» Calvin viveva in un palazzo di venti appartamenti a forma di U, fra Palm e Euclid Street, vicino a Jordan Park, a meno di due chilometri da dove abitava Madison Tyler. La Toyota Corolla blu a lui intestata era parcheggiata davanti al condominio. Mentre attraversavamo il giardino davanti al portone, sentii profumo di pancetta fritta. Salimmo la scala esterna e bussammo alla porta rossa dell'appartamento di Calvin. Ci aprì un bianco spettinato, alto più o meno un metro e sessanta, con un pigiama scozzese e calzini bianchi. Dimostrava una quindicina d'anni. Fui tentata di chiedergli se il suo papà era a casa, poi mi accorsi che aveva un accenno di barba sul mento e i tatuaggi tipici del galeotto e capii che era proprio Patrick Calvin. «Il signor Calvin?» chiesi, mostrandogli il tesserino. «Cosa volete?» «Sono il sergente Boxer. E questo è l'ispettore Conklin» dissi. «Vorremmo farle qualche domanda. Le spiace se entriamo un momento?» «Sì, mi spiace. Che cosa volete?» Conklin è molto bravo, in questo genere di situazioni. Ammetto di invi-
diarlo un pochino. L'ho visto interrogare psicopatici con grande delicatezza, da vero poliziotto. E si era persino preoccupato del povero gatto di Alonso... «Ci scusi tanto, signor Calvin» disse. «So che è domenica mattina e che è presto, ma è scomparsa una bambina e abbiamo poco tempo.» «Cosa c'entro io?» «Lei è in libertà vigilata, signor Calv...» «Volete perquisirmi la casa?» lo interruppe Calvin, alzando la voce. «Meno male che siamo in un Paese libero. Non avete neanche un mandato, eh? Non avete un cazzo!» «Si sta agitando un po' troppo, per essere uno che non c'entra niente» gli fece notare Conklin. «Sto cominciando a insospettirmi.» Spiegai a Calvin che potevamo telefonare al supervisore cui doveva fare riferimento finché era in regime di libertà vigilata, il quale ci avrebbe certamente autorizzato a entrare in casa sua a dare un'occhiata. «Oppure possiamo procurarci un mandato» intervenne Conklin. «E tornare con un paio di volanti a sirene spiegate, così che i suoi vicini capiscano che tipo di persona è lei.» «Allora, le spiace se entriamo?» riprovai. Calvin rispose alla mia occhiataccia con uno sguardo di fuoco. «Non ho nulla da nascondere» dichiarò. E ci fece accomodare in casa. 43 L'appartamento di Patrick Calvin aveva pochi mobili, tipo IKEA, color frassino. Sopra la TV c'era uno scaffale con bambole e bambolotti di varie misure. «Le ho comprate per mia figlia» spiegò, lasciandosi cadere su una seggiola. «Caso mai decida di venirmi a trovare.» «Quanti anni ha adesso? Sedici?» «Oh, la smetta, per favore» fece Calvin. «La smetta.» «Attento a come parla» replicò Conklin, e sparì nella camera da letto. Io mi sedetti sul divano e aprii il taccuino. Cercai di non pensare alla ragazzina adolescente che aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi un padre così e chiesi a Calvin se avesse mai visto Madison Tyler. «Sì, al telegiornale, ieri sera. Molto graziosa. Da mangiarsela, diciamolo
pure. Ma non la conosco.» «Capisco.» Strinsi i denti, colta da un moto di paura per Madison. «Dov'era ieri mattina alle nove?» «Qui. Guardavo la TV. Mi piace tenermi aggiornato sugli ultimi cartoni, così riesco a parlare meglio con le bambine, a essere al loro livello. Mi spiego?» Ero più alta di Calvin di tutta la testa, e anche molto più in forma, e avevo una gran voglia di mettergli le mani addosso. Mi era capitato anche con Alfred Brinkley. Ero troppo stressata, decisamente troppo stressata. «C'è qualcuno che può confermarlo?» «Sì. Chieda a Mister Happy» mi rispose Calvin, posandosi una mano sulla patta dei calzoni del pigiama. «Vedrà che le dice tutto quello che vuole sapere.» Non ce la feci più. Lo afferrai per il colletto, lo sollevai di peso e lo sbattei contro il muro. Le bambole caddero dallo scaffale. Conklin arrivò di corsa e vide che stavo per prenderlo a botte. Fingendo di non aver visto la luce di follia nei miei occhi, si appoggiò con disinvoltura allo stipite della porta. Mi spaventai, perché mi rendevo conto di essere arrivata al limite. Mi mancava solo un'accusa per maltrattamenti e atti di violenza immotivati. Lasciai Calvin. «Belle foto, signor Calvin» disse Conklin, in tono pacato. «Di tante bambine al parco di Alta Plaza.» Lo guardai: Madison e Paola erano state rapite all'ingresso di quel parco. «Ha visto la mia macchina fotografica?» chiese Calvin in tono di sfida. «Sette milioni di megapixel e uno zoom da 12. Le ho scattate da un isolato di distanza. Conosco le regole, sapete? E non ne ho infranta nemmeno una.» «Sergente, una delle bambine nelle foto potrebbe essere Madison Tyler» mi disse Conklin. Chiamai Jacobi e gli dissi che Patrick Calvin aveva alcune fotografie che valeva la pena esaminare più attentamente. «Manda due uomini a sorvegliarlo. Io e Conklin torniamo in sede per prendere il mandato» lo avvertii. «Nessun problema, Boxer. Mando subito un'auto e chiedo a Chi di preparare il mandato e venire a prendere Calvin.» «Possiamo pensarci noi, Jacobi.»
«Lo so. Ma dal servizio di sicurezza della Transbay è arrivata una chiamata da parte di una bambina la cui descrizione corrisponde a quella di Madison Tyler» rispose. «L'hanno vista?» «È con loro.» 44 Il terminal della Transbay fra First e Mission Street era una costruzione di cemento con il tetto arrugginito e neon malandati che lampeggiavano proiettando fievoli ombre sui senzatetto che si accampavano lì per poter usare i pochi servizi a disposizione. È un luogo che mette i brividi anche di giorno. Volevo trovare Madison Tyler al più presto e portarla via da lì. Io e Conklin corremmo giù per le scale fino al piano più basso, che era buio e squallido, con una fila di biglietterie e un gabbiotto del servizio d'ordine. Due donne nere, in divisa blu con la scritta PRIVATE SECURITY SERVICE sul taschino, erano sedute dietro una scrivania. Mostrammo il tesserino e ci aprirono. Il gabbiotto era a vetri su due lati e dipinto di uno squallido beige sugli altri due. C'erano due scrivanie, alcuni scaffali, tre uscite con serratura elettronica e due distributori di bevande e merendine. Dietro una delle scrivanie c'era una bambina con i capelli chiari che le arrivavano alle spalle. Aveva un cappottino blu sbottonato, una felpa rossa e pantaloni blu. E aveva le scarpe rosse. Mi balzò il cuore in gola: l'avevamo ritrovata! Madison Tyler era salva! Il capo dei servizi di sicurezza, un omone grande e grosso con i capelli e i baffi grigi, si alzò in piedi e si presentò stringendoci la mano. «Piacere, Fred Zimer. Abbiamo visto questa signorinetta che camminava tutta sola per il terminal un quarto d'ora fa. Non è vero, tesoro? Ma non sono riuscito a farmi dire niente.» Mi misi le mani sulle ginocchia e la guardai in faccia. Aveva pianto e non voleva mostrarmi gli occhi. Aveva le guance sporche e le colava il naso. Il labbro inferiore era gonfio e aveva un graffio sulla guancia sinistra. Lanciai un'occhiata a Conklin.
Il sollievo che avevo provato nel vedere Madison sana e salva stava scemando: ero molto turbata al pensiero di quello che potevano averle fatto. Aveva l'aria talmente traumatizzata che stentavo a riconoscere in lei la bambina sicura di sé che avevo visto suonare il piano in quel filmato. Conklin si accucciò vicino a me. «Ciao, io mi chiamo Richie» le disse, con un sorriso. «Tu sei Maddy?» La bambina guardò Conklin, aprì la bocca e disse: «Maaady». Pensai che doveva essere spaventata a morte. Le presi le mani. Erano gelate. Madison mi guardava, ma era come se non mi vedesse. «Chiamate un'ambulanza» dissi a bassa voce, cercando di non spaventarla ulteriormente. «Questa bambina non sta bene.» 45 Io e Conklin passeggiavamo nervosamente fuori del pronto soccorso, quando arrivarono i Tyler. Ci abbracciarono come se fossimo stati parenti. Mi sentivo emozionata all'idea che quella storia tremenda fosse almeno in parte risolta e speravo che Madison si riprendesse nel rivedere i suoi genitori. Avevo molte domande da farle. La prima era: Hai visto in faccia i mostri che ti hanno rapito? «Poco fa dormiva» spiegai ai Tyler. «Il dottor Collins è appena passato e ha detto che sarebbe tornato... fra dieci minuti.» «Ci dica» sussurrò Elizabeth Tyler preoccupata. «Le hanno fatto del male?» «Sembrava un po' sotto shock» risposi. «Non le sono stati fatti esami invasivi. I medici aspettavano il vostro consenso.» Elizabeth Tyler si coprì la bocca con tutte e due le mani, cercando di trattenere le lacrime. «Dovete anche sapere questo: non ha praticamente parlato con nessuno.» «Non è da lei...» «Forse le hanno intimato di tacere, minacciando di farle del male se parlava.» «Oddio! Che animali!» «Perché avrebbero dovuto rapirla e poi abbandonarla senza neppure chiederci di pagare un riscatto?» domandò il signor Tyler, mentre entravamo nel reparto. Non risposi perché non volevo dire ciò che pensavo, ovvero che i pedo-
fili non chiedono riscatto. Mi feci da parte per lasciar passare prima loro, pensando che Madison sarebbe stata felicissima di rivedere la sua mamma e il suo papà. Henry Tyler mi posò la mano sul braccio e bisbigliò: «Grazie». Quindi scostò la tenda che riparava il letto dove era ricoverata sua figlia. Sentii la signora Tyler chiamare la sua bambina e quindi lanciare un gemito spaventato. La vidi correre fuori e mi feci da parte. Poi uscì anche Henry Tyler e mi venne vicino con aria furibonda. «Si rende conto di quello che ha fatto?» disse, rosso come un peperone. «Quella bambina non è Madison. Non se n'è accorta? Non è lei. Non è nostra figlia!» 46 Mi scusai con i signori Tyler, sinceramente e profusamente, mentre loro sbraitavano, arrabbiatissimi, nel parcheggio dell'ospedale. Poi rimasi lì come un'allocca a guardarli andare via in macchina a tutta velocità. Mi squillò il cellulare e, dopo un po', mi decisi a rispondere. Era Jacobi. «Ha appena chiamato una donna per denunciare la scomparsa della figlia. Cinque anni, capelli biondi, lunghi.» La donna si chiamava Sylvia Brodsky ed era isterica. Aveva perso di vista la figlia Alicia mentre faceva la spesa. La piccola doveva essersi allontanata senza che lei se ne accorgesse. Era autistica. Alicia Brodsky non parlava. Poco dopo la chiamata di Jacobi, la signora Brodsky arrivò in ospedale e si riprese la figlia, ma io e Conklin non eravamo lì a vedere. Eravamo sulla Crown Vic a parlare di quello che era successo. Mi assunsi le mie responsabilità: «Avrei dovuto essere più cauta e dire ai Tyler che forse avevamo ritrovato Madison, ma che non ne eravamo sicuri. Però ho detto che avevamo bisogno che la riconoscessero, no? Rich, tu mi hai sentito, vero?» «Hanno smesso di ascoltarti nel momento in cui gli hai detto: 'Potremmo aver ritrovato vostra figlia'. Senti, Lindsay, non potevamo immaginarlo. Ha persino detto che si chiamava Maddy...» «Be', insomma...» «Aveva pure le scarpette rosse» insistette lui. «Quante bambine bionde di cinque anni vanno in giro con il cappottino blu e le scarpette rosse?»
«Due, come minimo.» Sospirai. Tornati in sede, interrogammo Calvin per due ore, spremendolo come un limone. Alla fine non faceva più tanto il gradasso. Controllammo le foto digitali ancora nella memoria della sua fotocamera e quelle che Conklin aveva trovato in camera sua. Non c'erano foto di Madison Tyler, ma non perdemmo le speranze fino all'ultimo. Ci auguravamo che Calvin potesse aver fotografato accidentalmente qualcosa relativo al sequestro. Chissà, magari addirittura il minivan nero. Purtroppo, però, Patrick Calvin il giorno prima non aveva scattato neanche una foto all'Alta Plaza Park. Lo trovavo ripugnante, ma ispirare repulsione non è un reato e così dovemmo lasciarlo andare. Interrogammo altri tre uomini con precedenti per molestie e pedofilia quel giorno. Erano tre bianchi normalissimi, che mai più avresti detto che facessero certe cose. Tutti e tre avevano un alibi. Alla fine decisi che avevamo fatto abbastanza. Erano le sette di sera. Ero emotivamente esausta. Entrai in casa e accarezzai Martha, promettendole di portarla a fare una bèlla corsa dopo la doccia. Avevo bisogno di lavarmi via di dosso troppi brutti pensieri. Sul bancone della cucina c'era un biglietto: la dog-sitter di Martha mi aveva lasciato un messaggio. Stappai una Corona e ne bevvi una lunga sorsata, prima di leggerlo. Ciao, Lindsay. Non vedendo la tua macchina ho portato Martha a fare una passeggiata. ☺ Ti ricordi che i miei mi lasciano la casa di Hermosa Beach per Natale? Posso portare Martha? Le farebbe bene, non credi? Fammi sapere, K. Mi sentii male al pensiero di aver lasciato solo il mio cane, senza nemmeno chiamare la dog-sitter. Sapevo che Karen aveva ragione: non mi stavo prendendo cura del mio collie come avrei dovuto. Facevo i doppi turni, lavoravo il weekend, dal giorno della sparatoria sul traghetto non avevo più avuto un attimo di requie...
Mi chinai a darle un bacio, le alzai le orecchie e la guardai negli occhi. «Vuoi andare a fare delle belle corse sulla spiaggia, Martha?» Presi il telefono e chiamai Karen. «Perfetto!» esclamò. «La passo a prendere domani mattina.» 47 Lunedì mattina, all'alba, io e Conklin eravamo nel cantiere sotto Fort Point, l'imponente fortezza di mattoni che era stata eretta in cima alla penisola di San Francisco durante la Guerra Civile e che adesso era all'ombra del Golden Gate Bridge. Una brezza umida increspava l'oceano: sembrava di essere a zero gradi, anche se eravamo a dieci. Tremavo, un po' per il freddo e un po' perché avevo un orribile presentimento. Mi chiusi il giaccone imbottito fino al collo e infilai le mani in tasca. Il vento mi sferzava la faccia, facendomi lacrimare gli occhi. Un saldatore impegnato nei lavori di ristrutturazione ci portò un caffè dal furgone che fungeva da bar, fermo oltre la recinzione che separava il cantiere dalla strada. Si chiamava Wayne Murray. Quella mattina, quando era arrivato sul posto di lavoro, aveva notato qualcosa di strano sugli scogli sotto il forte. «Lì per lì ho pensato che fosse una foca» ci raccontò, cupo. «Poi mi sono avvicinato e ho visto un braccio. Non avevo mai visto un cadavere, sapete.» Sentimmo sbattere alcune portiere e arrivare un gruppetto di uomini che chiacchieravano e ridevano. Erano operai del cantiere, paramedici e un paio di vigili urbani. Chiesi loro di recintare la zona e bloccare l'accesso. Mi voltai verso il fagotto scuro fra gli scogli e vidi una mano bianca e un piede galleggiare nella schiuma, fra le onde. «Non l'hanno gettata qui» disse Conklin. «Troppo rischioso: qualcuno poteva vederli.» Strizzando gli occhi osservai la guardia del servizio di sicurezza, che sorvegliava il ponte con un fucile semiautomatico AR-15 in spalla. «Sì. Dipende dall'ora e dalle maree, ma potrebbero averla gettata in mare da uno dei moli. Probabilmente pensavano che la corrente la spingesse al largo.»
«Ecco il dottor G.» disse Conklin. Il medico legale era pimpante quella mattina, con i capelli bianchi ancora umidi, stivaloni e naso rosso. Si incamminò, insieme con uno dei suoi assistenti, e noi lo seguimmo giù per la ripida scogliera a picco sul mare. «Fate attenzione, mi raccomando» ci disse mentre ci avvicinavamo al cadavere. «Non voglio che scivoliate e tocchiate qualcosa.» Rimanemmo lì, mentre il medico si avvicinava al cadavere e tirava fuori il suo armamentario dalla valigetta. Prese una torcia e cominciò la sua ricognizione. Vedevo abbastanza bene anch'io: la vittima aveva la faccia scura e gonfia. «Ci sono segni di scollamento della cute» disse il dottor G. «Dev'essere in acqua da due o tre giorni. È risalita in superficie per via dei gas.» «Ferite da arma da fuoco alla testa?» «Non saprei. Deve aver sbattuto contro gli scogli. La radiograferò dalla testa ai piedi appena torniamo.» Scattò diverse foto, da tutte le angolazioni possibili, con il flash. Presi nota di come era vestita: cappotto scuro, maglione con il collo alto. Aveva i capelli corti, con un taglio che mi ricordava la pettinatura sulla foto della patente che avevo trovato nel suo portafoglio due giorni prima. «È Paola Ricci, vero?» disse Conklin, fissando il cadavere. Annuii. Ma il giorno prima avevo commesso un grave errore e, con le mie conclusioni precipitose, avevo dato ai Tyler inutili speranze. «Sì, lo penso anch'io» gli risposi. «Ma prima di tirare qualsiasi conclusione, voglio l'assoluta certezza.» 48 Claire era seduta nel letto, quando entrai nella sua stanza d'ospedale. Tese le braccia per farsi abbracciare. La strinsi forte forte finché non mi disse: «Piano, tesoro. Ricordati che ho un foro di proiettile nel torace». Mi ritrassi, la baciai su tutte e due le guance e mi sedetti vicino a lei. «Cosa dice il dottore?» «Che sono una ragazza forte...» Le venne un accesso di tosse. Si coprì la bocca con una mano, con l'altra mi fece segno di aspettare e alla fine riuscì a dirmi: «Mi fa male solo quando tossisco». «Allora, i dottori dicono che sei una ragazza forte e...?» insistetti.
«E che mi riprenderò alla grande. Pare mi dimettano mercoledì. Dovrò starmene a riposo per un po' a casa e poi... tornerò come nuova.» «Grazie a Dio.» «Ho pensato spesso a Dio, da quando quell'imbecille mi ha sparato. Sai che non mi ricordo nemmeno più quando è successo? Si perde la cognizione del tempo, quando non si va a lavorare.» «È successo due settimane fa, Claire. Sedici giorni, per l'esattezza.» Claire mi porse una scatola di cioccolatini e io ne presi uno a caso. «Dormi nel bagagliaio della tua macchina?» mi domandò Claire. «O ti sei trovata un fidanzato diciottenne?» Versai un po' d'acqua in due bicchieri, in uno infilai una cannuccia e glielo porsi. «Non ho più nessun fidanzato. Ho lasciato Joe.» Claire sgranò gli occhi. «Non ci posso credere!» Benché mi costasse un grosso sforzo, le spiegai che cosa era successo. Claire sembrava stanca, ma mi guardava con dolcezza. Mi fece un paio di domande, ma più che altro mi stette a sentire. Bevvi un sorso d'acqua, poi mi schiarii la voce e le spiegai che ero stata retrocessa a sergente. La vidi scioccata. «Ti hanno degradato e ti sei lasciata con il fidanzato? Il tutto nel giro di due settimane? Sono preoccupata per te, Lindsay. Dormi? Prendi delle vitamine? Mangi abbastanza?» No, no e no. Mi misi a sedere in poltrona vedendo arrivare l'infermiera con la cena e le medicine per Claire. «Ecco qua, dottoressa Washburn.» Claire prese le sue pastiglie e, non appena l'infermiera se ne fu andata, spinse da una parte il vassoio con la cena. «Sbobba del giorno.» Mi venne in mente che in tutta la giornata non avevo mangiato nulla. Così presi i piselli troppo cotti e il polpettone di Claire e mi ingozzai. Mangiai anche il gelato. E poi le raccontai che avevamo identificato il cadavere: era Paola Ricci. «Hanno sparato alla baby-sitter subito dopo il sequestro. Dovevano liberarsi di lei immediatamente, penso. Ma non abbiamo in mano nulla. Non sappiamo chi sia stato, né dove possano aver portato Madison.» «Com'è che i genitori non sono stati contattati?» «Vorrei tanto saperlo anch'io. Ormai è passato troppo tempo: se avessero voluto un riscatto, a quest'ora si sarebbero fatti sentire. Non credo l'abbiano rapita per soldi.»
«Maledizione.» «Già.» Posai la forchetta di plastica sul vassoio e mi appoggiai allo schienale, guardando nel vuoto. «Lindsay?» «Stavo pensando che forse hanno sparato a Paola perché aveva assistito al rapimento.» «È possibile.» «Ma se Madison ha assistito all'uccisione di Paola... be', non credo che la libereranno, allora.» PARTE TERZA La resa dei conti 49 Cindy Thomas uscì dal suo appartamento al condominio Blakely Arms, attraversò la strada all'angolo e si accinse a percorrere a piedi i cinque isolati che la separavano dal suo ufficio al Chronicle. L'inquilino dell'appartamento che si trovava due piani sopra quello di Cindy, sul retro del caseggiato, un certo Garry Tenning, era di pessimo umore. Stringeva con forza il bordo della scrivania, cercando di contenere la propria rabbia. Nel cortile, cinque piani più in basso, c'era un cane che abbaiava incessantemente e gli perforava i timpani a ogni latrato. Tenning lo conosceva. Era un terrier e si chiamava Barnaby. Apparteneva a Margery Glynn, una volgare bionda slavata, madre single di un bambino detestabile, Oliver. I due abitavano al piano terra e si erano impossessati del cortile condominiale come se fosse di loro esclusiva proprietà. Tenning si premette ancora una volta i tappi nelle orecchie. Erano di morbida cera, fatti per aderire perfettamente alle orecchie, ma non lo proteggevano contro l'insopportabile abbaiare di Barnaby. Si passò il palmo delle mani sulla T-shirt mentre il botolo continuava stolidamente a latrare, impedendogli di riposarsi. Cominciavano a tremargli le labbra e a prudergli le mani e aveva le palpitazioni. Maledizione! In fondo chiedeva soltanto un po' di silenzio! Sullo schermo del computer che aveva davanti scorrevano file ordinate di caratteri. Era il capitolo sei del suo libro: La resa dei conti: compendio
statistico del XX secolo. Quel libro non era né un'idea bizzarra né un semplice passatempo: era la sua ragione di vita, l'eredità che intendeva lasciare al mondo. Conservava amorevolmente persino le lettere degli editori che avevano rifiutato il suo progetto: le copie archiviate in un'apposita cartella, gli originali in cassaforte. Una volta pubblicato, La resa dei conti sarebbe subito diventato un'opera di consultazione indispensabile per gli studiosi di tutto il mondo e per le generazioni a venire, e allora sì che lui si sarebbe fatto grasse risate. Nessuno gli avrebbe potuto togliere la soddisfazione di esserne l'autore. Desiderando con tutte le proprie forze che Barnaby la smettesse di abbaiare, Tenning scorse le colonne di cifre sullo schermo: le vittime di fulmini a ciel sereno morte dal 1900 in poi, l'andamento delle precipitazioni nel Vermont, gli avvistamenti confermati di vacche risucchiate dai tornado. In quel momento arrivò sotto le sue finestre un camion della spazzatura, facendo un baccano infernale. Tenning temette che gli scoppiasse la testa. Non era pazzo, la sua era una reazione perfettamente naturale a un'aggressione acustica di inaudita violenza. Si tappò le orecchie con le mani, ma il fracasso del camion della spazzatura gli arrivava lo stesso e, come se non bastasse, scatenò Oliver. Stramaledetto bambino! Quante volte era stato interrotto dal pianto di quel moccioso? Quante volte il corso dei suoi pensieri era stato deviato dall'abbaiare di quel cagnaccio insopportabile? Tenning sentiva salire la pressione nel torace e nella testa. Doveva fare qualcosa, altrimenti sarebbe esploso. Aveva raggiunto il punto di saturazione. 50 Con dita tremanti, Tenning si allacciò più in fretta che poteva le Adidas consunte, uscì sul pianerottolo e si chiuse la porta alle spalle, mettendosi in tasca il grosso mazzo di chiavi. Scese nel seminterrato passando per le scale di sicurezza. Non prendeva mai l'ascensore. Passò davanti alla lavanderia ed entrò nel locale caldaie, dove la vecchia caldaia borbottava tra sé, mentre l'odiosa nuova arrivata, più moderna e in-
stallata di recente, fischiettava con entusiasmo. Appoggiato al muro di cemento c'era un pezzo di tubo con un giunto arrugginito. Tenning lo prese e soppesò il giunto nel palmo della mano. Girò a destra e seguì la rampa che portava all'USCITA DI SICUREZZA indicata da un segnale lampeggiante, mentre in testa gli nascevano uno dopo l'altro pensieri assassini. Spinse con l'avambraccio il maniglione antipanico e per un attimo rimase fermo al sole, per orientarsi. Poi svoltò l'angolo e si avviò verso il patio lastricato e i vasi di piante che erano stati aggiunti quando il caseggiato era stato ristrutturato. Vedendosi venire incontro Tenning, Barnaby ricominciò ad abbaiare e prese la rincorsa, nonostante fosse legato alla recinzione. Accanto al cane c'era la carrozzella con Oliver che ululava e si agitava all'ombra di un albero. Tenning ebbe un moto di contentezza. Due piccioni con una fava. Stringendo in pugno il tubo, avanzò furtivo lungo il lato del palazzo in direzione delle due abominevoli creature urlanti. Proprio in quel momento uscì di casa Margery Glynn, con i capelli biondastri arrotolati sulla testa e fissati con una matita. Si chinò, mettendo in mostra una notevole estensione di coscia bianca come il latte, e prese in braccio Oliver. Tenning osservò la scena di nascosto. Il bambino si zittì all'istante, ma Barnaby cambiò semplicemente tono, adottandone uno più acuto. Margery gli fece «Sst», poi mise una mano sotto il sedere del bebè e, facendogli appoggiare il viso bagnato di lacrime sul petto, lo riportò in casa. Tenning avanzò in direzione di Barnaby, che smise di colpo di abbaiare e si leccò i baffi, forse sperando in una carezza o in una corsa nel parco. Poi però ricominciò subito a ululare, allarmato. Tenning sollevò il tubo come fosse una mazza e lo riabbassò di botto. Barnaby guaì e fece un debole tentativo di ribellarsi, mordendogli un braccio, ma la mazza si era già sollevata per la seconda volta verso il cielo sereno per poi riabbassarsi su di lui. Il terrier rimase completamente immobile. Mentre ficcava il cadavere in un sacco per la spazzatura, Tenning pensò: Riposa in pace, bastardo. 51
Erano passati tre giorni da quando Madison Tyler era stata rapita in Scott Street e la sua baby-sitter era stata assassinata. Eravamo tutti nella sala operativa: Conklin, quattro ispettori della Omicidi che dopo il turno di notte si erano fermati a fare lo straordinario, io, Macklin e cinque o sei agenti della Major Crimes. Macklin si guardò intorno e disse: «Sarò breve, perché non voglio far perdere tempo a nessuno. Non abbiamo niente in mano. Abbiamo solo le nostre competenze, quindi continuiamo a fare quello che abbiamo fatto finora: indaghiamo in modo serio e approfondito. E quelli di voi che ci credono, per piacere, preghino affinché succeda un miracolo». Assegnò a ognuno i suoi compiti e chiese se c'erano domande. Nessuno fiatò. Ci fu uno strisciare di sedie per terra e tutti si alzarono in piedi. Io guardai l'elenco di maniaci che avrei dovuto interrogare insieme con Conklin. Mi alzai da dietro la scrivania e andai nell'ufficio di Jacobi. «Entra, Boxer.» «Jacobi, al rapimento hanno partecipato due persone. Una ha costretto le vittime a salire sul minivan, un'altra guidava. Non ti pare strano che un pedofilo agisca con un complice?» «Hai altre idee, Boxer? Sono tutt'orecchi.» «Io ricomincerei daccapo. Ovvero dalla testimone oculare. Vorrei parlarle.» «Dopo tutti questi anni, non riesco a credere che tu voglia interrogare un teste con cui ho già parlato io» brontolò Jacobi. «Aspetta un momento. Ho qui la deposizione.» Sospirai, mentre Jacobi spostava la tazza del caffè, il suo Egg McMuffin e il giornale. Prese una pila di fascicoli, passò in rassegna le varie cartelline, scelse quella che gli interessava e la aprì. «Gilda Gray. Questo è il numero di telefono.» «Grazie, tenente» dissi tendendo la mano per prendere il fascicolo. Trasalii, come se avessi commesso un lapsus: era la prima volta che chiamavo Jacobi «tenente». Sperai che non se ne fosse accorto, invece lui mi fece un gran sorriso. Mi voltai e gli sorrisi anch'io. Poi uscii, tornai alla scrivania che adesso dividevo con Conklin e feci il numero di Gilda Gray. Rispose subito, ma mi disse che non poteva presentarsi per rilasciare una nuova deposizione in quanto aveva appuntamento con un cliente alle nove
e mezzo. «È scomparsa una bambina, signora Gray» le ricordai. «Senta, posso raccontarle tutto per telefono in meno di dieci secondi. Ero uscita a portare fuori il cane. Camminavo lungo Divisadero Street con il giornale pronto per non sporcare e ho visto la bambina e la baby-sitter che attraversavano la strada.» «E poi?» «Io stavo badando a Schotzie, guardavo per terra, con il giornale pronto, ha presente? Mi è sembrato di sentir gridare un bambino e quando ho alzato gli occhi ho visto questo tizio con la giacca grigia che apriva la porta scorrevole di un minivan nero. E la baby-sitter, di schiena, che saliva.» «Un tizio con la giacca grigia. Bene. Ha visto chi era al volante?» «No. Ho buttato il giornale nel cestino della spazzatura e ho sentito il minivan che ripartiva. Poi, come ho già detto, ho sentito un colpo secco, molto forte, e ho visto qualcosa di simile a uno schizzo di sangue sul finestrino posteriore. Una scena raccapricciante...» «Non sa dirmi altro dell'uomo con la giacca grigia?» «Sono quasi sicura che fosse bianco.» «Alto, basso, segni caratteristici?» «Non ho notato nulla, mi dispiace.» Chiesi alla signora Gray quando pensava di poter venire a guardare alcune foto segnaletiche e mi sentii rispondere: «Avete foto segnaletiche scattate di schiena?» «Grazie lo stesso» dissi e riattaccai. Guardai Conklin e per un attimo mi persi nella contemplazione dei suoi occhi castani. «Allora ci tocca un'altra sfilza di maniaci?» «Esatto, Rich. Portati dietro il caffè.» 52 Kenneth Klassen stava lavando la sua Jaguar grigio metallizzato quando parcheggiammo nella salita davanti alla sua casa di Vallejo Street. Era un quarantottenne bianco, alto circa uno e ottanta, il tipico attore porno di media bellezza che non tralasciava nulla per migliorare il proprio aspetto: permanente, naso rifatto, lenti a contatto azzurre, denti bianchissimi. Stando ai dati che ci erano stati forniti, Klassen era stato beccato in una
chat a prendere appuntamento con quella che credeva fosse una bambina di dodici anni e che invece era un poliziotto quarantenne. Aveva patteggiato e, in cambio di informazioni su un traffico di pornografia con minorenni, se l'era cavata con un lungo periodo di libertà vigilata e una grossa multa. Continuava a produrre video porno, ma per adulti, il che era perfettamente legale anche nel lussuoso quartiere di Pacific Heights. Si illuminò in viso, quando io e Conklin scendemmo dalla Crown Vic e ci vide avviarci verso di lui sul marciapiede. «Bene, bene, bene» disse chiudendo il rubinetto e squadrando dall'alto in basso prima Conklin e poi me. Quando capì che eravamo poliziotti, il suo sorriso si indurì. «Signor Klassen, sono il sergente Boxer» esordii mostrandogli il distintivo. «E questo è l'ispettore Conklin. Abbiamo alcune domande da farle. Le dispiace se veniamo un momento dentro?» «Venga pure dove vuole, sergente» ribatté malizioso, tenendo la manichetta dell'acqua puntata davanti a sé come un fallo. «Non faccia il furbo» disse Conklin bonariamente. «Scherzavo, ispettore» rispose Klassen divertito. «Era solo una battuta. Entrate, accomodatevi.» Lo seguimmo in casa. Oltre il portone di rovere c'era un atrio piuttosto elegante e quindi un salotto moderno, con una veranda che comunicava con la cucina piena di felci, gardenie e piante grasse in grandi vasi. Klassen ci invitò ad accomodarci su poltroncine di vimini appese alle travi del soffitto con delle catene. Nel frattempo si affacciò sulla porta un cinese di età imprecisata che intrecciò le mani una sull'altra e rimase in piedi in attesa. «Posso farvi portare qualcosa dal signor Wu, signori?» disse il padrone di casa. «No, grazie» risposi. «Allora, che cosa vi ha spinto a farmi visita in questa mattinata peraltro splendida?» In precario equilibrio sull'orlo di una delle poltroncine di vimini, tirai fuori il bloc-notes. Conklin invece girava per la veranda spostando vasi e osservando varie statuette erotiche. «Faccia come se fosse a casa sua» gli gridò dietro Klassen. «Dov'era sabato mattina?» chiesi. «Sabato...» Klassen si appoggiò all'indietro, si passò una mano sui capel-
li e fece una faccia soddisfatta, come se stesse ricordando un sogno particolarmente piacevole. «Stavo girando Mambo al chiaro di luna» disse alla fine. «Proprio qui. Sto facendo una serie di corti da venti minuti ciascuno. 'Corti d'alcova', li chiamo.» E fece un gran sorriso. «Splendido. Vorrei nome e numero di telefono di tutti quelli che possono confermarlo.» «Sono indagato per qualche reato, sergente?» «Diciamo che si può considerare 'di interesse per le indagini'.» Klassen sorrise compiaciuto, come se gli avessi appena fatto un complimento. «Lei ha una pelle bellissima. Non spende un centesimo in cosmetici, vero?» «Signor Klassen, non faccia il furbo. Fuori i nomi e i numeri di telefono.» «Non c'è problema. Vi stampo l'elenco.» «Bene. Ha mai visto questa bambina?» domandai mostrandogli la foto di Madison Tyler che da tre giorni tenevo nella tasca della giacca. Mi dispiaceva persino vedere quel viscido posare lo sguardo sulla foto di Madison. «È la figlia del giornalista, vero? L'ho vista al telegiornale.» Klassen sorrise e il riflesso del sole sui suoi denti bianchissimi per poco non mi abbagliò. «Sentite, non è il caso che vi faccia perdere tempo. Venite con me.» 53 Nella casa di Klassen c'era un ascensore interno. La cabina era di legno di pino, grande all'incirca come una bara a due posti. Io, Conklin e Klassen ci entrammo e, quando guardai il pannello dei comandi, vidi che erano segnati solo due piani, «uno» e «quattro», senza fermate intermedie. Le porte si aprirono al quarto e ultimo piano della casa, in una stanza molto luminosa di circa dodici metri per quindici con mobili, riflettori, tappeti arrotolati e una serie di fondali da teatro appoggiati ai muri. In un angolo in fondo c'era una console piuttosto sofisticata. Mi guardai intorno in cerca di tracce della presenza di una bambina. «Oggigiorno si fa tutto in digitale» spiegò Klassen sistemandosi su uno sgabello davanti a uno schermo piatto. «Si filma, si scaricano le immagini e si montano, tutto nello stesso posto.» Premette un interruttore, spostò il mouse e cliccò su un'icona con la
scritta Mambo al chiaro di luna. «Questo è il premontaggio di quello che ho girato sabato» disse. «È il mio alibi, con tanto di data e ora, ammesso che io debba fornirvi un alibi. Ho cominciato a girare alle sette e ho lavorato tutto il giorno.» Dopo un'introduzione musicale di ritmo latino, apparvero le prime immagini. Una ragazza dai capelli scuri, con un negligé nero molto succinto, accendeva alcune candele in una camera da letto che era uno dei set che avevamo visto smontati. La macchina da presa faceva una panoramica della stanza e si fermava sul letto, dove Klassen si masturbava e profferiva frasi sdolcinate mentre la ragazza si esibiva in uno spogliarello. «Oh, cielo» mormorai. Conklin si frappose fra me e lo schermo. «Ne voglio una copia» disse. «Con piacere.» Klassen tirò fuori dal cassetto un CD, lo mise in una custodia di plastica rossa e glielo porse. «Ha foto o filmati di bambini in questo computer?» «No, no. Mica faccio pornografia con minorenni, io» sbuffò Klassen. «Sarebbe una violazione dei patti e oltre tutto non è il mio genere.» «Molto bene» disse Conklin conciliante. «Allora adesso vorrei fare un rapido controllo del suo computer, mentre il sergente fa il giro della casa.» «Mi sembra molto bella, signor Klassen. Mi piace come l'ha arredata» commentai. «E se mi rifiutassi?» «La porteremmo in centrale per interrogarla in attesa di un mandato» disse Conklin. «Con il quale torneremo qui, le sequestreremo il computer e le perquisiremo la casa con i cani.» «Le scale sono da quella parte.» Lasciai Conklin e Klassen davanti al computer e scesi di sotto, mettendo la testa in tutte le stanze, aprendo le porte, controllando negli armadi, con gli occhi e le orecchie bene aperti nella speranza di trovare una bambina. Il signor Wu stava cambiando le lenzuola in una camera al primo piano quando gli mostrai il distintivo e la foto di Madison Tyler. «Ha visto questa bambina?» gli chiesi. Scosse energicamente la testa. «No. Niente bambini qui. Al signor Klassen non piacciono i bambini. Niente bambini qui!» Dieci minuti dopo stavo respirando a pieni polmoni l'aria fresca e pulita davanti alla casa, quando Conklin mi raggiunse e si chiuse la porta alle
spalle. «Be', è stato divertente» dissi. «Vedrai che l'alibi regge» replicò, piegando un elenco di nomi e numeri di telefono e riponendolo nel bloc-notes. «Lo so. Rich, secondo te è etero?» «Secondo me, purché respiri gli va bene tutto.» Quando io e il mio collega salimmo in macchina, Klassen era di nuovo nel giardino. Ci salutò con la mano e un altro dei suoi sorrisi a trentadue denti. «Bye-bye!» Fischiettava tra sé lustrando la Jaguar metallizzata, quando la nostra modesta Ford sparì dietro la curva. 54 Io e Conklin eravamo di nuovo seduti uno di fronte all'altra alla nostra scrivania nella sala operativa. Accanto al mio telefono c'era una pila di messaggi di informatori e semplici cittadini che sostenevano di aver visto Madison Tyler un po' dappertutto, da Ghirardelli Square a San Francisco fino a Osaka, in Giappone. Il referto dell'autopsia effettuata dal dottor Germaniuk sul cadavere di Paola Ricci era sotto i miei occhi. La conclusione era che il decesso era stato provocato da un colpo di pistola alla testa. Omicidio. Il dottor Germaniuk aveva aggiunto al referto un Post-it che lessi ad alta voce al mio collega. Sergente Boxer, gli indumenti sono stati inviati al laboratorio. Ho effettuato il test per accertare un'eventuale violenza sessuale, ma per pura formalità: e improbabile che risulti positivo, data la lunga permanenza in acqua. Ho trovato il foro di entrata e di uscita di un proiettile, di cui non si ha traccia. Cordiali saluti H.G. «Siamo in un vicolo cieco» disse Conklin con le mani nei capelli. «L'unica certezza che abbiamo è che i sequestratori non si fanno scrupolo a uccidere.» «Già. Abbiamo le vaghe dichiarazioni di una testimone che ci ha descrit-
to in maniera assolutamente inutile uno dei due malviventi e il mezzo di trasporto usato per il sequestro. Non abbiamo numero di targa né prove materiali recuperate sulla scena del crimine: niente mozziconi di sigaretta, gomme da masticare, bossoli, impronte di pneumatici... E soprattutto nessuna richiesta di riscatto.» Conklin si appoggiò allo schienale e disse, rivolto al soffitto: «Più che maniaci sessuali, direi che i sequestratori sono violenti. Hanno sparato a Paola Ricci nel giro di mezzo minuto. Dove si è mai visto?» «Si direbbe quasi che non vedessero l'ora di spararle. Forse erano fatti di crack. Potrebbe essersi trattato di semplici esecutori, che agivano per un mandante. Oppure Paola non gli interessava e quindi l'hanno eliminata subito. Oppure ha opposto resistenza e si sono lasciati prendere dal panico» ipotizzai. «Ma hai ragione, Rich, secondo me hai proprio ragione.» La sedia scricchiolò mentre il mio collega si rialzava. «Dobbiamo cambiare metodo. Ricominciare daccapo indagando prima di tutto su Paola Ricci» dissi battendo la mano sul referto dell'autopsia. «Anche da morta, potrebbe aiutarci a trovare Madison.» Conklin stava chiamando il consolato italiano quando Brenda girò la sedia verso di me, coprì il telefono con la mano e disse: «Lindsay, c'è una chiamata per te sulla quattro. Non mi ha voluto dire chi è, ma dalla voce... fa paura. Ho chiesto di rintracciare la chiamata». «Pronto, sergente Boxer.» «Lo dirò una volta sola» esordì una voce alterata digitalmente. Sembrava una rana che gracida dentro una busta imbottita. Feci cenno a Conklin di mettersi in ascolto anche lui. «Chi parla?» chiesi. «Non ha importanza» rispose la voce. «Madison Tyler sta bene.» «Come fa a saperlo?» «Di' qualcosa, Maddy.» Si sentì un'altra voce, ansante, infantile, rotta. «Mamma? Mamma?» «Madison?» dissi. Mi rispose la voce da rana. «Dite ai genitori che hanno fatto un grosso errore a chiamare la polizia. Sospendete subito le ricerche, o Madison pagherà le conseguenze» minacciò lo sconosciuto. «Pagherà per sempre. Se vi tirate indietro adesso, ne uscirà viva e starà bene. Ma i Tyler si devono rassegnare: non la rivedranno mai più.» E buttò giù.
«Pronto? Pronto?» Premetti varie volte il pulsante, ma ottenni solo il segnale di libero. Sbattei giù la cornetta, frustrata. «Brenda, passami il centralino.» «Cos'ha detto? 'Hanno fatto un grosso errore a chiamare la polizia'?» esclamò Conklin. «Lindsay, ti è sembrato che la bambina fosse Madison?» «Dio santo, non lo so. Come faccio a saperlo?» «Cristo!» gridò Conklin sbattendo un elenco del telefono contro il muro. Avevo la testa che mi girava, ero confusa. Davvero Madison stava bene? Perché lo sconosciuto aveva detto che i genitori non avrebbero dovuto chiamare la polizia? C'era stata una richiesta di riscatto o una telefonata di cui noi eravamo all'oscuro? Nella sala operativa mi guardavano tutti. Jacobi era in piedi alle mie spalle e mi alitava letteralmente sul collo, quando dal centralino richiamarono con i risultati del tentativo di rintracciare la chiamata. Era stata fatta da un cellulare anonimo e da una località che non era stato possibile individuare. «La voce era distorta» dissi a Jacobi. «Manderò la registrazione al laboratorio.» «Prima falla ascoltare ai genitori. Magari riconosceranno la voce della bambina.» «Potrebbe essere uno sciacallo che si vuole divertire alle nostre spalle» disse Conklin mentre Jacobi si allontanava. «Speriamo che lo sia. Perché di 'tirarci indietro' non se ne parla neanche.» Non osavo dire quello che pensavo veramente, e cioè che quelle che avevamo appena sentito potevano essere le ultime parole di Madison Tyler. 55 Brenda Fregosi era segretaria della squadra Omicidi da parecchio tempo, e pur avendo solo venticinque anni aveva un forte istinto materno. Mentre parlavo al telefono con Henry Tyler, la vidi scuotere la testa con gran compassione. Quando ebbi finito, mi porse un foglietto. C'era scritto, con la sua grafia appuntita: «Claire vuole che tu vada all'ospedale oggi alle 18». Erano già quasi le sei del pomeriggio.
«Dalla voce come ti è sembrata?» mi informai. «Mi è parso che stesse bene.» «Non ha aggiunto altro?» «No. Mi ha detto esattamente così: 'Brenda, per piacere, dica a Lindsay di venire all'ospedale alle sei. Grazie'.» Ero stata a trovare Claire il giorno prima. Che cosa era successo? Presi la macchina per andare al San Francisco General Hospital con la testa piena di brutti pensieri. Una volta, parlando degli effetti della chimica sull'umore, Claire mi aveva spiegato che è inevitabile, quando si sta bene, non riuscire a immaginare di poter stare male. E, viceversa, quando si è infelici, è impossibile immaginare di rivedere la luce alla fine del tunnel. Guidando con una Altoids in bocca, mi sentivo riecheggiare dentro la testa la voce di una bambina che chiamava: Mamma! A questo si sommava l'istintiva paura degli ospedali che avevo da quando in uno di essi era morta mia madre quindici anni prima. Lasciai la macchina nel parcheggio di Pine Street, pensando a quanto era bello poter parlare con Joe in momenti come quello, quando mi sentivo giù, frustrata da giorni di ricerche che sfociavano invariabilmente in un vicolo cieco. Ricominciai a pensare a Claire non appena entrai in ascensore. Vidi la mia immagine riflessa nelle porte di acciaio inossidabile e tentai invano di aggiustarmi la frangia durante la salita. Poi mi ritrovai tra le luci forti e l'odore di disinfettante del reparto postchirurgico. Non ero la prima ad arrivare: nella stanza di Claire c'erano già Yuki e Cindy, che avevano avvicinato due sedie al letto. La nostra amica era seduta con la schiena appoggiata ai cuscini, una camicia da notte a fiori indosso e un sorriso da Monna Lisa sulle labbra. Le Donne del Club Omicidi in seduta plenaria. Ma perché? «Ciao a tutte» dissi, facendo il giro del letto per distribuire baci sulle guance. «Ti trovo benissimo» dissi poi a Claire ringraziando in cuor mio che non ci avesse convocato per un'emergenza. Sicuramente non avrei retto, nello stato in cui mi trovavo. «Qual è il motivo di questa riunione?» «Non voleva dircelo finché non arrivavi anche tu» spiegò Yuki. «Okay, okay!» esclamò Claire. «Ho una notizia da darvi!» «Sei incinta» suggerì Cindy. Claire scoppiò a ridere. Guardammo tutte Cindy. «Tu sei pazza, cara la mia giornalista» intervenni io. Un bambino era l'ultima cosa di cui Claire aveva bisogno, a quarantatre anni e con due figli
già grandi. «Dacci un indizio. Dicci almeno che genere di novità è» implorò Yuki. «Smettetela, ragazze! Volete rovinare la suspense?» Io, Cindy e Yuki ci voltammo a guardarla contemporaneamente. «Ho fatto le analisi del sangue, e Cindy come al solito ha ragione» disse Claire. «Ah-ah!» esclamò Cindy trionfante. Claire continuò: «Se non fossi finita in ospedale, probabilmente non mi sarei accorta di essere incinta finché non fossero cominciate le contrazioni». A quel punto gridavamo tutte insieme: «Come hai detto?» «Non sarà uno scherzo?» «Di quanti mesi?» «Dall'ecografia risulta che il bambino sta bene» disse Claire tranquilla come un Buddha. «Il mio bambino!» 56 Dovetti andarmene e abbandonare i festeggiamenti perché avevo appuntamento con Tracchio ed ero già in ritardo. Quando entrai nel suo ufficio, il capo stava facendo accomodare su due poltrone di pelle i coniugi Tyler, mentre Jacobi, Conklin e Macklin avvicinavano ognuno una sedia disponendosi intorno alla grossa scrivania del capo come i carri intorno al bivacco nelle carovane del Far West. I Tyler avevano l'aria esausta, come se non dormissero da giorni: erano pallidissimi e con le spalle curve. Immaginavo come dovevano sentirsi in attesa di ascoltare la registrazione della telefonata, sospesi tra speranza e disperazione. Sulla scrivania di Tracchio era pronto un registratore. Allungai un braccio, premetti il tasto PLAY e nella stanza riecheggiò una voce terrificante, malvagia, che si alternava alla mia. Una voce di bambina implorava: «Mamma! Mamma!» Fermai il registratore. Elizabeth Tyler si sporse verso il registratore, poi si voltò, afferrò il braccio del marito, gli nascose il viso sul petto e si mise a singhiozzare. «È la voce di Madison?» domandò Tracchio. Padre e madre annuirono: Sì. Jacobi spiegò: «Il resto della registrazione per voi sarà ancora più inquietante, ma cerchiamo di essere ottimisti: quando è arrivata questa tele-
fonata, vostra figlia era viva». Premetti di nuovo il tasto PLAY e osservai i Tyler mentre il rapitore dichiarava che Madison stava bene, ma che i suoi familiari non l'avrebbero rivista mai più. «Signori Tyler, avete idea del motivo per cui il sequestratore dice che avete 'fatto un grosso errore a chiamare la polizia'?» chiesi. «Assolutamente no» rispose secco Henry Tyler. «Di che cosa hanno paura? Finora non avete trovato niente. Non avete nemmeno un indiziato. Dov'è l'FBI? Perché i federali non fanno niente per ritrovare nostra figlia?» Intervenne Macklin. «L'FBI sta collaborando attivamente alle indagini: ci ha messo a disposizione le sue fonti e i suoi database, ma non si occuperà direttamente delle indagini a meno che non riteniamo che Madison sia stata portata in un altro Stato.» «E voi ditegli che è così!» Jacobi spiegò: «Signor Tyler, vogliamo sapere se avete ricevuto qualche comunicazione dai sequestratori, se vi hanno espressamente diffidato dal chiamare la polizia. Si sono mai messi in contatto con voi?» «No, assolutamente no» rispose Elizabeth Tyler. «Henry? Ti hanno contattato in ufficio?» «No, giuro di no.» Mentre li guardavo, pensai a Paola Ricci e chiesi: «Ci avete detto che Paola Ricci aveva ottime referenze. Chi ve l'aveva raccomandata?» La signora Tyler si sporse in avanti. «Ce l'aveva mandata direttamente l'agenzia.» «Quale agenzia?» chiese Macklin, teso. «Un'agenzia di collocamento che seleziona, sponsorizza e prepara ragazze straniere di buona famiglia» rispose Elizabeth Tyler. «Procurano loro il permesso di soggiorno e il lavoro. Paola aveva ottime referenze, sia in America sia in Italia. Era una bravissima ragazza. Le volevamo tanto bene.» «L'agenzia prende una percentuale anche alle famiglie presso cui impiega le ragazze?» si informò Jacobi. «Sì. Se non sbaglio abbiamo versato diciottomila dollari.» Nel sentire quella cifra rabbrividii ed ebbi un senso di vuoto allo stomaco. «Come si chiama l'agenzia?» dissi. «Westbury. No, mi correggo: si chiama Westwood Registry» rispose Henry Tyler. «Volete contattarla?»
«Sì» rispose Jacobi. «Per piacere, non parlate con nessuno di questa telefonata. Tornate a casa, state vicino al telefono e lasciate che della Westwood Registry ci occupiamo noi.» «Ci andrete personalmente?» «Sì, e la rovesceremo come un calzino.» 57 Cindy parlava al telefono con Yuki e nel frattempo caricava la lavastoviglie. «Mi diverto un sacco con lui» stava dicendo a proposito di Whit Ewing, il bel giornalista del Chicago Tribune che aveva conosciuto circa un mese prima al processo contro il Municipal Hospital. «È quello con gli occhiali, giusto? Quello che per uscire dall'aula ha aperto una delle uscite di sicurezza e ha fatto scattare l'allarme?» chiese Yuki ridacchiando al ricordo della scena. «Sì. È molto autoironico: sostiene di essere il fratello imbranato di Clark Kent.» Cindy rise. «Minaccia di salire su un aereo e venire a San Francisco per portarmi fuori a cena. E sta anche cercando di farsi assegnare il processo Brinkley.» «Un momento, un momento» intervenne Yuki. «Non starai pensando di fare come Lindsay, eh? Voglio dire, Whit abita a Chicago. Chi te lo fa fare di metterti con uno che sta così lontano? Le storie a distanza sono destinate a fallire, prima o poi.» «Be', stavo pensando che è un pezzo che... che non mi diverto un po'.» «Anch'io» sospirò Yuki. «Non solo non mi ricordo quand'è stata l'ultima volta, ma neppure con chi!» Cindy ridacchiò e rimase in attesa mentre Yuki rispondeva a un'altra telefonata. Quando tornò in linea, disse: «Ehi, giornalista, Cane Rosso ha bisogno di me. Devo scappare». «Vai, vai» le rispose Cindy. «Ci vediamo in tribunale.» Cindy riagganciò e avviò la lavastoviglie, quindi si accinse a portare via la spazzatura. Legò il sacchetto, uscì sul pianerottolo e chiamò l'ascensore. Quando lo vide arrivare, controllò che fosse vuoto prima di entrarci. Ripensò a Whit Ewing e a Lindsay e Joe e al fatto che una relazione con un uomo che vive in un'altra città assomiglia molto a un giro sulle montagne russe. Per un po' ti diverti, ma a un certo punto ti viene la nausea.
In quel momento, poi, aveva un motivo in più per desiderare un fidanzato sul posto: vivere in quel palazzo da sola le faceva paura. Premette «meno uno» e il vecchio ascensore scese traballando. Un minuto dopo Cindy si ritrovò nell'umido seminterrato del palazzo. Mentre andava verso i cassonetti condominiali, sentì singhiozzare una donna e piangere un bambino. Cos'era successo? Svoltò un angolo e vide una donna bionda che doveva avere più o meno la sua età con un bambino in braccio. Ai suoi piedi c'era un sacco della spazzatura nero aperto. «Cos'è successo?» chiese. «Il mio cane! Guardi qua!» gridò la donna disperata. Si chinò e allargò l'apertura del sacco perché Cindy vedesse il cagnolino bianco e nero, tutto sporco di sangue. «L'ho lasciato fuori un attimo, giusto il tempo di portare in casa il bambino» spiegò. «Oh, mio Dio! Ho chiamato la polizia perché credevo che me l'avessero portato via, e invece guardi! È stato qualcuno che abita nel palazzo. Uno dei condomini ha ammazzato il povero Barnaby!» 58 Erano le otto e trenta del mercoledì mattina successivo al rapimento di Madison Tyler. Io e Conklin eravamo in macchina, fermi nei pressi di un cantiere all'angolo tra Waverly Place e Clay Street. Con due tazze di caffè fumante in mano, osservavamo il traffico congestionato delle strade strette e cupe di Chinatown, con i furgoni delle consegne parcheggiati in doppia fila e i pedoni che camminavano in mezzo alla strada. Tenevo d'occhio un edificio in particolare, una palazzina di tre piani in mattoni sulla piazza. Al piano terra c'era una farmacia, la Wong's Chinese Apothecary, mentre i due piani superiori erano occupati dalla Westwood Registry. L'istinto mi diceva che in quel posto avremmo trovato almeno in parte risposta ai nostri interrogativi, magari un nesso tra Paola Ricci e il rapimento. Insomma, qualcosa... Alle otto e trentacinque il portone si aprì e uscì una donna che depositò un sacco della spazzatura sul marciapiede. «Andiamo» disse Conklin. Attraversammo la strada e intercettammo la donna prima che sparisse di
nuovo dentro il portone. Le mostrammo il tesserino. Era bianca, magra, sulla trentina, con capelli scuri e lisci lunghi fino alle spalle e un bel viso. Sembrava corrucciata. «Mi aspettavo una visita della polizia» disse con una mano sulla maniglia. «I titolari sono fuori città. Potete tornare venerdì?» «Certo, ma se non le dispiace avremmo qualche domanda da fare anche a lei. Adesso» rispose Conklin sottolineando la parola «adesso». Brenda, la segretaria della squadra Omicidi, è pazza di Conklin e dice che attira le donne come una calamita. È vero: non lo fa apposta, ma ha un fascino naturale e un sex appeal irresistibile. Osservai la giovane donna esitare, guardare Conklin e quindi spalancare il portone. «Sono Mary Jordan» si presentò. «Mi occupo della segreteria, della contabilità, faccio da mamma alle ragazze e tutto il possibile e l'immaginabile, qua dentro. Accomodatevi...» Sorrisi a Conklin mentre seguivamo la signorina Jordan nel suo ufficio, in fondo a un corridoio. Era una stanza piccola, con una scrivania messa di traverso di fronte alla porta. Davanti alla scrivania c'erano due sedie dallo schienale alto e, sulla parete in fondo, una foto in cornice che ritraeva Mary insieme con una decina di ragazze che immaginai fossero le babysitter dell'agenzia. Mi preoccupava che Mary Jordan fosse così in ansia. Mordicchiandosi il labbro inferiore si alzò per spostare una pila di raccoglitori su un mobile, tornò a sedersi, si aggiustò il cinturino dell'orologio e si mise a giocherellare con una matita. Solo a guardarla, mi veniva il mal di mare. «Che cosa pensa del rapimento di Paola Ricci e Madison Tyler?» le chiesi. «Non riesco ancora a crederci» rispose lei, scuotendo la testa. Poi, tutto d'un fiato, ci spiegò che era l'unica dipendente a tempo pieno dell'agenzia, ma che c'erano anche due signore che collaboravano quando c'era bisogno. A parte uno dei due titolari, un cinquantenne di razza bianca, nell'agenzia non c'erano uomini, né minivan neri o di nessun altro colore. I proprietari della Westwood Registry erano Paul e Laura Renfrew, marito e moglie, ci raccontò. Paul era andato a trovare alcuni potenziali clienti a nord di San Francisco e Laura era in Europa per selezionare nuove ragazze. Erano partiti entrambi prima del sequestro. «Sono brave persone» ci assicurò Mary Jordan. «Da quanto tempo li conosce?»
«Ho cominciato a lavorare per loro poco prima che si trasferissero qui da Boston, circa otto mesi fa. L'agenzia non riesce ancora ad andare in pari e adesso, con la morte di Paola e la... la scomparsa di Madison... Purtroppo è cattiva pubblicità per noi» continuò. Le erano venuti gli occhi lucidi. Prese un fazzoletto di carta rosa da una scatola sulla scrivania e se li asciugò. Sporgendomi verso di lei dissi: «Signorina Jordan, c'è qualcosa che la tormenta. Di che cosa si tratta?» «No, no, va tutto bene.» «Non mi pare proprio.» «È solo che ero affezionata a Paola. E sono stata io a mandarla dai Tyler. Io, capisce? Se non gliel'avessi presentata, Paola sarebbe ancora viva!» 59 «Quello è l'appartamento dei Renfrew» disse Mary Jordan mentre ci mostrava il resto degli uffici, indicando una porta in fondo a un corridoio. Era dipinta di verde e chiusa con un lucchetto. «Perché chiudono con il lucchetto?» domandai. «Solo quando sono via tutti e due. Preferisco anch'io che mettano il lucchetto, almeno non devo stare attenta che le ragazze non vadano a curiosare» rispose. Dal piano superiore proveniva un rumore di passi. «Quella è la sala comune» spiegò Mary Jordan continuando il giro. «E lì c'è la sala riunioni. Il dormitorio è di sopra» concluse guardando verso la scala di legno che portava al piano superiore. «Finché non le sistemiamo presso le famiglie, le ragazze alloggiano qui all'agenzia. Anch'io abito di sopra.» «Quante ragazze ci sono?» chiesi. «Quattro. Quando Laura tornerà dall'Europa, probabilmente ne arriveranno altre quattro.» Io e Conklin passammo il resto della mattina nella sala riunioni a interrogare le ragazze, che scesero a turno. Erano tutte europee, tra i diciotto e i ventidue anni, e parlavano inglese bene o molto bene. Nessuna aveva il minimo indizio o sospetto o perplessità sul conto dei Renfrew o di Paola Ricci. «Diceva le preghiere in ginocchio tutte le sere!» ci raccontò una ragazza di nome Luisa. «Era vergine!» Tornammo nell'ufficio di Mary Jordan e le chiedemmo se aveva idea di
chi potesse aver rapito Paola e Madison. La segretaria allargò le braccia. Quando si distrasse per rispondere a una telefonata, Conklin ne approfittò per chiedermi: «Vuoi far saltare quel lucchetto?» «Vuoi rischiare di concludere la tua carriera a far la guardia in un cesso pubblico?» «Potrebbe valerne la pena.» «Tu sei pazzo» ribattei. «Anche se avessimo l'autorizzazione, non credo proprio che Madison Tyler sia qui. Mary Jordan ce l'avrebbe fatto capire, penso.» Decidemmo di andarcene. Eravamo già per le scale, quando Mary Jordan ci chiamò, ci raggiunse di corsa e prese Conklin per un braccio. «Non sapevo neanch'io se raccontarvelo o no. Potrebbe essere solo un pettegolezzo, non essere vero per niente... Non vorrei creare problemi a nessuno» disse. «Non si preoccupi, Mary. Se crede di sapere qualcosa, ce lo dica» la rassicurò Conklin. «Era pochissimo che lavoravo per i Renfrew quando una delle ragazze mi raccontò una cosa e mi fece giurare di non dirla mai a nessuno» ci confidò la segretaria lanciando occhiate ora al portone, ora a Conklin. «Pare che una sua collega fosse scomparsa nel nulla. E non poteva essere andata a lavorare da qualche altra parte, perché il passaporto era in mano ai Renfrew. Senza documenti, quella poveretta non poteva andare da nessuna parte.» «E la scomparsa fu denunciata alla polizia?» «Credo di sì. Sono cose che mi sono state riferite, perché tutto successe prima che arrivassi io. Ma mi risulta che della ragazza scomparsa, Helga Schmidt, non si siano mai più avute notizie.» 60 L'atmosfera all'assemblea di condominio era incandescente quando arrivò Cindy. Nell'atrio erano riunite circa duecento persone che parlavano tutte insieme. L'amministratrice, Fern Galperin, era una signora minuta e graziosa, con occhiali dalla montatura di metallo. «Uno alla volta» gridava nel tentativo di ristabilire l'ordine. «Margery? La prego, finisca quel che ha da dirci.» Cindy riconobbe Margery Glynn, la bionda con cui aveva parlato il giorno prima nel seminterrato, seduta su un divanetto in mezzo ad altre tre
persone. «La polizia mi ha dato un modulo da riempire, ma non ha intenzione di fare nulla per il povero Barnaby!» gridava. «Per me era come uno di famiglia... Mi sento ancora più insicura, adesso che non c'è più. Devo prendere un altro cane o sarà meglio che mi procuri una pistola?» «Sono indignata e preoccupata quanto lei, ma spero che non dica sul serio quando parla di procurarsi una pistola» replicò Fern Galperin. «Qualcun altro desidera intervenire?» Cindy posò la valigetta con il computer e mormorò a una bruna graziosa in piedi accanto al tavolo delle bevande: «Di cosa stanno parlando?» «Ha saputo di Barnaby?» «Sì. Ero nel seminterrato, quando Margery l'ha trovato.» «Brutta storia, eh? Okay, era un rompiscatole, ma da lì ad ammazzarlo... Povera bestia! È una cosa da pazzi. Non siamo mica nel Bronx.» «Erano mai successe cose del genere? Io è poco che abito qui.» «Be', sì. Barnaby non è il primo. Anche il barboncino della signora Neely è stato trovato morto nella tromba delle scale. Povera donna, lei pensava che fosse colpa sua perché aveva dimenticato di chiudere a chiave, e invece...» «Mi pare di capire che c'è qualcuno nel condominio che non ama molto i cani.» «Eh, già» rispose la brunetta. «Ma c'è di più. Circa un mese fa il signor Franks, quel signore gentile che abitava al secondo piano, ha traslocato nel cuore della notte. Da un po' di mesi si trovava infilate sotto la porta delle lettere minatorie.» «Lettere minatorie?» «Sì. Minacce di morte. Roba da non credere!» «Perché non ha chiamato la polizia?» «Credo che l'abbia fatto, ma le lettere erano anonime: la polizia ha fatto un minimo di indagini e poi ha lasciato perdere. Come al solito.» «Immagino che anche il signor Franks avesse un cane.» «No, aveva uno stereo. A proposito, io mi chiamo Debbie Green e abito al 2F» disse la brunetta sorridendo e stringendole la mano. «Cindy Thomas. 3B.» «Piacere di conoscerla, Cindy. Benvenuta sul set di Nightmare at the Blakely Arms.» Cindy la guardò perplessa. «E lei non ha paura?» «Un po'» rispose Debbie con un sospiro. «Il mio appartamento è bellis-
simo, però, e ho quasi convinto il mio fidanzato a venire a vivere con me.» «Donna fortunata» commentò Cindy voltandosi poi per seguire l'assemblea. L'amministratrice aveva appena dato la parola a un signore anziano e con le spalle curve. «Ci dica, signor Horn.» «Grazie. La situazione è preoccupante: prima le lettere minatorie, poi due cani morti... Secondo me Margery ha ragione: siamo tutti in pericolo! Se la polizia non ci aiuta, dovremmo formare un comitato di vigilanza autogestito...» Si levarono varie voci di protesta e la signora Galperin gridò: «Per favore! Chi vuole intervenire alzi la mano. Tom, ha qualcosa da dire?» Dalla parte opposta della sala rispetto a Cindy si alzò in piedi un trentenne di corporatura esile, con una calvizie incipiente. «L'idea di un comitato di vigilanza autogestito dai condomini mi fa ancora più paura» disse. «Chiunque sia, la persona che sta seminando il panico nel condominio potrebbe entrare a far parte del comitato e a quel punto non avrebbe neppure più bisogno di agire di nascosto. Si potrebbe muovere ovunque apertamente. Non vi sembra spaventoso? Qui al Blakely Arms abitano circa trecentottantacinque persone e più della metà è presente stasera. Abbiamo il cinquanta per cento di probabilità che il nostro terrorista condominiale sia presente in questa sala in questo preciso momento.» 61 Yuki non aveva mai visto Leonard Parisi arrabbiato. Come lasciava intendere il soprannome Cane Rosso, era rosso di capelli, alto, sui cento chili, cordiale e paterno. In quel momento però lanciava occhiate furibonde e batteva il pugno sul tavolo della sala riunioni, facendo sussultare le vaschette ormai vuote del pranzo ordinato al ristorante cinese. I cinque giovani sostituti procuratori riuniti intorno al tavolo avevano tutti l'aria scioccata, a eccezione di David Hale, che aveva avuto il cattivo gusto di definire il caso Brinkley una «passeggiata». «Non esistono passeggiate nel nostro mestiere» sbraitò Parisi. «Anche quella di O.J. Simpson doveva essere una passeggiata!» «Robert Durst» suggerì Yuki. «Giusto» esclamò Parisi guardandoli tutti uno dopo l'altro. «Durst aveva confessato di aver ammazzato il vicino di casa, di averlo fatto a pezzi e buttato in mare, e la giuria lo ha dichiarato 'non colpevole'. Il problema che
avremo con Brinkley è esattamente lo stesso, David. Abbiamo una confessione registrata e tanti di quei testimoni che la metà basta. Abbiamo addirittura un filmato della sparatoria. Ma non sarà una passeggiata.» «Leonard, nel video si vede l'imputato nell'atto di compiere l'omicidio. È una prova ammissibile e, soprattutto, incontestabile.» Parisi sorrise. «Sei cocciuto, David. Buon per te. Avete presente Rodney King?» domandò Parisi allentandosi la cravatta. «Rodney King, un nero in libertà vigilata, si rifiutò di scendere dalla macchina dopo essere stato fermato per eccesso di velocità. Fu fatto scendere a forza e colpito cinquantasei volte da quattro poliziotti bianchi: un pestaggio sanguinoso, violentissimo, che fu filmato dall'inizio alla fine. Ma al processo i poliziotti furono assolti. E così ebbero inizio i disordini razziali a Los Angeles. Nonostante il filmato, quel caso non fu affatto una 'passeggiata'. E forse il motivo è questo: la prima volta che uno vede il pestaggio, resta inorridito. La seconda, si indigna. Ma dopo averlo visto venti volte, non si impressiona più. Tutti coloro che possiedono un televisore in questo Paese hanno visto infinite volte il video in cui Jack Rooney ha ripreso Alfred Brinkley nell'atto di sparare alle vittime del traghetto. A questo punto il filmato ha perso il suo impatto emotivo. Mi seguite? Detto questo, il filmato esiste e noi dovremmo riuscire a vincere la causa. Faremo il possibile per far condannare a morte Brinkley, ma dobbiamo aspettarci di affrontare una difesa molto agguerrita. Barbara Blanco è molto in gamba.» Parisi si appoggiò allo schienale. «E non lo fa per soldi, ma perché crede nel suo cliente. La giuria se ne renderà conto. Insomma, dobbiamo essere pronti a tutto. E con questo concludo la predica di oggi.» Nella sala riunioni scese un silenzio rispettoso: Leonard Parisi era considerato da tutti un'autorità. «Yuki, abbiamo dimenticato qualcosa?» «Direi di no.» «Ti senti pronta?» «Prontissima, Leonard. Non vedo l'ora di cominciare.» «Già, perché tu hai ventotto anni. Io invece ho bisogno di una bella notte di sonno. Io e te ci vediamo qui domani mattina alle sette e mezzo. Per tutti gli altri, l'appuntamento è a domani, dopo l'udienza.» Yuki salutò i colleghi e uscì dalla riunione carica e soddisfatta al pensiero che l'indomani avrebbe fatto da assistente in aula a Leonard Parisi. Nonostante i suoi moniti, era ottimista. Brinkley non era O.J. Simpson, e neanche Robert Durst. Non era una star, non interessava ai media. Poche
settimane prima dormiva per strada con una pistola carica in tasca. E aveva ammazzato quattro perfetti sconosciuti. Non c'era pericolo che la giuria decidesse di lasciarlo tornare a piede libero nelle strade di San Francisco. O sì? PARTE QUARTA Il processo 62 Yuki posò la ventiquattrore vicino a quella di Leonard, sul tavolo davanti al dipartimento 21. Passarono il metal detector e varcarono la prima porta, che conduceva nel vestibolo, e quindi la seconda, da cui si accedeva all'aula. Percorsero il corridoio centrale insieme, Leonard imponente, in gessato blu, e Yuki, alta poco più di un metro e cinquanta per quarantacinque chili di peso, in tailleur grigio perla, e fra il pubblico si alzò un brusio. Leonard aprì il cancelletto che separava lo spazio riservato al pubblico da quello riservato ad avvocati e giudice e lasciò passare Yuki per prima. Poi prese posto al tavolo dell'accusa e cominciò a sistemare le sue carte. Yuki era agitatissima: non c'era più niente da preparare e non sopportava l'attesa. Si aggiustò la giacca, impilò i documenti e guardò l'ora. L'udienza sarebbe dovuta incominciare nel giro di cinque minuti e al tavolo della difesa non c'era ancora nessuno. Si alzò un nuovo brusio. Yuki sollevò la testa e rimase senza fiato. Diede una leggera gomitata a Leonard, che si voltò. Stava arrivando Alfred Brinkley: sbarbato, capelli corti, in giacca e cravatta, sembrava innocuo e mite come un agnellino. Ma non era il nuovo look di Brinkley a turbarla così. Invece di Barbara Blanco accanto all'imputato c'era un uomo sulla quarantina, prematuramente grigio, con un completo antracite di Brioni e una cravatta di Armani sul giallo. Yuki conosceva bene il nuovo avvocato di Alfred Brinkley. Lo conoscevano tutti. «Oh, cazzo!» esclamò Parisi, con un sorrisetto tirato. «Mickey Sherman. Tu lo conosci bene, vero, Yuki?» «Benissimo. Abbiamo difeso assieme una mia amica qualche mese fa.» «Sì, me lo ricordo. La poliziotta accusata di avere il grilletto facile, ve-
ro?» Leonard si tolse gli occhiali e se li pulì nel fazzoletto. «Cosa ho detto ieri sera?» «Che dovevamo essere pronti a tutto.» «A volte mi dispiace avere sempre ragione. Cosa mi sai dire di Sherman, a parte che adora le luci della ribalta?» «È uno che tratteggia il quadro generale e lascia i dettagli agli altri» rispose Yuki. «Rischia di essere un po' approssimativo.» Yuki stava pensando a un articolo che aveva letto in cui si diceva che Mickey Sherman aveva aperto uno studio per conto suo dopo aver lavorato per anni come legale rappresentante della City of San Francisco. Probabilmente si era offerto di difendere Brinkley gratuitamente, per farsi pubblicità. Sarebbe stato un ottimo trampolino di lancio per lo studio Sherman e associati, se avesse vinto. «Be', adesso non avrà più un nutrito staff su cui contare» osservò Parisi. «Dobbiamo approfittare della sua tendenza a essere approssimativo. Ho già intuito che ha un problema.» «Sì» replicò Yuki. «Alfred Brinkley non sembra per niente malato di mente. Il fatto è che anche Sherman se ne rende conto, Leonard.» 63 Quando il giudice Norman Moore salì in cattedra, con la bandiera degli Stati Uniti da una parte e quella della California dall'altra, Yuki si mise sull'attenti. Il giudice sistemò davanti a sé il portatile e un thermos di caffè e le duecento persone presenti in aula si sedettero. L'udienza era iniziata. Moore era noto per essere giusto e imparziale, con la tendenza a lasciare agli avvocati un po' troppa mano libera prima di abbassare il martelletto. Passò un quarto d'ora a istruire la giuria prima di rivolgere gli occhi azzurri verso Leonard Parisi. «L'accusa è pronta?» «Sì, vostro onore.» Leonard si alzò in piedi, si allacciò il bottone di mezzo della giacca, si avvicinò al banco della giuria e salutò i giurati. Era davvero imponente, grande, grosso, con le spalle larghe, i capelli crespi rossi e la pelle ruvida e segnata dall'acne. Aveva la presenza scenica di un grande caratterista, tipo Rod Steiger o Gene Hackman.
Nessuno riusciva a staccare gli occhi da lui. «Signore e signori, quando siete stati scelti per far parte di questa giuria, avete detto tutti di aver visto il filmato che il signor Rooney girò a bordo del Del Norte e di sentirvi in grado di mantenere un atteggiamento equanime rispetto all'innocenza o alla colpevolezza dell'imputato. Vi siete inoltre impegnati a giudicare il signor Brinkley sulla base di ciò che sarebbe stato dimostrato nel corso di questo processo. Pertanto, desidero ricapitolare tutti gli eventi accaduti il primo novembre a bordo di quel traghetto, per rinfrescarvi la memoria.» E cominciò: «Era una bellissima giornata per una gita in mare. Quindici gradi, il sole che andava e veniva. Ma molti turisti portavano i pantaloni corti, perché San Francisco è in California, giusto?» Risate fra il pubblico. Parisi cominciava a scaldarsi. «Quella bellissima giornata finì in tragedia, tuttavia, perché a bordo del traghetto c'era l'imputato, Alfred Brinkley. Era senza un soldo, ma aveva trovato un biglietto per terra e aveva deciso di fare la sua bella gita. In tasca aveva una pistola carica, un revolver con sei colpi nel caricatore. Tutto andò liscio fino a Larkspur, ma durante il viaggio di ritorno, quando ormai il battello stava per attraccare a San Francisco, il signor Brinkley vide Andreina Canello discutere con il figlioletto Tony, un bel bambino di nove anni. Per motivi che solo lui può conoscere, tirò fuori la pistola e le sparò. La poveretta, che aveva solo trentadue anni, morì immediatamente, sotto gli occhi del piccolo Tony, che rivolse lo sguardo terrorizzato verso l'assassino della madre. Che cosa fece allora Alfred Brinkley? Sparò anche a lui, che era armato soltanto di un cono gelato, frequentava le scuole elementari e non vedeva l'ora che arrivassero la festa del Ringraziamento e il Natale per ricevere la mountain bike che tanto desiderava. Sarebbe cresciuto, sarebbe diventato un uomo. Ma il signor Brinkley glielo ha impedito. Il piccolo Tony Canello è morto in ospedale poche ore più tardi.» Dalle facce desolate dei giurati Parisi capì di averli commossi. Una donna con i capelli rosso fuoco si morse il labbro, con le lacrime agli occhi. Parisi si interruppe, rispettoso, e lasciò che si riprendesse. 64 Intervenne il giudice Moore, rivolgendosi ai sei uomini e alle sei donne della giuria. «Volete fare una pausa? Va bene, allora continui pure, avvocato Parisi.» «Grazie, vostro onore» rispose Leonard. Lanciò un'occhiata verso il ta-
volo della difesa e vide che Mickey Sherman bisbigliava qualcosa nell'orecchio del suo cliente, dandogli le spalle. Con quel gesto, voleva comunicare a Parisi che la sua arringa non lo stava minimamente preoccupando. Era una mossa giusta: avrebbe fatto la stessa cosa anche lui. «Dicevamo che il Del Norte stava attraccando, quando il signor Brinkley sparò ad Andreina e Tony Canello. Le operazioni di manovra erano parecchio rumorose e i due spari si confusero nel frastuono. Ma alcune persone capirono che cosa era successo. Il signor Per Conrad era sul traghetto per motivi di lavoro. Faceva il macchinista, infatti, e gli mancavano soltanto due anni alla pensione. Era anche molto legato alla sua famiglia, moglie e quattro splendidi figli. Vide Brinkley con la pistola in mano e Andreina e Tony Canello riversi sul ponte in un lago di sangue. Avanzò per disarmare Brinkley, ma questi prese la mira e gli sparò in mezzo agli occhi.» Parisi continuò: «Il signor Lester Ng lavorava in una compagnia di assicurazioni di Larkspur ed era in trasferta a San Francisco. Ex pilota dell'aeronautica militare, anche lui era padre di famiglia. E anche lui cercò di disarmare Brinkley, che gli sparò alla testa. L'ultima cosa che vide, nella sua vita, fu la canna del suo revolver. Stiamo parlando di due uomini che hanno perso la vita per salvare altre persone, stiamo parlando di due eroi. Ma il signor Brinkley non aveva ancora finito». Parisi si avvicinò al banco dei giurati, posò le mani sulla balaustra e li guardò uno per uno. «Accanto al signor Brinkley c'era una figura di spicco nella nostra città, la dottoressa Claire Washburn, direttrice dell'Istituto di medicina legale di San Francisco. La dottoressa Washburn, benché terrorizzata, ebbe la presenza di spirito di dire al signor Brinkley di consegnarle la pistola. Costui, per tutta risposta, le sparò in pieno petto. E quando il figlio di lei, Willie Washburn, corse in suo aiuto, sparò anche a lui. Per fortuna proprio in quel momento il traghetto urtò contro il molo e il sesto e ultimo proiettile nell'arma di Brinkley finì nel vuoto. Siccome questa volta Brinkley sbagliò la mira, la dottoressa Washburn e suo figlio non perirono. E così la direttrice dell'Istituto di medicina legale potrà testimoniare in questo processo.» Parisi si interruppe, lasciando che tutto l'orrore del suo racconto si imprimesse bene nella mente dei giurati. «I fatti che vi ho appena esposto non sono in questione» proseguì quindi. «Non sussistono dubbi sul fatto che il signor Brinkley abbia ucciso quattro persone a lui sconosciute e tentato di ucciderne altre due, senza distinzione di sesso, età o razza. E senza motivo. Il signor Jack Rooney, che sarà
chiamato a deporre in questo processo, riprese tutta la scena. Vi mostreremo il filmato. Il signor Brinkley ha confessato di aver commesso questa strage e anche la sua confessione è stata ripresa e verrà proiettata in quest'aula. Non c'è bisogno di prove del DNA, analisi di impronte digitali o di altri esami e test normalmente utilizzati dalla Scientifica perché, in questo caso, non c'è bisogno di scoprire l'assassino. Sappiamo già chi è stato a uccidere queste persone. L'assassino è qui, di fronte a noi.» Parisi indicò l'imputato. Brinkley, vestito di blu, aveva il capo chino e le spalle curve, ma teneva lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé. Sembrava sedato, al punto che Parisi si chiese se avesse capito che cosa aveva appena detto. «La difesa cercherà di convincervi che il signor Brinkley è psicotico, incapace di intendere e di volere e quindi non è responsabile delle proprie azioni» proseguì Parisi, tornando verso il tavolo dell'accusa. «I periti della difesa probabilmente diranno che non va punito, ma curato. Non c'è problema. Abbiamo fior di medici anche nel braccio della morte. Il fatto che una persona compia gesti insensati non la autorizza a sfuggire alla legge. E non significa che non capisca che uccidere è sbagliato.» Dopo un istante, riprese: «Signore e signori, Alfred Brinkley portò a bordo di quel traghetto un'arma carica, la puntò contro le sue vittime con l'intenzione di ucciderle e tolse la vita a quattro di esse. Poi fuggì. Perché Alfred Brinkley sapeva che ciò che aveva fatto era sbagliato. Noi vi dimostreremo che era capace sia di intendere sia di volere, quando uccise quattro persone e tentò di ammazzarne altre due. E vi chiederemo di dichiararlo colpevole di tutti i capi di imputazione. Grazie per l'attenzione. Mi dispiace se vi ho fatto piangere, ma questa che vi ho raccontato purtroppo è una tragedia». 65 Yuki guardò Mickey Sherman alzarsi in piedi e attraversare l'aula calmo e sicuro di sé. Si presentò ai giurati e ne catturò sin dall'inizio l'attenzione con la sua disinvoltura e il suo fascino. «Signore e signori, tutto ciò che il procuratore ha detto è vero» esordì. Yuki pensò che era molto coraggioso a cominciare con una dichiarazione del genere: non aveva mai sentito la controparte prendere una simile posizione in tutta la sua vita.
«Sapete tutti che cosa accadde a bordo del Del Norte il primo novembre scorso» disse poi. «Il signor Brinkley portò a bordo del traghetto un'arma carica e sparò contro sei persone senza pensare alle conseguenze per loro e per sé. Era circondato da duecento persone, alcune delle quali assistettero alla sparatoria. Brinkley non gettò via il revolver, una volta sceso dal battello. Non cercò di liberarsi delle prove. Non stiamo parlando del delitto perfetto. Solo una persona malata di mente può compiere azioni simili e comportarsi in questo modo. Dunque ciò che è successo non è un mistero. Quello che dobbiamo capire in questa sede è perché successe. Il signor Brinkley non era capace di intendere e di volere, non capì che cosa stava facendo alle persone cui sparò. Giacché siete stati chiamati a esprimere il vostro parere sulle condizioni mentali dell'imputato, vale la pena che chiariamo il concetto di infermità mentale. «La questione è questa: Brinkley capiva che era sbagliato fare quello che stava facendo, ossia sparare? Se non era in grado di capirlo, a causa di una malattia mentale o di un parziale stato di ottenebramento al momento della sparatoria, allora va considerato incapace di intendere e di volere.» Mickey Sherman si interruppe, controllò i propri appunti e riprese a parlare con un tono che Yuki da una parte ammirava e dall'altra temeva. Era suadente, diretto, come se confidasse nel fatto che i giurati non avessero bisogno di alcuna teatralità, perché il suo ragionamento non era soltanto credibile, ma anche vero. «Al signor Brinkley è stato diagnosticato un disturbo schizoaffettivo» disse alla giuria. «È una malattia, come il cancro o il diabete. Una malattia invalidante, che ha basi genetiche e che nel suo caso si è aggravata a causa dei traumi subiti nell'infanzia. Brinkley non ha fatto nulla per meritarsi questa malattia, ma ne soffre. Sarebbe potuto capitare a me o a chiunque di voi. Quale malattia è peggiore di un cervello che si rivolta contro di noi e ci costringe a pensare e agire in maniera contraria al nostro carattere, alla nostra natura? Voglio chiarire sin d'ora che proviamo tutti grande pietà per le vittime di questa tragedia. Se solo ci fosse un modo per poter tornare indietro, se Alfred Brinkley potesse prendere una magica medicina capace di impedirgli di fare ciò che fece quel mattino, lo farebbe immediatamente. Se fosse stato cosciente della propria patologia, si sarebbe fatto curare. Ma Alfred Brinkley non sapeva perché si sentiva a quel modo. La sua vita è stata un vero e proprio inferno.» 66
Mickey Sherman era carico, consapevole di essersi preparato molto bene e incoraggiato dalla fiducia che aveva nel proprio assistito. Brinkley, pover'uomo, si stava svegliando solo ora alla realtà, dopo quindici anni di lento e progressivo scompenso, a mano a mano che la malattia progrediva. Ed era una realtà estremamente triste: era imputato in un processo per omicidio e rischiava la condanna a morte, imbottito di antipsicotici. Una vera tragedia. «Il signor Brinkley sentiva delle voci» continuò Sherman, camminando avanti e indietro di fronte al banco della giuria. «Non le vocine che tutti noi sentiamo nel nostro cuore, il monologo interiore che ci aiuta a prendere decisioni, a scrivere un discorso o a trovare le chiavi della macchina. No, le voci che sentiva Alfred Brinkley erano direttive, intrusive, prepotenti. E crudeli. Queste voci lo tormentavano, non gli davano requie. Lo insultavano, lo istigavano a uccidere. Quando guardava la televisione, era convinto che i personaggi dei telefilm o i giornalisti dei notiziari parlassero direttamente con lui e lo accusassero di crimini orrendi. E che gli dicessero che cosa doveva fare. Dopo aver lottato per anni contro tali demoni, alla fine non poté che ubbidire a queste voci tanto imperiose. Signore e signori, quando sparò, la mattina del primo novembre, Alfred Brinkley non era a contatto con la realtà. Non sapeva che stava sparando a persone in carne e ossa. Per lui, erano uguali identiche alle dolorose allucinazioni che lo tormentavano. Dopo, davanti ai notiziari, vedendo se stesso con la pistola in pugno, si rese conto di ciò che aveva fatto e, oppresso dal rimorso e dal senso di colpa, oltre che dall'odio per se stesso, si costituì. Andò alla polizia di propria spontanea volontà. Rinunciò ai propri diritti e rese una confessione. Perché dopo aver commesso il crimine, la parte sana del suo cervello gli permise di comprendere tutto l'orrore di quelle azioni. Questo dovrebbe farvi capire che cosa c'è nella psiche di quest'uomo. L'accusa vuole farvi credere che la decisione più difficile che dovrete prendere nel corso di questo processo è scegliere il portavoce della giuria. Ma non avete ancora ascoltato tutta la storia. I testimoni che conoscono Brinkley e gli psichiatri che lo hanno visitato vi spiegheranno che cosa ha dentro, in quale stato mentale è adesso e in quale si trovava al momento della sparatoria. Quando avrete ascoltato tutte le deposizioni, sono certo che dichiarerete Alfred Brinkley non colpevole, in quanto incapace di intendere e di volere al momento del reato. Perché la verità è che Alfred Brinkley è un brav'uomo, afflitto da una malattia terribile, che altera la sua capacità di giudizio.»
67 Alle sei e mezzo di quel pomeriggio, Yuki e Leonard Parisi erano nella grande sala del LuLu, un ex magazzino trasformato in ristorante, poco distante dal tribunale. Yuki si sentiva in forma, era contenta di assistere Cane Rosso e sicura di vincere il processo. Mentre mangiava il pollo arrosto e Leonard addentava la sua pizza ai gamberi, parlarono dell'udienza di quel giorno, cercando di immaginare i possibili problemi e ostacoli futuri. Leonard le riempì di nuovo il bicchiere del costoso Merlot che avevano ordinato e propose un brindisi: «Alla squadra del Cane Rosso». Yuki rise e bevve un sorso. Poi, mentre il cameriere portava via i piatti vuoti, ripose le carte nella borsa di pelle. Il suo lavoro non le era mai parso così bello. Dal grande forno di mattoni in fondo alla sala proveniva un gradevole odore di fuoco di legna e il ristorante stava cominciando a riempirsi di gente e di risate. «Caffè?» propose Leonard. «Certamente» rispose Yuki. «Quasi quasi, mi lascerei tentare anche dai profiterole.» «Buona idea.» Leonard si voltò per chiamare la cameriera e, di colpo, cambiò espressione. Bianco come un cencio, si portò una mano al petto, poi fece per alzarsi, appoggiandosi allo schienale della sedia, ma stramazzò per terra. Yuki sentì rovesciare un vassoio, un fragore di piatti rotti e un grido. Si rese conto di essere stata lei a lanciarlo. Si alzò subito in piedi e si accucciò accanto a Leonard, che gemeva, dondolandosi da una parte e dall'altra. «Leonard! Leonard! Dove hai male?» Lui mormorò qualcosa che Yuki non capì. Intanto tutto intorno a loro si stava formando una piccola folla. «Riesci a muovere le braccia, Leonard?» «Al petto» sussurrò. «Chiama mia moglie.» «Lo porto io all'ospedale» intervenne un uomo alle spalle di Yuki. «Ho la macchina proprio qua davanti.» «Grazie, ma non vorrei ci volesse troppo tempo.» «L'ospedale è a dieci minuti di...»
«La prego, non insista. Penso sia meglio chiamare un'ambulanza attrezzata.» Prese la borsa e la svuotò per terra per trovare il cellulare più in fretta. Si vedeva già bloccata nel traffico e poi costretta ad aspettare tre ore che i medici del pronto soccorso lo visitassero: quel signore era stato molto gentile a offrirsi di accompagnarli all'ospedale, ma era decisamente meglio chiamare l'ambulanza. Aveva già commesso quell'errore una volta, con suo padre. Tenendo la mano di Leonard, chiamò il 911. Quando finalmente sentì la voce del centralinista, parlò in modo chiaro, sottolineando l'urgenza dell'intervento. «È un'emergenza. Mandate subito un'ambulanza al ristorante LuLu, 816 Folsom Street. Temo si tratti di un attacco cardiaco.» 68 Stavo valutando con Conklin alcune segnalazioni telefoniche relative al caso Tyler-Ricci, quando entrò Jacobi e ci disse: «Che facce! Mi sa che avete bisogno di una boccata d'aria, voi due». Un quarto d'ora dopo parcheggiammo davanti a un palazzo all'angolo di Third e Townsend Street. C'erano già tre volanti, due camion dei vigili del fuoco e il furgone del medico legale. «Strano: conosco questo posto» dissi a Conklin. «Ci abita una mia amica, Cindy.» Provai a chiamarla, ma il suo cellulare dava occupato. Non rispondeva neanche sul fisso. Guardai se la vedevo, ma non la riconobbi fra la folla di condomini sul marciapiede, che parlavano con gli agenti e alzavano la testa verso la facciata del Blakely Arms e una finestra spalancata al quinto piano. Cindy abitava al terzo. Tirai un sospiro di sollievo. Ma durò pochissimo: qualcuno, in quel palazzo, era morto prematuramente. Il portinaio, un uomo di mezz'età con la fronte sfuggente e i capelli grigi e crespi che gli spuntavano da sotto il cappello, passeggiava nervoso davanti al portone. Sembrava un ex figlio dei fiori, un tantino sbiadito. Ci disse che si chiamava Joseph Boyd, ma che lo chiamavano tutti Pinky. Lavorava lì da tre anni. «La signorina Portia Fox, dell'appartamento 5K, ha sentito odore di gas e mi ha chiamato mezz'ora fa» ci spiegò. «Sì, mezz'ora fa» ribadì, guar-
dando l'orologio. «E lei ha chiamato i vigili del fuoco?» «Sì. Cinque minuti dopo erano qui.» «Dov'è la signorina Fox?» «Sarà qui fuori. Abbiamo fatto evacuare tutti quelli del quinto piano. Io l'ho vista... la signora Wolkowski. Che impressione, vedere morta una persona che si conosce, eh?» «Sa se qualcuno le voleva male?» chiese Conklin. «No, anche se era un po' una rompiscatole. Si lamentava che le mettevano la posta sbagliata nella cassetta, protestava appena vedeva un graffio su una mattonella, roba così. Ma era una brava donna, poveretta.» «Lei è stato qui tutto il giorno, signor Boyd?» «Sì, dalle otto di stamattina.» «C'è un impianto a circuito chiuso nel palazzo?» domandai. «No, solo il videocitofono.» «Cosa c'è nel seminterrato?» «La lavanderia, i bidoni della spazzatura, una toilette e la porta che dà sul cortile.» «Chiusa a chiave?» chiese Conklin. «Allarmata?» «Lo era, ma dopo i lavori di ristrutturazione è diventata un'area condominiale e quindi tutti hanno la chiave.» «Okay. Dunque l'accesso da sotto non è protetto» commentai. «Lei ha notato niente o nessuno di sospetto, oggi?» La risata di Boyd era quasi isterica. «Mi chiede se ho notato tipi sospetti oggi? È il primo giorno che non ne vedo da un mese a questa parte.» 69 L'agente in divisa davanti alla porta dell'appartamento 5J era giovane. Si chiamava Matt Hartnett, era alto e assomigliava un po' a Jimmy Smits. Aveva la faccia sudata ed era pallidissimo. «La vittima si chiamava Irene Wolkowski» disse, porgendomi il registro. «L'ultima volta è stata vista nella lavanderia verso le undici di stamattina. Il marito non è ancora tornato dal lavoro e non siamo riusciti a contattarlo. I miei colleghi stanno raccogliendo le testimonianze dei vicini, giù in strada.» Annuii e aggiunsi sul registro il nome mio e di Conklin, poi passammo sotto il nastro giallo e nero che era stato teso davanti all'ingresso ed en-
trammo nell'appartamento, dove il medico legale e i tecnici della Scientifica erano già al lavoro. C'era una terribile puzza di gas. Le finestre erano spalancate per fare corrente e faceva più freddo che fuori. La vittima era per terra, supina, braccia e gambe larghe, in una posa che la faceva sembrare indifesa, sia nei confronti di chi l'aveva aggredita sia nei confronti dei tecnici che adesso indagavano sulla sua morte. Dimostrava una sessantina di anni. Dietro la testa, sulla moquette grigia c'era una macchia di sangue che si allargava in corrispondenza della gamba di un pianoforte. Che era a pezzi. Quel che restava della tastiera era tutto imbrattato di sangue. Molti tasti erano rotti, come se qualcuno li avesse presi a martellate, e sparpagliati sul pavimento. Il dottor Germaniuk aveva sistemato le luci in maniera da illuminare ogni angolo della stanza, che aveva un'aria vissuta e nello stesso tempo sembrava essere stata arredata di recente: intorno a una gamba del divano c'era ancora un brandello di cellophane. Germaniuk mi salutò, si aggiustò gli occhiali sul naso con il palmo della mano e mise via la macchina fotografica. «Che cosa abbiamo?» gli chiesi. «Niente, a parte il pianoforte distrutto e i rubinetti del gas tutti aperti al massimo» mi rispose. «Molto interessante.» Era tutto in ordine, e questo voleva dire che il delitto era stato progettato con cura e che l'assassino sapeva ciò che faceva. «Trauma cranico, frontale e posteriore» disse il dottor G. «Ho l'impressione che siano stati procurati con due oggetti diversi. Uno è sicuramente il piano. Vi saprò dire di più dopo averle fatto l'autopsia. Ma, per ora, posso anticiparvi questo: non c'è rigor mortis, è ancora tiepida e il livor sta iniziando appena adesso. Perciò direi che è morta da non più di due ore. Abbiamo mancato l'assassino per poco.» 70 Sentii la voce di Cindy sulla porta e andai sul pianerottolo. Le gettai le braccia al collo. «Sto bene, sto bene» mormorò. «Ho appena ricevuto i tuoi messaggi.»
«Conoscevi la signora Wolkowski?» «Non mi pare. Non di nome. Fammela vedere.» L'appartamento era sotto sequestro e Cindy lo sapeva, ma in certe cose era insistente. Vidi la luce battagliera e cocciuta nei suoi occhi e capii che non sarei riuscita a dissuaderla. «Stai da una parte e non toccare niente.» «Lo so. Tranquilla.» «Se qualcuno obietta, vai via subito. E giurami che non scriverai niente riguardo alla causa della morte.» «Giuro» rispose lei. Le indicai un angolo della stanza e Cindy vi si diresse. Nel vedere la morta per terra, sbiancò. Data la ressa di persone nell'appartamento 5J, nessuno le disse niente. «È Cindy, quella?» mi chiese Conklin indicandola con la testa. «Sì. Possiamo fidarci.» «Se lo dici tu.» Gliela presentai, mentre i tecnici avvolgevano il cadavere in alcuni teli e lo mettevano dentro un sacco mortuario. Parlammo di cosa potesse essere successo, investiti dalla corrente fredda che entrava dalle finestre. Dissi a Conklin: «Supponiamo che conoscesse l'assassino, che sia uno che vive nel palazzo. Le suona alla porta e le dice: 'Salve, Irene. Scusi se la interrompo. Bella musica'». «Okay. Però potrebbe anche essere stato il marito» ribatté Conklin. «È rientrato presto, l'ha fatta fuori ed è scappato. Oppure un amico, un amante. Persino un perfetto sconosciuto.» «Tu dici? Io non vedo come potrebbe essere stato uno sconosciuto» osservò Cindy. «Io non lascio entrare in casa gli sconosciuti. Voi?» «D'accordo» fece Conklin. «Ma supponiamo che lei stesse suonando il piano e che la musica abbia coperto il rumore della porta che si apriva. Sulla moquette i passi non si sentono.» «Okay» dissi io. «Quella è la sua borsa?» domandò Cindy. C'era una borsa lucida, nera, su una seggiola. La aprii, presi il portafoglio e mostrai a Conklin una mazzetta di banconote da venti dollari e una serie di carte di credito. «Escludiamo la rapina» conclusi. «C'ero anch'io, quando è stato trovato uno di quei cani» intervenne Cindy.
Rich scosse la testa e i capelli gli dondolarono sugli occhi. «Che sia un'escalation, opera dello stesso psicopatico? Dire che ha infierito è poco: l'ha massacrata di botte, ha spaccato il pianoforte: che bisogno c'era di aprire anche il gas?» «O voleva che la ritrovassimo in tempi brevi, oppure voleva essere sicuro che morisse» risposi. Guardai Cindy. «Di queste cose sul Chronicle non deve uscire niente.» 71 Yuki non riusciva a non pensare alla faccia che aveva fatto Leonard Parisi quando gli era venuto l'attacco cardiaco, alla sua smorfia di dolore. Lo aveva lasciato in ospedale, la sera prima, stabile ma ancora in gravi condizioni e aveva chiamato a casa David Hale, trovando la segreteria telefonica. «C'è stato un problema. Ci vediamo nel mio studio domani mattina alle sei. Preparati a venire con me in tribunale.» Adesso era lì con lui, nella spartana sala riunioni rivestita di legno di pino, con una tazza di caffè istantaneo e gli appunti sul tavolo. Non c'era molto tempo per aggiornare il collega sulla situazione. «Perché non chiediamo un rinvio?» domandò lui. Era presentabile, quella mattina, in giacca di tweed, calzoni blu e cravatta a righe. Avrebbe avuto bisogno di andare dal parrucchiere, ma non c'era tempo. Di tutti i colleghi che Yuki avrebbe potuto chiamare con così poco preavviso, Hale era il migliore. «Per tre motivi» gli rispose, battendo il cucchiaino di plastica sul tavolo. «Uno: Leonard non vuole perdere la deposizione di Jack Rooney, che è in precarie condizioni di salute. Era a San Francisco in vacanza, quando c'è stata la sparatoria. Non è detto che torni, se ci sarà un rinvio, e senza la sua testimonianza il giudice non ammetterà il filmato come prova.» «Capisco.» «Due: Leonard non vuole perdere il giudice Moore.» «Sì, capisco anche questo.» «Sostiene che si riprenderà e tornerà in aula per tenere l'arringa finale.» «Ti ha detto questo?» «Sì, un attimo prima che lo portassero in sala operatoria. Era lucido. E sicuro di sé.» «E i medici che cosa dicono?» «Che c'è la possibilità che i danni al cuore non siano irreversibili.»
«L'intervento è stato a cuore aperto?» «Sì. Ho parlato con la moglie di Leonard. Pare che il decorso postoperatorio sia buono.» «E lui pensa di tornare in aula nel giro di una decina di giorni?» «Non credo. Così come non credo che ballerà più la tarantella» replicò Yuki. «Ma non ti ho ancora detto il terzo motivo. Leonard dice che sono preparata quanto lui e che si fida di noi. Ci prega di non deluderlo, anzi.» David Hale la guardò a bocca aperta. Dopo un po', disse: «Yuki, io non ho nessuna esperienza!» «Ma io sì. Pluriennale.» «Da civilista, però, non da penalista.» «Per favore, David. L'importante è che io abbia preso parte a un certo numero di processi. Cercheremo di dimostrarci all'altezza, okay? Forza, abbiamo tre ore per rivedere tutto quanto. Possiamo contare su testimoni credibili, sul filmato di Rooney e su una giuria che sembra poco propensa a dichiarare l'imputato incapace di intendere e di volere. La posizione di Leonard era questa: quanto più la giuria si convincerà che il raptus è stato improvviso e immotivato, tanto più spaventata sarà all'idea che Brinkley vada in un centro di salute mentale da cui rischia di essere dimesso dopo poco tempo per poter ricominciare a...» Yuki si interruppe, nel vedere il sorriso di David. «A cosa pensi? No, lascia perdere. Non me lo dire» fece Yuki, cercando di non scoppiare a ridere. «Caso aperto e subito richiuso» disse lui. «Sarà una passeggiata.» 72 Yuki si sentiva inesperta come la prima volta che era entrata in un'aula di tribunale. Stringeva nervosamente il leggio e pensava che, quando al suo posto c'era Leonard, sembrava molto più basso. Davanti a lei, invece, pareva enorme. I giurati la guardavano, in attesa che cominciasse. Sarebbe riuscita a convincerli che Alfred Brinkley era colpevole di un reato punibile con la pena di morte? Chiamò a deporre il primo teste, l'agente Bobby Cohen, un uomo pragmatico e diretto che lavorava nel dipartimento di polizia di San Francisco da quindici anni. Gli fece spiegare che cosa aveva visto salendo a bordo del Del Norte e
che cosa aveva fatto. Quando ebbe finito, lasciò la parola a Mickey Sherman, il quale aveva una sola domanda per l'agente Cohen. «Lei assistette alla sparatoria?» «No.» «Grazie. È tutto.» Yuki pensò che, sebbene non avesse visto con i propri occhi che cosa era successo, Cohen era comunque stato utile all'accusa, in quanto aveva descritto ai giurati un quadro di devastazione sul quale lei avrebbe potuto costruire il proprio castello accusatorio. Chiamò a deporre Bernard Stringer, il vigile del fuoco che aveva visto Brinkley sparare ad Andreina e Tony Canello. Stringer si avvicinò al banco dei testimoni con passo pesante e prestò giuramento prima di prendere posto. Aveva meno di trent'anni e un viso aperto, da bravo ragazzo americano. Yuki gli chiese: «Signor Stringer, che lavoro fa?» «Lavoro nella stazione dei vigili del fuoco numero 14, all'angolo fra Twentysixth Avenue e Geary Boulevard.» «Perché era a bordo del Del Norte il primo novembre scorso?» «Sono separato e tengo i figli un weekend sì e uno no» rispose, con un sorriso. «Ai bambini piace molto andare in battello.» «Accadde qualcosa di particolare a bordo, quel giorno?» «Sì, assistetti alla sparatoria sul ponte superiore.» «L'autore della sparatoria è qui in aula, oggi?» gli domandò Yuki. «Sì.» «Può indicarcelo?» «È l'uomo vestito di blu seduto lì davanti.» «Si metta a verbale che il signor Stringer indica l'imputato, Alfred Brinkley, per favore. A che distanza era da Andreina Canello e da suo figlio Anthony, quando il signor Brinkley sparò?» «Più o meno alla stessa distanza che c'è fra me e lei in questo momento: un metro e mezzo, due metri.» «Può raccontarci che cosa vide?» Stringer fece una piccola smorfia, ripensando a quella tragica scena. «La signora Canello stava sgridando il figlio. Un po' troppo severamente, pensai. Non mi fraintenda, non fu violenta, però ebbi l'impressione che il bambino ci rimanesse male, al punto che meditai di intervenire io stesso. Non ne ebbi il tempo, tuttavia, perché l'imputato le sparò. Poi sparò anche al bambino. E di lì iniziò il pandemonio.»
«Il signor Brinkley disse qualcosa alle vittime, prima di sparare?» «No. Si limitò a prendere la mira e a sparare. Con grande freddezza.» Yuki lasciò che le parole di Bernard Stringer aleggiassero nell'aula ancora un momento, poi disse: «Quando parla di freddezza, che cosa intende dire esattamente?» «Intendo dire che Brinkley aveva un'espressione gelida.» «Grazie, signor Stringer. La parola alla difesa» concluse Yuki. 73 Yuki guardò Mickey Sherman avvicinarsi al testimone con le mani in tasca. Il suo sorriso pareva abbastanza sincero, ma quando i suoi modi erano così dimessi, spesso voleva dire che stava per sferrare un attacco a sorpresa. Yuki aveva lavorato a stretto contatto con lui e lo conosceva bene. Sapeva, per esempio, che prima di avventarsi alla gola del teste spesso si posava l'indice della mano destra sul labbro superiore. «Signor Stringer, la signora Canello o il piccolo Tony fecero qualcosa per provocare il mio assistito?» domandò. «No. La mia impressione è che non lo avessero nemmeno notato.» «Ha detto che il mio assistito aveva l'aria calma, quando sparò. Giusto?» «In generale, sembrava un po' strano, ma quando premette il grilletto aveva un'espressione gelida, lo sguardo spento. E la mano fermissima.» «Oggi le sembra come quel giorno a bordo del Del Norte?» «No.» «Perché le sembra diverso?» Stringer sospirò e si guardò le mani, prima di rispondere: «Aveva un'aria più scarmigliata, i capelli lunghi, la barba incolta. Aveva i vestiti sporchi, puzzava». «Dunque era più scarmigliato. Aveva lo sguardo spento e puzzava. Lei l'ha visto sparare a due persone che non avevano fatto nulla per provocarlo, che non lo avevano neppure notato.» «Esatto.» Indice della mano destra sul labbro. «Dunque Alfred Brinkley, secondo lei, aveva l'aria del pazzo e si comportò da pazzo.» Yuki scattò in piedi. «Obiezione, vostro onore. L'avvocato Sherman sta cercando di influenzare il teste.»
«Accolta.» Sherman riprese a parlare con lo stesso tono pacato. «Signor Stringer, Brinkley le diede l'impressione di essere un uomo sano di mente?» «No. Mi sembrò matto come un cavallo.» «Grazie» fece Sherman. Yuki avrebbe voluto chiedere che le parole «pazzo» e «matto come un cavallo» venissero cancellate dal verbale, ma si ritrovò invece a chiedere che venisse ammesso il teste successivo, Jack Rooney. 74 Jack Rooney raggiunse la sua postazione con grande fatica appoggiandosi alla stampella: aveva la gamba destra paralizzata. L'usciere lo aiutò a sedersi, sorreggendolo per un braccio. Yuki pensava che almeno quel teste sarebbe stato al riparo dagli attacchi di Sherman, ma non ne era del tutto sicura. «Grazie di essere venuto» disse all'anziano signore, non appena si fu sistemato. Rooney indossava una camicia bianca e un cardigan rosso con papillon dello stesso colore. Aveva i grossi occhiali squadrati sul naso bitorzoluto e i capelli bianchi pettinati con la riga nel mezzo e appiattiti, come uno scolaretto il primo giorno di scuola. «L'ho fatto volentieri» rispose sorridendo. «Signor Rooney, lei era a bordo del Del Norte il primo novembre scorso?» «Sì. Ero con mia moglie Betty e due nostri amici, Leslie e Joe Waters. Abitiamo tutti dalle parti di Albany, nello Stato di New York, ed era la prima volta che venivamo a San Francisco.» «Accadde qualcosa a bordo del traghetto?» «Altroché. Quel signore fece una strage» disse, indicando Brinkley. «Rischiai di farmela sotto dalla paura.» Yuki si concesse un mezzo sorriso, mentre fra il pubblico si alzarono sonore risate. Disse: «Chiedo che venga messo a verbale che il teste ha indicato l'imputato, Alfred Brinkley. Signor Rooney, lei riprese la scena?» «Volevo filmare la nostra gita, il Golden Gate Bridge, Alcatraz e compagnia bella, e invece ho ripreso la sparatoria. Mi ero portato la videocamera che mi ha regalato mio nipote» rispose, tenendo pollice e indice a pochi centimetri di distanza. «È grande come una tavoletta di cioccolato,
ma fa sia foto sia video. Io riprendo e poi mio nipote scarica tutto sul computer e me lo mette a posto. Ho venduto il filmino a una rete televisiva e con i soldi che mi hanno dato ho recuperato quelli del viaggio.» «Vostro onore?» disse Mickey Sherman dal tavolo della difesa. Il giudice Moore si sporse verso il teste e disse: «Signor Rooney, la prego di rispondere alle domande che le vengono rivolte con un semplice 'sì' o 'no', a meno che non le venga chiesta una spiegazione più estesa. Va bene?» «Va bene. Scusate, ma è la prima volta, per me...» «Non si preoccupi.» Yuki giunse le mani e chiese: «Lei mi fornì una copia del suo filmato, vero?» «Sì.» «Chiedo che venga mostrato e ammesso come prova.» «Proceda pure, procuratore.» David Hale infilò un CD nel computer e fece partire il video amatoriale. Tutti si voltarono verso i due grandi schermi in fondo all'aula. Il primo pezzo mostrava momenti sereni nella baia, vedute panoramiche, i coniugi Rooney sorridenti e uno sfocato Alfred Brinkley seduto lì accanto, che guardava il mare e si strappava i peli dell'avambraccio. Il secondo pezzo pareva la scena di un film dell'orrore. Yuki osservò le facce dei giurati mentre sullo schermo si susseguivano gli spari e le grida. Si vedeva benissimo la faccia scioccata del bambino un attimo prima che venisse colpito anche lui e crollasse sul ponte addosso alla madre già morta. Yuki aveva già visto molte volte quelle immagini, ma gli spari continuavano a farle balzare il cuore in gola. Cane Rosso aveva torto: i giurati non ci avevano fatto il callo. E comunque vedere quelle immagini in aula era molto diverso che guardarle in TV a casa propria. Avevano l'assassino a pochi metri di distanza. Alcuni si coprirono la bocca con la mano o abbassarono gli occhi. Almeno una volta, si girarono tutti a guardare Brinkley. L'imputato non incrociò i loro sguardi, tuttavia. Immobile al suo posto, si osservava compiere una strage. «Non ho domande» disse Mickey Sherman, voltandosi poi per conferire sottovoce con il suo assistito.
Il giudice disse: «Grazie, signor Rooney. Può andare». Yuki aspettò che il teste fosse tornato faticosamente al suo posto per annunciare il testimone successivo, la dottoressa Claire Washburn. 75 Claire si sentiva addosso lo sguardo di tutti, mentre andava a prendere posto al banco dei testimoni. Era ancora convalescente e sperava di finire presto e tornarsene a letto. Poi vide Yuki, la luce appassionata dei suoi occhi di ventottenne, spaventata ma determinata a non darlo a vedere, e sorrise, lasciandosi cadere affaticata sulla sedia. Posò la mano sulla Bibbia che l'usciere le porgeva per farle prestare giuramento e quindi si sistemò gli abiti, ormai troppo larghi per lei, visto che aveva perso quasi sette chili in tre settimane. «La dieta della sparatoria», la chiamava. «Grazie di essere venuta, dottoressa Washburn. È stata dimessa dall'ospedale soltanto pochi giorni fa, vero?» «Sì.» «Vuole spiegare alla giuria come mai era ricoverata in ospedale?» «Mi hanno sparato.» «La persona che le ha sparato è qui presente, dottoressa?» «Sì, è il delinquente seduto lì.» Sherman non si alzò dalla sedia, ma disse semplicemente: «Obiezione. Il teste non può riferirsi in questi termini al mio cliente». «Dottoressa Washburn, la prego di evitare gli appellativi.» «Mi scuso. È che sono molto provata.» Guardò Brinkley. «Mi scusi anche lei, non avrei dovuto darle del delinquente.» Il brusio in aula e fra i giurati crebbe al punto che il giudice dovette ricorrere al martelletto e ammonire tutti quanti, compresa Claire. «Per favore, basta! Non siamo a Comedy Central e se la cosa si ripeterà ordinerò che l'udienza prosegua a porte chiuse. Procuratore, la prego di esortare la sua teste a esprimersi in maniera diversa. Sarebbe stato compito suo istruirla.» «Chiedo scusa, vostro onore.» Si schiarì la voce e riprese: «Dottoressa Washburn, che tipo di ferite ha riportato in seguito alla sparatoria?» «Il proiettile calibro 38 mi ha perforato il torace, facendo collassare un polmone. Ho rischiato di morire.»
«Dev'essere stata un'esperienza spaventosa, oltre che dolorosa.» «Sì. Moltissimo.» «La giuria ha visto le riprese della sparatoria» continuò Yuki pacatamente. «Può dirci che cosa disse lei all'imputato prima che le sparasse?» «Dissi: 'Okay, figliolo. Basta così. Ora dammi la pistola'.» «E poi che cosa successe?» «Lui borbottò qualcosa a proposito del fatto che era colpa mia e che avrei dovuto fermarlo. Dopo, ricordo soltanto i paramedici che mi portavano via.» «Lei dunque cercò di impedirgli di sparare ad altre persone.» «Sì.» «Vide altre persone cercare di fermarlo?» «Sì. Ma lui ci sparava addosso. Ho visto la materia cerebrale del signor Ng schizzare sul ponte proprio davanti a me.» «Grazie, dottoressa Washburn» concluse Yuki. 76 Mickey Sherman conosceva Claire Washburn da molti anni, la stimava grandemente ed era felice che fosse sopravvissuta alla strage sul Del Norte. Ma sapeva che era molto pericolosa per il suo assistito. «Dottoressa Washburn, che lavoro svolge?» «Dirigo l'Istituto di medicina legale di San Francisco.» «A differenza del coroner, dunque, lei è medico. Dico bene?» «Sì.» «Fece l'internato in reparti diversi della clinica universitaria, o in uno soltanto?» «In diversi.» «Fra questi, c'era anche psichiatria?» «Sì.» «I pazienti del reparto avevano lo sguardo spento, secondo lei?» «Obiezione, vostro onore. La domanda è irrilevante» protestò Yuki. «Respinta. La teste può rispondere.» «Non ricordo i pazienti allora ricoverati nel reparto psichiatrico, avvocato. Posso dirle che i miei attuali pazienti hanno tutti lo sguardo spento.» «Va bene» replicò Sherman sorridendo. Passeggiò davanti ai giurati con le mani in tasca per un momento, poi si voltò verso Claire e le chiese:
«Be', dottoressa, lei ha avuto modo di osservare il signor Brinkley, giusto?» «'Osservare' è una parola grossa.» «Ha avuto o no occasione di osservare il signor Brinkley, dottoressa?» «Be', l'ho visto sul traghetto e ce l'ho davanti ora, avvocato.» «Parliamo di ciò che accadde sul traghetto. Lei ha dichiarato sotto giuramento che il mio assistito disse che era colpa sua e che avrebbe dovuto fermarlo.» «Vero.» «È colpa sua, dottoressa, se ci fu la sparatoria?» «No.» «Che cosa intendeva dire Alfred Brinkley, allora?» «Non lo so proprio.» «Le parve lucido, in sé, capace di discernere fra il bene e il male?» «Non le so dire. Non sono psichiatra.» «Pensa che abbia cercato deliberatamente di ucciderla, dottoressa?» «Sì, direi di sì.» «Vi conoscevate?» «No.» «L'ha provocato, spingendolo in qualche modo a sparare?» «Al contrario.» «Dunque definirebbe quello di Brinkley un atto casuale e totalmente privo di fondamento.» «Più o meno.» «Più o meno? Non vi eravate mai visti prima, le disse parole senza alcun senso, lo vide sparare a quattro persone e poi a lei. Mi pare proprio che esista un termine per definire questo tipo di comportamento, ed è 'patologico'.» «Obiezione, vostro onore» protestò Yuki. «Questa è la domanda cui la giuria è chiamata a rispondere.» «Accolta.» Yuki si risedette e Mickey la vide guardare prima i giurati e poi la teste, e poi di nuovo i giurati, e capì che era agitata. «Il signor Brinkley le parve sano di mente, dottoressa Washburn?» «No.» «Grazie. Non ho altre domande.» «Procuratore Castellano, vuole aggiungere qualcosa?» domandò il giudice.
«Sì, vostro onore.» Yuki si alzò in piedi e si avvicinò a Claire. Mickey notò che era accigliata e teneva le braccia e le mani volutamente ferme: si stava sforzando di non gesticolare come era sua abitudine. «Dottoressa Washburn» esordì. «Lei sa che cosa pensava Alfred Brinkley quando le sparò?» «Assolutamente no» rispose Claire con enfasi. «Secondo lei, quando Brinkley le sparò, si rendeva conto di fare una cosa sbagliata? Sapeva che non avrebbe dovuto farlo?» «Sì, secondo me lo sapeva.» «Grazie, dottoressa. Non ho altro da chiederle.» Mentre il giudice congedava Claire Washburn, Sherman si chinò a dire qualcosa nell'orecchio del suo assistito, proteggendosi con una mano. «È andata abbastanza bene, vero, Fred?» Brinkley annuì come un bambolotto. L'avevano imbottito di farmaci, poveraccio. Mickey sentì che veniva chiamata a deporre il sergente Lindsay Boxer. 77 Avevo appena passato una nottataccia sul divano di Cindy, svegliandomi ogni due o tre ore per andare a controllare gli spazi comuni del condominio. Avevo controllato le uscite di emergenza, le scale, il tetto e il seminterrato senza trovare nulla, a parte una vecchia signora che faceva il bucato alle due del mattino. Verso l'alba, avevo fatto un salto a casa per cambiarmi e mi ero recata in tribunale. Quando l'usciere mi chiamò per nome convocandomi in aula, sentii salire l'adrenalina. Entrai, presi posto al banco dei testimoni e prestai giuramento. Yuki mi salutò con grande formalità e mi rivolse alcune domande introduttive sulle mie qualifiche professionali, quindi mi chiese: «Lei conosce l'uomo che ha confessato di essere l'autore della strage a bordo del Del Norte?» Dissi di sì e indicai l'essere spregevole seduto vicino a Mickey Sherman. Sembrava completamente diverso dal Brinkley che avevo visto l'ultima volta. Più in carne, sguardo più tranquillo, capelli e barba in ordine, dimostrava come minimo sei anni di meno, rispetto a quando aveva reso la sua confessione. Mi parve spaventoso che avesse un'aria tanto dimessa e innocua.
Yuki si girò sui tacchi e, guardandomi in faccia, mi domandò: «Lei rimase sorpresa quando l'imputato le suonò alla porta di casa?» «Rimasi stupefatta, per la verità, ma quando mi chiamò dalla strada e mi chiese di scendere di sotto e di arrestarlo, non me lo feci ripetere due volte.» «Che cosa fece?» «Lo disarmai, lo ammanettai e chiamai rinforzi. Poi, con il tenente Warren Jacobi, lo accompagnai in centrale, dove venne schedato e interrogato.» «Gli lesse i suoi diritti?» «Certamente. Una volta davanti al portone di casa mia e poi di nuovo in centrale.» «Ebbe l'impressione che la capisse, quando parlava?» «Sì. Lo sottoposi a un piccolo test per accertarmi che sapesse come si chiamava, dov'era e che cosa aveva fatto. Rinunciò per iscritto ai suoi diritti e mi disse che era stato lui a sparare a bordo del Del Norte.» «Le parve sano di mente?» «Sì. Era agitato e scarmigliato, ma io e il tenente Jacobi lo trovammo lucido e in sé. Quindi, sano di mente.» «Grazie, sergente Boxer» disse Yuki. «La parola alla difesa.» Gli occhi dei giurati si voltarono tutti verso il legale accanto all'imputato, che si alzò, si allacciò il bottone di mezzo della giacca antracite e mi rivolse un sorriso smagliante. «Buongiorno, Lindsay.» 78 Quando, alcuni mesi prima, ero stata accusata di uso improprio della forza nell'esercizio delle mie funzioni, Mickey Sherman mi aveva aiutato molto, suggerendomi come impostare la mia testimonianza al processo e persino che cosa indossare e che tono di voce usare. Mi era stato molto vicino. Se non fosse stato per lui, a quell'ora sicuramente non sarei più stata in polizia. Provai un moto di gratitudine per quell'uomo, che un tempo avevo visto come un salvatore, ma sapevo di dover erigere una barriera fra me e lui e, per riuscirci, mi costrinsi a pensare alle vittime di Brinkley. Tony, morto a nove anni in ospedale. Claire, ferita, che mi teneva la mano e mi chiedeva
notizie di suo figlio, temendo di non farcela. Sherman stava difendendo colui che aveva causato tutto quel dolore. «Sergente Boxer» cominciò. «È raro che un assassino vada a cercare a casa un rappresentante delle forze dell'ordine per costituirsi, dico bene?» «Sì, è raro.» «Alfred Brinkley voleva confessare a lei e a lei soltanto, giusto?» «Così disse.» «Lei lo conosceva?» «No.» «Perché allora Brinkley scelse proprio lei?» «Mi disse che mi aveva visto in televisione. Aveva sentito il mio appello a chiunque avesse informazioni sulla strage del traghetto. E aveva pensato di dover venire da me.» «Come aveva fatto a trovarla?» «Mi spiegò che era andato in biblioteca e aveva cercato il mio indirizzo su Internet.» «Lei ha dichiarato di averlo disarmato. Gli prese la pistola, non è vero?» «Sì.» «La stessa con cui aveva sparato a bordo del Del Norte?» «Sì.» «E il signor Brinkley aveva con sé una confessione scritta, giusto?» «Sì.» «Bene, vediamo di mettere un po' di ordine in tutto questo» disse Mickey Sherman. «Il mio assistito sentì il suo appello in televisione e lo interpretò come una richiesta fatta a lui personalmente. Pertanto cercò un computer, si collegò a Internet per scoprire dove abitava e le si presentò a casa come se stesse ubbidendo a una sua precisa richiesta. Portando con sé la pistola con cui aveva ucciso quattro persone.» «Obiezione!» saltò su Yuki. «Troppe argomentazioni.» «Vada al punto, avvocato Sherman.» «Subito, vostro onore.» Mickey mi si avvicinò e mi rivolse un'occhiata che diceva: fidati di me. «Ci arrivo subito. Sergente, non concorda con me sul fatto che conservare l'arma del delitto e portarla a casa di un poliziotto non è soltanto un comportamento insolito per un assassino, ma decisamente privo di coerenza?» «È insolito, sì.» «Lei chiese al signor Brinkley perché aveva ucciso quelle persone, ser-
gente?» «Sì.» «Cosa le rispose?» Mi sarebbe tanto piaciuto poter evitare di rispondere ma, naturalmente, ero obbligata a farlo. «Mi disse che aveva sparato perché glielo avevano ordinato delle voci.» «Voci che sentiva dentro la sua testa?» «Così io interpretai la sua affermazione.» Mickey mi sorrise soddisfatto. «È tutto, grazie.» 79 Yuki si sedette di fronte a me a un tavolino di MacBain's, vicino alla porta. Aveva l'aria preoccupatissima e sembrava molto arrabbiata con se stessa. «Avrei dovuto riprendere la parola» mi disse, dopo aver ordinato. Il locale era pieno di avvocati, poliziotti e dipendenti della Corte di Giustizia. Yuki dovette alzare il volume per via del forte vociare. «Avrei dovuto chiederti che cosa hai pensato, quando Brinkley ti ha detto delle voci.» «Non importa che cosa pensavo io, Yuki.» «Sì, invece.» Si passò una mano fra i capelli. «Sergente Boxer, che cosa pensò quando il signor Brinkley le disse che sentiva voci che gli ordinavano di uccidere?» Mi strinsi nelle spalle. «Dai, Lindsay. Mi avresti risposto che la prima cosa che ti era venuta in mente era che si stesse preparando a farsi dichiarare infermo di mente per non finire in galera.» «Yuki, non si può controllare tutto quanto. Stai facendo un ottimo lavoro, credimi.» Yuki sbuffò. «Mickey riesce a trasformare tutto il negativo in positivo. 'Il mio assistito non aveva motivo di uccidere? Vuol dire che è pazzo.'» «Non ha altro in mano, però. Senti, Brinkley sembrava lucido e in sé e io questo l'ho detto. Non penso che i giurati crederanno alla storia delle voci.» «Non lo so.» Yuki stava facendo a pezzi il tovagliolino di carta. «Mi chiedo che cosa disse a Marcia Clark la sua migliore amica appena prima che la giuria dichiarasse O.J. Simpson non colpevole. 'Non ti preoccupare, Marcia. Nessuno darà peso a quel guanto', probabilmente.»
Mi appoggiai allo schienale perché nel frattempo era arrivata Syd con i nostri hamburger e patatine. «Sai che quando ho visto Mickey assediato dai giornalisti sulle scale del tribunale mi ha fatto schifo? E pensare che l'estate scorsa apprezzavamo tanto la sua abilità nei rapporti con la stampa!» Lei non sorrise neppure. «Yuki» le dissi, prendendole la mano. «Stai lavorando benissimo, hai la situazione in pugno e, soprattutto, sei convincente!» «Okay, okay, ora la smetto di lamentarmi» rispose. «Grazie della testimonianza. E grazie dell'aiuto morale.» «Mi fai un favore?» «Dimmi.» «Assumi un po' di calorie e abbi più fiducia in te stessa.» Yuki prese in mano il panino con l'hamburger e lo posò di nuovo senza nemmeno assaggiarlo. «Sai cosa penso, Lindsay? Che ho sbagliato. E in questo genere di processi non si può sbagliare. Nemmeno una volta. Ho paura che perderemo.» 80 «Ha appena chiamato Macklin» mi disse Jacobi non appena tornai in ufficio dopo pranzo. Insieme con Conklin lo seguimmo nella sua stanza e lui ci raccontò: «Tre ore fa hanno rapito un altro bambino, a Los Angeles. Pare fosse un piccolo genio della matematica». Non mi sedetti neppure. Cominciai subito con le domande. Il bambino era stato caricato su un minivan nero? Erano stati trovati indizi o prove materiali sul luogo del sequestro? Numero di targa, descrizione del veicolo? Qualcuno aveva parlato con i genitori? Erano stati contattati dai rapitori? Insomma, c'erano analogie con il sequestro di Madison Tyler? «Boxer, datti una calmata» mi rispose lui, buttando un avanzo di cheeseburger nel cestino della spazzatura. «Adesso ti dico tutto quello che so.» «Parla, allora» replicai, ridendo. Mi sedetti e appoggiai i gomiti sul tavolo, pronta ad ascoltare il suo resoconto. «I genitori erano in casa e il bambino stava giocando nel giardino sul retro» cominciò. «La madre ha sentito una brusca frenata. Era al telefono, ha guardato dalla finestra e ha visto un minivan nero sparire dietro l'angolo a forte velocità. Lì per lì non ci ha dato peso. Qualche minuto dopo è andata
a cercare il figlio in giardino e si è accorta che non c'era più.» «Era passato nel giardino davanti alla casa?» chiese Conklin. «È possibile, perché il cancello era aperto. Potrebbe averlo aperto lui, visto che è un piccolo genio, oppure potrebbe essere stato qualcun altro. Il dipartimento di polizia di Los Angeles ha diramato un allarme giallo, ma il padre ha voluto chiamare addirittura i federali.» Jacobi mi porse un fax su carta intestata dell'FBI. Nel secondo foglio c'era la foto di un bambino bellissimo: occhi rotondi, fossette sulle guance, faccino adorabile. «Si chiama Charles Ray e ha sei anni. La polizia ha esaminato i segni lasciati dagli pneumatici davanti alla casa dei Ray e ha stabilito che sono di un minivan Honda ultimo modello. Con tutto ciò, non è detto che il veicolo sia coinvolto nel sequestro. Sul cancello non sono state rilevate impronte utili.» «Il bambino aveva una baby-sitter?» chiesi. «Sì. Briana Kearney. Era dal dentista, quando il bambino è stato rapito. L'alibi è stato controllato, ed è vero. È una faccenda complessa, Boxer. Non possiamo escludere che i rapitori siano gli stessi di Madison Tyler, ma non possiamo neanche darlo per scontato.» «Dovremmo parlare con i genitori» disse Conklin. «Riuscirei a fermarvi, anche volendo?» replicò Jacobi. «Siete due cani da combattimento, voi due.» Ci passò altri due fogli: aveva acquistato due posti su un volo per Los Angeles, con relativo ritorno. «Sentite, finché non abbiamo prove contrarie, tratteremo il caso come se fosse legato al sequestro Tyler. Dunque risponderete al tenente Macklin. Mi raccomando, tenetemi informato.» Guardò l'ora. «Sono le due e un quarto. Sarete a Los Angeles per le quattro.» 81 Nella strada in cui si trovava la villetta dei Ray erano parcheggiate alcune auto della polizia. Le case erano tutte molto simili, una vicino all'altra. Sul marciapiede c'erano diversi agenti, che ci salutarono non appena mostrammo loro il tesserino. «Quella è la casa della famiglia» ci disse uno di essi. Venne ad aprirci Eileen Ray. Bianca, sui trent'anni, alta circa un metro e settanta, doveva essere all'ottavo mese di gravidanza e aveva un'aria molto
fragile. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo e gli occhi rossi e gonfi. Mi presentai e lei ci invitò a entrare. Un tecnico dell'FBI stava piazzando una microspia nel telefono. «La polizia si sta comportando in maniera meravigliosa» disse la signora Ray. «Vi siamo molto grati.» Ci indicò un divano e una poltrona. Il salotto era pieno di mobiletti, cestini, gabbie per uccelli decorati a stencil e mazzi di fiori secchi. Vicino al tavolo della cucina c'era una pila di scatole di cartone piegate. L'aria profumava di lavanda. Sembrava di essere in un negozio di souvenir. «Lavoriamo a casa» disse la signora Ray, rispondendo alla mia domanda inespressa. «Vendiamo le nostre creazioni su eBay.» «Dov'è suo marito?» chiese Conklin. «Scott e un agente dell'FBI sono andati a fare un giro di perlustrazione in macchina, assieme a Briana» rispose. «Sperando di trovare Charlie che vaga sperduto per qualche strada della città.» Alzando il tono di voce, continuò: «Chissà che paura si è preso, povero Charlie! Mio Dio, che cosa starà passando... Chi me l'ha portato via? E perché?» Io e Conklin non sapevamo che cosa risponderle. Le facemmo invece un po' di domande: sui suoi movimenti, sul rapporto con il marito, sul motivo per cui il cancello era aperto. Le chiedemmo anche se qualcuno - parente, amico o sconosciuto - avesse manifestato un interesse esagerato nei confronti di Charlie. Ma lei non ci disse nulla di particolarmente illuminante. Tormentava fra le mani un fazzoletto, quando il marito Scott rientrò accompagnato dall'agente dell'FBI e dalla baby-sitter, che era giovanissima, con la faccia da bambina. Io e Conklin ci separammo. Conklin interrogò Scott nella camera di Charlie e io parlai con Briana in cucina. Era americana di seconda generazione, abitava nei paraggi e teneva Charlie qualche ora al giorno. A differenza delle ragazze alla pari iscritte alla Westwood Registry, Briana era una baby-sitter occasionale. Piangeva e singhiozzava. Le feci mille domande sulla sua vita, sui suoi amici e sul suo ragazzo, e mi accertai che nessuno le avesse mai chiesto informazioni sui Ray e sulle loro abitudini. Alla fine, io e Conklin chiudemmo i nostri taccuini e ci congedammo. Mentre andavamo via, vedemmo accendersi le candele elettriche alle finestre.
«La baby-sitter non c'entra, secondo me» dichiarai. «Anche il padre mi è sembrato a posto» disse Conklin. «Mi sa tanto che questo che carica i bambini sul minivan nero è un pedofilo.» «Già. È fin troppo facile rapire un bambino. Basta dirgli: 'Ehi, vuoi vedere il mio cucciolotto?' Il bambino si avvicina, tu lo prendi, lo carichi in macchina e te ne vai senza che ti veda nessuno, senza lasciare un indizio.» Dopo un attimo, aggiunsi: «E i genitori restano lì ad aspettare una telefonata che non arriva mai». 82 Il piccolo Charlie Ray mancava da casa da più di sette ore e i rapitori non si erano ancora messi in contatto con la famiglia. I Ray, a differenza dei Tyler, appartenevano a una fascia sociale che normalmente non viene presa di mira da chi intende chiedere un riscatto. E questo rendeva la cosa ancora più preoccupante. Nell'ufficio del capitano Jimenez, l'agente FBI David Stanford ci spiegò la situazione. Era un uomo con il codino grigio e gli occhi azzurri, che era stato dirottato su quel caso da un'operazione sotto copertura. Presi un volantino dalla scrivania del capitano e osservai Charlie Ray: occhi tondi, dentini da latte, ricci scuri tagliati corti. Lo avremmo ritrovato cadavere in una discarica, o restituito dal mare dopo una burrasca? Finita la riunione, chiamai Macklin e lo aggiornai. Poi l'agente Stanford si offrì di accompagnare me e Conklin all'aeroporto. Imboccando l'uscita dell'autostrada, Stanford ci propose di andare a bere qualcosa insieme al bar del Marriott, in attesa del nostro volo. Voleva che gli spiegassimo bene la storia di Madison Tyler. Personalmente, pensavo che un bicchiere fosse proprio quello di cui avevo bisogno. Magari anche due. Nel bar ristorante Latitude 33, davanti a una birra e una ciotola di arachidi, raccontammo a Stanford del sequestro Tyler e lui ci parlò di un terribile episodio sul quale aveva indagato alcuni mesi prima. Una ragazzina di dieci anni era stata rapita mentre tornava a piedi da scuola. L'avevano ritrovata ventiquattr'ore dopo: era stata violentata, strangolata e lasciata sull'altare di una chiesa con le mani giunte come in preghiera. L'assassino non era mai stato identificato. «Quanti sequestri di bambini si concludono con un lieto fine?» gli chie-
si. «Nella maggior parte dei casi, il sequestratore è un parente e allora è più facile che i bambini tornino a casa sani e salvi. Se a portarli via sono degli sconosciuti, invece, direi che vengono liberati nel cinquanta per cento dei casi.» Con voce tesa, Stanford aggiunse poi: «Chiamatela passione, oppure ossessione, ma io sono convinto che, quanti più pedofili riesco a sbattere in galera, tanto migliore renderò il mondo per i miei tre figli». 83 «Non volete mangiare qualcosa con me?» ci propose Stanford. Il cameriere gli portò il menu e, avendo già perso il volo delle otto, decidemmo di restare a fargli compagnia. L'agente federale ordinò una bottiglia di pinot grigio e io e Conklin gli spiegammo i particolari dell'assassinio di Paola Ricci. «Sinceramente, temo che siamo a un punto morto» dissi a Stanford. «Finiamo in un vicolo cieco dopo l'altro.» Arrivarono le bistecche e Stanford ordinò un'altra bottiglia di vino. Per la prima volta da quella mattina mi rilassai, godendomi la compagnia e la possibilità di fare un po' di brainstorming con il sottofondo musicale di un complesso country-and-western che suonava dal vivo. Mi faceva piacere anche sentire le lunghe gambe di Conklin accanto alle mie sotto il tavolo, la sua giacca di camoscio marrone che ogni tanto mi sfiorava il braccio e il ritmo cadenzato della sua voce ormai familiare. Si stava facendo tardi, e il vino mi riscaldava piacevolmente. Erano le nove passate quando Stanford pagò il conto e ci salutò, promettendo di tenerci aggiornati e di riferirci qualsiasi informazione utile per il caso Tyler-Ricci. Avevamo perso anche il volo successivo e dovevamo prepararci ad aspettare un'ora al gate. Eravamo quasi fuori della porta del bar quando il complesso attaccò un brano di Kenny Chesney e la vocalist iniziò a esortare gli avventori a lanciarsi nelle danze. Il bar era pieno di hostess, steward e piloti, che accolsero entusiasti l'invito. Rich mi sorrise. «Vogliamo cimentarci anche noi?» Sorrisi e risposi: «Perché no?» Lo seguii e cominciammo a ballare, urtando contro sconosciuti un po' brilli e facendoci un sacco di risate.
Era un pezzo che non mi divertivo così, stavo benissimo. Quando il brano finì, la cantante prese il microfono, si passò la lingua sulle labbra e attaccò Lyin' Eyes, accompagnata dalle tastiere. Alcune coppie cominciarono a ballare. Quando Rich allargò le braccia per invitarmi a danzare il lento con lui, accettai subito. Mio Dio, era bellissimo stare fra le sue braccia... Siccome mi girava la testa, chiusi gli occhi e mi aggrappai a lui, sempre più vicina perché la pista era affollatissima. Mi misi addirittura in punta di piedi per potergli posare la testa sulla spalla, con il risultato che lui mi strinse ancora di più. Quando la canzone finì, mi sussurrò: «Io non ho nessuna voglia di prendere quell'aereo. E tu?» Ricordo che gli risposi che eravamo andati lì per lavoro, avevamo avuto una giornata molto lunga e bevuto un po' troppo, per cui avevamo tutti i diritti di fermarci a Los Angeles a spese del dipartimento. E quando porsi la carta di credito al concierge del Marriott, mi dissi che non dovevo preoccuparmi: me ne sarei andata subito in camera mia e mi sarei fatta una bella dormita. Nient'altro. In ascensore, io e Rich ci tenemmo a una certa distanza per tutti i dieci piani di salita. Mi dispiaceva ammetterlo, ma stavo meglio fra le sue braccia. Quando uscimmo dall'ascensore, dissi: «Buonanotte, Rich». Gli voltai le spalle e infilai la tessera nella serratura magnetica, consapevole del fatto che anche lui stava aprendo la porta della sua stanza. «Ci vediamo domani mattina, Lindsay.» «Okay. Dormi bene.» La lucina verde si accese e la maniglia cedette sotto la mia mano. 84 Chiusi la porta, tirai il chiavistello e mi lasciai andare alle emozioni, un misto di desiderio e dispiacere, sollievo e rimpianto. Mi spogliai e mi gettai sotto la doccia caldissima. Pulita e con la pelle arrossata, mi asciugai e accesi il phon. Poi tolsi la condensa allo specchio e mi osservai, nuda. Ero ancora bella e desiderabile, pensai. Avevo il seno abbastanza sodo, la pancia piatta e i capelli chiari lunghi fino alle spalle. Perché Joe non mi aveva chiamato?
Mi infilai l'accappatoio dell'albergo, tornai nella camera da letto e controllai se avevo messaggi sul cellulare o a casa. Zero. Erano sei giorni che non vedevo né sentivo Joe. Possibile che fosse davvero finita tra noi? Non l'avrei rivisto mai più? Perché non mi aveva più cercato? Tirai le tende, piegai la trapunta e sprimacciai i cuscini. Con la testa che mi girava un po' per il vino che avevo bevuto e la doccia bollente, mi sdraiai. Chiusi gli occhi e mi resi conto che, invece di pensare a Joe, il cui ricordo stava cominciando a svanire, mi venivano in mente fantasie ben più vicine a me. Ripensavo a quando, mezz'ora prima, avevo ballato quel lento con Rich. Mi sembrava di rivivere i momenti in cui da bello era diventato troppo bello e, stretta a lui, mi ero accorta che era eccitato. Era normale provare certe emozioni, mi dissi. Sia io sia lui eravamo esseri umani e stavamo reagendo in maniera assolutamente naturale al fatto di essere soli... Sentii bussare lievemente alla porta e mi balzò il cuore in gola. Quando il suono si fece più insistente, mi resi conto che avevo il battito a mille. 85 Mi strinsi nell'accappatoio e andai alla porta a piedi nudi. Guardai dallo spioncino e vidi che era Rich Conklin. Con la cuffia della doccia sulla testa! Gli aprii ridendo, un po' tremebonda. Aveva i calzoni, la camicia mezza sbottonata e impugnava lo spazzolino da denti dell'albergo come fosse una bandiera bianca. «Hai del dentifricio, Lindsay? Nel mio bagno ci sono campioni di tutti i tipi di creme, ma niente dentifricio.» La sua espressione seria, insieme con la cuffia di plastica e con quella richiesta assurda, mi fece morire. Spalancai la porta e dissi: «Neanch'io l'ho trovato, fra i campioncini nella stanza. Vedo se ho qualcosa nella mia borsa». La porta si richiuse alle mie spalle e, mentre mi chinavo a prendere la borsa che avevo lasciato per terra, inciampai in una scarpa. Rich mi afferrò per un braccio perché non cadessi e... ci ritrovammo lì,
vicini, con la testa che ci girava, soli in una stanza d'albergo di Los Angeles. Gli tolsi la cuffia da doccia, lasciando che i capelli gli ricadessero sul bel viso. Lui lasciò andare lo spazzolino, mi posò le mani sui fianchi e mi attirò a sé. «Ho un unico problema a lavorare con te» sussurrò. «Ma è un problema grosso.» Si chinò per baciarmi. Lo desideravo anch'io e gli posai le mani sulle spalle. La sua bocca trovò la mia e ci baciammo. Mi sentivo sciogliere. Stringendomi a sé, Rich mi fece sdraiare sul letto, nella penombra. Ricordo di averlo sentito sopra di me, le sue dita intrecciate alle mie, la sua voce che mormorava il mio nome. «Era tanto che lo desideravo, Lindsay. Da prima che tu sapessi come mi chiamavo.» «È un sacco di tempo che so come ti chiami.» Avevo una gran voglia di lui e pensavo di avere tutti i diritti di assecondarla, ma quando il mio giovane e bel collega mi aprì l'accappatoio e mi posò una mano sul seno, un'ondata di panico mi fece frenare di colpo. Non andava bene. No, non andava bene per niente. Sussurrai: «È meglio di no, Rich». Mi richiusi l'accappatoio e lui rotolò sul fianco, ansante, rosso in viso. Mi guardò negli occhi. «Scusa» mormorò. «Non ti devi scusare.» Gli presi la mano e me la portai alla guancia. «Lo vorrei anch'io, sai? Ma lavoriamo insieme, Rich. Dobbiamo proteggerci l'uno con l'altra. Non possiamo...» Rich gemette, quando gli dissi: «Non deve succedere più». 86 Bussai al portone della Westwood Registry, la mattina senza sole in cui io e Conklin tornammo da Los Angeles. Ci aprì un uomo con la faccia rotonda, fra i cinquanta e i sessant'anni, con parecchi fili grigi fra i capelli chiari e occhi grigi. Portava occhiali con montatura a giorno e aveva un naso aquilino e prominente. Sospettavamo che avesse a che fare con il sequestro di Madison Tyler. E che sapesse dove si trovava la bambina. Gli mostrai il tesserino e gli presentai Conklin. «Sì, sono Paul Renfrew» disse. «Non siete già venuti qualche giorno
fa?» Gli dissi che sì, eravamo già stati all'agenzia, ma avevamo qualche domanda da rivolgere a lui personalmente. A proposito di Paola Ricci. Renfrew ci invitò ad accomodarci. Lo seguimmo nello stretto corridoio e oltre la porta verde che la volta precedente era chiusa con un lucchetto. «Prego, accomodatevi» ci disse. Io e Conklin ci sedemmo su due divanetti disposti ad angolo retto nello studio di Renfrew, che si sedette su una sedia. «Immagino vogliate sapere dov'ero quando Paola è stata rapita» disse. «Per cominciare, sì» rispose Conklin. Aveva l'aria stanca. Ma forse l'avevo anch'io. Renfrew tirò fuori dal taschino un'agendina di carta come usava una volta, non elettronica. Senza che gli chiedessimo nulla, ci elencò gli appuntamenti dei giorni prima, durante e dopo l'omicidio di Paola, specificando i nomi dei potenziali clienti che aveva incontrato. «Se volete, vi faccio una fotocopia» propose. Su una scala di pericolosità da uno a dieci, gli avrei dato sette: sembrava troppo pronto, come se si fosse preparato. Accettai la sua offerta e gli chiesi che cosa aveva fatto sua moglie, nello stesso periodo. «È in Europa» rispose. «Sta girando la Germania e la Francia. Non conosco con precisione il suo itinerario perché lo decide di giorno in giorno, ma presumo che sarà di ritorno la settimana prossima.» Gli chiesi: «Lei sa chi potrebbe aver voluto male a Paola o a Madison?» «No» replicò. «Ogni volta che accendo la televisione sento parlare di un sequestro di persona. Pare sia scoppiata un'epidemia!» esclamò. «Paola era una bravissima ragazza e mi duole enormemente che sia mancata. Le volevamo bene tutti. Ho incontrato Madison una volta soltanto» continuò poi. «Una bambina meravigliosa. Chi mai avrebbe potuto farle del male? Non so proprio. La sua morte è una vera tragedia.» «Perché pensa che sia morta?» intervenni. «Ah, non è... Lo davo per scontato. Mi spiace, ho sbagliato. Meno male. Spero proprio che la ritroviate.» Stavamo andando via, quando la segretaria dell'agenzia, Mary Jordan, si alzò dalla scrivania e ci accompagnò alla porta. Appena usciti, ci investì una zaffata di puzza di pesce. Lì vicino c'era il mercato. Mary Jordan mi posò la mano sul braccio. «La prego, mi porti in un posto dove le posso parlare» mi disse concita-
ta. «Devo dirle una cosa.» 87 Un quarto d'ora dopo eravamo di nuovo alla Corte di Giustizia, nella nostra squallida cucina, a parlare con Mary Jordan. La donna stringeva la tazza del caffè senza neppure assaggiarlo. «Dopo la vostra visita, qualche giorno fa, prima che Renfrew tornasse dal suo viaggio, ho deciso di dare un'occhiata in giro. E ho trovato questa.» Tirò fuori dalla borsa una fotocopia e ce la porse. «È del libro mastro. Così lo chiamano.» «Dove l'ha presa, Mary?» le chiese Conklin. «Ho trovato la chiave dell'ufficio privato di Renfrew. È lì che tengono il libro mastro.» Telefonai in procura e parlai con il sostituto procuratore Kathy Valoy. Le spiegai la situazione e lei disse che ci avrebbe raggiunto subito. Kathy Valoy era una di quelle persone che quando dicono «subito» intendono «subito». La presentai a Mary Jordan. «Sono stati il sergente Boxer o l'ispettore Conklin a chiederle di cercare questi documenti?» «No, no.» «Se le fosse stato chiesto da qualcuno di procurarli, il libro da cui li ha ricavati dovrebbe essere escluso dalle prove di un eventuale futuro processo» spiegò il sostituto procuratore. «No, ho fatto tutto da sola» replicò Mary Jordan. «Che il Signore mi assista.» Kathy Valoy sorrise e disse: «Lindsay, noi due dobbiamo andare a pranzo assieme, uno di questi giorni». Mi salutò con un cenno della mano e andò via. Chiesi a Mary se potevo vedere la fotocopia. Era una tabella. Le voci delle colonne erano COLLOCAZIONE, CLIENTE, TARIFFA. Le date erano dell'anno in corso. Alla voce «collocazione» c'erano una serie di nomi di donna, molti dei quali stranieri. I nomi dei clienti erano perlopiù preceduti da «Signor & Signora» e le tariffe non avevano mai meno di quattro zeri. «Le ragazze sono state collocate in queste famiglie nell'anno in corso?» domandai. Mary annuì e disse: «Si ricorda che le dissi di Helga, la baby-sitter che
scomparve circa otto mesi fa, quando l'agenzia era a Boston?» «Sì.» «Be', l'ho cercata sul registro. È qui.» Mi indicò un rigo. «Helga Schmidt. E le persone per cui lavorava sono indicate qui: Penelope e William Whitten.» «La prego, continui» la esortò Conklin. «Risulta che i Whitten abbiano una bambina prodigio, che si chiama Erica. È un genio della matematica: pare a soli quattro anni sia già capace di risolvere problemi relativamente complessi. Ho cercato Whitten su Internet e ho trovato questa intervista rilasciata al Boston Globe.» Tirò fuori un altro foglio. Era un articolo di giornale. Lo girò verso di noi in maniera che potessimo leggerlo e nel frattempo ce lo riassunse. «Apparve nel supplemento Lifestyle il maggio scorso. Il signor Whitten è un esperto di vini e venne intervistato con la moglie. Nella loro casa.» Mary indicò un paragrafo verso il fondo. «Qui accennano alla figlia Erica. Dicono che è andata a stare dalla zia in Inghilterra, dove frequenta una scuola privata. Be', mi è sembrato stranissimo, inverosimile, che dopo aver assunto una ragazza alla pari che se n'è andata improvvisamente abbiano mandato la figlia a studiare in Inghilterra! Ma se ha quattro anni soltanto! Sono più che benestanti, possono permettersi tutti gli insegnanti privati e le governanti che vogliono. Perché dovrebbero aver mandato all'estero la loro bambina?» Io e Rich ci scambiammo un'occhiata. Mary Jordan continuò: «Non mi sarebbe nemmeno venuto in mente, se non fosse stato per la morte di Paola e il sequestro di Maddy. Io non credo che Erica Whitten sia in Inghilterra. Pensate che sia pazza?» «Sa cosa pensiamo, Mary?» replicai. «Che lei ha l'istinto di un detective.» 88 Jacobi, accanto a me, tossiva spasmodicamente. Nell'aria aleggiava l'inconfondibile puzza dei sigari di Tracchio e il telefono era settato sul vivavoce. Eravamo in linea con i Whitten a Boston. L'agente federale David Stanford prese la parola. «Comprensibilmente, i signori Whitten sono preoccupati, ma sono riuscito a farmi spiegare tutta la storia» disse. «La loro figlia più piccola, Eri-
ca, è stata rapita insieme con la baby-sitter, Helga Schmidt, otto mesi fa.» Avevamo davvero trovato un nesso con il caso Tyler-Ricci? Ma se la piccola Erica era stata rapita otto mesi prima, come mai il sequestro non era stato denunciato alla polizia? «Nessuno vide niente» continuò Stanford. «Erica mancava da un'ora, quando i Whitten trovarono una busta sotto la porta di casa. Conteneva un messaggio e cinque o sei foto.» «Una richiesta di riscatto?» domandò Macklin. «Non proprio. Se avete un fax, ve lo mando.» Tracchio gli diede il numero. Sentivamo alcune voci in sottofondo, un uomo e una donna che bisticciavano. La donna diceva: «Su, Bill, diglielo!» Stanford annunciò: «Vi passo Bill Whitten». Il padre di Erica ci salutò e Tracchio si presentò ed elencò i nostri nomi. Whitten aveva la voce strozzata dalla paura. «Che cosa ci succederà adesso, per causa vostra?» esordì. «Ci hanno minacciato, hanno detto che se avessimo chiamato la polizia loro avrebbero ucciso Erica. Potremmo avere dei microfoni nascosti in casa, potremmo essere osservati in questo preciso momento. Lo capite, sì o no?» Il fax alle spalle di Tracchio emise un bip e sputò un foglio. «Un attimo» disse Tracchio, prendendolo. Posò il foglio sul tavolo perché potessimo leggerlo tutti. ERICA È CON NOI. SE AVVERTITE LA POLIZIA, LA UCCIDEREMO. SE AVREMO ANCHE SOLO IL SOSPETTO CHE SIATE IN CONTATTO CON LE FORZE DELL'ORDINE, LA UCCIDEREMO. OPPURE KAYLA, O PATTY. SE STARETE BUONI E ZITTI, A ERICA NON SUCCEDERÀ NIENTE. OGNI ANNO VI MANDEREMO UNA SUA FOTO. FORSE RICEVERETE ANCHE UNA TELEFONATA OGNI TANTO. NON È ESCLUSO CHE UN GIORNO TORNI A CASA. NON FATE SCIOCCHEZZE. STATE ZITTI. UN GIORNO I VOSTRI FIGLI VI RINGRAZIERANNO. Era un messaggio di otto mesi prima, ma la sua crudezza mi fece sobbalzare sulla sedia come se Erica fosse appena stata rapita.
Eravamo tutti scioccati, ma fu Macklin che afferrò il fax con la stessa foga con cui, se avesse potuto, avrebbe tirato il collo ai rapitori. Tracchio prese un secondo fax. «Le foto non si vedono molto bene» disse a Stanford. «Erica appare su uno sfondo bianco vestita esattamente come il giorno del sequestro. Le altre foto sono delle altre figlie dei Whitten, a scuola. Quella di Kayla è stata scattata dalla finestra di camera sua. Faremo tutti i controlli del caso.» «Tutti i controlli del caso» voleva dire che dalla busta, dal messaggio e dalle foto sarebbero state rilevate tutte le impronte digitali e gli indizi materiali possibili, ma soprattutto - cosa che Stanford aveva omesso di precisare davanti ai Whitten - che il DNA e i segni caratteristici di Helga Schmidt e della piccola Erica sarebbero stati immediatamente confrontati con quelli di tutti i cadaveri non identificati del Paese. Ero pronta a scommettere che quel messaggio era stato solo un modo per prendere tempo. E che Erica Whitten e Helga Schmidt dovevano essere morte tutte e due. Ma perché? A quale scopo quella gente rapiva bambini e baby-sitter? La suoneria del cellulare mi riscosse dalle mie riflessioni. Era l'ispettore Paul Chi. «Abbiamo appena ricevuto una chiamata urgente, Lindsay. Una persona è stata aggredita al Blakely Arms.» 89 Io e Conklin uscimmo dall'ascensore al sesto piano del Blakely Arms e vedemmo che davanti alla porta dell'appartamento 6G c'erano già cinque o sei agenti. Riconobbi Patrick Noonan, che aveva fatto domanda per entrare nella Omicidi. «Cosa è successo, Noonan?» gli chiesi. «Un macello, sergente. La vittima si chiama Ben Wyatt. Abitava qui da circa un anno.» Conklin alzò il nastro giallo che era stato teso davanti alla porta e io passai sotto. Noonan, intanto, continuava a parlare. «L'aggressore è entrato dalla porta. O aveva la chiave, o gli ha aperto la vittima, oppure la porta era solo socchiusa.» «Chi ha denunciato il fatto?» «La signora Virginia Howsam, che abita alla porta accanto.»
Io e Conklin entrammo nella casa, che era praticamente vuota. Intorno alla testa dell'uomo, sul parquet scuro, si era formata una chiazza rossa. Era nero, di poco più di trent'anni, in calzoncini corti, maglietta grigia e scarpe da corsa. Era disteso su un fianco accanto a un tapis roulant. Mi chinai per guardarlo meglio e vidi che aveva gli occhi chiusi e respirava appena, ma era ancora vivo. Arrivarono quelli dell'ambulanza, che si accucciarono accanto a lui e, al «tre», lo sollevarono e lo distesero su una barella. Il più vicino mi disse: «È privo di sensi. Adesso lo portiamo al San Francisco General Hospital. Ci lascia passare, per favore, sergente?» Sentii le sirene lungo Townsend Street e poco dopo vidi arrivare Charlie Clapper e alcuni tecnici della Scientifica, che si diressero subito verso il tapis roulant. «Il cavo di alimentazione è stato reciso» disse Clapper, mostrandomi il taglio, che sembrava essere stato fatto con una lama affilata. «Hai visto la vittima?» mi chiese. «Sì. È ancora vivo, Charlie. Speriamo che ce la faccia. Devono averlo colpito alla testa da dietro.» Come per Irene Wolkowski, l'oggetto contundente era stato rimosso. Un'altra analogia era l'appartamento relativamente in ordine. Non avevo dubbi sul fatto che le aggressioni al Blakely Arms fossero legate fra loro. Ma qual era il collegamento? Che cosa stava succedendo? 90 Virginia Howsam, la vicina di casa di Ben Wyatt, era una ragazza di meno di trent'anni che lavorava di sera in un night-club del centro. Ci spiegò che Ben era una bravissima persona e che non capiva chi potesse volergli male. Giocava in borsa, spiegò. La ringraziammo e ci avviammo giù per la scala antincendio, pensando che forse i vicini di sotto potevano aver sentito qualcosa che ci aiutasse a capire a che ora Wyatt era stato aggredito. Conklin era vicino a me, quando mi squillò il cellulare. Lo presi in mano e vidi che era David Stanford. «Pronto.» «Ho buone notizie.» Feci cenno a Conklin di avvicinare l'orecchio, in maniera che potesse
sentire anche lui. «Riguardo a Erica Whitten?» «No, riguardo a Charlie Ray. È tornato a casa e sta dormendo nel suo letto dopo aver bevuto una bella cioccolata calda con panna. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo.» «Grazie, Dave. È fantastico! Raccontami com'è andata.» Mi spiegò che era arrivata una segnalazione dal marito di una donna molto depressa, cui era morto un figlio nella culla alcune settimane prima. «La donna non riusciva a farsene una ragione» ci raccontò. «Pare che ieri, passando davanti a casa Ray, abbia visto Charlie che guardava da dietro la siepe. Si è fermata e lo ha caricato in macchina.» «L'avete arrestata?» «Sì. Ma non è la persona che cerchiamo, Lindsay. Non ha niente a che fare con Madison Tyler o Erica Whitten. È in cura, prende antidepressivi... Ieri era il primo giorno che usciva, da quando ha perso il figlio.» Lo ringraziai e chiusi la chiamata. Conklin era vicinissimo. Lo guardai negli occhi e arrossii. «Non abbiamo niente, dunque» mi disse. «Qualcosa abbiamo» replicai. «Un assassino che imperversa in questo cacchio di palazzo. E un altro vicolo cieco nel caso Tyler-Ricci.» 91 Mickey Sherman si sedette al tavolo della difesa accanto ad Alfred Brinkley e cercò di spiegargli qualcosa, ma il poveretto doveva essere pesantemente sedato, perché lo guardava con aria molto confusa. «Fred, Fred.» Lo scosse con delicatezza. «Fred? Oggi sentiremo i testimoni per la difesa, ti ricordi? Verranno tante persone a parlare di te e di come stai.» Brinkley fece segno di sì con la testa. «Hai chiamato anche il mio medico?» «Sì. Il dottor Friedman parlerà delle tue condizioni mentali. Non ti devi agitare, mi raccomando. Ricordati che è dalla nostra parte.» «Anch'io voglio raccontare la mia versione.» «Vedremo. Non so se sia opportuno.» L'assistente passò a Sherman un foglio su cui era scritto che i testimoni erano tutti pronti. L'usciere dichiarò aperta la seduta e il giudice entrò in aula e prese posto. Anche i giurati entrarono e si sedettero.
La quarta puntata del processo a carico di Alfred Brinkley era cominciata. «Avvocato Sherman, è pronto a chiamare il suo primo testimone?» domandò il giudice Moore. «Sì. La difesa chiama a deporre il signor Isaac Quintana.» Quintana indossava diversi strati di abiti, ma sembrava lucido e, sedendosi, sorrise. «Signor Quintana...» cominciò Sherman. «Ike» fece lui. «Diamoci del tu.» «Come vuoi, Ike» replicò Sherman affabile. «Come fai a conoscere Alfred Brinkley?» «Siamo stati al Napa State assieme.» «Non è un college, vero?» chiese Sherman, sorridendo al teste. «No, è un manicomio» rispose Ike con un gran sorriso. «È un istituto di salute mentale statale, dico bene?» «Benissimo.» «Sai come mai Fred era lì?» «Certo che lo so. Era depresso, non mangiava, non si alzava dal letto. Faceva brutti sogni, pure. Gli era morta la sorella, poveraccio. Quando è venuto al Napa State, non aveva più nessuna voglia di vivere.» «Come fai a sapere che Fred era depresso e aveva perso la voglia di vivere?» «Me l'ha detto lui. E sapevo che pigliava gli antidepressivi.» «Per quanto tempo siete stati lì insieme?» «Due anni, più o meno.» «Andavate d'accordo?» «Ma sì, certo. È un tipo simpatico. Per questo dico che non voleva ammazzare quelle persone sul traghetto...» «Obiezione!» salto su Yuki. «Il teste non è autorizzato a esprimere pareri personali. Chiedo che la sua ultima affermazione venga cancellata dal verbale.» «Obiezione accolta. Si cancelli l'ultima affermazione del teste.» «Ike» riprese Sherman, con fare rassicurante. «Quando tu frequentavi Brinldey, è mai stato violento?» «No, per niente. Chi ha mai detto che era violento? Anzi, tutto il contrario. Quando pigli certa roba, sei tranquillo come un papa. Con le pillole smetti di essere pazzo.»
92 Yuki si alzò dal tavolo dell'accusa e si rassettò la gonna del tailleur gessato pensando che Quintana sembrava un Muppet, con il suo sorrisetto e tutti quei vestiti uno sopra all'altro. Doveva essere convinto che andasse tutto per il meglio: i giurati gli sorridevano e parevano trovarlo simpatico. Per associazione, trovavano più simpatico anche Brinkley. Yuki cominciò. «Signor Quintana, perché era ricoverato al Napa State?» «Soffro di disturbo ossessivo compulsivo. Non è una malattia pericolosa. È solo che perdo un sacco di tempo perché devo sempre controllare tutto, raccogliere tutto...» «Grazie, signor Quintana. Lei è psichiatra?» «No. Conosco la categoria, però.» Yuki sorrise: era sua intenzione distruggere la testimonianza di Quintana, ma senza inimicarsi la giuria. «Che lavoro fa?» «Il lavapiatti al Jade Café, in Bryant Street. Gli ossessivi compulsivi sono l'ideale, per fare le pulizie.» «Capisco» rispose Yuki, mentre in aula si alzavano alcune risate. «Ha studiato medicina?» «No.» «E, a parte oggi, quando è stata l'ultima volta che ha visto Brinkley?» «Boh, quindici anni fa. È uscito nell'88, mi pare.» «E da allora non vi siete più incontrati?» «No.» «Dunque, se nel frattempo avesse subito due lobotomie e un trapianto di cuore, lei non lo saprebbe?» «Questa è divertente. Mi fa ridere. È successo davvero?» «Quello che voglio dire, signor Quintana, è che il sedicenne che lei ha definito 'un tipo simpatico' potrebbe essere cambiato molto. Lei non è cambiato, nel corso di questi quindici anni?» «Be', ho molta più roba, adesso.» Si alzarono risate e un brusio; persino i giurati si lasciarono andare a qualche risatina. Yuki sorrise, per dimostrare che aveva anche lei un certo senso dell'umorismo. Quando fu tornato il silenzio, disse: «Ike, quando dice che il signor Brinkley era pazzo, lo dice da amico, vero? È un modo di dire, non una de-
finizione in senso legale, per cui il signor Brinkley era incapace di intendere e di volere, di distinguere il bene dal male, giusto?» «No, be', io questo non lo so.» «Grazie, signor Quintana. Non ho altre domande.» 93 Il teste successivo chiamato da Sherman, il dottor Sandy Friedman, era un ottimo strizzacervelli, laureato alla Harvard, e aveva il look dello psichiatra, con occhiali firmati, papillon Brooks Brother e una vaga somiglianza con Liam Neeson. Appena ebbe prestato giuramento ed elencato le proprie credenziali, Sherman gli chiese: «Dottor Friedman, lei ha visitato il signor Brinkley?» «Sì, l'ho visto tre volte mentre era detenuto in attesa di giudizio.» «Ha formulato una diagnosi?» «Sì. A mio parere, Alfred Brinkley soffre di disturbo schizoaffettivo.» «Può spiegarci di che cosa si tratta?» Friedman si appoggiò allo schienale e pensò a come rispondere. Dopo un momento, replicò: «È un disturbo del pensiero, dell'umore e del comportamento che contiene elementi di schizofrenia paranoide. Non è dissimile dal disturbo bipolare». «Nel senso di maniaco-depressivo?» chiese Sherman. «Nel senso che chi è affetto da disturbo schizoaffettivo è soggetto a bruschi sbalzi di umore e alterna periodi di disperazione e depressione a periodi di iperattività maniacale, ma spesso riesce a gestire la malattia e a ritagliarsi uno spazio ai margini della società.» «Questi pazienti sentono voci?» «In molti casi, sì. È uno degli aspetti schizoidi della malattia.» «Voci minacciose?» «Sì» rispose Friedman. «In tal caso si parla di paranoia.» «Brinkley le disse che pensava che le persone che parlavano in televisione si rivolgessero direttamente a lui?» «Sì. È un sintomo abbastanza tipico del disturbo schizoaffettivo, un esempio di distacco dalla realtà. La paranoia lo spinge a pensare che le voci siano dirette a lui.» «Può spiegarci che cosa intende quando parla di 'distacco dalla realtà', dottor Friedman?» «Certamente. Dall'inizio della malattia, durante l'adolescenza, in Brin-
kley c'è stata una distorsione del modo di pensare e di agire, oltre che di esprimere le emozioni, ma soprattutto di percepire la realtà. È questo l'elemento psicotico: non è in grado di distinguere fra ciò che è reale e ciò che è immaginario.» «Grazie, dottor Friedman» disse Sherman. «Adesso ci può parlare dei recenti avvenimenti che hanno portato Brinkley in quest'aula di tribunale?» «Nel disturbo schizoaffettivo spesso la situazione precipita a causa di un elemento scatenante, che nel caso di Brinkley penso sia stato il licenziamento. La perdita del posto di lavoro, con la sua routine, e la conseguente perdita della casa, da cui venne sfrattato, hanno aggravato la malattia.» «Capisco. Dottor Friedman, Brinkley le parlò mai di cosa avvenne il primo novembre scorso a bordo del Del Norte?» «Sì. Mi disse che non saliva su un'imbarcazione da quando sua sorella era morta in un incidente in barca a vela. Lui aveva sedici anni, all'epoca. Mentre era sul Del Norte, Brinkley vide una barca a vela e questa fu - come si suol dire - la goccia che fa traboccare il vaso. Non riuscì più a distinguere tra illusione e realtà.» «Le disse se sentiva voci a bordo del traghetto?» «Sì. Le voci che sentiva lo esortavano a uccidere. Va detto che Brinkley nutre una rabbia antica per la morte della sorella, che nello specifico ha agito in maniera esplosiva. Le persone sul traghetto non erano reali, per lui, erano solo uno sfondo per le sue fantasie. La realtà, per lui, era costituita dalle voci, che riteneva di poter fermare solo ubbidendo ai loro comandi.» Sherman si toccò il labbro superiore con la punta dell'indice. «Dottor Friedman, può affermare con ragionevole certezza medica che quando Brinkley ubbidì a quelle voci e sparò ai passeggeri del Del Norte non era in grado di distinguere fra il bene e il male?» «Sì. Basandomi sui colloqui che ho avuto con lui, oltre che su un'esperienza ventennale nel trattamento della malattia mentale, ritengo che, quando sparò, Alfred Brinkley fosse in uno stato mentale che non gli consentiva di capire la differenza fra il bene e il male. Ne sono assolutamente convinto.» 94 David Hale spinse verso Yuki un cartoncino su cui era disegnato un mastino con un collare con le borchie e la bava alla bocca. Il fumetto diceva: «Va' e falli a pezzi».
Yuki sorrise, pensò a Leonard Parisi e a come avrebbe fatto lui per distruggere la testimonianza del perito di Mickey Sherman. Disegnò un cerchio intorno al fumetto e sottolineò le parole, poi si alzò in piedi e cominciò a parlare prima ancora di raggiungere la sua postazione. «Dottor Friedman, lei è un perito di una certa fama, dico bene?» Friedman rispose che sì, aveva svolto numerose perizie sia per l'accusa sia per la difesa negli ultimi nove anni. «In questo caso è stata la difesa ad assoldarla.» «Sì.» «Quanto ha chiesto per la sua perizia, dottore?» Friedman alzò gli occhi verso il giudice Moore, che gli disse: «Risponda, dottore». «Ottomila dollari.» «Ottomila dollari. Da quanto tempo ha in cura il signor Brinkley?» «Brinkley non è mio paziente.» «Oh» fece Yuki. «Mi scusi, ma come ha fatto a formulare una diagnosi, allora?» «L'ho visitato in tre occasioni, gli ho somministrato una batteria di test. E comunque, sì, è possibile formulare una diagnosi senza necessariamente avere in cura una persona.» «Dunque, sulla base di tre incontri e un po' di test, lei ritiene di poter affermare che l'imputato era incapace di distinguere fra il bene e il male quando sparò a bordo del Del Norte.» «Esatto.» «Non gli ha fatto una radiografia da cui è emerso che ha un tumore che preme su un lobo del cervello, vero?» «No.» «Come facciamo a sapere che Brinkley non ha mentito e ha sbagliato apposta i test in maniera da sfuggire al carcere?» «Non è possibile» replicò Friedman. «I test sono formulati in maniera tale da funzionare come una macchina della verità. Vengono ripetuti in molti modi diversi: se le risposte sono coerenti, significa che il paziente dice la verità.» «Si usano i test proprio perché non si può entrare nella mente di un paziente, dico bene?» «Be', si analizza anche il comportamento.» «Dottor Friedman, lei sa che cosa vuol dire in termini legali 'consapevo-
lezza della colpa'?» «Sì. È un termine che si riferisce agli atti compiuti da una persona, dai quali si ricava che questa sapeva di fare una cosa sbagliata.» «Ottima definizione, dottor Friedman» disse Yuki. «Ora, se uno spara a cinque persone e poi si dà alla fuga, come fece Alfred Brinkley, non possiamo ricavarne che era consapevole di aver commesso un reato? Non è consapevolezza della colpa?» «Mi scusi, ma non tutto quello che una persona fa in uno stato di psicosi è illogico. La gente a bordo del traghetto urlava, cercava di fermarlo, era ostile. E lui scappò. La maggior parte delle persone in quella situazione avrebbe cercato di darsela a gambe.» Yuki lanciò un'occhiata a David, che le fece un cenno di incoraggiamento. Yuki in realtà avrebbe voluto che le mandasse un'ispirazione, perché non sapeva proprio come inchiodare Friedman. Ma poi ebbe un lampo di genio. «Dottore, quando lei fa una valutazione, si basa anche sul suo istinto?» «Be', certo. L'istinto, o più correttamente l'intuizione, si basa su un'esperienza assai stratificata. Dunque, pur seguendo il protocollo, per formulare una valutazione mi baso anche sulle mie intuizioni.» «Ha determinato la pericolosità di Brinkley, dottore?» «L'ho visto prima e dopo la terapia a base di Risperdal e ritengo che, purché segua un adeguato protocollo terapeutico, non sia un soggetto pericoloso.» Yuki posò le mani sulla balaustra e, dimenticando tutto e tutti intorno a lei, diede voce alla paura che la coglieva ogni volta che guardava il pazzo accanto a Mickey Sherman. «Dottor Friedman, lei ha visitato il signor Brinkley mentre era detenuto. Cosa le dice il suo istinto: si sentirebbe tranquillo a dividere un taxi fino a casa con lui? Andrebbe a cena a casa sua? Farebbe un viaggio in ascensore solo con lui?» Mickey Sherman si alzò in piedi. «Obiezione, vostro onore. Queste domande sono a dir poco inopportune.» «Accolta» disse il giudice. «Ho concluso» disse allora Yuki. 95 Alle otto e mezzo del lunedì mattina, Miriam Devine prese la posta dalla
console nell'ingresso e la portò in cucina. Era tornata a Pacific Heights la sera prima con il marito dopo una splendida crociera di dieci giorni nel Mediterraneo, lontano da telefoni, televisioni e giornali. Avrebbe voluto tenere lontano il mondo esterno ancora un paio di giorni e prolungare quella tranquilla vacanza, ma non sapeva se sarebbe stato possibile. Fece il caffè, tirò fuori dal congelatore due brioche alla cannella, le mise nel forno e si apprestò a controllare la posta. Mise i cataloghi da una parte, le bollette da un'altra e tutto il resto in una terza pila. Quando trovò la busta bianca con l'indirizzo dei Tyler, la mise in fondo alla pila della corrispondenza varia e continuò a dividere il resto. Jim arrivò in cucina, bevve il suo caffè in piedi e disse: «Uffa! Non ho proprio nessuna voglia di andare in ufficio. Sarà un inferno». «Ti preparo il polpettone per stasera? Il tuo preferito?» «Grazie. Almeno avrò qualcosa di bello cui pensare.» Jim Devine uscì di casa e chiuse la porta. Miriam finì di dividere la posta, lavò i piatti e telefonò alla figlia prima di chiamare la vicina Elizabeth. «Ciao, Liz! Siamo tornati ieri sera. Mi sono trovata una lettera indirizzata a voi, ma che per sbaglio è stata recapitata qui. Faccio un salto a portartela? Così intanto mi racconti che cosa avete fatto di bello in questo periodo...» 96 Mi trovavo nel salotto dei Tyler insieme con Conklin. Era passato un quarto d'ora soltanto da quando la vicina di casa, Miriam Devine, aveva consegnato loro il messaggio dei rapitori. Quelle poche frasi scritte a mano avevano avuto un effetto devastante su Elizabeth Tyler, e adesso lo stavano avendo su di me. Ricordavo di aver suonato alla porta della villa vittoriana color avorio accanto a quella dei Tyler, il giorno del sequestro, e di aver parlato con la cameriera, Guadalupe Perez, la quale ci aveva informato in un inglese molto incerto che i signori Devine erano fuori città. Non potevamo immaginare che Guadalupe Perez avesse preso la busta che era stata infilata sotto la porta di casa, praticamente uguale a quella dei vicini, e l'avesse messa insieme al resto della posta indirizzata ai padroni. Nessuno poteva saperlo, ma ero sconsolata e mi sentivo comunque re-
sponsabile. «Conoscete bene i Devine?» chiese Conklin a Henry Tyler, che camminava avanti e indietro furioso nella stanza. C'erano foto di Madison dappertutto, appese ai muri e posate qua e là: foto da neonata, foto di famiglia, istantanee scattate in vacanza. «Loro non c'entrano, chiaro? Non possono essere stati i Devine!» gridò Tyler. «Madison è scomparsa! Ormai è troppo tardi!» continuò tenendosi la testa tra le mani. Abbassai lo sguardo sulla console e sul foglio di carta da lettere scritto in stampatello così grosso che riuscivo a leggerlo da un metro e mezzo di distanza. VOSTRA FIGLIA È CON NOI. SE AVVERTITE LA POLIZIA, LA UCCIDEREMO. SE AVREMO ANCHE SOLO IL SOSPETTO CHE SIATE IN CONTATTO CON LE FORZE DELL'ORDINE, LA UCCIDEREMO. IN QUESTO MOMENTO MADISON STA BENE ED È AL SICURO, E NON LE SUCCEDERÀ NIENTE FINCHÉ VOI STARETE BUONI E ZITTI. QUESTA FOTO È LA PRIMA. NE RICEVERETE UNA ALL'ANNO. FORSE RICEVERETE ANCHE UNA TELEFONATA OGNI TANTO. NON È ESCLUSO CHE IN FUTURO TORNI A CASA. NON FATE SCIOCCHEZZE. STATE ZITTI. UN GIORNO MADISON VI RINGRAZERÀ. La foto allegata alla lettera era stata stampata con una stampante non professionale a meno di un'ora dal rapimento. La bambina era pulita e apparentemente incolume, con il suo cappottino blu e le scarpette rosse. «Avranno capito che non abbiamo ricevuto il messaggio? Che non intendevamo sfidarli?» «Non lo so, signor Tyler, e non posso tirare a indovinare...» Elizabeth Tyler mi interruppe per dire con voce strozzata e il collo tesissimo: «Madison è la bambina più intelligente e allegra che possiate immaginare. Canta, suona, ha una risata incantevole. L'avranno violentata? L'avranno incatenata a un letto in una cantina? Avrà fame, freddo? Starà male? Quanta paura avrà? Si chiederà perché non andiamo a cercarla? Oppure
è al di là di tutto questo ed è ormai al sicuro fra le braccia di Dio? Questi sono i dubbi che ci tormentano, signori. Dobbiamo sapere che cosa è successo a nostra figlia. Dovete fare l'impossibile». Si rivolse a me e concluse: «Riportatemi a casa Madison, vi prego». 97 Il messaggio dei rapitori, chiuso in una busta di plastica trasparente, era posato sulla scrivania bene in vista tra me e Conklin. SE AVVERTITE LA POLIZIA, LA UCCIDEREMO. SE AVREMO ANCHE SOLO IL SOSPETTO CHE SIATE IN CONTATTO CON LE FORZE DELL'ORDINE, LA UCCIDEREMO. Eravamo ancora scossi da quelle parole e non riuscivamo a liberarci della sensazione che, lavorando sul caso Tyler-Ricci, forse avevamo involontariamente provocato la morte di Madison. Quando, a mezzogiorno, arrivò David Stanford, gli consegnammo il messaggio. Jacobi ordinò una pizza, Conklin andò a prendere una sedia per Stanford e, mentre mangiavamo, gli mostrammo i nostri dossier. Un'ora dopo eravamo ancora allo stesso punto. L'unica pista era che sia i Whitten a Boston sia i Tyler a Pacific Heights si erano rivolti all'agenzia Westwood Registry. Ci dividemmo l'elenco dei clienti che Mary Jordan ci aveva fotocopiato e cominciammo a fare telefonate. Finita la pizza, eravamo pronti per partire. Conklin e Macklin andarono in macchina con Stanford, io partii con Jacobi. Mi faceva piacere ritrovarmelo a fianco, seduto al volante. «Scusa se te lo dico, ma hai l'aria un po' strapazzata» disse. «Questo stramaledetto caso mi sta avvelenando la vita. Ma, già che è venuto il discorso, Jacobi, c'è una cosa che volevo dirti: hai mai preso in considerazione l'ipotesi di mentire, quando mi vedi giù?» «Veramente no.» «La sincerità è una delle doti che ho sempre apprezzato in te.» «Su, non diventarmi sentimentale...» Sorrise, svoltò in Lombard Street e parcheggiò.
Nelle cinque ore che seguirono localizzammo e interrogammo quattro clienti della Westwood Registry e rispettive baby-sitter. Quando il sole cominciò a tingere di rosa le nuvole a ponente, rientrammo in ufficio, dove trovammo Macklin e gli altri. La riunione fu breve, perché in venticinque ore/uomo di lavoro non avevamo raccolto altro che lodi sul conto della Westwood Registry e delle sue referenziatissime ragazze alla pari. Verso le sette ci salutammo dandoci appuntamento alla mattina dopo. Attraversai Bryant Street, salii in macchina e mi diressi verso Potrero Hill. C'erano i lampioni accesi in tutta la città quando parcheggiai davanti alla mia casa, dolce casa. Mentre stavo per scendere, qualcosa ostruì il passaggio della luce dal finestrino del passeggero e mi ritrovai al buio. Con il batticuore, mi girai di scatto e vidi una sagoma scura. Mi ci vollero alcuni secondi per elaborare le informazioni che gli occhi mandavano al cervello. E mi venne il dubbio di avere le traveggole. Era Joe. 98 Era Joe. Era Joe! Non c'era nessun altro al mondo che desiderassi vedere di più. «Quante volte ti ho detto...» cominciai, con il cuore in gola mentre scendevo dalla macchina e sbattevo la portiera. «Di non prendere di sorpresa un poliziotto armato?» «Esatto. Hai qualcosa contro i telefoni? Una fobia?» Joe, in piedi sul marciapiede, mi sorrise timidamente. «Nemmeno un ciao? Sei tosta, Biondina.» «Dici?» Non mi sentivo tosta proprio per niente. Anzi, mi sentivo svuotata, vulnerabile e pericolosamente vicina alle lacrime. Ma ero decisa a non darlo a vedere. Tamburellai con le dita sul cofano dell'auto con la faccia seria, pensando che Joe mi sembrava bellissimo. «Scusami. Ho deciso di rischiare» disse con un sorriso irresistibile. «Avevo bisogno di vederti. Allora, come stai?» «Mai stata così bene» mentii. «Ho avuto molto da fare.» «Lo so. Le tue prodezze sono su tutti i giornali, Wonder Woman.» «Veramente dubito di riuscire a cavare un ragno dal buco» replicai ri-
dendo mio malgrado. «E tu? Come ti vanno le cose?» Smisi di tamburellare e mi sporsi leggermente verso di lui. «Anch'io ho avuto parecchio da fare.» «Almeno così non combiniamo guai.» Chiusi a chiave la macchina, ma continuai a tenere le distanze. Mi piaceva che tra di noi restasse la massa metallica dell'auto: mi sentivo protetta, dietro la mia Ford Explorer, e riuscivo a riflettere meglio su come comportarmi. Joe sorrise e disse: «Sì, certo. Ma veramente intendevo dire che mi sono dato parecchio da fare per cambiare vita». Cosa? Come? Mi si fermò il cuore e sentii che mi cedevano le ginocchia. Intuii di colpo che Joe stava così bene ed era così tranquillo perché si era innamorato di un'altra. Era venuto a dirmelo di persona perché non osava darmi la notizia per telefono. «Non volevo telefonarti finché la cosa non era definitiva» continuò riscuotendomi dalla trance in cui ero caduta. «Solo che ci vorrà un sacco di tempo perché la mia richiesta venga formalizzata.» «Ma di cosa stai parlando?» «Ho fatto domanda di trasferimento a San Francisco, Lindsay.» Il mio sollievo fu tale che mi si riempirono gli occhi di lacrime. Fissavo Joe e, inarrestabili, mi passavano davanti agli occhi della mente alcuni momenti della nostra appassionata storia d'amore. Non erano i più romantici, ma quelli di intimità quotidiana: Joe che cantava sotto la doccia, io che gli osservavo nello specchio la stempiatura mentre lui non se ne accorgeva. E poi il modo in cui, a colazione, si chinava sulla ciotola dei cereali come se qualcuno potesse portargliela via, perché veniva da una famiglia con sette figli e tra fratelli e sorelle c'era sempre stata concorrenza su tutto. Pensavo al fatto che Joe era l'unica persona che avessi conosciuto in vita mia che mi lasciava finire di parlare e non si aspettava da me che fossi forte sempre e a ogni costo. E poi, sì, avevo anche dei flash di quando facevamo l'amore, di come riusciva a farmi sentire libera e leggera e di quanto mi sentivo sicura quando mi addormentavo tra le sue braccia. «Mi hanno detto di sì, ma non c'è ancora nulla di definitivo...» Lasciò la frase in sospeso, mi guardò e riprese: «Mio Dio, Lindsay, non sai quanto mi sei mancata». Il vento che soffiava dal mare mi asciugò le lacrime dal viso e provai un'infinita gratitudine per il dono inaspettato che rappresentava quella visita, e per la notte che avremmo passato insieme. Avevo una bottiglia di
Courvoisier ancora da stappare nel mobile bar. E una boccetta di olio per massaggi nel comodino... Pensai che l'aria era meravigliosamente fresca, quella sera, e che Joe sapeva scaldarmi anche solo stando al mio fianco, senza sfiorarmi. «Perché non sali?» dissi. «O vuoi parlare qui per la strada?» Mentre mi si avvicinava e mi posava teneramente le mani sulle spalle, vidi un'ombra passare sul suo viso. «Vorrei tanto poter salire, ma perderei l'aereo» mi disse. «Ho fatto un salto solo perché volevo dirtelo di persona: abbi fiducia in me. Ti prego.» Mi abbracciò e mi attirò a sé. D'istinto, mi irrigidii, incrociai le braccia sul petto e abbassai il mento. Non volevo guardarlo in faccia. Non volevo lasciarmi affascinare né influenzare: ancora una volta, la nostra storia si stava rivelando come un giro sulle montagne russe. La settimana prima mi ero fatta coraggio e avevo rotto con lui perché non ne potevo più delle sue continue apparizioni e sparizioni. E ora scoprivo che non era cambiato niente... Ero furibonda. Non volevo lasciarmi intenerire e poi farmi nuovamente piantare in asso. Guardai Joe negli occhi e lo respinsi. «Mi dispiace. Mi dispiace veramente. Per un attimo ho pensato che fosse cambiato qualcosa, ma non è così. Se devi andare, vai» balbettai. «Buon viaggio.» Corsi più svelta che potevo verso il portone, infilai la chiave nella toppa e girai la maniglia contemporaneamente, mentre Joe mi chiamava. Poi sbattei la porta e salii le scale di corsa. Entrata in casa, però, non potei fare a meno di andare alla finestra. Scostai le tende appena in tempo per vedere la macchina di Joe che si allontanava. 99 Il telefono cominciò a squillare prima ancora che avessi richiuso le tende. Sapevo che era Joe che mi chiamava dall'automobile e non avevo nulla da dirgli. Feci una lunga doccia, rimanendo un quarto d'ora o venti minuti sotto il getto dell'acqua calda. Quando uscii dal bagno, il telefono stava nuovamente suonando. Lo ignorai anche quella volta. Stessa cosa per quanto riguardava la spia lampeggiante della segreteria telefonica e il bip del cellu-
lare che mi segnalava l'arrivo di un messaggio. Misi la cena nel forno a microonde, stappai la bottiglia di Courvoisier e me ne versai una bella dose. Il cellulare ricominciò a suonare. Lo andai a prendere nella tasca della giacca e risposi ringhiando: «Boxer». Ero pronta ad aggiungere: Lasciami in pace, Joe, okay? ma con gran delusione mi resi conto che era la voce di Rich. «Non rispondi più al telefono, Lindsay?» Il mio collega era seccato, ma non mi importava. «Ero sotto la doccia. È vietato, per caso? Cosa volevi dirmi?» «C'è stata un'altra aggressione al Blakely Arms.» Restai senza fiato. «Ci sono dei morti?» «Te lo saprò dire quando sarò là. Sono nelle vicinanze, ormai.» «Isolate il palazzo. Bloccate tutte le uscite. Non lasciate uscire nessuno» dissi. «Agli ordini, sergente.» In quel momento mi ricordai dell'uomo del tapis roulant. Come avevo potuto dimenticarmi di lui? «Rich, ci siamo scordati di controllare come sta Ben Wyatt.» «No, non ci siamo scordati.» «Hai chiamato l'ospedale?» «Sì.» «Si è ripreso?» «No, è morto due ore fa.» Gli promisi di raggiungerlo al più presto e chiamai Cindy. Non rispose. Chiusi il telefono e lo sbattei sul bancone della cucina per non buttarlo dalla finestra come mi suggeriva l'istinto. Il forno a microonde emise cinque bip: la mia cena era pronta. «Se va avanti così, io impazzisco!» gridai al timer. «Sto per perdere la testa, me lo sento!» Al diavolo tutto e tutti! Lasciai il Courvoisier intatto sul bancone e la cena nel forno, mi vestii in fretta e furia, mi allacciai la fondina sulla spalla e quindi indossai la giacca. Riprovai a chiamare Cindy, che questa volta mi rispose, e la informai di quel che stava succèdendo. Poi uscii per andare al Blakely Arms. Quando arrivai davanti al condominio all'angolo tra Townsend e Third Street, stavo già immaginando le obiezioni che avrebbe sollevato Cindy, ma ero intenzionata a non lasciarle fare storie.
Era indispensabile che venisse a stare da me finché non si fosse trovata una casa in un posto meno pericoloso di quello. 100 Cindy mi aspettava davanti al portone, con i capelli biondi scarmigliati e il rossetto mangiato per il nervosismo. «Gesù» esclamò. «Un'altra volta? Che cosa è successo, esattamente?» «Cindy, gira qualche voce nel palazzo? Hai sentito qualche pettegolezzo? Sospettate di qualcuno in particolare?» chiesi mentre entravamo nell'atrio. «L'unica cosa che so è che la gente ha i nervi a fior di pelle.» Prendemmo l'ascensore e ancora una volta mi ritrovai davanti a un appartamento nel «condominio dell'orrore» che pullulava di poliziotti in divisa. Conklin fece un cenno a Cindy e mi presentò Aiden Blaustein, un ragazzo bianco, sui ventidue anni, vestito tutto di nero: jeans strappati, T-shirt di Myst, gilet e giacca di pelle con le toppe. Aveva anche i capelli neri, corti dietro e lunghi davanti, che gli ricadevano sugli occhi castani pieni di paura. Conklin disse: «Il signor Blaustein è la vittima dell'aggressione». Cindy disse prontamente: «Ciao, sono Cindy Thomas, del Chronicle. Mi fai lo spelling del tuo cognome, per piacere?» Tirai un sospiro di sollievo: il ragazzo era vivo e incolume, benché visibilmente sotto shock. «Ci racconti che cosa è successo» gli dissi. «'Cazzo ne so? Verso le cinque sono uscito per andare a comprare della birra. Ho incontrato una mia amica e abbiamo mangiato qualcosa insieme. Quando sono tornato, mi sono trovato la casa devastata.» Conklin aprì la porta dell'appartamento, un monolocale. Entrai seguita da Cindy. «Stai vicino a me...» le dissi. «... e non toccare niente» concluse lei. L'appartamento di Blaustein sembrava un negozio di elettronica in cui era appena passato un rinoceronte fatto di crack. Un computer, tre monitor, uno stereo e un televisore al plasma da quarantadue pollici erano ridotti in frantumi. Non glieli avevano portati via: glieli avevano fatti a pezzi! Anche la scrivania era stata spaccata, probabilmente come danno collaterale.
Blaustein disse: «Mi ci erano voluti anni per mettere insieme un impianto come lo volevo io». «Che lavoro fai?» domandò Cindy. «Progetto siti web e videogiochi. Ci avevo speso almeno venticinquemila dollari, dietro 'ste attrezzature.» «Quando è uscito, ricorda di aver lasciato la porta aperta?» chiesi io. «No, non lascio mai la porta aperta.» «Però ha lasciato acceso lo stereo» osservò Rich in tono neutro, ma senza guardarmi. «Qualcuno si è lamentato con lei per la musica?» chiesi. «Oggi?» «In generale.» «Sì, ho ricevuto anche delle telefonate minatorie.» «Da chi, lo sa?» «Vuol sapere se mi ha detto come si chiamava? No, non me l'ha detto. Non mi ha manco detto 'pronto'. Era un uomo. La prima volta mi ha detto, testuale: 'Se non spegni quello stereo di merda, ti ammazzo'. Ultimamente mi chiamava un paio di volte alla settimana. Mi gridava di tutto, malediceva me e i miei figli.» «Lei ha dei figli?» chiesi stentando a immaginare che potesse essere vero. «No. Malediceva i figli che avrò un giorno.» «E lei che cosa ha fatto?» «Io? So più parolacce di quante quel tizio ne abbia mai sentite. Il problema è che era una voce a me del tutto sconosciuta. Ho un orecchio che potrei assicurarmi ai Lloyd di Londra, ma giuro che non l'avevo mai sentito. Eppure conosco tutti nel palazzo. Conosco persino lei» disse indicando Cindy. «Stai al terzo piano, giusto?» «E diceva che nessun altro nel palazzo si è mai lamentato del suo stereo?» «No, perché - primo - lavoro solo di giorno e - secondo - è permesso ascoltare musica fino alle ventitré. A parte il fatto - terzo - che io non ascolto mai la musica ad alto volume.» Sospirai, staccai dalla cintura il cellulare e chiamai il laboratorio della Scientifica. Mi rispose il responsabile del turno di notte. Gli dissi che avevamo bisogno di lui. «Ha qualcuno da cui farsi ospitare per stanotte?» stava chiedendo Rich a Blaustein.
«Forse.» «Be', qui non può restare. Il suo appartamento resterà sotto sequestro per un po'.» Blaustein si guardò intorno sconsolato, facendo un inventario mentale dei danni. «Non ci resterei comunque. Nemmeno per tutto l'oro del mondo.» 101 In ascensore, tornando al piano terra, io, Cindy e Rich traemmo le dovute conclusioni. «I cani, il pianoforte, il tapis roulant...» disse Rich. «L'appartamento del Webmaster...» aggiunse Cindy. «Il comune denominatore è uno: il rumore» conclusi io. «Sì» approvò Rich. «Dev'essere uno psicopatico che, con il rumore, diventa violento.» «Rich, scusami per prima: ho avuto una giornataccia» dissi io. «Non ti preoccupare, Lindsay. Appena avremo chiuso questo caso, saremo tutti più tranquilli.» Le porte dell'ascensore si aprirono e ci ritrovammo nell'atrio, dove in quel momento erano radunati circa duecento inquilini, tutti con l'aria preoccupatissima. Cindy tirò fuori il bloc-notes e andò verso l'amministratrice del condominio. Conklin si fece largo tra la folla, io lo seguii e nella sua scia arrivammo al bancone della portineria. Qualcuno gridò: «Silenzio!» e il brusio si spense. Presi la parola: «Sono il sergente Boxer. Non c'è bisogno che vi dica che nel condominio è avvenuta una serie di episodi inquietanti...» Lasciai correre le proteste che seguirono sul fatto che la polizia non faceva il suo dovere, poi ripresi dicendo che avremmo interrogato tutti i presenti e che nessuno poteva allontanarsi dall'atrio senza il nostro permesso. Un signore sulla sessantina, con i capelli grigi, alzò la mano e chiese la parola. Si chiamava Andy Durbridge. «Sergente, credo di avere delle informazioni utili. Oggi pomeriggio nella lavanderia ho notato un uomo che non avevo mai visto prima, con le braccia piene di segni di morsi di cane.» «Ce lo può descrivere?» domandai speranzosa. «Era alto circa uno e settanta, muscoloso, bruno ma con pochi capelli.
Sulla trentina, direi. Mi sono già guardato in giro e adesso non lo vedo.» «Grazie, signor Durbridge» dissi. «Qualcuno dei presenti conosce quest'uomo e sa dirci come si chiama?» Si fece avanti una ragazza minuta, con una gran testa di riccioli biondi. Aveva gli occhi sbarrati ed era molto pallida, spaventatissima. «Mi chiamo Portia Fox» mi disse con la voce che tremava. «Sergente, posso parlarle in privato?» 102 Uscii dalla sala con lei. «Credo di conoscere l'uomo di cui parlava il signor Durbridge» mi disse. «Ho paura che sia quello che sta da me durante il giorno.» «Vivete insieme?» «No! Gli ho ceduto la sala da pranzo» rispose la ragazza guardandosi intorno intimorita. «Io lavoro di giorno e lui di notte. Ci incrociamo appena.» «Mi sta dicendo che il contratto d'affitto è intestato a lei e che ha subaffittato una stanza?» Portia Fox annuì. «E come si chiama la persona cui l'ha subaffittata?» «Garry, con due R, Tenning. Gli assegni li firma così.» «E dove si trova adesso?» «Al lavoro. Lavora in un cantiere edile.» «Lavora nell'edilizia di notte?» domandai. «Ha un numero di cellulare?» «No. Per un annetto ci siamo visti tutti i giorni allo Starbucks qui di fronte. A volte ci salutavamo, magari leggevamo il giornale insieme. Sembrava uno a posto e, quando mi ha detto che cercava una stanza in affitto ma senza spendere tanto... be', io avevo bisogno di soldi.» Quella ragazza, giovanissima, si era messa in casa uno sconosciuto. Avrei voluto prenderla per le spalle e darle una bella scrollata, oppure andare a dirlo a sua madre. Invece mi limitai a chiederle: «A che ora rientra di solito il signor Tenning?» «Verso le otto e mezzo del mattino. Come le ho detto, in genere quando lui arriva io sono già uscita per andare a lavorare. Adesso abbiamo la macchina del caffè in ufficio, per cui non vado più da Starbucks.» «Dovremo perquisire il suo appartamento.» «Certo» disse tirando fuori la chiave dalla borsa e porgendomela. «Fate
pure. Oddio, e se Tenning è un assassino?» 103 «Identico al mio» disse Cindy, appena mise piede nell'appartamento di Portia Fox. Entrando c'era un grande soggiorno con vista sulla strada: ampio, luminoso, con un arredamento moderno. Da una parte c'era l'angolo cottura e, mentre da Cindy la zona pranzo era a giorno, Portia Fox aveva una sala da pranzo separata, con pareti di cartongesso e una porta sottile. «Quella è la stanza di Tenning» mi disse. «Ha la finestra?» mi informai. «No, ma gli piace così. È stato il motivo per cui ha scelto di venire qui.» Purtroppo, dal momento che pagava regolarmente l'affitto, anche se privo di contratto, Tenning era a tutti gli effetti un inquilino di Portia Fox e per vedere la sua stanza avevamo bisogno del suo permesso o di un mandato di perquisizione. Provai a girare la maniglia, caso mai la porta non fosse chiusa a chiave, ma come prevedibile lo era. «Ha qualcuno da cui andare a dormire stasera?» domandai alla signorina Fox e, mentre lei raccoglieva le cose di cui aveva bisogno, misi un agente di guardia alla porta dell'appartamento. Diedi a Cindy le mie chiavi e le dissi di andare ad aspettarmi a casa mia. Non protestò. Passai due ore a interrogare insieme con Rich gli inquilini del Blakely Arms. Tornammo alla Corte verso mezzanotte. La sala operativa era già squallida durante il giorno, ma di notte, con i neon e l'odore degli avanzi di cibo rimasti nei cestini della spazzatura, era ancora peggio. Buttai via un avanzo di caffè freddo e accesi il computer. Rich fece lo stesso. Consultai uno dei nostri database preparandomi a dover fare lunghe ricerche sulla vita di Garry Tenning. Invece, in pochi minuti, trovai tutte le informazioni che ci servivano. C'era un sospeso a suo carico: non si era presentato in tribunale per una violazione al codice della strada. Non era un granché, ma qualsiasi scusa era buona per arrestarlo. E c'era anche dell'altro. «Garry Tenning fa la guardia giurata per la Conco Construction, che ha centinaia di cantieri» disse Rich. «Non riusciremo a trovarlo prima della
riapertura degli uffici domani mattina.» «Ha il porto d'armi?» chiesi. Rich digitò qualcosa sul suo computer. «Sì. Regolare e in corso di validità.» Garry Tenning aveva una pistola. 104 L'indomani mattina la città si risvegliò sotto una pioggia battente degna del diluvio universale. Conklin fermò la macchina in uno spiazzo edificabile vuoto in Townsend Street, di fronte alla torre 2 del Beacon, un complesso di grattacieli con vari negozi, tra cui lo Starbucks dove si erano conosciuti Garry Tenning e Portia Fox. Se fosse stata una bella giornata, da lì avremmo visto chiaramente i due portoni d'ingresso del Blakely Arms e il sentierino che da Townsend Street correva lungo il lato del palazzo a sei piani e conduceva al cortile retrostante e all'ingresso di servizio. Ma quel giorno la pioggia nascondeva tutto ciò che era oltre il parabrezza. In un'altra auto ferma dietro la nostra c'erano l'ispettore Chi e il suo collega McNeil che scrutavano come noi nella pioggia. Eravamo in cerca di un bianco alto circa uno e settanta, con radi capelli castani, probabilmente in divisa e probabilmente armato di una Colt. Se non aveva cambiato abitudini proprio quel giorno, Tenning si sarebbe presumibilmente fermato allo Starbucks, quindi avrebbe attraversato la strada e sarebbe arrivato a «casa» tra le otto e mezzo e le nove. Prevedevamo che imboccasse il sentierino per entrare dalla porta di servizio e che salisse a piedi le scale di sicurezza per evitare di incontrare qualcuno degli inquilini. Da dietro il finestrino rigato di pioggia osservai pedoni in impermeabile, con il viso nascosto da ombrelli neri, che si fermavano alla farmacia Walgreens, portavano indumenti sporchi alla lavanderia Fanta e si affrettavano per non perdere il treno. Eravamo entrambi pericolosamente stanchi, per cui quando un tizio che corrispondeva alla descrizione di Tenning attraversò Townsend Street con una tazza di caffè in mano non riuscii a capire se era davvero il nostro uomo o era soltanto la voglia di andare a dormire a farmi credere che lo fos-
se. Non ne potevo davvero più. «È quello con la giacca a vento grigia e l'ombrello nero» dissi. Scattò il verde e le macchine che passavano ci ostruirono la vista quanto bastava perché il nostro uomo scomparisse in mezzo alla folla sul lato opposto della strada. Doveva aver imboccato il sentierino accanto al Blakely Arms. «Sì, sì. Sembra anche a me» disse Conklin. Chiamai Paul Chi e gli dissi che stavamo per entrare in azione. Lasciammo passare uno o due minuti, poi io e Conklin ci tirammo su il bavero e ci avviammo verso l'ingresso principale del condominio. Salimmo in ascensore al quinto piano, dove con la chiave che mi aveva dato Portia Fox aprii la porta, tenendola socchiusa. Estrassi la pistola. Quando arrivarono Paul Chi e Cappy McNeil, Conklin spinse la porta ed entrammo. Controllammo una per una tutte le altre stanze, prima di avvicinarci a quella di Tenning. Accostai l'orecchio alla porta, sentii chiudere un cassetto e un paio di scarpe che cadevano, una dopo l'altra, sul nudo pavimento. Feci un cenno a Conklin, che bussò. «Polizia, signor Tenning. Abbiamo un mandato di arresto.» «Andate a quel paese» gridò una voce rabbiosa. «Non avete nessun mandato. Conosco i miei diritti.» «Signor Tenning, il 15 agosto dello scorso anno lei ha parcheggiato in un posteggio riservato ai vigili del fuoco, ricorda? E non si è presentato in tribunale.» «Volete arrestarmi per una stupidaggine del genere?» «Apra, signor Tenning.» Il pomolo della maniglia ruotò e la porta si aprì cigolando. Quando vide che avevamo le armi spianate, Tenning cambiò espressione e da semplicemente irritato divenne furibondo. E ci chiuse la porta in faccia. «Abbattiamola» dissi. Conklin diede due calci vicino alla maniglia e la sottile porta di legno si spezzò, spalancandosi. Ci tenemmo al riparo ai lati della porta, perché Tenning era con la schiena appoggiata alla parete a circa tre metri di distanza, ma con una Colt calibro 38 puntata verso di noi. «Non mi arresterete» disse stringendo la pistola con due mani. «Sono troppo stanco. Non ne ho voglia.»
105 Con il cuore che batteva all'impazzata e il sudore che mi colava lungo la schiena, ruotai sul piede destro e mi piazzai al centro della porta a gambe larghe, con la Glock puntata su Tenning. Anche se avevo il giubbotto antiproiettile, avrebbe potuto farmi fuori tranquillamente con un colpo alla testa. E le pareti di cartongesso sottile non sarebbero bastate a proteggere i miei colleghi. «Metti giù quella pistola o ti sparo dritto al cuore, cretino!» gridai. «Quattro poliziotti armati per una violazione al codice della strada? Ma non fatemi ridere! Mi avete preso per un idiota?» «Tu sei un idiota, Tenning, se sei pronto a rischiare la vita per una multa da cinquanta dollari.» Tenning guardò prima la mia pistola, poi le altre tre che aveva puntate addosso e borbottò: «Che rottura di palle». Quindi lasciò cadere la calibro 38. Facemmo subito irruzione nella stanza, rovesciando una sedia e il piano di un tavolo. Allontanai la pistola di Tenning buttandola verso la porta con un calcio. Nel frattempo Conklin lo fece girare con la faccia contro il muro e gli mise le manette. «Sei in arresto per mancata comparizione in tribunale» gli disse ansimando. «E per resistenza a pubblico ufficiale.» Recitai a Tenning i suoi diritti con la voce roca per lo stress e la tensione. «Ottimo lavoro, ragazzi» dissi poi. Mi sentivo quasi svenire. «Tutto bene, Lindsay?» chiese McNeil, posandomi una grossa mano sulla spalla. «Sì. Grazie, Cappy» risposi. Ero sollevata perché quell'arresto sarebbe potuto degenerare in un bagno di sangue, ma ero anche preoccupata perché la motivazione dell'arresto era alquanto pretestuosa. Mi guardai intorno. La stanza era un rettangolo di tre metri per quattro scarsi, con un letto singolo, un cassettone di legno di pino e due schedari su cui era appoggiata una semplice asse di legno che fungeva da tavolo. Era quello che avevamo rovesciato e che adesso era per terra insieme con il computer e fogli sparsi. Ma per terra c'era anche un altro oggetto che doveva essere saltato fuori
durante l'irruzione: un tubo di ferro che era rotolato da sotto il letto. Un tubo di circa tre centimetri di diametro, lungo mezzo metro, con un giunto sferico a un'estremità. Di forma abbastanza simile a una mazza. Mi chinai a osservarlo più da vicino. Nelle filettature del giunto c'era una leggera macchia marrone. Feci cenno a Conklin, che si chinò a esaminarla. Ci guardammo negli occhi. «Abbiamo trovato l'arma del delitto» disse Conklin. 106 Eravamo nella più piccola delle due salette per interrogatori di cui disponevamo alla centrale. Tenning era seduto al tavolo, di fronte allo specchio, e io ero seduta di fronte a lui. Aveva un paio di jeans e una maglietta bianca, i gomiti sul tavolo e la testa china: la luce dal soffitto gli si rifletteva sulla pelata. Non parlava, perché aveva chiesto l'assistenza di un avvocato. Ci sarebbe voluto almeno un quarto d'ora per trasmettere la richiesta ai difensori d'ufficio al terzo piano e un altro perché uno di loro ci raggiungesse per presenziare all'interrogatorio. Nulla di ciò che Tenning avesse detto nel frattempo avrebbe potuto essere usato contro di lui. «Abbiamo un mandato di perquisizione per la tua stanza» gli dissi. «Hai presente il tubo che hai usato per uccidere Irene Wolkowski e Ben Wyatt? È nei nostri laboratori. Avremo i risultati dei test prima che arrivi l'avvocato difensore.» Tenning sorrise sarcastico. «Allora lasciatemi aspettare in pace, per la miseria. Ho i miei pensieri.» «Ma a noi i tuoi pensieri interessano» ribattei. «Tutti quei dati statistici che abbiamo visto in casa tua... Che cosa sono?» «Sto scrivendo un libro. Vorrei tornare a lavorare, a proposito.» Arrivò Conklin con una radio a pile. Sbatté forte la porta e accese la radio. La trasmissione era molto disturbata. Rich cercò di sintonizzarla e alzò il volume. Intanto disse a Tenning: «Qui dentro purtroppo la radio non si riceve bene, ma volevo tanto sentire le previsioni del tempo». A mano a mano che le scariche aumentavano di volume, notai lo sguardo di Tenning farsi sempre più inquieto. Dopo un po', mentre Conklin con-
tinuava ad armeggiare, vidi che stava sudando. «Scusi, può spegnerla, per piacere?» disse poi. «Subito, subito» rispose Conklin alzando ulteriormente il volume e posando la radiolina sul tavolo. «Gradisci un caffè, Garry? Non è di Starbucks, ma ha tutta la caffeina che vuoi.» «Senta» disse Tenning guardando fisso la radio, agitatissimo. «Non potete interrogarmi senza un avvocato. Dovreste mettermi in cella.» «Noi non ti stiamo interrogando» ribatté Conklin. Prese una sedia di metallo, la sbatté con fragore vicino a quella di Tenning e si sedette. «Stiamo cercando di aiutarti. Se vuoi un avvocato, padronissimo» gli urlò nelle orecchie. «Così facendo però rinunci alla possibilità di confessare e, pertanto, di patteggiare. Ma per noi è lo stesso, vero, sergente?» «Per me va benissimo» risposi a gran voce per farmi sentire nonostante lo sfrigolio della radio. Ruotando la manopola della sintonia, trovai una stazione che trasmetteva heavy metal anni Ottanta e alzai ancora di più il volume, fino a far quasi vibrare il tavolo. «Riesumeremo i cani che hai ammazzato, Garry» continuai. «Controlleremo se la loro dentatura corrisponde ai morsi che hai sul braccio. E confronteremo il DNA del sangue sulla mazza con quello delle vittime. Poi io e l'ispettore Conklin ci prenoteremo due posti in prima fila per assistere alla tua esecuzione, tra una ventina d'anni. A meno che tu non voglia che io chiami il procuratore adesso, naturalmente: così magari la pena di morte riesci a evitarla.» Guardai l'orologio. «Ti lascio una decina di minuti per decidere.» Alla radio trasmisero una versione stridentissima di Brain Buster suonata da un gruppo che si chiamava Gross Receipts. Tenning si raggomitolò su se stesso, tappandosi le orecchie con le mani. «Basta! Basta! Lasciate perdere l'avvocato! Vi racconterò tutto, ma spegnete quell'aggeggio, vi prego!» 107 Diluviava ancora, quando parcheggiai la macchina dietro il SUV di Claire. Correndo sotto l'acqua, attraversai la strada e i cinquanta metri che mi separavano da Susie's. Aprii la porta e fui accolta da un assolo di batteria e da uno squisito profumo di pollo al curry. Appesi l'impermeabile all'attaccapanni all'ingresso e vidi che Susie stava invitando gli habitué del locale a una gara di limbo, mentre la band accor-
dava gli strumenti. Mi gridò: «Lindsay! Togliti quelle scarpe bagnate e vieni a ballare! Ce la puoi fare, ragazza mia!» «Scordatelo, Susie!» ribattei. «Ci ho già provato, se ben ricordi.» Mentre mi dirigevo verso la sala in fondo, bloccai Lorraine, la cameriera, e ordinai una Corona. Yuki mi salutò con la mano dall'ultimo tavolo, poi anche Cindy alzò la testa e mi sorrise. Mi sedetti sulla panca accanto a Claire. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che eravamo state a cena fuori tutte insieme. Troppo tempo. Appena arrivò la mia birra, Cindy propose un brindisi all'arresto di Garry Tenning. Minimizzai con una risata. «Ero molto motivata, Cindy. Non volevo dover dividere la mia casa con te, e se non avessimo preso quel bastardo sarei stata costretta a ospitarti fino a chissà quando!» Poi, siccome Yuki e Claire non erano al corrente degli ultimi sviluppi, le aggiornai. «Sta scrivendo un libro intitolato La resa dei conti. Il sottotitolo è Compendio statistico del XX secolo.» «Non farmi ridere. Scrive un libro su tutto quel che è successo nell'ultimo secolo?» esclamò Yuki. «Sì, anche se 'scrivere' è una parola grossa, in questo caso. In realtà ha solo messo insieme pagine e pagine di dati statistici. Cose tipo quanto latte e quanto frumento sono stati prodotti in ognuno degli Stati USA ogni anno, quanti bambini hanno ottenuto la licenza elementare, quanti incidenti domestici ci sono stati...» «Ma è tutta roba che si trova tranquillamente su Google» osservò Yuki. «Sì, ma per Garry Tenning La resa dei conti è una vera e propria missione» spiegai mentre Lorraine ci portava altre birre e il menu. «Fa il guardiano notturno in un cantiere edile e dice che, lavorando di notte, ha tempo di 'pensare alle cose importanti'.» «Ma come faceva a sentire tutti i rumori dei vicini, chiuso in quella stanzetta senza finestre?» chiese Claire. «Il rumore si trasmette lungo le tubature e le prese d'aria e si sente nei punti più impensati» disse Cindy. «Io, per esempio, attraverso i condotti di ventilazione nel bagno sento cantare persone che non so chi siano né dove abitino.» «Mi domando se non soffra di iperacusia» commentò Claire. «Come, scusa?» feci io.
«È un aumento della sensibilità uditiva dovuto ad alterazioni dei centri cerebrali che regolano la percezione dei suoni» ci spiegò Claire con il rumore del ristorante e della cucina in sottofondo. «Rumori che le persone normali a malapena percepiscono risultano intollerabili a chi soffre di iperacusia.» «Con quali conseguenze?» «Un forte senso di isolamento. Aggiungici un disturbo esplosivo intermittente con incapacità di controllare gli istinti aggressivi e personalità antisociale e, be', ti ritrovi con un Garry Tenning.» «Il mostro del Blakely Arms» commentò Cindy. «Ditemi solo che non è possibile che esca con la condizionale.» «Escluso» la rassicurai. «Ha confessato. Abbiamo l'arma del delitto. Tenning è dentro e ci rimane.» «Certo che, se davvero ha questo disturbo della percezione uditiva, la galera sarà un vero inferno per lui» osservò Yuki mentre Lorraine ci serviva il primo piatto. Cindy mimò un disperato che si tappava le orecchie. Cominciammo a mangiare scambiandoci racconti e confidenze. Claire ci disse che prevedeva di dover lavorare il doppio di prima perché il dottor Germaniuk stava per trasferirsi. «Il cielo piange per dire addio al dottor G. Gli hanno offerto un lavoro cui non poteva rinunciare, non so dove nell'Ohio.» Brindammo a Germaniuk, poi Claire chiese a Yuki come stava. «Mi sento un po' bipolare» rispose Yuki ridendo. «Certi giorni ho paura che Fred-a-lito-lindo riesca a convincere la giuria di essere un vero malato di mente, altri mi sveglio convintissima che straccerò Mickey Sherman senza problemi.» Poi facemmo una gara a chi inventava il nome più bello per il bambino di Claire. Cindy suggerì: «Se è una femmina, Margarita!» E vinse il drink successivo. Il tempo passò velocissimo. Troppo presto ci ritrovammo ad aver già preso il caffè, e fuori della porta c'era la fila. Lasciammo i soldi sul tavolo e ci sfidammo a uscire di corsa sotto la pioggia. Io fui l'ultima a lasciare il ristorante. Andando verso Potrero Hill, ipnotizzata dal viavai ritmico del tergicristallo e dagli aloni dei fari delle macchine che venivano nella direzione opposta, mi resi conto che il silenzio mi deprimeva un po', dopo una giornata così movimentata. E anche la solitudine, dopo la cena con le mie ami-
che. Tornando a casa, non avrei trovato Joe ad aspettarmi davanti alla porta. E anche Martha era ancora in vacanza. Tuonava, quando corsi fino al portone, e pioveva ancora quando andai a letto, da sola. 108 La mattina dopo io e Rich ci ritrovammo alla nostra scrivania ad aspettare con ansia Mary Jordan. Si presentò con dieci minuti di ritardo e l'aria scossa. La invitai ad accomodarsi nella stanza senza finestre che usavamo come cucina e sala da pranzo, Rich le porse una sedia e io preparai il caffè: nero, con due cucchiaini di zucchero, come glielo avevo visto prendere quando eravamo andati a trovarla negli uffici della Westwood Registry. «Ho pregato tanto per Madison» esordì torcendosi le mani in grembo. Aveva le occhiaie, come se avesse pianto. «Ma in cuor mio sono convinta di aver fatto la volontà di Dio.» Quella dichiarazione mi preoccupò. «Che cos'ha fatto esattamente, Mary?» «Stamattina, quando il signor Renfrew è uscito, sono entrata nel suo ufficio e ho frugato ancora un po'.» Posò sul tavolo una grossa borsa in similpelle e ne estrasse un libro mastro grigio, rilegato in tela, all'antica. Sull'etichetta era scritto QUEENSBURY REGISTRY. «Questa è la calligrafia del signor Renfrew» disse indicando le pagine con parole in stampatello e numeri scritti in perfetto ordine, a mano. «È il registro della società che i Renfrew avevano a Montreal due anni fa.» Aprì il libro mastro a una pagina segnata con un cartoncino e lo girò verso di noi. Il cartoncino in realtà era una foto. La foto di un bambino biondo di circa quattro anni con due straordinari occhi verde-azzurri. «Ha fretta?» le chiesi. La segretaria della Westwood Registry scosse il capo. Quella mattina avevo preso l'ascensore con Kathy Valoy, il sostituto procuratore, quindi ero sicura che fosse in ufficio. La chiamai e le spiegai la faccenda della Queensbury Registry e della foto del bambino. «I Renfrew saltano da una parte all'altra del continente, aprendo e chiu-
dendo agenzie. Kathy, sono convinta che quella foto sia di un'altra delle loro vittime» dissi. Kathy doveva aver fatto le scale due gradini alla volta, perché non avevo ancora posato il telefono che me la trovai davanti. Chiese di nuovo a Mary Jordan se aveva reperito quelle informazioni di sua iniziativa e, di nuovo, Mary Jordan giurò che non stava lavorando per noi. «Telefono al giudice Murphy e vediamo che cosa si può fare» disse Kathy Valoy osservando la foto del bambino e passandosi le mani tra i capelli neri corti. Pochi minuti dopo aver accompagnato Mary Jordan all'ascensore, squillò il telefono. Era Kathy Valoy. «Vi sto faxando il mandato di perquisizione.» 109 Bussammo alla porta della Westwood Registry e ci venne ad aprire Paul Renfrew in persona, con un elegante completo spigato grigio, camicia bianca appena stirata, papillon e capelli biondi dal taglio impeccabile. Spalancò gli occhi dietro le lenti con montatura a giorno e sorrise. Sembrava felicissimo di vederci. «Buone notizie, spero. Avete trovato Madison?» chiese. Poi notò i quattro agenti in divisa che stavano scendendo dal furgone. «Abbiamo un mandato di perquisizione, signor Renfrew» dissi. A un cenno di Conklin, i poliziotti si avviarono con passo pesante su per le scale armati di scatoloni vuoti. Facemmo loro strada fino all'ufficio dei Renfrew. Era piuttosto ordinato: sulla scrivania c'erano una tazza di tè e un piatto con un muffin lasciato a metà accanto a una pila di pratiche aperte. «Ci parli della Queensbury Registry» dissi. «Accomodatevi, prego» replicò indicandoci uno dei due divanetti disposti a L in un angolo della stanza e, mentre spostava la sua sedia da dietro la scrivania, lanciò varie occhiate preoccupate ai poliziotti che, su indicazione di Conklin, stavano trasferendo negli scatoloni intere cartelle di documenti. «Non c'è nulla di segreto» disse Renfrew. «Vi avrei sicuramente parlato anche della Queensbury. L'abbiamo chiusa perché andava male.» Mi mostrò il palmo delle mani come a dire che non nascondeva nulla.
«Purtroppo non sono molto bravo negli affari» aggiunse. «Abbiamo bisogno di parlare anche con sua moglie.» «Certo, certo. Anche lei vuole parlare con voi. Rientra da Zurigo con il volo di stasera.» Renfrew stava dando prova di una disponibilità così convincente che decisi di far finta di cascarci. Sorrisi e gli domandai: «Conosce questo bambino?» Renfrew prese la foto del bambino biondo con gli occhi verde-azzurri e la osservò attentamente. «Non mi pare. Dovrei?» In quel momento si avvicinò Conklin con un agente e vari registri azzurri sotto braccio. «Signor Renfrew, da questo momento l'attività dell'agenzia è sospesa per settantadue ore. Questo significa che non si possono più usare nemmeno i telefoni della ditta. Le presento l'agente Pat Noonan, che è incaricato di controllare che l'agenzia resti chiusa fino allo scadere del mandato.» «Rimarrà qui in pianta stabile?» «Sì, e fra otto ore verrà sostituito da un collega. Lei si intende di football? Pat è un grande tifoso dei Fighting Irish. Se gli dà corda, la intratterrà per otto ore di fila.» Noonan sorrise della battuta, ma Renfrew rimase impassibile. «Ancora una cosa, signor Renfrew: non cerchi di allontanarsi dalla città. Glielo sconsiglio vivamente.» 110 Nell'ufficio di Tracchio l'atmosfera era tesa in maniera quasi insopportabile. Il mostro insaziabile dei media incalzava famelico da più di una settimana e noi non avevamo nulla da offrirgli per placarlo. Era stata uccisa una ragazza di diciannove anni ed era scomparsa, o forse morta, una bambina, figlia unica di una famiglia molto in vista. Era una vera tragedia e tutti, nell'ufficio di Tracchio, ci sentivamo personalmente responsabili. «Boxer, riferisci al capo i nuovi sviluppi» mi disse Jacobi. Gli lanciai un'occhiata che voleva dire: Non insegnarmi il mio mestiere, tenente, e cominciai a descrivere tutto quello che avevamo scoperto posando sulla scrivania i relativi reperti. Prima di tutto le copie dei messaggi spediti dai rapitori, poi le foto dei tre bambini: Erica Whitten, Madison
Tyler e il bambino con gli occhi verde-azzurri. «Non sappiamo chi sia questo bambino» dissi. «Renfrew sostiene di non conoscerlo, ma la foto è stata ritrovata in questo registro che gli appartiene.» Rich posò il libro mastro della Queensbury Registry vicino ai due della Westwood Registry. Aggiunsi: «Sappiamo che i Renfrew hanno aperto tre agenzie diverse: quella di Boston, quella attualmente operativa qui a San Francisco e una a Montreal, che si chiamava Queensbury Registry. Due anni fa la polizia canadese aprì un'inchiesta sulla scomparsa di un bambino da un parco giochi nei pressi di casa sua. Si chiamava André Devereaux e non è mai stato ritrovato. André aveva una baby-sitter». «Che veniva dalla Queensbury Registry?» chiese Tracchio. «Esatto» disse Conklin. «Ho controllato la contabilità. Tra l'affitto, i viaggi, i costi di selezione e trasferta delle ragazze straniere, le spese legali e di gestione, nonostante le tariffe da capogiro, i Renfrew sono in perdita.» «Eppure continuano ad aprire agenzie» feci notare. «Non si può fare a meno di chiedersi perché. Che interesse hanno?» Il tenente Macklin porse a Tracchio una foto stampata dal computer. «Questo è André Devereaux» disse indicando il bambino rapito in Canada. «Assomiglia molto al bambino la cui foto è stata trovata nel libro mastro della Queensbury. La sua tata era svedese, si chiamava Britt Osterman. E veniva dalla Queensbury Registry. Una settimana dopo il rapimento di André Devereaux fu trovata morta in un fosso lungo una strada isolata, con un proiettile in testa. I titolari della Queensbury Registry erano due americani, John e Tina Langer, che dopo la vicenda DevereauxOsterman scomparvero a loro volta» continuò Macklin. «La polizia canadese ci ha mandato via e-mail questa foto dei Langer.» Macklin posò sulla scrivania di Tracchio un'altra foto stampata con una stampante laser: ritraeva un uomo e una donna fra i quarantacinque e i cinquant'anni, di razza bianca. Era un'istantanea scattata a una festa in un salone elegante, con le pareti rivestite di legno, gli uomini in smoking e le signore in abito da cocktail. Lui le teneva un braccio intorno alla vita e sorrideva. Sull'identità della donna potevo solo fare ipotesi, ma dell'uomo ero sicura. Aveva i capelli neri pettinati all'indietro, il pizzetto e non portava gli occhiali, ma l'avevo visto in faccia pochissimo tempo prima e sapevo chi era.
John Langer era Paul Renfrew. 111 Quello stesso mercoledì poco dopo mezzogiorno io e Conklin andammo a pranzo allo Uncle's Café di Chinatown. Ordinammo il piatto del giorno: arrosto al tegame con purè e fagiolini. Conklin mangiava di gusto, io invece non avevo appetito. Avevamo scelto un tavolo da cui si vedevano bene i palazzi di mattoni dall'altra parte della strada e, in particolare, l'ingresso della Westwood Registry. Una cameriera cinese incinta, con i codini, venne a versarci il tè. Quando guardai di nuovo fuori una frazione di secondo dopo, vidi il sedicente Paul Renfrew uscire dal portone e scendere i gradini. «Guarda» dissi a Conklin battendogli con la forchetta sul piatto. In quel momento mi squillò il cellulare. Era Pat Noonan. «Il signor Renfrew ha detto che va a mangiare e torna tra un'ora.» Ne dubitavo. Renfrew stava tentando la fuga. Ma non aveva idea di quante paia di occhi lo stessero sorvegliando. Conklin pagò il conto, mentre io telefonavo a Stanford e Jacobi, tiravo su la lampo della giacca per nascondere il giubbotto antiproiettile e seguivo con lo sguardo Renfrew che passava davanti alle erboristerie e ai negozi di souvenir di Waverly Place con passo deciso, diretto verso l'angolo con Clay Street. Io e Conklin salimmo sulla nostra Crown Vic mentre Renfrew apriva la portiera di una BMW blu, si guardava alle spalle e saliva in macchina. Partì in direzione sud. David Stanford e la sua collega, Heather Thomson, gli si accodarono in Sacramento Street mentre Jacobi e Macklin si dirigevano verso Broadway passando più a nord. Tenendoci in comunicazione con i walkie-talkie, ci alternammo nel pedinamento della BMW La seguivamo per brevi tratti, quindi rimanevamo indietro per poi raggiungerla di nuovo, mimetizzati nel traffico. Il cuore mi batteva forte, mentre seguivamo Paul Renfrew nella sua corsa verso una destinazione sconosciuta. Attraversammo il Bay Bridge e, percorso un tratto della Highway 24 in direzione nord, entrammo nella contea di Contra Costa.
Io e Conklin eravamo a bordo della prima auto, quando Renfrew imboccò l'uscita di Altarinda Road e quindi una delle strade secondarie di Orinda, una cittadina tranquilla e molto esclusiva seminascosta tra le colline. Sentii che Jacobi comunicava via radio alla polizia locale che stavamo effettuando un pedinamento nell'ambito di un'indagine per omicidio. Macklin chiese rinforzi alla polizia di Stato, quindi chiamò il dipartimento di Oakland e richiese anche l'intervento di un elicottero. Poco dopo sentii la voce di Stanford che chiamava nientemeno che una squadra dell'FBI. «E con questo il dipartimento di San Francisco ha perso il controllo sull'operazione» commentai. La BMW di Renfrew rallentò ed entrò nel viale di una villa bianca con tanti abbaini e le persiane azzurre. Conklin tirò dritto con aria indifferente. All'incrocio in fondo alla strada fece inversione, tornò indietro e si fermò in uno spiazzo all'ombra di fronte alla villa. Renfrew aveva lasciato la BMW accanto a un minivan Honda. Non poteva essere una coincidenza. Doveva essere lo stesso minivan che era stato usato per il rapimento di Madison Tyler e Paola Ricci. 112 Immisi il numero di targa del minivan sul computer che avevamo in auto, pensando già a un mandato di perquisizione e al sequestro del mezzo. Chissà, magari avremmo trovato sui sedili tracce di sangue di Paola Ricci. A quel punto, il coinvolgimento di Renfrew nel sequestro della piccola Maddy sarebbe stato inequivocabile. Nel giro di un'ora, allestimmo due perimetri di sorveglianza: uno interno, che interessava la villa, e uno esterno, che comprendeva anche i due isolati circostanti. Non vedendo movimenti o segni di vita nella villa, non potevo fare a meno di chiedermi che cosa stesse succedendo. Renfrew stava facendo i bagagli? Stava distruggendo prove compromettenti? Erano quasi le quattro del pomeriggio quando arrivarono cinque SUV neri e parcheggiarono lungo il marciapiede, perpendicolarmente rispetto alla facciata della villa. David Stanford si avvicinò al mio finestrino e mi porse un megafono. Si era dovuto tagliare i capelli per adeguarsi agli standard dell'FBI e non aveva più la stessa luce divertita negli occhi, da quando aveva smesso di lavo-
rare sotto copertura. Disse: «Da questo momento comandiamo noi, Lindsay, ma siccome Renfrew ti conosce, prova tu a farlo uscire dalla casa». Conklin mise in moto e ci portammo dall'altra parte della strada, all'ingresso del viale della villa, in modo da bloccare sia il minivan sia la BMW. Presi il megafono e, in piedi dietro la portiera aperta, esordii così: «Signor Renfrew, sono il sergente Boxer. Abbiamo un mandato di arresto. Lei è accusato di omicidio. Esca lentamente e con le mani in alto». La mia voce riecheggiò nel silenzio di quel tranquillo quartiere periferico, spaventando gli uccelli e sovrastando il rumore dell'elicottero che sorvolava la zona. «Vedo del movimento al primo piano» disse Conklin. Tesissima, guardai meglio la facciata. Non vidi nulla di strano, ma avevo la pelle d'oca come se avessi una pistola puntata addosso. Sollevai di nuovo il megafono e premetti il pulsante. «Signor Renfrew, questo è il nostro ultimo avvertimento. Abbiamo potenza di fuoco sufficiente per ridurre in macerie la sua villa. Non ci costringa a usarla.» Il portone si aprì di uno spiraglio e nell'ombra comparve Renfrew. Gridò: «Sto uscendo! Non sparate! Vi prego, non sparate!» Lanciai una rapida occhiata alla mia sinistra per vedere come reagiva la squadra dell'FBI. Gli agenti avevano almeno una decina di fucili M16 puntati sul portone ed ero sicura che da qualche parte su un tetto, magari a un centinaio di metri di distanza, ci fosse un tiratore scelto con una carabina Remington 700 e un mirino telescopico puntati alla testa di Renfrew. «Esca fuori, si metta bene in vista» gridai e, quando ubbidì, commentai: «Saggia decisione, signor Renfrew. Adesso si volti e venga verso di me camminando all'indietro». Renfrew era sotto il frontone che sovrastava l'ingresso della villa. Una decina di metri di prato ben rasato lo separavano dal punto in cui ci trovavamo noi. «Non posso» disse a voce bassa, quasi implorante. «Se esco da qui sotto, quella mi spara.» 113 Renfrew aveva l'aria spaventata, e a ragione: una mossa falsa e la sua aspettativa di vita si sarebbe ridotta a meno di due secondi.
Ma non era di noi che aveva paura. «A chi si riferisce?» domandai al megafono. «Mia moglie, Laura. È al piano di sopra con una semiautomatica. Non sono riuscito a convincerla a uscire. Non vuole che io mi arrenda ed è pronta a spararmi, piuttosto.» Un bel pasticcio. Se volevamo scoprire che cosa era successo a Madison Tyler, Paul Renfrew ci serviva vivo. «Faccia esattamente quello che le dico io!» gridai. «Si tolga la giacca e la butti lontano... Così, bravo. Adesso rovesci le tasche dei pantaloni.» Il microfono della mia radio era acceso, per cui tutti sentivano quello che dicevo. «Si slacci la cintura, signor Renfrew, e abbassi i pantaloni.» Renfrew mi lanciò un'occhiata perplessa, ma ubbidì. Si calò i pantaloni e restò in camicia. «Adesso si giri lentamente. Un giro completo su se stesso. Trecentosessanta gradi. Tiri su la camicia, voglio vedere cos'ha sotto» continuai. Renfrew eseguì. «Okay, adesso può tirarsi su i pantaloni.» Renfrew si rivestì in tutta fretta. «Ora tiri su le gambe dei pantaloni fino al ginocchio.» «Belle gambe, per essere un uomo» commentò Conklin in piedi sull'altro lato della macchina. «Adesso portiamolo via di qui.» Annuii, valutando quante probabilità potessero esserci che la moglie scendesse al piano di sotto e gli sparasse dal portone aperto. Dissi a Renfrew che mollasse pure le gambe dei pantaloni e venisse fuori, strisciando lungo la facciata della casa. «Se fa quello che le dico io, sua moglie non potrà prenderla di mira. Tenga tutte e due le mani appoggiate al muro e strisci fino all'angolo sud della casa. Poi si sdrai per terra con le mani intrecciate dietro la schiena.» Quando Renfrew fu a terra, un Suburban nero avanzò nel prato. Due agenti dell'FBI scesero di corsa, ammanettarono Renfrew e lo palparono per accertarsi che non fosse armato. Mentre lo caricavano sul sedile dietro, si udì un vetro che andava in frantumi al primo piano della villa. Oh, merda. A una delle finestre si affacciò una donna. Aveva una pistola in pugno e la teneva puntata alla tempia di una bambina dall'aria terrorizzata. Madison Tyler. Era Tina Langer, alias Laura Renfrew, e aveva una faccia da assassina.
Era arrabbiatissima, ma non pareva spaventata. Gridò dalla finestra: «La fine della partita è sempre la parte più interessante, vero, sergente Boxer? Voglio un salvacondotto. Per me e per Madison. E un passaggio in elicottero. Chiamate il pilota, ditegli di atterrare sul prato. Subito. E, a proposito, alla minima minaccia nei miei confronti, io sparo alla b...» Vidi un foro scuro che le si apriva nella fronte prima ancora di sentire la detonazione del Remington che aveva sparato dal tetto della casa di fronte. Madison lanciò un grido. La donna che diceva di chiamarsi Laura Renfrew barcollò davanti alla finestra, allentò la presa e cadde a terra. 114 Come stava Madison Tyler? Era l'unica cosa cui riuscivo a pensare mentre mi precipitavo con Conklin nella camera da letto al primo piano con la finestra sopra il portone. Ma la bambina non c'era. «Madison?» chiamai ad alta voce. Addossato alla parete vicino alla porta c'era un letto singolo, sfatto, e sul letto una valigia aperta con dei vestiti da bambina buttati alla rinfusa. «Dove sei, tesoro?» disse Rich Conklin. «Siamo della polizia.» Arrivammo contemporaneamente davanti alla porta della cabina armadio. «Madison, va tutto bene, cara» dissi mentre giravo la maniglia. «Non aver paura.» Aprii la porta e vidi per terra un mucchio di indumenti che si muoveva appena, al ritmo di una persona che respira. Terrorizzata all'idea di quel che potevo trovare, mi chinai e dissi: «Maddy, mi chiamo Lindsay e sono una poliziotta. Sono venuta a prenderti per riportarti a casa». Scostai i vestiti e frugai finché non vidi la bambina. Piagnucolava piano, stringendosi le braccia al petto e dondolandosi con gli occhi chiusi. Grazie a Dio, era Madison. «Va tutto bene, tesoro» dissi con la voce che tremava. «Stai tranquilla.» Madison aprì gli occhi, io allargai le braccia e lei mi si buttò al collo. La strinsi forte a me, posandole una guancia sui capelli. Presi il cellulare e feci un numero che ormai avevo imparato a memoria. Mi tremavano talmente le mani che dovetti ricominciare più volte. Risposero al secondo squillo. «Signora Tyler, sono Lindsay Boxer. Sono insieme con l'ispettore Con-
klin. Abbiamo ritrovato Madison.» Avvicinai il cellulare alla bambina e le sussurrai: «Di' qualcosa alla mamma». 115 Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, io e Conklin ci ritrovammo in una sala riunioni della sede dell'FBI in Golden Gate Avenue. Insieme con una quindicina di altri agenti e funzionari di polizia, stavamo assistendo in diretta all'interrogatorio di Renfrew da parte di David Stanford e della sua collega Heather Thomson, proiettato su vari monitor. Ero seduta accanto a Conklin e osservavo Stanford e Thomson mentre passavano in rassegna i reati commessi da Paul Renfrew, alias John Langer, alias David Cornwall, alias Josef Waller. Il suo vero nome era quest'ultimo. «Gode, a essere al centro dell'attenzione» commentai. «Per fortuna non è toccato a me interrogarlo» replicò il mio collega. «Non credo che sarei riuscito a sopportare una faccia tosta del genere.» In effetti Waller ostentava un'affabilità e una sicurezza di sé veramente odiose. Non era insolente né provocatorio, ma si rivolgeva a Stanford e Thomson come se fossero suoi colleghi, quasi che una volta finito di raccontare le sue prodezze si aspettasse di diventare loro amico. Io, Macklin e Conklin ascoltavamo inchiodati alle sedie. Waller pronunciava i nomi delle sue vittime in tono quasi carezzevole: André Devereaux, Erica Whitten, Madison Tyler e una bambina di Città del Messico che si chiamava Dorothea Alvarez. Di quest'ultima non sapevamo assolutamente nulla. Possibile che fosse ancora viva? Sorseggiando un caffè, Waller rivelò a Stanford e Thomson dove si trovavano adesso i tre bambini scomparsi, che erano stati venduti come schiavi del sesso a uomini ricchissimi in diverse parti del mondo. «L'idea di far venire dall'Europa delle belle ragazze da sistemare come baby-sitter presso buone famiglie americane è stata di mia moglie» spiegò Waller. «A quel punto, cercavamo un acquirente per i bambini. Io mi occupavo delle tate, il mio compito era farle parlare in modo da individuare i bambini più belli, più dotati e più intelligenti. Di solito ne andavano molto fiere e parlavano volentieri.» «Così le ragazze vi segnalavano i bambini, ignare delle vostre intenzioni» disse Heather Thomson.
Renfrew sorrise. «Come facevate a trovare gli acquirenti?» chiese Stanford. «Con il passaparola. I nostri clienti erano tutti di altissimo livello e molto facoltosi. Volevo che i bambini finissero in ottime mani.» Mi veniva da vomitare, ma strinsi i braccioli della sedia e mi sforzai di continuare a guardare lo schermo. «Avete tenuto Madison per troppo tempo. Un bel rischio» gli fece notare Thomson. «Stavamo aspettando di concludere l'affare» disse Renfrew in tono di grande rammarico. «Ci eravamo accordati per un milione e mezzo di dollari, ma poi il cliente nicchiava. Abbiamo ricevuto un'altra offerta, leggermente più bassa, poi si è rifatto vivo il primo acquirente. E così, per pochi giorni, è andato a monte tutto.» Stanford fece un'altra domanda: «A proposito del rapimento di Madison e Paola, quel giorno al parco c'era molta gente. È stata un'operazione assai azzardata. Come avete fatto a portarla a termine così bene?» «Veramente ci siamo riusciti solo per un pelo» replicò quel maniaco in giacca spigata, sospirando. Nel ricordare quel giorno, assunse l'espressione di chi si accinge a raccontare al meglio una storia complicata. «Siamo andati all'Alta Plaza Park con il minivan. Ho detto a Paola e a Madison di salire. I bambini si fidano delle baby-sitter e le baby-sitter si fidano di noi.» «Geniale» commentò Stanford. Renfrew approvò con la testa e, incoraggiato, continuò. «Abbiamo detto che c'era stata un'emergenza, che la signora Tyler era caduta. Poi ho stordito la bambina con il cloroformio sul sedile di dietro, esattamente come negli altri tre sequestri. Ma Paola ha cercato di prendere il volante e abbiamo rischiato di fare un incidente. Ho dovuto metterla fuori combattimento nella maniera più rapida possibile. Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?» chiese Renfrew a David Stanford. «Io ti avrei soffocato alla nascita. Vorrei tanto averlo potuto fare» gli disse Stanford. PARTE QUINTA Fred-a-lito-lindo 116
L'aula era piena zeppa di assistenti giudiziari, cronisti di nera, parenti delle vittime e decine di persone che si trovavano a bordo del traghetto Del Norte quando Alfred Brinkley aveva sparato quei colpi fatali. Il pubblico parlava sottovoce, ma non appena due guardie scortarono in aula l'imputato il volume aumentò di colpo. Eccolo! L'autore della strage del traghetto! Mickey Sherman si alzò in piedi mentre a Brinkley venivano tolte le manette e la catena intorno alla vita e gli porse una sedia. «Potrò parlare?» chiese l'imputato. «Ci sto riflettendo» gli rispose l'avvocato. «Sei proprio sicuro di voler testimoniare, Fred?» Brinkley annuì. «Vado bene così?» «Sì. Stai benissimo.» Mickey Sherman tornò a sedersi e osservò il suo cliente, pallido, magro come un chiodo, con i capelli tagliati male, il viso arrossato dal rasoio e un vestito logoro che gli pendeva addosso come a uno spaventapasseri. La regola generale è che non si chiama un cliente a testimoniare a meno di non avere l'acqua alla gola e, comunque, soltanto se è una persona credibile e in grado di conquistare i giurati. Fred Brinkley era scialbo e antipatico. D'altra parte, che cosa avevano da perdere? L'accusa aveva testimoni oculari, un filmato e addirittura una confessione. Sherman perciò era in dubbio tra il rischio di una testimonianza ancora più disastrosa e la possibilità che Fred-a-lito-lindo riuscisse a convincere la giuria che davvero sentiva voci spaventose e che era completamente fuori di testa, quando aveva sparato a quelle persone... Brinkley aveva diritto a testimoniare in propria difesa, ma Sherman sperava ancora di riuscire a dissuaderlo. Quando i giurati si sistemarono ai loro posti e il giudice salì in cattedra era ancora indeciso, in realtà. Venne annunciata l'apertura dell'udienza e nell'aula scese un silenzio carico di aspettativa. Il giudice Moore, guardando da sopra gli spessi occhiali con la montatura nera, disse: «È pronto, avvocato Sherman?» «Sì, vostro onore» rispose lui, alzandosi in piedi e abbottonandosi la giacca. Poi si rivolse al suo cliente: «Fred...» 117
«Così, dopo l'incidente di sua sorella, lei fu ricoverato al Napa State Hospital?» chiese Sherman notando che l'imputato sembrava a suo agio al banco dei testimoni e si comportava molto meglio del previsto. «Sì. Mi sono fatto ricoverare. Non ce la facevo più.» «Capisco. E all'ospedale le diedero degli psicofarmaci?» «Certo. I sedici anni sono già un'età difficile, figuriamoci se ti vedi morire sotto gli occhi la sorellina.» «Quindi lei era depresso perché, quando sua sorella fu colpita dal boma e finì in mare, non riuscì a salvarla?» Yuki scattò in piedi. «Vostro onore, non abbiamo nulla in contrario a che l'avvocato Sherman deponga a favore del suo assistito, ma in tal caso dovrebbe prestare giuramento come tutti gli altri testimoni.» «Le farò un'altra domanda» replicò Sherman con un gran sorriso, continuando a rivolgersi tranquillamente all'imputato. «Fred, sentiva già le voci dentro la testa, prima che sua sorella avesse l'incidente?» «No, ho cominciato a sentirlo parlare dopo.» «A chi si riferisce, Fred?» Brinkley fece un gran sospiro e si coprì la testa con le mani, quasi temesse di evocare la voce nel descriverla. Spiegò: «Veramente non è una voce sola. Ce n'è una di donna, lamentosa e cantilenante, ma quella non conta. Poi c'è l'altra, di un uomo arrabbiatissimo, veramente fuori di sé dalla rabbia, che urla e mi comanda». «E questa è la voce che le ha detto di sparare quel giorno sul traghetto?» Brinkley annuì sconsolato. «Gridava: 'Spara, spara, spara' e io non ho capito più niente. Sentivo solo lui, non potevo fare altro che ubbidire. Esisteva solo lui, tutto il resto era un incubo.» «Fred, possiamo dire che lei non avrebbe mai e poi mai sparato a nessuno, se non fosse stato per le voci che la 'comandano' da quando sua sorella morì in quell'incidente in barca quindici anni fa?» Sherman si accorse che, invece di ascoltare la sua domanda, Fred Brinkley guardava fisso una persona tra il pubblico. «Quella è mia madre!» esclamò stupito. «È la mia mamma!» Tutti si girarono e videro una bella donna sulla cinquantina, afroamericana ma con la pelle piuttosto chiara, che passava tra due file di posti per andare a sedersi. Sorrise un po' rigida al figlio e prese posto. «Fred» disse Sherman. «Mamma! Adesso racconto tutto!» gridò Brinkley con la voce rotta
dall'emozione e un'espressione di grande dolore sul volto. «Mi ascolti, mamma? Sei pronta a sentire la verità? Avvocato Sherman, lei non ha capito niente. Continua a chiamarlo incidente, ma Lily non morì in un incidente!» Sherman si rivolse al giudice e disse in tono disinvolto: «Vostro onore, forse sarebbe il caso di fare una pausa...» Brinkley lo interruppe seccamente: «Io non ho bisogno di nessuna pausa. E, sinceramente, non ho nemmeno più bisogno del suo aiuto, avvocato Sherman». 118 «Vostro onore, chiedo che la testimonianza del signor Brinkley non venga presa in considerazione» disse Mickey Sherman in tono relativamente tranquillo, come se la situazione non stesse precipitando. «Per quale motivo, avvocato?» «Stavo facendo sesso con Lily, mamma!» gridò Brinkley alla madre in fondo all'aula. «Non era la prima volta, sai? Si stava togliendo la maglietta, quando il boma si spostò...» Fra il pubblico qualcuno gemette: «Oh, mio Dio». «Vostro onore, questa testimonianza non è pertinente.» Yuki balzò in piedi. «Vostro onore, è stato l'avvocato Sherman a chiamare a deporre il suo assistito!» Brinkley smise di guardare la madre e fissò i giurati esterrefatti. «Ho giurato di dire tutta la verità» dichiarò mentre nell'aula si scatenava un tal putiferio che non si sentivano più nemmeno i colpi fortissimi del martelletto con cui il giudice cercava di riportare il silenzio. «E la verità è che non mossi un dito per salvare mia sorella» disse Brinkley, con la bava alla bocca. «E ho ammazzato tutte quelle persone sul traghetto perché me lo ha ordinato lui. Sono un uomo molto pericoloso.» Sherman si sedette al tavolo della difesa e con calma cominciò a riporre le sue carte in un raccoglitore a fisarmonica. Brinkley intanto gridava: «Quel giorno, sul traghetto, ho preso bene la mira e ho premuto il grilletto e potrei farlo di nuovo». I membri della giuria, con gli occhi sbarrati, osservavano Brinkley che si asciugava le guance bagnate di lacrime con il palmo delle mani. «Ora basta, signor Brinkley» intimò il giudice. «Voi avete giurato di fare giustizia» continuò Brinkley a gran voce, bat-
tendosi ritmicamente sulle ginocchia. «Dovete condannarmi a morte per quello che ho fatto a quella povera gente. È l'unico modo per essere sicuri che io non lo faccia di nuovo. Se non mi condannate a morte, giuro che lo rifarò.» Mickey Sherman ripose il raccoglitore nella valigetta di metallo lucido e fece scattare la serratura. Chiuse bottega, insomma. Il giudice, rosso di esasperazione, gli chiese: «Avvocato Sherman, ha altre domande da rivolgere al teste?» «No, vostro onore.» «Procuratore? Desidera procedere al controinterrogatorio?» Yuki non avrebbe sicuramente potuto dire nulla di più efficace delle parole dello stesso Brinkley: «Se non mi condannate a morte, giuro che lo rifarò». «No, vostro onore» rispose, ma mentre il giudice ordinava a Brinkley di tornare al suo posto, le cominciò a lampeggiare una spia rossa dentro la testa. Brinkley si era davvero condannato con le sue stesse mani, o era riuscito a convincere la giuria di essere infermo di mente meglio di qualsiasi cosa avesse potuto dire o fare Sherman? 119 Alfred Brinkley era seduto sulla scomoda branda della sua cella di un metro e mezzo per tre al decimo piano della Corte di Giustizia. C'erano un sacco di rumori che riecheggiavano nel corridoio: si sentivano voci di altri detenuti, il cigolio delle ruote di un carrello di metallo, porte di ferro che sbattevano. Aveva sulle ginocchia il vassoio con la cena e stava mangiando le stesse cose della sera prima: petto di pollo stopposo con purè di patate acquoso e un panino duro come un sasso. Masticava con cura, ma senza gusto. Si pulì la bocca con un tovagliolo di carta beige, lo appallottolò fino a ridurlo a una pallina dura e piccola come una biglia e lo lasciò cadere in mezzo al piatto. Poi sistemò ordinatamente le posate di plastica accanto al piatto, si alzò dal letto, fece due passi e infilò il vassoio nella feritoia sotto la porta. Tornò alla branda e appoggiò la schiena al muro, lasciando pendere le gambe da una parte. Da quella posizione vedeva la tazza del gabinetto e il lavabo alla sua sinistra e, di fronte, il muro di cemento.
Era dipinto di grigio, vuoto, a parte le scritte incise qua e là, numeri di telefono, parolacce e soprannomi a lui incomprensibili. Cominciò a contare i mattoni di cemento sul muro, poi seguì con lo sguardo le strisce di malta tra l'uno e l'altro come cercando la via di uscita in un labirinto. Fuori dalla cella una guardia passò a raccogliere il suo vassoio. Il nome che portava scritto sulla targhetta era Ozzie Quinn. «È l'ora delle pillole, Fred» disse. Brinkley si avvicinò alla porta, allungò una mano fra le sbarre e prese il bicchierino di carta con le pillole. La guardia controllò che se le mettesse in bocca tutte, quindi gli porse un altro bicchiere, questa volta pieno d'acqua, e aspettò che le avesse mandate giù. «Bravo, Fred. Tra dieci minuti spegniamo le luci» disse poi. «Sogni d'oro» replicò Fred. Tornò sulla branda, riappoggiò la schiena al muro e provò a canticchiare sottovoce: «Ay, ay, ay, ay, Mama-cita-linda». Poi afferrò con forza il bordo del letto e si lanciò a testa avanti contro il muro di cemento. Una volta, poi due. 120 Quando Yuki rientrò in aula il suo capo, Leonard Parisi, era già seduto al tavolo. Gli aveva telefonato non appena era stata informata del tentato suicidio di Brinkley, ma non si aspettava di vederlo in tribunale. «Leonard! Che piacere vederti!» disse, anche se quello che pensava veramente era: Merda! Ti vuoi riprendere il caso? Non puoi farmi uno scherzo del genere! «I giurati sono tranquilli?» domandò Parisi. «Così hanno detto al giudice. Nessuno ha parlato di annullare il processo. E Sherman non ha nemmeno chiesto un rinvio.» «Bene. È odioso, ma ha del fegato» borbottò Parisi. Mickey Sherman, dall'altra parte dell'aula, conferiva con il suo cliente. Brinkley aveva lividi estesi su tutto il volto e la fronte fasciata e indossava una vestaglia azzurrina da ospedale da cui spuntavano i pantaloni a righe di un pigiama. Mentre l'avvocato gli parlava, teneva gli occhi bassi e si tirava i peli del braccio. Non alzò la testa nemmeno quando l'assistente del giudice ordinò: «Tutti in piedi!»
Il giudice prese posto, si versò un bicchier d'acqua e chiese a Yuki se era pronta. Lei rispose di sì. Si avvicinò al leggio sentendo il cuore che le batteva più forte del solito, si schiarì la voce, salutò i giurati e cominciò l'arringa finale. «Non siamo qui per stabilire se il signor Brinkley ha dei problemi psicologici o meno» disse. «Ne abbiamo tutti e c'è chi li gestisce meglio e chi peggio. Il signor Brinkley ha raccontato di aver sentito una voce rabbiosa che gli dava degli ordini, e forse è davvero così. Non possiamo accertarlo e comunque non è questo che importa. La malattia mentale non è una licenza di uccidere, signore e signori. Anche se sentiva delle voci dentro la testa, ciò non toglie che Alfred Brinkley sapesse di commettere un reato, quando uccise spietatamente quattro persone innocenti fra cui - più innocente di tutti - un bambino di nove anni. Come facciamo a sapere che era consapevole del fatto che quel gesto era sbagliato?» chiese Yuki rivolta ai giurati. «Lo deduciamo dal suo comportamento. Dalle sue azioni.» Yuki fece una pausa a effetto e si guardò intorno. Notò che Parisi aveva l'aria tirata, che Brinkley si guardava intorno stralunato e che i giurati, attentissimi, pendevano dalle sue labbra. Riprese dicendo: «Il suo comportamento fu deliberato: salì a bordo armato di una Smith & Wesson modello 10 carica e aspettò che il traghetto stesse attraccando, per non ritrovarsi in trappola in mezzo al mare. Sono tutte azioni che dimostrano premeditazione. Mentre il Del Norte era in fase di manovra, Alfred Brinkley prese bene la mira e sparò contro cinque persone. Poi fuggì via di corsa, più veloce che poteva. Ciò indica consapevolezza della colpa. Sapeva di aver commesso un reato. Sfuggì alla cattura e dopo due giorni si costituì e confessò, perché sapeva di aver compiuto un'azione riprovevole. Forse non sapremo mai esattamente che cosa gli passava per la testa, quel primo novembre, ma ciò che fece è accertato. Ce lo ha confermato ieri pomeriggio lui stesso: prese la mira e sparò alle sue vittime» e mimò una pistola con la mano destra, puntandola lungo un semicerchio immaginario sui giurati e sul pubblico, con il braccio teso davanti a sé. «Premette il grilletto sei volte. E ci ha avvertito, ci ha detto di essere consapevole di essere un uomo pericoloso. Francamente, la miglior dimostrazione della sanità mentale del signor Brinkley è il fatto che si sia dichiarato d'accordo con noi su due punti: sul fatto che è colpevole e che merita la pena massima prevista dalla legge. Pertanto vi prego di accontentare Alfred Brinkley, dandogli quel che lui stesso ha chiesto, affinché nes-
suno debba più temere di incontrarlo armato di una pistola carica.» Emozionata, Yuki tornò a sedersi accanto a Leonard Parisi, che le bisbigliò: «Ottima conclusione, Yuki. Complimenti». 121 Mickey Sherman si alzò immediatamente, andò verso la giuria ed esordì con semplicità, come se stesse parlando a sua madre o alla sua fidanzata. «So anch'io che Alfred Brinkley voleva sparare a quelle persone e infatti lo fece» disse. «Non l'abbiamo mai negato né intendiamo negarlo. Qual era il suo movente? Nutriva del rancore verso qualcuna delle vittime? Si trattò di una rapina o di un regolamento di conti fra narcotrafficanti? Sparò per autodifesa? No. La risposta a tutte queste domande è una sola: no. La polizia non è riuscita a trovare una motivazione razionale che spieghi il suo gesto. Perché Alfred Brinkley non aveva nessuna motivazione razionale per fare quello che fece. Ma, anche quando un reato non ha movente, ci si chiede comunque il perché. Fred Brinkley soffre di disturbo schizoaffettivo, che è una malattia come la sclerosi multipla o la leucemia. Non ha fatto nulla di male per meritarsi questa malattia. Non sapeva neppure di averla. Quando ha sparato a quelle persone, non sapeva che sparare fosse male, né che quelle persone erano reali, in carne e ossa. Ve lo ha detto chiaramente: sapeva solo che una voce forte, insopportabile, voleva che lui sparasse. E l'unico modo per metterla a tacere era ubbidire. Noi non pretendiamo che ci crediate sulla parola, quando asseriamo che Fred Brinkley è infermo di mente ai fini della legge. La sua anamnesi dimostra che Brinkley soffre di disturbi mentali ormai da quindici anni, dal primo ricovero in un ospedale psichiatrico. Decine di testimoni hanno dichiarato sotto giuramento di averlo visto parlare con il televisore, canticchiare fra sé, darsi manate così forti sulla fronte da lasciarsi il segno, nel tentativo disperato di far tacere quelle voci. Avete anche sentito il dottor Friedman, illustre psichiatra con una grande esperienza sia clinica sia legale, dichiarare di aver visitato il signor Brinkley tre volte giungendo a una diagnosi di disturbo schizoaffettivo» disse Sherman, che nel frattempo si era messo a camminare avanti e indietro. «Il dottor Friedman ci ha spiegato che, al momento del reato, Fred Brinkley era in uno stato psicotico delirante. La patologia mentale di cui egli soffre gli impediva di adeguarsi alle norme sociali. E ciò corrisponde alla definizione di infermità mentale prevista dalla legge. Non siamo di fronte a una malattia inventata dagli avvocati» continuò. Fece due
passi per andare a prendere un grosso volume posato sul tavolo della difesa e disse: «Questo è il manuale diagnostico DSM-IV, la bibbia degli psichiatri. Ne avrete una copia in camera di consiglio. Vi troverete spiegato che il disturbo schizoaffettivo è una forma di psicosi, una grave malattia mentale che influisce pesantemente sul comportamento di chi ne soffre. Il mio cliente non è un cittadino esemplare, non vi chiediamo di dargli una medaglia. Ma non è neppure un criminale e non c'è niente nel suo passato che faccia pensare il contrario. Il suo comportamento di ieri dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che è un uomo malato. Chi, sano di mente, chiederebbe mai a una giuria di essere condannato a morte?» Sherman tornò al tavolo della difesa, posò il libro e bevve alcuni sorsi d'acqua per poi tornare davanti alla giuria. «Le prove dell'infermità mentale dell'imputato in questo caso sono schiaccianti. Alfred Brinkley non ha ucciso per amore, per odio, per soldi, o per il puro gusto di uccidere. Non è un uomo malvagio, è un uomo malato. E io oggi vi chiedo di fare giustizia e quindi dichiarare Alfred Brinkley 'non colpevole' per infermità mentale e affidare al sistema sanitario il compito di impedirgli di nuocere ancora.» 122 «Peccato che non abbiate sentito l'arringa di Yuki» disse Cindy posando affettuosamente un braccio sulle sue spalle. La nostra amica avvocato le sedeva accanto raggiante, di fronte a me e Claire. «È stata favolosa.» «E questo sarebbe il tuo giudizio imparziale di cronista?» ribatté Yuki arrossendo un po', ma continuando a sorridere mentre si sistemava i capelli dietro l'orecchio. «Scherzi? No!» rispose Cindy ridendo. «Questo lo dico io personalmente, in via assolutamente ufficiosa.» Eravamo da MacBain's, di fronte alla Corte di Giustizia, tutte e quattro con il cellulare posato sul tavolo. Sydney MacBain, la figlia del proprietario, ci portò quattro bicchieri e due bottiglie di acqua minerale. «Acqua, acqua, che cos'è tutta quest'acqua?» commentò. «Cosa vi prende, signore? Questo è un cocktail bar, ve ne siete dimenticate?» Risposi io per tutte, puntando il dito su ognuna di noi a turno. «In servizio, in servizio, in servizio». Quando arrivai a Claire, dissi: «Incinta e in servizio». Sydney rise, si rallegrò con Claire, prese le ordinazioni e tornò in cucina.
«Così Brinkley sente delle voci?» chiesi a Yuki. «Pare di sì. Ma c'è un sacco di gente che sente delle voci: da cinque a diecimila persone solo a San Francisco. Ci sarà sicuramente qualcuno che le sente anche qui in questo bar, adesso. Eppure non vedo nessuno che spara. Brinkley sentirà anche delle voci, ma non ditemi che quel giorno non sapeva che stava commettendo un atto gravissimo.» «Che stronzo» commentò Claire. «E questo lo dico io, ufficialmente, in quanto testimone oculare e vittima.» I particolari di quella giornata mi tornarono in mente con spaventosa chiarezza: il sangue sul ponte del traghetto, i passeggeri che urlavano e la paura che Claire morisse. Ricordavo di aver abbracciato Willie e aver ringraziato Dio perché l'ultimo colpo sparato da Brinkley l'aveva mancato. Chiesi a Yuki: «Pensi che la giuria lo condannerà?» «Non lo so. Dovrebbe. Se c'è uno che merita l'iniezione letale è lui» rispose. Stava aggiungendo energicamente sale alle patate fritte e aveva i capelli che le nascondevano gli occhi, perciò non capimmo che cosa pensava veramente. 123 La giuria era chiusa in camera di consiglio da due giorni, quando arrivò la telefonata. Erano le due del pomeriggio. Yuki trasalì, emozionata. Ci siamo. Rimase per un attimo seduta immobile alla scrivania, sbattendo gli occhi, poi entrò in azione. Chiamò Leonard al cercapersone e fece il numero di cellulare di Claire, Cindy e Lindsay, che si trovavano tutte nei pressi del tribunale. Poi si alzò, attraversò il corridoio e si affacciò alla porta della stanza di David. «La giuria ha concluso!» David lasciò a metà il suo panino al tonno e la seguì. Presero l'ascensore e scesero al piano terra. Attraversarono l'ingresso principale, varcarono la porta dell'atrio, passarono il metal detector davanti all'aula e, attraversato il vestibolo, presero posto. L'aula nel frattempo si era riempita di gente. I cameramen si stavano preparando alle riprese e le ultime file erano piene di giornalisti. Rappresentavano giornali locali e tabloid, radio e televisioni. Cindy era nel corridoio centrale.
Yuki vide Claire e Lindsay sedute verso la metà dell'aula; la madre dell'imputato, Elena Brinkley, non c'era. Mickey Sherman fece la sua entrée con un elegantissimo completo blu scuro, posò la valigetta di metallo sul tavolo, salutò Yuki con un cenno e fece una telefonata. In quel momento squillò il cellulare di Yuki che, leggendo il nome sul display, rispose: «Leonard, stanno per dare lettura del verdetto». «Sono dal cardiologo, cazzo» le rispose. «Fammi sapere.» La porta a sinistra si aprì e l'usciere fece entrare Alfred Brinkley. 124 Brinkley non aveva più la testa fasciata e in mezzo alla fronte gli si vedeva una fila di punti di sutura che arrivava fino ai capelli. I lividi intorno agli occhi erano sbiaditi e da viola erano passati a un color giallo-verdastro che ricordava quello del tuorlo delle uova sode bollite troppo a lungo. Gli tolsero le manette e la catena intorno alla vita e lo fecero sedere vicino al suo avvocato. La porta a destra si aprì ed entrarono i dodici giurati e i due supplenti, in pompa magna, ben vestiti e ben pettinati, le signore tutte ingioiellate. Non guardarono né Yuki né l'imputato. Avevano l'aria tesa: forse erano reduci da un'accesa discussione. Si aprì anche la porta al centro e fece il suo ingresso in aula il giudice Moore. Mentre l'assistente annunciava formalmente l'inizio dell'udienza, il giudice si pulì gli occhiali, quindi si rivolse al portavoce della giuria e chiese: «La giuria è pervenuta a un verdetto?» «Sì, vostro onore.» «Vogliatelo cortesemente consegnare al mio assistente.» Il portavoce della giuria era un falegname con i capelli biondi lunghi fino alle spalle e le dita macchiate di nicotina. Con aria nervosa, porse un foglio piegato all'assistente che lo portò al giudice. Il giudice Moore lo aprì, lo scorse velocemente e invitò il pubblico presente in aula a rispettare le forme e non fare commenti ad alta voce mentre ne dava lettura. Yuki intrecciò le mani sul tavolo davanti a sé. Sentiva David Hale che respirava al suo fianco e, per un attimo, gli fu grata di esistere. Il giudice Moore cominciò a leggere ad alta voce. «Per l'accusa di omicidio di primo grado ai danni di Andreina Canello, la giuria dichiara l'im-
putato Alfred Brinkley 'non colpevole' per infermità mentale.» Nauseata, Yuki si appoggiò allo schienale rigido della sedia e quasi non udì il resto del verdetto. Al nome di ognuna delle vittime seguiva la dicitura «non colpevole». La motivazione: infermità mentale. Yuki si alzò, vedendo Claire e Lindsay che le venivano incontro. Quando le guardie rimisero le manette a Brinkley, le sue amiche erano vicino a lei. Tutte e due videro che Brinkley la guardava in modo strano, fra l'ostile e il divertito. Yuki non capì che cosa volesse dire quell'occhiata, ma rabbrividì. Poi Brinkley le disse: «Ottima prova, avvocato Castellano. Ha fatto del suo meglio. Ma qualcuno pagherà». Una delle guardie gli diede una spinta e, dopo un'ultima occhiata a Yuki, Brinkley si allontanò strascicando i piedi. Malato o sano che fosse, era destinato a non tornare in libertà per molto tempo. Yuki lo sapeva bene, ma aveva paura lo stesso. 125 Un mese dopo, io e Conklin eravamo di nuovo all'Alta Plaza Park, dove tutto era cominciato. Questa volta ci venne incontro Henry Tyler con le falde del cappotto che sventolavano. Ci tese la mano e la strinse energicamente prima a Conklin e poi a me. «Ci avete ridato la vita. Non so come ringraziarvi.» Chiamò la moglie e la figlia, che si stava arrampicando su un castello esagonale, un nuovo gioco del parco. Sorpresa di vederci, Madison si illuminò, scese dal castello e ci corse incontro. Henry Tyler la tirò su e Madison si sporse per gettare un braccio al collo a me e a Conklin, stringendoci tutti in un abbraccio generale. «Vi voglio tanto bene» disse. Sorridevo ancora, quando Henry Tyler la posò di nuovo per terra e ci. disse, raggiante: «Vi siamo così grati, io, Liz e Maddy: resteremo amici per tutta la vita!» Mi vennero gli occhi lucidi. Nei momenti come quello mi sentivo davvero felice di lavorare in polizia. Tornando alla macchina, io e Rich parlammo della fatica enorme che si
fa a risolvere certi casi: il lavoro di gambe, le false piste, lo stare a contatto con i peggiori drogati e assassini. «Ma poi, quando ti capita un caso come questo, è una tale soddisfazione!» esclamai. Rich si fermò e mi mise una mano su un braccio. «Fermiamoci un momento qui.» Mi sedetti su uno scalino al sole e Conklin mi si sedette accanto. Capii che voleva dirmi qualcosa. «Lindsay, so che tu sei convinta che io abbia una cotta per te, ma si tratta di qualcosa di più, credimi» cominciò. Per la prima volta in vita mia, non osai guardarlo in faccia. Il pensiero della sera in cui ci eravamo fermati a dormire a Los Angeles mi faceva ancora tremare di vergogna. «Dammi almeno una chance» continuò. «Posso invitarti a cena? Non farò avance. Voglio solo... ehm.» Rich mi lesse in faccia che la risposta era «no» e smise di parlare. Scosse la testa e alla fine disse: «Okay, sto zitto». Allungai un braccio e gli misi una mano sulla sua. «Mi dispiace» dissi. «Non è il caso. Lascia perdere, Lindsay. Dimentica quello che ho detto, okay?» Si sforzò di sorridere e quasi quasi ci riuscì. «Ne parlerò per qualche anno con l'analista. Pazienza.» «Sei in analisi?» «Se ti rispondo di sì ci ripensi?» ribatté ridendo. «Va be', almeno adesso sai quali sono i miei sentimenti. È già qualcosa.» Il ritorno in ufficio non fu facile. Non sapevamo che cosa dire, finché non arrivò una chiamata dal centralino: c'era stato un morto nel Tenderloin. Ci precipitammo sul posto, ci occupammo della faccenda fino a ben oltre la fine del turno e tutto filò liscio, come se lavorassimo insieme da anni. Poco dopo le nove ci salutammo. Avevo appena aperto la portiera della mia macchina per tornare a casa quando mi squillò il cellulare. «Cos'altro c'è?» borbottai. La linea era disturbata, ma riconobbi immediatamente la voce, profonda e sonora. Quella voce illuminava anche le mie notti più nere. «So che non bisogna mai prendere di sorpresa un agente di polizia armato sulla soglia di casa, quindi ti do un congruo preavviso: sarò a San Francisco questo fine settimana. Ho un sacco di novità da comunicarti. E tanta
voglia di vederti, Biondina.» 126 Ero in casa. Suonarono alla porta. Premetti il pulsante del citofono, dissi: «Arrivo» e scesi le scale di corsa. La dog-sitter di Martha, Karen Triebel, mi aspettava davanti al portone. La salutai con un bacio, poi mi chinai ad abbracciare il mio amatissimo border collie. «Le sei mancata moltissimo, Lindsay» disse Karen. «Dici?» esclamai mentre Martha guaiva di gioia, abbaiava e saltava, facendomi quasi cadere. Mi sedetti sul gradino e rimasi lì a lasciarmi leccare la faccia. «Io vado. Vedo che avete voglia di rimanere sole» disse Karen avviandosi verso la sua vecchissima Volvo. «Aspetta, Karen. Sali un momento, che devo saldare i miei debiti con te.» «Non importa! Mi pagherai la prossima volta!» rispose salendo in macchina. Per chiudere la portiera la legò con uno spago, poi mise in moto. «Grazie!» le gridai quando mi passò davanti salutando con il braccio, poi mi rivolsi di nuovo a Martha e le bisbigliai in un orecchio: «Sai quanto bene ti voglio?» A quanto pareva, la risposta era «sì». Corsi in casa con Martha, mi misi la giacca a vento, il berretto e le scarpe da jogging e partimmo per il nostro giro preferito: Nineteenth Street fino al Rec Center Park, dove mi sedetti su una panchina e stetti a guardare il mio cane che correva felice, faceva il suo dovere di pastore radunando gli altri cani e se la spassava. Dopo un po' tornò alla panchina e mi si sedette vicino, posandomi la testa su una coscia e guardandomi con occhi adoranti. «Contenta di essere a casa? Eri stanca di stare in vacanza?» Correndo più piano, tornammo a casa e salimmo le scale. Preparai a Martha una bella cena abbondante nella sua ciotola e andai a fare la doccia. Quando ebbi finito di asciugarmi i capelli, vidi che dormiva già sul mio letto. Doveva essere un bel sonno profondo, perché le fremevano le narici e muoveva le zampe, correndo in chissà quale sogno da cane, e non aprì nemmeno un occhio mentre io mi facevo bella per Joe.
127 Il Big 4 Restaurant è in cima a Nob Hill, di fronte alla Grace Cathedral. Si chiama così in onore dei quattro magnati della Central Pacific Railroad, il tratto californiano della ferrovia transcontinentale costruita nell'Ottocento. È arredato in stile classico, con pareti rivestite di legno scuro, lussuosi lampadari e fiori freschi dappertutto. Secondo la maggior parte delle riviste specializzate, vanta uno dei migliori chef della città. Ci avevano appena servito l'antipasto: Joe aveva optato per il foie gras con salsa al sidro e io mi ero lasciata tentare dalle pere con prosciutto di Parma. Ma non ero così affascinata dall'ambiente e dalla vista da non notare che Joe mi guardava con una certa ritrosia, e nello stesso tempo non riusciva a togliermi gli occhi di dosso. «Mi sono venute alcune idee che probabilmente troveresti troppo sentimentali» disse. «Non chiedermi nemmeno quali. D'accordo, Lindsay?» «No, no, figuriamoci» risposi con il sorriso sulle labbra. «Non ci penso nemmeno.» Inforchettai un pezzo di pera e di formaggio di capra in crosta di nocciole e me lo lasciai sciogliere in bocca. «Dopo lunghe e ponderate riflessioni - dico sul serio, Biondina, ho davvero riflettuto molto - sono giunto alla seguente conclusione.» Posai la forchetta e aspettai che il cameriere mi portasse via il piatto. «Ti ascolto» dissi. «Okay» fece Joe. «Tu sai che io ho sei fratelli, con i quali sono cresciuto in una casa popolare del Queens, e che mio padre era sempre via per lavoro.» «Perché faceva il commesso viaggiatore.» «Esatto. Rappresentante di tessuti e forniture per sarti. Viaggiava per tutta la East Coast e stava via sei giorni su sette, a volte anche di più. Sentivamo tutti la sua mancanza, ma quella che ne soffriva di più era mia madre. La sua felicità dipendeva da lui. La sera papà ci telefonava sempre per darci la buonanotte, ma una volta non lo fece e noi tememmo il peggio. Mia madre chiamò la polizia stradale, che lo trovò l'indomani, addormentato in macchina davanti a un'officina in un posto sperduto nel Tennessee.» «Gli si era guastata la macchina?» «Sì, e a quell'epoca i cellulari non esistevano ancora. Ti puoi immaginare che cosa passammo, prima di avere sue notizie. Immaginavamo che fosse finito in un burrone, che gli avessero sparato durante una rapina in una
stazione di servizio, o addirittura che avesse una doppia vita.» Annuii. «Ah, Joe, capisco benissimo.» Joe rimase un momento in silenzio a giocherellare con le posate, poi ricominciò: «In quell'occasione mio padre si accorse di quanto mia madre pativa il fatto che lui fosse sempre via, e di quanto soffrissimo la sua assenza anche noi. Perciò ci comunicò che avrebbe cambiato vita. Ma non poteva smettere di lavorare, dovendo continuare a mantenere la famiglia. Tuttavia, quando io facevo il secondo anno delle superiori, piantò lì il lavoro e tornò definitivamente a casa». Joe riempì di nuovo i nostri due bicchieri e bevemmo un sorso mentre il cameriere ci serviva il primo piatto, ma il tono commosso di Joe e le emozioni che sentivo nascere in me mi avevano fatto passare l'appetito. «E poi?» chiesi. «Rimase lì. Uno alla volta noi figli andammo a stare per conto nostro, i miei poterono vivere con meno e furono felici di poter stare sempre insieme. Lo sono ancora adesso. Vedendoli, mi ripromisi che non avrei mai fatto alla mia famiglia quel che mio padre aveva fatto a noi. Poi, l'ultima volta che sono venuto a San Francisco ho visto la faccia che hai fatto quando ti ho detto che rischiavo di perdere l'aereo e, di colpo, ho capito tutte le cose che mi hai sempre detto. Mi sono reso conto che, senza volere, stavo facendo esattamente come mio padre. Così, Lindsay, ti comunico ufficialmente che sono qui per restare.» 128 Stringendomi la mano, Joe mi disse che si era fatto trasferire a San Francisco. Lo ascoltai, vidi la sua espressione piena d'amore per me, ma i miei pensieri continuarono a correre per conto loro. Io e Joe avevamo parlato molte volte della possibilità di vivere nella stessa città e io lo avevo lasciato proprio perché mi sembrava che ne parlassimo tanto, ma facessimo ben poco per far avverare quel sogno. Adesso, seduta di fronte a lui, mi chiedevo se fino a quel momento il vero problema era stato il suo lavoro, o se entrambi avevamo cercato di non coinvolgerci in una relazione che aveva tutte le caratteristiche per potersi trasformare in qualcosa di serio e duraturo. Joe prese il cucchiaino del caffè e se lo mise nel taschino - quasi sicuramente convinto che fossero gli occhiali - poi si frugò nella tasca della giacca e tirò fuori una scatolina quadrata di velluto nero.
«Questo è per te, Lindsay.» Mise da parte il vaso di rose che era in mezzo al tavolo e mi porse la scatolina. «Aprila, per piacere.» «Non so come fare» dissi. «Basta che alzi il coperchio. Da questa parte: dall'altra c'è una cerniera.» Risi, ma avevo il fiato sospeso quando sollevai il piccolo coperchio e dentro la scatola, posato sul velluto, vidi un anello di platino con tre grossi brillanti al centro e due più piccoli, uno per parte. Alla fine dovetti ricominciare a respirare, ma quell'anello scintillante e luminosissimo era davvero «mozzafiato». Sollevai la testa e guardai Joe negli occhi. Fu quasi come guardare nei miei, tanto li conoscevo bene. «Ti amo, Lindsay. Vuoi sposarmi? Vuoi diventare mia moglie?» Il cameriere si avvicinò al nostro tavolo e, senza dire una parola, se ne andò immediatamente. Richiusi la scatola. Si udì un leggero clic e giuro che mi sembrò che nella sala si fosse abbassata la luce. Deglutii, improvvisamente senza parole. Ero confusa e frastornata e mi pareva che la stanza mi girasse intorno. Entrambi eravamo già stati sposati. E avevamo divorziato. Me la sentivo di riprovarci? «Lindsay?» Alla fine balbettai: «Anch'io ti amo, Joe, e sono... sono senza parole». Mi schiarii la voce per riuscire a dire quello che volevo. «Ho bisogno di un po' di tempo per riflettere, perché voglio essere assolutamente sicura. Ti dispiace tenerlo ancora per un po'?» dissi spingendo verso di lui la scatolina con l'anello. «Facciamo una prova» continuai. «Vediamo come ce la caviamo a fare le cose di tutti i giorni, intendo: il bucato, andare al cinema. Vediamo che effetto ci fa passare insieme qualche weekend che non si conclude con te che sali in macchina e vai all'aeroporto.» Joe era mortalmente deluso e glielo lessi in faccia con grande rammarico. Per un attimo parve sperso, poi mi girò la mano con il palmo verso l'alto, ci posò la scatolina e mi fece richiudere le dita su di essa. «Tienilo tu, Lindsay. Io non cambio idea. Voglio stare con te nonostante le lavatrici da fare, l'auto da lavare, la spazzatura da portare fuori. Anche se litigheremo chissà quante volte per stabilire a chi tocca fare che cosa, io voglio stare con te. Non vedo l'ora.» E sorrise. Incredibilmente, fu come se la sala si illuminasse nuovamente. Joe sorrideva e mi teneva le mani fra le sue. Disse: «Quando sei pronta,
dimmelo: ti infilerò l'anello al dito. E dirò ai miei che finalmente possono organizzare un vero matrimonio all'italiana». 129 Era il 6 giugno quando Jacobi mi convocò nel suo ufficio insieme con Rich e, con l'aria veramente arrabbiata, come non l'avevo mai visto, ci disse: «Brutte notizie, ragazzi: Alfred Brinkley è scappato». Rimasi a bocca aperta. Da Atascadero non riusciva a fuggire nessuno. Era un manicomio criminale che assomigliava molto più a un carcere di massima sicurezza che a un ospedale psichiatrico. «Come ha fatto?» chiese Conklin. «Ha preso a testate il muro della sua cella...» «Non era sedato e sorvegliato? Aveva già tentato il suicidio...» Jacobi alzò le spalle. «Non lo so. In ogni caso, i medici di solito vanno a visitare i ricoverati nelle celle, invece era di turno un certo dottor Carter che ha insistito perché lo portassero nell'ambulatorio. Il problema è che l'ambulatorio non è nell'ala di massima sicurezza.» «Oh, no!» esclamai immaginando già come sarebbe andata a finire. «Ha disarmato la guardia che lo accompagnava?» Jacobi spiegò a Conklin: «Le guardie girano armate solo quando trasferiscono i detenuti da un'ala all'altra. E per sottoporlo ai test neurologici il medico ha dovuto fargli togliere le manette». Jacobi raccontò che Brinkley aveva afferrato un bisturi e si era fatto consegnare la pistola dalla guardia. Poi si era messo i vestiti del medico, era uscito usando le chiavi della guardia e si era allontanato con l'auto del dottore. «È successo due ore fa» disse. «L'auto è una Subaru Outback blu, modello L.L. Bean. La segnalazione è stata diramata a tutte le forze di polizia di tutti gli Stati Uniti.» «A quest'ora se ne sarà già sbarazzato» gli fece notare Conklin. «Sì» convenne Jacobi, quindi aggiunse: «Non so a cosa possa servire, ma secondo il direttore del carcere Brinkley era molto interessato a Edmund Kemper, il serial killer. Pare che leggesse tutto quello che pubblicavano i giornali su di lui». Conklin lo conosceva. «Kemper ammazzò cinque o sei ragazze. Viveva con la madre.»
«Esatto» confermò Jacobi. «Una sera tornò a casa dopo essere uscito con una ragazza e la madre gli disse qualcosa tipo: 'Che noia! Adesso mi sfinirai raccontandomi tutte le tue belle prodezze di stasera'.» «Sapeva che suo figlio era un assassino?» domandai. «No, era solo una gran rompiscatole. Sentite, volete lasciarmi finire di parlare, per piacere?» Sorrisi. «Ma certo, capo.» «Insomma, la madre fondamentalmente gli dice che i suoi racconti la annoiano. Allora lui aspetta che vada a letto, le taglia la testa, la posa sulla mensola del caminetto e le racconta come ha passato la serata. Nei minimi particolari, ci scommetto.» «Se non sbaglio poi si è costituito» disse Conklin facendosi scrocchiare le nocche, come fa sempre quando è agitato. Anch'io ero scossa all'idea che quel pazzo di Brinkley fosse a piede libero e per giunta armato. Ricordavo bene il ghigno che aveva in faccia alla fine del processo, quando aveva detto a Yuki: «Qualcuno pagherà». «Sì, alla fine si costituì. Disse che aveva ucciso quelle ragazze per non uccidere la madre. Capito?» A quel punto Jacobi si rivolse a me. «Alla fine, però, fece fuori anche lei.» «Dicevi che secondo il direttore del carcere Brinkley era molto interessato alla storia di Kemper?» «Già» rispose Jacobi alzandosi in piedi, aggiustandosi i pantaloni e scavalcando le lunghe gambe di Conklin per andare verso la porta. «Pare che la sua fosse una vera e propria fissazione.» 130 Alfred Brinkley camminava in Scott Street guardando dritto davanti a sé sotto la visiera del berretto da baseball del dottor Carter, ma vedeva le vele bianche delle barche nel porticciolo in fondo alla strada e sentiva l'odore del vento di mare. Aveva ancora un po' male alla testa, ma le medicine avevano messo a tacere le voci e quindi riusciva a pensare. Si sentiva forte, potente. Esattamente come quando, con l'aiuto di Bucky, aveva fatto fuori quei poveri cretini sul traghetto. Camminando, ripensava alla scena nell'ambulatorio e al modo in cui era entrato in azione non appena gli avevano tolto le manette, scatenato come un eroe dei fumetti. Un vero superuomo!
Si era toccato il naso e la punta delle dita dei piedi come gli aveva ordinato il medico, poi aveva afferrato un bisturi, lo aveva puntato alla giugulare del medico e si era fatto consegnare la pistola dall'agente di custodia. Gli scappava da ridere, nel ripensare alle proteste di quello stupido mentre lui lo legava insieme al dottore e gli ficcava della garza in bocca. Li aveva chiusi tutti e due in un armadio, nudi. «Ci rivedremo. Non hai chance» gli ripeteva. Fred toccò la pistola, nella tasca della giacca del medico, e pensò che sì, si sarebbero rivisti. Certamente, ma quando lo avesse deciso lui. Le casette intonacate di Scott Street erano leggermente arretrate rispetto alla strada, una accanto all'altra come vacche da latte alla mangiatoia. Quella che cercava Fred era beige, con le persiane marrone scuro e un piccolo garage. Eccola lì, con il praticello ben curato e l'albero di limoni, esattamente come la ricordava. La macchina, una BMW azzurra decappottabile del '95, era nel garage aperto. Ottimo. Un tempismo impeccabile. Percorse il vialetto asfaltato che portava al garage e vi entrò senza fare rumore. Passò accanto alla BMW e prese dal bancone la chiodatrice a batteria. Ci mise una cartuccia e conficcò alcuni chiodi nella parete per assicurarsi che funzionasse. Perfetto. Poi salì i gradini, aprì la porta del soggiorno e per un attimo rimase fermo davanti al cassettone. Quindi prese gli album di foto rilegati in pelle che vi stavano posati sopra come su un altare, afferrò l'acquerello dal cavalletto e portò tutto quanto in cucina. Lei era seduta al tavolo a fare i conti. Il piccolo televisore era acceso. C'era una puntata di Trial Heat. Si girò sentendolo entrare e sgranò gli occhi, incredula. «Hola, mamacita» le disse allegramente. «Sono io. E sta per cominciare il Fred and Elena Brinkley Show.» 131 «Come mai sei qui, Alfred?» gli chiese la madre. Fred posò la chiodatrice sul bancone della cucina e chiuse la porta a chiave, poi sfogliò gli album mostrando alla madre le foto di Lily nella culla, in braccio alla mamma, in costume da bagno.
Quando prese il ritratto di Lily ad acquerello e ruppe il vetro sbattendolo sul bancone, Elena spalancò gli occhi terrorizzata. «No!» «Sì, invece, mamma. Sì. Sono foto sconce, ma proprio sconce.» Aprì la lavastoviglie, ci mise dentro gli album e l'acquerello, la chiuse e settò il timer per farla partire dopo cinque minuti. Il dispositivo cominciò a ticchettare. «Alfred, non ho voglia di scherzare» disse la madre facendo per alzarsi. Fred la spinse di nuovo a sedere. «L'acqua comincerà a entrare tra cinque minuti e distruggerà tutte le foto della tua defunta figlia. Ti chiedo solo di ascoltarmi attentamente per quattro minuti. Se lo farai, poi ti restituirò i tuoi amati album di fotografie. Intatti.» Prese una sedia e si sedette accanto alla madre, che lo guardò con quell'aria di disapprovazione e di disprezzo per cui lui la odiava fin da quando era piccolo. «Quel giorno, in tribunale, non ho finito di parlare» riprese Fred. «Di raccontare bugie, intendi?» ribatté la madre girandosi a guardare la lavastoviglie con il timer che ticchettava e lanciando un'occhiata alla porta chiusa a chiave. Fred tirò fuori dalla tasca la Beretta della guardia carceraria e tolse la sicura. «Voglio parlarti, mamma.» «Non è carica.» Fred sorrise e sparò un colpo nel pavimento. La madre impallidì. «Posa le braccia sul tavolo, mamma. Ubbidisci. Rivuoi le tue foto, no?» Siccome la madre restava immobile, le prese un braccio, glielo posò a forza sul tavolo, puntò la chiodatrice sulla manica e premette il grilletto. Zac, un chiodo. Poi altri due dall'altra parte del polsino. «Visto? Cosa credevi, mamma? Che ti sparassi? Non sono mica pazzo, sai.» Dopo averle inchiodato al tavolo una manica, passò all'altra. La madre trasaliva a ogni nuovo colpo della chiodatrice. Era sul punto di mettersi a piangere. La manopola del timer della lavastoviglie avanzò di uno scatto allo scadere del primo minuto e ricominciò a ticchettare. «Dammi le mie foto, Fred. Sono l'unica cosa che mi resta di...» Fred si avvicinò alla madre e le bisbigliò abbastanza forte da farsi sentire
chiaramente: «È vero, in tribunale ho mentito, mamma, perché volevo farti soffrire. Volevo che capissi come mi sento io tutto il tempo». «Non ho tempo da perdere con le tue sceneggiate» disse Elena Brinkley cercando di strappare i polsini inchiodati al tavolo per liberarsi. «Sì che hai tempo, invece. Oggi parliamo di me e solo di me. Guarda» ribatté lui sparando altri chiodi lungo le maniche in modo da immobilizzarla fino ai gomiti. Zac, zac, zac, «La verità è che io volevo fare le porcherie con Lily. Ma la colpa è tua, mamma, che l'avevi trasformata in una troietta, con quelle gonne corte e lo smalto alle unghie e i tacchi alti a soli dodici anni! Che cosa credevi? Che potesse andare in giro conciata così senza che tutti se la volessero scopare?» Squillò il telefono ed Elena Brinkley voltò la testa con sguardo speranzoso. Fred si alzò e, anziché rispondere, strappò il filo dal muro, poi prese dal bancone il ceppo con i coltelli e lo rimise giù con un gran colpo. BUM. «Scordati il telefono, non hai bisogno di parlare con nessuno. La persona più importante del mondo sono io.» «Che cosa vuoi fare, Alfred?» «Secondo te?» disse Fred, estraendo un lungo coltello. «Pensi che ti voglia tagliare la lingua? Per che razza di squilibrato mi hai preso?» Rise dell'espressione inorridita della madre. «È andata così, mamma: ho visto Lily che faceva un pompino a un certo Peter Bailamme, uno che lavorava al porticciolo.» «Non è vero.» Brinkley cominciò a passare la lunga lama sull'affilacoltelli: scorrendo sul Carborundum produceva un sibilo che lo riempiva di soddisfazione. «Ti conviene andartene, adesso. La polizia ti starà di sicuro cercando...» «Non ho ancora finito. Devi ascoltarmi fino in fondo, per la prima volta nella tua miserabile vita meschina...» Il timer continuava a ticchettare. Dentro la testa di Fred una voce comandava: Uccidila. Uccidila. Fred posò la lama e si asciugò i palmi sudati sui pantaloni beige del dottor Carter, poi riprese in mano il coltello. «Ti stavo dicendo che Lily mi provocava, mamma. Mi saltellava intorno mezza nuda, quella volta ha preso in bocca l'uccello di Ballantine. Lascia perdere le foto e ascoltami! Siamo usciti con il day sailer, abbiamo dato l'ancora al largo, dove nessuno ci vedeva. Lily si è tolta il reggiseno.»
Bugiardo. Vigliacco. Dava la colpa a lei. «Così io ho allungato le mani e le ho toccato le tette e lei mi ha guardato come mi stai guardando tu adesso, come se fossi una merda.» «Non voglio sentire.» «Invece dovrai sentire tutto quanto» disse Fred passandole delicatamente la lama del coltello sulla pelle rugosa del collo. «Stava lì, con quelle mutandine scandalose, e diceva che io ero quello che sbagliava. Diceva: 'Smettila, se no lo dico alla mamma.' Sono state le sue ultime parole, sai? 'Lo dico alla mamma.' Si è voltata dall'altra parte, io ho dato una spinta al boma e gliel'ho sbattuto sulla testa. Così...» Si udì un vetro che andava in frantumi, poi ci furono un'esplosione assordante e un lampo di luce. Fred Brinkley pensò che fosse arrivata la fine del mondo. 132 Dalla finestra della cucina vidi inorridita che Brinkley appoggiava la lama del coltello appena affilato sul collo della madre. Eravamo armati e pronti a intervenire, ma avevamo bisogno di una traiettoria diretta sul bersaglio e la signora Brinkley si frapponeva tra noi e il figlio. Se avessimo fatto irruzione da una delle due porte della cucina, Brinkley avrebbe avuto il tempo di ucciderla. Avevo paura che la sgozzasse. Avrei voluto gridare. Mi voltai verso Ray Quevas, il capo della squadra d'assalto. Scosse la testa dicendo che non poteva arrischiarsi a sparare. La situazione poteva degenerare da un momento all'altro. Chiese l'autorizzazione a usare una flashbang, una granata non letale che produce uno scoppio assordante e un lampo di luce, e io gli diedi il via libera. Ci infilammo maschere e occhiali protettivi, Ray sfondò il vetro e sparò un colpo. La granata rimbalzò sulla parete della cucina ed esplose con un terribile fragore e un lampo di luce accecante. Gli incursori abbatterono la porta in una frazione di secondo e facemmo irruzione nella stanza piena di fumo. Il nostro scopo era uno solo: mettere Brinkley in condizioni di non nuocere prima che riuscisse a raccapezzarsi e a tirar fuori la pistola. Lo sorpresi a terra, a faccia in giù, mezzo nascosto sotto il tavolo. Mi misi a cavalcioni su di lui e gli piegai le braccia dietro la schiena.
Avevo quasi chiuso le manette quando riuscì a girarsi e a disarcionarmi. Era forte come un toro scatenato. Mentre cercavo di rialzarmi, afferrò la pistola, che era caduta per terra. Conklin si strappò la maschera dal viso e gridò: «Tieni le mani bene in vista!» Eravamo a un'impasse. 133 Brinkley aveva alcuni laser puntati alla testa ma, memore dell'addestramento militare, impugnava la pistola con entrambe le mani, prono, e la teneva puntata su Conklin. Rich, a sua volta, gli puntava la pistola alla testa. Io ero vicinissima. Puntai la mia Glock alla base della spina dorsale di Brinkley e la spinsi con forza, gridando dentro la maschera: «Non ti muovere! Non ti muovere di un solo millimetro o sei morto!» Rich sferrò un calcio alla pistola di Brinkley, mandandola a finire in un angolo. Quando feci finalmente scattare le manette intorno ai polsi di Brinkley, lo avevamo sotto tiro in sei. Ero felice, nonostante lui ci ridesse in faccia. Mi tolsi la maschera e boccheggiai nel respirare il fosforo che ancora aleggiava nell'aria. Non capivo che cos'avesse da ridere Brinkley. Lo avevamo preso, e vivo. «Mi voleva ammazzare!» gridò Elena Brinkley a Jacobi. «Dovete rinchiuderlo!» «Cos'è successo?» chiese Brinkley voltandosi per guardarmi in faccia. «Ti ricordi di me?» ribattei. «Oh, sì, la mia amica Lindsay Boxer.» «Bravo. Sei in arresto per evasione» dissi. «E aggiungici pure tentate lesioni e molto probabilmente anche tentato omicidio.» Jacobi, dietro di me, stava dicendo a Elena Brinkley di stare tranquilla, che l'avrebbe liberata al più presto. «Hai il diritto di non parlare» dissi a Brinkley. La madre intanto si era liberata da sola, strappandosi una manica, sbottonandosi la camicetta e sfilandosi l'altra manica. Andò verso il figlio e gli disse: «Ti odio. Mi dispiace che non ti abbiano ammazzato». Poi gli mollò un gran ceffone. «Che paura!» disse lui in tono sarcastico, rivolto a me.
«Tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te» continuai. «Piantala con questa nenia!» mi gridò Brinkley, del tutto indifferente al fatto che la stanza fosse piena di miei colleghi armati che non vedevano l'ora di fargliela pagare. «Intanto, al massimo potrete riportarmi ad Atascadero. Le vostre accuse sono destinate a cadere!» «Zitto, stronzo, e rallegrati che non ti abbiamo fatto secco» gli dissi. «Zitta tu!» gridò lui ancora più forte, con la bava alla bocca e una luce diabolica negli occhi. «Io non sono colpevole di niente e tu lo sai benissimo. Per la legge sono incapace di intendere e di volere.» Tutto a un tratto Elena Brinkley urlò: «No!» La lavastoviglie si era messa in funzione. EPILOGO Il sesto colpo 134 Non conoscevo il poveraccio steso sul tavolo autoptico di Claire, nudo come mamma l'aveva fatto. Sapevo solo che forse la sua morte aveva a che fare con la strage del Del Norte. Claire aveva scollato il cuoio capelluto dalle ossa del cranio e glielo aveva ripiegato sul viso come un calzino, dopodiché aveva segato la volta cranica e aveva estratto il cervello. E mi stava mostrando, tra indice e pollice, un frammento di proiettile. «Prima è passato attraverso qualcos'altro» mi spiegò. «Forse un pezzo di legno. La velocità e l'impatto si sono ridotti, ma l'effetto è stato comunque letale.» Chiamai Jacobi, che mi disse: «Sai come devi fare, Boxer: raccontagli la tua versione, ma tieniti sul semplice». Dopodiché mi passò il capo. Raccontai a Tracchio una versione sintetica dei fatti: Wei Fong, un muratore trentaduenne, era morto quella mattina dopo un lungo ricovero al Laguna Honda Hospital per una ferita da arma da fuoco alla testa, inoperabile. L'aveva riportata il giorno in cui Alfred Brinkley aveva compiuto la strage a bordo del traghetto Del Norte. «Il sesto colpo in canna di Brinkley ha mancato il bersaglio, ma ha beccato casualmente Wei Fong.» «Hai il mio numero di cellulare?» mi chiese Tracchio. Claire, che di solito ha la mano fermissima, infilò con un leggero tremito
il frammento in una bustina trasparente, poi entrambe firmammo tutti i moduli del caso e io chiamai il laboratorio della Scientifica. Sentii che Claire diceva al morto steso sul tavolo: «Signor Fong, caro, so che non mi può sentire, ma volevo ugualmente ringraziarla». Il Pathfinder di Claire era parcheggiato accanto all'ingresso delle ambulanze. Spostai il pacco della lavanderia dal sedile del passeggero a quello posteriore, salii e mi allacciai la cintura. «Un po' come la storia di Charles Manson» dissi, mentre ci immettevamo in Harriet Street. «Due massacri, quello di Sharon Tate e quello dei coniugi La Bianca, e due diverse squadre di poliziotti che lavorarono in parallelo per settimane prima di rendersi conto che i responsabili erano gli stessi. Questa volta, mentre noi indagavamo su Brinkley, la squadra di Macklin indagava sul caso Wei Fong senza riuscire a risolverlo.» «Finché non è morto. Hai tutto?» mi chiese Claire. «Sì, ho tutto.» Avevo la busta con il frammento di proiettile nel taschino della giacca e la pistola ai miei piedi, in un sacchetto di carta sigillato. Prendemmo la 280 fino a Cesar Chavez Street e da lì andammo al cantiere navale di Hunters Point, dove si trovava il laboratorio della Scientifica, in un edificio di cemento azzurro e grigio. Claire lasciò la macchina all'ombra di una delle tre palme all'ingresso del parcheggio. Scesi prima ancora che avesse tirato il freno a mano. 135 Il direttore del laboratorio, Jim Mudge, ci aspettava nel suo ufficio. Ci salutò, prese il sacchetto di carta che gli porgevo e ne estrasse «Bucky», la fida pistola di Alfred Brinkley. Poi ci fece strada in un corridoio. Prendemmo la seconda porta a destra e ci trovammo nel laboratorio balistico, dove Mudge porse la Smith & Wesson modello 10 a un perito. Questi sparò un colpo dentro una lunga camera piena d'acqua, recuperò il proiettile calibro 38 e me lo porse. «Ecco qua, sergente. Buona fortuna. Spero proprio che riesca a incastrare quel bastardo.» Jim Mudge ci accompagnò in un'altra stanza in fondo al corridoio, una grande sala in cui erano disposti a ferro di cavallo tavoli e scrivanie. Lungo la parete c'era una lunga fila di comparatori.
Ci venne incontro una ragazza che si presentò dicendo: «Sono Petra. Vediamo cosa mi avete portato». Le porsi il proiettile P38 proveniente dalla pistola di Alfred Brinkley e il frammento che Claire aveva estratto dal cervello del signor Fong. Con il fiato sospeso, incrociai mentalmente le dita. Io e Claire osservammo da dietro le spalle Petra che sistemava i due reperti sul portaoggetti di un microscopio e li esaminava. A un certo punto si fece da parte e ci disse, tutta sorridente: «Guardate anche voi». Il risultato fu chiaro persino a me, quando mi avvicinai all'oculare e confrontai i due proiettili. Striature, scanalature e punti di repere del frammento coincidevano perfettamente con quelli del proiettile che era appena stato sparato dalla pistola di Alfred Brinkley. Il frammento proveniva dal sesto proiettile, quello che Brinkley aveva sparato contro Willie, il figlio di Claire, mancandolo. E per quel frammento Alfred Brinkley sarebbe tornato davanti al giudice. Mi voltai verso Claire, senza sapere neanch'io se darle un cinque o baciarla. Nel dubbio, feci entrambe le cose. «L'abbiamo incastrato» disse lei mentre ci abbracciavamo. 136 Un'ora dopo io e Rich Conklin eravamo ad Atascadero in una stanza grigia con tanti tavolini e sedie. Brinkley entrò con le guance rosee e l'aria ben nutrita. Sembrava felicissimo di vedermi. «Sentivi la mia mancanza, Lindsay? Io non faccio che ripensare all'ultima volta che ci siamo visti!» «Non sederti nemmeno, Fred. Ti portiamo via» risposi. «Sei in arresto per omicidio.» «Scherzi? Non dirai sul serio!» Non riuscii a trattenere un sorriso, tanta era la soddisfazione di averlo finalmente incastrato. «Ricordi il tuo gran giorno sul Del Norte?» «Ebbene?» «L'ultimo colpo che sparasti mancò Willie Washburn, ma colpì un altro bersaglio. Siamo qui per arrestarti per l'omicidio del signor Wei Fong, Fred. Omicidio volontario, senza premeditazione.»
«Non puoi farlo, Lindsay» ribatté Brinkley alzando le spalle con indifferenza. «Mi accusi di aver sparato a uno che non ho nemmeno visto?» «Sì. Hai una gran mira, a quanto pare.» «Tu sogni, mia cara. Sono già stato dichiarato non colpevole, per quel che è successo sul Del Norte. Per infermità mentale. Te ne sei scordata? Non si può processare nuovamente una persona per lo stesso reato.» «Infatti. Ma tu non sei mai stato processato per l'omicidio del signor Fong, Fred. Questo è un reato diverso. Abbiamo nuove prove, ci sarà una nuova giuria. E scommetto che tua madre verrà a testimoniare per l'accusa, questa volta.» Il sorriso di Brinkley svanì quando gli dissi di voltarsi e lo ammanettai, mentre Conklin gli leggeva i suoi diritti. Lo scortammo alla macchina. Non appena fu sistemato sul sedile posteriore, dietro la grata, cambiò faccia e assunse un'espressione addolorata che mi fece pensare che forse stava rivivendo qualche momento della sua infanzia, quando era piccolo e gli erano successe le prime brutte cose della sua vita. Arrivati all'autostrada, si mise a canticchiare: «Ay, ay, ay, ay, canta y no llores / Porque cantando se alegran / Cielito lindo / Los corazones». «Te l'ha insegnata tua madre, Fred?» gli chiesi. Conoscevo le parole di quella vecchia canzone, che diceva: «Canta e non piangere, perché se canti si rallegrano - cielo bellissimo - i cuori». Guardai nello specchietto retrovisore e trasalii: Brinkley cercava il riflesso dei miei occhi. Smise di cantare e bisbigliando abbastanza forte da farsi sentire mi disse: «Ehi, Lindsay, pensi davvero di avermi incastrato?» RINGRAZIAMENTI I nostri ringraziamenti e la nostra gratitudine vanno a tutti i brillanti professionisti che tanto generosamente ci hanno messo a disposizione tempo e preziose consulenze: la psichiatra e scrittrice dottoressa Maria Paige; il dottor Humphrey Germaniuk, anatomopatologo e medico legale della contea di Trumbull, Ohio; il capitano Richard Conklin della polizia di Stamford, Connecticut; Allen Ross, medico generico di Montague, Massachusetts; e gli esperti di giurisprudenza Philip Hoffman, New York, Melody Fujimori, San Francisco, e lo straordinario penalista Mickey Sherman, di Stamford, Connecticut. Un grazie anche ai nostri ottimi ricercatori, Don MacBain, Ellie Shur-
tleff e Lynn Colomello. FINE