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FRANK HERBERT LA BARRIERA DI SANTAROGA (The Santaroga Barrier, 1968) PRESENTAZIONE «Che forma saprà darsi l'umanità dal punto di vista biologico, sociale e mentale? In che misura l'uomo manipolerà se stesso? E viceversa: in che misura l'uomo viene manipolato, da gruppi di potere o da altre forze politiche e psicologiche che sfuggono apparentemente al controllo dell'individuo?» Espressa con le parole dell'autore e critico inglese Ian Watson, questa mi pare una precisa e sintetica definizione dei temi di fondo dell'opera di Frank Herbert. La ripropongo a mia volta ai lettori, poiché questa unità tematica non è un dato che salta immediatamente agli occhi, ed anzi si scontra con l'immagine prevalente di una produzione eterogenea, e incline alle più diverse soluzioni narrative: dal thriller psicologico alla favola cosmica, dall'utopia negativa alla complessa creazione di un pianeta e di una cultura. Come mettere un po' d'ordine in questa brillante ed eclettica frequentazione di vari luoghi della tradizione fantascientifica? Cercando appunto di leggervi un'immagine coerente sui meccanismi, sulle possibilità e sui perìcoli legati all'evoluzione/trasformazione dei nostri schemi concettuali, o in altre parole: fino achepunto siamo manipolatori e fino a che punto creature manipolate? Anche partendo dalla sua opera più significativa, e cioè il ciclo di «Dune» (1965-1985), nel quale Herbert riscopre magistralmente la dimensione planetaria della fantascienza, vediamo che al centro c'è l'attenzione per l'evoluzione umana, proiettata in un'epica descrizione delle ramificazioni e degli sviluppi storici, politici, filosofici e religiosi. Senza dimenticare che, nonostante la dislocazione «aliena» e spaziale, nell'opera filtra anche quella nuova capacità di interrogare il presente che contraddistingue la fantascienza degli anni '50 e '60. Non a caso, alla radice della creazione di Herbert vi è il tema dell'ecologia. Tuttavia, dietro l'imponente affresco di «Dune», riconosciamo un autore che sceglie altre vie per organizzare la sua indagine. E penso soprattutto ad un romanzo come L'alveare di Hellstrom (Hellstrom's Hive, 1973) ed al suo ideale complemento, La barriera di Santaroga (The Santaroga Barrier, 1968), finora inedito in Italia, e che finalmente ho il piacere di presentare ai nostri lettori.
In entrambi i casi, si tratta di lucide ed inquietanti favole sociale, condotte sul filo di una narrazione serrata, ricca di suspense e di agghiacciante realismo, ma che tuttavia non si limitano ad esprimere generici valori profetici e ammonitori, ma suggeriscono i termini di un conflitto e di un'indagine aperta. Non vi è, insomma, solo la dimensione dell'incubo o dell'esperimento folle e demoniaco che, per contrasto, riafferma la «normalità» del mondo esterno, ma un'ambiguità problematica, dove anche ciò che sta fuori è interrogato nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni. L'alveare di Hellstrom è incentrato sul progetto di un geniale entomologo, ovvero la creazione di uomini-insetto attraverso mutazioni genetiche. Ma quella dell'alveare, più che una plausibile estrapolazione o l'immagine di un mondo disumanizzato che suscita l'istintiva repulsione di chi la osserva dall'esterno, come rileva ancora Watson, è una metafora che suggerisce la possibile stranezza e «alienità» del nostro futuro evolutivo, in cui ci si può improvvisamente scoprire diversi da sé. Questa attenzione per il transumano e per la prospettiva della manipolazione/trasformazione della specie, tra l'altro, avvicina Herbert ai migliori esempi della fantascienza degli anni '80, tra cui il Greg Bear de L'ultima fase (Blood Music, 1985). La barriera di Santaroga è un'opera esemplare da questo punto di vista. Anche qui siamo di fronte ad una sorta di utopia evoluzionistica (per richiamare il titolo della bella introduzione di Carlo Pagetti a L'alveare di Hellstrom), dove riaffiora l'ossessione di Herbert per il concetto di trasformazione ai confini tra mente individuale e collettiva. Al posto dell'alveare c'è un'immagine più sottilmente inquietante, anche perché mascherata con toni idillìaci, ovvero la cittadina californiana di Santaroga, i cui abitanti attraverso un potente allucinogeno hanno raggiunto una sorta di dimensione collettiva della coscienza, realizzando il sogno di un ordine superiore di conoscenza. Santaroga è un'isola separata dal resto del mondo, fondata proprio sul rifiuto dei valori negativi della realtà esterna. Una contro-cultura, insomma, che reagisce in modo estremo alle spinte incontrollate della tecnologia, allo strapotere economico, all'alienazione; un progetto sociale che mira a controllare e dirigere i meccanismi evolutivi e comportamentali. I cittadini di Santaroga sembrano aver raggiunto la felicità, ma sono privi di vitalità individuale; sfuggono alle pressioni tecnologiche e consumistiche, ma sono incapaci di sviluppare la loro personalità, cristallizzati in una dimensione atemporale. La soluzione ai conflitti ed alle tensioni della realtà circostante è radicale, e si attua nella creazione di un mondo impenetrabile, ed anzi ostile alle influenze esterne, un luogo che
celebra la propria naturalità, ma che forse è ancor più artificiale di ciò che sta attorno. Una forma superiore di esistenza può essere raggiunta attraverso la manipolazione chimica e psicologica della razza umana? Ritorna quindi uno dei quesiti centrali della narrativa di Herbert. La barriera di Santaroga ha in effetti i caratteri esteriori della distopia classica, visto che tutto sommato proietta un'immagine negativa: la cittadina, come già l'alveare, suscita un profondo senso di orrore, quello della perdita dell'identità, dello smarrimento in una coscienza collettiva. Tuttavia Herbert moltiplica i suoi obiettivi, e non si limita a demonizzare l'esperimento di Santaroga, ma scava a fondo nella contraddizione tra «dentro» e «fuori», tra l'inquietante comunità e il mondo esterno, rilevando numerose contraddizioni dall'una e dall'altra parte. A questo punto è forse più pertinente la definizione di «ambigua utopia», rafforzata dall'integrazione finale, altrettanto ambigua, del protagonista, lo psicologo Gilbert Dasein, inviato a studiare il mistero della cittadina. Mi pare inoltre che un elemento decisivo di lettura vada ricercato proprio nel titolo, e cioè in quella «barriera» che il critico americano Gary K. Wolfe ha identificato come una delle immagini chiave della fantascienza: la frontiera tra il noto e l'ignoto. In questo romanzo la barriera svolge un ruolo decisivo nell'isolare due mondi e due culture contrapposte. Infatti, «nessuna delle due società è completa senza l'altra; l'esterno può beneficiare della conservazione ambientale e dello spirito collettivistico degli abitanti di Santaroga, nella stessa misura in cui questi ultimi possono beneficiare della tecnologia e dell'individualismo del mondo esterno» (Wolfe). Il vero elemento negativo è quindi nel concetto stesso di barriera, che divide invece di unire due realtà entrambe incomplete e unidirezionali, in grado di proporre solo scelte antitetiche ma ugualmente nefaste: o la mente subordinata alla manipolazione del corpo, o il corpo come mera propaggine di una mente collettiva. L'ideale di totalità e di integrazione non è quindi quello perseguito dagli abitanti di Santaroga negli angusti confini della loro presunta utopia, ma nel crollo definitivo della barriera che separa i due mondi. Piergiorgio Nicolazzini SANTAROGA Dasein s'immaginò la Valle di Santaroga come un luogo brulicante dietro la facciata d'una piramide: solida,
senza volto, duratura. Là dentro, dietro la faccia, Santaroga faceva qualcosa ai suoi abitanti... Percepiva una univocità così stretta che ogni singolo santarogano diventava l'estensione di ogni altro santarogano. Erano come raggi diffusi da un forellino di spillo in una tenda nera. Cosa c'era dietro la tenda nera? CAPITOLO PRIMO Il sole tramontò quando il furgone-camper della Ford, vecchio di cinque anni, superò arrancando il passo e cominciò a scendere il lungo pendio che conduceva nella Valle di Santaroga. Una piazzola di sosta a forma di mezzaluna era stata spianata alla prima curva della strada. Gilbert Dasein portò il furgone sulla ghiaia, si fermò davanti alla ringhiera bianca e guardò giù, dentro la valle della quale era venuto a scoprire i segreti. Dasein si sovvenne che già due uomini erano morti in quel progetto. Incidenti. Incidenti naturali. Cosa c'era là sotto in quella conca d'ombre abitata da luci sparse? C'era forse un incidente ad attenderlo? Dasein sentiva male alla schiena per il lungo percorso compiuto sempre dietro al volante da quando aveva lasciato Berkeley. Spense il motore, si stiracchiò. L'odore di bruciato dell'olio surriscaldato permeava la cabina. La giuntura del pianale col camper emetteva scricchiolii e scoppiettii. La valle che si stendeva sotto di lui aveva per qualche ragione un aspetto diverso da quello che Dasein si era aspettato. Il cielo intorno ad essa era un cerchio d'un azzurro luminoso pieno dei colori incandescenti del tramonto, che tracimavano fin dentro una cintura di alberi e di rocce che si trovavano al livello più alto. Quel luogo dava una sensazione di pace, come se fosse un'isola protetta dalle tempeste. Cosa mi aspettavo che fosse questo posto? si chiese Dasein. Decise che tutte le mappe che aveva studiato, tutti i rapporti che aveva letto su Santaroga, lo avevano indotto a credere di conoscere la valle. Ma le mappe non erano la terra. I rapporti non erano la gente. Dasein diede un'occhiata al suo orologio da polso: erano quasi le sette. Provava riluttanza a proseguire.
In lontananza, sulla sinistra, dall'altra parte della valle, fasce di luce verde brillavano tra gli alberi. Quella era l'area etichettata «serre» sulla mappa. Identificò un blocco torreggiante color bianco latte alla sua destra su un affioramento roccioso... la Cooperativa Casearia Jaspers. Il brillìo giallo delle finestre e le luci in movimento tutt'intorno indicavano un'intensa attività lavorativa. Dasein divenne conscio dei suoni prodotti dagli insetti nell'oscurità intorno a lui, lo sbattere nell'aria delle ali dei pipistrelli e, lontano, il lamentoso abbaiare dei cani da caccia. La voce del branco pareva venire da oltre la Cooperativa. Deglutì, pensando all'improvviso quanto assomigliassero, quelle finestre gialle, a occhi malevoli intenti a scrutare le profondità più buie della valle. Dasein scosse la testa e sorrise. Non era quello il modo giusto di pensare. Assai poco professionale. Tutte le sinistre sciocchezze che venivano borbottate su Santaroga andavano accantonate. Un'indagine scientifica non poteva funzionare in una simile atmosfera. Accese la luce interna della cabina, prese la valigetta dal sedile accanto. Lettere dorate sul cuoio marrone l'identificavano: «Gilbert Dasein, Dipartimento di Psicologia, Università della California, Berkeley». Prelevò dalla valigetta una cartelletta strapazzata, l'aprì e cominciò a scrivervi: «Arrivato nella Valle di Santaroga press'a poco alle 6 e 45 del pomeriggio. L'ambiente è quello di una prospera comunità agricola...». Poco dopo mise da parte la valigetta e la cartella. Prospera comunità agricola, pensò. Come poteva sapere che era prospera? No, non era prosperità quella che vedeva. La prosperità era qualcosa che conosceva dai rapporti. Adesso, la vera valle, lì davanti a lui, gli comunicava una sensazione di attesa, una quiete punteggiata dall'occasionale tintinnare dei campanacci delle mucche. Immaginò mogli e mariti là sotto, dopo una giornata di lavoro. Di cosa discutevano, adesso, in quel buio avviluppante? Di cosa discuteva Jenny Sorge con suo marito, sempre che avesse un marito? Pareva impossibile che potesse essere ancora nubile, l'adorabile Jenny ancora da maritare. Era passato più di un anno da quando si erano visti l'ultima volta all'università. Dasein sospirò. Niente evasioni interiori su Jenny, non qui a Santaroga. Jenny conteneva parte del mistero di Santaroga. Lei era un elemento della Barriera di Santaroga e un soggetto primario della sua attuale indagine. Ancora una volta Dasein sospirò. Non s'illudeva. Sapeva perché aveva
accettato quel progetto. Non era la munifica somma che quelle catene di grandi magazzini pagavano all'università per questo studio, né il generoso salario che gli veniva versato. Era venuto perché Jenny viveva là. Dasein si disse che avrebbe sorriso e si sarebbe comportato in maniera normale, perfettamente normale, quando l'avesse incontrata. Era qui per lavoro, uno psicologo distaccato dai suoi soliti compiti d'insegnamento per compiere uno studio di mercato qui nella Valle di Santaroga. Però, qual era il modo perfettamente normale di comportarsi con Jenny? Com'era possibile riuscire a tenere un comportamento normale quando s'incontrava il paranormale? Jenny era una santarogana, e la normalità di quella valle sfidava le spiegazioni normali. La sua mente andò ai rapporti, ai «fatti conosciuti». A tutte le cartelle di dati, al complesso dei fatti emersi da indagini ufficiali, ai segreti di seconda mano che erano l'armamentario della burocrazia; tutto questo in realtà assommava a un solo «fatto conosciuto» su Santaroga: lì stava accadendo qualcosa di straordinario, qualcosa di assai più inquietante di quanto fosse mai stato affrontato prima da una ricerca di mercato. Meyer Davidson, l'ometto dall'aspetto molliccio, la carnagione rosea, che si era presentato come l'agente della società d'investimenti, la holding che stava dietro alla catena di grandi magazzini che sovvenzionava questo progetto, l'aveva esposto con poche rabbiose parole durante il primo incontro orientativo: — Tutta la questione di Santaroga si riduce a questo: perché mai neppure un solo santarogano è disposto a commerciare con qualcuno arrivato da fuori? È questo che vogliamo sapere. Cos'è questa Barriera di Santaroga che ci impedisce di fare i nostri affari in quel posto? Davidson non era molliccio come sembrava. Dasein rimise in moto il furgone, accese i fari, e riprese a scendere serpeggiando il pendio. Tutti i dati erano un singolo dato. Gli estranei non trovavano case da affittare o da comperare in quella valle. I funzionari di Santaroga dicevano di non aver cifre sulla delinquenza giovanile da offrire alle statistiche dello stato. I santarogani in servizio militare tornavano sempre là quando venivano congedati. In realtà non si sapeva di un solo santarogano che avesse mai lasciato la valle.
Perché? Si trattava forse di una barriera a due sensi? C'erano delle curiose anomalie. I dati comprendevano un articolo comparso su una rivista medica, scritto dallo zio di Jenny, il dottor Lawrence Piaget, che aveva fama di essere il medico più eminente della valle. L'articolo, «La Sindrome del Veleno di Quercia a Santaroga». La sostanza dell'articolo: i santarogani avevano una straordinaria sensibilità agli allergeni, quand'erano costretti a vivere lontano dalla loro valle per periodi prolungati di tempo. Questa era la ragione principale per la quale i giovani santarogani venivano riformati. I dati equivalevano al dato. Santaroga non aveva riferito nessun caso di malattia o deficienza mentale al Dipartimento Statale dell'Igiene Mentale. Non era possibile trovare un solo santarogano in un manicomio statale. (Lo psichiatra che dirigeva il dipartimento dell'università di Dasein, il dottor Chami Selador, trovava questo fatto «allarmante».) La vendita delle sigarette a Santaroga avveniva soltanto grazie agli acquisti fatti dalle persone di passaggio. I santarogani manifestavano una resistenza ferrea alla pubblicità nazionale. (Un sintomo non-americano, stando a Meyer Davidson.) Nessun formaggio, vino o birra prodotto fuori della valle poteva esser venduto ai santarogani. Tutte le attività della valle, comprese le banche, erano possedute dalla gente del luogo. Respingevano in modo drastico qualunque investimento di denaro proveniente dall'esterno. Santaroga aveva resistito con successo a qualunque progetto governativo di tipo clientelare offerto dagli uomini politici. Il senatore del loro stato veniva da Porterville, dieci miglia alle spalle di Dasein, e ben fuori della valle. Tra le figure politiche che Dasein aveva intervistato per gettare le basi del suo studio, il senatore dello stato era uno dei pochi che non pensava che i santarogani fossero «un branco di eccentrici, forse dei pazzi fanatici religiosi di qualche tipo». — Senta, dottor Dasein — aveva detto, — tutte queste fesserie a proposito del mistero di Santaroga sono proprio questo, fesserie. Il senatore era un uomo magro, emotivo, con un ciuffo di capelli grigi e occhi venati di rosso. Si chiamava Barstow: una delle vecchie famiglie della California. L'opinione di Barstow: — Santaroga è l'ultimo avamposto dell'individualismo americano. Sono yankee, gente del Maine che vive in California.
Non hanno niente di misterioso. Non chiedono speciali favori e non mi sventolano gli orecchi con domande stupide. Vorrei che tutti i miei elettori fossero altrettanto schietti e onesti. L'opinione di un singolo, pensò Dasein. Un'opinione isolata. Adesso Dasein si trovava giù nella valle vera e propria. La strada a due corsie divenne pianeggiante, un passaggio fra alberi giganteschi. Quello era il Viale dei Giganti che si snodava tra file di sequoia gigantea. C'erano case più in fondo, in mezzo agli alberi. Il dato-dati affermava che molte di quelle case si trovavano là sin dai tempi della corsa all'oro. I loro cornicioni erano decorati da volute ornamentali gotiche. Molte case erano alte tre piani, le loro finestre risplendevano di luce gialla. Dasein divenne consapevole di un'assenza, di un fattore negativo: non c'era la luce sfarfalleggiante dei televisori, non c'erano tubi catodici nei soggiorni, nessuna parete era inondata dal grigiore latteo dell'onnipresente apparecchio. Davanti a lui la strada si biforcava. La freccia di sinistra indicava il «Centro Cittadino», le due di destra la «Santaroga House» e la «Cooperativa Casearia Jaspers». Dasein girò a destra. La sua strada si snodava verso l'alto passando sotto un arco: «Santaroga, la Città Costruita dal Formaggio». Dopo un po', emerse dalle sequoie in mezzo a un pianoro di querce. La cooperativa si profilò bianco-grigia in distanza, alla sua destra, un brulichio di luci e di attività dietro ad una catena che faceva da recinto. Dall'altra parte della strada alla sua sinistra c'era la prima meta di Dasein, una lunga locanda di tre piani edificata con il tipico, scarso criterio del 1900, con una veranda che si estendeva per tutta la sua lunghezza. File di finestre a molteplici pannelli (per la maggior parte buie) guardavano su un'area di parcheggio inghiaiata. L'insegna sopra l'ingresso diceva: «Santaroga House, Museo della Corsa all'Oro, orario 9 17». La maggior parte delle macchine con il muso rivolto al marciapiede di pietra che correva parallelo alla veranda erano vecchi modelli ben tenuti. Qualche risplendente macchina nuova era parcheggiata in seconda fila, come per distinguersi dalle altre. Dasein parcheggiò accanto a una Chevrolet del 1939 la cui vernice risplendeva di una ricca lucentezza cerea. La tappezzeria rosso-bruna visibile attraverso i finestrini sembrava fatta di cuoio lavorato a mano.
Un giocattolo per ricchi, pensò Dasein. Prese la sua valigetta dal camper e si diresse verso la locanda. Nell'aria c'era un odore d'erba falciata di fresco e un rumore d'acqua corrente. Ricordò a Dasein la sua giovinezza. Il giardino di sua zia con il ruscello che correva dietro la casa. Fu colto da un'intensa sensazione di nostalgia. D'un tratto, in tutto questo s'intromise una nota discordante. Dai piani superiori della locanda arrivarono le voci roche di una donna e di un uomo che discutevano animatamente. La voce dell'uomo era brusca, quella della donna strepitante, con le caratteristiche d'una pescivendola. — Non ho intenzione di restare un'altra notte in questo buco dimenticato da Dio! — stava urlando la donna. — Non vogliono i nostri soldi! Non vogliono noi! Tu fai pure quello che vuoi; io me ne vado! — Belle, smettila! Devi... Una finestra sbatté. La discussione si ridusse ad un borbottio stridente e in sordina. Dasein esalò un profondo sospiro. L'alterco ripristinava la sua prospettiva. Lì c'erano altre due persone che avevano sbattuto il naso contro la Barriera di Santaroga. Dasein percorse il tratto inghiaiato, salì i quattro gradini della veranda, e varcò la porta a ventola con i vetri smerigliati decorati da volute. Si trovò in un atrio dall'alto soffitto, con lampadari di cristallo. Pannelli di legno scuro dalla grana grossa che ricordava antiche mappe decoravano il locale. Alla sua destra, di traverso a un angolo, si stendeva un banco ricurvo, dietro ad esso si apriva una porta dalla quale giungeva il ronzio d'un centralino. Alla destra di questo banco c'era un'ampia apertura attraverso la quale Dasein intravide una sala da pranzo, tovaglie bianche, cristallerie, argenteria. Una diligenza era parcheggiata alla sua sinistra, dietro dei pilastri d'ottone che reggevano un cordone di velluto con la scritta «Non Toccare». Dasein si fermò per studiare la diligenza. Sapeva di polvere e di muffa. Un cartellino incorniciato raccontava la sua storia: «Usata sul percorso San Francisco-Santaroga dal 1868 al 1871». Sotto questo cartellino c'era un foglio di carta ingiallita con una targhetta di ottone accanto ad esso: «Una breve nota di Black Hart, il Grassatore della Po-8». Sul foglio ingiallito figurava scritto, con una calligrafia disordinata: — Così, mi sono trovato qui mentre il vento e la pioggia facevano singhiozzare gli alberi e ho rischiato la vita per quella dannata diligenza che non valeva
una ruberia. Dasein ridacchiò, passò la valigetta al braccio sinistro, si avvicinò al banco e suonò il campanello. Un uomo calvo, rugoso, magro come uno stecchino, vestito di nero, comparve sulla soglia della porta aperta e fissò Dasein come un falco pronto a balzargli addosso. — Sì? — Vorrei una stanza — disse Dasein. — Che cosa vuole qui da noi? Dasein s'irrigidì davanti a quell'improvviso tono di sfida. — Sono stanco — rispose. — Voglio farmi una notte di sonno. — Soltanto di passaggio, spero — borbottò l'uomo. Si avvicinò al banco strascicando i piedi e spinse un registro nero verso Dasein. Dasein prese una penna dal portapenne accanto al registro, e firmò. L'impiegato tirò fuori una chiave d'ottone con una targhetta d'ottone, e disse: — È la duecentocinquantuno, vicino a quella coppia fracassona di Los Angeles. Non dia colpa a me se la terranno sveglio litigando. — Sbatté la chiave sopra il banco. — Fanno dieci dollari... anticipati. — Ho fame — disse Dasein, tirando fuori il portafoglio e pagando. — Il ristorante è aperto? — Accettò una ricevuta. — Chiude alle nove — disse l'impiegato. — C'è un fattorino? — Lei sembra abbastanza robusto da portarsi da solo la valigia. — L'impiegato indicò un punto al di là di Dasein. — La stanza è al secondo piano. Deve fare due rampe per arrivarci. Dasein si voltò. C'era un'area libera dietro la diligenza. Sparpagliate all'interno di essa c'erano poltrone di cuoio dall'ampio schienale avvolgente e massicci braccioli. Alcune di queste poltrone erano occupate da anziani signori intenti alla lettura. La luce proveniva da pesanti lampade a stelo d'ottone con paralumi sfrangiati. Al di là delle poltrone una scala coperta da un tappeto conduceva al piano di sopra. Era una scena alla quale, più avanti, Dasein avrebbe ripensato parecchie volte, come suo primo indizio per capire la vera natura di Santaroga. L'effetto era quello di conservare al sicuro il tempo di un'epoca trascorsa. Vagamente turbato, Dasein disse: — Salirò in camera più tardi. Posso lasciare qui il mio bagaglio mentre vado a mangiare? — Lo lasci sopra il banco. Nessuno lo toccherà. Dasein mise la valigia sul banco, e colse l'impiegato a guardarlo con u-
n'espressione fissa. — Qualcosa non va? — chiese Dasein. — No davvero. L'impiegato cercò di prendere l'altra valigetta che Dasein stringeva sotto il braccio, ma questi fece un passo indietro. La tolse da quelle dita invadenti, e incontrò l'occhiata incollerita dell'altro. — Ummmp! — sbottò l'impiegato. Non c'erano equivoci sulla sua frustrazione. Avrebbe voluto dare un'occhiata dentro la valigetta. Stolidamente, Dasein spiegò: — Voglio... uhm, voglio dare un'occhiata ad alcune carte mentre mangio. — E pensò: Perché mai ho bisogno di dare spiegazioni? Provando rabbia nei propri confronti, Dasein si voltò, percorse a grandi passi il corridoio che conduceva alla sala da pranzo. Si trovò in una grande stanza quadrata, con un singolo, enorme candelabro al centro, e appliques con braccia d'ottone disposte a intervalli regolari tutt'intorno sulle pareti rivestite di pannelli di legno scuro. Le seggiole intorno ai tavoli rotondi erano appesantite da consistenti braccioli. Un lungo bar di legno di teak correva lungo una parete alla sua sinistra con dietro uno specchio racchiuso in una cornice di legno. La luce s'irradiava ipnotica dal candelabro centrale e i bicchieri erano disposti in pile sotto lo specchio. La stanza assorbiva i rumori. Dasein ebbe l'impressione di essere entrato in un improvviso silenzio e che tutti i presenti si fossero voltati a guardarlo. Il realtà il suo ingresso era passato quasi inosservato. Un barista dalla giacca bianca in servizio per un piccolo numero di avventori sparpagliati lungo il banco gli lanciò un'occhiata, poi riprese a parlare con un uomo dalla pelle scura piegato sopra un boccale di birra. Gruppi di famiglia occupavano quasi una dozzina di tavoli. A un tavolo vicino al bar era in corso una partita a carte. Due tavoli erano occupati da donne solitarie impegnate con le loro forchette. Dasein sentì che in quella sala la gente era divisa. Era una questione di tensione nervosa a cui faceva contrasto una calma solida quanto la sala medesima. Decise di essere in grado di distinguere gli avventori forestieri: apparivano stanchi, più strapazzati; i loro bambini erano più prossimi alla ribellione. A mano a mano che avanzava dentro la sala, Dasein intravide se stesso nello specchio del bar: c'erano i segni della fatica sulla sua faccia magra, i riccioli neri erano scompigliati dal vento, gli occhi castani resi vitrei dall'attenzione, come se stesse ancora guidando la macchina. Una chiazza di
terriccio tracciava un segno scuro accanto al solco del suo mento. Dasein se lo sfregò e pensò: Ecco un altro tizio di passaggio. — Desidera un tavolo, signore? Un cameriere negro era comparso al suo fianco: giacca bianca, naso da falco, taglienti lineamenti moreschi, un tocco di grigio alle tempie. Aveva un'aria imperiosa, del tutto in disaccordo col suo costume servile. Dasein pensò subito a Otello. Gli occhi erano castani e saggi. — Sì, grazie. Per uno — rispose Dasein. — Da questa parte, signore. Dasein venne condotto a un tavolo a ridosso della vicina parete. Una delle lampade a muro l'inondava d'una calda luce gialla. Quando la massiccia seggiola l'avviluppò, l'attenzione di Dasein andò al tavolo accanto al bar: la partita a carte... quattro uomini. Riconobbe uno dei quattro da una fotografia che Jenny aveva avuto con sé: Piaget, lo zio dottore, l'autore dell'articolo sugli allergeni apparso sulla rivista medica. Piaget era un uomo grande e grosso, dai capelli grigi, il volto rotondo, tranquillo, un che di orientale in lui era accentuato dal ventaglio di carte tenuto vicino al petto. — Vuole il menù, signore? — Sì. Un momento... Quegli uomini che giocano a carte col dottor Piaget, laggiù. — Signore? — Chi sono? — Conosce il dottor Larry, signore? — Conosco sua nipote, Jenny Sorge. Aveva con sé una fotografia del dottor Piaget. Il cameriere squadrò la valigetta che Dasein aveva deposto sul centro del tavolo. — Dasein — disse. Un ampio sorriso spennellò un lampo di bianco su quella faccia scura. — Lei è l'amico di Jenny dei tempi di scuola. Le parole del cameriere sottintendevano tante di quelle implicazioni, che Dasein si scoprì a guardare l'intera scena a bocca spalancata. — Jenny ha parlato di lei, signore — spiegò il cameriere. — Oh. — Lei vuol sapere chi sono gli uomini che stanno giocando a carte con il dottor Larry. — Il cameriere si voltò in direzione dei giocatori. — Bene, signore, il capitano Al Marden della Pattuglia Stradale è l'uomo che siede sul lato opposto a quello del dottor Larry. A destra c'è George Nis. È il direttore della Cooperativa Casearia Jaspers. E sulla sinistra c'è il signor Sam Scheler. Il signor Scheler dirige la nostra stazione di servizio indipendente.
Vado a prenderle quel menù, signore. Il cameriere si diresse verso il bar. L'attenzione di Dasein rimase concentrata sui giocatori di carte, chiedendosi come mai agganciassero tanto saldamente la sua attenzione. Marden, seduto con la schiena parzialmente rivolta verso di lui, era in borghese, indossava un abito azzurro scuro. I suoi capelli erano un'incredibile zazzera rossa. Girò il viso verso destra e Dasein intravide una faccia sottile, una bocca dalle labbra serrate, cinicamente incurvate all'ingiù. Scheler, della stazione di servizio indipendente (d'un tratto, Dasein s'interrogò su quella definizione), aveva la pelle scura, una faccia angolosa da indiano, con un naso piatto e labbra pesanti. Nis, davanti a lui, stava perdendo i capelli color sabbia, aveva gli occhi azzurri con le palpebre pesanti, una bocca larga e il mento inciso da una profonda fenditura. — Il suo menù, signore. Il cameriere mise una grande cartella rivestita di rosso davanti a Dasein. — Pare che il dottor Piaget e i suoi amici si stiano godendo la partita — commentò Dasein. — Quella partita è un'istituzione, signore. Ogni settimana, all'incirca a quest'ora, regolari come il tramonto: la cena qui da noi e quella partita. — A cosa giocano? — È diverso ogni volta, signore. Talvolta a bridge, talvolta a ramino. Di tanto in tanto giocano a whist, o perfino a poker. — Cosa voleva dire con stazione di servizio indipendente? — chiese Dasein. Sollevò lo sguardo su quella scura faccia moresca. — Be', signore, qui nella valle non stiamo a impegolarci con quelle compagnie che stabiliscono i prezzi. Il signor Sam compera da chi gli fa la migliore offerta. Qui paghiamo all'incirca quattro centesimi di meno al gallone. Dasein prese un appunto mentale: avrebbe indagato anche su quell'aspetto della Barriera di Santaroga. Era in carattere, non comperare dalle grosse compagnie, ma dove ottenevano il loro petrolio? — Il roast-beef è molto buono, signore — disse il cameriere, indicandogli il menù. — Me lo consiglia, eh? — Sì, signore. Ingrassato solo con grano qui, nella valle. Abbiamo granoturco fresco su pannocchia, patate Jaspers, con salsa al formaggio, molto buona, e abbiamo fragole di serra per dessert. — Insalata?
— La nostra insalata non è molto buona questa settimana, signore. Le porterò la minestra. È borscht con panna acida. E le piacerà accompagnarla con della birra. Vedrò se posso farle avere un po' del nostro prodotto locale. — Con lei intorno non ho bisogno d'un menù — commentò Dasein. Gli restituì la cartella con la copertina rossa. — Mi porti tutto quello che ha detto, prima che incominci a mangiare la tovaglia. — Sì, signore. Dasein seguì con lo sguardo il negro che si allontanava: giacca bianca, spalle larghe, sicuro di sé. Sì, un vero Otello. Poco dopo il cameriere fu di ritorno con una fumante scodella di minestra, con un'ampia isola di panna acida che ci galleggiava sopra, e un boccale di birra color ambra scuro. — Ho notato che lei è il solo cameriere negro che ci sia qui — disse Dasein. — Non è un po' uno stereotipo? — Mi sta chiedendo se sono il loro negro da mettere in mostra, signore? — D'un tratto la voce del cameriere si era fatta guardinga. — Mi stavo chiedendo se a Santaroga c'è qualche problema d'integrazione. — Devono esserci trenta, quaranta famiglie di colore nella valle, signore. Qui, giustamente, non diamo la minima importanza alle differenze di colore della pelle. — La sua voce era dura, recisa. — Non intendevo offenderla — disse Dasein. — Non mi ha offeso. — Un sorriso gli sfiorò gli angoli della bocca, poi scomparve. — Devo ammettere che un cameriere negro è una specie d'istituzione. In un posto come questo... — Girò lo sguardo nella massiccia sala rivestita di pannelli di legno. — ... devono esserci stati molti camerieri negri ai vecchi tempi. Il fatto che io faccia questo lavoro contribuisce un po' al colore locale. — Ancora una volta lo smagliante sorriso. — È un buon lavoro, e i miei figli se la cavano ancora meglio. Due di loro lavorano alla Cooperativa; l'altro sta per diventare avvocato. — Ha tre figli? — Due ragazzi e una ragazza. Se vuole scusarmi, signore; ho altri tavoli. — Sì, naturalmente. Dasein sollevò il boccale di birra quando il cameriere se ne andò. Tenne per un momento la birra sotto il proprio naso. Aveva un odore pungente, un vago accenno di cantina e di funghi. Dasein ricordò all'improvviso che Jenny aveva lodato la birra locale di Santaroga. La sorseggiò,
morbida sulla lingua, liscia, lasciava un gusto pulito di malto. Era tutto ciò che Jenny aveva detto. Jenny, pensò. Jenny... Jenny... Perché lei non l'aveva mai invitato a Santaroga, quando tornava regolarmente a casa per i fine settimana? Ricordava che Jenny non si era mai persa un fine settimana. I loro appuntamenti erano sempre stati a metà settimana. Ricordava ciò che lei gli aveva detto di se stessa: orfana, allevata dallo zio, Piaget, e da una zia rimasta zitella... Sarah. Dasein bevve un altro sorso di birra, assaggiò la minestra. Andavano bene insieme. La panna acida aveva un aroma che gli ricordava la birra, uno strano, nuovo sapore piccante. Non c'erano mai stati dubbi sull'affetto che Jenny aveva per lui, pensò Dasein. Avevano una cosa in comune, chimica, eccitante. Ma mai nessun invito diretto a incontrare la famiglia, a visitare la valle. Un esitante tentativo, sì, cosa ne pensava di aprire uno studio a Santaroga ed esercitare lì la sua professione? Una volta o l'altra doveva parlare allo zio Larry di qualche caso interessante. Quali casi? si chiese Dasein, ricordando. La cartella con le informazioni su Santaroga che il dottor Selador gli aveva, fornito erano definitive: non era stato riferito nessun caso di malattia mentale. Jenny... Jenny... La mente di Dasein tornò alla notte in cui le aveva fatto la proposta. Allora non c'era stata nessuna esitazione da parte di Jenny: lui, poteva vivere a Santaroga? Riusciva ancora adesso a ricordare la propria incredula domanda: — Perché dovremmo vivere a Santaroga? — Perché io non posso vivere da nessun'altra parte. — Era questo che gli aveva detto. — Perché non posso vivere da nessun'altra parte. Ama me, ama la mia valle. Le più insistenti preghiere non erano riuscite a strapparle una spiegazione. Gliel'aveva fatto capire con chiarezza. Alla fine aveva reagito con la rabbia esplosa fuori dalla sua virilità ferita. Pensava forse che lui non sarebbe stato in grado di provvedere al suo sostentamento in nessun altro posto al di fuori di Santaroga? — Vieni a vedere Santaroga — lei l'aveva pregato. — No, a meno che tu non consideri la possibilità di vivere fuori. Impasse. Ricordando quel litigio, Dasein sentì che le guance gli si riscaldavano.
Era stata l'ultima settimana. Lei si era rifiutata di rispondere alle sue telefonate per due giorni... e dopo, lui si era rifiutato di telefonarle. Si era ritirato in un guscio, ferito e offeso. E Jenny era ritornata alla sua preziosa valle. Quando lui le aveva scritto, inghiottendo il suo orgoglio, offrendole di venire a trovarla, non c'era stata nessuna risposta. La sua valle l'aveva inghiottita. Questa valle. Dasein sospirò, guardò la sala da pranzo intorno a sé, ricordando l'intensità di Jenny quando parlava di Santaroga. Quella sala da pranzo rivestita di pannelli di legno, i santarogani che poteva vedere, non combaciavano con l'immagine che aveva in mente. Come mai non ha risposto alle mie lettere? si chiese. Molto probabilmente è sposata. Dev'essere questo il motivo. Dasein vide il suo cameriere svoltare all'estremità del bar con un vassoio. Il barista gli fece un segno e chiamò: — Win. — Il cameriere si fermò, appoggiò il vassoio sul banco. Le loro teste si avvicinarono sopra il vassoio. Dasein ebbe l'impressione che stessero litigando. Poco dopo il cameriere disse qualcosa accompagnandolo con un secco movimento della testa, afferrò il vassoio e lo portò al tavolo di Dasein. — Dannato intrigante — commentò, mentre metteva giù il vassoio davanti a Dasein, cominciando a distribuire i piatti che c'erano sopra. — Ha cercato di dirmi che non devo darle lo Jaspers! Un buono amico di Jenny, e non posso dargli lo Jaspers! La collera del cameriere si raffreddò. Scosse la testa, sorrise, e mise un piatto colmo di cibo davanti a Dasein. — Ci sono troppi dannati intriganti a questo mondo, se vuole la mia opinione. — Il barista — fece Dasein. — Ho sentito che la chiamava «Win». — Winston Burdeaux, signore, al suo servizio. — Girò intorno al tavolo avvicinandosi di più a Dasein. — Questa volta non ha voluto darmi nessuna birra Jaspers per lei, signore. — Tolse una bottiglia ghiacciata dal vassoio, la mise accanto al boccale di birra che gli aveva servito prima. — Non è buona come l'altra. Il cibo è vero Jaspers, comunque. Quel dannato intrigante non ha potuto impedirmi di far questo. — Jaspers — disse Dasein. — Credevo fosse soltanto il formaggio. Burdeaux strinse le labbra e parve pensieroso. — Oh, no, signore. Jaspers è in tutti i prodotti della Cooperativa. Jenny non gliel'ha mai detto? — Corrugò la fronte. — Non è mai stato qui nella valle insieme a lei, si-
gnore? — No. — Dasein scosse la testa. — Lei è il dottor Dasein, Gilbert Dasein? — Sì. — Allora lei è il rubacuori di Jenny. — Il cameriere sorrise e disse: — Mangi, signore. È cibo buono. Prima che Dasein potesse rimettere ordine nei propri pensieri, Burdeaux si girò e si allontanò in fretta. Allora lei è il rubacuori di Jenny, pensò Dasein. Aveva usato il presente... non il passato. Sentì il cuore che gli martellava nel petto, si maledisse definendosi idiota. Era soltanto il modo di parlare di Burdeaux. Non poteva essere altro. Confuso, si chinò sul suo cibo. Al primo boccone, il roast-beef si mostrò all'altezza della descrizione di Burdeaux: tenero e succoso. La salsa al formaggio sulle patate aveva un fluido sapore piccante che gli ricordava la birra e la panna acida. Il rubacuori di Jenny. Le parole di Burdeaux afferrarono la mente di Dasein mentre mangiava, riempiendola d'un grande tumulto. Dasein sollevò lo sguardo dal suo cibo, cercando Burdeaux. Il cameriere non era visibile da nessuna parte. Jaspers. Era quel ricco sapore piccante, quel nuovo gusto. La sua attenzione andò alla bottiglia di birra nonJaspers. Non altrettanto buona? L'assaggiò direttamente dalla bottiglia, trovò che gli lasciava in bocca un amaro sapore metallico. Un sorso della prima birra, quella nel boccale, liscia, tranquillizzante. Dasein sentiva che gli schiariva la testa così come gli purgava la lingua dall'altro sapore. Mise giù il boccale e guardò sul lato opposto della sala: sorprese il barista che lo stava fissando accigliato. L'uomo guardò altrove. Erano piccole cose, due birre, una discussione fra un cameriere e un vigile barista, erano soltanto pochi ticchettii d'un orologio nell'arco di una vita, ma in essi Dasein avvertiva il pericolo. Rammentò che due investigatori erano rimasti vittime d'incidenti fatali nella Valle di Santaroga... una caduta da una sporgenza rocciosa dentro un fiume... morto annegato. Incidenti naturali, così com'era stato certificato dalle indagini svolte dagli organi dello stato. Più che mai pensieroso, Dasein tornò a concentrarsi sul suo cibo. Dopo un po', Burdeaux portò le fragole, e rimase lì accanto mentre Da-
sein le assaggiava. — Buone, signore? — Molto buone. Migliori della bottiglia di birra. — Colpa mia, signore. Forse, in un'altra occasione... — Tossì con discrezione. — Jenny sa che lei è qui? Dasein mise giù il cucchiaio, guardò dentro il suo piatto di fragole come se cercasse di trovarvi il suo riflesso. D'un tratto la sua mente gli ricreò un'immagine di Jenny, vestita di rosso, ridente, traboccante d'energia. — No... non ancora — rispose. — Lei sa che Jenny è ancora nubile, signore? Dasein guardò verso i giocatori di carte. Come pareva abbronzata e coriacea la loro pelle! Jenny non si era sposata? Il dottor Piaget sollevò lo sguardo dalle carte e disse qualcosa all'uomo alla sua sinistra. Risero. — È... è sull'elenco del telefono, signor Burdeaux? — chiese Dasein. — Vive con il dottor Piaget, signore. E perché non mi chiama Win? Dasein sollevò lo sguardo sulla faccia moresca e spigolosa di Burdeaux, interrogandosi d'un tratto su quell'uomo. C'era appena un accenno di accento del sud nella sua voce. Quel tentativo di fare amicizia, le informazioni su Jenny che gli aveva offerto di sua spontanea volontà, tutto questo aveva un vago sapore del sud, intimità, gentilezza... ma dietro a tutto questo s'intravedeva dell'altro: una consapevolezza indagatrice, aspra e diretta. Adesso, lo psicologo in Dasein era tutto sul chi vive. — Vivi da molto tempo qui nella valle, Win? — chiese Dasein. — Da circa dodici anni, signore. — Come mai ti sei stabilito qui? Burdeaux scosse la testa. Un mezzo sorriso triste gli sfiorò le labbra. — Oh, non le piacerebbe sentirselo raccontare, signore. — Ma sì, invece. — Dasein sollevò lo sguardo su Burdeaux, in attesa. Da qualche parte c'era un cuneo che gli avrebbe spalancato i misteri della valle. Jenny non si è sposata? Forse Burdeaux era quel cuneo. Dasein sapeva che nel proprio modo di comportarsi c'era una genuina timidezza che invitava alle confidenze. Adesso si affidò ad essa. — Be', se proprio vuole saperlo, signore — disse Burdeaux, — mi trovavo nella prigione di New Orleans per rapine — (Dasein notò un improvviso ispessirsi dell'accento meridionale.) — Noi facevamo le nostre cose urlando parolacce che le farebbero drizzare i capelli sul collo, signore. D'un tratto mi sono sentito a dirle, signore. E questo mi ha spinto a giudicare il mio modo di pensare, e ho visto che era roba da bambini. Adole-
scenziale. — Burdeaux pronunciò la parola, orgoglioso di saperla usare. — Adolescenziale, signore. Bene, quando sono uscito da quella prigione, il capo sceriffo mi ha detto di non tornare mai più. Sono andato a casa mia dalla mia donna e ho detto ad Annie... le ho detto che ce ne andavamo. È allora che siamo andati via e siamo venuti qui, signore. — Te ne sei andato, così? — Ci siamo incamminati per la strada a piedi, signore. Non è stato facile e c'erano posti che ci hanno fatto desiderare di non essere mai partiti. Però, quando siamo arrivati qui, abbiamo saputo che ne valeva la pena. — Avete continuato a vagare finché non siete arrivati qui? — È stato come se Dio ci guidasse, signore. Questo posto, be', signore, è difficile da spiegare. Ma... sì, hanno insistito perché andassi a scuola a imparare a migliorarmi. Questa è una cosa. Posso parlare un buon inglese standard quando voglio... quando ci penso. — (L'accento cominciava a svanire.) Dasein esibì un sorriso incoraggiante. — Dev'esserci gente molto simpatica qui nella valle. — Le dirò una cosa, signore — proseguì Burdeaux. — Forse riuscirà a capire se le dirò una cosa che mi è successa qui. È una cosa che una volta mi avrebbe offeso moltissimo, ma qui... Eravamo a una festa Jaspers, signore. È stato subito dopo che Willa, la mia bambina, annunciò il findanzamento con Cal Nils. E George, il papà di Cal, è venuto a casa mia e mi ha messo il braccio sulle spalle. «Be', Win, vecchio bastardo di un negro» mi disse, «faremo meglio a fare una buona bevuta e una chiacchierata insieme poiché i nostri ragazzi c'imparenteranno». È stato questo, signor Dasein. Non intendeva proprio niente dandomi del negro. Era come... come noi qui chiamiamo un tipo biondo e pallido «bianchetto». Era come dire che la mia pelle è nera per identificarmi allo stesso in cui lei potrebbe entrare in una stanza e chiedere di Al Marden, e io le rispondessi: «È quello con i capelli rossi laggiù che gioca a carte». Mentre lo diceva, sapevo che era tutto quello che voleva dire. In quel momento me ne sono reso conto. Significava essere accettato per quello che ero. Era la cosa più amichevole che George potesse fare, ed è per questo che l'ha fatto. Dasein corrugò la fronte cercando di seguire il filo del ragionamento di Burdeaux. Amichevole per averlo chiamato negro? — Non credo che lei capisca — riprese Burdeaux. — Forse dovrebbe essere nero per capire, ma... forse questo glielo chiarirà. Qualche minuto più tardi George mi disse: «Eh, Win, mi chiedo che razza di nipoti avremo,
scuri, chiari o una via di mezzo?» Era qualcosa di stupefacente per lui l'idea che avrebbe potuto avere dei nipotini neri. In realtà non gliene importava. Era curioso. Lo trovava interessante. Sa, dopo, quando l'ho detto ad Annie, mi sono messo a piangere. Ero così felice che piangevo. Era stato un lungo colloquio. Dasein poté vedere che Burdeaux se ne stava rendendo conto. L'uomo scosse la testa e borbottò: — Parlo troppo. Credo che farò meglio... S'interruppe a un improvviso emergere di grida dal bar, vicino ai giocatori. Un uomo grasso dal volto arrossato aveva fatto un passo indietro dal banco del bar e lo stava martellando con una valigetta, urlando allo stesso tempo contro il barista. — Figli di puttana che non siete altro! — urlava. — Pensate di essere troppo dannatamente belli per comperare da me! La mia merce non è abbastanza buona per voi! Voi sapete fare di meglio... Il barista afferrò la valigetta. — Mollala, figlio di puttana! — urlò l'uomo grasso. — Pensate tutti di essere così dannatamente bravi come se foste una specie di paese straniero! Io sono un estraneo, vero? Lasciate che vi dica che siete voi il branco di stranieri! Questa è l'America! Questo è un paese libero... Il capitano della polizia stradale dai capelli rossi, Al Marden, si era alzato al primo segno di guai. Adesso appoggiò la sua grossa mano sulla spalla dell'urlatore, dandogli uno scossone. Le urla cessarono. L'uomo infuriato si girò di scatto e sollevò la valigetta per colpire Marden. In un lungo, protratto istante, l'uomo fissò gli occhi fiammeggianti di Marden, il volto imperioso, ed esitò. — Sono il capitano Marden della Stradale — disse Marden. — E la informo che non intendiamo sentire altro. — La sua voce era calma e severa e... parve a Dasein... leggermente divertita. L'uomo rabbioso abbassò la valigetta, deglutì. — Può uscir fuori, salire sulla sua macchina e lasciare Santaroga — proseguì Marden. — Adesso. Subito. E non torni mai più qui. Staremo attenti e la sbatteremo dentro se dovessimo pescarla di nuovo nella valle. La rabbia svaporò dall'uomo grasso. Infossò le spalle. Inghiottì, guardò intorno a sé, vide gli occhi di tutti che lo fissavano. — Sono contento di andarmene — borbottò. — Niente può farmi più felice. Bisognerà proprio che faccia freddo all'inferno perché io rimetta piede qui da voi. Puzzate. Puzzate tutti. — Si liberò, con uno scossone delle spalle, dalla stretta di Marden, e uscì impettito attraverso il corridoio che conduceva nell'atrio.
Marden tornò a giocare a carte scuotendo la testa. Lentamente la sala tornò al brusio precedente: quello della gente che mangiava e conversava. Però Dasein poté percepire una differenza. Lo sfogo del commesso viaggiatore aveva separato i santarogani dai visitatori di passaggio. Un muro invisibile pareva essersi erto fra loro. Le famiglie dei forestieri sedute ai loro tavoli stavano facendo fretta ai loro bambini, ansiose di andarsene. Dasein provò la stessa urgenza. Adessa nella sala c'era il senso del branco: cacciatori e cacciati. Percepì l'odore del proprio sudore. Aveva i palmi delle mani madidi. Notò che Burdeaux se n'era andato. È una cosa stupida! pensò. Jenny non si è sposata? Ricordò di essere uno psicologo, un osservatore. Ma l'osservatore doveva osservare se stesso. Due delle famiglie di passaggio se ne stavano già andando, spingendo avanti i loro piccoli, con la voce alterata, dicendo che avrebbero proseguito «per la città successiva». Perché non possono fermarsi qua? si chiese. Le tariffe sono ragionevoli. Ricostruì la cartografia della zona nella sua mente. Porterville si trovava a venticinque miglia di distanza, dieci miglia fuori della valle lungo la strada che lui aveva fatto per arrivare lì. Nell'altra direzione una strada di montagna serpeggiante e contorta si snodava per una quarantina di miglia prima di collegarsi con la statale 395. Le comunità più vicine si trovavano a sud lungo la 395, ad almeno una settantina di miglia. Questo era un territorio di parchi nazionali, laghi, strade di emergenza per gli incendi, crinali lunari di roccia lavica, tutto un insieme scarsamente popolato salvo per la Valle di Santaroga. Perché mai la gente avrebbe dovuto voler viaggiare di notte, invece di rimanere a dormire in quella locanda? Dasein terminò la sua cena, lasciando là il resto della birra. Doveva discutere di quel posto con il suo capo dipartimento, il dottore Chami Selador, prima di fare un'altra mossa. Burdeaux aveva lasciato discretamente il conto su un piccolo vassoio marrone, tre dollari e ottantasei centesimi. Dasein mise una banconota da cinque dollari sul vassoio, lanciò ancora una volta un'occhiata in giro per la sala. In superficie tutto appariva così maledettamente normale! I giocatori erano assorti nella loro partita. Il barista era curvo sul bancone, intento a chiacchierare con due clienti. Un bambina a un tavolo sulla destra si stava lamentando perché non voleva bere il suo latte. Ma le cose non erano affatto normali, lì dentro; e i sensi di Dasein glie-
l'urlavano. La fragile superficie di quella sala era pronta a frantumarsi ancora una volta e Dasein pensava che non gli sarebbe piaciuto ciò che avrebbe potuto rivelare. Si pulì le labbra sul tovagliolo, prese la sua valigetta e si diresse verso l'atrio. La sua valigia era in piedi sul banco accanto al registro. Attraverso la porta che si trovava nell'angolo dietro il banco arrivavano il ronzio e il mormorio d'un centralino in funzione. Prese su la valigia, si frugò in tasca per controllare il numero della stanza sulla chiave d'ottone: duecentocinquantuno. Decise che se non ci fosse stato il telefono nella stanza sarebbe sceso e avrebbe chiamato Chami da una cabina. Sentendosi un po' sciocco e deluso dopo la sua reazione alla scena nella sala da pranzo, Dasein si avviò verso la scala. Dalle poltrone dell'atrio, da sopra l'orlo dei giornali, qualcuno lo scrutò. Erano occhi vigili, inquisitori. La scala conduceva a un mezzanino in penombra: scrivanie, chiazze di carta bianca. Una porta antincendio proprio davanti a lui ostentava la scritta: «Al Secondo Piano. Tenere chiusa questa porta». La rampa successiva curvava a sinistra, una luce fioca al soffitto, ampi pannelli di legno scuro. Attraverso un'altra porta antincendio conduceva in un corridoio con una scritta che indicava un'uscita di emergenza sulla sinistra. Un tabellone illuminato sul lato opposto della porta indicava che la stanza duecentocinquantuno era in fondo al corridoio sulla destra. Sul soffitto c'erano lampade molto distanziate le une dalle altre, il pelo folto d'un tappeto marrone sotto i piedi, porte ampie e massicce con maniglie d'ottone e fori per i pass di vecchio tipo davano a quel posto un'atmosfera da diciannovesimo secolo. Dasein quasi si aspettò di vedere una cameriera in cuffietta, un grembiule allacciato dietro la schiena con un fiocco, una gonna lunga e calze nere, scarpe alte... oppure un corpulento banchiere con un panciotto attillato e il collo alto, un'ampia catenella d'oro alla cintura. Qui, lui si sentiva fuori posto. Fuori stile. La chiave di ottone aprì senza difficoltà la porta della duecentocinquantuno. Entrò in una stanza dall'alto soffitto, con una finestra che guardava giù sul parcheggio. Dasein accese la luce. L'interruttore controllava una lampada a stelo infiocchettata accanto alla toeletta di teak incurvata sul davanti. La luce color ambra rivelò una porta semiaperta che dava su un bagno rivestito di piastrelle (udì il rumore d'un rubinetto che sgocciolava), un tavolo-scrivania dalle zampe massicce con una singola sedia dallo schienale dritto spinta contro di esso. Il letto era stretto e alto, con una testiera massicciamente scolpita.
Dasein saggiò la superficie del letto. Dava una sensazione di morbidezza. Lasciò cadere la valigia sul letto e la fissò. Un orlo di tessuto bianco sporgeva da una estremità. Aprì la valigia e ne studiò il contenuto. Dasein sapeva di essere molto meticoloso e preciso quando faceva le valige. Adesso la valigia tradiva un sottile disordine. Qualcuno l'aveva aperta e perquisita. Be'... lui non l'aveva chiusa a chiave. Controllò il contenuto. Non mancava niente. Perché sono tanto curiosi su di me? si chiese. Si guardò intorno alla ricerca di un telefono. Lo trovò: un apparecchio francese standard su uno scaffale accanto alla scrivania. Mentre si muoveva, s'intravide nello specchio sopra la toeletta: occhi spalancati, la bocca che formava una linea dritta. Cupo. Scosse la testa, sorrise. Il sorriso gli parve fuori posto. Dasein prese posto sulla sedia dritta, accostò il telefono all'orecchio. Nella stanza c'era un odore di sapone disinfettante, e di qualcosa che assomigliava all'aglio. Un istante dopo schiacciò il pulsante. Dopo un po' gli rispose una voce di donna: — Centralino. — Vorrei chiamare Berkeley — disse Dasein. Le diede il numero. Vi fu un attimo di silenzio, e poi: — Il numero della sua camera, signore? — Duecentocinquantuno. — Un momento, per favore. Sentì il rumore del numero che veniva fatto, il segnale della centrale. Rispose un'altra centralinista. Dasein ascoltò con soltanto metà della propria attenzione mentre la chiamata veniva fatta. L'odore dell'aglio era molto forte. Fissò il vecchio letto alto, la valigia aperta. Il letto appariva invitante, gli diceva quant'era stanco. Il petto gli faceva male. Trasse un profondo respiro. — Qui il dottor Selador. L'accento indiano-cum-Oxford di Selador suonò familiare e vicino. Dasein si chinò sul telefono, si fece riconoscere, d'un tratto la sua mente rimase sorpresa da quella sensazione d'intima vicinanza collegata alla consapevolezza della reale distanza che li separava, con i fili ronzanti che si stendevano per quasi la metà della lunghezza dello stato. — Gilbert, vecchio mio, vedo che è arrivato sano e salvo. — La voce di Selador traboccava di allegria. — Sono alla Santaroga House, dottore. — Mi dicono che è un posto molto confortevole. — Pare che lo sia. — In mezzo alla sua ronzante stanchezza, Dasein
provava una sensazione di stupidità. Perché mai aveva fatto quella telefonata? La mente acuta di Selador avrebbe cercato significati e motivi nascosti. — Presumo che non mi abbia chiamato soltanto per dirmi che è arrivato — disse Selador. — No... io... — Dasein si rese conto di non riuscire a esprimere la propria vaga inquietudine, quella sensazione di estraniamento, quella separazione fra santarogani e forestieri, quel formicolio ammonitore di paura, il tutto indubbiamente presente ma in apparenza privo di senso. — Vorrei che controllasse i rapporti d'affari che hanno le compagnie petrolifere con questa zona — disse infine. — Veda se riesce a scoprire come fanno i loro affari con la valle. A quanto pare, qui c'è una stazione di servizio indipendente. Voglio sapere chi gli fornisce la benzina, l'olio, le parti di ricambio... quel genere di cose, insomma. — Buona idea, Gilbert. Metterò uno dei nostri... — Vi fu un improvviso crepitio, un tonfo sulla linea. La comunicazione cessò e vi fu il più totale silenzio. — Dottor Selador? Silenzio. Dannazione! pensò Dasein. Schiacciò più volte il pulsante. — Operatore! Operatore! Una voce maschile s'inserì nella linea. Dasein riconobbe l'accento dell'impiegato al ricevimento. — Chi sta facendo tutto questo baccano? — volle sapere l'impiegato. — Stavo telefonando a Berkeley quando sono stato interrotto — disse Dasein. — Potrebbe... — La linea è interrotta — esclamò l'impiegato. — Posso scendere nell'atrio e telefonare da un telefono a gettone? — chiese Dasein. Già mentre lo chiedeva l'idea di percorrere quella lunga distanza fino all'atrio riuscì ripugnante a Dasein. La sensazione di stanchezza era un macigno sul suo petto. — In questo momento non c'è nessuna linea collegata con l'esterno della valle — dichiarò l'impiegato. — Non è possibile telefonare. Dasein si passò una mano sulla fronte. Si sentiva la pelle umida e appiccicosa e si chiese se non si fosse beccato un'infezione. La stanza intorno a lui parve espandersi e contrarsi. Aveva la bocca asciutta e dovette inghiottire due volte prima di riuscire a chiedere: — Quando si aspetta che ripristineranno la linea?
— Come diavolo faccio a saperlo? — ribatté l'impiegato. Dasein scostò il ricevitore dall'orecchio, lo fissò. Quell'impiegato al ricevimento era molto strano... e anche la stanza era molto strana, per il modo in cui ondeggiava e pareva scivolar via, con il suo puzzo d'aglio e il suo... Divenne conscio d'un sibilo appena udibile. Con crescente stupore lo sguardo di Dasein fu attratto dal becco di una lampada a gas di vecchio stampo che sporgeva dalla parete accanto alla porta del corridoio. Puzza d'aglio? Gas! Una voce berciante, sbraitante, abbaiò al telefono. Dasein abbassò lo sguardo all'apparecchio che stringeva nella mano. Quanto gli pareva lontano... al di là del telefono, attraverso la finestra, poteva vedere l'insegna della locanda: Museo della Corsa all'Oro. La finestra equivaleva all'aria. Dasein trovò dei muscoli disposti a obbedirgli, si sporse barcollando attraverso la scrivania, e cadde in avanti fracassando il vetro della finestra con il telefono. La voce berciante divenne più debole. Dasein sentì il proprio corpo disteso attraverso la scrivania. La sua testa giaceva vicino alla finestra in pezzi. Poteva vedere il cordone del telefono che si allungava fuori della finestra. C'era un'aria fresca che gli soffiava sulla fronte da lontano... un gelo doloroso nei polmoni. Hanno tentato di uccidermi, pensò. Era un pensiero pieno di meraviglia che lo lasciava esterrefatto. Mise a fuoco la propria mente sui due investigatori che erano già morti: incidenti. Semplici incidenti, facilmente spiegabili... proprio come questo. L'aria, come la sentiva fredda sulla pelle esposta! Gli faceva bruciare i polmoni. Sentì una pulsazione martellante alla tempia là dove premeva contro la superficie della scrivania. La pulsazione continuò e continuò... Un picchiare sul legno si unì alla pulsazione. Per un po' batterono a un folle ritmo sincopato. — Lei, là dentro! Apra! Apra! — Com'era imperiosa quella voce. Apra, pensò Dasein. Questo significava alzarsi in piedi, attraversare la stanza, girare la maniglia della porta... Sono impotente, pensò. Potrebbero ancora uccidermi. Sentì un raschiare contro il metallo. L'aria gli soffiò con più forza sul viso. Qualcuno disse: — Gas! Delle mani afferrarono Dasein per le spalle. Venne tirato indietro, mezzo
portato di peso, mezzo trascinato fuori della stanza. Il volto di Marden, il capitano della Stradale dai capelli rossi, gli oscillò davanti agli occhi. Vide l'impiegato: pallido, la faccia tirata, gli occhi fissi, la fronte calva che luccicava sotto la luce gialla. C'era un soffitto marrone direttamente davanti a lui... Sentì un tappeto, duro e ispido, sotto la schiena. Una voce vibrante chiese: — Chi pagherà per quella finestra? — Qualcun altro disse: — Vado a chiamare il dottor Piaget. L'attenzione di Dasein si concentrò sulla bocca di Marden, un oggetto sfocato visto attraverso molti strati distorcenti. Parevano esserci linee di rabbia agli angoli della sua bocca. Si voltò verso la faccia pallida dell'impiegato che si librava sopra di lui e replicò: — Al diavolo la tua finestra, Johnson! Ti ho già detto un mucchio di volte di eliminare quei becchi a gas da questo posto. Quante sono le stanze che li hanno ancora? — Non assumere questo tono con me, Al Marden. Ti conosco da quando... — Non m'interessa sapere da quanto tempo mi conosci, Johnson. Quante stanze hanno ancora questi becchi? La voce dell'impiegato rispose con un tono rabbioso e risentito: — Soltanto questa, e altre quattro al piano di sopra. In nessun'altra stanza ci sono. — Fa' in modo che non ce ne siano più del tutto entro domani sera — gl'intimò Marden. Un rumore di passi affrettati interruppe la discussione. Il volto rotondo del dottor Piaget oscurò la visuale che Dasein aveva del soffitto. Il volto aveva un'espressione preoccupata. Delle dita si abbassarono verso di lui, spalancarono le sue palpebre. Piaget disse: — Mettiamolo su un letto. — Si rimetterà? — chiese l'impiegato. — Era ora che lo chiedessi — replicò Marden. — Siamo arrivati in tempo — disse Piaget. — È vuota la stanza sull'altro lato del corridoio? — Può avere la 260 — disse l'impiegato. — Vado ad aprirla. — Ti rendi conto che questo che hai quasi ucciso è l'amico di Jenny dei tempi di scuola? — chiese Marden. La sua voce si allontanò mentre seguiva l'impiegato. — L'amico di Jenny? — Vi fu il rumore d'una chiave nella serratura. — Ma pensavo... — Non importa quello che pensavi! Il volto di Piaget si avvicinò a Dasein: — Riesce a sentirmi, giovanotto? — chiese.
Dasein esalò un lungo e doloroso sospiro, e gracidò: — Sì. — Avrà un bel mal di testa, ma si riprenderà. Il volto di Piaget scomparve. Delle mani presero su Dasein. Il soffitto si mosse. Adesso, c'era un'altra stanza intorno a lui: come la precedente, il soffitto alto, perfino lo sgocciolio del rubinetto. Dasein sentì un letto sotto la schiena, delle mani che cominciavano a spogliarlo. Fu colto da una nausea improvvisa. Dasein spinse via le mani. Qualcuno lo aiutò ad arrivare nel bagno, dove stette parecchio male. Dopo, però, si sentì meglio, debole ma con la testa sgombra, un miglior senso del controllo dei muscoli. Vide che era stato Piaget ad aiutarlo. — Adesso, se la sente di tornare a letto? — gli chiese Piaget. Dasein annuì. — Le farò una buona iniezione di ferro per contrastare gli effetti del gas sul suo sangue — aggiunse Piaget. — Si rimetterà in sesto. — Come mai quel becco a gas è entrato in funzione? — chiese Dasein. La sua voce era un rauco sussurro. — Johnson ha fatto confusione con le valvole in cucina — disse Piaget. — Non sarebbe successo niente se qualche idiota non avesse aperto il becco a gas nella sua stanza. — Avrei giurato di averli spenti tutti. — Era la voce dell'impiegato da qualche parte al di là della porta del bagno. — Faranno meglio ad essere tutti tappati entro domani sera — ribadì Marden. Parevano così ragionevoli, pensò Dasein. Marden appariva davvero arrabbiato. L'espressione sul volto di Piaget poteva essere soltanto di viva preoccupazione. Poteva essersi trattato di un vero incidente? Dasein se lo chiese. Allora ricordò nuovamente che in quella valle due uomini erano morti a causa d'incidenti mentre erano impegnati in quell'indagine. — D'accordo — disse Piaget. — Tutti fuori, adesso. — Era stato Marden a scandire la seconda frase. — Vado a prendere le sue valige nell'altra stanza. — Quella era una voce che Dasein non riconobbe. Poco dopo, con l'aiuto di Piaget, Dasein si trovò in pigiama, e a letto. Si sentiva la testa sgombra, del tutto sveglio, e solo, anche se con Piaget ancora nella stanza. Fra estranei, pensò. — Ecco, prenda queste — lo sollecitò Piaget. Mise due pillole in bocca
a Dasein, e lo costrinse a bere un po' d'acqua da un bicchiere. Dasein buttò giù, e sentì le pillole raschiargli giù nella gola insieme a un sorso d'acqua. — Cos'erano? — domandò Dasein, spingendo via il bicchiere. — Il ferro e un sedativo. — Non voglio dormire. Il gas... — Non ha inalato abbastanza gas perché la differenza sia poi tanta. Adesso si riposi e stia tranquillo. — Piaget gli batté una mano sulla spalla. — Un po' di riposo a letto e l'aria fresca sono la miglior terapia. Qualcuno verrà a darle un'occhiata di tanto in tanto, stanotte. Verrò a darle una controllata domattina. — Qualcuno... — disse Dasein. — Un'infermiera? — Sì — replicò Piaget con voce brusca. — Un'infermiera. Qui sarà al sicuro come se fosse in ospedale. Dasein sbirciò la notte al di là della finestra della stanza. Perché mai questa sensazione di pericolo adesso? si chiese. È la reazione? Poteva sentire il sedativo che gli offuscava i sensi, con un effetto calmante. Ma la sensazione di pericolo continuò. — Jenny sarà felice di sapere che lei è qui — disse Piaget, e lasciò la stanza, spegnendo la luce e chiudendo con delicatezza la porta. A Dasein parve di essere stato soffocato dal buio. Combatté la sensazione di panico, ripristinando una parvenza di calma. Jenny... Jenny... La strana conversazione di Marden con l'impiegato, Johnson, gli ritornò alla memoria. — ... l'amico di Jenny dei tempi di scuola... — Cos'è che aveva pensato Johnson? Cosa mai Marden aveva interrotto? Dasein lottò contro il sedativo. Lo sgocciolio dell'acqua nel bagno invase la sua coscienza. Quella stanza era un cella aliena. Era stato soltanto un incidente? Ricordò la frammentata confusione dell'istante in cui aveva concentrato la sua attenzione sul sibilo del becco del gas. Adesso che il pericolo era passato, provò una sensazione di terrore. Non era possibile che si fosse trattato di un incidente! Ma perché mai Johnson avrebbe voluto ucciderlo? La telefonata interrotta ossessionava Dasein. Era davvero caduta la linea? Cosa avrebbe potuto fare Selador? Selador conosceva i pericoli di quel posto. Dasein sentì il sedativo che lo trascinava nel sonno. Cercò di concentrar-
si sull'indagine. Era un progetto così affascinante. Poteva sentire Selador che gli spiegava le sfaccettature che facevano del Progetto Santaroga una gemma così sfavillante... «Preso singolarmente, nessuno dei particolari di questa raccolta di fatti può venir considerato allarmante o degno di attenzione. Potrebbe trovare interessante il fatto che nessuno degli abitanti di Cloverdale, in California, sia mai stato ricoverato in manicomio. Potrebbe costituire motivo d'un interesse passeggero apprendere che la popolazione di Hope, nel Missouri, consuma assai poco tabacco. La allarmerebbe scoprire che tutte le attività economiche di Enumclaw, nello stato di Washington, sono di proprietà della gente del luogo? Certamente no: ma quando si mettono insieme tutti questi fatti e altri ancora e si scopre che costituiscono le caratteristiche di una singola comunità, allora ne emerge qualcosa d'inquietante. Qui opera una differenza. Lo sgocciolio dell'acqua nel bagno era una distrazione soverchiante. Una differenza pericolosa, pensò Dasein. Chi sorveglierà me? si chiese. Allora gli venne in mente di chiedersi chi avesse dato l'allarme. Il fracasso della finestra che andava in frantumi aveva messo qualcuno sul chi vive. La persona più probabile era Johnson, l'impiegato all'accettazione. Perché mai avrebbe dovuto portare aiuto alla persona che stava cercando di uccidere? La paranoia dei suoi stessi pensieri cominciava a fare impressione a Dasein. Era stato un incidente, pensò Dasein. Era stato un incidente in un luogo di differenze pericolose. La mattinata di Dasein cominciò con una sensazione di fame. Si svegliò in preda a crampi dolorosi. Gli avvenimenti della notte gli inondarono la memoria. Aveva l'impressione che la testa gli fosse stata presa a calci da dentro. Si rizzò a sedere con grande cautela. Dritto davanti a lui c'era una finestra con un ramo verde di quercia posto di traverso. Come se i suoi muscoli fossero stati controllati da una forza nascosta, Dasein si trovò a guardare in direzione della porta per vedere se c'era un becco del gas. Lo sguardo indagatore incontrò, però, soltanto un rattoppo sulla carta da parati che segnava il punto dove c'era stato un becco. Tenendo la testa quanto più orizzontale possibile, Dasein scese dal letto e andò in bagno. Una doccia fredda ripristinò un po' del suo senso della realtà.
Continuava a dirsi: è stato un incidente. Una cyanocitta si era appollaiata sul ramo di quercia e aveva intonato il suo stridulo richiamo, quando Dasein emerse dal bagno. Il suono provocò dei piccoli scrosci di dolore attraverso la testa di Dasein. Si vestì in fretta, stimolato dalla fame. La cyanocitta fu raggiunta da un compagno. Cominciarono a rincorrersi sfrecciando e stridendo in mezzo ai rami della quercia, contraendo il ciuffetto sulle loro teste. Dasein strinse i denti e si guardò nello specchio per annodarsi la cravatta. Vide riflesso nello specchio il lento movimento verso l'interno della porta che dava sul corridoio. Comparve l'angolo d'un carrello a rotelle. Un tintinnio di piatti che sbattevano. La porta si spalancò del tutto. Jenny comparve sulla soglia, intenta a spingere il carrello. Dasein la fissò nello specchio, le sue mani s'immobilizzarono sulla cravatta. Jenny indossava un abito rosso, i suoi lunghi capelli neri erano raccolti in un nastro di uguale colore. La sua pelle mostrava una sana abbronzatura. Un paio di occhi azzurri lo fissavano dallo specchio. Il suo volto ovale aveva una vigile espressione di attesa. La sua bocca era piena proprio come la ricordava. Esitava sull'orlo di un sorriso, una fossetta le tremolava sulla guancia sinistra. — Finisci il nodo — lei gli disse. — Ti ho portato la colazione. — La sua voce aveva quel timbro gutturale, tranquillizzante, che lui ricordava così bene. Dasein si voltò, si mosse verso di lei come se fosse stato azionato da fili. Jenny abbandonò il carrello e lo incontrò a metà strada. Gli venne tra le braccia, sollevando le labbra per farsi baciare. Dasein, sentendo il calore del suo bacio e la familiare pressione del corpo di lei sul proprio, provò la sensazione di essere ritornato a casa. Jenny si staccò da lui e gli studiò il viso. — Oh, Gil — disse, — ho sentito tanto la tua mancanza. Perché non hai mai scritto? Lui la fissò, rimanendo in silenzio un attimo per la sorpresa. Poi: — Ma io ho scritto. Non mi hai mai risposto. Jenny si spinse lontano da lui corrugando i lineamenti. — Ohhh! — Pestò un piede per terra. — Be', vedo che l'hai trovato. — Era stato il dottor Piaget a parlare. Era fermo sulla soglia. Spinse del tutto il carrello dentro la stanza e chiuse la porta. Jenny si voltò con veemenza verso di lui. — Zio Larry! Hai tenuto tu le lettere che Gil mi ha scritto, senza farmele vedere?
Piaget spostò lo sguardo da Jenny a Dasein. — Lettere? Che lettere? — Gil ha scritto e non ho mai ricevuto le sue lettere! — Oh. — Piaget annuì. — Be', sai come si comportano all'ufficio postale, qualche volta: una ragazza della valle, un tipo da fuori... — Ohhh! Potrei strappargli gli occhi! — Calma, ragazza. — Piaget sorrise a Dasein. Jenny tornò a girarsi di scatto, rituffandosi tra le braccia di Dasein, sorprendendolo con un altro bacio. Dasein si staccò da lei col fiato grosso. — Ecco — disse Jenny. — Questo perché sei qui. Quelle vecchie galline dell'ufficio postale non potranno buttare questo nel cestino della carta straccia. — Quali vecchie galline? — chiese Dasein. Gli pareva di aver perso parte della conversazione. Il calore dei baci di Jenny, la sua palese supposizione che nulla fosse cambiato fra loro lo lasciava circospetto, con la sensazione di trovarsi indifeso. Dopotutto, era passato un anno. Era riuscito a rimanere lontano da lì per un anno, appogiandosi al proprio ego mascolino ferito; era vero che aveva paura di trovare Jenny già sposata... perduta per sempre. Ma lei, a che cosa si era appoggiata? Avrebbe potuto venire a Berkeley, anche soltanto per una visita. E io avrei potuto venire qui. Jenny sorrise. — Perché sorridi? — lui le chiese. — E non mi hai spiegato questa faccenda dell'ufficio postale, e il... — Sorrido perché sono tanto felice — rispose Jenny. — Sorrido perché vedo le rotelline che ti girano in testa. Perché mai uno di noi due non è andato a trovare l'altro, prima d'ora? Be', tu sei venuto, come sapevo che avresti fatto. Sapevo che l'avresti fatto, e basta. — Lo abbracciò d'impulso e soggiunse: — In quanto all'ufficio postale... — Credo che la colazione di Gilbert si stia raffreddando — disse Piaget. — Non ti dispiace se ti chiamo Gilbert? — Non gli dispiace — esclamò Jenny. La sua voce era scherzosa, ma c'era un'improvvisa rigidità nel suo corpo. Si spinse via da Dasein. Piaget sollevò il coperchio da uno dei piatti del carrello, e disse: — Omelette Jaspers, a quanto vedo. Vero Jaspers. Jenny parlò sulla difensiva, con una curiosa mancanza di vitalità: — L'ho preparata io stessa nella cucina di Johnson. — Capisco — annuì Piaget. — Sì... be', forse è meglio così. — Indicò il piatto. — Dacci sotto, Gilbert.
Il pensiero del cibo fece annodare lo stomaco a Dasein, per la fame. Avrebbe voluto sedersi e mandar giù l'omelette con un solo boccone... ma qualcosa lo fece esitare. Non riusciva a evitare quella persistente sensazione di pericolo. — Cos'è questa faccenda di Jaspers? — chiese. — Oh, quello — disse Jenny, tirando il carrello accanto alla seggiola vicino alla scrivania. — Significa soltanto qualcosa fatto con un prodotto della Cooperativa. Nell'omelette c'è il nostro cheddar. Siediti e mangia. — Ti piacerà — disse Piaget. Attraversò la stanza e appoggiò una mano sulla spalla di Dasein, spingendolo sulla sedia. — Lascia soltanto che ti dia una rapida occhiata. — Pizzicò il lobo sinistro di Dasein, lo studiò, gli guardò gli occhi. — Mi sembri in forma. Come va la testa? — Meglio, adesso. Era piuttosto feroce quando mi sono svegliato. — Va bene. Mangia la colazione. Prenditela con calma per un giorno o due. Fammi sapere se proverai di nuovo una sensazione di nausea o se avrai qualche sintomo generale di letargia. Ti suggerisco di mangiare fegato a cena e dirò a Jenny di portarti altre pillole a base di ferro. Non sei rimasto là dentro abbastanza a lungo da subire danni permanenti. — Quando penso alla sbadataggine di quel signor Johnson, vorrei ficcargli in pancia uno di quei suoi coltellacci! — esclamò Jenny. — Abbiamo sete di sangue, oggi, vero? — disse Piaget. Dasein prese su la forchetta e assaggiò l'omelette. Jenny l'osservò, in attesa. L'omelette era deliziosa, fragrante, e con un sapore di formaggio appena appena accennato. Dasein inghiottì e le sorrise. Jenny gli rispose con un sorriso. — Sai — disse, — è la prima pietanza che abbia cucinato per te. — Non fargli troppa fretta, ragazza — intervenne Piaget. Le accarezzò la testa e aggiunse: — Per adesso vi lascio. Perché non porti a casa il tuo giovanotto per la cena? Farò preparare a Sarah quello di cui ha bisogno. — Lanciò un'occhiata a Dasein. — Ti va bene? Dasein mandò giù un altro boccone dell'omelette. Il formaggio gli lasciò in bocca un sapore pungente che gli ricordava la birra non pastorizzata che Burdeaux gli aveva servito. — Ne sarò onorato, signore — rispose. — L'aspettiamo verso le sette — disse Piaget. Lanciò un'occhiata al proprio orologio. — Sono quasi le otto e trenta, Jenny. Non lavori, oggi? — Ho telefonato a George e gli ho detto che arriverò in ritardo. — Non ha obiettato? — Sa... che ho un amico... che mi ha fatto visita — rispose Jenny, arros-
sendo. — È così, eh? Bene, non metterti nei guai. — Piaget si girò e uscì dalla stanza a testa bassa, con passo pesante e deciso. Jenny rivolse un'occhiata timida e interrogativa a Dasein. — Non badare allo zio Larry — gli disse. — Salta sempre così, da un argomento all'altro. È una persona davvero meravigliosa. — Dove lavori? — le chiese Dasein. — Alla Cooperativa. — Il caseificio? — Sì. Sono... lavoro alla linea d'ispezione. Dasein inghiottì, ricordandosi che si trovava lì per fare uno studio di mercato. Era una spia. E cosa avrebbe detto Jenny quando l'avesse scoperto? Ma Jenny gli poneva un nuovo problema. Aveva un talento eccezionale per la psicologia clinica, perfino secondo il dottor Selador, i cui criteri di giudizio erano molto alti. Eppure... lavorava nel caseificio. — Non c'è nessun lavoro nel... nel tuo campo, qui da voi? — le chiese. — È un buon lavoro — lei replicò. Si sedette sull'orlo del tavolo e accavallò le gambe. — Finisci la colazione. Non sono stata io a preparare quel caffè. Viene dalla macchina dell'albergo. Non berlo se è troppo forte. C'è del succo d'arancia in quella brocca di metallo. Mi sono ricordata che bevi caffè nero e non ho portato nessun... — Caspita! — esclamò lui. — Sto parlando troppo, lo so — lei disse. Si strinse il corpo fra le braccia. — Oh, Gil, sono così felice che tu sia qui. Finisci la colazione, così dopo potrai portarmi in macchina fino alla Cooperativa. Forse potrò farti fare una visita guidata. È un posto affascinante. Ci sono un sacco di angoli bui in fondo alla cantina-deposito. Dasein finì il caffè e scosse la testa. — Jenny, sei incorreggibile. — Gil, ti piacerà questo posto. So che ti piacerà — disse Jenny, decisa. Dasein si pulì le labbra col tovagliolo. Jenny era ancora innamorata di lui. Poteva vederlo dal suo sguardo. E lui... lui provava la stessa cosa per lei. Era ancora Ama me, ama la mia valle, però. Le sue stesse parole lo tradivano. Dasein sospirò. Poteva vedere la parete vuota d'una irrisolvibile differenza profilarsi davanti a loro. Se il suo amore fosse riuscito a resistere alla scoperta del suo vero ruolo in quel luogo, avrebbe potuto resistere al distacco dalla valle? Jenny sarebbe venuta via con lui? — Gil, stai bene? — lei gli chiese. Dasein spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. — Sì. Sto...
Il telefono squillò. Jenny allungò la mano dietro di sé sul tavolo, portò il ricevitore all'orecchio. — Camera del dottor Dasein. — Sorrise a Dasein. Il suo sorriso divenne un'espressione corrucciata. — Oh, è lei signor Penn Johnson, vero? Bene, le dirò una cosa o due, signor Johnson! Penso che lei sìa un criminale per il modo in cui ha quasi ucciso il dottor Dasein! Se lei... no! Non cerchi scuse. Becchi del gas aperti nelle stanze! Credo che il dottor Dasein dovrebbe farle causa ed esigere fino all'ultimo centesimo che lei possiede! Un acuto rumore raschiante giunse dal telefono. Dasein riconobbe soltanto poche parole. Il sorriso tornò sul volto di Jenny. — Sono Jenny Sorge, ecco chi sono — disse. — Non... be', glielo dirò se starà zitto un momento! Sono qui per portare al dottor Dasein quello che il medico gli ha ordinato: una buona colazione. Non osa mangiare niente di quello che lei potrebbe avergli preparato. È probabile che dentro ci sia del veleno! Dasein si avvicinò ad un portabauli sul quale era stata lasciata la sua valigia, e l'aprì. Parlò senza voltarsi: — Jenny, cos'è che vuole, per l'amor del cielo? Lei gli fece cenno di star zitto. Dasein frugò dentro la valigia alla ricerca della sua valigetta. Cercò di ricordare che fine avesse fatto, nella confusione della sera precedente, e si guardò intorno nella stanza. Non la vide da nessuna parte. Qualcuno era andato nell'altra stanza per prendere le sue cose. Chiunque fosse stato, forse si era dimenticato della valigetta. Dasein pensò al contenuto della valigetta, e s'inumidì le labbra con la lingua. Ogni passo del suo programma per dipanare il mistero della Barriera di Santaroga era tracciato nei documenti contenuti là dentro. Nelle mani sbagliate, quelle informazioni avrebbero potuto causargli dei guai, sollevare nuove barriere. — Glielo dirò — disse Jenny. — Aspetta un momento — disse Dasein. — Voglio parlargli. — Prese il telefono dalle mani di Jenny. — Johnson? — Cosa vuole? — c'era quella vibrante bellicosità, ma Dasein non poteva certo biasimarlo, dopo il trattamento che aveva ricevuto da Jenny. — La mia valigetta — disse Dasein. — Era nell'altra stanza. Le spiacerebbe mandare su qualcuno con le chiavi e... — La sua dannata valigetta non si trova in quella stanza, signor mio! Ho pulito quel posto e devo ben saperlo. — Allora dov'è? — insisté Dasein. — Se era quella valigetta che l'ha fatta diventare tanto suscettibile, ho
visto il capitano Marden andarsene con qualcosa che le assomigliava ieri sera, dopo tutto il trambusto che lei ha causato. — Io ho causato? — Dasein era indignato. — Senta, Johnson! La smetta di distorcere i fatti! Dopo soltanto un attimo di silenzio, Johnson replicò: — Li stavo distorcendo, vero? Mi scusi. L'improvviso candore di Johnson disarmò lo psicologo che era in Dasein. In un certo qual modo gli ricordava Jenny. Aveva scoperto che i santarogani mostravano una realtà sbilenca che era allo stesso tempo attraente e disorientante. Una volta che ebbe rimesso ordine fra i propri pensieri, tutto quello che Dasein riuscì a dire, fu: — Cosa ci vuol fare Marden con la mia valigetta? — Tocca a lui dirlo e a lei scoprirlo — ribatté Johnson, con tutta la sua vecchia bellicosità. Vi fu un secco clic quando l'altro interruppe il collegamento. Dasein scosse la testa e rimise il ricevitore sulla forcella. — Al Marden vuole che tu vada a pranzo con lui alla Pecora Azzurra — disse Jenny. — Uhmmm? — Dasein sollevò lo sguardo su di lei, sconcertato. Ci volle qualche istante perché le sue parole assumessero un significato. — Marden... a pranzo? — A mezzogiorno. La Pecora Azzurra si trova sul Viale dei Giganti, là dove passa attraverso la città... sulla destra, dopo la prima trasversale. — Marden? Il capitano della Stradale? — Sì. Johnson me l'ha appena detto. — Scivolò giù dal tavolo, un lampeggiare di ginocchia, un turbinio della gonna rossa. — Vieni. Accompagnami al lavoro. Dasein prese su la giacca e le permise di guidarlo fuori della stanza. Quella dannata valigetta con tutti i suoi moduli, gli appunti e le lettere, pensò. Tutto lo spettacolo! Ma la consapevolezza che tutto sarebbe uscito allo scoperto gli diede un perverso senso di soddisfazione. Non sono tagliato per fare l'agente segreto. Però, non c'era nessun modo di sfuggire alla constatazione che la rivelazione del vero scopo della sua visita avrebbe intensificato la cospirazione del silenzio di Santaroga. E come avrebbe reagito Jenny? CAPITOLO SECONDO
La prima impressione che Dasein ebbe della Cooperativa Casearia Jaspers, con la gente al lavoro dentro ed intorno ad essa, fu che il posto fosse un alveare. Si profilava biancastro dietro al suo reticolato, quando Jenny lo condusse là dalla locanda. Gli apparve come uno strano compagno per la locanda, proprio dall'altra parte della strada, arroccato contro una ripida collina, che faceva sporgere strani quadrati e rettangoli su un affioramento roccioso. L'aspetto cogitabondo della sera prima era stato sostituito da quell'apparenza di sussurrante efficienza, con i carrelli elettrici che ronzavano attraverso il cortile, e le loro piattaforme cariche di pacchi oblunghi. La gente camminava come se fosse mossa da una motivazione ossessiva. Un alveare, ribadì Dasein dentro di sé. All'interno doveva esserci una regina, e quelli erano gli operai che facevano la guardia, e accumulavano il cibo. Un sorvegliante in uniforme, con accanto un cane poliziotto al guinzaglio, prese il nome di Dasein quando Jenny glielo presentò. Quindi la guardia aprì un cancello nella rete del recinto. Il suo cane rivolse un sogghigno lupesco a Dasein, uggiolando. Dasein ricordò i latrati che aveva udito la prima volta che aveva guardato dentro la valle. E si rese conto che questo era accaduto meno di quattordici ore prima. Gli pareva che il tempo si fosse allungato come un elastico, diventando più esteso. Si chiese come mai dovessero esserci dei cani a sorvegliare la Cooperativa. La domanda lo tormentava. Il cortile che attraversarono era un'immacolata superficie di cemento. Adesso che si trovava vicino allo stabilimento, Dasein vide che si trattava di un insieme di strutture che erano state congiunte riempiendo gli spazi intermedi con delle peculiari aggiunte e marciapiedi coperti. L'umore di Jenny cambiò in maniera marcata non appena furono dentro il terreno del caseificio. Dasein la vide diventare più autoritaria, più sicura di sé. Presentò Dasein a quattro persone mentre attraversavano il cortile, e fra queste a Willa Burdeaux. Willa risultò essere una giovane donna dalla voce gutturale con una faccia quasi brutta nella sua spigolosità minuscola e concisa. Aveva la pelle scura di suo padre, e un corpo minuto. — Ho incontrato suo padre ieri sera — le disse Dasein. — Papà me l'ha detto — rispose la ragazza. Rivolse un'occhiata complice a Jenny e aggiunse: — Qualunque cosa posso fare per te, basterà che tu me lo dica, tesoro. — Forse più tardi — replicò prontamente Jenny. — Adesso dobbiamo correre.
— Le piacerà qui, Gilbert Dasein — aggiunse Willa a mo' di commiato. Si voltò, facendo un cenno di saluto, e si allontanò in fretta attraverso il cortile. Turbato dai sottintesi di quella conversazione, Dasein si lasciò scortare lungo un'ampia campata laterale, dentro una grande porta che si apriva su una corsia fra pile di scatoloni di formaggio Jaspers. Da qualche parte, al di là delle cataste di scatoloni, giungeva una molteplicità di suoni: sibili, tonfi, un gorgogliare d'acqua, uno sferragliare. La corsia terminava con una breve rampa dai larghi gradini, la quale saliva fino ad un'area per il carico delle merci con dei carrelli a mano allineati lungo l'orlo. Jenny lo condusse oltre una porta con la scritta «Ufficio». Era un posto così comune... vecchie copie-commissione appese a fermagli allineati lungo una parete, due scrivanie con delle donne sedute dietro di esse, intente a battere a macchina, un lungo banco con un cancelletto a un'estremità, finestre che si affacciavano sul cortile e una veduta della locanda, una porta con la scritta «Direttore» al di là delle scrivanie e delle due donne. La porta si aprì quando Dasein e Jenny si fermarono accanto al banco. Ne uscì fuori uno dei giocatori della sala da pranzo della locanda: l'uomo dai capelli color sabbia, un po' calvo, il mento segnato da un solco profondo e la bocca larga: George Nis. Gli occhi azzurri dalle pesanti palpebre si volsero verso Jenny. — Problemi al Reparto Nove, Jenny — disse subito Nis. — C'è bisogno di te, immediatamente. — Oh, dannazione — esclamò Jenny. — Mi occuperò io del tuo amico — la rassicurò Nis. — Vedremo se sarà possibile lasciarti uscire prima, per il tuo appuntamento di questa sera a cena. Jenny strinse la mano di Dasein, e disse: — Caro, perdonami. Il dovere e tutto il resto... — Gli strizzò l'occhio, sorridendogli. Poi si girò e uscì dalla porta in un turbinio della sua gonna rossa. Le donne alle macchine per scrivere sollevarono lo sguardo. Parvero assimilare Dasein con una sola occhiata, e tornarono subito al loro lavoro. Nis si avvicinò al cancelletto del banco e l'aprì. — Si accomodi, signor Dasein. — Gli tese la mano. La stretta era calda, disinvolta. Dasein seguì George Nis all'interno di un ufficio rivestito di pannelli di quercia, incapace di distogliere la mente dal fatto che Nis era perfettamen-
te al corrente del suo appuntamento con Jenny per la cena. Come poteva saperlo? Piaget lo aveva invitato solo pochi minuti prima. Si sedettero, separati da un'ampia scrivania la cui superficie era sgombra. Le seggiole erano imbottite, comode, con i braccioli inclinati. Alle spalle di Nis, racchiuse in ampie cornici, c'erano una veduta aerea della Cooperativa e quella che sembrava una planimetria della medesima. Dasein riconobbe la disposizione del cortile e della parte anteriore dell'edificio. Il retro diventava una serie di linee scure che si perdevano dentro la collina come i tributari d'un fiume. Erano contrassegnate dall'iniziale J e dai numeri: J-5... J-14... Nis vide la direzione dello sguardo di Dasein, e disse: — Quelle sono le caverne-magazzino. La temperatura e l'umidità sono mantenute costanti. — Tossì con discrezione, mettendosi la mano davanti alla bocca, e aggiunse: — Ci ha colto in un momento imbarazzante, dottor Dasein. Non posso liberare nessuno per farle visitare l'impianto. Jenny potrebbe ricondurla qui un altro giorno? — Come meglio crede — rispose Dasein. Studiò Nis, sentendosi stranamente vigile, sul chi vive. — Per favore, non si metta nessuna acqua di colonia o lozione per capelli, quando verrà — disse Nis. — Noterà che le nostre donne non portano nessun trucco, e non permettiamo che le donne arrivate da fuori entrino nella caverna o nell'area d'immagazzinaggio. È molto facile contaminare una coltura, impartire uno strano sapore a tutta la partita. D'un tratto Dasein divenne acutamente conscio del dopobarba che aveva usato quella mattina. — Sarò puro e pulito — dichiarò. Guardò a destra, fuori delle finestre, attirato d'un tratto da un movimento sulla strada fra la Cooperativa e la locanda. Un veicolo dalla forma assai particolare e dalle ruote altissime passò sobbalzando. Dasein contò otto paia di ruote. Parevano avere almeno cinque metri di diametro, enormi frittelle rigonfie che ronzavano sul selciato. Le ruote erano sorrette da braccia massicce simili a zampe d'insetti. In una cabina aperta, molto in alto sul davanti, con quattro cani da caccia seduti dietro, Al Marden era alla guida. Sembrava manovrare utilizzando due maniglie verticali. — Cosa diavolo è quell'affare? — volle sapere Dasein. Balzò in piedi e andò alla finestra per guardare meglio quella macchina, mentre accelerava lungo la strada. — Non è il capitano Marden quello alla guida?
— Quello è il nostro buggy da boscaglia della guardia forestale — spiegò Nis. — Talvolta Al svolge la funzione di guardia forestale quando il titolare è malato o occupato a fare qualcos'altro. Dev'essere stato fuori a pattugliare le colline meridionali. Ho sentito che c'erano dei cacciatori di cervi arrivati da fuori che si sono introdotti abusivamente in quella zona. — Non permettete ai forestieri di cacciare nella valle, vero? — chiese Dasein. — Nessuno caccia nella valle — lo corresse Nis. — Ci sono troppe possibilità che una pallottola vagante colpisca qualcuno. La maggior parte della gente intorno a questa zona conosce la legge, ma talvolta ci capita di trovare qualcuno arrivato giù dal sud, che sconfina nella zona. Comunque, ci sono pochi posti dove il buggy non possa stanarli. Li facciamo rigar dritto, e in fretta. Dasein immaginò quella mostruosità dalle ruote gigantesche che avanzava traballando sopra la boscaglia, calando sopra qualche disgraziato cacciatore che aveva sconfinato nella valle. Si sentì solidale con il cacciatore. — Non ho mai visto un veicolo del genere prima d'oggi — disse. — È qualcosa di nuovo? — Sam Scheeler ha costruito il buggy da boscaglia dieci, dodici anni fa — spiegò Nis. — C'erano dei cacciatori di frodo che venivano da Porterville, a quell'epoca. Adesso non ci danno più nessun fastidio. — Immagino di no — annuì Dasein. — Spero che mi vorrà perdonare — disse Nis. — Ho un sacco di lavoro e quest'oggi siamo a corto di personale. Farò in modo che Jenny la riaccompagni qui verso la fine della settimana... dopo... be', verso la fine della settimana. Dopo cosa? si chiese Dasein. Scoprì che provava una straordinaria sensazione di vitalità. Non aveva mai provato quella sensazione di avere la mente così limpida, prima di allora. Si chiese se non potesse trattarsi di qualche singolare effetto postumo del gas. — Tolgo... tolgo il disturbo — disse, alzandosi. — La guardia al cancello l'aspetta — disse Nis. Rimase seduto, fissando Dasein con una strana intensità, fino a quando la porta non si chiuse fra loro. Le donne nell'ufficio esterno sollevarono lo sguardo quando Dasein passò attraverso il cancelletto del banco, poi ripresero il loro lavoro. Quando Dasein uscì fuori, una squadra d'uomini stava caricando i carrelli a mano sulla rampa. Sentì i loro sguardi penetranti fissarsi su di lui mentre percor-
reva la banchina sopra di loro. Sulla sinistra una porta scorrevole si aprì tutt'a un tratto. Dasein intravide un lungo tavolo con un nastro trasportatore nel mezzo, una fila di uomini e di donne al lavoro lungo di esso che smistavano pacchi. C'era qualcosa nell'atteggiamento della gente in quella linea che attirò la sua attenzione. I loro occhi avevano una strana espressione opaca, i loro gesti erano lenti. Dasein vide le loro gambe sotto il tavolo. Le gambe parevano serrate da ceppi. La porta tornò a chiudersi. Dasein proseguì fuori, alla luce del sole, turbato da ciò che aveva visto. Quegli operai erano apparsi... mentalmente ritardati. Attraversò il cortile, sconcertato. Problemi al Reparto 9? Jenny era una psicologa competente. Più che competente. Cosa faceva là dentro? Cosa faceva davvero? La guardia al cancello lo salutò con un cenno del capo, e gli disse: — Torni a trovarci, dottor Dasein. — L'uomo andò dentro alla sua guardiola, sollevò un telefono e parlò brevemente dentro di esso. «La guardia al cancello l'aspetta», pensò Dasein. Attraversò la strada, raggiunse la locanda, salì con passo leggero i gradini ed entrò nell'atrio. Una donna dai capelli grigi sedeva dietro il banco, intenta a lavorare a una calcolatrice. Sollevò lo sguardo su Dasein. — Potrei avere una comunicazione con Berkeley? — chiese Dasein. — Tutte le linee sono fuori uso — l'informò la donna. — C'è stato un guasto a causa di un incendio nella boscaglia. — Grazie. Dasein tornò fuori, si fermò sulla lunga veranda, scrutò il cielo. Incendio nel bosco? Non c'era la minima puzza o traccia di fumo. A Santaroga ogni cosa poteva apparire così naturale, pensò, se non fosse stato per quella sotterranea sensazione di stranezza e segretezza che gli faceva rizzare i capelli sulla testa. Dasein tirò un profondo respiro, raggiunse il suo furgone e lo rimise in moto. Questa volta, alla biforcazione, si diresse verso il «Centro Città». Poco più oltre il Viale dei Giganti si ampliò, diventando a quattro corsie, con case, negozi, e uffici mescolati a caso su entrambi i lati, almeno in apparenza. Sulla sinistra si apriva un parco: sentieri lastricati, un podio per la banda musicale al centro, aiuole fiorite. Al di là del parco, una chiesa di pietra faceva svettare nel cielo una guglia imponente. Il cartello sul suo sagrato diceva: «Chiesa di tutte le Fedi»... Sermone: «L'intensità della reazione di
Dio come funzione dell'ansia». L'intensità della reazione di Dio? si chiese Dasein. Era il più strano annuncio di sermone che avesse mai visto. Si fece l'appunto mentale di ricordarsi di venire ad ascoltare, se soltanto gli fosse stato possibile, quel sermone domenicale. La gente per strada cominciò ad attirare l'attenzione di Dasein. La loro vivacità, il modo spigliato con cui si muovevano, era in netto contrasto con l'ottusità di quelli che aveva visto lungo i lati del nastro trasportatore, là nella Cooperativa. Chi erano mai quelle opache creature? E se era per questo, chi erano quelle persone che camminavano con tanta sveltezza, là per strada? Dasein si rese conto che la gente che adesso gli passava davanti sprigionava vitalità, e una felice sensazione di libertà. Si chiese se quell'umore potesse essere contagioso. Lui stesso non si era mai sentito tanto vitale. Dasein notò un'insegna alla sua destra subito dopo il parco: una pecora saltellante con la scritta «Pecora Azzurra» incisa con una scrittura ondeggiante. Era una facciata senza finestre, di pietra azzurra, una facciata impersonale, interrotta soltanto da un'ampia porta a due battenti, ognuno dei quali aveva un oblò rotondo di vetro. Dunque Marden voleva che lui pranzasse in quel posto. Perché mai? Pareva ovvio che era stato il capitano della Stradale a portargli via la valigetta. Aveva forse intenzione di usare la formula «se-ne-vada-e-non-imbrattipiù-la-mia-porta» che aveva impiegato con lo sfortunato commesso viaggiatore nella sala da pranzo della locanda? Oppure si sarebbe trattato di qualcosa di più sottile, concepito su misura per l'amico di Jenny dei tempi di scuola? All'estremità opposta della città la strada tornava ad ampliarsi per spalancarsi su un ampio accesso ad una stazione di servizio a dodici lati. Dasein fece rallentare il furgone per ammirare la struttura. Era la più grande stazione di servizio che avesse mai visto. Una struttura a baldacchino sporgeva da ciascuno dei dodici lati. Sotto ciascun baldacchino c'erano tre file di pompe, ogni fila era concepita per servire quattro veicoli. Subito al di là della vasta struttura, separato dalla gigantesca ruota della stazione, si ergeva un edificio che conteneva file e file di rastrelliere di lubrificanti. Dietro alla stazione, c'era un'area di parcheggio grande come un campo di calcio, con un grande edificio all'estremità più lontana, dova faceva spicco l'insegna «Garage». Dasein guidò fin dentro la stazione, si arrestò accanto alla fila esterna di
pompe, scivolò fuori per studiare la disposizione della stazione. Contò venti rastrelliere di lubrificante, sei macchine che venivano servite. Le macchine andavano e venivano tutt'intorno a lui. Era un altro alveare. Si chiese come mai nessuno dei dati-dato citava quel complesso. Il posto letteralmente brulicava di giovanotti vestiti di un'uniforme grigioazzurra, pulita e ordinata. Uno di questi giovanotti «spic-e-span» trotterellò accanto a Dasein e gli chiese: — Che grado, signore? — Grado? — Da quanti ottani vuole la benzina? — Cosa avete? — Ottanta, novanta e cento-più. — Mi faccia il pieno con quella da novanta ottani e mi controlli l'olio. Dasein lasciò il giovanotto al suo lavoro e s'incamminò verso la strada per avere una migliore prospettiva della stazione. Calcolò che doveva coprire almeno quattro ettari. Tornò al furgone proprio nell'istante in cui il giovanotto emergeva da sotto il cofano con in mano l'asta di livello. — Il suo olio è sceso di più di un quarto — l'informò il giovanotto. — Ci metta un detergente da trenta unità — disse Dasein. — Mi scusi — fece il giovanotto. — Ma ho sentito questo affare quand'è arrivato. Abbiamo un olio da aeroplano da quaranta unità. Glielo raccomando. Non ne brucerà più così tanto. — Quanto costa? — Lo stesso degli altri: trentacinque centesimi al quarto. — Va bene. — Dasein scosse la testa, perplesso. Un olio d'aeroplano a quel prezzo? Dove mai andava a comprarlo quel signor Sam? — Le piace Santaroga? — gli chiese il giovanotto, la sua voce sfavillava invitante, in attesa dell'inevitabile complimento. — Bella — rispose Dasein. — Una splendida cittadina. Sa che questa è la più grande stazione di servizio che io abbia mai visto? C'è da stupirsi che non ci siano stati articoli su nessun quotidiano o rivista. — Il vecchio Sam non fa la corte alla pubblicità — commentò l'inserviente. — E perché mai questa stazione è così dannatamente grande? — chiese Dasein. — Dev'essere grande. È l'unica in tutta la valle. — Il giovanotto proseguì il suo lavoro intorno al motore, controllando l'acqua del radiatore, il livello delle batterie. Sorrise a Dasein. — Sorprende sempre la maggior par-
te dei forestieri. Noi la troviamo comoda. Alcuni dei contadini hanno le loro pompe, e c'è un servizio all'aeroporto, ma tutti fanno i loro rifornimenti tramite Sam. — Chiuse il cofano. — E dov'è che il vecchio fa rifornimento? L'inserviente scoccò un'occhiata indagatrice a Dasein. — Mi auguro che lei non abbia accettato come attività collaterale di lavorare per una delle grosse compagnie petrolifere, signore — gli disse. — Se sta pensando di vendere a Sam, se ne dimentichi. — Oh, sono soltanto curioso — replicò Dasein. La scelta delle parole di quel giovanotto era sconcertante. Attività collaterale? Per il momento, scelse d'ignorare la cosa e di concentrarsi sull'interrogativo maggiore. — Sam si rifornisce una volta all'anno sul mercato aperto — l'informò l'inserviente. Riavvitò il tappo al serbatoio della benzina sul furgone, rimise la pompa sul suo sostegno. — Quest'anno c'è stata una piccola compagnia dell'Oklahoma. L'hanno portato qui con un convoglio di autobotti. — È così? — Non lo direi se non lo fosse. — Oh, non stavo mettendo in dubbio la sua parola — si affrettò a precisare Dasein. — Stavo soltanto mostrando la mia sorpresa. — Non vedo il motivo di sorprendersi. La gente dovrebbe sempre comperare dov'è possibile il meglio che i suoi soldi le possono permettere, in termini di valore. Fanno tre dollari e tre centesimi. Dasein contò le monete, e chiese: — C'è un telefono a pagamento da queste parti? — Se è per una chiamata urbana, là dentro c'è un telefono che lei può usare, signor Dasein — rispose il giovanotto. — I telefoni a pagamento sono laggiù, vicino all'edificio delle rastrelliere, ma non vale la pena che perda tempo, se deve chiamare fuori. Le linee sono cadute. C'è stato un incendio, lassù sul crinale della montagna. Un campanello d'allarme prese a squillare nella mente di Dasein. Fissò l'inserviente con furore. — Come fa a conoscere il mio nome? — volle sapere. — Oh, diavolo, signore: lo sanno tutti. Lei è l'amico di Jenny arrivato dalla città. È per lei che manda a far le valige a tutti quelli del posto. Il sorriso che accompagnò quella dichiarazione avrebbe dovuto essere del tutto disarmante, ma servì soltanto a rendere Dasein ancora più circospetto. — Le piacerà qui da noi — aggiunse ancora l'inserviente. — Piace a tut-
ti. — Il sorriso sbiadì un po'. — Se vuole scusarmi, signore, ho altre macchine da servire. Dasein si ritrovò a fissare la schiena che si allontanava. Sospettava che potessi rappresentare una compagnia petrolifera, pensò Dasein. Ma conosce il mio nome... e sa di Jenny. Era una curiosa discordanza, e Dasein sentiva che avrebbe dovuto rivelargli qualcosa. Però, poteva essere la semplice verità. Una lunga Chrysler Imperial di color verde si fermò nello spazio vuoto sull'altro lato delle pompe. Il conducente, un uomo grasso che fumava una sigaretta con il bocchino, si sporse verso l'esterno e chiese: — Ehi? È questa la strada che esce sulla 395? — Sempre dritto — disse Dasein. — C'è qualche stazione di servizio lungo la strada? — Non qui nella valle — rispose Dasein. — Forse da qualche parte all'esterno. — Scrollò le spalle. — Non sono mai uscito da quella parte. — Dannato nativo — ringhiò il conducente. La Chrysler Imperial schizzò via con impetuosa potenza, svoltò nel viale e scomparve in lontananza. — Vai a farti fottere — borbottò Dasein. — Chi diavolo sarebbe il nativo? Salì sul suo furgone, tornò indietro dalla parte da cui era venuto. Arrivato alla biforcazione, risalì la montagna in direzione di Porterville. La strada continuava a salire serpeggiando fra le sequoie, per poi inoltrarsi in mezzo a una cintura di querce. Finalmente Dasein arrivò alla curva dalla quale aveva dato la prima lunga occhiata alla valle. Uscì dalla strada e parcheggiò. Una lieve nebbiolina fumosa oscurava i particolari, ma la Cooperativa si stagliava con chiarezza e sulla sinistra risaltava un tratto di terreno spogliato dagli alberi, vicino a una segheria. La città stessa era una chiazza di colore fra gli alberi, le tegole dei tetti, e c'era la linea serpentina di un fiume che sbucava dalle colline dritto davanti a lui. Dasein lanciò un'occhiata al suo orologio: mancavano cinque minuti alle dieci. Discusse fra sé se non valesse la pena andare a Porterville e telefonare da laggiù a Selador. Questo però gli avrebbe creato delle difficoltà nell'arrivare puntuale all'appuntamento con Marden. Decise di mandare una lettera a Selador per fargli controllare quella storia delle «linee telefoniche danneggiate da un incendio». Senza la sua valigetta e gli appunti, Dasein si sentiva svantaggiato. Frugò nello scomparto dei guanti, trovò un libriccino per appunti e un mozzi-
cone di matita, e cominciò ad annotare le sue osservazioni che più tardi avrebbe registrato compiutamente nel suo rapporto. «La città stessa è piccola» scrisse, «ma sembra servire un'ampia area di mercato. Ci sono parecchie persone in giro durante il giorno. Ho contato dodici pompe alla stazione di servizio. Auto di passaggio? «Una strana vivacità nei nativi. Un'acutezza nel modo in cui si comportano fra loro e verso gli estranei. «Domande sull'uso locale dei prodotti Jaspers. Perché mai il formaggio non viene esportato? Qual è la ragione della decisa preferenza per i prodotti locali? Ha un sapore diverso da quello comperato fuori di qui. E il sapore che lascia in bocca? Soggettivo? Che rapporto c'è con la birra? «Indagare sull'uso di Jaspers come etichetta. Additivo?» Qualcosa di grosso si stava muovendo in mezzo agli alberi sulla collina al di là della Cooperativa. Il movimento colse l'attenzione di Dasein. Lo studiò per qualche istante. Ma c'erano troppi alberi in mezzo per consentire una visuale chiara. Dasein andò sul retro del camper, trovò il suo binocolo. Lo mise a fuoco sul movimento fra gli alberi. Il buggy da boscaglia con le ruote come grandi frittelle gli balzò alla vista. Marden era al volante, e si faceva strada in mezzo agli alberi e ai cespugli. La grande macchina sembrava sospingere qualcosa o... qualcuno davanti a sé. Dasein controllò il terreno più avanti alla ricerca di una radura, ne trovò una e aspettò. Tre uomini vestiti da cacciatore emersero allo scoperto, con le mani strette sopra la testa. Due cani li affiancavano, vigili e guardinghi. I cacciatori parevano arrabbiati, spaventati. Il gruppo discese obliquamente verso una macchia di sequoie e scomparve alla sua vista. Dasein salì dentro la cabina e prese nota di quello che aveva visto. Tutto rientrava in uno schema. Quelle erano cose che potevano venir risolte con spiegazioni logiche e naturali. Un poliziotto aveva arrestato tre cacciatori di frodo. Era quello che i poliziotti dovevano fare. Ma anche quell'incidente aveva qualcosa che Dasein cominciava a identificare come una devianza santarogana. Aveva qualcosa di sfasato rispetto a come funzionava il resto del mondo. Dasein ridiscese dentro la valle con il furgone, deciso a chiedere a Marden notizie dei cacciatori fatti prigionieri. CAPITOLO TERZO
L'interno della Pecora Azzurra era l'imitazione scarsamente raffinata di una grotta, con le pareti dipinte d'un azzurro pastello in differenti gradazioni. Degli scomparti dall'aspetto piuttosto comune con panchine fiancheggiavano un'area aperta con tavolini e sedie. Il lungo banco d'un bar con uno specchio decorato da pecore danzanti occupava la parete di fondo. Marden lo stava aspettando dentro uno degli scomparti. Davanti a lui c'era un drink ghiacciato. Il capitano della Stradale appariva rilassato. Non indossava la giacca. I suoi occhi seguirono Dasein mentre si avvicinava, con vigile immediatezza. — Vuol bere qualcosa? — chiese, mentre Dasein prendeva posto. — Lei cosa sta bevendo? — Dasein indicò il drink ghiacciato con un cenno del capo. — Una specie di birra all'arancio con Jaspers. — Voglio provarla — disse Dasein. Marden sollevò una mano verso il bar e gridò: — Un'altra ade, Jim. — Riportò la sua attenzione su Dasein. — Come va la sua testa, oggi? — Benissimo — rispose Dasein. Scoprì che aveva i nervi a fior di pelle, mentre si stava chiedendo come Marden avrebbe sollevato la questione della valigetta. Il drink gli venne messo davanti. Dasein l'accolse come una distrazione, sorseggiò. La sua lingua incontrò un intenso sapore d'arancia con la pronunciata sfumatura piccante e ricca di mordente dello Jaspers. — Oh, a proposito della sua valigetta — disse Marden. Dasein mise giù il suo drink con gesto cauto e deciso, incontrando lo sguardo calmo e misuratore di Marden. — Sì? — Spero di non averle causato inconvenienti, prendendola. — Non troppo. — M'incuriosiva soprattutto la tecnica — proseguì Marden. — Sapevo già perché lei era qui, naturalmente. — Oh? — Dasein studiò Marden con cautela, cercando un indizio che gli permettesse di capire l'umore di quell'uomo. Come poteva sapere del progetto? Marden inghiottì un lungo sorso della sua birra all'arancio, si asciugò la bocca. — Formidabile questa roba. — Molto saporita — ammise Dasein. — Ha tracciato un approccio piuttosto di routine, a dire il vero — disse Marden. Fissò Dasein. — Sa, ho la strana sensazione che lei non si renda conto di come la stanno usando.
C'era un'espressione divertita sul volto stretto di Marden. Questo fece scattare una rabbia improvvisa in Dasein. Dovette lottare per nascondere la sua reazione. — Cosa dovrebbe voler dire? — chiese. — Le interesserebbe sapere che lei è stato argomento di discussione davanti al nostro Consiglio Municipale? — gli chiese Marden. — Io? — Lei. E parecchie volte. Sapevamo che presto o tardi sarebbero arrivati fino a lei. Hanno impiegato più tempo di quanto ci aspettassimo. — Marden scosse la testa. — Abbiamo fatto circolare una sua fotografia fra le persone-chiave: camerieri e cameriere, baristi, impiegati... — Inservienti delle stazioni di servizio — aggiunse Dasein. Lo schema cominciava a diventargli chiaro. Non fece nessun tentativo per nascondere la propria collera. Come avevano osato? Marden era la ragionevolezza dolcificata fatta persona. — Era inevitabile che scoprissero che una delle nostre ragazze aveva del tenero per lei — dichiarò. — È un vantaggio, capisce. Lei userebbe qualunque vantaggio le si offrisse. — Chi sono questi loro ai quali lei continua a riferirsi? — volle sapere Dasein. — Uhmmm — fece Marden. Dasein tirò tre profondi sospiri per calmarsi. Non si era mai davvero aspettato di poter nascondere per un tempo indefinito il suo scopo, quaggiù, ma aveva sperato che gli venisse concesso un intervallo più lungo prima di venir scoperto. Di che diavolo stava parlando quel folle capitano della Stradale? — Lei costituisce un problema non indifferente — aggiunse Marden. — Be', ora non cerchi di scaraventarmi fuori della valle come ha fatto con quello stupido commesso viaggiatore ieri sera, o con quei cacciatori che ha pescato in flagrante oggi — ribatté Dasein. — Io rispetto la legge. — Scaraventarla fuori? Non ci penso neppure. Senta, le piacerebbe mangiare? Siamo venuti qui per pranzare. Dasein si trovò psicologicamente sbilanciato, con tutta la sua collera, da quell'improvviso cambiamento di argomento, tutto il suo atteggiamento ostacolato da una sensazione di colpevolezza. — Non ho fame — ringhiò. — L'avrà, quando arriveranno le pietanze. Ordinerò per tutti e due. — Marden fece un cenno al cameriere e disse: — Due insalate Jaspers sul conto speciale.
— Non ho fame — insistette Dasein. — L'avrà. — Marden sorrise. — Ho sentito che oggi un forestiero molto virile su una Chrysler Imperial l'ha chiamato nativo. L'ha fatta incavolare? — Non c'è dubbio che qui le notizie girano in fretta, commentò Dasein. — Certo, dottore. E, naturalmente, quello che l'errore di quel tizio mi dice è che lei è un Santarogano genuino. Jenny non ha commesso nessun errore nel giudicarla. — Jenny non ha niente a che fare con tutto questo. — Ha tutto a che fare. Cerchiamo di capirci, dottore. Larry ha bisogno di un altro psicologo, e Jenny dice che lei è uno dei migliori. Possiamo offrire un buon posto, qui nella valle, a una persona come lei. — Quanto grande? — chiese Dasein, pensando ai due investigatori che erano morti in quel posto. — Lungo circa un metro e ottanta e profondo altrettanto? — Perché non la smette di fuggire da se stesso, Dasein? — Ho imparato presto — ribatté Dasein, — che una bella corsa è meglio d'una brutta sosta. — Eh? — Marden lo fissò corrugando la fronte, perplesso. — Non sto fuggendo da me stesso — dichiarò Dasein. — È questo che intendo. Ma non ho intenzione di starmene qui fermo mentre lei dà disposizioni su come va gestita la mia vita allo stesso modo in cui ha ordinato quelle due insalate. — Se il cibo non le piace non deve mangiarlo — replicò Marden. — Vuol forse dirmi che non intende prendere in considerazione il lavoro che Larry le offre? Dasein abbassò lo sguardo sul tavolo, assorbendo le implicazioni di quell'offerta. Sapeva che la cosa più scaltra da fare sarebbe stata quella di stare al gioco. Quella era l'occasione per penetrare dietro la Barriera di Santaroga, per scoprire quello che veramente accadeva nella valle. Ma non riusciva a evitare il pensiero del Consiglio Municipale e degli incontri che c'erano stati. Senza dubbio avevano interrogato Jenny su di lui, e discusso i preparativi da farsi per contrastare la sua invasione! Non riusciva a dominare la rabbia. — Lei, Jenny e gli altri, avete previsto tutto, non è vero? — chiese. — Buttiamo un osso a quel povero gonzo. Comperiamolo con un... — Si moderi, dottore — l'interruppe Marden. La sua voce era calma e c'era ancora quella nota divertita. — Faccio appello alla sua intelligenza, non alla sua avidità. Jenny afferma che lei è una persona molto acuta. È su
questo che contiamo. Dasein serrò le mani a pugno sotto il tavolo, riprendendo il controllo di sé. Dunque, pensavano che lui fosse un povero pollo innocente, manovrabile da una femmina graziosa e dal denaro! — Pensate che io venga usato da qualcuno — disse. — Sappiamo che lei viene usato. — Non mi ha detto da chi. — Chi c'è dietro? Un gruppo di finanzieri, dottore, ai quali non piace ciò che Santaroga rappresenta. Vogliono insediarsi qui da noi e non ci riescono. — La Barriera di Santaroga — disse Dasein. — Così la chiamano. — Chi sono? — Vuole i nomi? Forse glieli diremo, se la cosa dovesse servire al nostro scopo. — Anche voi volete usarmi, non è vero? — Non è così che funziona Santaroga, Dasein. Il cameriere portò le insalate. Dasein abbassò lo sguardo su un invitante spiegamento di verde, pollo tagliato a dadini e una cremosa salsa dorata. Fu afferrato allo stomaco dallo spasimo della fame. Assaggiò un boccone di pollo con la salsa. Assaporò l'ormai familiare sapore piccante del formaggio Jaspers. Quella maledetta roba possedeva il dono dell'ubiquità, pensò. Ma doveva ammettere che era deliziosa. Forse c'era qualcosa in quell'affermazione che non era in grado di resistere a un trasporto su lunga distanza. — Piuttosto buono, non è vero? — chiese Marden. — Sì, lo è. — Studiò per un momento il capitano. — Come viene gestita Santaroga, Marden? — Viene governata dal Consiglio, con votazioni durante le riunioni municipali. Le elezioni si tengono una volta all'anno. Ogni residente di età superiore ai diciotto anni ha diritto al voto. — Il fondamento della democrazia — ribadì Dasein. — Molto bello quando si ha una comunità di queste dimensioni, ma... — Durante l'ultima elezione municipale abbiamo avuto tremila votanti diretti e cinquemilaottocento voti per procura — disse Marden. — Si può fare, se la gente è interessata a governarsi. Noi siamo interessati, Dasein. È così che Santaroga viene gestita. Dasein mandò giù il boccone d'insalata che aveva in bocca, mise giù la
forchetta. Quasi novemila persone che avevano superato i diciotto anni nella valle! Erano due volte di più di quanto aveva stimato. E cosa facevano? Un posto come quello non poteva esistere lavandosi i panni a vicenda. — Voi volete che io sposi Jenny, che mi sistemi qui, un altro votante — disse Dasein. — È così, vero? — È quello che pare voglia Jenny. Abbiamo cercato di scoraggiarla, ma... — Marden scrollò le spalle. — Scoraggiarla... come quell'interferenza con la posta? — Cosa? Dasein vide l'ovvia perplessità di Marden, e gli disse delle lettere andate smarrite. — Quelle maledette galline — esclamò Marden. — Immagino che dovrò andar là a leggergli gli articoli di legge sull'ordine pubblico. Ma questo non cambia le cose, in realtà. — No? — No. Lei ama Jenny, non è vero? — Certo che l'amo! L'aveva esclamato ancora prima di riflettere sulla sua risposta. Sentì la propria voce, si rese conto di quanto profonda, istintiva fosse la sua emozione. Certo che amava Jenny. La nostalgia, la bramosia di rivederla, l'avevano fatto star male. C'era da stupirsi che fosse riuscito a rimanere lontano da lei così a lungo: la testimonianza dell'orgoglio maschile ferito e l'idea di essere stato tradito... Stupido orgoglio! — Bene, molto bene — annuì Marden. — Finisca il suo pranzo, dia un'occhiata alla valle, e questa sera avrà modo di riparlarne con Jenny. Non è possibile che creda davvero che sia così semplice, pensò Dasein. — Ecco — disse Marden. Tirò su la valigetta di Dasein dalla seggiola e la depositò sopra il tavolo, fra loro due. — Faccia pure il suo studio di mercato. Sanno già tutto quello che lei potrà scoprire. Non è così che vogliono usarla, in effetti. — Com'è che vogliono usarmi? — Lo scopra lei stesso, dottore. Non c'è altro modo perché lei possa crederci. Dopo di che, Marden ritornò alla propria insalata, mangiando con gusto. Dasein mise giù la forchetta e chiese: — Cos'è successo a quei cacciatori che ha pescato in flagrante, oggi? — Gli abbiamo tagliato le teste e le abbiamo messe in salamoia — rispose Marden. — Cosa pensa? Sono stati multati e spediti via. Vuole vede-
re i documenti del tribunale? — A cosa servirebbe? — Sa una cosa, dottore — disse Marden, puntando una forchetta addosso a Dasein, — lei sta prendendo la cosa quasi allo stesso modo di Win... Win Burdeaux. Prendere cosa? si chiese Dasein. Ma domandò ugualmente: — E come l'ha presa, Win? — Si è opposto. È il comportamento previsto, naturalmente. Ma si è arreso molto presto, comunque, a quanto ricordo. Win era stanco di scappare ancora prima di arrivare a Santaroga. — Psicologi dilettanti che non siete altro! — lo derise Dasein. — Proprio così, dottore. Un altro bravo professionista ci farebbe comodo. Dasein era sconcertato dall'inattaccabile bonomia di Marden. — Su, mangi la sua insalata — lo sollecitò Marden. — È ottima per guarirla da quello che l'angustia. Dasein mandò giù un altro boccone di pollo intriso di salsa Jaspers. Fu costretto ad ammettere che quel cibo lo faceva sentire davvero meglio. Ora aveva la testa sgombra, la mente più sveglia. Sapeva che talvolta la fame la faceva da padrona. Il cibo alleviava le pressioni, permetteva alla mente di funzionare. Marden finì di mangiare, e si abbandonò sullo schienale. — Cambierà idea — riprese. — Adesso lei è confuso, ma se la sua mente è acuta come dice Jenny, vedrà lei stesso la verità. Credo che le piacerà qui da noi. Marden scivolò fuori dallo scomparto, si alzò in piedi. — Dovrei sempre accettare la sua parola che sono gli altri ad usarmi — disse Dasein. — Non la sto cacciando via dalla valle, non è vero? — gli chiese Marden. — Le linee telefoniche sono ancora danneggiate dall'incendio? — chiese Dasein. — Che io sia dannato se lo so — rispose Marden. Guardò il suo orologio. — Senta, ho del lavoro da fare. Mi chiami dopo aver parlato con Jenny. — Detto questo, se ne andò. Il cameriere si avvicinò e cominciò a raccogliere i piatti. Dasein sollevò lo sguardo sul volto tondo dell'uomo, studiò i suoi capelli grigi, le spalle curve. — Perché vive qui? — gli domandò.
— Eh? — Una voce da baritono, bassa e sgranata. — Perché lei vive a Santaroga? — insisté Dasein. — Dà i numeri? Questa è casa mia. — Ma perché questo posto, invece di San Francisco o, diciamo, Los Angeles? — Lei dà proprio i numeri. Cosa potrei avere, là, che non posso avere qua? — Se ne andò con i piatti. Dasein fissò la sua valigetta sul tavolo. Uno studio di mercato. Vide sul sedile subito dietro di essa l'angolo d'un giornale. Allungò una mano attraverso il tavolo, ghermì il giornale. La testata diceva: «Santaroga Press». La colonna di sinistra conteneva un sommario delle notizie internazionali, la cui brevità e il linguaggio sorpresero Dasein. Era composto di paragrafi, ogni paragrafo era un articolo su una specifica notizia. Articolo: Quei matti si stanno ancora ammazzando nel sud est asiatico. Lentamente, Dasein si rese conto che quelle erano le notizie del Vietnam. Articolo: Il dollaro continua a slittare sul mercato monetario internazionale, anche se questo fatto viene minimizzato o soppresso nelle notizie internazionali. Il crak farà sembrare il Venerdì Nero un pic nic. Articolo: La Conferenza sul Disarmo a Ginevra non disarma nessuno, meno di tutti gli arroganti e i chiacchieroni. Ricordiamo che i delegati stavano ancora parlando l'ultima volta che le bombe hanno cominciato a cadere. Articolo: Il governo degli Stati Uniti sta ampliando il grande rifugio sotto le montagne dalle parti di Denver. Vi chiedete quanti pezzi grossi fra militari, funzionari governativi e le loro famiglie avranno il biglietto per andarci quando ci sarà il botto? Articolo: Questa settimana la Francia ha fatto una volta ancora marameo agli Stati Uniti, ha detto di tener fuori dalle basi aeree francesi gli aerei militari USA. Sanno qualcosa che noi non sappiamo? Articolo: Negli Stati Uniti l'automazione si è mangiata un altro 0,4 per cento del mercato del lavoro. I bocconi si stanno facendo sempre più grandi. Qualcuno ha un'idea di cosa succederà alla popolazione in eccesso? Dasein abbassò il giornale, lo fissò senza vederlo. Quel dannato foglio era sovversivo! Era forse stato scritto da un branco di comunisti? Era quello il segreto di Santaroga? Sollevò lo sguardo e vide il cameriere in piedi accanto a lui. — Quel giornale è suo? — gli chiese il cameriere.
— Sì. — Oh. Immagino che sia stato Al a darglielo. — Fece per allontanarsi. — Dov'è che questo ristorante compera i generi alimentari? — chiese Dasein. — Da tutta la valle, dottor Dasein. Il nostro manzo viene dal ranch di Ray Allison, proprio a capovalle. Il nostro pollame ce lo fornisce la signora Larson, a ovest di qui. Gli ortaggi e il resto li prendiamo dalle serre. — Oh, grazie. — Dasein riportò la sua attenzione al giornale. — Vuole qualcos'altro, dottor Dasein? Al ha detto di darle tutto quello che vuole. Va sul suo conto. — No, grazie. Il cameriere lasciò Dasein al suo giornale. Dasein cominciò a scorrerlo. C'erano otto pagine, soltanto un po' di pubblicità all'inizio, e metà dell'ultima pagina era dedicata ai piccoli annunci: — La Brenner and Sons dispone d'una nuova fornitura di mobili per camere da letto a prezzi ragionevoli. Primo arrivato, primo servito. Sono tutti di prima qualità e produzione locale. — Quattro nuovi armadi frigoriferi (16 piedi cubici) sono disponibili al Lewis Market. Telefonare per i prezzi. — C'era l'illustrazione di un uomo sorridente che teneva aperto lo sportello d'un armadio frigorifero. I piccoli annunci erano dedicati per la maggior parte agli scambi: — Ho trenta metri di lana filata a mano (larga 54 pollici), mi serve una buona elettrosega a catena. Telefonare a Ed Jankey al numero One Mill. — Il camion da una tonnellata modello Ford '56 che ho comperato due anni fa funziona ancora. Sam Scheler dice che vale circa 50 dollari o una buona giovenca. William McCoy, River Junction. Dasein cominciò a sfogliare a ritroso il giornale. C'era una rubrica di giardinaggio. — È giunto il momento di liberare i rospi nel vostro giardino per tenere sotto controllo le lumache. E una delle pagine interne aveva un'intera rubrica dedicata agli annunci di riunioni. Leggendo la rubrica, Dasein venne colpito da una frase ripetuta parecchie volte: — Sarà servito Jaspers. Sarà servito Jaspers, pensò. Jaspers... Jaspers... Era dappertutto. Davvero consumavano tanta di quella roba? Sentiva un significato nascosto in quella parola. Era una cosa unificante, qualcosa di peculiarmente santarogano. Dasein riportò la sua attenzione sul giornale. Un riferimento, in un piccolo annuncio, lo attirò: — Scambio due anni di uso di metà del mio Ar-
madio Jaspers (20 piedi cubici al livello cinque della Vecchia Sezione) con sei mesi di lavoro di falegnameria. Leo Merriot, 1018 River Road. Cosa diavolo era un Armadio Jaspers? si chiese Dasein. Ma, qualsiasi cosa fosse, dieci piedi cubici di quell'affare per due anni valevano sei mesi di falegnameria: non poca cosa, forse quattromila dollari. Una chiazza di luce solare gli fece alzare la testa in tempo per vedere una giovane coppia entrare in un ristorante. La ragazza aveva i capelli scuri, due occhi castani profondamente incassati, e delle bellissime sopracciglia che parevano ali spiegate. Il suo giovane compagno aveva occhi azzurri e un volto normanno ben. cesellato. Presero posto nello scomparto alle spalle di Dasein. Lui li osservò nello specchio inclinato del bar. Il giovane si voltò un attimo per guardare in direzione di Dasein, disse qualcosa alla ragazza. Lei sorrise. Il cameriere servì loro due bevande fredde. Poco dopo la ragazza disse: — Dopo gli Jaspers ci sederemo là e ascolteremo il tramonto, una corda e un uccello. — Una volta o l'altra dovresti sentire la pelliccia sull'acqua — replicò il suo compagno. — È la rossa elevazione del vento. Dasein drizzò le orecchie. Quell'ossessiva, elusiva qualità del quasisignificato: era schizofrenia, oppure pareva l'effetto di una sostanza psichedelica. Dasein si sforzò di sentire dell'altro, ma i due giovani avevano accostato le teste, bisbigliando e ridendo. D'un tratto il ricordo di Dasein sfrecciò a ritroso nel tempo, quando tre anni prima il suo dipartimento aveva compiuto un'incursione negli esperimenti con l'LSD, e gli tornò in mente il fatto che Jenny Sorge, la studentessa venuta da Santaroga, aveva dimostrato un'apparente immunità alla droga. Gli esperimenti, abbandonati per il modo clamoroso e negativo con cui l'LSD era venuto alla ribalta, non avevano mai confermato questa scoperta e Jenny si era rifiutata di discuterne. Adesso il ricordo di quel rapporto tornava a tormentare Dasein. Perché mai mi è venuto in mente proprio adesso? si chiese. La giovane coppia finì le consumazioni, qualunque cosa fossero, e lasciò il ristorante. Dasein ripiegò il giornale, fece per infilarlo dentro la valigetta. Una mano gli toccò il braccio. Sollevò lo sguardo e incontrò il volto di Marden che lo stava fissando dall'alto della sua statura. — Credo che quello sia il mio giornale — disse Marden. Lo prese dalla mano di Dasein. — Ero a metà strada dalla biforcazione, quando me ne
sono ricordato. Ci vediamo più tardi. — Uscì a rapidi passi dal ristorante col giornale stretto sotto il braccio. Quel fare disinvoltamente brusco, la rapidità con la quale era stato liberato da quella interessante pubblicazione, lasciarono Dasein pieno di rabbia. Prese su la sua valigetta, raggiunse di corsa la porta e fece in tempo a vedere Marden che si allontanava a bordo di una macchina della Stradale. Vai al diavolo! disse tra sé, fervidamente. Me ne procurerò un'altra copia. Lo spaccio di alimentari all'angolo non aveva giornali e l'ossuto commesso lo informò freddamente che il giornale locale si poteva ottenere soltanto «per abbonamento». E dichiarò, in aggiunta, di non sapere dove veniva stampato. Il commesso del negozio di ferramenta in fondo alla strada gli dette la stessa risposta, come fece l'addetto alla cassa dell'emporio davanti al punto dove aveva parcheggiato il suo furgone. Dasein salì in cabina, aprì la valigetta e prese appunti su tutti gli articoli del giornale che gli riuscì di ricordare. Quando la sua memoria si prosciugò, mise in moto la macchina e cominciò a incrociare lungo le strade della città, cercando l'insegna di un giornale oppure di una tipografia. Non trovò niente che indicasse che il Santaroga Press veniva stampato in città, ma i cartelli d'una rivendita di macchine usate lo fecero fermare di colpo sulla parte opposta della strada. Rimase seduto là a fissare le scritte. Sul cristallo di una Buick vecchia di quattro anni c'era la scritta: — Questa brucia benzina ma è un buon acquisto per 100 dollari. Su una Rover vecchia di un anno: — Cilindro crepato, ma con questo prezzo potete permettervi di mettere un nuovo motore: 500 dollari. Su una Chevrolet vecchia di dieci anni: — Questa è la macchina posseduta e curata da Jersey Hofstedder. La sua vedova vuole soltanto 650 dollari. Stimolato dalla curiosità, Dasein scese dal furgone, si avvicinò alla Chevrolet di Jersey Hofstedder e guardò il cruscotto. Il contachilometri registrava sessantunmila miglia. I rivestimenti erano in cuoio, tagliati su misura e adattati in maniera squisita. Dasein non riuscì a vedere un solo graffio sulle rifiniture e i pneumatici parevano quasi nuovi. — Vuole fare un giro di prova, dottor Dasein? Era la voce di una donna. Dasein si voltò e si trovò faccia a faccia con una piacente matrona dai capelli grigi con una camicetta a fiori e blue jeans. Aveva un ampio volto aperto, la pelle liscia e abbronzata. — Sono Clara Scheler, la madre di Sam — disse. — Immagino che a
quest'ora avrà sentito parlare del mio Sam. — E lei conosce me, com'è naturale — rispose Dasein, riuscendo a malapena a nascondere la propria rabbia. — Sono l'amico di Jenny, qui in città. — L'ho vista questa mattina insieme a Jenny — annuì la donna. — Quella è una ragazza d'oro, dottor Dasein. Ora, se è interessato alla macchina di Jersey, posso raccontarle tutto. — Prego, lo faccia — disse Dasein. — La gente qui intorno sa com'era Jersey — disse la donna. — Era un maledetto perfezionista, ecco cos'era. Ha messo sul suo banco da lavoro ogni singola parte mobile di questa macchina. L'ha bilanciata, ritoccata, e equipaggiata al punto che è praticamente la cosa più scorrevole e deliziosa che possa mai capitarle di trovare. Adesso ha anche i freni a disco. E può vedere con i suoi occhi quello che ha fatto con i rivestimenti. — Chi era Jersey Hofstedder? — chiese Dasein. — Chi... oh... è vero, lei è nuovo, qui. Jersey era il capo meccanico di Sam fino alla sua morte, circa un mese fa. La sua vedova mi ha detto anche che un corpo può guidare soltanto una macchina per volta. Mi ha chiesto di vendere la Chevy. Ecco, ascolti. Scivolò dietro il volante e mise in moto. Dasein si chinò vicino al cofano. Riuscì appena a sentire il rumore del motore. — Ha l'accensione doppia — disse Clara Scheler. — Jersey si vantava di poter fare trenta miglia con un gallone, e la cosa non mi sorprenderebbe. — Neanch'io mi sorprenderei — disse Dasein. — Vuole pagare in contanti o a credito? — chiese Clara Scheler. — ... non ho deciso di comperare — disse Dasein. — Lei e Jenny non potreste fare di meglio che cominciare con la vecchia macchina di Jersey — dichiarò la donna. — Dovrà sbarazzarsi di quel catorcio con cui è arrivato. L'ho sentito. Quello non resterà ancora a lungo al mondo, se non farà qualcosa con quei cuscinetti. — Se... se decidessi di comperarla, tornerò con Jenny — disse Dasein. — Grazie per avermela mostrata. — Si girò, tornò di corsa al suo furgone con la sensazione di essere sfuggito a qualcosa. Aveva avuto la forte tentazione di comperare la macchina di Jersey Hofstedder, e trovava la cosa stupefacente. Quella donna doveva essere una venditrice provetta. Tornò alla "locanda guidando il furgone, con la mente in subbuglio al pensiero della strana personalità che Santaroga mostrava. Il bizzarro can-
dore di quei cartelli posti sulle macchine usate, gli annunci sul Santaroga Press, facevano tutti parte dello stesso schema. Disinvolta franchezza, pensò Dasein. Nel momento sbagliato, questa poteva essere brutale. Salì nella sua stanza, si distese sul letto tentando di riflettere a fondo sull'accaduto, per tirar fuori qualcosa di sensato da quella giornata. A un riesame, la conversazione con Marden durante il pranzo pareva ancora più strana. Un lavoro nella clinica di Piaget? Quell'ossessionante e oscura conversazione della giovane coppia nel ristorante lo tormentava. Drogati? E il giornale che non esisteva, salvo per abbonamento. La macchina di Jersey Hofstedder... Dasein fu tentato di tornare indietro per comperarla, portarla fuori della valle e farla esaminare da un meccanico esterno. Un persistente mormorio di voci cominciò a intromettersi nella consapevolezza di Dasein. Si alzò in piedi, si guardò intorno ma non riuscì a localizzarne l'origine. Il bordo del cielo visibile dalla sua finestra cominciava a ingrigire. Si avvicinò, guardò fuori. Delle nuvole si stavano avvicinando da nord-ovest. Il mormorio delle voci continuò. Dasein fece il giro della stanza, si fermò sotto un minuscolo ventilatore in un angolo sopra la toeletta. La seggiola della scrivania gli fece da supporto per salire sopra la toeletta: accostò un orecchio al ventilatore. Debole, ma distinta, la familiare cantilena televisiva della pubblicità di una marca di chewing-gum usciva dall'apertura. Sorridendo fra sé, Dasein scese giù dalla toeletta. Era soltanto qualcuno che guardava la televisione. Corrugò la fronte. Quella era la prima volta che trovava una prova della presenza della televisione, lì nella valle. Valutò la geografia della zona: una conca. Per ricevere la televisione ci sarebbe voluta un'antenna su una delle montagne circostanti, degli amplificatori e un lungo tratto di cavo. Rimontò sulla toeletta, con l'orecchio al ventilatore. Scoprì di poter separare lo spettacolo televisivo - un serial che veniva irradiato nelle ore diurne - dalla conversazione che si svolgeva sullo sfondo fra tre o quattro donne. Pareva che una delle donne stesse insegnando a un'altra a lavorare a maglia. Parecchie volte sentì la parola «Jaspers» e una volta, molto chiaramente: — Una visione; è tutto, soltanto una visione. Dasein smontò dalla toeletta, uscì fuori in corridoio. Fra la sua porta e la finestra all'estremità del corridoio, con la sua scritta «Uscita», non c'erano porte. Dalla parte opposta del corridoio, sì, ma non su questo lato. Rientrò
nella propria stanza e studiò il ventilatore. Pareva attraversare la parete da parte a parte, ma le apparenze potevano essere ingannatrici. Poteva provenire da un altro piano. Però, cosa c'era in tutto quell'angolo posteriore dell'edificio? Adesso Dasein era abbastanza incuriosito per indagare. Scese di sotto, attraversò l'atrio vuoto, uscì fuori dall'edificio e vi girò intorno, fin sul retro. C'era la quercia, un autentico patriarca dalla corteccia irruvidita, un enorme ramo s'incurvava passando davanti a una finestra del secondo piano. Dasein decise che la finestra doveva essere la sua. Era al posto giusto e il ramo lo confermava. Il tetto basso della veranda sopra un'area di servizio adibita a cucina sporgeva ad angolo sotto la finestra. Dasein andò con lo sguardo verso l'angolo, contò altre tre finestre nel tratto dove non c'erano porte che dessero accesso a qualche stanza. Tutte e tre le finestre erano vuote, con le tapparelle abbassate. Niente porte ma tre finestre, pensò Dasein. Fece ritorno nella propria stanza, con passo più lento. L'atrio era ancora vuoto, ma c'era un rumore di voci dal centralino, nell'ufficio dietro il banco di ricevimento. Di nuovo nella sua stanza, Dasein si fermò accanto alla finestra e guardò giù, verso il tetto della veranda. Era poco inclinato e le tegole erano asciutte. Aprì la finestra e uscì fuori sul tetto. Scoprì che, tenendosi appoggiato alla parete, poteva procedere di lato lungo il tetto. Giunto alla prima delle finestre, si aggrappò saldamente al davanzale e cercò uno spiraglio nella tenda. Non ce n'erano, ma i suoni della televisione divennero evidenti quando appoggiò l'orecchio contro il vetro. Sentì parte della pubblicità di una marca di sapone e una donna, presente nella stanza, che diceva: — Basta con questo canale, passa alla NBC. Dasein si ritrasse e strisciò fino alla finestra successiva. Qui in fondo alla tapparella c'era una fessura d'un paio di centimetri. Quasi perse l'equilibrio per chinarsi e sbirciare dentro, si riprese, si aggrappò saldamente al davanzale e si rannicchiò per accostare l'occhio alla fessura. Il grigio slavato del tubo catodico nella stanza in penombra incontrò il suo sguardo. Riuscì a distinguere un banco di otto ricevitori contro una parete alla sua destra. Cinque donne sedevano su comode poltrone a una comoda distanza visiva dagli schermi. Notò con una certa soddisfazione che una delle donne stava sferruzzando. Un'altra pareva prendere appunti su un blocco per stenografia. Un'altra ancora stava manovrando una specie di registratore. Quel gruppo di donne dava l'impressione di essere intento a svolgere il
proprio lavoro in maniera efficiente e sistematica. Sembravano aver superato la mezza età, ma quando si muovevano lo facevano con la grazia di persone rimaste sempre attive. Sulla destra, una bionda con una figura per niente disprezzabile si alzò in piedi, appese una tavoletta d'appunti sul davanti dell'ultimo schermo in alto a destra e spense l'apparecchio. Ricadde sulla sua seggiola con un'ostentazione di grande fatica e parlò a voce alta: — Mio Dio! Immaginatevi se permettessimo a quella roba di riversarsi nei nostri cervelli giorno dopo giorno senza alcuna censura... — Risparmiatelo per il rapporto, Suzie! — Era stata la donna con il registratore a parlare. Rapporto? si chiese Dasein. Quale rapporto? Fece passare lo sguardo sulla stanza. Una fila di classificatori metallici era appoggiata sulla parete più lontana. Riusciva a stento a vedere l'orlo di un divano immediatamente sotto la finestra. Una scala del tipo abbassabile, di quelle che permettevano di accedere ai solai, occupava l'angolo sulla sinistra. Dietro alle donne c'erano due macchine per scrivere su supporti a rotelle. Dasein decise che quella era una delle stanze più singolari che avesse mai visto. Aveva tutte le caratteristiche della normalità, ma con quella peculiare sfalsatura santarogana. Perché mai quella segretezza? Perché otto ricevitori TV? Cosa contenevano i classificatori? Quale rapporto? Di tanto in tanto quelle donne prendevano appunti, usavano il registratore, cambiavano canale. Durante tutto il tempo continuavano una conversazione distratta che Dasein riusciva a udire soltanto in parte. Niente di tutto quello che sentiva aveva molto senso, chiacchiere di tutti i giorni: — Ho deciso di non metterci le pieghe: sono troppo impegnative... Se Fred non potrà venirmi a prendere dopo il lavoro, avrò bisogno di un passaggio fino in città... La posizione esposta in cui si trovava là sul tetto cominciò a preoccupare Dasein. Si disse che non avrebbe appreso molto di più rimanendo là a vegliare su quella finestra. Che spiegazione avrebbe potuto dare se si fosse fatto sorprendere in quella posizione? Cautamente rifece il percorso fino alla sua stanza, si arrampicò dentro e chiuse la finestra. Ancora una volta controllò il corridoio. A quel piano non c'era nessuna porta che desse accesso a quella strana stanza. Dasein andò fin dove c'era il cartello con la scritta «Uscita» e aprì una porticina che dava sul pianerottolo sul retro. Una scala aperta, con relativa ringhiera,
scendeva e saliva dal pianerottolo. Dasein guardò oltre la ringhiera, giù in basso, e vide l'interrato due piani più sotto. Guardò in alto: la scala si spalancava su un lucernario sopra il terzo piano. Muovendosi in silenzio salì fino al piano seguente, aprì la porta del pianerottolo e si trovò in un altro corridoio. Entrò e guardò la parete sopra la stanza segreta. A due passi dal pianerottolo c'era un'altra porta contrassegnata dalla scritta «Deposito Biancheria». Dasein saggiò la maniglia. Era chiusa a chiave. Frustrato, tornò sul pianerottolo. Mentre usciva dal corridoio, il suo piede inciampò su un pezzo di tappeto staccato dal pavimento. In un istante di terrore Dasein vide la ringhiera e la scala precipitarglisi incontro. La sua spalla destra colpì la ringhiera con uno schianto rallentando la caduta ma non fermandola. Si afferrò alla ringhiera rotta con la sinistra, sentì che si piegava verso l'esterno, e seppe allora che sarebbe precipitato: tre piani in verticale fino all'interrato. La ringhiera spezzata che stringeva in mano produsse un suono stridente mentre s'incurvava verso l'esterno. Tutto pareva accadere con un terrificante movimento al rallentatore. Poteva vedere i bordi della scala verso il basso là dove erano stati dipinti e la pittura era sgocciolata giù in piccole strisce gialle. Vide una ragnatela sotto una delle alzate con un grumo di filaccia marrone intrappolato dentro. La ringhiera rotta si staccò del tutto con un ultimo fragoroso schianto e Dasein volò fuori. In quel fatidico istante, mentre nella sua mente vedeva il proprio corpo spiaccicarsi sul cemento tre piani più sotto, un paio di mani robuste lo afferrarono per le caviglie. Senza riuscire a rendersi del tutto conto di quanto era successo, Dasein dondolò a testa in giù: abbandonò la ringhiera rotta e la vide precipitar giù roteando. Si sentì tirare verso l'alto come una bambola: fu trascinato oltre gli orli rotti della ringhiera e girato sulla schiena, sul pianerottolo. Dasein si trovò a fissare il volto nero e accigliato di Win Burdeaux. — C'è andato terribilmente vicino, signore — dichiarò Burdeaux. — Ero là dentro, e sono uscito. E lei era là che stava precipitando dalla ringhiera, signore. Com'è successo? — Il tappeto — rantolò Dasein. — Sono inciampato. Burdeaux si curvò per esaminare il pianerottolo davanti alla porta. Si raddrizzò e disse: — Che io sia benedetto se il tappeto non è lacerato in questo punto, signore. È una situazione molto pericolosa. Dasein riuscì a raddrizzare le dita intorpidite. Tirò un profondo sospiro, cercò di rizzarsi a sedere. Burdeaux lo aiutò. Dasein notò che la propria
camicia era strappata. C'era un lungo graffio rosso sul suo stomaco e sul petto per essere stato trascinato attraverso la ringhiera spezzata. — Farà meglio a prendersela con calma per qualche minuto, signore — lo esortò Burdeaux. — Vuole che chiami un dottore? — No... no, grazie. — Mi ci vorrà soltanto un minuto, signore. — Mi... mi rimetterò. Dasein fissò il tappeto lacerato, un orlo frastagliato di tessuto marrone. Ricordò il pezzo di ringhiera che era caduto giù dentro la tromba delle scale e trovò strano di non riuscire a ricordare il rumore della ringhiera che colpiva il fondo. C'era un'altra immagine nella sua mente, parimenti inquietante: i fatali incidenti degli altri due investigatori. Dasein si raffigurò morto in fondo alla tromba di quelle scale, l'indagine: tutto molto naturale, increscioso ma naturale. Cose del genere capitavano. Ma erano incidenti? La spalla cominciava a pulsargli. — Farò meglio a scendere nella mia stanza e a... cambiarmi — disse Dasein. Il dolore alla spalla, adesso divenuto molto intenso, gli diceva che aveva bisogno di cure mediche. Però poteva percepire dentro di sé un istinto che combatteva quell'idea proprio mentre si sforzava di alzarsi in piedi. Burdeaux allungò una mano per aiutarlo a risollevarsi del tutto, ma Dasein si ritrasse, conscio dell'irrazionalità di quel gesto nell'istante stesso in cui lo faceva. — Signore, non intendo farle alcun male — disse Burdeaux. C'era una cortese nota di rimprovero nel timbro della sua voce. La mia paura di lui era così ovvia? si chiese Dasein. Ricordò allora le forti mani che lo afferravano alle caviglie, quella presa proprio sul ciglio della tromba delle scale, che gli aveva salvato la vita. Dasein fu colto dal vivo impulso di chiedergli scusa. — Non... non so — disse. — Lei mi ha salvato la vita. Non ci sono parole per ringraziarla. Io... stavo pensando alla ringhiera rotta. Non dovrebbe fare in modo che venga riparata? Usando la parete per sorreggersi, Dasein si rimise in piedi. Rimase là, ansante. La sua spalla era un unico, enorme grumo di dolore. — Chiuderò a chiave questa porta, signore — disse Burdeaux, con voce gentile ma ferma. — Chiamerò il dottore, signore. Lei tiene la spalla storta: sospetto che le faccia molto male. Meglio che il dottore le dia un'occhiata, signore.
Dasein si voltò e si allontanò, interrogandosi sulla propria ambivalenza. Un dottore doveva vedere quella spalla, sì. Ma doveva essere proprio Piaget? Stringendosi alla parete per sorreggersi, Dasein discese i gradini. Piaget... Piaget... Piaget... Era stato chiamato Piaget quando c'erano stati quei due incidenti fatali? I movimenti gli provocavano delle feroci trafitture alla spalla. Piaget... Piaget... Com'era possibile che quanto era accaduto sulle scale fosse stato qualcosa di diverso da un incidente? Chi avrebbe potuto prevedere che lui si sarebbe trovato in quel preciso punto, nell'esatto momento? Da sopra, giunse il rumore d'una porta che veniva chiusa a chiave. I passi pesanti di Burdeaux echeggiarono sulle scale. La vibrazione gli trasmise altro dolore attraverso la spalla sofferente. Dasein si strinse la spalla, si fermò un attimo sul pianerottolo del secondo piano. — Signore? Dasein si voltò, sollevò lo sguardo su quella faccia scura, moresca, notando l'espressione preoccupata. — Sarà meglio, signore — disse Burdeaux, — se non uscirà più su quel tetto. Potrebbe essere soggetto a cadute, signore. Una caduta da quel tetto sarebbe molto pericolosa. CAPITOLO QUARTO Il temporale investì la valle poco prima che calasse l'oscurità. A quell'ora Dasein era già sistemato su una massiccia poltrona di vecchio modello nella casa di Piaget, con la spalla immobilizzata da una benda ben stretta. Jenny era seduta davanti a lui su un cuscino, con un'espressione accusatrice in viso. Un Burdeaux gentile ma inflessibile l'aveva condotto in macchina fino alla clinica adiacente alla casa di Piaget e lo aveva accompagnato fin dentro la sala dall'atmosfera antisettica rivestita di piastrelle del pronto soccorso, prima di andarsene. Dasein non aveva saputo cosa aspettarsi, certamente non il freddo distacco professionale con cui Piaget si era impegnato a curargli la spalla. — Legamenti lacerati e una leggera slogatura — aveva diagnosticato Piaget. — Cosa stava cercando di fare, suicidarsi? Dasein sussultò quando una benda venne stretta ben salda al suo posto. — Dov'è Jenny? — Sta dando una mano a preparare la cena. Le diremo della dannata
stupidaggine che lei ha fatto una volta che che l'avremo riparata. Piaget assicurò l'estremità della benda. — Non mi ha detto cosa stava combinando. — Stavo ficcanasando! — esclamò Dasein. — Davvero? — Piaget mise un bendaggio ad armacollo intorno al collo di Dasein e lo sistemò in modo da immobilizzare il braccio. — Ecco, questo dovrebbe bastare per un po'. Non muova quel braccio più di quanto non debba. Immagino di non doverglielo dire. Lasci perdere la giacca. C'è un marciapiede coperto che conduce a casa mia, subito fuori da quella porta. Vada pure avanti. Manderò Jenny a farle strada. Il marciapiede coperto aveva le pareti di vetro ed era bordato da vasi di gerani. Il temporale scoppiò proprio quando Dasein si stava facendo strada in mezzo ai vasi. Si fermò un attimo a guardare il prato tagliato di fresco, i cespugli di rose, e il cielo grigio-azzurro minaccioso. La pioggia agitata dal vento sferzò la strada al di là delle rose, piegando i rami d'un filare di bianche betulle. C'era gente che camminava in fretta lungo il marciapiede a fianco delle betulle. Il bordo umido dei soprabiti frustava le loro gambe ad ogni raffica. Dasein provava una sensazione di leggerezza alla testa, infreddolito malgrado la protezione del marciapiede coperto. Cosa sto facendo qui? si chiese. Inghiottì a gola asciutta, e si affrettò a proseguire fino alla porta della casa, ed entrò in un soggiorno rivestito di pannelli di legno pieno di grandi mobili. C'era un debole odore di carbone acceso nella stanza. La sua spalla era immersa in torpide pulsazioni. Dasein attraversò la stanza, passando davanti a una credenza piena di massicci oggetti di cristallo intagliato, quindi si accomodò con cautela in una poltrona morbida e profonda rivestita di stoffa verde dal disegno diagonale. La mancanza di movimento e il temporaneo alleviarsi del dolore lo colmarono d'una momentanea sensazione di sollievo. Poi la spalla riprese a pulsargli. Una porta sbatté, un rumore di passi frettolosi. Jenny gli arrivò addosso da un'ampia arcata sulla sinistra. Aveva il volto arrossato. Un ciuffo umido di capelli le ricadeva sulla tempia. Indossava un semplice abitino arancione, una sconvolgente chiazza di colore in mezzo ai toni smorti della grande stanza. Con una strana sensazione di distacco Dasein ricordò di averle detto un giorno che l'arancio era il suo colore favorito. Quel ricordo lo riempì d'una inspiegabile cautela. — Gil, per l'amor del cielo! — esclamò Jenny, fermandosi davanti a lui, le mani sui fianchi.
Dasein deglutì. Jenny considerò la sua camicia aperta, la fasciatura, l'armacollo. D'un tratto, si lasciò cadere sulle ginocchia, e gli appoggiò la testa in grembo, stringendolo a sé, e lui si avvide che piangeva: lacrime silenziose che allargavano una luccicante umidità sulle sue guance. — Ehi! — esclamò Dasein. — Jenny... — Le lacrime, quel suo volto immobile... Dasein trovava la situazione imbarazzante. Lei lo faceva sentire colpevole, come se l'avesse in qualche maniera tradita. Quella sensazione scavalcava il dolore e la fatica. Jenny gli afferrò la mano sinistra e premette la sua guancia contro di essa. — Gil — bisbigliò. — Sposiamoci... subito. Perché no? si chiese lui. Ma il senso di colpa rimaneva... e le domande senza risposta. Jenny era forse l'esca di una trappola preparata per lui? E se le cose stavano proprio così, Jenny ne era consapevole? Il verme sapeva di venir impalato all'amo per attirare la trota? Un sommesso colpo di tosse si fece udire dall'arco alla sinistra di Dasein. Jenny si scostò, ma continuò a tenergli la mano. Dasein sollevò lo sguardo e trovò Piaget. Il dottore si era cambiato. Adesso indossava uno smoking azzurro che lo faceva assomigliare ancora di più a un mandarino. La grande testa era inclinata leggermente a destra e aveva un'espressione divertita, ma gli occhi scuri lo fissavano interrogativi. Nella sala da pranzo dietro a Piaget erano state accese delle appliques color ambra. Dasein vide un grande tavolo coperto da una bianca tovaglia, apparecchiato per tre. Il luccichio dell'argento e del cristallo. — Jenny? — disse Piaget. Jenny sospirò, lasciò la mano di Dasein, si ritirò sulla verde ottomana e si sedette con le gambe ripiegate sotto di sé. Dasein divenne conscio dell'odore della carne arrosto insaporita dall'aglio. Ciò lo rese consapevole in modo acuto della fame che lo tormentava. Nell'esaltazione dei sensi individuò un allettante sapore piccante... riconobbe l'odore dello Jaspers. — Credo che dovremmo discutere della sua suscettibilità agli incidenti — dichiarò Piaget. — Se non le spiace, Gilbert? — Sicuro — rispose Dasein. Stava osservando il dottore con attenzione. C'era una punta di cautela nella voce di Piaget, una esitazione che andava al di là della riluttanza di un ospite ad impegnarsi in una discussione imbarazzante. — Ha avuto molti incidenti dolorosi? — chiese Piaget. Mentre parlava
attraversò la sala a grandi passi, andando a sedersi su una poltrona di cuoio imbottita dietro a Jenny. Quando si sedette, continuò a guardare Dasein da sopra le spalle di Jenny, e Dasein ebbe l'improvviso sospetto che quella posizione fosse stata scelta con cura. Allineava Piaget e Jenny contro di lui. — Allora? — insisté Piaget. — Perché non ci scambiamo le risposte? — replicò Dasein. — Lei risponde a una mia domanda ed io faccio altrettanto. — Oh? — La faccia di Piaget si rilassò in un sorriso sognante, come davanti ad uno scherzo segreto. Jenny parve preoccupata. — Qual è la sua domanda? — chiese Piaget. — Un affare è un affare — disse Dasein. — Prima una risposta. Mi ha chiesto se sono rimasto coinvolto in molti incidenti. No. Vale a dire, prima di arrivare qui. Me ne ricordo soltanto un altro: una caduta da un albero di mele quando avevo otto anni. — È così, dunque — disse Piaget. — Adesso ha una domanda per me. Jenny corrugò la fronte. Guardò altrove. Dasein sentì all'improvviso di avere la gola secca, e la sua voce era rauca quando parlò: — Mi dica, dottore: come sono morti i due investigatori... quelli che mi hanno preceduto? Jenny girò di scatto la testa. — Gil! — C'era indignazione nella sua voce. — Calma, Jenny — intervenne Piaget. Un nervo cominciò a pulsargli sull'ampia distesa della sua guancia sinistra. — È sulla pista sbagliata, giovanotto — ringhiò. — Qui non siamo selvaggi. Non ce n'è bisogno. Se vogliamo che qualcuno se ne vada, quello se ne va e basta. — E non volete che io me ne vada? — Jenny non vuole che lei se ne vada. E sono due domande da parte sua. Lei mi deve una risposta. Dasein annuì. Fissò Piaget da sopra le spalle di Jenny, riluttante a guardare lei. — Ama Jenny? — chiese Piaget. Dasein deglutì, abbassò lo sguardo e incontrò gli occhi imploranti di Jenny. Piaget conosceva la risposta a quella domanda! Perché gliel'aveva posta proprio adesso? — Lei sa che l'amo — rispose. Jenny sorrise, ma due lacrime luminose le imperlavano le ciglia.
— Allora perché ha aspettato un anno per venire qui a dirglielo? — chiese Piaget. C'era un tono rabbioso e accusatorio nella sua voce che fece irrigidire Dasein. Jenny si girò e fissò suo zio. Le spalle le tremavano. — Perché sono un dannato sciocco e cocciuto — disse Dasein. — Non voglio che la donna che amo mi dica dove debbo vivere. — Così, non le piace la nostra valle — replicò Piaget. — Forse potremmo cambiare la sua opinione in proposito. È disposto a lasciarci tentare? No! fu il pensiero istintivo di Dasein. Non sono disposto! Ma sapeva che la sua risposta viscerale e istintiva sarebbe venuta fuori irascibile, infantile. — Fate del vostro meglio — borbottò. E Dasein si meravigliò di se stesso. Cosa gli dicevano i suoi istinti? Cos'era che non andava in quella valle da metterlo in guardia ad ogni angolo? — La cena è servita. La voce di una donna dall'arcata. Dasein si voltò e vide, in piedi e immobile, una femmina grigia e scarna con un abito grigio. Era una Woods, il prototipo dei primi americani tornato in vita, naso lungo, occhi guardinghi, la disapprovazione in ogni linea del suo viso. — Grazie, Sarah — disse Piaget. — Questo è il dottor Dasein, il giovanotto di Jenny. Gli occhi di Sarah soppesarono Dasein, lo trovarono carente. — Il cibo si sta raffreddando — disse. Piaget si alzò dalla poltrona. — Sarah è mia cugina — disse. — Viene dal vecchio lato yankee della famiglia e si rifiuta in assoluto di cenare con noi se mangiamo a un'ora così frivola. — Una maledetta sciocchezza le vostre ore — borbottò la donna. — A quest'ora mio padre era sempre a letto. — E in piedi all'alba — commentò Piaget. — Non cercare di prendermi in giro, Larry Piaget — disse lei. Si voltò e si allontanò. — Venite a tavola. Porterò l'arrosto. Jenny si avvicinò a Dasein e l'aiutò ad alzarsi in piedi. Si sporse e lo baciò sulla guancia, mormorando: — In realtà le sei simpatico. Me l'ha detto mentre eravamo in cucina. — Cosa state bisbigliando voi due? — volle sapere Piaget. — Riferivo a Gil quello che Sarah ha detto di lui. — Oh, cos'ha detto Sarah? — Ha detto: Larry non intimidirà quel giovanotto. Ha gli occhi come
quelli di nonno Cather. Piaget si voltò per studiare Dasein. — Per Giove, è vero. Non me n'ero accorto. — Si girò con un improvviso gesto della mano, come per tagliar corto, e fece loro strada in sala da pranzo. — Venga, altrimenti Sarah cambierà la sua buona opinione. Non possiamo permettercelo. Per Dasein fu una delle cene più strane della sua vita. C'era il dolore della sua spalla, una costante pulsazione che faceva risaltare con violenza ogni parola ed ogni movimento. C'era Jenny: mai gli era apparsa tanto femminile, calda e desiderabile. C'era Piaget, che dichiarò una tregua durante la cena e impegnò Dasein in una conversazione con domande sui suoi corsi all'università, sui professori, gli studenti, le sue ambizioni. C'era Sarah che si librava intorno a loro con le pietanze: uno spettro borbottante che riservava occhiate ammorbidite soltanto a Jenny. Con Sarah, quello che Jenny vuole, Jenny ottiene, pensò Dasein. E infine c'era il cibo: costolette arrostite, cucinate alla perfezione quasi al sangue, la salsa Jaspers sopra i piselli e le crocchette di patate, la birra locale col suo sapore piccante che purificava il palato, e pesche fresche col miele come dessert. Dapprima Dasein trovò strano bere birra a cena, fino al momento in cui non sperimentò il gioco dei singoli sapori sulla sua lingua perfino nel momento in cui si combinavano per produrre sensazioni del tutto nuove. Si rese conto che era un incrociarsi di sensi: gli odori avevano un gusto, i colori amplificavano gli aromi. Quando la birra fu versata per la prima volta, Piaget l'assaggiò e annuendo disse: — Fresca. — Entro l'ora, proprio come avevi ordinato — sbottò Sarah, lanciando una strana occhiata indagatrice a Dasein. Quando Dasein se ne andò, erano passate da poco le nove e mezza. — Ho fatto portare qui la sua macchina — disse Piaget. — Pensa di poterla guidare, oppure devo farla riportare all'albergo da Jenny? — Me la caverò — rispose Dasein. — Non prenda quelle pillole analgesiche che le ho dato fino a quando non sarà al sicuro nella sua stanza — gli raccomandò Piaget. — Non voglio che finisca fuori strada. Poi sostarono sull'ampia veranda sul davanti della casa, i lampioni stradali proiettavano delle ombre umide sulle betulle del prato. La pioggia era cessata ma c'era una gelida sensazione di umidità nell'aria della notte. Jenny gli aveva buttato il soprabito sulle spalle. Era in piedi accanto a
lui, il volto accigliato per la preoccupazione. — Sei sicuro di non avere problemi? — Dovresti sapere che posso guidare con una mano — disse lui. Le sorrise. — Qualche volta penso che tu sia un uomo terribile — lei ribatté. — Non so perché ti sopporto. — È la chimica — disse lui. Piaget si schiarì la gola. — Mi dica una cosa, Gilbert — fece. — Cosa stava facendo sul tetto dell'albergo? Dasein provò un improvviso spasmo di paura, una sensazione d'incongruità per la scelta di quel momento per porgli la domanda. Che diavolo, pensò. Vediamo che effetto fa una risposta schietta. — Stavo cercando di scoprire per quale motivo siete tutti così infiammati di segretezza con la vostra televisione — replicò. — Segretezza? — Piaget scosse la testa. — È soltanto un mio progetto prediletto. Stanno analizzando lo sciocco infantilismo della televisione, producendo dati per un libro che ho intenzione di scrivere. — Allora perché tanta segretezza? — Dasein sentì Jenny che gli stringeva il braccio, ma ignorò la paura che sentiva nella sua reazione. — È il rispetto per la sensibilità degli altri — disse Piaget. — La maggior parte dei programmi televisivi fa inferocire la nostra gente. Controlliamo le notizie, naturalmente, ma anche quelle che sono per la maggior parte pappetta, ricoperte di zucchero e imboccate col cucchiaio. Dasein sentì che c'era una nota di parziale verità nella spiegazione di Piaget, ma si chiese cosa ne fosse rimasto fuori. Su che altro indagavano le donne in quella stanza? — Capisco — disse Dasein. — Adesso è lei a dovermi una risposta — riprese Piaget. — Spari. — Un'altra volta — disse Piaget. — Adesso vi lascio, in modo che possiate darvi la buona notte. Rientrò e chiuse la porta. Poco dopo Dasein percorreva la strada verso il suo furgone, la pizzicante sensazione del bacio di Jenny era ancora calda sulle sue labbra. Arrivò all'incrocio a Y che portava alla locanda poco prima delle dieci, esitò, poi girò a destra lungo la strada che portava fuori della valle, a Porterville. C'era una strana sensazione di autoconservazione in quella decisione, ma si disse che lo faceva soltanto perché voleva guidare per un po'...
e pensare. Cosa mi sta succedendo? si chiese. Si sentiva la mente anormalmente limpida, ma era avvolto da una sensazione d'inquietudine così forte che gli pareva di avere lo stomaco annodato. C'era uno strano ampliamento del suo senso dell'essere. Ciò gli fece constatare di aver costretto se stesso a spingersi negli spazi interiori, concentrandosi sulla psicologia e restringendo così il suo mondo. Adesso qualcosa stava spingendo contro le barriere che lui si era autoimposto, e percepiva delle cose che si annidavano al di là di esse, cose che temeva di affrontare. Perché sono qui? si chiese. Poteva rintracciare una catena di causa ed effetto fino a risalire ai tempi dell'università, a Jenny... ma ancora una volta sentiva l'interferenza di cose al di fuori della catena, e temeva queste cose. La notte sfrecciava via, dietro al suo furgone, e si rese conto che stava scappando su per la montagna, cercando di sfuggire alla valle. Pensò a Jenny come gli era apparsa quella notte: un elfo vestito d'arancio, con le scarpe anch'esse arancio. L'adorabile Jenny vestita per fargli piacere, la sua sincerità e il suo amore del tutto trasparenti sul suo viso. A frammenti e a mozziconi la conversazione fatta durante la cena cominciò a tornargli alla memoria. Jaspers. — Questo è il vecchio Jaspers... intenso. — Quella era stata Jenny quando aveva assaggiato la salsa. — È quasi il momento di metter giù una nuova sezione di Jaspers nella numero cinque. — Quella era stata Sarah quando aveva portato il dessert. E Piaget: — Domani ne parlerò ai ragazzi. Adesso, nel ricordarsi questo, Dasein si rese conto che c'era stato un debole sapore familiare perfino nel miele. S'interrogò allora nel fatto che Jaspers appariva così spesso nella loro conversazione. Non deviavano mai molto da esso. Parlavano di Jaspers... e nei momenti più singolari. Adesso si trovava al passo che portava fuori della valle. Tremava con un'ambivalente sensazione di fuga... e di perdita. C'era stato un incendio sui pendii attraverso i quali Dasein adesso stava scendendo. Sentì l'odore delle ceneri umide nel vento che passava sferzante attraverso i ventilatori, ricordò il guasto subito dalle linee telefoniche. Qui fuori della valle le nuvole avevano cominciato a diradarsi. Gli alberi morti si ergevano sui pendii bruciati come caratteri cinesi tracciati col pennello sulle colline illuminate dalla luna. D'un tratto la sua mente si rinserrò su una ragione logica per uscire dalla valle: Il telefono! Devo telefonare a Selador e consultarmi con lui. Non ci
sono linee per comunicare, nella valle, ma posso chiamare da Porterville... prima di tornare. Allora si mise a guidare con velocità costante, tutto il suo essere era sospeso, statico, trattenuto da una curiosa mancanza di emozioni, non c'era niente nella sua mente. Perfino il dolore della sua spalla si era attenuato. Porterville si profilò nella notte, la statale divenne un'ampia strada principale con un'insegna azzurra e bianca sulla sinistra, su un bar aperto tutta la notte: due grossi camion con rimorchio erano parcheggiati fuori accanto ad una piccola convertibile e alla macchina verde e bianca dello sceriffo. Un bagliore arancione sull'altro lato della strada era il «Frenchy's Mother Lode Saloon». Le macchine ferme accanto al marciapiede davano una generale sensazione di decrepitezza, tutte simili in maniera deprimente nel loro ammaccato vecchiume. Dasein passò oltre, trovò una solitaria cabina telefonica sotto un lampione stradale all'angolo di una stazione della Shell al buio. Svoltò dentro e si fermò accanto alla cabina. Il motore della macchina era caldo e cercò di continuare a girare con un movimento sussultante e sferragliante dopo che lui ebbe chiuso la chiavetta dell'accensione. Fece cessare quel movimento con la frizione e rimase seduto lì per un momento a guardare la cabina telefonica. Poco dopo uscì dal furgone. Al suo movimento, il furgone produsse uno scricchiolio d'infelicità. La macchina dello sceriffo passò lungo la strada, i suoi fari proiettarono enormi ombre sul bianco recinto dietro la cabina telefonica. Dasein sospirò, entrò nella cabina. Si sentì stranamente riluttante a fare la telefonata, dovette costringersi. Poco dopo gli rispose l'accento preciso di Selador: — Gilbert? È lei, Gilbert? Hanno riparato quelle maledette linee telefoniche? — La sto chiamando da Porterville, subito fuori della valle. — C'è qualcosa che non va, Gilbert? Dasein inghiottì. Perfino sulle lunghe distanze Selador riusciva a rimanere percettivo. Qualcosa che non va? Dasein gli fece un breve resoconto dei suoi incidenti. Dopo un silenzio prolungato, Selador disse: — È molto strano, Gilbert, ma non riesco a vedere come possa interpretare questi incidenti come qualcosa di diverso da incidenti. Il gas, ad esempio... hanno fatto grandi sforzi per salvarla. E il suo ruzzolone, com'è possibile che qualcuno sapesse che lei sarebbe passato da quella parte? — Volevo soltanto che lei ne fosse informato — replicò Dasein. — Pia-
get pensa che io sia incline agli incidenti. — Piaget? Oh, sì. Il medico locale. Be', Gilbert, bisognerebbe sempre ridimensionare le affermazioni che fuoriescono dalla propria specialità. Dubito che Piaget sia qualificato per diagnosticare se qualcuno è incline agli incidenti, anche se una sindrome del genere esistesse, cosa che in tutta sincerità io non sono disposto a credere. — Selador si schiarì la gola. — Non penserà seriamente che questa gente abbia dei disegni malevoli contro di lei? Il tono calmo e sensato di Selador ebbe un effetto calmante su Dasein. Selador aveva ragione, naturalmente. Qui, lontano dalla valle, gli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore assumevano una diversa sfumatura di significato. — Certo che no — disse Dasein. — Bene! Lei mi ha sempre colpito come una persona con la testa sulle spalle, Gilbert. Lasci adesso che la metta in guardia. Lei potrebbe essersi trovato immischiato in una situazione in cui la gente è genuinamente avventata. In queste circostanze, la Locanda potrebbe essere un posto estremamente pericoloso, e lei dovrebbe andarsene. — Andare dove? — chiese Dasein. — Devono esserci altre possibilità di alloggio. Avventatezza alla Locanda? si chiese Dasein. Ma allora, come mai altri non erano rimasti vittime d'incidenti? Un posto pericoloso, sì, ma soltanto perché faceva parte della valle. Dasein provava una forte riluttanza ad essere d'accordo con Selador. Era come se la sua riluttanza fosse basata su dati che Selador non aveva a disposizione. D'un tratto Dasein vide come quel tappeto allentato avrebbe potuto essere usato contro di lui. Pensò ad una trappola con l'esca. L'esca? La stanza della televisione, naturalmente: un posto strano che avrebbe certamente suscitato la sua curiosità. Intorno all'esca ci sarebbero state diverse trappole, ogni possibile percorso sarebbe stato coperto. Si chiese quale trappola avesse mancato sul tetto. Mentre ci pensava, Dasein si ricordò di come la ringhiera delle scale si fosse rotta. — È là, Gilbert? La voce di Selador risuonò fioca e lontana. — Sì, sono qui. Dasein annuì fra sé. Era così meravigliosamente semplice. Rispondeva a tutte le vaghe inquietudini che lo avevano tormentato a proposito degli incidenti. Era così semplice: come un bambino che disegnava su una finestra
appannata. Niente linee in eccesso o dati inutili. Esche e trappole. Nel momento stesso in cui lo capiva, si rese conto che Selador non avrebbe accettato quella soluzione. Sapeva di paranoia. Se la teoria fosse stata sbagliata, allora sarebbe stata paranoica. Implicava un'organizzazione, il coinvolgimento di molta gente, di molti funzionari. — C'era qualcos'altro che voleva, Gilbert? Stiamo pagando per un silenzio piuttosto costoso. D'un tratto Dasein si riebbe. — Sì, signore. Ricorda l'articolo di Piaget sui santarogani e gli allergeni? — Sì. — Selador si schiarì la gola. — Vorrei che venissero chieste informazioni ai funzionari della sanità pubblica e a quelli del dipartimento dell'agricoltura. Scopra se hanno analisi chimiche dei prodotti agricoli della valle, compreso il formaggio. — Sanità pubblica... agricoltura... formaggio — ripeté Selador. Dasein riusciva quasi a vederlo, che prendeva appunti. — Qualcos'altro? — Forse. Può mettersi in contatto con i legali del consiglio d'amministrazione dei beni immobili e con quelli della catena dei negozi? Sono sicuro che devono aver esplorato le possibilità dei ricorsi legali riguardo i terreni presi in affitto... — A cosa sta mirando, Gilbert? — Le catene dei negozi hanno preso in affitto le proprietà e vi hanno costruito i loro costosi impianti prima di scoprire che i santarogani non erano disposti a commerciare con loro. Si tratta d'un preciso schema operativo? Gli agenti immobiliari santarogani intrappolano i forestieri ignari? — Complotto a scopo di frode — disse Selador. — Capisco. Sono piuttosto incline a credere, Gilbert, che questa pista sia già stata esaurita. Nell'ascoltarlo, Dasein pensò che l'abituale scaltrezza di Selador si fosse smussata. Forse era stanco. — È molto probabile — disse Dasein. — Non sarebbe male, però, se mi fosse possibile sapere cosa ne pensano le aquile legali. Potrebbero fornirmi qualche nuovo indizio sullo scenario. — Molto bene. E, Gilbert, quando mi spedirà le copie dei suoi appunti? — Le spedirò alcune copie carbone questa notte da Porterville. — Domani andrà bene. Si sta facendo tardi, e... — No, signore. Non mi fido dell'ufficio postale di Santaroga. — Perché no? Dasein gli descrisse la collera di Jenny nei confronti delle donne dell'ufficio postale. Selador ridacchiò.
— Sembrano proprio una autentica banda di arpie — commentò Selador. — Non ci sono delle leggi contro la manomissione della posta? Ma, certo, soltanto quando la gente è decisa e tutto il resto. Mi auguro che abbia trovato la signorina Sorge in buona salute. — Bella più che mai — dichiarò Dasein, mantenendo la voce su un tono leggero. D'un tratto, s'interrogò su Selador. La signorina Sorge. Nessuna esitazione, nessuna domanda sul fatto che non fosse sposata. — Stiamo indagando sulla fonte delle loro scorte di petrolio — aggiunse Selador. — Non c'è ancora niente. Si prenda cura di sé, Gilbert. Non vorrei che le succedesse qualcosa. — Siamo in due — disse Dasein. — Arrivederci, allora — concluse Selador. La sua voce suonava esitante. Un clic segnalò l'interruzione della comunicazione. Dasein riappese, e si voltò a un rumore alle sue spalle. Una macchina della polizia stava entrando nell'area della stazione di servizio. Si fermò davanti alla cabina. La luce di un faro lampeggiò agli occhi di Dasein. Sentì uno sportello che si apriva, un rumore di passi. — Mi tolga quella dannata luce dagli occhi! — esclamò Dasein. La luce venne abbassata. Distinse una forma voluminosa in uniforme in piedi fuori della cabina. Il luccichio di un distintivo. — Qualcosa non va? — Era strano sentire una voce così pigolante uscire da una massa così voluminosa. Dasein uscì dalla cabina telefonica, ancora incollerito per il modo in cui la luce gli era stata fatta lampeggiare negli occhi. — Dovrebbe? — Dannati santarogani — borbottò l'agente. — Dev'essere importante perché qualcuno di voi venga fin qua a telefonare. Dasein fece per protestare che lui non era un santarogano, ma rimase silenzioso mentre la sua mente veniva investita da una cascata di domande. Cosa induceva gli estranei a supporre che lui fosse un santarogano? L'uomo ricordò le parole di Marden. Qual era l'etichetta che lo identificava? — Se ha finito, allora farà meglio a tornare a casa — disse l'agente. — Non può parcheggiare qui tutta la notte. Dasein ebbe un'improvvisa immagine mentale dell'indicatore della benzina: era guasto, e mostrava che il serbatoio era vuoto anche quand'era pieno. Gli avrebbero creduto se avesse detto che avrebbe dovuto aspettare che la stazione riaprisse la mattina dopo? E se avessero svegliato un inserviente, scoprendo così che il suo serbatoio accettava soltanto pochi litri?
Perché mai sto escogitando degli espedienti così meschini? si chiese Dasein. — È davvero una fasciatura artistica quella che indossa — chiese ancora l'agente. — Ha avuto un incidente? — Niente d'importante — rispose Dasein. — Mi sono stirato qualche legamento. — Buona notte, allora — concluse l'agente. — La prenda con calma quella strada. — Tornò alla sua macchina, disse qualcosa a bassa voce al suo compagno. Ridacchiarono. La macchina uscì lentamente dalla stazione. Mi hanno scambiato per un santarogano, pensò Dasein, e analizzò le reazioni che avevano accompagnato quell'errore. Si erano risentiti per la sua presenza in quel luogo, ma con uno strano tipo di diffidenza... come se avessero paura di lui. Comunque, non avevano esitato a lasciarlo là solo, non avevano neppure espresso il dubbio che lui potesse essere un criminale. Turbato da quell'incidente, e incapace di spiegare il proprio turbamento, Dasein risalì nel suo furgone e ripartì in direzione di Santaroga. Perché mai avevano pensato che lui fosse un santarogano? La domanda continuava a roderlo. Una gobba del terreno fece sobbalzare il furgone, e lo rese conscio con una fitta improvvisa della propria spalla. Il dolore era diventato una sorda sofferenza. Però, sentiva la propria mente limpida e vigile, appostata in cima a un picco d'osservazione dall'orlo sottile come la lama di un coltello. Cominciò a interrogarsi su quella sensazione mentre guidava. La strada scorreva sotto di lui, saliva... saliva... Come se facessero parte della trama della strada, delle immagini scollegate cominciarono a scorrergli nella mente. Si affacciavano frammiste a parole e a frasi, in una folle mescolanza, senza nessuna parvenza d'ordine. Il significato gli sfuggiva. Sentendosi d'un tratto stordito, cercò di affrontare di petto quelle sensazioni. Una caverna... un uomo zoppicava... un fuoco... Qual caverna? si chiese. E dov'è che ho visto un uomo che zoppicava? Quale fuoco? È forse l'incendio che ha distrutto le linee telefoniche? Ebbe l'improvvisa impressione di essere lui l'uomo zoppicante. Il fuoco e la caverna gli sfuggivano. Dasein sentiva che non stava ragionando: stava brancicando in mezzo a vecchi pensieri. Immagini: le etichette richiamavano gli oggetti davanti al-
l'occhio della sua mente: Auto. Vide la vecchia macchina ben lucidata di Jersey Hofstedder. Recinto. Vide la rete di cinta intorno alla Cooperativa. Ombre. Vide delle ombre incorporee. Cosa mi sta succedendo? Si sentì tremare per la rabbia. Era madido. Il sudore gli scorreva giù dalla fronte e dalle guance. Lo sentì sulle labbra. Dasein aprì il finestrino dalla sua parte, lasciò che l'aria fresca lo sferzasse. Alla curva dove si era fermato la prima sera, Dasein svoltò sul tratto inghiaiato, spense il motore e le luci. Le nuvole erano scomparse e una luna d'argento schiacciata ai poli si muoveva bassa sull'orizzonte. Dasein fissò la valle sotto di lui: luci molto spaziate fra loro, azzurro-verde quelle delle serre, molto più in là alla sua sinistra, il tramestio, l'agitarsi della Cooperativa alla sua destra. Là in alto Dasein si sentiva lontano da tutto ciò, isolato. L'oscurità lo avvolgeva. Una caverna? si chiese. Jaspers? Gli era difficile pensare, con il suo corpo che si comportava in quella strana maniera erratica. La spalla gli pulsava. C'era un nodulo di dolore nel suo polmone sinistro. Era conscio di un tendine nella sua caviglia sinistra, là non c'era dolore, ma la consapevolezza di un indebolimento. Poteva tracciare nella sua mente le linee di fuoco dei graffi lungo il suo petto, là dove Burdeaux l'aveva trascinato fra gli orli della ringhiera rotta. Un'immagine gli balenò nella mente, la mappa sulla parete di George Nis. Scomparve. Si sentiva posseduto. Qualcosa aveva preso possesso del suo corpo. Era un pensiero antico e terrorizzante. Pazzo. Strinse il volante. Immaginò che si contorcesse, staccò le mani con uno scatto. Aveva la gola secca. Dasein si saggiò il polso fissando il quadrante luminoso del suo orologio. La lancetta dei secondi sobbalzava in modo strano. O questo, oppure il battito del suo polso era rapido ed erratico. Qualcosa distorceva il suo senso del tempo. Mi hanno avvelenato? si chiese. C'era qualcosa nella cena di Piaget? Ptomaine? La conca nera della valle era una mano minacciosa che poteva allungarsi e afferrarlo.
Jaspers, pensò. Jaspers. Cosa significava realmente? Avvertiva una unità, una solitudine collettiva accentrata sulla Cooperativa. Immaginò qualcosa in agguato là fuori nel buio, che si librava ai margini della coscienza. Dasein mise una mano sul sedile. Le sue dita brancolarono sulla valigetta con i suoi appunti e i documenti, tutte le cose che dicevano che lui era uno scienziato. Cercò di aggrapparsi a quest'idea. Sono uno scienziato. Questa inquietudine è ciò che zia Nora avrebbe definito «i vapori». Quello che lo scienziato doveva fare era molto chiaro nella mente di Dasein. Lui doveva insinuarsi nel mondo di Santaroga, trovare il proprio posto nella loro unità, vivere la loro per un po', pensare come pensavano loro. Era l'unico modo sicuro per andare alla radice del mistero della valle. C'era uno stato mentale santarogano. Doveva infilarselo addosso come se fosse un vestito, adattarlo alla sua comprensione. Questo pensiero gli diede la sensazione che qualcosa si stesse intromettendo nella sua consapevolezza interiore. Sentì che, lì dentro, un antico essere si era levato e lo stava esaminando. Questo riempiva tutto il suo subconscio, lo scrutava, pressante, inquieto, la sua presenza era avvertibile soltanto di riflesso, indistinta, offuscata... ma reale. Si muoveva dentro di lui, qualcosa di pesante e d'incerto. La sensazione passò. Quando infine se ne fu andato, Dasein provò dentro di sé un vuoto tale da spiegare nel modo più esauriente il concetto di sentirsi vuoto. Si sentiva simile a una scheggia di legno galleggiante, smarrita in un mare interminabile, timorosa di qualsiasi corrente e mulinello che la faceva muovere. Sapeva che stava proiettando. Aveva paura di tornare giù nella valle, paura di scappare. Jaspers. Dasein sapeva che c'era un'altra cosa che doveva fare. Ancora una volta visualizzò la mappa sulla parete di George Nis, le nere linee dei tributari, lo schema e gangli. Una caverna. Rabbrividì, fissò la Cooperativa in distanza col suo formicolare di attività. Cosa si nascondeva laggiù, dietro la rete di cinta, le guardie, i cani e il buggy da boscaglia che pattugliava la zona? Poteva esserci un modo per scoprirlo.
Dasein scese giù dalla macchina, chiuse a chiave la cabina. La sola arma che riuscì a trovare nel camper fu un coltello da caccia arrugginito con un fodero coperto di muffa. S'infilò il fodero alla cintura, lavorando impacciato con una mano sola, sentendosi molto sciocco, ma consapevole anche d'una sensazione interiore di pericolo. C'era anche una torcia a stilo. Se la mise in tasca. Il movimento gli fece pulsare la spalla. Dasein ignorò il dolore, dicendosi che sarebbe stato troppo facile trovare una scusa fisica per non fare quello che doveva. Una stretta pista tracciata dagli animali selvatici scendeva lungo la collina partendo dall'estremità superiore del guardrail. Dasein cominciò a scendere la pista illuminata dalla luna fino a quando non si addentrò in mezzo alle ombre soffocanti della boscaglia. I rami gli tiravano i vestiti. Si fece largo a forza, usando la luce come guida, e il tramestio della Cooperativa, che era visibile tutte le volte che superava un crinale. Qualunque fosse il mistero di Santaroga, Dasein sapeva che la risposta era là, dietro a quella rete di recinzione. A un certo punto inciampò e scivolò già lungo il fianco della collina finendo dentro il letto asciutto d'un fiumiciattolo. Seguendo il letto del fiumiciattolo uscì su un minuscolo pianoro alluvionale che si apriva su una veduta panoramica della Cooperativa e la valle più oltre inondata dalla luce della luna. Due volte sorprese dei cervi, che balzarono via. In mezzo alla boscaglia era frequente lo zampettio di piccole creature che fuggivano davanti al suo procedere impacciato. Seguendo un'altra stretta pista tracciata della selvaggina arrivò finalmente a una sporgenza rocciosa a circa mille metri dalla rete di cinta della Cooperativa, e a circa centocinquanta metri sopra di essa. Dasein si sedette su una roccia per riprendere il fiato e nell'improvviso silenzio sentì il poderoso lavorio di un motore da qualche parte alla sua destra. Una luce spazzò il cielo. Dasein arretrò strisciando dentro una bassa macchia di sottobosco ceduo e si rannicchiò là in mezzo. Il rumore del motore si fece sempre più forte. Delle ruote gigantesche sbucarono fuori e parvero scalare il cielo fino a occupare una collina davanti a lui. Da qualche punto sopra le ruote una luce continuava a lampeggiare. Spazzò la boscaglia, sondandola, fermandosi, dardeggiando avanti e indietro. Dasein riconobbe il buggy, il veicolo mostruoso, a circa una sessantina di metri di distanza. Si sentì esposto, nudo, con soltanto uno scudo sottile
di boscaglia fra lui e quella creazione da incubo. Le luci spazzarono le foglie sopra di lui. Ecco che arriva, pensò. Mi piomberà dritto addosso dall'alto della collina. Il rumore del motore era ammutolito, quando il buggy si era fermato per scrutare i dintorni. Era così vicino che Dasein sentì un cane uggiolare sopra di esso. Ricordò i cani che avevano accompagnato Marden. I cani sentiranno il mio odore, pensò. Tentò di arricciarsi quanto più possibile a palla. Il rumore del motore crebbe di nuovo d'intensità. Dasein scostò un ramo, azzardò un'occhiata attraverso la boscaglia, preparandosi a balzare in piedi e a scappare. Ma la grande macchina svoltò e cominciò a risalire il crinale dal quale era emersa. Passò in mezzo alle colline sopra Dasein. Il rumore e la luce si allontanarono. Quando il buggy fu distante a sufficienza, Dasein si concesse un momento per calmarsi, poi strisciò fuori sull'orlo della sporgenza rocciosa. Allora vide perché il buggy non gli era arrivato addosso. Quello era un vicolo cieco, non c'era nessun sentiero che conducesse da lì verso il basso. Avrebbe dovuto arrampicarsi fino al punto in cui il buggy era emerso sulla collina, e seguire quel percorso fino a quando non avesse trovato una strada che portava in basso. Fece per allontanarsi, ma si arrestò alla vista di uno squarcio nero sul lato superiore della sporgenza alla sua destra. Dasein si avvicinò alla spaccatura nella roccia e guardò giù in mezzo al buio. La fenditura nella roccia non aveva più di un metro di larghezza e si spalancava sulla parete della sporgenza, restringendosi fino a un punto circa a sei metri sulla sua destra. Dasein s'inginocchiò e arrischiò un breve lampo della sua torcia. La luce gli rivelò un liscio camino di roccia che conduceva giù fino a un'altra sporgenza. Più importante era il fatto che poteva vedere là sotto, alla luce della luna, una pista tracciata dagli animali sevatici. Dasein fece scivolare i piedi oltre l'orlo del camino, si sedette con i piedi penzolanti nel vuoto, e valutò il problema. La spalla ferita lo fece esitare. Senza la lesione alla spalla si sarebbe subito avventurato là sotto, procedendo con la schiena addossata su un lato e i piedi premuti sull'altro. Pericoloso, certo, ma qualcosa che aveva fatto molte volte fra montagne ben più impervie di quella. L'altra sporgenza si trovava a non più di quindici metri più sotto. Si guardò intorno, chiedendosi se osava rischiarlo. In quell'istante, la sua
mente gli offrì l'informazione che si era dimenticato d'impostare le copie carbone dei suoi appunti per Selador. Fu come uno schizzo d'acqua gelida in viso. Sentì che il suo corpo l'aveva tradito, che aveva cospirato contro se stesso. Come posso essermene dimenticato? si chiese. C'era rabbia in quel pensiero, e paura. Il sudore gl'impregnò il palmo delle mani. Lanciò un'occhiata al quadrante luminoso del suo orologio: era quasi mezzanotte. Allora fu colto da un irresistibile desiderio di rifare il percorso fino alla strada e al camper. D'un tratto ebbe più paura di ciò che il suo corpo poteva fargli più di quanta ne avesse di qualsiasi pericolo che potesse sbucare dalla notte, o di scendere giù in quel facile camino di roccia. Dasein sedette là tremante, ricordando la sensazione di essere posseduto. Quella era follia! Scosse la testa con rabbia. Non c'era modo di tornare indietro; doveva scendere là sotto, trovare un modo per calarsi giù nella Cooperativa, rivelarne i segreti. Fintanto che l'energia della rabbia lo dominava ancora, Dasein sondò il camino con i piedi, trovò l'altro, scivolò giù dal suo posatoio e cominciò a scendere. A ciascun movimento della sua schiena, avvertiva un dolore lancinante alla spalla. Digrignò i denti, cercò la strada a tentoni, al buio. Le rocce gli raschiavano la schiena. A un certo punto, il piede destro scivolò, e lui dovette premere sul sinistro per far presa sulla roccia. Quando giunse alla base del camino, fu quasi come sgonfiarsi... poiché si trovò su un pendio di roccia franosa che scivolò sotto i suoi piedi e lo fece cadere sulla pista che aveva visto dall'alto. Dasein giacque là per alcuni istanti, riprendendo il fiato, lasciando che il fuoco che gli ardeva nella spalla si quietasse fino a diventare un'opaca pulsazione. Dopo un po' si alzò in piedi con uno sforzo e osservò il punto dove il sentiero illuminato dalla luna scendeva giù alla sua destra. Avanzò in mezzo ad una barriera di arbusti su un pendio erboso punteggiato dalle forme scure delle querce. La luce della luna risplendeva sulla recinzione al di là del prato. Eccoli là, i confini della Cooperativa. Si chiese se non potesse arrampicarsi su quel recinto con una mano sola. Sarebbe stato irritante essere arrivati fino a quel punto per poi farsi bloccare da un semplice reticolato. Mentre se ne stava lì ad esaminare il prato e il recinto, cominciò ad av-
vertire un sordo ronzio. Veniva dalla sua destra. Cercò l'origine di quel suono scrutando fra le ombre. Era un luccichio metallico quello laggiù, qualcosa di rotondo che stava emergendo dal prato? Si rannicchiò fra l'erba secca. C'era un intenso odore di funghi tutt'intorno. Lo riconobbe all'improvviso: l'odore dello Jaspers. Dasein si rese conto che stava fissando un ventilatore. Un ventilatore! Si alzò in piedi, attraversò di corsa il prato in direzione del suono. Non erano possibili equivoci su quel suono e sull'aria intorno a lui, satura di Jaspers. Là, sotto terra, c'era un grosso ventilatore in funzione. Dasein si fermò accanto alla bocca del ventilatore. Aveva un diametro all'incirca di un metro e venti, s'innalzava più o meno di altrettanto sopra il prato, ed era sormontato da un cappuccio antipioggia a forma di cono. Stava per ispezionare i fissaggi del cappuccio quando udì un rumore di passi strascicati e un crepitio di arbusti spezzati provenire dalla direzione del recinto. Si era appena accucciato dietro il ventilatore quando due guardie in uniforme emersero dalla boscaglia al di là del reticolato, con i cani che annusavano famelici davanti a sé, tirando i guinzagli. Se dovessero sentire il mio odore... pensò Dasein. Si rannicchiò dietro il ventilatore respirando adagio attraverso la bocca. Sentì un pizzichio in fondo alla lingua. Avrebbe voluto tossire, schiarirsi la gola, ma lottò contro l'impulso. I cani e le guardie si erano fermati proprio sotto di lui. Una luce abbagliante inondò il ventilatore e spazzò il terreno su entrambi i lati. Uno dei cani uggiolò bramoso. Vi fu un rumore sferragliante, un ordine secco da parte di una delle guardie. Dasein trattenne il fiato. Ancora una volta qualcosa sferragliò. I rumori delle guardie e dei cani si spostarono lungo il reticolato. Dasein azzardò una rapida occhiata da dietro il ventilatore. Stavano puntando la luce di una torcia lungo la base del reticolato alla ricerca di tracce. Una delle guardie rise. Dasein sentì il tocco di una leggera brezza sulle guance e si rese conto di trovarsi sottovento rispetto ai cani: questo gli consentì di rilassarsi un po'. Quel rumore sferragliante risuonò ancora una volta. Dasein sapeva che era una delle guardie che stava trascinando un bastone lungo il recinto. Quell'umore vagamente distratto delle guardie lo indusse a rilassarsi ancora di più. Esalò un lungo sospiro. Adesso guardie e cani stavano superando una bassa collina, scendendo sull'altro lato. La notte li inghiottì.
Prima di raddrizzarsi, Dasein aspettò fino a quando non udì più il rumore che facevano. Il ginocchio sinistro gli tremava e gli ci volle qualche istante perché si calmasse. Guardie, cani, quel grosso buggy da boscaglia: tutto parlava di qualcosa d'importante in quel luogo. Dasein annuì fra sé, e cominciò ad esaminare il ventilatore. C'era un pesante schermo sotto il cappuccio per la pioggia. Azzardò un breve sprazzo della torcia, vide che il cappuccio e il filtro erano un'unità saldata insieme e congiunta al ventilatore da massicce viti metalliche. Dasein tirò fuori il suo coltello da caccia e tentò di svitare uno delle viti. Il metallo stridette sul metallo, mentre la girava. Si fermò, ascoltò: i suoi orecchi individuarono soltanto i suoni della notte. In qualche punto nel folto della boscaglia sopra di lui c'era un gufo. Il suo mesto richiamo galleggiava nella notte. Dasein tornò ad applicarsi alla vite. Questa infine cadde nella sua mano: se la mise in tasca. Passò alla vite successiva. Erano quattro in tutto. Una volta che ebbe rimosso l'ultima vite, tentò il filtro. Questo e il cappuccio si sollevarono con un raschiante rumore metallico di protesta. Dasein fece lampeggiare il raggio della torcia all'interno e vide delle lisce pareti metalliche che scendevano giù per circa cinque metri prima di curvare in direzione delle colline. Dasein rimise il filtro e il cappuccio nella loro posizione normale, andò a cercare sotto le querce fino a quando non trovò un ramo caduto lungo un po' meno di due metri. Lo usò per tenere su il cappuccio e il filtro, e scrutò ancora una volta dentro il ventilatore con la torcia. Si rese conto che per potersi calare là dentro gli ci sarebbero volute tutte e due le mani. Non c'era nessun altro modo per farlo. Digrignando i denti, si tolse l'armacollo e se lo cacciò in tasca. Sapeva che anche senza l'armacollo il braccio non gli sarebbe servito a molto... salvo forse in caso di emergenza. Tastò l'orlo del ventilatore: metallo ruvido e tagliente. L'armacollo, pensò. Lo tirò fuori di tasca, e lo arrotolò formando un tampone per le sue mani. Utilizzando questo tampone, si sollevò attraverso l'orlo del ventilatore. Il tampone scivolò, e Dasein sentì il metallo mordergli lo stomaco. Si afferrò all'orlo e oscillò verso l'interno. Il metallo gli strappò i bottoni della camicia. Sentì il rumore che fecero cadendo in qualche punto più sotto. La sua mano buona trovò una presa sopra un pezzo dell'armacollo; si lasciò cader giù, con il dolore che gli urlava nella spalla ferita, fece oscillare i piedi sul lato opposto, si girò e si appoggiò su entrambi
i lati facendo pressione. I piedi e la schiena ressero. Sfilò il coltello da caccia dal fodero, alzò la mano, e spinse via il ramo dell'albero. Il filtro e il cappuccio ricaddero giù con un fragore che doveva essere stato udibile per un miglio intorno. Dasein aspettò, gli orecchi tesi. Silenzio. Lentamente, cominciò a scendere, centimetro dopo centimetro. Dopo un po' i suoi piedi incontrarono la curva. Si raddrizzò, usò la torcia. Il condotto di ventilazione s'inclinava all'indietro sotto la collina con un dolce pendio di circa una ventina di gradi. C'era qualcosa di morbido sotto il suo piede sinistro. La luce gli rivelò che era l'armacollo. Lo prese su. Il davanti della camicia gli si era appiccicato alla pelle. Dasein vi puntò sopra la luce, e vide una macchia rossa, umida: una sezione della pelle raschiata via dal labbro del ventilatore. Il dolore era quello di un graffio insignificante, se confrontato alla spalla. Sono in un pasticcio, pensò. Cosa diavolo sto facendo in questo posto? La risposta era lì nella sua mente, chiara ed inquietante. Si trovava là dentro perché era stato manovrato così da trovarsi in un passaggio a senso unico dritto e stretto come un condotto di ventilazione. Selador e i suoi amici formavano un lato del passaggio; Jenny e i santarogani suoi compaesani costituivano l'altro lato. E lui si trovava qui. Dasein sollevò l'armacollo. Era lacerato ma ancora utilizzabile. Ne strinse un'estremità fra i denti e riuscì a ridargli una parvenza della sua precedente posizione. Adesso c'era soltanto una direzione da seguire. Si lasciò cadere sui ginocchi e cominciò a strisciare lungo il condotto di ventilazione usando di tanto in tanto la torcia per sondare il buio. L'odore di Jaspers riempiva quello spazio angusto. Qui, l'odore era una pungente essenza di funghi. Dasein ebbe la sensazione ben precisa che gli schiarisse la testa. Il condotto continuava, interminabile... Dasein lo percorreva un passo per volta. Il condotto s'incurvava gradualmente verso quella che gli parve la direzione sud, e l'inclinazione stava diventando più ripida. Una volta scivolò e slittò giù di cinque o sei metri, tagliandosi la mano sinistra su un bullone. Non ne era sicuro, ma gli parve che il rumore del ventilatore stesse diventando più intenso. Il condotto curvò ancora una volta... e poi ancora. Avvolto da quell'angusta oscurità, Dasein finì col perdere qualunque senso dell'orientamento.
Perché mai avevano costruito quel ventilatore con tante curve? si chiese. Avevano seguito una faglia naturale della roccia? Pareva probabile. Il suo piede sinistro incontrò l'orlo d'un vuoto. Dasein si fermò, usò la torca elettrica. Il suo debole chiarore illuminò una piatta parete metallica a quasi due metri di distanza e un quadrato d'ombra sotto di essa. Rivolse la luce verso il basso. Un'apertura simile a una scatola profonda circa un metro e mezzo con un massiccio filtro su un lato comparve ai suoi occhi. Il rumore del ventilatore proveniva da qualche parte dietro il filtro e non c'era dubbio che qui fosse più forte. Facendo pressione sullo schermo con una mano, Dasein si calò dentro la scatola. Rimase lì un momento ad esaminare il luogo in cui si trovava. La parete davanti al filtro appariva diversa dalle altre. In essa c'erano sei bulloni dalla testa rotonda trattenuti da rondelle metalliche flangiate come se fossero stati concepiti per rimanere in quella posizione mentre i dadi dei bulloni venivano stretti sul lato opposto. Dasein fece leva sotto una delle rondelle con il coltello, girò il bullone. Questo si mosse con facilità, troppa facilità. Lo tirò, e lo girò di nuovo. Questa volta gli ci volle uno sforzo maggiore, e venne ricompensato dal fatto che il bullone gli girò all'incontrano nella mano. Il dado cadde dalla parte opposta su una superficie che, a giudicare dal rumore, era di legno. Aspettò per sentire se c'era una reazione a quel tonfo. Niente. Dasein applicò l'occhio al foro del bullone, e si trovò a sbirciare su un'arcana penombra rossa. A mano a mano che il suo occhio si abituava, distinse la sezione d'un filtro massiccio sul lato opposto al suo. Più oltre, erano ammucchiati dei pacchi. Si ritrasse. Be', Nis gli aveva detto che quella era una caverna usata come deposito. Dasein si dette da fare con gli altri bulloni. Lasciò al suo posto il bullone che si trovava all'angolo destro in alto, piegò il metallo verso l'esterno e lo spinse da parte. Immediatamente sotto di lui c'era una passerella di legno con sopra tre dadi alettati. Scivolò fuori sulla passerella e prese su i dadi. Era ovvio che gli altri dadi dovevano essere caduti tra le fessure delle tavole che formavano la passerella. Si guardò intorno, studiando con cura quello che vedeva, assimilando le implicazioni di quel luogo. Era una caverna trogloditica illuminata da una fioca luce rossa. La luce s'irradiava da globi che si trovavano sopra e sotto la passerella, proiettando delle ombre enormi su una parete rocciosa dietro al pannello del ventilato-
re e illuminando file e file di scomparti a gabbia ammucchiati gli uni sugli altri. Le gabbie erano piene di pacchi e ricordavano a Dasein delle celle frigorifere pubbliche, e nient'altro. Il ricco odore umido dello Jaspers era tutt'intorno a lui. Un cartello alla sua destra, in fondo alla passerella, contrassegnava l'area come «Reparto 21, D-1 a J-5». Dasein riportò la sua attenzione sul ventilatore, riavvitò tre dei bulloni forzando la piastra così che tornasse al suo posto. Rimaneva una piegatura del metallo là dove l'aveva piegato, ma pensò che sarebbe sfuggita ad un'ispezione casuale. Guardò nelle due direzioni della passerella. Dove avrebbe trovato uno di quegli scomparti da poter aprire, per esaminarne il contenuto? Si avvicinò ad uno di quelli sul lato opposto rispetto alla piastra del ventilatore, cercò una porta. Sarebbe riuscito a trovare uno scomparto lasciato aperto da un santarogano distratto... sempre che fosse riuscito a trovare la porta? In apparenza il primo scomparto che ispezionò non aveva nessuna porta. La mancanza di una porta riempì Dasein d'inquietudine. Doveva esserci una porta! Fece un passo indietro, studiò la linea degli scomparti, e cacciò un rantolo quando vide la risposta. Il davanti degli scomparti scorreva su un lato dentro a delle guide di legno... e non c'erano serrature. Dei semplici paletti a mò di chiavistello li chiudevano. Dasein aprì il davanti dello scomparto, tirò fuori una piccola scatola di cartone. L'etichetta diceva: «Mele selvatiche aromatizzate della zia Beren. Es. Aprile '55». Rimise la scatola al suo posto, tirò fuori un pacchetto a forma di salame. Questa etichetta diceva: «Limburger fiammingo esposto agli inizi del 1929». Dasein tornò a metter giù il limburger e chiuse lo scomparto. Esposto? Dasein procedette con metodo lungo la fila della Sezione 21, esaminando uno o due pacchi in ciascuno scomparto. La maggior parte delle volte stava scritto «Es» con una data. I pacchetti più vecchi lo mettevano per esteso. Esposto. Dasein sentì la mente che gli partiva al galoppo. Esposto. Esposto a cosa? Come? Un rumore di passi sulla passerella più in basso, sotto di lui, lo fece girare di scatto. Tutti i suoi muscoli si tesero. Sentì la porta di uno scomparto
che si apriva scorrendo. Delle carte frusciarono. Con passo felpato Dasein si allontanò da quel rumore procedendo lungo la passerella. Passò davanti a dei gradini, alcuni conducevano in alto, altri in basso. Esitò. Non poteva essere certo se stesse scendendo più in profondità nel complesso della caverna, oppure se ne stesse uscendo. C'era un'altra passerella sopra di lui, e più sopra un soffitto roccioso a stento visibile. Sotto di lui parevano esserci almeno tre file di passerelle. Scelse i gradini che salivano, sollevò lentamente la testa sopra il livello della passerella successiva, guardò su entrambi i lati. Vuota. Questo livello era simile a quello sottostante salvo per il soffitto roccioso. La roccia pareva una specie di granito, ma con delle venature d'un marrone oleoso. Muovendosi quanto più silenziosamente possibile, Dasein si arrampicò fuori sulla passerella, poi tornò in direzione del ventilatore tendendo l'orecchio per ascoltare i movimenti della persona al livello inferiore. Là sotto qualcuno stava fischiettando, un motivetto idiota interminabilmente ripetuto. Dasein premette la schiena contro una gabbia, sbirciò giù attraverso le fessure della passerella. Udì un raschiare di legno contro legno. Il fischiettare si allontanò alla sua sinistra, spegnendosi nel silenzio. Allora, con tutta la probabilità la via d'uscita era in quella direzione. Aveva sentito la persona là sotto, ma non era stato capace di vederla: un fatto che poteva operare nei due sensi. Mettendo giù i piedi con cautela, Dasein si mosse lungo la passerella. Arrivò a un incrocio, sbirciò in entrambe le direzioni. Vuoto. Sulla sinistra la penombra pareva un po' più intensa. Dasein si rese conto che fino a quel momento non aveva sentito la necessità di preoccuparsi di come sarebbe uscito dal complesso della caverna. Si era concentrato troppo sul tentativo di risolvere il mistero. Ma il mistero rimaneva... e lui si trovava là. Non posso uscirmene semplicemente fuori, pensò. Oppure sì? Cosa potrebbero farmi? La spalla che gli pulsava, il ricordo del becco a gas, la consapevolezza che i due precedenti investigatori erano morti in quella valle: queste erano risposte sufficienti alla domanda, pensò. Il legno sbatté sul legno da qualche parte in basso davanti a lui. Un rumore di passi echeggiò sopra una passerella: quanto meno due paia di piedi, forse di più. Il rumore di passi in corsa si fermò quasi direttamente sotto
di lui. Si udì una conversazione a bassa voce per la maggior parte inintelligibile: parevano istruzioni. Dasein riconobbe soltanto le parole: — ... indietro... — — ... via... — e una terza parola che lo indusse a muoversi di corsa con passi felpati lungo il passaggio laterale fiocamente illuminato alla sua sinistra. — ... ventilatore... Un uomo sotto di lui aveva detto «ventilatore» in tono secco e distinto. Il rumore dei piedi riprese, estendendosi lungo le passerelle. Disperato, Dasein cercò un posto, davanti a sé, dove nascondersi. Da qualche parte là sotto c'era un ronzio di macchinari. La passerella girò a sinistra descrivendo un angolo di circa quindici gradi, e Dasein vide che le pareti della caverna convergevano: meno file sotto, e scomparti singoli su ciascun lato. Dasein si rese conto di essersi cacciato in un passaggio cieco. Comunque, c'era il rumore di macchinari davanti a lui. La sua passerella terminava in una serie di gradini di legno che scendevano in basso. Non aveva scelta; sentiva il rumore di qualcuno che lo inseguiva di corsa. Dasein scese. La scala divenne un corridoio di roccia, nessuno scomparto, soltanto la caverna. C'era una porta con una feritoia, sulla destra. Dall'interno giungeva l'intenso rumore d'un motore elettrico. Il suo inseguitore era in cima ai gradini sopra di lui. Dasein aprì la porta, scivolò dentro e la richiuse. Si trovò in una cavità rettangolare lunga circa quindici metri, larga sei, e alta cinque. Una fila di grossi motori elettrici era allineata lungo la parete sinistra, tutti si estendevano dentro rotonde gole metalliche dove le lame dei ventilatori offuscavano l'aria. La parete opposta era un unico, gigantesco filtro metallico; Dasein poteva sentire l'aria che scorreva fuori da esso verso i ventilatori. Contro una parete, fin quasi al soffitto, erano accatastati scatoloni di cartone, sacchi e cassette di legno. C'era uno spazio fra la sommità della catasta e il soffitto, e lassù pareva facesse più buio. Dasein si arrampicò su per la catasta, strisciò lungo di essa e quasi cadde dentro una cavità venuta a crearsi fra le scatole e i sacchi vicino all'estremità più lontana. Scivolò dentro il foro, si ritrovò su quelle che parevano coperte. Le sue mani incontrarono qualcosa di metallico nel quale le sue dita annaspanti riconobbero una torcia elettrica. La porta con la feritoia venne spalancata di colpo. Un rumore di piedi
echeggiò nella stanza. Qualcuno si arrampicò all'estremità opposta della catasta. La voce di una donna disse: — Non c'è niente qua sopra. Sentì il rumore di qualcuno che si lasciava cadere con leggerezza sul pavimento. La voce della donna aveva qualcosa di familiare. Dasein era pronto a giurare di averla già sentita prima. Un uomo disse: — Perché sei corsa da questa parte? Hai sentito qualcosa? — Mi era parso, ma non ne ero sicura — rispose la donna. — Sei sicura che non ci sia niente, lassù in cima? — Guarda tu stesso. — Maledizione, vorrei che potessimo usare delle vere luci qui dentro. — Adesso non metterti a fare qualche sciocchezza. — Non preoccuparti. Dannazione a quella Jenny, comunque. Impegolarsi con un forestiero! — Non prendertela con Jenny. Lei sa cosa sta facendo. — Immagino di sì, ma di certo ci crea un sacco di stupido lavoro in più, e sai cosa potrebbe succedere se non lo troviamo al più presto. — Allora cerchiamo di fare presto. Uscirono, chiusero la porta. Dasein giacque là in silenzio, assimilando il significato delle frasi che aveva appena udito. Jenny sapeva quello che stava facendo, non è vero? Cosa sarebbe successo se non lo avessero trovato? Gli dava una buona sensazione potersi allungare su quelle coperte. La sua spalla era una costante pulsazione di dolore. Sollevò la torcia elettrica che aveva trovato là in mezzo, premette il pulsante. La torcia produsse uno smorto bagliore rosso. La luce gli rivelò un piccolo nido angusto: delle coperte, un cuscino, una borraccia mezza piena d'acqua. Ne trangugiò qualche sorso con ingordigia, la scoprì impregnata di Jaspers. Immaginò che niente nella caverna potesse sfuggire a quel sapore. Un brivido s'impadronì dei suoi muscoli. Il tappo della borraccia sbatté quando lo rimise al suo posto. Quando il tremito gli fu passato, Dasein rimase là a fissare la borraccia nella fioca luce rossa. Niente nella caverna sfuggiva all'aroma dello Jaspers! Ecco cos'era! Esposto! Qualcosa che poteva esistere in quella caverna, una muffa o un fungo o qualcosa collegato ai funghi o ai luoghi oscuri, qualcosa che non poteva viaggiare... Uno Jaspers chissaché che invadeva qualunque cosa esposta in
quell'ambiente. Ma per quale motivo era così importante tenere segreto questo fatto? Perché mai i cani e le guardie? Sentì la porta con la feritoia che tornava ad aprirsi, si richiudeva. Spense la torcia rossa. Qualcuno attraversò di corsa e con passo leggero il pavimento di roccia fino a un punto direttamente sotto di lui. — Gilbert Dasein! — gli sibilò una voce. Dasein s'irrigidì. — Sono Willa Burdeaux — sibilò ancora la voce. — Sono Willa, l'amica di Jenny. So che sei lassù, nel posto che Cal ha creato per noi. Adesso, ascolta. Arnulf tornerà subito dall'estremità alta, e io dovrò uscire di qui prima che lo faccia. Non hai molto tempo. C'è troppo Jaspers, qua dentro, per qualcuno che non c'è abituato. Lo stai respirando e ti sta andando dentro i pori e tutto il resto. Cosa diavolo? pensò Dasein. Strisciò fuori dal nido, si sporse e fissò, in basso, l'aspro volto di Willa Burdeaux. — Perché non ne posso prendere troppo? — chiese. — Jenny non ti ha spiegato niente? — lei bisbigliò. — Be', adesso non c'è tempo. Devi uscire di qui. Hai un orologio? — Sì, ma... — Non c'è tempo per spiegarlo: ascolta e basta. Dammi quindici minuti per allontanare Arnulf. È talmente presuntuoso. Fra quindici minuti uscirai da questa stanza, ma invece di salire scenderai. Prendi il primo incrocio alla tua sinistra, e dopo tienti sulla destra. È facile da ricordare. Non svoltare mai a sinistra. Devi arrivare alla rampa che porta fuori dalla Sezione 2-G. Ho lasciato aperta la serratura della porta della rampa. Chiudila dietro di te. Saranno circa venti passi in linea retta davanti a quella porta fino a un cancello di emergenza. Il cancello non è chiuso a chiave. Esci fuori e chiudilo dietro di te. La Locanda si trova sul lato opposto della strada. Dovresti essere in grado di fare tutto questo da solo. — A quanto pare hai avuto molto da fare. — Ero in ufficio quando hanno suonato l'allarme. Adesso mettiti giù, non farti vedere, e fai come ti ho detto. Dasein si rincantucciò nel suo nido. Dopo un po', sentì la porta che si apriva e si chiudeva. Guardò il suo orologio: mancavano cinque minuti alle tre del mattino. Dov'era finito il tempo?
Poteva credere a Willa Burdeaux? si chiese. C'era stato qualcosa in quella faccia nera da folletto, una intensità... Dasein pensò agli scomparti pieni di cibo prezioso, tutti aperti. Perché mai quella prova d'una onestà basilare avrebbe dovuto allarmarlo? Forse non si trattava di onestà. Anche la paura poteva controllare il comportamento. Poteva credere a Willa? Aveva una scelta? Jenny sapeva quello che stava facendo. Cos'è che sapeva? La sua mente si sentiva limpida e perfettamente oliata, e lavorava a un ritmo furioso. Qual era il pericolo dell'esposizione? Pensò alla fila di operai dagli occhi smorti che aveva visto lassù nella Cooperativa. Era questo che accadeva? Dasein represse un tremito improvviso. Dieci minuti alle tre, il momento della decisione arrivò più in fretta di quanto lui avesse voluto. Non aveva altra scelta, e lo sapeva. La spalla gli si era irrigidita, e avvertiva un doloroso bruciore sul petto e sullo stomaco nei punti escoriati. Evitando di gravare sulla spalla, Dasein si calò giù dalla pila di materiale immagazzinato. Come Willa aveva promesso, la porta della rampa non era chiusa a chiave. Uscì fuori nel cortile laterale immerso nell'oscurità, nessuna traccia di guardie, ma intravide luci e movimenti molto in alto sul fianco della collina. Chiudi la porta a chiave, gli aveva detto Willa. Dasein la chiuse, attraversò di corsa il cortile. C'era uno stretto cancello nella rete di cinta. I cardini cigolarono e gli parve che il chiavistello fosse rumoroso in maniera innaturale. C'erano una cerniera e un lucchetto. Chiuse il lucchetto. Uno stretto sentiero correva lungo il reticolato fino alla strada. C'era la Locanda dall'altra parte della strada: buia, ma invitante. Una fioca luce gialla filtrava attraverso le doppie porte. Usando la luce come un faro, Dasein percorse zoppicando il sentiero e attraversò la strada fino alla Locanda. L'atrio era vuoto, la maggior parte delle luci erano spente. Dalla stanza del centralino dietro al banco del ricevimento giungeva un sonoro russare. Dasein attraversò in silenzio l'atrio, salì le scale e percorse il corridoio fino alla sua stanza. La chiave: l'aveva consegnata al portiere, oppure l'aveva lasciata nel furgone? No... ce l'aveva in tasca. Aprì la porta senza far rumore, entrò nell'o-
scurità della sua stanza. Aveva passato soltanto una notte in quella stanza, ma d'un tratto era per lui la salvezza. Il furgone! Si trovava ancora lassù sulla strada per Porterville. Andasse pure al diavolo. L'indomani si sarebbe fatto dare un passaggio e l'avrebbe portato giù. Quella Willa Burdeaux! Per quale motivi aveva fatto questo? Dasein cominciò a sfilarsi gli indumenti. Non voleva nulla di più di una doccia calda e di un letto. Svestirsi al buio si rivelò un lavoro lento, ma sapeva che la presenza di una luce avrebbe potuto dire a qualcuno a che ora lui era tornato. Che differenza fa? si chiese. I suoi indumenti, lacerati, macchiati di terra, che puzzavano ancora dell'odore della caverna, erano una prova sufficiente di dov'era stato e di quello che aveva fatto. D'un tratto sentì che non avrebbe più potuto ficcare il naso in giro. Arrabbiato con se stesso accese la luce. Direttamente davanti a lui, sul comodino accanto al letto, c'era una bottiglia di birra con un biglietto attaccato sopra. Dasein prese su il biglietto e lo lesse: «Non è molto, ma è tutto quello che sono riuscita ad avere. Ne avrai bisogno domattina. Chiamerò Jenny e le dirò che stai bene. Willa». Dasein prese su la bottiglia, guardò l'etichetta. C'era un timbro azzurro su di essa: «Esposta gennaio 1959». CAPITOLO QUINTO Un battito forte e costante invase il sogno di Dasein. Gli pareva di essere intrappolato all'interno di un gigantesco tamburo. Il riverbero gli martellava il cervello. Ciascun rullo di tamburo divenne una trafittura di dolore lungo le sue tempie, gli penetrava nelle spalle, gli attraversava lo stomaco. Il tamburo era lui! Ecco di cosa si trattava! Aveva le labbra secche. La sete sembrava spalmargli una crostosità polverosa nella gola. La sua lingua era spessa e indistinta. Mio Dio: sarebbe mai finito quel battito? Si risvegliò con la sensazione di essere stato intrappolato nella caricatura di un doposbronza. Le coperte erano attorcigliate intorno al suo corpo, immobilizzandogli la spalla ferita. Si sentiva meglio alla spalla, e quello era un sollievo. Ma doveva far qualcosa per la sua testa e quel folle battito. Il suo braccio libero era intorpidito. Gli formicolò dolorosamente quan-
do cercò di muoverlo. La luce del sole filtrava attraverso una lacerazione della tenda dell'unica finestra della stanza. Un raggio sottile messo in risalto dalle particelle di polvere attraversò la stanza come una lancia. Lo stordì. Gli fece male agli occhi. Quel dannato battito! — Ehi! Apra la porta! Era una voce maschile da fuori. Dasein si accorse di conoscere quella voce. Marden, il capitano della Stradale. Cosa ci faceva lì, a quell'ora? Dasein sollevò il proprio orologio, lo guardò: le dieci e venticinque. Il martellio ricominciò. — Un momento! — gridò Dasein. La sua stessa voce gli trasmise ondate di dolore attraverso la testa. Per fortuna il martellio cessò. Dasein dette in un rantolo di sollievo, si srotolò fuori dalle coperte e si rizzò a sedere. Le pareti della stanza cominciarono a girargli intorno come impazzite. Per l'amor del cielo! pensò. Ho sentito parlare di dopo-sbronza, ma mai di qualcosa del genere. — Apra la porta, Dasein. Senza dubbio si trattava di Marden. — Sono subito da lei — disse Dasein, con voce raschiante. Cos'ho che non va? si chiese. Sapeva di non aver bevuto altro che le birre, a cena. Non era possibile che fossero la causa del suo attuale malessere. Possibile che si trattasse di una reazione ritardata al gas? La birra. C'era qualcosa a proposito della birra. Con estrema lentezza, così da non slogarsi il collo, Dasein girò la testa in direzione del comodino. Sì, c'era una birra. Willa aveva avuto l'avvedutezza di procurargli un apribottiglie. Stappò la bottiglia e bevette con avidità. Ondate di sollievo si diffusero dal suo stomaco. Mise giù la bottiglia vuota, si alzò in piedi. Per il pelo del cane! pensò. Per il pelo di un cane Jaspers! La bottiglia olezzava di quell'intenso aroma di funghi. — Si sente bene, Dasein? Al diavolo anche lei, signor mio, pensò Dasein. Cercò di fare un passo, ne venne ricompensato da un improvviso attacco di nausea e da un'ondata di vertigine. Si appoggiò alla parete, respirando lentamente e a fondo.
Sto male, pensò. Mi sono preso qualcosa. Aveva l'impressione che la birra avesse cominciato a bollirgli nello stomaco. — Apra questa porta, Dasein! Adesso! Va bene... va bene, pensò Dasein. Andò incespicando alla porta, fece scattare la serratura, indietreggiò di un passo. La porta venne spalancata con violenza, rivelando Al Marden in uniforme, con le mostrine di capitano che gli luccicavano sul collo. Il suo berretto con la visiera era spinto all'indietro rivelando un volto sudato sotto i capelli rossi. — Bene — esclamò. — Siamo stati indaffarati, vero? Entrò nella stanza, chiuse la porta. Teneva qualcosa di rotondo e di cromato nella mano sinistra: un thermos. Cosa diavolo ci faceva lì, Al Marden, a quell'ora, con un thermos in mano? si chiese Dasein. Con una mano contro la parete per non perdere l'equilibrio, Dasein ritornò al letto, si sedette sull'orlo. Marden lo seguì. — Spero che lei valga davvero tutti questi fastidi — dichiarò. Dasein sollevò lo sguardo su quella faccia stretta e cinica, ricordando il breve momento in cui aveva visto il buggy che procedeva lungo la strada, laggiù, con Marden al volante e i cani al fianco. Aveva un portamento da uomo superiore, come se dalla sua altezza scrutasse la stupidità del mondo. Era forse quello l'atteggiamento dei santarogani? Cosa aveva visto, l'uomo della Chrysler? Ce l'ho anch'io un atteggiamento del genere? si chiese Dasein. — Le ho portato un po' di caffè — disse Marden. — Ha l'aria di averne bisogno. — Aprì il thermos, versò il fumante liquido ambrato nella tazzatappo. Un ricco odore di Jaspers esalava dalla tazza con il vapore. L'odore fece tremare Dasein, gli trasmise alla testa un dolore pulsante e vibrante. Il dolore parve sincronizzarsi con un riflesso ondeggiante sulla superficie del caffè, quando Marden glielo presentò. Dasein prese la tazza fra entrambe le mani, la inclinò all'indietro e bevette con avidità famelica. Il caffè produsse la stessa sensazione tranquillizzante della birra. Marden riempì di nuovo la tazza. Dasein la tenne sotto il naso, inspirò il vapore ricco di Jaspers. Il suo mal di testa cominciò a svanire. C'era in lui una voglia bramosa di caffè che, se
ne rese conto, andava al di là del desiderio dovuto a un doposbronza. — Beva — lo sollecitò Marden. Dasein sorseggiò il caffè. Poteva sentire che gli stabilizzava lo stomaco. La sua mente divenne vigile e pronta. Marden non gli appariva più superiore, soltanto divertito. Perché mai un doposbronza avrebbe dovuto essere divertente? — Lo Jaspers. È questo che mi ha causato questi laceranti tormenti, non è vero? — chiese Dasein. Gli restituì la tazza. Marden si concentrò sul riavvitamento del tappo del thermos. — Una persona può prenderne troppo, eh? — insisté Dasein, ricordando quello che Willa Burdeaux aveva detto. — La sovraesposizione troppo prematura può causare un doposbronza — ammise Marden. — Si sentirà bene, una volta che si sarà abituato. — Così, lei è venuto qui per recitare la parte del buon samaritano — commentò Dasein. Poteva sentire l'inizio di un attacco di rabbia. — Abbiamo trovato il suo furgone in alto sulla strada per Porterville, e ci siamo preoccupati per lei — disse Marden. — Non può abbandonare un veicolo in quel modo. — Non l'ho abbandonato. — Oh? E cos'ha fatto? — Sono andato a fare una passeggiata. — E ha causato un sacco di guai — ribatté Marden. — Se voleva fare un giro dentro la Cooperativa e visitare le caverne-magazzino, doveva soltanto chiederlo. — E mi avrebbero fatto fare un bel giro guidato. — Qualunque tipo di giro lei avesse chiesto. — Così, è venuto qui ad arrestarmi. — Arrestarla? Non dica stupidaggini. — Come faceva a sapere dove mi trovavo? Marden guardò il soffitto, scosse la testa. — Siete tutti uguali, voi giovani — replicò. — Quella Willa è troppo maledettamente romantica, ma non riesce a mentire. Immagino che nessuno di noi sappia farlo. — Appuntò il suo sguardo, pieno di cinico divertimento, su Dasein. — Si sente meglio? — Sì. — E poi saremmo noi quelli concitati. — Marden storse le labbra. — A proposito, siamo entrati a forza nel suo furgone e abbiamo fatto contatto con i fili per condurlo fin qui. È parcheggiato qua fuori.
— Magnifico. Grazie. Dasein abbassò lo sguardo sulle proprie mani. La rabbia e la frustrazione si contorcevano in lui. Sapeva che Marden non era il soggetto adatto sul quale sfogare la propria rabbia... né lo era Jenny... e neanche Piaget... Non c'era persona o cosa che si presentasse a lui come soggetto su cui scaricare la sua rabbia, eppure l'emozione rimaneva. Lo faceva tremare. — È sicuro di sentirsi bene? — chiese ancora Marden. — Sì, sto bene! — D'accordo, d'accordo — mormorò Marden. Si voltò, ma non prima che Dasein vedesse un sorriso formarsi sulle sue labbra. Il sorriso, non l'uomo, focalizzò la rabbia di Dasein. Quel sorriso! Incarnava Santaroga: compiaciuto, superiore, circospetto. Balzò in piedi, si avvicinò a grandi passi alla finestra, sollevò con violenza la tenda. L'abbacinante luce del sole su un giardino fiorito, un piccolo ruscello, e più oltre il pianoro con il suo orlo frastagliato che scendeva giù in mezzo alle sequoie. Era una giornata di calore impudente con le querce immobili, inzuppate dal sole, sul fianco delle colline. Contò tre pennacchi di fumo sospesi nell'aria immota; intravide in distanza la traccia serpeggiante di un fiume verdeazzurro. Quella valle dalla bellezza pastorale che era Santaroga... quello era l'oggetto adatto alla sua rabbia, decise Dasein. Sì, Santaroga, quell'isola di gente in mezzo alla selva. S'immaginò la valle come un luogo brulicante dietro la faccia d'una piramide. Santaroga faceva qualcosa alla sua gente. Perdevano la propria identità personale e diventavano maschere per qualcosa che era uguale in tutti loro. Qui, percepiva una univocità così stretta che ogni singolo santarogano diventava l'estensione di ogni altro santarogano. Erano come raggi diffusi da un forellino di spillo su una tenda nera. Cosa c'era dietro la tenda nera? Era là, lo sapeva, che si trovava la vera sostanza contro cui era diretta la sua rabbia. La valle esisteva dentro un incantesimo malefico. I santarogani vi erano stati intrappolati da un sortilegio di magia nera ed erano stati trasmutati in una piramide senza volto. Con questo pensiero, la rabbia di Dasein si dissolse. Si rese conto che anche lui aveva un posto in quella piramide. Era come una piramide ecologica piantata nel cuore della selva, salvo per quel cambiamento gnomico. La base della piramide era stata saldamente incastrata nel suolo, estendendo le radici dentro una caverna umida e rorida.
Poteva cogliere la forma del suo problema. C'era una cosa che distingueva quella valle: Jaspers. Faceva tornar lì i santarogani, ineluttabilmente, come se fossero dei drogati. Pensò alla propria famelica reazione. Era la sostanza della caverna, la cosa che i pori bevevano e i polmoni inalavano. Marden si mosse nella stanza, dietro di lui. Dasein si voltò, e lo fissò. I santarogani diventavano estensioni di quella caverna e di quella sostanza. C'era un effetto-droga all'opera in questa valle. In un certo qual modo, era una materia simile alla dietilammide dell'acido lisergico: l'LSD. Come funzionava? si chiese. Cambiava l'equilibrio della serotonina? Dasein sentì che la sua mente stava lavorando con incredibile chiarezza, vagliando ogni possibilità, stabilendo dei percorsi da indagare. — Se adesso si sente meglio, io me ne vado — disse Marden. — Prima che le venga qualche altra idea balzana di compiere escursioni notturne, ce lo faccia sapere, eh? — Be'... certamente — rispose Dasein. Per qualche ragione, questo provocò un accesso di risate in Marden. Quando uscì dalla stanza, stava ancora ridendo. — Vai al diavolo, sapientone d'un santarogano! — borbottò Dasein. Tornò alla finestra. Vide che l'obiettività sarebbe stata un problema. Non aveva nessuna cavia a disposizione, salvo se stesso. Qual era l'effetto dello Jaspers su di lui? Un'impressione di accentuata consapevolezza? Poteva trattarsi davvero di una consapevolezza accentuata, sul modello dell'azione dell'LSD? Ciò avrebbe richiesto un'attenta valutazione. Qual era l'origine dei sintomi della mattina dopo? La privazione? Cominciò a concentrarsi sul modello santarogano della personalità, la prontezza, gli improvvisi manierismi, l'apparente onestà. Se la consapevolezza veniva davvero accentuata, ciò poteva spiegare quella franca reclamizzazione? Che cosa si poteva essere, se non francamente onesti, con un essere umano dalla mente completamente vigile e pronta? I percorsi lungo i quali condurre l'attacco si aprivano tutt'intorno a lui. Le barriere crollavano come muri di sabbia davanti alle ondate della sua nuova consapevolezza, ma i panorami esposti contenevano i loro misteri. Jenny. Ancora una volta Dasein ricordò come fosse stata esclusa, quasi subito,
dai tentativi fatti all'università di valutare gli effetti dell'LSD. Nessuna reazione apparente. Quelli che conducevano il test avrebbero voluto analizzare a fondo questo fenomeno, ma Jenny si era rifiutata. Perché mai? L'avevano lasciata perdere, com'era ovvio, e classificata come una «curiosa anomalia». La serie d'esperimenti con l'LSD era proseguita, all'università, fino alla sua fine naturale nel fiasco causato dalla pubblicità. Jenny. Dasein andò sotto la doccia, canticchiando fra sé, la mente impegnata. La spalla era migliorata in modo straordinario malgrado il modo in cui l'aveva maltrattata durante la notte... o forse a causa di questo: l'esercizio. Chiamerò Jenny, pensò, mentre si vestiva. Forse potremo incontrarci per pranzo. La prospettiva di vedere Jenny lo riempì d'una stupefacente delizia. Percepì la sua protettività verso di lei, la mutua dipendenza emotiva. Amore, ecco cos'era. Era una sensazione che non si poteva sottoporre ad analisi. Poteva soltanto venir vissuta. Dasein si calmò. Il suo amore per Jenny esigeva che lui la salvasse dall'incantesimo di Santaroga. Che lei lo sapesse o no, che lo volesse o no, lui doveva aiutarla. Un vivace bussare risuonò due volte alla porta. — Entri pure — gridò. Jenny sgusciò dentro, chiuse la porta. Indossava un vestito bianco, una sciarpa rossa, scarpe rosse, e stringeva una borsetta rossa. L'insieme faceva apparire la sua pelle scura ed esotica. Si fermò un attimo subito oltre la porta, la mano appoggiata leggermente sulla maniglia, gli occhi sgranati e scrutatori. — Jen! — esclamò lui. Con un singolo, rapido balzo, Jenny attraversò la stanza e si precipitò fra le sue braccia stringendolo. Le labbra di lei erano calde e morbide sulle sue. Intorno a lei aleggiava un odore pulito, aromatico. Jenny si tirò indietro e sollevò lo sguardo su di lui. — Oh, tesoro, ho avuto tanta paura... Continuavo a immaginare che saresti precipitato in un burrone da qualche parte, vedevo la carcassa della tua macchina con te imprigionato dentro. Poi Willa mi ha telefonato. Perché hai fatto una cosa simile? Lui le appoggiò un dito sulla punta del naso, e pigiò con delicatezza. — Sono perfettamente in grado di badare a me stesso. — Non saprei. Ti senti bene, adesso? Ho incontrato Al nell'atrio. Ha det-
to che ti ha portato un po' di caffè Jaspers. — Ho avuto il mio rimedio omeopatico. — Il tuo... omeo... Oh, ma perché hai... — Niente ma. Mi dispiace averti causato delle preoccupazioni, ma ho un lavoro da fare. — Oh, quello. — Farò il lavoro per il quale sono pagato. — Hai dato la tua parola, immagino. — Quella è soltanto una parte. — Allora dovranno ottenere qualcosa da te. — Più di qualcosa, Jenny, amor mio. Lei sorrise. — Mi piace, quando mi chiami amor mio. — Smettila di cambiare argomento. — Ma è un argomento così simpatico. — D'accordo. Un'altra volta però, eh? — Che ne dici di stanotte? — Sei una ragazza all'avanguardia, vero? — So quello che voglio. Dasein si trovò a studiarla mentre la stringeva fra le sue braccia. Cosa aveva detto Willa? — Jenny sa quello che fa. — Qualunque cosa fosse, non avrebbe mai potuto dubitare dell'amore di lei per lui. Era là, nei suoi occhi e nella sua voce, una radiosità e una vivacità sulla quale non potevano esserci equivoci. Comunque, c'era la certezza che due uomini erano morti durante quell'indagine: incidenti! Ma neppure il dolore alla sua spalla che stava scomparendo, e le sue implicazioni, potevano esser messi in dubbio. — Sei così silenzioso tutt'a un tratto — disse Jenny, sollevando lo sguardo su di lui. Dasein tirò un profondo sospiro. — Puoi farmi avere un po' di Jaspers? — Oh, quasi me ne dimenticavo — lei esclamò. Si staccò da lui, frugò nella sua borsetta. — Ti ho portato un po' di formaggio e qualche cracker di frumento per il tuo pranzo di oggi. Vengono dall'armadio dello zio Larry. So che ne avresti avuto bisogno perché... — S'interruppe, poi tirò fuori un sacchetto dalla borsetta. — Gil! — fece. — Hai detto Jaspers. — C'era un'espressione preoccupata nei suoi occhi. — Perché no? — disse lui. Prese il sacchetto dalla sue mani. Jenny pareva riluttante a staccarsene, le sue dita strisciarono sulla carta mentre lui glielo toglieva.
— Non voglio ingannarti, tesoro — lei disse. — Ingannarmi? In che modo? Jenny deglutì, ed i suoi occhi si riempirono di lacrime a stento trattenute. — Te ne abbiamo data una dose terribilmente forte, ieri sera, e poi sei sceso giù in quella stupida caverna. Ti sentivi molto male, questa mattina? — Avevo proprio un bel mal di testa, se è questo che intedi dire. — Riesco appena a ricordare com'era, quand'ero bambina — lei disse. — Quando cresci, il tuo corpo cambia, ci sono dei profondi cambiamenti metabolici. All'università, dove presi parte a quel pazzesco esperimento con l'LSD, ebbi mal di testa, la mattina dopo. — Gli fece scorrere un dito sulla fronte. — Povero caro, sarei venuta qui questa mattina, ma lo zio Larry aveva bisogno di me in clinica. Comunque, ha detto che non correvi nessun pericolo. Willa ti ha tirato fuori in tempo. — E che cosa sarebbe successo, se Willa non mi avesse tirato fuori? Gli occhi di Jenny si rannuvolarono, come per un improvviso dolore. — Cosa? — insistette lui. — Non devi pensarci. — A che cosa? — Comunque, a te non può succedere. Lo zio Larry dice che sei il tipo sbagliato. — Sbagliato per che cosa? Per diventare uno zombie come quelli che ho visto nella Cooperativa? — Zombie? Di cosa stai parlando? Dasein descrisse a Jenny quello che aveva intravisto attraverso la porta. — Oh... loro. — Jenny distolse lo sguardo da lui, tutt'a un tratto il suo atteggiamento si fece remoto. — Gilbert, hai intenzione di includerli nel tuo rapporto? — Forse. — Non devi. — Perché no? Chi sono? Cosa sono? — Noi ci prendiamo cura della nostra gente — lei replicò. — Sono membri utili della comunità. — Ma non del tutto presenti. — Esatto. — Jenny sollevò lo sguardo su di lui con feroce intensità. — Se lo stato dovesse prenderli in consegna, verrebbero trasferiti fuori della valle, quanto meno la maggior parte di loro. E questo può essere molto brutto per un santarogano, Gilbert. Devi credermi. — Ti credo.
— Sapevo che l'avresti fatto. — Quella gente... sono i fallimenti, eh? Quelli che Jaspers ha rovinato. — Gilbert! — Jenny esclamò. Poi... — Non è quello che pensi. Jaspers è... qualcosa di meraviglioso. Noi lo chiamiamo il «Combustibile della Consapevolezza». Ti apre gli occhi e le orecchie, attiva la tua mente... — Jenny s'interruppe e gli sorrise. — Ma tu lo sai già. — So quello che sembra essere — replicò Dasein. Lanciò un'occhiata al sacchetto che teneva in mano. Cosa c'era là dentro? Era un dono paradisiaco per tutta l'umanità, oppure qualcosa uscito dall'inferno? Era l'incantesimo malefico che si era immaginato, oppure la libertà suprema? — Sì, è meraviglioso — esclamò Jenny, — e ormai lo sai anche tu. — Allora, perché mai non vi mettete tutti a gridarlo dalla cima dei tetti? — lui volle sapere. — Gil! — Lei lo fissò con espressione accusatrice. D'un tratto Dasein pensò a quale sarebbe stata la reazione di Meyer Davidson... Davidson e le sue coorti, il giovane dirigente zelante, e gli altri più anziani, dagli occhi di ghiaccio. Ciò che lui in quel momento reggeva lì nella mano era il loro nemico. Per quegli uomini nei loro abiti scuri stranamente uguali, con i loro occhi gelidi che soppesavano e liquidavano ogni cosa, il popolo di quella valle era un nemico da sconfiggere. Mentre ci rifletteva, Dasein si rese conto che tutti i clienti erano «Il Nemico» per quegli uomini. Davidson e i suoi erano contrapposti gli uni agli altri, certo, erano in concorrenza, ma fra loro rivelavano di essere contrapposti soprattutto alle masse che esistevano al di là della loro cerchia interna di operazioni finanziarie che essi conoscevano benissimo. L'allineamento traspariva in ogni cosa che facevano, nelle loro parole come pure nelle loro azioni. Parlavano di «livello di agguanta-confezione» e di «spazi per l'esposizione dei contenitori», di «limiti delle gonfiature pubblicitarie» e di «soglia di accettazione». Era un linguaggio «in» simile a quello delle manovre e dei combattimenti militari. Sapevano a quale altezza di scaffale il cliente era più incline a prendere un articolo. Conoscevano la larghezza degli scaffali necessari per certi contenitori. Sapevano quanta aria fritta poteva venir «gonfiata» in una confezione per farla apparire un affare migliore di quanto fosse in realtà. Sapevano fino a che punto un cliente avrebbe accettato un prezzo e la manipolazione di una confezione senza spingerlo dentro lo «schema del rigetto». E noi siamo le loro spie, pensò Dasein. Gli psichiatri e gli psicologi, tut-
ti noi «scienziati sociali», siamo il braccio dello spionaggio. Sentiva le ampie manovre di questi eserciti, la cospirazione per mantenere «Il Nemico» in stato di consapevolezza comatosa, malleabile. Qualunque cosa si facessero l'un l'altro i capi di questi eserciti, conservavano il loro codice interno. Nessuno tradiva la vera guerra. Mai prima di allora Dasein aveva considerato il mondo degli studi di mercato sotto quella luce. Pensò alla brutale onestà della pubblicità che veniva fatta a Santaroga, e accartocciò il collo del sacchetto di carta che stringeva in mano. Che effetto stava avendo quella roba su di lui? Voltò le spalle a Jenny per nascondere un impeto di collera. Lo induceva a immaginare cose folli! Eserciti! Non c'era nessun modo per evitare Jaspers, qui a Santaroga. L'indagine richiedeva che lui non lo evitasse. Devo insinuarmi nella loro mente, ricordò a se stesso. Devo vivere la loro vita, pensare come pensano loro. Allora vide la situazione come dovevano vederla Jenny e i santarogani suoi concittadini. Erano impegnati in una forma di guerriglia. Avevano realizzato un modo di vita che non poteva venir tollerato dall'esterno. Santaroga rappresentava una minaccia troppo grossa per gli oligarchi dell'industria dei quattrini. La sola speranza per Santaroga risiedeva nell'isolamento e nella segretezza. Gridàtelo dalle cime dei tetti, davvero. Non c'era da stupirsi che lei avesse reagito con veemenza per la sorpresa. Dasein si voltò, guardò là Jenny che aspettava con pazienza, immobile, che lui trovasse la sua strada in mezzo al labirinto. Jenny gli rivolse un sorriso incoraggiante, e d'un tratto, attraverso lei, Dasein vide tutti i santarogani. Essi erano gli indiani dei bisonti, gente che aveva bisogno di andare per la propria strada, di vivere e cacciare come diceva loro l'istinto. Il guaio era che vivevano in un mondo che non poteva essere culturalmente neutrale. Quel mondo là fuori avrebbe continuato a cercare di fare in modo che la gente, tutta la gente, fosse dappertutto uguale. A cavalcioni fra due mondi, pensando con la droga e pensando con i ricordi dell'esterno, Dasein provò una profonda tristezza per Jenny. Santaroga poteva venir distrutta, su questo non c'era dubbio. — Sono sicura che lo capisci — dichiarò Jenny. — Jaspers verrebbe equiparato all'LSD, agli stupefacenti — replicò Dasein. — Verrebbe definito l'hashish di Santaroga. La vostra esistenza ver-
rebbe cancellata, distrutta. — Non ho mai dubitato che avresti capito, una volta che fossi stato esposto — lei rispose. Gli venne un'altra volta fra le braccia, si appoggiò contro di lui, abbracciandolo con veemenza. — Mi sono fidata di te, Gil. Sapevo che non potevo sbagliarmi su di te. Dasein non riuscì a trovare nessuna parola per risponderle. Una profonda tristezza lo opprimeva. Esposto. — Dovrai pur sempre fare il tuo rapporto, naturalmente — proseguì lei. — Non risolverebbe niente se tu fallissi. Troverebbero qualcun altro. La cosa comincia a stufarci. — Sì... dovrò fare un rapporto — rispose. — Noi capiamo. La voce di Jenny gli fece provare un brivido. — Noi capiamo. — Quello era il Noi che aveva perquisito la sua valigetta, che lo aveva quasi ucciso... che effettivamente aveva ucciso due uomini. — Perché tremi? — gli chiese Jenny. — Soltanto un brivido — disse lui. Allora pensò alla cosa che aveva sentito in agguato subito al di là della sua consapevolezza, quell'inquieto essere antico che si era levato dentro la sua consapevolezza come il collo di un dinosauro. Era ancora là che lo studiava, aspettando il momento di esprimere un giudizio. — Oggi lavoro soltanto mezza giornata — disse Jenny. — Alcuni dei miei amici hanno organizzato un pic-nic al lago. Vogliono incontrarti. — Jenny si sporse all'indietro e sollevò lo sguardo su di lui. — Voglio anche farti vedere un po' la zona. — Non... non credo di poter nuotare — disse Dasein. — La tua povera spalla — replicò lei. — Lo so. Ma il lago è splendido in questo periodo dell'anno. Questa sera prepareremo un falò. Di quale Noi si tratta, adesso? lui si chiese. — Mi sembra magnifico — disse ad alta voce. E si chiese, mentre rispondeva così, per quale motivo il suo stomaco si annodasse in una congestione di paura. Si disse che non era Jenny quella che lui temeva, non quella donna calda e bella. Però, poteva essere la dea Jenny quella che lui temeva... questo era un pensiero che si era levato nella sua mente, sbeffeggiandolo. Allora Dasein si schernì, pensando che leggeva troppe cose in ogni sfumatura di quella valle e della sua gente. Quella era la malattia dello psicanalista, naturalmente: quella di vedere ogni cosa attraverso la nebbia del
ragionamento. — Riposati un po'. Ti aspetto giù a mezzogiorno — gli disse Jenny. Si allontanò da lui, si avviò verso la porta, giunta là si voltò per fissarlo. — Ti stai comportando in maniera molto strana, Gil — gli disse. — C'è qualcosa che ti preoccupa? La sua voce aveva il peso di un esame, il che riportò Dasein ad una improvvisa vigilanza. Quella non era la Jenny spontanea, preoccupata per l'uomo che amava. Era, invece, un... un osservatore che stava sondando il terreno alla ricerca di qualcosa che poteva essergli personalmente pericoloso. — Niente che il cibo o il riposo non possano curare — rispose Dasein. Cercò di apparire scherzoso, ma seppe di aver fallito. — Ci rivediamo fra poco — lo salutò lei, sempre con quel tono remoto. Dasein seguì con lo sguardo la porta che si chiudeva alle sue spalle. Ebbe la sensazione di aver recitato per uno speciale tipo di telecamera, una telecamera che inquadrava le irrilevanze. Un pensiero senza guinzaglio gli serpeggiò nella mente: ... l'esposizione della personalità, del metodo e dell'indole. Chi vuole esporre la mia personalità, metodo e indole? si chiese Dasein. Sentì che quella era una domanda pericolosa, piena di cariche e controcariche. Il sacchetto del cibo gli pesava tra le mani. Dasein lo fissò, conscio della fame che lo tormentava, e nel medesimo istante conscio anche della minaccia che si trovava dentro quel sacchetto. Lo Jaspers creava un cambiamento irreversibile? Buttò il sacchetto sul letto, andò alla porta, sbirciò fuori nel corridoio: vuoto. Uscì fuori, guardò la lunga parete cieca che nascondeva la stanza della televisione. Gli bastò un attimo per rendersi conto che c'era qualcosa di sbagliato in quella parete. Era come una dislocazione della realtà: una porta occupava uno spazio in quella parete, là dove non c'era stata nessuna porta. Come se fosse manovrato da spaghi come un burattino, Dasein si avvicinò a quella porta, e la fissò. La porta era incorniciata dallo stesso legno consunto e lucidato che incorniciava le altre porte. Ben conservata malgrado l'età, quello era l'effetto. Quella era una porta che si era sempre trovata lì, ecco cosa diceva. La placchetta con il numero era leggermente ammaccata e un po' ossidata agli orli, là dove lo straccio per lucidare delle cameriere non aveva colto nel segno. La maniglia aveva la patina tipica dell'uso
prolungato. Dasein scosse la testa. Fu tentato di provare ad aprire la porta, ma resistette alla tentazione. Scoprì di aver paura al pensiero di ciò che poteva trovarsi al di là di quella porta. La normalità: un letto, un bagno, uno scrittoio, delle sedie, quella sarebbe stata la cosa peggiore di tutte. Il numero sulla targhetta, il 22, lo affascinava. Si gingillò con l'arcana sensazione di averlo visto altre volte... proprio in quel posto. Quella porta era troppo comune. All'improvviso Dasein si voltò e rientrò impetuosamente nella propria stanza, spalancò la finestra. Una sbirciata attraverso le finestre che si aprivano sopra il tetto della veranda avrebbe risolto il mistero. Fece per arrampicarsi fuori, ma si arrestò. Un uomo si trovava sul sentiero bordato di rose al di là di una gigantesca quercia. Dasein riconobbe Winston Burdeaux. Stava pompando della polvere sulle rose servendosi di uno spruzzatore a mano. Mentre Dasein lo fissava, Burdeaux sollevò lo sguardo e gli fece un cenno di saluto. Più tardi, si disse Dasein, Guarderò più tardi. Annuì in risposta a Burdeaux, si ritrasse e tirò la tenda. Così, avevano costruito una porta attraverso quella parete, non è vero? Cosa cercavano di fare? Di distruggere il suo senso della realtà. Il sacchetto sul letto richiamò l'attenzione di Dasein. Lo attirava. Lo spingeva a riattraversare la stanza. Lui lo vedeva come la suprema tentazione. Era qualcosa di più del cibo. In lui c'era una fame che soltanto lo Jaspers poteva soddisfare. D'un tratto a Dasein parve di essere come l'Ulisse di Tennyson, il suo scopo, quello di «lottare, cercare, trovare e non cedere». Tuttavia il pensiero di quello Jaspers nel sacchetto attirò la sua mano. Sentì la carta che si lacerava sotto le sue dita. Formaggio Jaspers. L'allettante aroma si levò da esso. Con una sensazione di spirituale impotenza, Dasein si ritrovò un boccone di formaggio in bocca. Il cibo irradiava una sensazione di calore quando gli scese in gola. Continuò a mangiare, ipnotizzato dalle proprie azioni. Lentamente, si lasciò riaffondare nel letto, appoggiò la testa sul cuscino e si mise a fissare il soffitto. La grana del legno di una trave ondeggiò come il moto del mare, riempiendolo di uno sgomento inqualificato e terrificante. Sentì la propria consapevolezza levarsi come una barriera per opporsi al mondo esterno, e che il mondo esterno era un meccanismo stupido senza nessun sentimento o compassione. La sua identità divenne un raggio di luce sempre più stretto, e avvertì un
enorme flusso d'inconsapevolezza che diventava sempre più grande... più grande... più grande, fino a raggiungere un peso intollerabile. È uno psichedelico, si disse. Non lasciarti andare. Ma adesso non c'era nessun modo di fermare il movimento. La sua consapevolezza, esplodendo in alto e fuori, cavalcando un geyser di rivelazioni sensoriali, lo elevò a uno stato di consapevolezza galleggiante. Adesso non c'era nessuna interiorità, soltanto un'atemporale sensazione dell'essere che esisteva senz'ansia. Dasein si ritrovò a gozzovigliare in quella sensazione. La sua mente cercava. Dove sono i bambini? si chiese. Sperimentò una sconvolgente sensazione rivelatrice nel rendersi conto di non aver visto bambini o scuole nella valle. Dove sono i bambini? Perché mai nessuno degli altri investigatori l'ha fatto notare? Gli altri investigatori sono morti, ricordò. La morte: quello era un pensiero che, fatto strano, non lo spaventava. Gli pareva di essere passato attraverso una decompressione della consapevolezza in una zona al di là di tutte le lotte di potere. La valle, lo Jaspers, erano diventati una condizione del suo essere. La stanza era piena di luce solare che sondava in ogni direzione coni suoi raggi, le foglie della quercia fuori della sua finestra: tutto era bello, innocente, ordinato. L'universo esterno si era tradotto in una parte di se stesso, saggio, compassionevole. Dasein si meravigliò di quella sensazione. L'universo là fuori: era come se lui avesse appena creato quell'universo. Nama-Rupa, pensò. Io sono Nama-Rupa: nome e forma, creatore dell'universo in cui vivo. Il dolore alla spalla ferita occupò solo per qualche istante la sua attenzione alla deriva. Dolore, una breve crisi, qualcosa su cui proiettare i ricordi del piacere. Il dolore svanì. Sentì un rumore di pneumatici sulla ghiaia. Udì un uccello cantare. I suoni erano come un'increspatura sulla sua consapevolezza. Danzavano e scintillavano. Ricordò l'occhiata scrutatrice di Jenny. Quello era un ricordo brutto e sconvolgente che lo fece sussultare all'improvviso, comprimendolo. Scoprì che gli era difficile respirare. Aveva la sensazione di essere stato intrappolato nella storia, ma era un tipo di storia che non aveva mai sperimentato prima, popolata da dee e da creature dai poteri terrificanti. Era una storia che si muoveva a velocità incredibile, che sfidava qualunque preconcetta idea di lentezza. Era come una serie di av-
venimenti che non poteva separare o distinguere. Balenavano attraverso la sua consapevolezza lasciandolo mutato in maniera irrevocabile. Lo Jaspers, pensò. Non posso tornare... a... quello che... ero... prima. Le lacrime gli colarono lungo le guance. Pensò alla maniera in cui la sua valigetta era stata perquisita. Fu scosso da un singhiozzo. Cosa volevano? Dasein si trovò a credere che ci fossero demoni intorno a lui, astuti, che volevano il suo sangue e il suo essere, affamati della sua anima. Farfugliavano appena al di là del cerchio incantato della sua solitaria coscienza. La sensazione, primitiva come una danza di streghe, si rifiutava di lasciarlo. Erano robot, automi con ghignanti facce malleabili e gli occhi simili a fari. Dasein cominciò a tremare, sapeva che il suo respiro si era fatto affannoso, ma era una sensazione remota, qualcosa che accadeva a un estraneo. Con la testa che gli girava, Dasein si sollevò dal letto, si alzò in piedi barcollando, attraversò la stanza incespicando: avanti e indietro... indietro e avanti. Per lui non esisteva nessun nascondiglio. La luce del sole che entrava a fiotti dalle finestre assumeva una forma grottesca, lucertole con facce umane, gnomi argentei, insetti con ali che parevano quadranti di orologi... Si accasciò al suolo, si aggrappò al tappeto. Un disegno rosso intrecciato cacciò fuori degli artigli che cercarono di raggiungerlo. Si ritirò sul letto, vi cadde sopra di traverso. Il soffitto ondulò con onde invertite. Da qualche parte qualcuno suonava un piano: Chopin. D'un tratto Dasein sentì che era lui il piano. I suoni suscitarono un cristallino vibrare in tutto il suo corpo, strappando via la sua angoscia. Un bianco, abbagliante chiarore cominciò a filtrare su di lui. Divenne conscio che i suoi indumenti erano fradici di sudore. I palmi delle sue mani erano scivolosi. Sentiva di aver percorso una lunga distanza attraverso un pericoloso passaggio. Il viaggio gli aveva risucchiato tutte le forze. Ma adesso rivide la stanza con lucida innocenza. Le travi del soffitto erano oggetti da capire, la loro grana rimpiccioliva, diventava alberi... alberelli... semi... alberi. Ogni manufatto che incontrava il suo sguardo per lui si estendeva nel passato e nel futuro. Niente rimaneva statico. Ogni cosa era in movimento e lui faceva parte di quel movimento. Ondate di sonno cominciarono a strisciare fuori dai recessi della sua mente... sempre più alte... alte... alte. Il sonno lo avvolse. Nell'oscurità del suo sonno qualcosa rise e rise e rise e rise...
Dasein si svegliò con la sensazione di aver dormito a lungo, forse un'intera vita. Una risata sgorgò dalla sua gola. Sentì il suono provenire da dentro di lui come se si trattasse di un estraneo e questo lo spaventò. Un'occhiata al suo orologio gli disse che aveva dormito per più di due ore. Ancora una volta la risata dell'estraneo gli solleticò la gola. Si spinse fuori dal letto interrogandosi sulle ragioni della sua debolezza. Comunque la spalla era migliorata, la sofferenza era diventata soltanto un sordo dolore. Qualcuno bussò alla porta. — Sì? — rispose Dasein. — Sono Win Burdeaux, signore. La signorina Jenny mi ha chiesto di ricordarle che sarà qui ad aspettarla fra mezz'ora. — Oh... grazie. — Prego... signore. Spero che abbia fatto un buon pisolino. Dasein rimase a fissare per qualche istante la porta. Come ha fatto a sapere, Burdeaux, che dormivo? Forse russavo. Dal corridoio non arrivò nessun altro suono, ma Dasein seppe che Burdeaux se n'era andato. Soprappensiero, Dasein si tolse gli indumenti spiegazzati, fece una doccia e si cambiò. Si sentiva arrabbiato, frustrato. Lo tenevano sotto osservazione ogni istante. Sapeva che sarebbe stato facilissimo permettere alla sua rabbia di diventare furore. Quello, però, non era il momento per il furore. Si domandò, allora, se non ci fosse una stagione per il furore. Una sensazione di umidità attirò la sua attenzione sulla mano destra. Fu sorpreso nel constatare che stava ancora stringendo uno straccio. Un oggetto innocente con l'orlo ornato da un nastro verde e bianco. Lo scagliò dentro il bagno dove lo straccio atterrò con la forza di uno schiaffo bagnato. Qualcun altro bussò alla sua porta, e Dasein seppe che era Jenny. Fu preso nella morsa della decisione. Attraversò a grandi passi la stanza, spalancò la porta. Lei era là, con una tuta sportiva arancione e una camicetta bianca. Un sorriso le approfondiva la fossetta sulla guancia sinistra. — Sono contenta che tu sia pronto — disse. — Spicciati, altrimenti faremo tardi. Mentre permetteva a Jenny di condurlo fuori e poi giù per le scale, Dasein si chiese se l'immaginazione non gli avesse giocato uno scherzo. Gli pareva di aver colto un fugace istante di preoccupazione, prima che sorri-
desse. Jenny continuò a chiacchierare mentre scendevano le scale, attraversavano l'atrio e uscivano sulla veranda. Erano discorsi a vanvera ai quali non era possibile rispondere. — Ti piacerà il lago in questo periodo dell'anno. Vorrei poterci passare più tempo. Vedo che muovi la spalla con più disinvoltura. Scommetto che va molto meglio. Lo zio Larry vuole che ti fermi più tardi da lui per controllare. Tutta la banda non vede l'ora di conoscerti... eccoli che arrivano. La banda occupava un camion per il trasporto del legname. In cabina Dasein riconobbe la faccia da folletto di Willa Burdeaux. Era seduta accanto a una giovane bionda dal volto piuttosto scosceso con grandi occhi azzurri innocenti. Mentre la guardava, la bionda lentamente ammiccò, in modo deliberato. Almeno una dozzina di coppie erano in piedi dentro il cassone... e c'erano degli strani singoli: un uomo alto, dai capelli castani, con fiammeggianti occhi scuri: Walter Qualcuno, Dasein non riuscì ad afferrare il suo cognome... E un paio di gemelle, giovani, grassocce, con lunghi capelli color sabbia, i volti rotondi: Rachel e Mariella. Jenny fece le presentazioni troppo in fretta perché Dasein riuscisse ad afferrare tutti i nomi, ma gli rimase impresso il fatto che il giovanotto con Willa Burdeaux era il suo fidanzato: Cal Nis. Parecchie mani si protesero ad aiutarlo a salire sul camion, e tirarono Jenny accanto a lui. Dasein si trovò pigiato su una scatola con Jenny rannicchiata addosso. Cominciò ad assimilare l'atmosfera carnevalesca della gente intorno a lui: risate disinibite, battute personali ma bonarie. Il camion si mise in moto rombando. Il vento cominciò a sferzarli. Dasein ebbe un'impressione di alberi che scorrevano via, veloci, chiazze di cielo, movimenti sussultanti... e le onnipresenti risate. Divenne anche conscio che lui e Jenny erano esclusi dalle risate. Si trattava forse di un senso di delicatezza da parte del gruppo nei loro confronti? Volevano forse concedere al forestiero il tempo di acclimatarsi? Cercò di vedere la situazione come avrebbe fatto uno psicologo, ma il suo coinvolgimento personale continuava a interferire. Non c'era nessun modo di mettere a fuoco il suo occhio analitico sui particolari, senza trovare la propria ombra che si proiettava sulla scena. Per coronare il tutto, la sua spalla ferita cominciò a fargli male là dove Jenny la premeva. I capelli di Jenny sbattuti dal vento gli accarezzavano il viso. Ogni sobbalzo del camion gli causava una trafittura alla spalla. Ben presto la situazione cominciò ad assumere le caratteristiche di un
incubo. Jenny si stiracchiò, gli parlò all'orecchio: — Oh, Gil, ho tanto sognato questo giorno, quando saresti stato qui, uno di noi. Uno di noi, pensò Dasein. Sono davvero uno di loro? Walter qualcuno, era ovvio, aveva equivocato il movimento di Jenny verso l'orecchio di Dasein. Agitò la mano e gridò dall'altro lato del camion: — Ehi, niente sbaciucchiamenti prima del tramonto! Ciò causò un breve scoppio di risate da parte del gruppo, ma nessuno spostamento generalizzato della loro attenzione. Continuarono a guardare e a parlare intorno a Dasein e a Jenny. Sbaciucchiamenti. La parola fece girare a pieno regime la mente di Dasein. Era una parola non più di uso comune all'esterno, una parola fuori dal tempo e dal luogo. Ma sulle labbra di quel Walter Qualcuno aveva avuto l'inflessione della familiarità. Era una parola che usavano qui nella valle. Dasein cominciò a vedere Santaroga sotto una nuova luce. Qui erano conservatori nel vero senso della parola. Si tenevano aggrappati al passato, resistevano ai cambiamenti. Modificò questo pensiero: resistevano ad alcuni cambiamenti. Erano un popolo il quale aveva giudicato che alcune cose del passato dovessero venir conservate. Era questo che li faceva estranei. La parola esterno si stava allontanando da loro. La valle era diventata una riserva per delle condizioni di vita che appartenevano ad un'altra epoca. Il camion svoltò lungo un altro percorso che si sdipanava lungo un viale bordato da sicomori e sovrastato dalle loro fronde. Grandi chiazze di foglie che nella forma ricordavano quelle degli aceri proiettavano un'aura verdedorata sul loro mondo. Uno scossone fece sussultare Dasein per il dolore quando Jenny finì per l'ennesima volta contro la sua spalla. Il camion emerse dalle file dei sicomori, passò attraverso una macchia di pini e sbucò su un pianoro erboso che si fondeva con una spiaggia sabbiosa ai bordi di un lago ceruleo. Dasein guardò fuori dalla parte posteriore del camion, aperta, del tutto inconsapevole della cascata di gente che balzava giù sull'erba, ignorando le sollecitazioni di Jenny a scendere. C'era qualcosa in quel lago, un'impressione di familiarità, che l'aveva colpito con una sensazione di bellezza e di minaccia. Una stretta passerella galleggiante si allungava dalla spiaggia fino ad un
pontone e a un trampolino: il legno era scuro ma la luce del sole lo faceva sembrare grigio-argento. C'erano barche da pesca ormeggiate lungo un lato del pontone. Bellezza e minaccia. La sensazione passò, e Dasein si chiese cosa fosse stata. Lui vedeva fantasmi. Concentrava troppo la sua attenzione dentro di sé. — È la spalla che ti fa male? — chiese Jenny. — Mi rimetterò — rispose Dasein. La seguì giù dal camion, desiderando di riuscire a lasciarsi andare, di mettersi a ridere anche lui col resto del gruppo. Gli altri si stavano divertendo: stavano trasportando gli scatoloni fino ad alcuni tavoli posti sotto gli alberi, preparando dei falò dentro anelli di sassi. Qualcuno si addentrò in mezzo agli alberi tornando poco dopo in costume da bagno. Jenny si era aggregata a un gruppo che stava disponendo le colazioni al sacco sopra i tavoli. Poco dopo si unì a quelli che stavano correndo verso l'acqua, sfilandosi il vestito e rivelando sotto ad esso un costume da bagno arancione monopezzo. Era una naiade, con le membra che balenavano abbronzate e agili al sole. Lo salutò con un cenno della mano dal pontone, gridando: — Ci vediamo fra un momento, tesoro! Dasein la guardò tuffarsi nel lago con l'improvvisa sensazione di averla perduta. Provò un'intensa gelosia, immaginando se stesso come un vecchio decrepito, circondato da bambini intenti a giocare, incapace di unirsi a loro e di essere felice in loro compagnia. Guardò il lago e il bosco tutt'intorno. Una brezza soffiava dall'acqua, una brezza che aveva il sapore dell'estate, fragrante d'erba e di aghi di pino sempreverdi. Desiderò d'un tratto un drink, qualsiasi drink con cui brindare a quella brezza e a quella giornata, una magica pozione che riuscisse a farlo diventare parte di quella scena. Lentamente Dasein s'incamminò verso la passerella galleggiante per poi inoltrarsi fuori lungo le tavole. C'erano nuvole sfilacciate nel cielo, e mentre fissava l'acqua, vide quelle nuvole galleggiare sul fondo del lago. Le onde infransero quell'illusione. Jenny nuotò fino a lui e appoggiò i gomiti sulle tavole. Il suo volto, tutto sorridente e gocciolante, non era mai parso più adorabile. — Tesoro, perché non vieni fino al puntone e prendi un po' di sole mentre noi nuotiamo? — gli chiese. — D'accordo — lui rispose. — Posso fare un giro con una di quelle bar-
che. — Vacci piano con quella spalla altrimenti lo dico allo zio Larry — Jenny lo ammonì. Si allontanò con un calcio dalla passerella e si mise a nuotare con indolenza verso il pontone. Dasein la seguì, facendosi strada fra i nuotatori gocciolanti che correvano su e giù lungo la passerella. Gli pareva strana la maniera con cui quella gente lo vedeva ma sembrava non vederlo. Gli facevano largo, ma non lo guardavano mai. Gridavano attraverso di lui, ma senza mai rivolgersi a lui. Andò alla prima barca della fila, slegò la cima d'ormeggio e si preparò a salire a bordo. Jenny stava nuotando a una quindicina di metri più in fuori, un crawl lento e uniforme che la faceva allontanare in diagonale rispetto alla barca. Dasein si alzò in piedi, si mosse per entrare nella barca. Mentre faceva il passo, qualcuno lo spinse nel mezzo della schiena. Il suo piede colpì la falchetta, spingendo via la barca in mezzo all'acqua. Vide che stava per cadere dentro al lago, pensò Oh, dannazione, mi bagnerò tutti i vestiti. La poppa della barca stava girando verso di lui e pensò che poteva tentare di raggiungerla, ma il piede sinistro sul molo scivolò su una chiazza di legno bagnato. Dasein si trovò a girare di lato senza nessun controllo sul suo movimento. L'orlo della barca, visto con la coda dell'occhio, si precipitò verso di lui. Cercò di sollevare il braccio, ma quello era il lato della spalla ferita. Il braccio non volle alzarsi abbastanza in fretta. Vi fu un'esplosione di oscurità nella sua testa. Dasein si sentì affondare in un gelo avviluppante, senza suono, tutto buio... ed invitante. Una parte della sua mente urlò Bellezza! Minaccia! Pensò che si trattava di una strana combinazione. C'era un lontano dolore nei suoi polmoni e faceva freddo, un freddo terrorizzante. Sentì la pressione... e il freddo... tutto lontano e irrilevante. Sto affogando, pensò. Era un pensiero per niente eccitante, qualcosa che riguardava un'altra persona. Non mi vedranno... e annegherò. Il freddo divenne più immediato, bagnato. Qualcuno lo girò con violenza. Tuttavia, ogni cosa continuò a rimanere remota: tutto accadeva all'altra creatura che, sapeva, era lui stesso, ma che non poteva riguardarlo. La voce di Jenny esplose su di lui come lo scoppio d'un tuono. — Aiuta-
temi! Vi prego, qualcuno mi aiuti! Oh, Dio, nessuno vuole aiutarmi? Lo amo! Vi prego, aiutatemi! D'un tratto divenne consapevole di altre mani, altre voci. — Va bene, Jen. L'abbiamo preso. — Vi prego, salvatelo! — La sua voce aveva una singhiozzante intensità. Dasein si sentì trascinare su qualcosa di duro che gli premette contro l'addome. Il calore gli sgorgò dalla bocca. Avvertì un dolore accecante e terribile nel petto. D'un tratto cominciò a tossire, ad ansimare. Il dolore gli lacerava la gola e i bronchi. — Ha inghiottito un mucchio d'acqua. — La voce di un uomo, quasi priva di emozione. La voce di Jenny echeggiò implorante accanto all'orecchio di Dasein: — Respira? Vi prego, non lasciate che gli capiti qualcosa. — Dasein sentì qualcosa di bagnato sul collo, e ancora la voce implorante di Jenny accanto a lui. — Lo amo. Vi prego, salvatelo. La stessa voce maschile priva di emozioni rispose: — Lo capiamo, Jenny. E un'altra voce, roca, femminile: — C'è soltanto una cosa da fare, naturalmente. — Lo stiamo facendo! — urlò Jenny. — Non capite? Mentre delle mani tiravano su Dasein, cominciavano a trasportarlo, Dasein si chiese: Fare cosa? La tosse si era calmata, ma il dolore nel petto era rimasto. Gli faceva male quando respirava. Poco dopo sentì l'erba sotto la schiena. Qualcosa di caldo e aggomitolante era avvolto intorno a lui. Gli faceva provare una strana sensazione, come di un utero materno. Dasein aprì gli occhi e si trovò a fissare Jenny sopra di lui, con i suoi capelli scuri incorniciati di cielo azzurro. Riuscì a esibire un tremulo sorriso. — Oh, grazie a Dio — lei bisbigliò. Delle mani sollevarono le sue spalle. Il volto di Jenny scomparve. Una tazza piena di un liquido fumante gli venne premuta contro le labbra. Dasein percepì l'odore quasi sopraffacente dello Jaspers, sentì il caffè bollente che gli scendeva giù in gola. Subito una sensazione di calore e di benessere cominciò a filtrare verso l'esterno attraverso il suo corpo. La tazza gli fu tolta di bocca. Gliela rimisero quando mosse le labbra verso di essa.
Qualcuno rise, e disse qualcosa che Dasein non riuscì del tutto ad afferrare. Pareva suonare: — Fa il pieno. — Ma la cosa non aveva senso e lui la respinse. Le mani lo riadagiarono con delicatezza sull'erba. Quella vuota voce maschile disse ancora: — Tienlo caldo e tranquillo per un po'. Sta bene. Il volto di Jenny ricomparve. La sua mano gli accarezzò i capelli. — Oh, tesoro — gli disse, — ho guardato il molo e non c'eri più. Non ti ho visto cadere, ma lo sapevo. E nessuno prestava attenzione. Mi ci è voluto così tanto per arrivare. Oh, la tua povera testa. Che contusione. Allora Dasein sentì la pulsazione, come se le sue parole l'avessero attivata: un palpito dolorante alla tempia e attraverso l'orecchio. Un colpo del genere... non dovrei fare i raggi? si chiese. Come fanno a sapere che non ho il cranio fratturato... o una commozione cerebrale? — Cal dice che la barca dev'essersi allontanata da te quando l'hai urtata — disse Jenny. — Non credo che tu ti sia rotto niente. Il dolore gli saettò attraverso il corpo quando si toccò la contusione. — È soltanto una brutta contusione. Soltanto una brutta contusione! pensò Dasein. Si sentì cogliere da un'improvvisa rabbia verso di lei. Come potevano essere così superficiali? Comunque, quella sensazione di calore si diffuse attraverso il suo corpo, e pensò: Certo che sono a posto. Sono giovane, pieno di salute. Guarirò. E ho Jenny che mi protegge. Lei mi ama. A questo punto qualcosa nella concatenazione dei suoi pensieri lo colpì come profondamente sbagliato. Sbatté le palpebre. Come se quello fosse il meccanismo creativo, la sua vista si offuscò, si risolse in lampi di luce simili a gemme, una luce rossa, arancione, gialla, marrone, viola, azzurra con frammenti di cristallo che spuntavano da essa. La luce si risolse in una membranosa sensazione interiore, una percezione che si estese attraverso la sua mente. Allora vide le forti pulsazioni del suo cuore, la tenera guaina del cervello che si alzava e si abbassava con quella pulsazione, l'area danneggiata, soltanto una contusione, il suo cranio era intatto. Allora Dasein divenne conscio del perché i santarogani si mostravano così poco preoccupati per la sua ferita. Essi conoscevano la ferita per suo tramite. Se lui fosse stato come loro, li avrebbe tempestivamente informati quando aveva bisogno di aiuto. Non hanno neppure cercato di salvarmi fino a quando non è arrivata Jenny? si chiese Dasein. E la risposta stava là, e c'era di che stupirsi: —
Perché non ho gridato nei miei pensieri per chiedere aiuto? — Adesso faresti meglio a non dormire, credo — disse Jenny. Gli cercò la mano sinistra, la prese e gliela strinse. — Non c'è qualcosa sul fatto che non bisogna dormire dopo essere stati feriti alla testa? Dasein sollevò lo sguardo su di lei, vedendo le ali scure dei suoi capelli scompigliate per essersi precipitata a salvarlo, vedendo il modo in cui i suoi occhi parevano toccarlo, talmente intensa era la sua concentrazione. C'era umidità sulle sue ciglia, e sentì che avrebbe potuto guardare dietro i suoi occhi e trovare una via che conducesse ad una terra magica. — Ti amo — le bisbigliò. Jenny gli premette un dito contro le labbra. — Lo so. Sono un santarogano, adesso, pensò Dasein. Giacque là, cullando quel pensiero nella sua mente, colmato da quella strana consapevolezza che gli permetteva di sentire il contatto con Jenny anche quando lei liberò la sua mano e lo lasciò solo là, in mezzo all'erba. Non c'era niente di telepatico in quella consapevolezza. Si trattava invece di una conoscenza dell'umore di quelli che lo circondavano. Era un lago nel quale tutti nuotavano. Quando uno disturbava l'acqua, gli altri lo sapevano. Mio Dio! Cosa poteva fare quello Jaspers per il mondo! pensò Dasein. Ma quel pensiero generò delle onde ribollenti, le quali si propagarono sul lago della mutua consapevolezza. C'era tempesta in quel pensiero. Era pericoloso. Dasein si ritrasse allarmato. Allora ricordò per quale motivo era venuto lì, e vide il conflitto da una diversa prospettiva. La gente che l'aveva mandato là: che cosa volevano? Prove, pensò. Scoprì che non riusciva a determinare ciò che loro volevano dimostrare. Era tutto collegato alla macchina di Jersey Hofstedder e alla schietta insularità yankee di quella gente. Dasein vide che adesso gli amici di Jenny si accorgevano della sua presenza. Lo guardavano... lo guardavano in modo diretto. Gli parlavano. E quando sentì di volersi alzare per accostarsi al grande falò che avevano acceso per proteggersi dal gelo della sera, delle mani robuste gli vennero in aiuto senza che lui lo chiedesse. Scese la notte. Dasein si trovò seduto su una coperta accanto a Jenny. Qualcuno stava suonando una chitarra nel buio. La luna colorava la metà del lago, lasciando su un lato la grande pietra nera della notte. L'acqua increspata dal vento
lambiva la pietra e lui sentì che se soltanto fosse stato possibile spostare quell'oscurità, sarebbe avvampata alla luce rivelando il paese delle fate. Jenny si rannicchiò contro di lui e mormorò: — Ti senti meglio. Lo so. Lui fu d'accordo con lei in silenzio. Giù, accanto al lago, fiammeggiavano delle torce: qualcuno stava assicurando a riva le barche. Una mano gli porse un panino odorante di Jaspers. Dasein mangiò, concentrando l'attenzione sulle torce e sul falò: gli alberi intorno a loro luccicavano rossi, barcollanti ombre grottesche, ali di colombe fatte di fumo si stagliavano contro la luna. D'un tratto Dasein nascose parte del panino in una tasca. Senza riuscire a spiegarsene la ragione, Dasein si ricordò di quella volta, quando Jenny aveva lasciato da poco la scuola. Aveva piovuto. Ricordava di aver teso una mano fuori dalla finestra per sentire la pioggia, di aver visto l'umido luccichio del prato sotto una finestra, là sotto, come i grani sparpagliati di una collana. D'un tratto, il vento dall'altra parte del lago cambiò direzione e gli punse gli occhi col fumo del falò. Dasein inghiottì una boccata di fumo e ciò gli causò un'intensa consapevolezza del luogo e del momento. Jenny accanto a lui... in attesa. Quando pensò a lei, Jenny sollevò le braccia, e abbassò le labbra di lui sulle proprie. Fu un lungo bacio pieno di musica di chitarra, ricordi di pioggia e sapore di fumo. Come potrò mai spiegare una cosa come questa? si chiese Dasein. Selador mi prenderebbe per pazzo. A questo pensiero, Jenny gli si pigiò addosso, gli accarezzò il collo. — Sposiamoci presto — gli bisbigliò. Perché no? si chiese Dasein. Adesso sono un santarogano. Ma questo pensiero generò un'orda di paura che gli serrò il petto e fece rabbrividire Jenny. Lei si staccò da lui e lo fissò con una luce preoccupata negli occhi. — Tutto andrà bene — gli bisbigliò Jenny. — Vedrai. Però, la sua voce conservava quella sfumatura preoccupata. E Dasein percepì una minaccia nella notte. Il chitarrista suonò una nota amara, poi il silenzio. Dasein vide che la luce della luna si era spostata nell'area nera del lago... senza rivelare nessun paese delle fate, soltanto un altro lago, altri alberi. Adesso la notte era decisamente fredda. Ancora una volta Jenny premette le labbra sulle sue.
Dasein aveva la certezza di amarla ancora. Questa era una cosa reale alla quale poteva aggrapparsi. Ma non c'era più magia in quella notte fra il lago e gli alberi. Lui sentiva di aver sfiorato la follia, e che questo fatto aveva lasciato il suo marchio su di lui. Quando infine si staccò da lei, Dasein le bisbigliò: — Voglio sposarti, Jenny. Ti amo... ma... ho bisogno di tempo. Ho bisogno... — Lo so, tesoro — lei gli rispose. Gli accarezzò la guancia. — Prenditi tutto il tempo che ti serve. La sua voce aveva una chiara nota di chiusura, la quale si accrebbe quando Jenny si staccò da lui. Allora Dasein percepì tutto il gelo della notte, l'immobilità dei loro compagni. D'un tratto, tutta la gente cominciò a muoversi intorno a loro. Presero ad avviarsi verso il camion. — È ora di tornare — disse Jenny. Tornare dove? si chiese Dasein. Jenny si alzò in piedi. Si chinò per aiutarlo ad alzarsi. Dasein incespicò, colto da un momentaneo spasimo di vertigine. Jenny gli fece recuperare l'equilibrio. — Vuoi che lo zio Larry dia un'occhiata alla tua testa questa notte? — gli chiese. Piaget, pensò Dasein. Era là che lui doveva tornare. Piaget. Là, appunto, avrebbero proseguito il loro scambio di verità. Il mutamento indotto in lui dallo Jaspers lo costringeva a farlo. — Lo vedrò domattina — rispose Dasein. — Non stanotte? Lo vedrò quando sceglierò io, pensò Dasein. E ripeté: — Non stanotte. Questa risposta parve turbare Jenny. Durante il viaggio di ritorno a casa, rimase seduta accanto a lui senza quasi sfiorarlo. CAPITOLO SESTO Quando se ne furono andati, lasciando Dasein in piedi, solo, dietro al suo furgone nel cortile della Locanda, lui sollevò lo sguardo sul buio del cielo, smarrito nei propri pensieri. Il bacio della buona notte di Jenny: teso, tremante... Gli pizzicava ancora le labbra. Nell'aria aleggiava un sentore di benzina e di gas di scarico. Da qualche punto all'interno dell'edificio giungeva un debole suono di musica: una radio. La ghiaia del viale si faceva sentire dura e immediata sotto i suoi piedi.
Lentamente, Dasein tirò fuori la mano destra dalla tasca, e l'aprì per fissare la piccola pallottola di materia spugnosa: un oggetto visibile confusamente alla luce dell'insegna della Locanda. Adesso intorno a lui c'era un forte odore di Jaspers. Dasein studiò l'oggetto che aveva in mano: una pallina compressa di pane, formaggio e prosciutto, il frammento di uno dei panini del pic-nic. Sanno che l'ho sottratto di nascosto? si chiese. Discusse per qualche istante tra sé se doveva entrare a cambiarsi d'abito. I calzoni e la camicia che aveva indossato durante il pic-nic, indumenti che si erano inzuppati e gli si erano asciugati addosso, premevano spiegazzati e messi di traverso contro il suo corpo. Dasein sentì che la sua mente vagava intorno a quella decisione: cambiarsi o non cambiarsi, quello era il problema. Però l'oggetto che stringeva in mano era più immediato. Selador. Sì, Selador doveva entrarne in possesso ed esaminarlo. Non sto pensando con chiarezza, si disse Dasein. Si sentì combattuto fra un estremo e l'altro, tra decisioni di enorme portata. La ferita alla testa? si chiese. Ma si fidava di quell'intuizione indotta dallo Jaspers, la quale gli diceva che la ferita non era seria. Però... le decisioni... Con deliberata concentrazione, Dasein si costrinse a risalire sul furgone. Si appoggiò contro il volante, mise la pallina compressa del panino di Jaspers sul sedile accanto a sé. Avvertì una calda umidità sul fondo dei calzoni. Tirò fuori il portafoglio dalla tasca posteriore... Il portafoglio finì accanto al pezzo di panino. Adesso, si disse Dasein. Adesso andrò. Ma ci vollero parecchi minuti prima che riuscisse a chiamare a raccolta l'energia bastante a decidersi ad avviare il motore, uscendo dall'area di parcheggio e prendendo la strada che conduceva a Porterville. Guidò lentamente, consapevole dell'ostacolo creato dall'apatia che bloccava i suoi movimenti. La luce dei fari illuminava un cuneo di strada che scorreva via e gli alberi ai bordi, la gialla linea centrale, i guardrail, le vie di accesso alle case. Dasein aprì il finestrino, si sporse fuori al vento, cercando di schiarirsi la mente. Adesso si trovava sulla strada che serpeggiando lungo il pendio portava fuori dalla valle, e la sua mente, come un peso morto, parve funzionare sempre più lenta e greve. Una luce di fari venne verso di lui. Passò oltre.
Scure masse di roccia accanto alla strada: gialle linee centrali, contorte linee cicatrizzate là dove l'asfalto era stato riparato... le stelle sopra la testa... Dasein arrivò infine alla gola che conduceva fuori attraverso gli scheletri neri degli alberi bruciati. Dasein sentì che qualcosa lo stava tirando indietro, gli stava ordinando di fare marcia indietro e di ritornare a Santaroga. Combatté. Selador doveva avere a tutti i costi quel frammento di cibo, per analizzarlo. Il dovere. Le promesse. Doveva uscire dalla valle, raggiungere Porterville. In qualche punto, dentro la sua mente, Dasein sentì profilarsi una forma nera, anonima, terrificante. Lo studiava. Con un'improvvisa sensazione interiore di rottura, Dasein sentì la sua mente schiarirsi. La cosa fu talmente improvvisa che quasi perse il controllo del volante, sbandò attraverso la linea centrale e poi tornò in carreggiata con un acuto stridio dei pneumatici. La strada, la notte, il volante, il piede sull'acceleratore, ogni cosa batté contro i suoi sensi con una confusa immediatezza. Dasein pigiò i freni con forza, rallentò fin quasi a procedere a passo d'uomo. Ogni terminazione nervosa era divenuta un caos di suoni. La testa gli girò, Dasein si appiccicò al volante, concentrandosi sulla guida. Lentamente i suoi sensi si riordinarono. Tirò un profondo, tremante respiro. Reazione da droga, si disse. Devo dirlo a Selador. Porterville era la stessa strada strada monotona che ricordava: le macchine parcheggiate davanti alla taverna. L'unico lampione illuminava la stazione di servizio buia. Dasein si fermò vicino alla cabina telefonica, ricordando l'agente che lo aveva interrogato proprio in quel posto, scambiandolo per un santarogano. Era stato prematuro? si chiese. Diede alla centralinista il numero di Selador, aspettò con impazienza, tamburellando con le dita contro la parete. Gli rispose la voce debole e stridula di una donna: — Residenza Selador. Dasein si appoggiò al telefono. — Sono Gilbert Dasein. Mi passi il dottor Selador. — Mi spiace. I Selador sono fuori per la serata. Vuol lasciare un messaggio? — Dannazione! — Dasein fissò il telefono. Provò una rabbia irrazionale nei confronti di Selador. Fu costretto ad un consapevole sforzo di logica per dirsi che Selador non aveva nessuna vera ragione per starsene sempre vicino al telefono. A Berkeley la vita procedeva nella sua maniera norma-
le. — Ha un messaggio, signore? — ripeté quella voce stridula. — Gli dica che ha telefonato Gilbert Dasein — disse Dasein. — Gli dica che gli manderò un pacchetto per le analisi chimiche. — Un pacchetto per le analisi chimiche. Sì, signore. È tutto? — È tutto. Dasein riapplicò il ricevitore sulla forcella provando una vaga riluttanza. D'un tratto si sentiva abbandonato, solo, lassù, senza che a nessuno di fuori importasse davvero se era vivo o morto. Perché non mandarli tutti a quel paese? si chiese. Perché non sposare Jenny, e dire al resto del mondo di andare all'inferno? Era una prospettiva intensamente invitante. Si sentì affondare nella tranquilla sicurezza, là nella valle. Santaroga lo invitava con quella sicurezza. Là sarebbe stato salvo. Però, proprio quella sensazione di sicurezza era bordata di pericolo. Dasein lo sentiva... sentiva qualcosa là in agguato nell'oscurità esterna. Scosse la testa, infastidito dagli scherzi che gli faceva il cervello. Di nuovo i vapori! Tornò al furgone, cercò un vasetto sul retro dove teneva una riserva di fiammiferi. Rovesciò fuori i fiammiferi, mise dentro i resti del panino, chiuse ermeticamente il vasetto, lo impacchettò con quant'era rimasto di una scatola di cartone di provviste e con uno scampolo di carta da pacchi, legò il tutto con un pezzo di filo di nylon per pescare, e l'indirizzò a Selador. Quand'ebbe finito, scrisse una lettera di spiegazione su un foglio del suo blocco di appunti, vi elencò con cura le sue reazioni: l'effetto della droga, l'incidente al lago e le sue impressioni sul gruppo... il muro che avevano eretto per tenerlo lontano... il terrore di Jenny... Tutto finì nella lettera. Lo sforzo che fu costretto a fare per ricordare gli incidenti gli fece venire male alla testa là dove l'aveva picchiata contro l'orlo della barca. Trovò una busta nella sua valigetta. L'indirizzò e la chiuse. Con un senso di soddisfazione, Dasein rimise in moto il furgone, trovò una laterale buia e lo parcheggiò. Chiuse a chiave la cabina, salì sul retro e si distese per aspettare la mattina quando l'ufficio postale di Porterville avrebbe aperto i battenti. Qui non controlleranno la posta, si disse. Se Selador riceverà il campione di Jaspers... poi sapremo molto presto di che si tratta. Chiuse gli occhi e le sue palpebre divennero come uno schermo cinema-
tografico sul quale veniva proiettato un film di fantasia: Jenny che si ritraeva spaventata, implorandolo; Selador che rideva. Una gigantesca figura di lui stesso, Dasein, si ergeva legata come Prometeo, con gli occhi vitrei... ansando per lo sforzo... Dasein spalancò di colpo gli occhi. Una fantasia ad occhi aperti! Aveva superato la cima della collina, era dietro la curva! Esitando, chiuse gli occhi. C'era soltanto buio. Soltanto oscurità... ma c'era un suono nel buio: Selador che rideva. Dasein si premette le mani sugli orecchi. Il suono divenne uno scampanio, una lenta cadenza... funereo. Aprì gli occhi. Il suono cessò. Si rizzò a sedere, si rincantucciò in un angolo, con gli occhi aperti. Faceva freddo, nel camper, e c'era odore di muffa. Trovò il suo sacco a pelo, se l'avvolse intorno, e rimase seduto là con gli occhi aperti. Fuori c'era il. rumore dei grilli, il metallo del furgone produceva deboli scricchiolii. Lentamente il suono s'impadronì di lui. Le palpebre gli calarono sugli occhi, si spalancarono di colpo. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché l'effetto dello Jaspers si esaurisse? Certamente quello era l'effetto della droga. I suoi occhi si chiusero. Da qualche parte in una scatola dell'eco Jenny gli bisbigliò: — Oh, Gil... ti amo. Gil, ti amo... Si addormentò con la voce di lei che continuava a sussurrarglielo. CAPITOLO SETTIMO La luce del giorno trovò Dasein che fissava il soffitto di metallo del camper in preda a una sensazione di disorientamento. Riconobbe il soffitto, ma non riuscì a localizzare il posto. La testa e la spalla gli pulsavano. Il soffitto... un soffitto familiare. Risuonò un clacson. Questo lo riportò al presente e alla piena coscienza. Scostò da sé le pieghe contorte del sacco a pelo e uscì fuori. La giornata era nuvolosa e grigia. Si sentiva il mento ispido e ruvido. E aveva un sapore acido in bocca. Due scolari che passavano di là lo guardarono, bisbigliando fra loro. Devo avere un aspetto orribile, pensò Dasein. Abbassò lo sguardo sui suoi indumenti. Erano storti e spiegazzati come se fosse andato a nuotare senza toglierseli e poi ci avesse dormito dentro fino a quando non si fossero asciugati. Dasein sorrise tra sé, pensando che era successo proprio que-
sto. Salì in cabina, girò il furgone e raggiunse la strada principale, la percorse fino a quando non vide l'insegna dell'Ufficio Postale sopra la veranda di un supermercato. Il direttore dovette terminare di vendere delle caramelle a una ragazzina prima di poter andare dietro al suo banco ingabbiato per pesare la lettera e il pacchetto di Dasein. L'uomo era alto, pallido, con i capelli neri radi, occhi azzurri guizzanti e circospetti. Annusò una volta Dasein e disse: — Fanno ottantaquattro per il pacchetto e cinque per la lettera. Dasein sospinse un biglietto da un dollaro sotto la gabbia. L'uomo gli diede il resto, guardò un'altra volta il pacchetto: — Cosa c'è nel pacchetto, signore? — Campioni da analizzare nel nostro laboratorio — spiegò Dasein. — Oh. L'uomo non parve curioso di sapere di quali campioni si trattava. — Niente indirizzo del mittente? — disse. — Dottor Gilbert Dasein, fermo posta, Santaroga — rispose Dasein. — Dasein — fece l'uomo, con improvviso interesse. — Dasein... mi pare di avere un pacco per Dasein. Aspetti un momento. Scomparve nel retro, e tornò poco dopo con una scatola ampia circa una quarantina di centimetri quadrati, legata con un grosso spago. Anche da lontano Dasein riconobbe nell'indirizzo la scrittura precisa di Selador. Selador che mi scrive qui? si chiese Dasein. L'aria di cospirazione della cosa diede a Dasein l'improvvisa sensazione di essere completamente trasparente per lui. Quell'uomo poteva mandare lì un pacchetto e sapere che sarebbe stato ritirato. Subito Dasein si disse che quella doveva essere la cosa più facile da prevedere, vista la situazione dell'ufficio postale di Santaroga così come lui l'aveva descritta a Selador. Gli rimaneva comunque la sensazione di essere una pedina e che ogni sua mossa fosse conosciuta dal padrone del gioco. — Mi faccia vedere un suo documento — chiese il direttore. Dasein glielo mostrò. — Firmi qui — disse l'uomo. Dasein firmò e prese il pacchetto. Era pesante. — Strana cosa che voi santarogani usiate il mio ufficio postale — commentò il direttore. — Qualcosa che non va nel vostro? Santarogani... al plurale, pensò Dasein. Disse: — Qualche altro... santarogano usa il suo ufficio postale?
— Be'... una volta — spiegò l'uomo. — Un negro... Burdeaux, a quanto ricordo. Spediva della posta da qui. Un giorno gli è arrivato qui un pacco dalla Louisiana. È stato molto tempo fa. — Oh, sì — rispose Dasein, non sapendo come accogliere altrimenti quell'informazione. — Non vedo Burdeaux da un bel po' — rifletté il direttore. — Un tipo simpatico. Spero che stia bene. — Benissimo — disse Dasein. — Be', grazie. — Prese il suo pacchetto, uscì in strada e raggiunse il suo furgone. Con un'urgenza di esser cauto che non riuscì a spiegarsi, lasciò il pacco sul sedile accanto a sé senza decidersi ad aprirlo, mentre guidava verso est lungo la strada per Santaroga, fino a quando non trovò un luogo ombreggiato dove fermarsi. La scatola conteneva una pistola calibro 32 automatica con un caricatore di riserva e una scatola di cartucce. Legato alla sicura c'era un biglietto di Selador: «Gilbert, questa ha raccolto polvere in un cassetto della mia scrivania per molti anni ed è probabile che io mi comporti da vecchia donnetta, mandandotela, ma eccola qua. Credo di spedirtela con la speranza che tu non debba usarla. Però la situazione che mi hai descritto mi ha fatto provare la più strana sensazione d'inquietudine che io riesca a ricordare. Spero che tu usi la massima cautela». Sul lato opposto del biglietto c'era un post-scriptum vergato in fretta: «Nessuna notizia ancora sulle indagini che hai richiesto. Queste cose procedono lentamente. Comunque, mi fai sperare che riusciremo a incastrare questa gente». Era firmato: «S.» Dasein sollevò l'automatica, represse l'impulso di buttarla fuori dal finestrino. Quell'arma incarnava la minaccia suprema. Cosa mai lui aveva detto per indurre Selador a mandargliela? Oppure faceva parte di qualche oscuro azzardo motivazionale che Selador stava innescando? Poteva essere un sollecito per ricordargli il suo dovere? Questo pensiero acuì il dolore causatogli dalla contusione alla testa. Una frase del biglietto di Selador gli ritornò alla memoria. La rilesse: Incastrare questa gente... È questo che dovrei fare? si chiese Dasein. Devo farli cadere in trappola cosicché possano venir perseguiti? Ricordò che Marden aveva alluso alle ragioni per cui era stato mandato un investigatore. Dasein deglutì. La frase di Selador, letta ancora una volta, pareva uno
scivolone. Il bravo dottore si era forse fatto sfuggire la mano? Mandare una pistola non era da lui. In effetti Dasein si rese conto che, se gliel'avessero chiesto, avrebbe dichiarato che Selador non era neppure il tipo capace di possedere una pistola. Che fare di quella dannata cosa, adesso che l'aveva? Dasein la controllò, trovò il caricatore pieno, ma nessuna pallottola in canna. Resistette all'impulso di buttare la pistola dentro lo stipetto per i guanti e dimenticarsene. Se avessero perquisito il furgone... Dannato Selador! Sentendosi sciocco mentre lo faceva, Dasein infilò la pistola in una tasca posteriore dei calzoni, coprendola con il soprabito. Avrebbe sistemato le cose con Selador più tardi. Adesso toccava a Piaget... e Piaget aveva alcune risposte da dargli. CAPITOLO OTTAVO Quando Dasein arrivò, Piaget era nel suo studio con un paziente. Sarah, grigia e rinsecchita, venne ad aprirgli la porta e gli permise di aspettare nel soggiorno. Con una riluttante esibizione di ospitalità aggiunse che gli avrebbe portato del caffè, se lo voleva. Avvertendo uno spasimo allo stomaco, Dasein si rese conto di avere una fame da lupi. Si chiese se avrebbe potuto informarne Sarah. Come se gli avesse letto il pensiero, Sarah disse: — Scommetto che non ha fatto colazione. — Lo squadrò dall'alto al basso. — Ha l'aria di aver dormito in quei vestiti. Voi dottori siete tutti uguali. Non v'importa mai del vostro aspetto. — A dire il vero non ho ancora mangiato — confessò Dasein. — Lei farà fare proprio una bella vita a Jenny — replicò la donna. Ma addolcì le sue parole con un sorriso. Dasein fissò meravigliato la doppia fila di denti finti, bianchi come le ossa, in quel volto raggrinzito. — Mi è rimasto un po' di strudel con della panna Jaspers — l'informò Sarah. — Scommetto che le farebbe piacere. Si girò, uscì passando per la sala da pranzo ed entrò in una smagliante cucina bianca che Dasein intravide per un attimo attraverso la porta a ventola. L'aria sferzò dietro di lei come un paio di ceffoni. Dasein pensò a quel sorriso, ricordò che Jenny aveva detto che Sarah lo trovava simpatico. D'impulso la seguì in cucina.
— Scommetto che non le piace dar da mangiare alla gente in soggiorno — disse. — Do da mangiare alla gente dovunque debbano mangiare — replicò Sarah. Mise un piatto su un tavolo ovale accanto a una finestra che dava su un giardino fiorito vivamente illuminato dalla luce del sole mattutino. — Si sieda qui, giovanotto — disse. Versò una panna densa da una caraffa su una montagnola di fette di strudel sul piatto. Dasein inspirò un intenso odore di Jaspers. La mano gli tremò quando prese su il cucchiaio che Sarah aveva messo alla portata della sua mano. Il tremito s'interruppe quand'ebbe inghiottito il primo boccone. La pasta era dolce e tranquillizzante, ricca di mele. Con una remota sensazione traumatica, Dasein osservò la sua mano affondare il cucchiaio nella pasta dello strudel, vide il cibo che veniva trasportato verso la sua bocca, sentì che lo inghiottiva. Tranquillizzante. Sono assuefatto a questa roba, pensò. — Qualcosa non va? — gli chiese Sarah. — Io... — mise giù il cucchiaio. — Mi avete intrappolato, vero? — chiese. — Di cosa sta parlando? — fece Sarah. — Cosa... mi fa? — Indicò il dolce con un gesto. — Si sente strano? — chiese Sarah. — Sono... — Dasein scosse la testa. Le parole di Sarah parevano fili. Una sensazione di sfarfallamento dietro agli occhi! — Vado a chiamare il dottor Larry — disse Sarah. Corse fuori da una porta in fondo alla cucina e Dasein la vide correre lungo il marciapiede coperto che portava alla clinica. Poco dopo Sarah riapparve insieme a Piaget. Il volto del dottore aveva un'espressione preoccupata. — Cos'è questa storia che mi ha raccontato Sarah? — chiese Piaget. Mise una mano sotto il mento di Dasein. Lo fissò negli occhi. — Le ha raccontato cosa? — chiese Dasein. Le parole gli parvero sciocche mentre gli uscivano dalle labbra. Spinse da parte la mano di Piaget. L'espressione accigliata del dottore, gli occhi socchiusi. Pareva un Buddha incollerito. — Mi pare che lei sia a posto — disse Piaget. — Nessuno strano sintomo di...
— Mi avete intrappolato — ribatté Dasein. — È questo che le ho detto. Mi avete intrappolato. — Indicò con un gesto il piatto davanti a sé. — Con questo. — Ooh — esclamò Piaget. — Lo sta combattendo? — chiese Sarah. — È probabile — annuì Piaget. — Non ha senso — disse Sarah. — Succede — disse Piaget. — Lo so, ma... — Voi due volete smetterla di parlare di me come se fossi una goccia su un vetrino? — s'infuriò Dasein. Si spinse via dal tavolo e balzò in piedi. Il movimento fece scivolar giù dal tavolo il suo piatto di cibo mandandolo a frantumarsi sul pavimento con uno schianto. — Adesso guardi cos'ha fatto! — esclamò Sarah. — Sono un essere umano — continuò Dasein. — Non una specie di... — Calma, ragazzo, calma — l'interruppe Piaget. Dasein si girò di scatto, passò accanto a Piaget sfiorandolo. Doveva allontanarsi da quei due, altrimenti si sarebbe consumato nella collera. La mente di Dasein continuava a mettere a fuoco l'arma che aveva nella tasca posteriore dei calzoni. Dannato Selador! — Ehi, adesso, un momento — lo chiamò Piaget. — Non cerchi di fermarmi — ringhiò Dasein. Sentiva la pistola grande e fredda contro il fianco. Piaget si azzitti. In un silenzio che Dasein immaginò salisse dalla punta dei piedi per guardare fuori da un paio d'occhi calcolatori. Fu come se quell'uomo retrocedesse fino a diventare una figura vista attraverso un telescopio messo alla rovescia: remoto, circospetto. — Molto bene — disse Piaget. La sua voce giungeva da quella grande lontananza. Dasein si voltò con fare deciso. Uscì dalla porta della cucina, attraversò il soggiorno, uscì dalla casa. Sentì i suoi piedi che calcavano il cemento del vialetto davanti alla casa, l'erba del parcheggio. Sentì la maniglia della portiera del suo furgone nella mano. Era gelata. Avviò il motore interrogandosi sulle sue sensazioni... oniriche. Una strada gli scorse accanto, retrocesse: dei segnali stradali... l'asfalto che strisciava sotto i suoi occhi... La Locanda. Parcheggiò davanti alla lunga veranda, una vecchia macchina verde alla sua sinistra, resa indeter-
minata, insignificante. Come se si stesse svegliando, Dasein trovò la propria mano destra sulla maniglia della porta principale della Locanda, intenta a tirare, a tirare, ma la porta resisteva. Una scritta sul pannello centrale lo fissava in risposta: CHIUSO. Dasein fissò la scritta. Chiuso? — Il suo bagaglio è là sui gradini, dottor Dasein. Dasein riconobbe subito la voce: quella infuriante di Al Marden: Autorità... Segretezza... Cospirazione. Dasein si voltò con la sensazione d'essere infagottato in una stretta palla di consapevolezza. A metà veranda, in piedi, c'era Marden: capelli rossi, il volto sottile, gli occhi verdi, la bocca con le labbra serrate la quale formava una linea retta che avrebbe potuto significare qualunque emozione, dalla rabbia al divertimento. — Così mi state cacciando via — disse Dasein. — L'albergo è chiuso — replicò Marden. — Disposizioni dell'ufficio d'igiene. — Anche il ristorante della Locanda? — chiese Dasein. — Tutto chiuso. — Era un quadrato di voce reciso che non ammetteva repliche. — Posso tornarmene da dove sono venuto, eh? — insisté Dasein. — Faccia come vuole. — Avete altri alberghi — disse Dasein. — Li abbiamo? — Dovete averne. — Dobbiamo? Dasein fissò il capitano della Stradale, provando la stessa sensazione che aveva avuto con Piaget. L'uomo rimpicciolì. — Può andarsene oppure tornare dal dottor Piaget — disse Marden. — È probabile che la ricoveri. — Era così lontana quella voce. — Tornare da Piaget — ribatté Dasein. — Come fa a sapere che sono appena stato da lui? Marden rimase silenzioso, con gli occhi ritirati in se stessi... remoti. — Vi muovete in fretta qui da voi — disse Dasein. — Quando dobbiamo farlo. Tornare da Piaget? si chiese Dasein. Sorrise, dosando quel suo stretto gomitolo di consapevolezza. No! Non avevano pensato a tutto. Non avvano pensato proprio a tutto.
Sempre sorridendo Dasein prese su la propria valigia dal punto in cui l'avevano messa accanto ai gradini, si allontanò a grandi passi verso il furgone, buttò la valigia dentro la cabina, e salì dietro il volante. — Meglio lasciare che siano quelli che sanno come farlo ad aiutarla — gli gridò Marden. Adesso nella sua voce c'era una traccia appena accennata di preoccupazione. Ciò fece diventare più ampio il sorriso di Dasein, che lo accompagnò come un ricordo assai soddisfacente mentre tornava di nuovo in città. Dasein vide nello specchietto retrovisore la macchina della polizia che lo seguiva. Dasein sapeva che non gli avrebbero permesso di parcheggiare in città, ma lui ricordava la mappa esposta nella vetrina della stazione di servizio di Scheler. La mappa indicava un parco statale sulla strada che portava a ovest: il Parco Statale di Sand Hills. Guidò lungo la strada principale tallonato dalla macchina della polizia di Marden. Subito davanti a lui c'era la gigantesca stazione di servizio. Dasein vide le cabine telefoniche accanto all'area di parcheggio, svoltò così all'improvviso che Marden passò dritto, fermò con uno stridio di freni, fece marcia indietro. Dasein era già sceso dal furgone e andava verso le cabine. Marden fermò la macchina fuori in strada e rimase là ad aspettare fissando Dasein. Il motore della macchina della Stradale pareva borbottare la sua disapprovazione. Dasein si voltò, guardò la stazione di servizio alle sue spalle: l'attività che si svolgeva in quel luogo aveva una strana normalità: macchine che entravano, uscivano... nessuno che prestasse la minima attenzione a Marden o all'oggetto della sua attenzione. Dasein scrollò le spalle, entrò in una cabina e chiuse la porta. Mise un decino nella fessura, fece il numero del centralino, chiese il numero della Cooperativa. — Se vuole Jenny, dottor Dasein, è già tornata a casa. — Dasein fissò il microfono del telefono davanti a lui, lasciando che il significato di quell'arrogante voce femminile arrivasse a segno. Non soltanto sapevano chi stava chiamando: sapevano anche quello che lui voleva prima ancora che avesse il tempo di dirlo! Dasein fissò Marden, mettendo a fuoco la sua attenzione su quegli occhi verdi, su quei cinici occhi verdi. Dasein si sentiva ribollire di rabbia. La dominò. Maledizione a loro! Sì, voleva parlare a Jenny. Le avrebbe parlato loro malgrado. — Non ho il numero del dottor Piaget. Un respiro ben udibile gli arrivò dalla linea.
Dasein fissò l'elenco del telefono legato con una catenella alla parte della cabina, provò un'ondata di colpevolezza, irragionevole, schiacciante, che prontamente represse. Sentì la centralinista che faceva il numero, il segnale. Gli rispose la voce di Jenny. — Jenny! — Oh, ciao, Gilbert. Dasein avvertì una sensazione di gelo allo stomaco. La sua voce era così indifferente... — Sai che stanno cercando di cacciarmi via dalla valle, Jenny? — chiese. Silenzio. — Jenny? — Ti ho sentito. — Ancora quell'indifferenza... quella distanza nel timbro della sua voce. — È tutto quello che hai da dire? — La sua voce tradiva una rabbia ferita. — Gilbert... — Vi fu una lunga pausa, poi: — ... forse sarebbe... meglio... se tu... per un po', soltanto per un po', andassi... be'... fuori. Adesso sentiva tensione sotto quel tono d'indifferenza. — Jenny, sto andando al Sand Hills Park. Vivrò nel mio camper. Non mi cacceranno via. — Gilbert, non farlo! — Vuoi... che me ne vada? — Io... Gilbert, per favore, torna indietro e parla con lo zio Larry. — Ho parlato con lo zio Larry. — Per favore. Fallo per me. — Se vuoi vedermi vieni fuori al parco. — Non... non oso. — Non osi? — Era indignato. Quale pressione era stata esercitata su di lei? — Per favore, non chiedermi di spiegartelo. Dasein esitò un po', poi disse: — Jenny, pianterò le tende nel parco. Per definire la mia posizione. Tornerò dopo aver definito la mia posizione. — Per l'amor del cielo, Gilbert... per favore, fai attenzione. — Attenzione a cosa? — Soltanto... attenzione. Dasein sentì la pistola che aveva in tasca, un peso che riportò alla sua
mente le minacce senza nome di quella valle. Era questo il punto: le minacce non avevano nome. Mancava ad esse una forma. A cosa serviva una pistola contro un bersaglio senza forma? — Tornerò, Jenny — le disse. — Ti amo. Lei cominciò a piangere. Dasein sentì con chiarezza i singhiozzi prima di interrompere la comunicazione. Dasein ritornò al suo furgone con i muscoli irrigiditi per la rabbia, quindi aggirò la macchina della polizia e puntò fuori verso la strada che conduceva a est, sempre seguito da Marden. Che quel figlio di puttana lo seguisse pure, si disse Dasein. Poteva sentire la spericolata inutilità delle sue azioni, ma sotto ogni altra cosa rimaneva una corrente propulsiva che gli diceva che doveva farlo. Ci voleva una resa dei conti. Ecco il punto. Una resa dei conti. Forse una resa dei conti era necessaria per ottenere delle risposte. Superò il fiume sopra un ponte di cemento, e sulla sinistra, attraverso gli alberi, intravide file di serre. La strada saliva affiancata dagli alberi per emergere in mezzo alla boscaglia di madrone e mesquite. Passava serpeggiando in mezzo alla boscaglia, e ancora una volta il terreno cambiò. In distanza si vedevano montagne coperte di alberi, ma in mezzo si stendevano basse colline coronate da arbusti nodosi, macchie di erbacce sparpagliate qua e là con tratti spogli di terra grigia e pozze di acqua nera, acqua miasmica incontaminata da creature animate nei punti più bassi. Un sentore di zolfo, umido e soffocante, gravava sopra quella zona. Quasi con la sensazione di riconoscerle, Dasein si rese conto che quelle dovevano essere le colline sabbiose. Un cartello rotto comparve sulla sua destra. Penzolava da un palo. Un altro palo era inclinato formando un angolo assurdo. Parco Statale di Sand Hills. Campeggio Pubblico. Un paio di solchi gemelli segnavano la sabbia sulla destra andando in direzione di un'area recintata con un casotto-latrina senza porta a un'estremità e i focolari di pietra sgretolata intorno all'orlo del recinto. Dasein svoltò e si mise a seguire i solchi. Il furgone procedette sobbalzando e ringhiando fino all'area del parcheggio. Si fermò accanto ad uno dei focolari di pietra e si guardò intorno. Il posto era d'uno squallore oltraggioso. Un rumore di pneumatici e di un motore travagliato indusse Dasein a rivolgere la sua attenzione sulla sinistra. Marden fece fermare la macchina accanto a lui e si sporse dal finestrino aperto.
— Perché si è fermato qui, Dasein? — C'era una nota d'impazienza appena avvertibile nella voce di Marden. — Questo è un parco dello stato, non è vero? — chiese Dasein. — C'è qualche legge che dice che io non posso parcheggiare qui? — Non faccia il furbo con me, Dasein! — A meno che non abbia un'obiezione legale, mi accamperò qui! — ribadì Dasein. — Qui? — Marden indicò con un gesto la desolazione di quel posto. — Dopo Santaroga, trovo questo posto relativamente amichevole — dichiarò Dasein. — Cos'è che sta cercando di dimostrare, Dasein? Dasein gli rispose con un'occhiata silenziosa. Marden si ritrasse dentro la macchina della polizia. Dasein poteva vedere che le nocche dell'uomo erano divenute bianche sul volante. Poco dopo il capitano della Stradale si abbandonò contro lo schienale e fissò Dasein con furore. — Va bene, signor mio: questo è il suo funerale. La macchina della polizia fece un banco in avanti, percorse un mezzo giro intorno all'area di parcheggio sollevando una nuvola di sabbia, quindi si allontanò in direzione della statale e puntò di nuovo verso la città. Dasein aspettò che la polvere si depositasse, prima di uscire. Si arrampicò nel camper e controllò la sua dispensa di emergenza: fagioli, latte in pólvere e uova in polvere, frankfurter in scatola, due bottiglie di ketchup, un barattolo di sciroppo e una scatola semivuota di mistura per le frittelle, caffè, zucchero... Sospirò, si sedette sulla cuccetta. Il finestrino dalla parte opposta incorniciava un panorama di colline sabbiose e la latrina senza porta. Dasein si sfregò la fronte. Avvertiva un dolore dietro gli occhi. Il livido che aveva sulla testa gli pulsava. La luce spietata che martellava quelle squallide colline lo riempiva d'una sensazione di autoaccusa. Per la prima volta da quando aveva condotto il suo furgone giù nella valle, Dasein cominciò a mettere in discussione le proprie azioni. Sentiva che c'era un'atmosfera di follia intorno a tutto ciò che aveva fatto. Era una folle sarabanda: Jenny... Marden... Burdeaux, Piaget, Willa, Scheler, Nis... Era una follia, eppure con un proprio tipo di sensatezza. I disastri che lui aveva sfiorato diventavano una parte di quel solenne nonsenso. E c'era la macchina di Jersey Hofstedder: in qualche modo la cosa più significativa di ogni altra. Ebbe l'impressione di essere affondato ancora una volta sotto il lago, e di
emergere adesso nel mezzo di una brutale onestà con se stesso. Il «Noi» di Jenny aveva perso una parte dei suoi terrori. Quello era il Noi della caverna e dello Jaspers, il Noi che aspettava con pazienza che lui prendesse la sua decisione. Vide che la decisione spettava a lui. Non aveva importanza ciò che la sostanza uscita da quella caverna immersa nella fioca luce rossa faceva alla psiche, la decisione spettava a lui. Doveva essere la sua decisione, oppure quella folle sarabanda perdeva ogni significato. Sto ancora lottando, pensò. Ho ancora paura di finire con lo «sfarfallio dietro agli occhi» e in piedi ad una catena d'imballo alla Cooperativa. Inquieto scese dal camper e si fermò in piedi sulla sabbia assorbendo il calore di metà pomeriggio. Un corvo isolato passò volando sopra di lui, così vicino che sentì il vento frusciare attraverso le sue piume producendo un suono simile a quello di un'arpa. Dasein fissò l'uccello pensando a quanto fosse strano vedere un solo corvo. Non erano uccelli solitari. Ma c'era quel corvo tutto solo, solo come lui era solo. Cos'ero mai, prima, che adesso non posso più tornare ad essere? si chiese. E pensò che se avesse preso una decisione contro Santaroga, lui sarebbe stato come quel corvo solitario, una creatura senza che ce ne fosse un'altra della sua razza da nessuna parte. Sapeva che il problema era costituito da una costrizione da qualche parte dentro di lui a fare un rapporto onesto a coloro che l'avevano assunto. La chiarezza dell'essere generata dalla Jaspers lo sollecitava a farlo. Il suo stesso senso del dovere che ricordava lo solllecitava a farlo. Fare qualcosa di meno sarebbe stata una forma di disonestà, un'erosione del proprio io. Sentiva una gelosa possessività a riguardo di questo io. Non c'era neppure la più piccola parte del suo io che fosse così scadente da poterla buttar via. Dasein vide che questo suo io, vecchio ma visto sotto una nuova luce, prezioso più di qualunque altra cosa avesse mai immaginato, faceva gravare su di lui un fardello terrificante. Ricordò l'impetuosità della rivelazione dello Jaspers, la scala che aveva dovuto percorrere per arrivare a quel do sopracuto. Allora la qualità se-soltanto-lo-avessi-saputo del suo immediato passato si adagiò su di lui come una nebbia che lo fece raggelare malgrado il calore del pomeriggio. Dasein rabbrividì. Come sarebbe stato piacevole, pensò, non dover prendere decisioni. Com'era allettante poter permettere che quel qualcosa che si agitava inquieto dentro la sua consapevolezza sollevasse la
sua antica testa di serpente e divorasse la parti perturbatrici della sua coscienza. La sua visione del popolo della valle assunse un'impronta olimpica. Per un attimo si ersero accanto a lui in ranghi spettrali, simili a dèi, padroni del primitivo. Mi stanno mettendo alla prova? si chiese. Una parte fredda e razionale della sua mente vagliò quei pensieri e trovò che il bilancio era incerto. Quanto di ciò che ho nella mente appartiene al pensiero della droga? si chiese. Era quello il problema essenziale che stava nel fulcro di qualunque decisione lui avesse preso. Dove poteva trovare un terreno solido sul quale fermarsi e dire: «Le cose sulle quali devo prendere una decisione sono queste... e queste... e queste?» Sapeva che nessuno poteva aiutarlo a trovare quel terreno. Doveva essere una ricerca solitaria. Se avesse fatto un rapporto onesto alla compagine di Meyer Davidson, questo avrebbe condannato Santaroga. Ma redigere un falso rapporto avrebbe significato impiantare un cancro dentro di sé. Dasein si rese conto di essersi staccato da Santaroga in maniera ben definita, come un colpo di coltello. Il pacchetto di Jaspers che aveva mandato a Selador per le analisi sarebbe arrivato con qualsivoglia Jaspers contenuto in origine ormai del tutto dissipato. Dasein si rese conto di aver lanciato un gesto di sfida alla parte di lui che era Santaroga. Burdeaux aveva fatto questo? si chiese. Che pacchi aveva scambiato Burdeaux con la Louisiana? Il pacchetto per Selador: era stato come lanciare un sasso che non poteva raggiungere il suo bersaglio. Ricordava di aver lanciato da bambino un sasso contro un gatto troppo lontano per essere colpito. Un gatto grigio. Ricordava l'improvviso silenzio degli uccelli nel giardino di sua zia, il gatto grigio che veniva avanti furtivo... il sasso che cadeva troppo lontano. Piaget era il gatto grigio. Il gatto, laggiù nel giardino, aveva sollevato lo sguardo, sorpreso per un attimo dal tonfo del sasso, aveva soppesato la situazione, e aveva ripreso a cacciare mostrando un insultante disprezzo per i ragazzini lontani che lanciavano sassi troppo lontani. Cosa aveva fatto Piaget? Dasein provò un improvviso deigrasp, un atto di autoscoperta nel quale il cielo pareva tremolare. In quel momento si rese conto per quale motivo si sentiva così orribilmente solo.
Non aveva nessun gruppo, nessun posto in un alveare dove procedeva alacre l'attività di altri compagni, niente che lo proteggesse dalle decisioni personali che potevano sopraffarlo. Qualunque decisione avesse preso, non importava quali fossero le conseguenze, quella era la sua decisione. Selador poteva far fronte alla vergogna dell'insuccesso del suo agente. La scuola poteva perdere la sua munifica sovvenzione. Quella cosa unica che era Santaroga poteva venir dissipata. Tutto a causa di una decisione, in realtà un gesto, preso da un solo uomo in piedi su un fazzoletto di colline spoglie e sabbiose, la cui mente si era messa a fantasticare su un corvo solitario e un gatto grigio. Era il momento d'intraprendere un'azione positiva, ma tutto quello che riuscì a pensare fu di rientrare nel camper e mettersi a mangiare. Mentre si muoveva in quello spazio ristretto friggendosi nella padella una omelette d'uova in polvere, il furgone produsse degli scricchiolii di protesta. La fame lo rodeva, ma lui non voleva quel cibo. Lui sapeva quello che voleva, quello che il suo corpo bramava fino a diventare un dolore nel nucleo stesso del suo essere, ed era fuggito fin là per sfuggirgli... Jaspers. CAPITOLO NONO Quando il buio fu totale, Dasein accese la luce da parete del camper e si concentrò sui suoi appunti. Sentiva che doveva tenere occupata la sua mente, ma il fetido odore del campeggio continuava a interferire. Il camper era un minuscolo mondo dai confini ben definiti, ma non poteva tener lontano l'universo là fuori. Dasein guardò le stelle fuori da un finestrino: buchi luminosi praticati nel buio. Amplificavano il suo senso di solitudine. Con uno scatto distolse lo sguardo dalle stelle. Gli appunti... Erano sempre gli stessi argomenti a riemergere: Dov'erano i bambini? Quale insuccesso nei mutamenti causati dallo Jaspers produceva gli zombie? Come poteva un'intera comunità venir infiammata dal desiderio inconscio di uccidere una persona? Qual era l'essenza dello Jaspers? Cos'era? Cosa faceva alla chimica del corpo? Dasein sentiva il pericolo che correva nel porre mano a queste domande.
Erano domande, e allo stesso tempo una risposta. La sua inchiesta: era questo che infiammava la comunità. Doveva farlo. Come un bambino che si toccasse una piaga, doveva farlo. Ma una volta che l'avesse fatto, poteva voltarsi e raccontare tutta la storia alla banda di Meyer Davidson? Anche se avesse trovato le risposte e avesse deciso di fare un rapporto completo e onesto, Santaroga gliel'avrebbe permesso? Dasein si rese conto che là fuori erano all'opera delle forze contro le quali lui era soltanto una candela che tremolava nella bufera. Divenne conscio di un rumore di passi che calcavano la sabbia. Spense la luce, aprì la porta e sbirciò fuori. Una figura confusa, spettrale alla luce delle stelle, una donna con un vestito leggero o un uomo piccolo con addosso un soprabito, si stava avvicinando lungo i solchi che si dipartivano dalla statale. — Chi è là? — gridò Dasein. — Gil! — Jenny! Saltò a terra e le andò incontro a grandi passi. — Pensavo che tu non potessi venire qua fuori. Mi avevi detto... — Per favore, non avvicinarti di più — disse lei. Si fermò a circa dieci passi da lui. C'era una strana qualità instabile nella sua voce. Dasein esitò. — Gil, se non vuoi venire dallo zio Larry, devi lasciare la valle — disse Jenny. — Vuoi che me ne vada? — Devi. — Perché? — Io... loro vogliono che tu te ne vada. — Cosa ho fatto? — Sei pericoloso per noi. Tutti noi lo sappiamo. Possiamo sentirlo: sei pericoloso. — Jenny... pensi che ti farei del male? — Non lo so! So soltanto che sei pericoloso. — E vuoi che me ne vada? — Ti ordino di andartene! — Me lo ordini? — Dasein sentì l'isterismo nella voce di lei. — Gil, ti prego. — Non posso andarmene, Jen. Non posso.
— Devi. — Non posso. — Devi farlo. — Ma non posso farlo. — Allora torna dallo zio Larry. Ci prenderemo cura di te. — Anche se dovessi diventare uno zombie? — Non dire questo! — Potrebbe succedere, vero? — Tesoro, ci prenderemo cura di te qualunque cosa accada! — Vi prendete cura dei vostri? — Certo che lo facciamo. — Jenny, sai che io ti amo? — Lo so — bisbigliò lei. — Ti amo. — Lo so. Lo so. — Allora perché mi fate questo? — Non ti facciamo niente. — Jenny stava piangendo, parlava fra i singhiozzi. — Sei tu che stai facendo... qualsiasi cosa tu ci stia facendo. — Sto soltanto facendo quello che devo fare. — Non devi fare niente. — Vorresti che fossi disonesto... che mentissi? — Gil, ti prego. Fallo per me... per te, vattene. — Oppure tornare dallo zio Larry? — Oh, per favore. — Cosa mi accadrà, se non lo farò? — Se mi ami davvero... Oh, Gil, non potrei sopportarlo se... se... Jenny s'interruppe, piangendo troppo per riuscire a parlare. Dasein si mosse verso di lei. — Jen, non piangere. Il pianto cessò d'un tratto e Jenny cominciò ad arretrare, scuotendo la testa. — Stai lontano da me! — Jenny, cosa c'è che non va con te? Lei si ritrasse ancora più in fretta. — Jenny, smettila. D'un tratto, Jenny si girò di scatto e si mise a correre lungo i solchi. Lui fece per rincorrerla, poi si fermò. A che cosa serviva? La voce di lei gli arrivò con un grido isterico: — Stai lontano da me! Ti amo! Stai lontano! Dasein rimase là, in scioccato silenzio, fino a quando non sentì la portie-
ra di una macchina che sbatteva fuori del campeggio, sulla statale. Dei fari si accesero; una macchina ripartì veloce verso la città. Ricordava la morbida luna del suo viso alla luce delle stelle, due buchi neri per gli occhi. Era stata come una maschera. Tornò al camper strascicando i piedi, la mente in subbuglio. Ti amo! Stai lontano! Cosa so davvero di Jenny? si chiese. Niente... salvo che lei lo amava. Stai lontano? Possibile che quella donna che l'aveva pregato, che gli aveva parlato con voce imperiosa, che gli aveva dato un ordine, fosse stata Jenny? Ciò trafisse la sua mente con un tocco di follia. Trascendeva l'irrazionalità della gente innamorata. Sei pericoloso. Lo sappiamo tutti. In verità, dovevano saperlo. Durante l'intima unione prodotta dallo Jaspers che aveva provato al lago, loro dovevano aver riconosciuto in lui il pericolo. Se lui avesse potuto tenersi lontano da quella roba, respingerla, allora sarebbero riusciti ancora a riconoscerlo? Come avrebbero potuto non riconoscerlo anche allora? La sua azione sarebbe stata il tradimento supremo. Allora pensò a Santaroga come a una cortina di calma ingannatrice sopra una pozza di violenza. Simili all'Olimpo sovrastavano il primitivo, certo. Ma il primitivo era sempre là, più esplosivo perché non poteva essere riconosciuto e perché era stato tenuto giù come una molla compressa. Jenny doveva sentirlo, pensò. L'amore che provava per lui doveva concederle uno sprazzo di chiarezza. Stai lontano da me! Il suo grido gli risuonava ancora negli orecchi. Ed era così che gli altri investigatori erano morti: liberando l'esplosione che era Santaroga. Delle voci s'intromisero nel sogno ad occhi aperti di Dasein. Provenivano dall'altro lato del camper, lontano dalla strada. Non c'era dubbio che una delle voci fosse di donna. Non era sicuro invece delle altre due. Dasein girò intorno al camper, guardò in direzione delle pozze umide e delle colline di sabbia. Era un paesaggio d'ombre illuminato dalle stelle, con l'accenno d'un bagliore. La luce d'una torcia balenò attraverso le colline. Ondeggiò e guizzò. C'erano tre figure nere e barcollanti associate alla luce. Dasein pensò alle stre-
ghe di Macbeth. Camminavano e scivolavano giù da una collina, costeggiarono una pozza e vennero in direzione del terreno del campeggio. Dasein si chiese se non avrebbe dovuto chiamarli. Forse si erano smarriti. Perché mai altrimenti avrebbero dovuto esserci tre persone là fuori di notte? Vi fu uno scoppio di risa, nel gruppo. Aveva un vago suono infantile. Allora la voce della donna scaturì con chiarezza nel buio: — Oh, Petey! È così bello averti con noi. Dasein si schiarì la gola e chiamò: — Ehi! — E poi, con voce più forte: — Ehi! La luce saettò nella sua direzione. La voce cadenzata della donna disse: — C'è qualcuno nel campeggio. Si udì un grugnito mascolino. — Chi è? — chiese la donna. — Soltanto un campeggiatore — rispose Dasein. — Vi siete persi? — Eravamo fuori a caccia di rane. — Assomigliava molto alla voce di un ragazzo giovane. Il terzetto venne verso di lui. — Un posto molto scadente per campeggiare — osservò la donna. Dasein studiò le figure che si avvicinavano. Quella sulla sinistra era un ragazzo, non c'erano dubbi che fosse un ragazzo. Pareva avesse con sé un arco e una faretra piena di frecce. La donna aveva una specie di lunga canna da pesca, una borsa voluminosa di qualche tipo su una spalla. L'uomo aveva una torcia elettrica e reggeva una sfilza di rane giganti. Si fermarono accanto al camper e la donna si appoggiò ad esso per togliersi una scarpa e versare fuori la sabbia che era entrata. — Siamo stati fuori allo stagno — disse. — Uh! — grugnì l'uomo. — Ne abbiamo prese otto — disse il ragazzo. — Mamma le friggerà per la prima colazione. — Petey moriva dalla voglia di venire a cacciarle — spiegò la donna. — Non potevo dirgli di no. Non il suo primo giorno a casa. — Sono stato promosso — dichiarò il ragazzo. — Papà no, ma io ce l'ho fatta. — Capisco — disse Dasein. Studiò l'uomo alla luce riflessa dalla fiancata d'alluminio del camper. Era un uomo alto, magro, dall'aria piuttosto ottusa. Ciuffi di capelli biondi spuntavano da sotto un berretto a calza. I suoi occhi erano vuoti come due pezzi di vetro azzurro.
La donna si era rimessa la scarpa, e adesso si era tolta l'altra e stava svuotando anche questa. Era avvolta in un pesante cappotto che dava l'impressione di essere stato modellato su un barile. Era bassa, non superava la spalla dell'uomo, ma aveva un'aria decisa che ricordava a Dasein Clara Scheler della rivendita di automobili usate. — Bill è il primo della sua famiglia da otto generazioni che non ce l'ha fatta — disse la donna, rimettendosi anche l'altra scarpa e raddrizzandosi. — Pensano che si sia trattato di qualcosa nella dieta di sua madre prima che nascesse. Eravamo fidanzati prima che... Perché mai le sto dicendo tutto questo? Non credo di conoscerla. — Dasein... Gilbert Dasein — si presentò lui. E pensò: Allora è così che si prendono cura dei loro. — L'amico di Jenny! — esclamò la donna. — Ma guarda. Dasein fissò il ragazzo. Petey. Sembrava che non avesse più di dodici anni, era alto quasi quanto la donna. Il suo volto, quando la luce della torcia lo sfiorò, era la copia carbone di quello dell'uomo. Là non si poteva certo negare la paternità. — Gira la luce da questa parte, Bill — disse la donna. Aveva parlato con attenzione, scandendo le sillabe come se stesse rivolgendosi a un bambino molto piccolo. — Da questa parte, tesoro — ripeté. — Da questa parte, papà. — Il ragazzo diresse la mano incerta dell'uomo. — Così va bene, amore — disse la donna. — Credo che l'amo della canna mi si sia impigliato nel cappotto. — Armeggiò con un pezzo di lenza sul fianco. — Uhh — fece l'uomo. Dasein lo fissò con una raggelante sensazione di orrore. Riusciva a vedere se stesso, Jenny che «si prendeva cura» di lui, i loro bambini che li aiutavano. — Ecco — annunciò la donna, liberando la lenza e attaccandola alla canna. — Adesso gira la luce verso il terreno, Bill. Verso il terreno, tesoro. — Giù da questa parte, papà — intervenne il figlio, aiutandolo. — Sei un amore — disse la donna. Allungò una mano, accarezzando la guancia dell'uomo. Dasein sentì qualcosa di osceno in quel gesto, volle guardare altrove ma non ci riuscì. — È davvero bravo, Bill — disse la donna. Il ragazzo cominciò a giocare con l'arco, tendendolo, rilasciandolo.
— Cosa sta facendo qua fuori, dottor Dasein? — chiese la donna. — Volevo... volevo esser solo... per un po'. — Si costrinse a guardarla. — Be', questo è proprio il posto ideale per restare soli — rispose la donna. — Si sente bene? Niente... sfarfallii... o altro? — Mi sento benissimo — disse Dasein. Rabbrividì. Il ragazzo aveva incoccato una freccia nell'arco, la stava agitando intorno a sé. — Mi chiamo Mabel Jorick — disse la donna. — Questo è Bill, mio marito; nostro figlio, Petey. Petey è stato... sa, con il dottor Piaget. Ha appena avuto il suo certificato sanitario. — Sono stato promosso — esclamò il ragazzo. — Davvero, l'hai fatto, amore. — La donna guardò Dasein. — Andrà fuori all'università l'anno prossimo. — Non è un po' giovane? — chiese Dasein. — Quindici anni — disse la donna. — Uhh — fece l'uomo. Dasein vide che il ragazzo aveva fatto descrivere all'arco un cerchio completo. La punta della freccia luccicò al bagliore della torcia elettrica. La freccia puntava in alto e in basso... a destra e a sinistra. Dasein si mosse, incerto, quando vide la punta della freccia puntata contro il suo petto, per poi spostarsi, tornare indietro. Il sudore cominciò a colargli dalla fronte. Sentiva una minaccia nel ragazzo. D'istinto Dasein manovrò per frapporre l'uomo fra sé e il ragazzo, ma Bill arretrò e si mise a guardare in direzione della statale. — Credo che senta il rumore della macchina — disse la donna. — Mio fratello, Jim, sta per venire a prenderci. — Scosse la testa con stupore. — Ha un udito incredibile, il mio Bill. Dasein sentì che la crisi stava per giungere al culmine e travolgerlo. Si lasciò cadere carponi. Mentre cadeva sentì lo schiocco dell'arco, sentì il vento della freccia sfiorargli la nuca, sentì la freccia piantarsi contro il fianco del camper. — Petey! — urlò la donna. Gli strappò di mano l'arco. — Cosa fai? — Mi è scivolato, mamma. Dasein si alzò in piedi, studiando quella gente con attenzione. — Uhh — fece l'uomo. La madre si rivolse a Dasein, stringeva l'arco in mano. — Ha cercato di uccidermi — bisbigliò Dasein. — È stato soltanto un incidente! — protestò il ragazzo.
L'uomo sollevò la torcia, un gesto di minaccia. Senza guardarlo, la donna disse: — Puntala verso il terreno, tesoro. — Spinse la luce verso il basso, fissò Dasein. — Non penserà che... — È stato un incidente — disse il ragazzo. Dasein fissò la freccia. Era penetrata per metà attraverso la parete del camper, all'altezza del suo petto. Cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. Se non si fosse buttato giù proprio in quell'istante... Un incidente, un increscioso incidente. Il ragazzo stava giocando con l'arco e con la freccia. Gli era sfuggita. Morte per disgrazia. Cos'è che mi ha avvertito? si chiese Dasein. Conosceva la risposta. Si trovava là nella sua mente, chiaramente leggibile. Era arrivato a conoscere il modello santarogano di minaccia. I mezzi potevano differire, ma il modello aveva una sua uniformità: qualcosa di letale in un contesto all'apparenza innocente. — È stato un incidente — bisbigliò la donna. — Petey non farebbe male a una mosca. Dasein vide che non ci credeva. E quella era un'altra cosa ancora. Lui era ancora collegato da un tenue filo alla «comunione Jaspers». Il messaggio ammonitore arrivato lungo quel filo era inequivocabile. L'aveva ricevuto anche lei. — Davvero? — chiese Dasein. Guardò ancora una volta la freccia che spuntava dal camper. La donna si voltò, afferrò suo figlio per la spalla, agitò l'arco davanti a lui. — Vuoi tornare indietro? — gli chiese. — È così? — Uhh — fece l'uomo. Spostò i piedi a disagio. — È stato un incidente — disse una volta ancora il ragazzo. Si vedeva chiaramente che era sul punto di piangere. La donna rivolse un'occhiata implorante a Dasein. — Non dirà niente al dottor Larry, vero? — Dire qualcosa? — Dasein la fissò stupidamente. — Potrebbe... sa, capire male. Dasein scosse la testa. Di cosa stava parlando? — È così difficile — proseguì la donna. — Dopo Bill, voglio dire. Sa com'è laggiù. — Fece un gesto vago con la testa. — Il modo in cui ti sorvegliano, cogliendo anche il più piccolo sintomo. Là è così difficile avere un figlio... sapendo, potendolo vedere soltanto durante le ore di visita e... e non essere mai sicuri fino a quando...
— Sto bene, mamma — disse il ragazzo. — Certo, amore. — Continuò a tenere gli occhi puntati su Dasein. — Non farei male a nessuno deliberatamente — insisté Petey. — Certo che no, amore. Dasein sospirò. — Sono stato promosso — disse il ragazzo. — Io non sono come papà. — Uhh — fece l'uomo. A Dasein venne voglia di piangere. — Non dirà niente, vero? — lo implorò la donna. Così, Piaget aveva un lavoro gratificante per lui, lì nella valle, pensò Dasein. Un lavoro in clinica... sui giovani. Ed era collegato con lo Jaspers, naturalmente. — Mi rimanderanno dentro? — chiese Petey. C'era paura nella sua voce. — Dottor Dasein, la prego... — l'implorò la donna. — È stato un incidente — disse Dasein. Sapeva che non era stato un incidente. La donna lo sapeva. La freccia avrebbe dovuto ucciderlo. Aggiunse: — Forse sarà bene togliergli l'arco e le frecce per un po'. — Oh, non si preoccupi per questo — disse la donna. C'era un profondo sospiro di sollievo nella sua voce. Un'automobile si fermò lungo la statale all'altezza del campeggio. — È Jim — disse la donna. Si voltò; il sacco che aveva in spalla dondolò in direzione di Dasein. Un ricco aroma di Jaspers aleggiò fino a lui. Veniva dalla borsa. Dasein bloccò la propria mano destra quando questa si tese automaticamente verso la borsa. Mabel Jorick si voltò a guardarlo. — Voglio ringraziarla per essere stato così comprensivo — gli disse. — Se mai ci fosse qualcosa... — S'interruppe notando l'attenzione di Dasein concentrata sulla borsa. — Scommetto che ha sentito l'odore del caffè — aggiunse. — Ne vuole? Dasein scoprì d'essere incapace d'impedirsi di annuire. — Be', ecco — disse la donna. Fece ruotare la borsa portandola davanti a sé. — Il thermos è quasi pieno. Ne ho appena bevuta una tazza, fuori allo stagno. L'ho versata fuori quasi tutta. Petey, vai avanti, accompagna papà fino alla macchina. — Va bene, mamma. Buona notte, dottor Dasein. Dasein non riusciva a distogliere lo sguardo dalle mani della donna intente a tirar fuori dalla borsa uno scintillante thermos metallico. — Prenda il thermos — gli disse la donna, porgendoglielo. — Ce lo re-
stituirà quando tornerà in città. Noi abitiamo in Salmon Way, soltanto a mezzo isolato dalla clinica. Dasein sentì che le sue dita si chiudevano intorno al lato corrugato del thermos. Cominciò a tremare. — È sicuro di sentirsi bene? — chiese la donna. — Sono... devono essere i postumi dello... shock, suppongo — rispose. — Sicuro. Mi spiace tantissimo. — La donna si avvicinò al camper muovendosi alle spalle di Dasein e ruppe la freccia che sporgeva. — Darò questa a Petey perché ricordi quanto deve stare attento. Dasein distolse con uno sforzo la sua attenzione dal thermos, e fissò i solchi sulla sabbia. Petey e suo padre avevano già percorso metà del tratto che portava alla statale. Laggiù i fari della macchina creavano un imbuto di splendore. Un clacson suonò una volta. — Se è sicuro di sentirsi bene — disse ancora la donna, — farò meglio ad andare. — Guardò il camper, lanciò un'altra occhiata a Dasein. — Se mai ci fosse qualcosa che noi possiamo fare... — Io... vi riporterò il thermos non appena potrò — replicò Dasein. — Oh, non c'è fretta; non c'è affatto fretta. — La donna si strinse addosso il cappotto, e infine si avviò a sua volta verso la statale, con passo affaticato. A circa venti passi di distanza si fermò, si girò. — È stato davvero carino da parte sua, dottor Dasein. Non lo dimenticherò. Dasein tenne lo sguardo puntato finché l'automobile non girò, puntando verso la città. Prima che la macchina scomparisse alla sua vista, era già risalito nel camper, aveva tolto il tappo al thermos e si era versato una fumante tazza di caffè. Le mani gli tremavano vistosamente mentre portava la tazza alla bocca. Tutto il tempo e la materia si erano ridotti a quell'istante... questa tazza, e il ricco vapore di Jaspers che l'avvolgeva. Prosciugò la tazza. Provò una sensazione come di raggi che si sprigionassero da un punto piccolo come una puntura di spillo dentro il suo stomaco. Dasein si trascinò fino alla sua cuccetta, e si avvolse nel sacco a pelo. Si sentiva supremamente distaccato, un essere transitorio. La sua consapevolezza si muoveva dentro una cornice di reti splendenti. Qui c'era terrore. Cercò di ritrarsi, ma le reti lo trattenevano. Dov'è l'io che ero un tempo? pensò. Cercò di aggrapparsi ad un io con cui aveva una certa familiarità, un io che poteva identificare. La stessa idea dell'io gli sfuggiva. Divenne un simbolo a forma di orecchio che interpretò come la mente-in-azione.
Per un attimo guizzante gli parve di aver incontrato il terreno solido, un nucleo di verità relativa dal quale poteva prendere le sue decisioni e giustificare tutte le sue esperienze. I suoi occhi si spalancarono di colpo. Alla debole luce delle stelle riflessa dentro al camper vide qualcosa luccicare sulla parete, e riconobbe la punta della freccia di Petey. Eccola là. La verità relativa: la testa di una freccia. Là aveva avuto origine; là cessava. Ogni cosa che ha origine ha una fine, si disse. Allora sentì un agitarsi dentro la sua coscienza. Era la cosa antica che dimorava là, il divoratore della mente. Sonno, si disse Dasein. C'era un atman che dormiva dentro di lui. Resisteva al risveglio. Era infinito, circolare. Lui giaceva disteso sul suo orlo. Dasein dormiva. CAPITOLO DECIMO La luce dell'alba lo svegliò. Il caffè nel thermos era freddo e aveva perso il suo sapore di Jaspers. Ma lo sorseggiò ugualmente per dar sollievo alla sua gola asciutta. Dev'esserci un posto simile a una scuola, pensò. Un collegio... con delle ore per le visite. E la differenza di Santaroga: qualcosa di più di una scuola. Fissò il thermos. Era vuoto. Il sapore amaro del suo contenuto gli era rimasto sulla lingua, un promemoria della sua debolezza durante la notte. Lo Jaspers l'aveva sprofondato negli incubi. Ricordava di aver sognato case di vetro, un infrangersi di vetri che gli crollavano addosso... e lui si metteva a urlare. Una casa di vetro, pensò. Serre. Il rumore d'una macchina che si avvicinava s'intromise nei suoi pensieri. Dasein uscì dal camper nella gelida aria del mattino. Una Chevrolet verde stava venendo verso di lui sobbalzando. Gli pareva familiare. Decise che quella macchina era quella di Jersey Hofstedder, o il suo sosia. Poi vide la donna muscolosa dai capelli grigi al volante, e ne ebbe conferma. Era la madre di Sam Scheler: Clara, la rivenditrice di macchine usate. Si fermò accanto a Dasein, scivolò attraverso il sedile e uscì dalla sua parte. — Mi hanno detto che lei si trovava quassù e, per Giove, è vero — e-
sclamò Clara Scheler. Rimase là a guardare Dasein tenendo fra le mani un piatto coperto. Dasein guardò la macchina. — È venuta fin qui per cercare di nuovo di vendermi quest'automobile? — le chiese. — L'automobile? — Guardò la macchina come se fosse comparsa lì accanto grazie a qualche forma di magia. — Oh, la macchina di Jersey. Per questo, c'è tempo in abbondanza... più tardi. Le ho portato un po' di antisbronza. — Gli porse il piatto. Dasein esitò. Perché mai quella donna avrebbe dovuto portargli qualcosa? — Petey è mio nipote — lo informò Clara Scheler. — Mabel, mia figlia, mi ha detto quanto lei è stato simpatico ieri sera. — Lanciò un'occhiata allo spuntone di freccia incastrato nella fiancata del camper di Dasein, quindi riportò la sua attenzione su di lui. — Mi è venuto in mente che forse il suo problema consiste nel fatto che non si rende conto di quanto noi vogliamo che lei diventi uno di noi. Perciò le ho portato un po' del mio stufato alla crema acida: c'è Jaspers in abbondanza. Gli spinse il piatto tra le mani. Dasein lo prese. La porcellana liscia e calda nelle sue mani. Represse l'irragionevole impulso di lasciar cadere il piatto, fracassandolo. D'un tratto aveva paura. Il sudore tendeva a fargli scivolare il piatto dalle dita. — Su, mangi — lo sollecitò la donna. — La rimetterà in sesto per tutta la giornata. Non devo farlo, si disse Dasein. Ma era irrazionale. Quella donna era soltanto gentile, premurosa... era la nonna di Petey. Il pensiero del ragazzo gli fece riaffluire alla mente l'incidente della sera prima. Scuola... osservazione... Jaspers... Un fruscio proveniente dalla Chevrolet verde lo distrasse: un vecchio collie nero e bianco dal muso grigio si arrampicò dal sedile posteriore a quello anteriore, poi scese sulla sabbia. Si muoveva con la sofferenza paziente dell'età avanzata. Annusò le caviglie di Clara. La donna abbassò la mano e accarezzò la testa del cane. — Ho portato Jimbo con me — disse. — Non va più tanto spesso in campagna. Ha quasi trentacinque anni e credo stia diventando cieco. — Si raddrizzò, indicò con un cenno del capo il piatto nelle mani di Dasein. — Su, mangi. Ma Dasein era affascinato dal cane. Trentacinque anni? Quello equivaleva a più di duecento anni per un essere umano. Appoggiò il piatto sui
gradini del camper e si chinò a fissare il cane da vicino. Jimbo. Stava diventando cieco, aveva detto la donna, ma i suoi occhi avevano la stessa inquietante franchezza prodotta dallo Jaspers che aveva visto in tutti gli umani. — Le piacciono i cani? — gli chiese Clara Scheler. Dasein annuì. — Ha davvero trentacinque anni? — Trentasei in primavera... se dura. Jimbo si avvicinò a Dasein, il quale tornò a concentrarsi sul posto che aveva occupato nei suoi pensieri la macchina di Jersey Hofstedder: una chiave per accedere a Santaroga. Era la macchina? si chiese. Oppure la macchina era soltanto un simbolo? Qual era la cosa importante: la macchina o il simbolo? Vedendo la sua attenzione concentrata sulla macchina, Clara disse: — Il suo prezzo è ancora 650 dollari, se la vuole. — Vorrei guidarla — rispose Dasein. — Adesso? — Perché no? La donna fissò il piatto sui gradini del camper e dichiarò: — Certo quello stufato non si scalderà, a star lì... e lo Jaspers si dissipa, sa. — Ho bevuto il caffè di sua figlia, ieri sera — l'informò Dasein. — Niente... effetti postumi? Era una domanda di ordine pratico. Dasein si trovò a sondare le sensazioni del proprio corpo: la ferita alla testa non gli faceva quasi più male, il dolore alla spalla stava scomparendo... c'era un po' di rabbia latente nei confronti della freccia di Petey, ma niente che il tempo non sarebbe stato in grado di curare. — Sto bene. — Ottimo! Ci sta riuscendo — disse la donna. — Jenny l'aveva detto. Okay. — Indicò con un gesto la Chevrolet verde. — Facciamo un giro su per la statale e torniamo qui. Guidi lei. — Salì sul sedile anteriore destro, chiuse la portiera. Il cane sollevò la testa dalle zampe. — Tu rimani qui, Jimbo — gli disse la donna. — Torneremo subito. Dasein girò intorno alla macchina, salì dietro il volante. Il sedile parve modellarsi sulla sua schiena. — Comodo, eh? — gli chiese Clara. Dasein annuì. Aveva una strana sensazione di deja vu, di aver già guidato quella macchina, la sentiva giusta sotto le sue mani. Il motore si animò
ronfando, cominciò a muoversi senza quasi far rumore. Dasein fece indietreggiare la macchina, la fece girare, le fece percorrere il breve tratto segnato dai solchi e sbucò fuori sulla statale. Quindi puntò nella direzione opposta rispetto alla città. Un tocco alla valvola, e la vecchia Chevrolet balzò in avanti: cinquanta... sessanta... settanta. Rallentò a sessantacinque. Svoltava gli angoli come una macchina sportiva. — Ha barre a torsione — disse Clara. — In quanto a dondolio, non vale quanto una dannata cicca. Non è bella? Dasein toccò i freni, niente affievolimento, e il muso della macchina non deviò di un pollice. Era come se la macchina viaggiasse sui binari. — Questa macchina è in miglior forma di quanto lo fosse il giorno che è uscita dalla catena di montaggio — disse Clara. In silenzio, Dasein fu d'accordo con lei. Era un piacere guidare. Gli piaceva l'odore di cuoio al suo interno. Il legno del cruscotto rifinito a mano luccicava d'un lustro opaco. Non causava nessuna distrazione, era soltanto un insieme compatto di strumenti situati alti così da poter essere letti facilmente senza dover distogliere gli occhi per troppo tempo dalla strada. — Osservi come ha imbottito il cruscotto su questo lato — disse ancora Clara. — È spesso un pollice e mezzo e sotto c'è un sottile rotolo di metallo. Ha tagliato il volante a circa un terzo più indietro, controbilanciandolo con un giunto a U. Urti qualunque cosa con questa macchina e non si ritroverà mai con quel volante che le spunta dalla schiena. Jersey faceva macchine sicure ancora prima che a Detroit avessero mai sentito questa parola. Dasein trovò un ampio spiazzo vicino a una curva, uscì di strada, fece girare la macchina e puntò di nuovo in direzione del campeggio. Sapeva che doveva avere quella macchina. Era davvero tutto quello che la donna diceva. — Sa che le dico? — fece Clara. — Appena torno farò portare la macchina dal dottore. Discuteremo dei particolari più tardi. Non troverà difficile trattare con me, anche se non potrò darle molto per quel catorcio d'un furgone. — Non... non so come potrò pagare — disse Dasein. — Ma... — Non dica altro. Troveremo qualcosa. La pista che portava al campeggio comparve alla loro vista. Dasein rallentò, svoltò lungo i solchi, mise la seconda. — Dovrebbe davvero usare la cintura di sicurezza — disse Clara. — Ho
notato che lei... — S'interruppe quando Dasein si fermò dietro al camper. — C'è qualcosa che non va con Jimbo! — esclamò. Scese in fretta dalla macchina e raggiunse il cane. Dasein spense l'accensione, balzò giù e corse al suo fianco. Il cane giaceva quasi riverso sulla schiena, con le zampe allungate e rigide, il collo incurvato all'indietro, la bocca aperta e la lingua sporgente e tesa. — È morto — disse Clara. — Jimbo è morto. L'attenzione di Dasein andò al piatto sui gradini. La sua copertura era stata spinta da parte e il suo contenuto smosso. C'erano schizzi di sugo accanto al coperchio. Ancora una volta Dasein guardò il cane. Intorno a Jimbo la sabbia era graffiata e smossa come da ampi mulinelli. D'un tratto Dasein si chinò sopra il piatto di stufato e l'annusò. Sotto l'intenso odore dello Jaspers c'era un aroma amaro che gli fece arricciare le narici. — Cianuro? — chiese. Fissò Clara Scheler con espressione accusatrice. Lei fissò il piatto. — Cianuro? — Lei ha cercato di uccidermi! La donna prese su il piatto, lo annusò. Il suo volto impallidì. Si voltò e fissò Dasein con occhi spiritati. — Oh, mio Dio! La candeggina per la vernice. — Lasciò cadere il piatto. Si girò di scatto e corse verso la macchina prima che Dasein riuscisse a fermarla. La Chevrolet si animò di colpo, girò sollevando un turbine di sabbia, infilò ruggendo la pista verso la statale. Svoltò sulla statale con una violenta slittata, e si diresse a tutta velocità verso la città. Dasein restò immobile a fissarla. Ha cercato di uccidermi, pensò. Cianuro. Candeggina per vernice. Ma non riusciva a scuotersi di dosso il ricordo dei suoi occhi pallidi e stralunati. Era rimasta sorpresa e scioccata tanto quanto lui. Candeggina per vernice. Fissò il cane morto ai suoi piedi. Avrebbe lasciato il piatto vicino al cane se avesse saputo che conteneva veleno? Improbabile. Ma, allora, perché era corsa via? Candeggina per vernice. Dasein si rese conto che doveva esserci cibo contaminato a casa sua. Era tornata a precipizio prima che uccidesse qualcun altro. Un incidente... un altro dannato incidente. Tirò un calcio al piatto caduto, trascinò il cane via dal furgone, si mise dietro il volante.
Dopo la macchina di Jersey, il motore della Ford era uno squallido pasticcio palpitante. La manovrò con delicatezza fino alla statale, poi la girò verso la città. Incidente, pensò. Uno schema stava emergendo, ma trovava difficile accettarlo. Il suo pensiero aveva un sapore holmesiano... Quando si elimina l'impossibile, qualunque cosa rimanga, per quanto improbabile, dev'essere la verità. Jenny aveva urlato: — Stai lontano da me. Ti amo. Questo era qualcosa di concreto. Lei lo amava. Perciò doveva rimanere lontano da lei. Per il momento. La strada si biforcava e lui girò a destra, seguendo un cartello che diceva «Serre». C'era un ponte che attraversava il fiume, un ponte di vecchio stile ad arco acuto... pesanti tavole che sbattevano sotto le ruote. Il fiume schiumeggiava e s'inarcava tra le pietre levigate sotto il ponte. Arrivato all'estremità opposta, Dasein fece rallentare il furgone, colto all'improvviso da una sensazione ammonitrice: una spinta ad esser cauto della quale aveva imparato a fidarsi. La strada seguiva la riva destra del fiume. Andò al passo con la corrente. Lanciò un'occhiata a valle in direzione del ponte, scoprì che era nascosto da una macchia di salici. Dasein ebbe l'impressione che il fiume avesse qualcosa di viscido e d'ingannevole. Pensò a un serpente liquido, velenoso, pieno d'energia malvagia. Conteneva un concentrato di malevolenza mentre scendeva formando rapide che costeggiavano la strada. E il suono: rideva di lui. Dasein tirò un sospiro di sollievo quando la strada si allontanò dal fiume, serpeggiando fra due basse colline e scendendo poi dentro una valle non troppo profonda. Intravide gli alberi attraverso il vetro. Era una distesa d'un verde luccicante e copriva un'area molto più grande di quanto si fosse aspettato. La strada terminava in un parcheggio davanti ad un lungo edificio di pietra. Altri edifici di pietra, tetti di tegole, finestre coperte da tende, erano disposti in file su per la collina accanto alle serre. Un gran numero di automobili erano in attesa nel parcheggio, un fatto che Dasein trovò quanto meno curioso: erano almeno un centinaio di macchine. E c'era gente: uomini camminavano fra le serre, c'erano figure vestite di
bianco dietro ai vetri, donne che andavano su e giù con passo svelto e spigliato. Dasein guidò lungo la fila di macchine alla ricerca di un posto dove parcheggiare. Trovò uno spazio al di là dell'estremità del lungo edificio di pietra, si fermò e si guardò intorno. Un canto. Dasein si voltò verso quel suono; giungeva dalle file di edifici oltre le serre. Una frotta di bambini comparve alla sua vista. Marciavano lungo un sentiero fra gli edifici. Reggevano in mano dei cesti. Tre adulti li accompagnavano. Davano la cadenza della loro marcia. La frotta scomparve alla sua vista giù dentro una serra. Dasein si sentì stringere il petto da una sensazione angosciosa. Un rumore di passi si fece udire alla sua sinistra. Dasein si voltò e vide Piaget che stava venendo verso di lui a grandi passi lungo la fila delle automobili. La figura voluminosa del dottore era accentuata dal lungo camice bianco. Era senza cappello, con i capelli arruffati dal vento. Piaget svoltò ed entrò nella piazzola, arrestandosi accanto a Dasein e guardando dentro il finestrino aperto del furgone. — Bene — disse. — Jenny aveva detto che ci sarebbe stato un arrivo. Dasein scosse la testa. Se c'era un significato nelle parole di Piaget, questo gli sfuggiva. S'inumidì le labbra con la lingua. — Cosa? Piaget corrugò la fronte. — Jenny conosce il rapporto. Ha detto che probabilmente lei si sarebbe fatto vivo qui. — D'un tratto la sua voce pareva molto forzata. Un arrivo, pensò Dasein. Era un'etichetta che definiva un avvenimento, una dichiarazione che sospendeva il giudizio. Studiò il volto ampio e pacato di Piaget. — Ho visto dei bambini — disse Dasein. — Cosa si aspettava? Dasein scrollò le spalle. — Avete intenzione di cacciarmi via? — Al Marden dice che a quelli che scappano viene la febbre — disse Piaget. — Quelli che osservano traggono i benefici. — Mi calcoli fra gli osservatori — disse Dasein. Piaget sorrise, quindi aprì lo sportello del furgone. — Venga. Dasein si ricordò del fiume, esitò. Pensò al tappeto lacerato sul pianerottolo della Locanda, al becco a gas aperto, al lago... la candeggina per vernice. Il pensiero di Jenny che fuggiva via da lui: Stai lontano da me! Ti amo.
— Su, venga — disse Piaget. Ancora esitante, Dasein chiese: — Perché tenete qui i bambini? — Dobbiamo spingere indietro la superficie dell'infanzia — disse Piaget. — È una cosa brutale, animata. Ma il cibo cresce. — Indicò con un gesto la distesa delle serre. — C'è educazione. C'è energia utile. Chi non spreca non ha bisogno di nulla. Ancora una volta Dasein scosse la testa. Un quasi-significato. Spingere indietro la superficie dell'infanzia? Era come il discorso d'uno schizofrenico, e ricordò l'episodio della Pecora Azzura, la conversazione della giovane coppia che l'ossessionava ancora. Era possibile sentire un tramonto? — Non... non parla inglese — si lamentò Dasein. — Io parlo — disse Piaget. — Ma... — Jenny ha detto che lei sarebbe stato uno di quelli che capiscono. — Piaget si grattò la guancia con un'espressione pensosa sul viso. — Lei ha l'addestramento, Dasein. — Ancora una volta la sua voce aveva assunto quel gravoso tono affaticato. — Dov'è la sua Weltanschauung? Ha una visione del mondo? Il tutto è più grande della somma delle sue parti. Che cos'è? Piaget allargò il braccio per indicare il complesso delle serre e l'intera valle, il mondo e l'universo più oltre. Dasein si sentiva la gola secca. Quell'uomo era pazzo. — Lei contiene l'esperienza Jaspers — proseguì Piaget. — La digerisca. Jenny ha detto che lei può farlo. La realtà permea le sue parole. Quella sensazione di angoscia era un dolore nel petto di Dasein. I pensieri rotolavano attraverso la sua mente senza nessun ordine o senso. Con voce grave, Piaget disse: — All'incirca in un caso su cinquecento lo Jaspers può... — Allargò le braccia, col palmo delle mani rivolto in alto. — Lei non è uno di quei pochi. Sono pronto a scommettere la mia reputazione. Lei sarà una persona in grado di aprirsi. Dasein guardò gli edifici di pietra, l'andirivieni frettoloso della gente. Tutta quell'attività motivata. Sentiva che tutto ciò poteva assomigliare alla danza delle api: movimenti concepiti per indicargli una direzione. Ma la direzione gli sfuggiva. — Cercherò di spiegarlo con parole dall'esterno — riprese Piaget. — Forse allora... — Scrollò le spalle, si appoggiò allo stipite della porta per
porre il suo volto più vicino a quello di Dasein. — Noi filtriamo la realtà attraverso schermi composti d'idee. Questi filtri di idee sono limitati dal linguaggio. Vale a dire che il linguaggio incide i solchi lungo i quali i nostri pensieri devono muoversi. Se cerchiamo nuove forme di validità, dobbiamo uscir fuori dalla nostra lingua. — E questo cosa ha a che fare con i bambini? — Dasein indicò le serre con un cenno del capo. — Dasein! Abbiamo un'esperienza istintiva in comune, lei ed io. Cosa accade alla psiche uniformata? Come individui, come culture e società, noi umani ri-recitiamo ogni aspetto della vita istintiva che ha accompagnato la nostra specie per innumerevoli generazioni. Con lo Jaspers noi togliamo l'elemento legante. Associato alla brutalità dell'infanzia? No! Avremmo violenza, caos. Non avremmo nessuna società. È semplice, no? Dobbiamo sovrapporre un ordine limitante agli schemi innati del nostro sistema nervoso. Dobbiamo avere interessi comuni. Dasein si trovò a cimentarsi con queste idee, cercando di cogliere, attraverso esse, un po' di senso nelle prime parole di Piaget. Spingere indietro la superficie dell'infanzia? La visione del mondo. — Dobbiamo soddisfare i bisogni di sopravvivenza dei singoli — proseguì Piaget. — Noi sappiamo che la civiltà-cultura-società esterna sta morendo. Stanno morendo, sa. Quando questo sta per succedere, dei pezzi cadono via dal corpo-madre. Dei pezzi si staccano da soli, si liberano, Dasein. Il nostro scalpello è stato lo Jaspers. Ci pensi! Lei è vissuto là fuori. È l'autunno virgiliano... l'imbrunire della civiltà. Piaget fece un passo indietro, studiò Dasein. Da parte sua Dasein era rimasto all'improvviso affascinato dal dottore. C'era un'essenza senza tempo in quell'uomo, potente, che intrudeva tutto ciò che lo riguardava. Incorniciata dal bianco colletto del camice c'era una testa egizia, guance e mascelle robuste, un naso uscito dai tempi di Mosè, denti bianchi e regolari dietro le sue labbra. Piaget sorrise, il sorriso sordo della suprema ostinazione; lasciò che un'occhiata melliflua scorresse sul paesaggio intorno a loro, le serre, la gente. Allora Dasein seppe per quale motivo era stato mandato là. Non era stato un vero rapporto sulla situazione del mercato a causarlo. Marden l'aveva definito con chiarezza. Lui era lì per infrangere tutto questo, per distruggerlo. Qui i santarogani lavoravano sui loro bambini, li addestravano. Lavoro
infantile. Non pareva che a Piaget importasse ciò che gli stava rivelando. — Venga — lo sollecitò Piaget. — Le farò vedere la nostra scuola. Dasein scosse la testa. Cosa sarebbe successo là dentro? Una spinta accidentale contro un vetro rotto? Un bambino con un coltello? — Devo... devo pensarci — rispose Dasein. — Ne è sicuro? — Le parole di Piaget erano risuonate nell'aria come una sfida. Dasein pensò a un'abbazia-fortezza nel medioevo, ai monaci-guerrieri. Tutto questo era contenuto in Piaget e nella sua valle, nella fiducia in se stessi con la quale i santarogani sfidavano l'esterno. Erano davvero così sicuri di sé? si chiese. Oppure erano attori ipnotizzati dalla loro stessa recita? — Lei è stato un nuotatore in superficie — dichiarò Piaget. — Non ha neppure visto la lotta. Non ha ancora sviluppato l'occhio innocente che vede l'universo sgombro dalle passate supposizioni. Lei è stato programmato e spedito qui per distruggerci. Dasein impallidì. — Essere programmati significa avere pregiudizi — continuò Piaget. — Poiché il pregiudizio è selezione e ripulsa, e questa è programmazione. — Esalò un profondo sospiro. — Ci prendiamo tanta pena per lei a causa della nostra Jenny. — Io sono venuto qui a mente aperta — dichiarò Dasein. — Niente pregiudizi? — Piaget sollevò un sopracciglio. — Così voi contestate ai... gruppi esterni quello che là è il modo giusto di... — Contestare è una parola troppo morbida, Dasein. È in corso una lotta di potere per il controllo della consapevolezza umana. Noi siamo una cellula di salute circondata dalla pestilenza. Non è in gioco la mente dell'uomo, ma la sua coscienza, la sua consapevolezza. Questa non è una lotta per un'area di mercato. Non ci sono equivoci su questo. Questa è una lotta su ciò che va giudicato prezioso per il nostro universo. All'esterno essi considerano prezioso quello che può essere contato o tabulato. Qui noi procediamo secondo standard diversi. Dasein percepiva una minaccia nella voce di Piaget. Non c'era più quell'impiallacciatura di finzione. Il dottore stava erigendo le barricate per una guerra, e lui, Dasein, si sentiva preso nel mezzo. Sapeva di trovarsi su un terreno molto più pericoloso di quanto gli fosse mai successo prima. Piaget e i suoi amici controllavano la valle. Un incidente ex-post-facto sarebbe stato un gioco da bambini per loro.
— Quelli che mi hanno assunto — cominciò Dasein, — sono uomini che credono... — Uomini! — lo schernì Piaget. — Là fuori... — Indicò quello che si trovava al di là delle colline che rinchiudevano la valle, — ...stanno distruggendo il loro ambiente, e nel far questo diventano non-uomini! Noi siamo uomini. — Si toccò il petto. — Loro non lo sono. La natura è un campo unificato. Un cambiamento radicale nell'ambiente significa che gli abitanti devono cambiare per poter sopravvivere. E i non-uomini là fuori stanno cambiando per sopravvivere. Dasein fissò Piaget a bocca aperta. Era questo, naturalmente. I santarogani erano conservatori... non cambiavano. Aveva potuto vederlo lui stesso. Ma Piaget aveva un'intensità fanatica, un fervore religioso, che ripugnavano a Dasein. Dunque, si trattava di una lotta per il controllo della mente degli uomini... — Lei, adesso, si sta dicendo — riprese Piaget, — che questi pazzi santarogani sono in possesso di una sostanza psichedelica che li rende inumani. Questo era talmente vicino a ciò che stava pensando, che Dasein s'immobilizzò per la paura. Potevano leggere nel pensiero? Era forse un sottoprodotto della sostanza Jaspers? — Lei ci sta equiparando a tutti quelli che fanno uso dell'LSD, che girano sporchi con addosso un paio di sandali — disse Piaget. — Lei li chiamerebbe kook. Ma lei, Dasein, è uguale a loro, inconsapevole. Noi siamo consapevoli. Noi abbiamo davvero liberato la mente. Noi abbiamo una medicina del potere, proprio come il whisky e il gin e l'aspirina e il tabacco... e, sì, l'LSD... proprio come queste, ripeto, sono medicine del potere. Ma lei deve capire la differenza. Il whisky e gli altri depressivi, questi mantengono docili i loro soggetti. La nostra medicina libera l'animale che non è mai stato domato... fino ad ora. Dasein guardò le serre. — Sì — annuì Piaget. — Guardi qui. È qui che noi addomestichiamo l'animale umano. Con uno shock silenzioso, del profondo della sua coscienza, Dasein si rese conto in quell'istante di aver udito troppo perché gli venisse mai più consentito di lasciare la valle. Avevano superato il punto del non-ritorno, con lui. Nel suo attuale stato mentale, i santarogani avevano una sola risposta: dovevano ucciderlo. Rimaneva una sola domanda: lo sapevano? C'era niente di consapevole in tutto questo? Oppure operava davvero al li-
vello di istinto? Dasein sapeva che, se lui stesso avesse fatto precipitare la crisi, lo avrebbe scoperto. C'era un modo per evitarla? si chiese. Mentre se ne stava lì, esitante, Piaget girò intorno al furgone e salì accanto a lui. — Lei non verrà con me — gli disse Piaget. — Verrò io con lei. — Lei verrà con me? — A casa mia; alla clinica. — Si girò, studiò Dasein. — Amo mia nipote, capisce? Non permetterò che le venga fatto del male, se potrò impedirlo. — E se mi rifiutassi? — Ahh, Gilbert, lei farebbe piangere gli angeli. E noi non vogliamo pianti, vero? Non vogliamo le lacrime di Jenny. Non è preoccupato per lei? — Sono un po' ansioso per... — Quando l'ansia entra in gioco, l'indagine si ferma. Lei ha una testa dura, Gilbert. Una testa dura fa venire il mal di schiena. Andiamo alla clinica. — Che razza di trappola mi avete preparato laggiù? Piaget lo fissò furioso, mostrandosi indignato. — Una trappola mortale? Mantenendo un tono di voce il più ragionevole possibile, Dasein l'accusò: — State cercando di uccidermi. Non lo neghi. Ho... — Sono disgustato di lei, Gilbert. Quando avremmo cercato di ucciderla? Dasein tirò un profondo sospiro, sollevò la mano destra ed enumerò sulle dita gli incìdenti, abbassandone uno per ognuno di essi, fino a quando la sua mano non fu chiusa a pugno. Aveva lasciato fuori soltanto l'incidente con Petey Jorick... e questo a causa di una promessa. — Incidenti! — esclamò Piaget. — Come sappiamo entrambi — lo confutò Dasein, — ci sono assai pochi veri incidenti, a questo mondo. La maggior parte di quelli che noi chiamiamo incidenti sono frutto d'una violenza inconscia. Lei ha dichiarato di aver aperto la propria mente. Ora ne faccia uso. — Bah! I suoi pensieri sono come acqua torbida! — Lasci lì l'acqua torbida, e diventerà limpida — disse Dasein. — Lei non può parlare seriamente. — Piaget fissò Dasein ancora più furente. — Ma vedo che fa proprio questo. — Chiuse gli occhi per un momento, li riaprì. — Bene, crederebbe a Jenny? Rimani lontano da me! Ti amo! Le parole riecheggiarono nella sua mente. — Andiamo alla sua clinica — disse infine a Piaget. Mise in moto il
furgone, uscì dal parcheggio e puntò verso la città. — Cercare di ucciderla — borbottò Piaget. Fissò il paesaggio che scorreva davanti a loro. Dasein guidò in silenzio... pensando, pensando, pensando. Nell'istante in cui aveva ripreso ad andare verso Jenny, le vecchie fantasie avevano ripreso ad afferrarlo. Jenny e la sua valle! Il luogo l'aveva avvolto nella sua aura: pazzesco, pazzesco, pazzesco! Ma lo schema stava emergendo. Si accompagnava al tipo di logica proprio dei santarogani. — Così non tutti possono prendere... la vostra medicina del potere? — domandò Dasein. — E cosa accade a coloro che falliscono? — Ci prendiamo cura dei nostri — ringhiò Piaget. — È per questo che continuo a sperare che lei rimanga. — Jenny è una psicologa bene addestrata. Perché non utilizzare lei? — Jenny fa la sua parte di servizio. — Chiederò a Jenny di venire via con me — disse Dasein. — Lo sa, vero? Piaget tirò su col naso. — Può rompere col vostro... Jaspers — insisté Dasein. — Gli uomini di qui vanno a fare il servizio militare. Devono... — Tornano sempre a casa una volta che è finito — disse Piaget. — Lo trova anche nei suoi appunti. Non si rende conto di quanto siano infelici là fuori? — Si girò verso Dasein. — È questa la scelta che intende offrire a Jenny? — Non possono essere tutti infelici quando si tratta di andarsene — ribatté Dasein. — Altrimenti voi gente intelligente avreste trovato un'altra soluzione. — Ummmp! — sbuffò Piaget. — Non ha neppure fatto i compiti a casa per la gente che l'ha assoldata. — Sospirò. — Glielo dirò io, Gilbert. La leva riforma la maggior parte dei nostri giovani: una grave reazione allergica a una dieta che non comprenda delle somministrazioni periodiche di Jaspers. E lo possono avere soltanto qui. Il sei per cento dei nostri giovani che viene arruolato lo fa come un dovere verso la valle. Non vogliamo tirarci addosso l'ira dei federali. Abbiamo un accordo politico con il nostro stato, ma non siamo abbastanza grandi per applicare la stessa tecnica a livello nazionale. Hanno già deciso cosa fare di me, pensò Dasein. Non gli importa niente di ciò che mi dicono. La costernazione gli fece provare un'angosciosa sensazione di paura alla
bocca dello stomaco. Girò una curva e sbucò sulla strada che correva parallela al fiume. Davanti a lui c'era la macchia di salici piangenti con la lunga curva che si allungava verso il basso. Dasein ricordò la sua proiezione di malvagità sul fiume, diede più gas per lasciarsi al più presto alle spalle quel luogo. Il furgone infilò una curva. La strada era sopraelevata e ben arginata. Il ponte comparve alla sua vista. C'era un furgone giallo parcheggiato fuori dalla strada sul lato opposto. Degli uomini erano in piedi dietro il furgone giallo intenti a bere da tazze metalliche. — Stia attento! — urlò Piaget. In quell'istante Dasein vide la ragione della presenza del furgone giallo: un buco si spalancava al centro del ponte dove le assi erano state tolte. Quella era una squadra per la manutenzione stradale della contea e avevano aperto un foro di almeno tre metri nel ponte. Il furgone di Dasein aveva percorso un'altra quindicina di metri prima che lui si rendesse pienamente conto del pericolo. Adesso poteva vedere un'asse stesa di traverso a ciascuna estremità del ponte, con delle bandierine gialle di avvertimento al centro. Dasein si aggrappò al volante. La sua mente si mise a far calcoli con una velocità che non aveva mai sperimentato prima. L'effetto fu quello di rallentare lo scorrere esterno del tempo. Il furgone parve quasi fermarsi mentre Dasein esaminava le possibilità... Frenare? No. I freni e i pneumatici erano vecchi. A quella velocità il furgone avrebbe slittato sul ponte finendo dentro il foro. Uscire di strada? No. Il fiume era in attesa su entrambi i lati: un taglio profondo nella terra pronto a inghiottirli. Puntare contro la testata del ponte per fermare il furgone? Non con quella velocità e senza cinture di sicurezza. Dare gas per aumentare la velocità? Quella era una possibilità. C'era una barriera temporanea da sfondare, ma era soltanto un'asse di legno. Il ponte s'inarcava nel mezzo: il foro era stato aperto giusto al centro. Se la velocità fosse stata sufficiente, il furgone sarebbe riuscito a saltare il foro. Dasein abbassò la valvola fino al pavimento. Il vecchio furgone balzò in avanti. Poi vi fu un crepitio secco quando sfondarono la barriera. Le assi sbatterono sotto le ruote. Vi fu un istante di volo mozzafiato, uno schianto,
uno scarto, un sobbalzo come lo scatto di una molla quando atterrarono dall'altra parte del foro, il crac della barriera all'estremità opposta. Dasein tirò i freni e si fermò con un grande stridio sul lato opposto a quello degli addetti alla manutenzione. Il tempo riprese il suo scorrere normale, mentre Dasein fissava quella squadra: cinque uomini, i volti pallidi, le bocche spalancate per lo stupore. — Per l'amor del cielo! — rantolò Piaget. — Lei corre sempre rischi del genere? — C'era forse un'altra maniera per tirarci fuori da questo pasticcio? — chiese Dasein. Sollevò la mano destra e la fissò. La mano gli tremava. Piaget rifletté un istante, poi: — Ha scelto quella che con ogni probabilità era la sola via d'uscita... ma se non avesse guidato così dannatamente in fretta, quasi alla cieca... — Sono pronto a scommettere una cosa con lei — l'interruppe Dasein. — Scommetto che il lavoro su quel ponte non era necessario, che si è trattato di un errore, o di un lavoretto fatto a bella posta. Dasein mise la mano sulla maniglia della portiera, dovette armeggiare due volte per riuscire a prenderla in mano, poi scoprì che gli ci voleva uno sforzo, un impeto cosciente per aprirla. Scese giù, e scoprì che le sue ginocchia parevano di gomma. Rimase immobile per un momento e tirò parecchi respiri profondi. Poi girò intorno al furgone e si fermò sul davanti. Entrambi i fari erano fracassati e c'era una profonda ammaccatura che si stendeva attraverso il paraurti e la cuffia del radiatore. Dasein rivolse la sua attenzione agli operai. Uno di loro, un uomo tarchiato dai capelli scuri, con addosso una camicia a scacchi di lana e una tuta da lavoro, era un passo più avanti degli altri. Dasein concentrò la sua attenzione su quell'uomo, e chiese: — Perché non è stato messo un segnale di avvertimento là dietro la curva? — Buon Dio, uomo! — esclamò l'individuo. Il suo volto s'imporporò. — Nessuno fa questa strada a quest'ora del giorno. Dasein andò verso la pila di assi: il terriccio e le chiazze di benzina sul legno testimoniava che erano state tolte dal ponte. Erano assi di sequoia. Sollevò l'estremità di una di esse, la voltò: non c'erano né incrinature né contrassegni che indicassero un precedente controllo. Quando la lasciò ricadere sulla pila produsse il tonfo secco di un'asse intatta. Si voltò e vide l'operaio a cui si era rivolto prima che si avvicinava. Piaget si trovava parecchi passi più indietro. — Quando avete ricevuto l'ordine di fare questo lavoro? — chiese Da-
sein. — Uh? — L'operaio si fermò e fissò Dasein corrugando la fronte, perplesso. — Be', abbiamo deciso di venire quassù circa un'ora fa. Per l'inferno, che differenza fa? Lei ha fracassato il... — Avete deciso? — esclamò Dasein. — I lavori non vi vengono assegnati? — Sono io il caposquadra degli addetti alla manutenzione di questa valle, signore mio. Sono io a decidere, non che siano fatti suoi comunque. Piaget si fermò accanto all'uomo: — Dottor Dasein, questo è Josh Marden, il nipote del capitano Marden. — Il nepotismo comincia a casa propria, a quanto posso vedere — commentò Dasein, con un tono di voce volutamente cortese. — Bene, signor Marden, oppure posso chiamarla Josh? — Adesso senta qua, dottor Das... — Josh, allora — disse Dasein, sempre con lo stesso tono di tranquilla cortesia. — Sono molto curioso, Josh. Queste mi sembrano assi perfettamente a posto. Perché allora avete deciso di sostituirle? — Che diavolo di diff... — Diglielo, Josh — intervenne Piaget. — Confesso di avere anch'io una certa curiosità. Marden puntò gli occhi su Piaget, poi riportò lo sguardo su Dasein. — Be'... noi abbiamo ispezionato il ponte... Facciamo delle ispezioni regolari. Abbiamo appena deciso di fare un po' di manutenzione preventiva, mettere qui delle assi muove, utilizzando quelle vecchie sopra un ponte dove non c'è così tanto traffico. Non c'è niente d'insolito in... — Non c'è nessun lavoro urgente da fare in questa valle? — s'informò Dasein. — C'è qualche lavoro che avete interrotto per venir qui a... — Adesso senta, signor mio! — Marden fece un passo verso Dasein. — Lei non ha nessun titolo per... — Che mi dici della Old Mill Road? — chiese Piaget. — Ci sono ancora quelle buche sulla curva accanto al fossato? — Adesso senta, dottore — disse Marden, girandosi di scatto e fronteggiando Piaget. — Non ci si metta anche lei. Noi abbiamo deciso di... — Calma, Josh — l'interruppe Piaget. — Sono soltanto curioso. Cosa mi dici della Old Mill Road? — Ooh, dottore. Era una giornata così bella, e il... — Dunque, quel lavoro non è stato ancora fatto — tornò a interromperlo
Piaget. — Ho vinto la scommessa — esclamò Dasein. Si avviò in direzione del suo furgone. Piaget gli si affiancò. — Ehi! — urlò Marden — Ha danneggiato una proprietà della contea, e quelle assi sulle quali è atterrato si sono probabilmente... Dasein lo interruppe senza voltarsi: — Sarà meglio che ripari quel ponte prima che a qualcun altro succeda qualcosa. Scivolò dietro il volante del furgone, sbatté la portiera. Adesso la reazione cominciava ad avere effetto: tutto il suo corpo era in tensione per la rabbia. Piaget salì accanto a lui. Il furgone sferragliò quando Piaget chiuse la portiera. — Correrà ancora? — chiese. — Un incidente! — esclamò Dasein. Dasein mise in moto, si stabilizzò sui sessanta all'ora. Lo specchietto retrovisore gli mostrò la squadra già al lavoro sul ponte, uno degli operai si era incamminato verso la curva cieca con una bandierina di avvertimento. — Adesso mandano qualcuno a mettere un segnale — commentò Dasein. Una curva cancellò la scena sullo specchietto retrovisore. Dasein si concentrò sulla guida. Il furgone aveva sviluppato nuovi rumori e un pronunciato scuotimento sul davanti. — Deve trattarsi d'incidenti — dichiarò Piaget. — Non c'è nessun'altra spiegazione. Un segnale di stop comparve davanti a loro. Dasein si fermò prima di entrare nella statale principale. Non c'era traffico. Svoltò a destra in direzione della città. Le proteste di Piaget non meritavano nessuna risposta, pensò, e non gliene diede nessuna. Entrarono nella periferia della città. Sulla sinistra c'era la stazione di servizio di Scheler. Dasein girò dietro alla stazione, poi tornò indietro fino al grande capannone in metallo con la scritta «Garage». — Cos'ha intenzione di fare in questo posto? — domandò Piaget. — Questa macchina non vale... — Voglio che la riparino quanto basta per uscire da Santaroga — disse Dasein. Le porte del garage erano aperte. Dasein fece entrare il furgone, si fermò e scese. Tutt'intorno a lui risuonavano i rumori costanti e regolari d'un garage: lo sferragliare del metallo, il ronzio delle macchine. File di macchine
erano rivolte verso i banchi di lavoro su entrambi i lati del garage. Le luci risplendevano abbaglianti sui banchi. Un uomo corpulento, dalla pelle scura, con una tuta bianca tutta macchiata, si fermò davanti al furgone. — Contro cosa diavolo è andato a sbattere? — chiese. Dasein riconobbe uno del quartetto che aveva giocato a carte nella locanda: Scheler in persona. — Il dottor Piaget qui presente le dirà tutto — replicò Dasein. — Voglio che mi monti dei fari nuovi e forse vale la pena che dia un'occhiata al sistema di guida. — Perché non la butta via? — chiese Scheler. La portiera del furgone sbatté e il dottor Piaget venne avanti sulla destra. — Puoi ripararla, Sam? — chiese. — Sicuro, ma non ne vale la pena. — Fallo lo stesso e mettilo sul mio conto. Non voglio che il mio amico pensi che stiamo cercando d'intrappolarlo nella valle. — Se lo dici tu, dottore. Scheler si girò e gridò: — Bill, togli la Lincoln dalla piattaforma idraulica e mettici sopra questo furgone. Vado a scrivere una bolla. Un giovane con una tuta unta uscì fuori da dietro il banco sinistro dov'era rimasto nascosto da una Lincoln Continental sollevata a metà su un montacarichi. Il giovane aveva la stessa corporatura di Scheler e la pelle scura, la stessa impronta nel visto e negli occhi: d'un azzurro brillante e vivaci. — Mio figlio Bill — lo presentò Scheler. — Se ne occuperà lui. Dasein avvertì una punta di paura ammonitrice e arretrò contro un fianco del suo furgone. Il garage intorno a lui sprigionava la stessa sensazione di concentrata malevolenza che aveva avvertito lungo il fiume. Scheler s'incamminò attraverso lo spazio fra la Lincoln e un vecchio furgone Studebaker, e gridò sopra la sua spalla: — Se vuole venire qui a firmare la bolla, dottor Dasein, ci metteremo subito all'opera. Dasein fece due passi dietro di lui, esitò. Percepì il garage che si chiudeva intorno a lui. — Da qui possiamo raggiungere a piedi la clinica — gli disse Piaget. — Sam la chiamerà quando la sua vettura sarà pronta. Dasein fece un altro passo. Si fermò. Guardò dietro di sé. Il giovane Bill Scheler era subito dietro di lui. La sensazione di minaccia era un martellare di tamburi nella sua testa. Vide Bill che gli porgeva amichevolmente una mano per guidarlo fra le macchine. Non c'era alcun dubbio sulle intenzioni
innocenti di quella mano, il volto sorridente dietro ad essa, ma Dasein vide in quella mano l'incarnazione del pericolo. Con un grido inarticolato balzò di lato. Il giovane meccanico, sbilanciato, cadde. Mentre cadeva, il montacarichi con la Lincoln sopra gli precipitò addosso con uno schianto. Oscillò due volte, si arrestò. Bill Scheler giaceva per metà sotto della Lincoln. Una delle sue gambe si contrasse, poi rimase immobile. Una pozza di sangue cominciò a scorrer fuori da sotto la macchina. Piaget gli passò accanto di corsa, gridando a Scheler di sollevare il montacarichi. Un compressore cominciò a tonfare da qualche parte in fondo al garage. La Lincoln sussultò, cominciò a sollevarsi. Espose un corpo, con la testa fracassata ben oltre qualunque possibilità d'identificazione da uno dei bracci del montacarichi. Dasein si voltò di scatto, corse fuori del garage e si sentì male. Quello avrei potuto essere io, pensò. Quello era inteso per me. Divenne conscio d'un gran trambusto, del suono di una sirena in distanza. Due meccanici emersero dal garage reggendo fra loro Sam Scheler, barcollante e pallido come un morto. Era suo figlio, pensò Dasein. Sentiva che ciò aveva un significato estremamente profondo, ma la sua mente sconvolta non gli fornì nessuna reazione per quella sensazione. Sentì uno dei meccanici che reggevano Scheler che diceva: — È stato un incidente, Sam. Non c'era niente che tu potessi fare. Entrarono nella stazione insieme a lui. Il gemito della sirena era divenuto sempre più forte. Dasein arretrò fino al confine dell'area di parcheggio della stazione, si appoggiò contro una bassa recinzione. Il suo furgone, mezzo infilato dentro il garage, si mosse barcollando e venne inghiottito dall'edificio. L'ambulanza entrò ululando nell'area di parcheggio, si girò, entrò in retromarcia nel garage. Poco dopo ne riemerse e si allontanò con la sirena silenziosa. Piaget uscì dal garage. Era un uomo stranamente mitigato, indeciso nel modo di camminare: passi corti e infiacchiti. Vide Dasein, e gli si avvicinò con un'aria desolata. Sul lato destro del suo camice bianco c'era una macchia di sangue, del grasso nero sugli orli, altro grasso sul braccio sinistro.
Sangue e grasso: la cosa colpì Dasein come una strana combinazione, ma dal sangue e dal grasso un'intera scena poteva venir ricostruita. Dasein rabbrividì. — Ho... ho bisogno di una tazza di caffè — disse Piaget. Chiuse per un attimo gli occhi, li riaprì per fissare Dasein con sguardo implorante. — C'è un bar dietro l'angolo. Vuole... — S'interruppe per tirare un profondo e tremulo sospiro. — L'avevo portato io al mondo, quel ragazzo. — Scosse la testa. — Proprio quando si pensa di essere dottori completi, immuni a ogni coinvolgimento personale... Dasein provò un impeto di compassione per Piaget e si allontanò dalla recinzione per prendere il braccio del dottore. — Dov'è questo bar? Un caffè farebbe bene anche a me. Il bar era un angusto edificio di mattoni schiacciato fra un negozio di ferramenta e un localetto scuro con un'insegna che diceva «Scarpe». La porta a vetri sbatté dietro di loro. Il posto odorava di vapore e dell'onnipresente Jaspers. Uno degli inservienti della stazione di Scheler, giacca verde scuro e berretto bianco, sedeva a un banco sulla sinistra con lo sguardo fisso su una tazza di caffè. Un uomo con un grembiule di cuoio, mani callose, capelli grigi, stava mangiando un panino all'estremità opposta del banco. Dasein condusse Piaget dentro uno scomparto dalla parte opposta del banco, si sedette davanti a lui. L'inserviente della stazione che si trovava al banco del bar si voltò e lanciò un'occhiata nella loro direzione. Dasein si trovò davanti a una faccia che riconobbe per quella di un altro Scheler: stessi occhi azzurri, la stessa figura tarchiata e la pelle scura. L'uomo guardò Piaget e disse: — Ehi, dottore, ho sentito una sirena. Piaget sollevò lo sguardo dalla superficie del tavolo, fissò il suo interlocutore. L'espressione vitrea lasciò gli occhi di Piaget. Tirò due corti respiri, girò altrove lo sguardo, poi lo riportò sull'uomo al banco. — Harry — disse Piaget, e la sua voce era un rauco gracidio. — Non... ho potuto... — S'interruppe. L'uomo scivolò giù dallo sgabello del banco. Il suo volto era impallidito, una maschera pietrificata. — Ero seduto qui... ho sentito... — Si passò una mano sulla bocca. — Era... Bill! — Si girò di scatto e si precipitò fuori dal bar. La porta sbatté dietro di lui. — È l'altro figlio di Scheler — disse Piaget. — Lo sapeva — disse Dasein, e ricordò la sua stessa esperienza vissuta al lago, la sensazione di un rapporto.
La vita esiste immersa in un mare di consapevolezza, ricordò a se stesso. Con la droga questa gente guadagna una vista su quel mare. Piaget studiò Dasein per un momento, poi spiegò: — Naturalmente lo sapeva. Non le hanno mai tolto un dente? Non ha sentito il buco là dove il dente si era trovato? Una donna magra dai capelli rossi, con un grembiule bianco, i segni d'una viva preoccupazione sul volto, si avvicinò allo scomparto. Si fermò e abbassò lo sguardo su Piaget: — Vi porterò il vostro caffè — Disse. Fece per voltarsi, esitò. — Io... l'ho sentito... e Jim della porta accanto è venuto sul retro per dirmelo. Non sapevo come dirlo ad Harry. Continuava a rimanere seduto là... sempre più giù, più giù... sapendolo ma rifiutandosi di affrontare la cosa. Io... — scrollò le spalle. — Qualcos'altro oltre il caffè? Piaget scosse la testa. Dasein si rese conto, come uno shock, che il dottore era prossimo alle lacrime. La cameriera se ne andò, tornò con due tazze di caffè, rientrò in cucina, il tutto senza dire una parola. Anche lei aveva percepito le emozioni di Piaget. Dasein sospirò, sollevò la tazza, fece per portarsela alle labbra, esitò. C'era uno strano odore amaro sotto l'onnipresente aroma dello Jaspers nel caffè. Dasein riaccostò il naso alla tazza, annusò. Amaro. Un pennacchio di vapore che si levava dal liquido scuro assunse per Dasein la forma di un cobra dal cappuccio che avesse sollevato la testa con i denti avvelenati per colpirlo. Scosso, rimise la tazza sul tavolo e sollevò lo sguardo incontrando l'espressione interrogativa di Piaget. — C'è veleno in questo caffè — disse Dasein con voce rauca. Piaget guardò il proprio caffè. Dasein gli prese la tazza dalle mani, l'annusò. L'odore amaro non c'era. Toccò il caffè con la lingua: caldo, il tranquillizzante fluire dello Jaspers... caffè... — Qualcosa non va? Dasein sollevò lo sguardo e scoprì la cameriera ferma accanto a lui. — C'è veleno nel mio caffè — le disse. — Sciocchezze. — La cameriera prese la tazza dalla mano di Dasein, fece per bere. Piaget la fermò con una mano sul braccio. — No, Vina: questa. — Le porse l'altra tazza. Lei la fissò, l'annusò, la mise giù e si precipitò di corsa in cucina. Poco
dopo tornò portando una piccola scatola gialla. Il suo volto era bianco come porcellana, le lentiggini si stagliavano sulle sue guance e il naso come segni d'una malattia. — Polvere per scarafaggi — bisbigliò. — Io... la scatola si è rovesciata sullo scaffale sopra il banco. Io... — Scosse la testa. Dasein guardò Piaget, ma il dottore si rifiutò d'incontrare il suo sguardo. — Un altro incidente — disse Dasein, mantenendo calma la voce. — Eh, dottore? Piaget s'inumidì le labbra con la lingua. Dasein scivolò fuori dallo scomparto, spingendo da parte la cameriera. Prese la tazza col caffè avvelenato, la versò deliberatamente sul pavimento. — Gli incidenti capitano, non è vero... Vina? — Per favore — lei balbettò. — Io... non... — Certo che no — disse Dasein. — Lei non capisce — intervenne Piaget. — Ma io capisco — ribatté Dasein. — Cosa sarà la prossima volta? Un incidente con un'arma da fuoco? Che ne direbbe di qualcosa di pesante lasciato cadere dalla cima di un tetto? Accidentale, naturalmente. — Si girò, uscì a grandi passi dal caffè, si fermò sul marciapiede per studiare il luogo dove si trovava. Era una città così normale. Gli alberi sul piazzale dei parcheggi erano così normali. La giovane coppia che camminava lungo il marciapiede sul lato opposto al suo... erano così normali. I rumori: quello d'un camion che arrivava da un viale alla sua destra, le macchine che passavano di là, due ghiandaie che si bisticciavano fra le cime degli alberi, due donne che chiacchieravano sui gradini di una casa in fondo alla strada alla sua sinistra: tutto questo aveva una tale aria di normalità... La porta a vetri sbatté dietro di lui. Piaget gli si avvicinò e si fermò accanto a lui. — So quello che sta pensando — disse. — Davvero? — So come deve sembrarle tutto questo. — Sul serio? — Mi creda — disse Piaget, — tutto questo è soltanto una terribile serie di coincidenze che... — Coincidenze! — Dasein si girò di scatto verso Piaget, fissandolo con furore. — Fino a che punto riesce a dilatare la sua credulità, dottore? Fino a che punto deve razionalizzare le cose prima di ammettere... — Gilbert, mi mozzerei il braccio destro piuttosto che permettere che le
succeda qualcosa. Spezzerebbe il cuore a Jenny se... — Davvero non lo vede, vero, dottore? — chiese Dasein, con voce colma di meravigliato sgomento. — Non lo vede... si rifiuta di vederlo. — Dottor Dasein? La voce era arrivata dalla sua destra. Dasein si voltò e si trovò di fronte ad Harry, 'l'altro figlio di Scheler', là in piedi, con il berretto in mano. Pareva più giovane di quanto fosse sembrato nel bar, non più di diciannove anni. C'era una triste esitazione nel suo atteggiamento. — Volevo... — S'interruppe. — Mio padre mi ha detto di dirle... Sappiamo che non è stata colpa sua se... — Fissò Dasein negli occhi, con un'espressione che implorava aiuto. Dasein provò uno spasimo che lo metteva in rapporto col giovane. Lì era all'opera un primordiale pudore. Immersi nel loro dolore, gli Scheler avevano anche trovato il tempo per alleviare i sentimenti di Dasein. Si aspettavano che mi sentissi colpevole, pensò Dasein. Adesso, il fatto che lui non avesse provato quel sentimento di rimorso riempì Dasein di una strana sensazione, come se cercasse qualcosa. Se non avessi ogni cosa... Quel pensiero abortì. Se non avessi cosa? Quell'incidente era inteso per me. — Va tutto bene, Harry — disse Piaget. — Noi capiamo. — Grazie, dottore. — Guardò Piaget con sollievo. — Papà ha detto di dirle... la macchina... il furgone del dottor Dasein... I nuovi fari sono stati installati. È tutto quello che possiamo fare. Il sistema di guida... Dovrà guidare lentamente a meno che non intenda sostituire tutta la parte davanti. — Di già? — fece Dasein. — Non ci vuol molto a metter su dei fari, signore. Dasein fece passare lo sguardo dal giovane a Piaget. Il dottore gli restituì l'occhiata con un'espressione che diceva con la stessa chiarezza delle parole «Vogliono che il suo furgone sparisca da qui. È un ricordo...» Dasein annuì. Sì, il furgone avrebbe ricordato la tragedia agli Scheler. Questo era logico. Senza dire una parola, andò in direzione del garage. Piaget accelerò il passo e gli si affiancò. — Gilbert — gli disse. — Devo insistere perché lei venga a casa. Jenny può... — Insistere? — Lei si è mostrato molto cocciuto, Gilbert. Dasein represse un impeto di rabbia e ribatté: — Io non voglio far del male a Jenny più di quanto voglia fargliene lei. È per questo che i miei
passi me li dirigerò da solo. Non voglio che lei sappia quello che farò, d'ora in avanti. Non voglio che qualcuno di voi mi aspetti là lungo la strada con uno dei vostri... incidenti... — Gilbert, deve togliersi quell'idea dalla testa! Nessuno di noi vuol farle del male. Adesso si trovavano nell'area di parcheggio fra la stazione di servizio e il garage. Dasein fissò la porta spalancata che si apriva sul garage, sopraffatto d'un tratto dalla sensazione che quella porta fosse una bocca con denti mortali pronti a rinchiudersi su di lui. Quella porta era là, sbadigliante, pronta a inghiottirlo. Esitò, rallentò e si fermò. — Cosa c'è, adesso? — gli chiese Piaget. — Il suo furgone è subito all'interno — disse Harry Scheler. — Può guidarlo e... — E il conto? — chiese Dasein, cercando di guadagnar tempo. — Ci penserò io — intervenne Piaget. — Vada pure a prendere il furgone mentre io saldo il conto. Poi potremo andare... — Voglio che qualcuno porti fuori il furgone al posto mio — esclamò Dasein. Si spostò di lato, fuori dalla traiettoria di qualsiasi cosa potesse venir vomitata fuori da quella bocca-porta. — Posso capire la sua riluttanza a tornare là dentro — disse Piaget, — ma insomma... — Lo porti fuori per me, Harry — disse Dasein. Il giovane fissò Dasein con una strana espressione di qualcuno preso in trappola. — Be', ho qualcosa... — Guida fuori per lui quella dannata macchina! — gli ordinò Piaget. — Questa è una sciocchezza! — Signore! — Harry fissò Piaget. — Ti ho detto di portar fuori per lui quella dannata macchina! — ripeté Piaget. — Non ho più lo stomaco per sopportare questa storia! Visibilmente esitante, il giovane si voltò verso la porta del garage. I suoi piedi si muovevano con strascicata lentezza. — Senta, Gilbert — disse ancora Piaget, — lei non può davvero credere che noi... — Credo ciò che vedo — ribatté Dasein. Piaget sollevò le mani, allontanandosi esasperato. Dasein ascoltò i rumori che venivano dal garage. Erano sommessi: voci,
soltanto pochi rumori meccanici, il ronzio di qualche macchina. Una portiera sbatté. Gli parve quella del furgone. Dasein riconobbe lo sfrigolio del suo avviamento. Il motore partì con il caratteristico sbatacchiare che venne subito sommerso da una rombante esplosione che vomitò una lingua di fiamme fuori della porta del garage. Piaget diede in un balzo all'indietro con un'imprecazione. Dasein gli passò davanti correndo in diagonale per andare a guardare dentro al garage. Intravide delle figure che correvano fuori dalla porta all'estremità opposta. Il suo furgone si trovava nel mezzo della corsia centrale al centro d'una sfera di fuoco rosso-arancione. Mentre fissava il furgone, qualcosa che bruciava emerse dalle fiamme, barcollò, cadde. Dietro a Dasein qualcuno urlò: — Harry! Senza volerlo in modo cosciente, Dasein attraversò a precipizio la porta del garage e affondò le braccia in mezzo alle fiamme per trascinare il giovane al sicuro. Avvertì sensazioni di calore, di dolore. Il ruggito crepitante del fuoco riempiva l'aria tutt'intorno a lui. L'odore della benzina e dei materiali carbonizzati invasero le narici di Dasein. Vide un fiume di fuoco allungarsi verso di lui lungo il pavimento. Una trave ardente si abbatté nel punto in cui si era trovato il giovane. C'erano urla, una grande confusione e un accorrere di gente. Qualcosa di bianco venne lanciato sopra la figura che Dasein stava trascinando, ingolfando le fiamme. Delle mani lo tirarono da parte. Dasein si rese conto di essere fuori del garage, e che Piaget stava usando il suo camice bianco per soffocare il fuoco che ardeva sul corpo di Harry. Qualcuno pareva fare una cosa simile su entrambe le braccia di Dasein e sul davanti della sua giacca, utilizzando un cappotto e il telo di una macchina. Il cappotto e il telo vennero tirati via. Dasein contemplò le proprie braccia: la pelle era nera e rossa, si stavano formando delle vesciche. Le maniche della sua camicia e della sua giacca terminavano ai gomiti. Gli orli erano frastagliati e carbonizzati. Il dolore cominciò a farsi sentire: una pulsante sofferenza lungo il dorso di entrambe le braccia e le mani. Attraverso un mondo reso nebuloso dal dolore, Dasein vide una giardinetta fermarsi con un sussulto, e udì uno stridìo di freni accanto a lui. Vide degli uomini che trasportavano la figura di Harry avvolta nel camice dentro il retro della giardinetta. Altre mani trasportarono Dasein sul sedile accanto al conducente. C'erano delle voci: — Andateci piano... Portali in clinica, Ed, e non perder tempo... Dateci una mano qui... Qui! Da questa parte!
Il suono delle sirene, il vibrante pulsare del grosso motore di un camion. Dasein sentì la voce di Piaget giungere dal fondo della giardinetta: — Va bene, Ed. Andiamo. La giardinetta cominciò a muoversi, scese in strada e si girò, accelerò. Dasein guardò il conducente e riconobbe uno degli inservienti della stazione, si voltò per guardare sul retro. Vide Piaget rannicchiato, intento a prestare le prime cure al giovane ferito. — È molto grave? — chiese Dasein. — Indossa mutande lunghe — rispose Piaget. — Sono servite. Pare che si sia protetto il viso nascondendolo nel berretto, ma la schiena è mal ridotta. Lo stesso vale per le braccia, le gambe e le mani. Dasein fissò il giovane ustionato. — Se la... — Credo che l'abbiamo tirato fuori in tempo — disse Piaget. — Gli ho fatto un'iniezione per addormentarlo. — Guardò le braccia di Dasein. — Ne vuole una anche lei? Dasein scosse la testa. — No. Cosa mi ha spinto a precipitarmi là dentro per salvarlo? si chiese Dasein. Era stata una reazione istintiva. Salvare Harry l'aveva fatto precipitare in una situazione di semiimpotenza, bisognoso lui stesso di cure mediche, intrappolato in una macchina con due santarogani. Dasein sondò la sua consapevolezza Jaspers embrionale, il sesto senso che l'aveva avvertito del pericolo. Non trovò nulla. La minaccia pareva essere stata ritirata. È per questo che ho agito per salvare Harry? si chiese Dasein. Speravo di propiziarmi Santaroga salvando uno dei loro perfino quando stavano cercando di uccidere me? — Un altro incidente — disse Piaget, ma la sua voce aveva un tono dubbioso. La giardinetta svoltò lungo una strada bordata di alberi, e Dasein riconobbe l'ampia facciata della casa di Piaget rivestita di assicelle marrone. Passarono davanti ad essa proseguendo lungo un viale inghiaiato che s'incurvava girando sul retro passando attraverso un'alta recinzione di tavole e sotto un portico che sporgeva da un edificio di mattoni a due piani. Malgrado la sua sofferenza, Dasein si rese conto che quell'edificio era nascosto dalla staccionata e dai sempreverdi piantati ai bordi alla vista di chiunque transitasse lungo la strada, e che doveva far parte del complesso di cui faceva parte anche la casa di Piaget. Il tutto gli sembrò confusamen-
te significativo. Degli inservienti vestiti di bianco corsero fuori dall'edificio spingendo una barella, sollevarono il giovane ustionato dal retro della giardinetta. Piaget aprì la portiera dal lato di Dasein e gli domandò: — Ce la fa a scendere da solo, Gilbert? — Credo... credo di sì. Dasein tese le mani davanti a sé, scivolò fuori dalla macchina. Il dolore e il movimento richiesero tutta la sua attenzione. Adesso c'era l'inizio di un dolore lungo la sua fronte e giù sul lato destro del suo viso. L'edificio di mattoni, un paio di porte di vetro basculanti, delle mani che lo guidavano con delicatezza, tutto gli parve distante e sempre più piccolo. Sto per svenire, pensò. Sentì che sarebbe stato estremamente pericoloso affondare nell'incoscienza. Con un sussulto si rese conto di essere stato adagiato su una sedia a rotelle, che stava avanzando in fretta lungo un corridoio dalle pareti dipinte di verde. Quell'impeto di consapevolezza fece schiantare i suoi sensi contro il dolore. Si sentì arretrare verso il sollievo benedetto dell'incoscienza. Fu quasi un fatto fisico, come se il suo corpo rimbalzasse fra pareti che l'imprigionavano: o l'incoscienza o il dolore. Luci vivide! La luce era tutt'intorno a lui. Sentì un rumore di forbici. Abbassò lo sguardo e vide le mani che lavoravano con le forbici. Gli stavano tagliando le maniche della giacca e della camicia, sollevando il tessuto dalla pelle bruciacchiata. È la mia pelle, pensò Dasein. Si costrinse a distogliere lo sguardo. Dasein sentì qualcosa di fresco sulla spalla sinistra, un pizzicore, qualcosa che veniva tirato. Una mano che stringeva un'ipodermica attraversò il suo campo visivo. La cosa importante per Dasein, in quel momento, era la constatazione che la sua visuale era limitata ad un singolo campo. C'era luce, un bagliore nebbioso fuori dal quale si muovevano delle mani, e dei volti comparivano. Dasein sentì che veniva spogliato. Qualcosa di fresco, di calmante e scivoloso gli venne applicato alle mani, alle braccia e al viso. Mi hanno fatto un'iniezione per addormentarmi, pensò. Allora si sforzò di pensare al pericolo, al fatto che lui si trovava lì, del tutto impotente. La consapevolezza si rifiutava di reagire. Lui non era in grado di spingere la sua consapevolezza attraverso quella nebbia luminosa. C'erano voci. Dasein si concentrò su quelle voci. Qualcuno disse: — Per l'amor del cielo! Aveva una pistola! — Un'altra voce: — Mettila giù! Per qualche motivo questo divertì Dasein. Ma il suo corpo si rifiutò di
ridere. Allora pensò il suo camper nelle condizioni in cui l'aveva visto l'ultima volta: una sfera di fiamme arancione. Dasein si rese conto che là c'erano stati tutti i suoi documenti. Ogni singolo frammento che aveva accumulato su Santaroga era stato distrutto dall'incendio. Prove? pensò. Appunti... congetture... Aveva ancora tutto in mente, poteva essere ricostituito. Ma il ricordo si perde nel momento della morte! pensò. La paura galvanizzò un minuscolo nucleo del suo io. Cercò di urlare. Non produsse alcun suono. Cercò di muoversi. I muscoli rifiutarono di obbedirgli. Quando il buio arrivò, fu come se una mano si fosse allungata verso di lui per afferrarlo. CAPITOLO UNDICESIMO Dasein si svegliò ricordando un sogno, una conversazione con degli dèi senza volto. — I letamai crescono e i castelli crollano. — Nel sogno qualcuno con una voce echeggiante aveva detto queste parole: I letamai crescono e i castelli crollano. Dasein sentì che era importante ricordarsi tutto il sogno. Sì. — Io sono l'uomo che si è svegliato. — Era questo che aveva cercato di dire agli dèi senza volto. — Io sono l'uomo che si è svegliato. Il sogno era uno schema scorrevole nella sua memoria, un processo che non poteva venir separato da se stesso. Era pieno di azione e angoscia allo stato puro. In esso c'era una frustrazione cronica. Lui aveva cercato di far qualcosa, ma era intrinsecamente impossibile. Cosa aveva cercato di fare? La cosa lo eludeva. Dasein ricordò il buio, quasi una mano protesa che aveva preceduto il sogno. Trattenne il respiro e i suoi occhi si aprirono. La luce del giorno. Si trovava in un letto in una stanza dalle pareti verdi. Fuori da una finestra alla sua sinistra poteva vedere il ramo rosso e contorto di un madrone, le foglie d'un verde oleoso, il cielo azzurro. Allora sentì il proprio corpo: bende e dolore lungo il suo braccio, bende sulla fronte e la guancia destra. Sentiva la gola asciutta e c'era acidità sulla sua lingua. Però il sogno continuava ad aggrapparsi a lui. Era una cosa disincarnata. Disincarnata! La morte! Era quello l'indizio. Lo sapeva. Dasein ricordò che Piaget gli aveva parlato di una «comune esperienza istintiva». Cosa aveva
a che fare l'istinto con il sogno? L'istinto. L'istinto. Cos'era l'istinto? Uno schema innato impresso sul sistema nervoso. La morte. L'istinto. — Guarda dentro di te, dentro di te, oh, Uomo, su te stesso — aveva detto il dio senza faccia del sogno. Adesso lo ricordava e gli veniva voglia di sogghignare. Era l'antica sindrome del conosci te stesso, la malattia dello psicologo. Dentro se stessi, sempre dentro. L'istinto della morte era là, insieme a tutti gli altri istinti. Conosci te stesso? Dasein sentì che non avrebbe potuto conoscere se stesso senza morire. La morte era lo sfondo contro il quale la vita poteva conoscere se stessa. Qualcuno si schiarì la gola alla destra di Dasein. Divenne teso. Girò la testa per guardare verso quel suono. Winston Burdeaux sedeva su una sedia accanto alla porta. Gli occhi castani che lo fissavano dal volto moresco di Burdeaux avevano un'espressione incuriosita. Perché mai Burdeaux? si chiese Dasein. — Sono felice di vedere che è sveglio, signore — disse Burdeaux. C'era una tranquillizzante sensazione di cameratismo nella voce rimbombante dell'uomo. Era questo, dunque, il motivo per cui era stato convocato qui Burdeaux? si domandò Dasein. Burdeaux era forse stato scelto per tranquillizzare e calmare la vittima? Ma io sono ancora vivo, fu il pensiero successivo di Dasein. Se avessero voluto fargli del male... quale migliore occasione avrebbero mai avuto? Lui sarebbe stato impotente a difendersi, privo di sensi... — Che ore sono? — chiese Dasein. Il movimento che era stato costretto a fare per parlare gli causò un'acuta sofferenza alla guancia ustionata. — Sono quasi le dieci di una bellissima mattinata — l'informò Burdeaux. Sorrise, un lampo di denti bianchi in mezzo ai lineamenti scuri. — C'è niente che desidera? A quella domanda, lo stomaco di Dasein si attorcigliò, colto dal morso improvviso della fame. Ma sul punto di chiedere la colazione, esitò. Cosa avrebbe potuto esserci in qualsiasi cibo che gli avessero servito in quel posto? si chiese. La fame è qualcosa di più di uno stomaco vuoto, pensò Dasein. Posso fare a meno di un pasto. — Quello che desidero — rispose Dasein, — è sapere come mai lei si trova qui. — Il dottore ha pensato che io fossi la persona più sicura — spiegò Bur-
deaux. — Io stesso ero un estraneo, un tempo. Riesco ancora a ricordare com'era. — Avevano cercato di uccidere anche lei? — Signore! — Be'... ha avuto degli incidenti? — chiese Dasein. — Io non condivido l'opinione del dottore sugli... incidenti — dichiarò Burdeaux. — Un tempo avevo pensato che... Ma adesso posso vedere quanto mi sbagliavo. La gente di questa valle non vuole male a nessuno. — Eppure lei adesso si trova qui perché il dottore ha deciso che lei sarebbe stato la persona più sicura — replicò Dasein. — E non ha risposto alla mia domanda: ha avuto degli incidenti? — Lei deve capire — rispose Burdeaux, — che quando non si conoscono le abitudini della valle, si può anche finire in... in situazioni che... — Così, lei ha avuto degli incidenti. Ed è per questo che ha chiesto che le spedissero dei pacchi dalla Louisiana in segreto? — Pacchi in segreto? — Per quale altra ragione se li faceva mandare a Porterville? — Oh, lei sa anche di questo. — Burdeaux scosse la testa e ridacchiò. — Lei non ha mai avuto voglia dei cibi della sua infanzia? Pensavo che i miei nuovi amici non avrebbero capito. — Si trattava davvero di questo? — insisté Dasein. — Oppure si è svegliato una mattina tremante di paura per l'effetto che stava facendo su di lei lo Jaspers? Allora, Burdeaux corrugò la fronte. — Signore, quando arrivai qui la prima volta, ero un negro ignorante. Adesso sono un nero educato e un santarogano. E non soffro più di quelle idee fisse che... — Così ha cercato di opporsi! — Sì... mi sono opposto. Ma ho imparato ben presto quanto fosse sciocco da parte mia. — Un'idea fissa. — Davvero: un'idea fissa. Rimuovere l'idea fissa da una persona, rifletté Dasein, significa creare un vuoto. Che cosa mai si precipita in quel vuoto? — Diciamo — aggiunse Burdeaux, — che un tempo spartivo le sue idee fisse. — È normale spartire le idee fisse della propria società — mormorò Dasein, mezzo fra sé. — È un anormale sviluppare delle idee fisse private. — Bene espresso — disse Burdeaux.
Ancora una volta Dasein si chiese: Cosa si è precipitato dentro quel vuoto? Quali idee fisse spartiscono i santarogani? Tanto per cominciare, sapeva che non potevano vedere l'inconsapevole violenza che creava incidenti per gli estranei. La maggior parte di loro non riusciva a vederla, si corresse. C'era la possibilità che Piaget cominciasse a capirlo. Dopotutto, era stato il dottore a mettere Burdeaux lì con lui. E Jenny: — Stai lontano da me! Ti amo! Dasein cominciò a vedere i santarogani sotto una nuova luce. Avevano qualcosa del decoro degli antichi romani... e degli spartani. Erano chiusi in se stessi, ostili, insulari, orgogliosi, tagliati fuori dagli scambi d'idee che potevano... Esitò su questo pensiero, interrogandosi sulla stanza dei televisori alla Locanda. — Quella stanza che avete cercato di nascondermi — disse Dasein. — Là, nella Locanda, la stanza con gli apparecchi televisivi... — Non è che volessimo nascondergliela sul serio — replicò Burdeaux. — In un certo senso noi nascondiamo quella stanza a noi stessi... e agli estranei occasionali. C'è qualcosa di molto allettante nel morbo che si riversa fuori dalla televisione. È per questo che facciamo ruotare gli osservatori. Ma non possiamo ignorarlo. La televisione è la chiave sull'esterno, ed è anche... gli dèi. — Gli dèi? — D'un tratto Dasein ricordò il suo sogno. — Hanno degli dèi molto pratici, fuori di qui — commentò Burdeaux. — Cos'è un dio pratico? — chiese Dasein. — Un dio pratico? È un dio che concorda con i suoi fedeli. Questo è un modo per evitare di venire conquistati, capisce? Dasein voltò le spalle a Burdeaux per fissare il soffitto verde. Conquistare gli dèi? Era quella la frustrazione cronica del sogno? — Non capisco — mormorò. — Lei ha ancora dentro di sé alcune delle idee fisse di quelli che vivono all'esterno — disse Burdeaux. — All'esterno non riescono a capire veramente l'universo. Oh, dicono di capirlo, ma in realtà non è questo che fanno. Lo si vede da come si comportano. Stanno cercando di conquistare l'universo. Gli dèi fanno parte dell'universo... perfino gli dèi creati dall'uomo. — Se non puoi batterli, unisciti a loro — citò Dasein. — Per impedire di venir conquistato, un dio pratico concorda con i suoi aggressori. È così? — Lei è davvero perspicace, come ha detto Jenny — disse Burdeaux. — Così, quelli che abitano fuori di qui attaccano i loro dèi — disse Dasein.
— Tutto ciò che non è indegna sottomissione deve comprendere qualche forma di attacco — puntualizzò Burdeaux. — Vuol cercare di cambiare un dio? Cosa significa, se non accusare il dio di non concordare con lei? — E tutto questo lo traete dalla televisione? — Tutto quanto dalla... — Burdeaux scoppiò a ridere. — Oh, no, dottor Gil... Non le spiace se la chiamo dottor Gil? Dasein si girò e fissò l'espressione interrogativa sulla faccia di Burdeaux. Dottor Gil... Obiettare avrebbe significato apparire testardo e sciocco. Ma Dasein sentì che, acconsentendo, avrebbe fatto un passo indietro, perdendo in tal modo un'importante battaglia. Però non riusciva a vedere nessun modo per obiettare. — Come vuole lei — disse infine. — Però mi spieghi questa faccenda della televisione. — Quella è... è la nostra finestra sull'esterno — cominciò Burdeaux. — Tutto quel mondo là fuori, di opportunismo permanente, tutto quel mondo è la televisione. E noi lo osserviamo attraverso... — Opportunismo permanente? — Dasein cercò di sollevarsi sui gomiti, ma come risultato le braccia ustionate cominciarono a pulsargli. Riaffondò nel letto, mantenendo lo sguardo su Burdeaux. — Ebbene, certo, signore. L'esterno opera sull'opportunità temporanea, dottor Gil. Lei lo deve sapere. E il temporaneo si trasforma sempre nel permanente, in qualche modo. La tassa temporanea, la piccola guerra necessaria, la brutalità temporanea... tutte cose che cesseranno non appena certe condizioni termineranno... l'agenzia governativa creata per l'interim permanente... — Così, guardate le trasmissioni televisive e traete tutto questo da... — Più delle notizie, dottor Gil. Tutto, e i nostri osservatori scrivono dei rapporti condensati che... Vede, là fuori è tutto televisione: la vita, ogni cosa. Gli esterni sono spettatori. Si aspettano che a loro accada ogni cosa e non vogliono far niente di più che girare un interruttore. Vogliono starsene seduti comodamente e lasciare che la vita accada per loro. Seguono gli spettacoli in terza serata e poi spengono i loro apparecchi. Poi se ne vanno a letto a dormire, il che è una forma di autospegnimento proprio come la televisione. Il guaio è che i loro spettacoli in terza serata si dilungano fino a un'ora più tarda di quanto essi stessi pensano. C'è disperazione nell'essere incapaci di riconoscere questo, dottor Gil. La disperazione conduce alla violenza. Arriverà una mattina per quasi tutti quei poveracci là fuori in cui si renderanno conto che per loro la vita non è mai accaduta, non importa
quanta televisione sono rimasti a guardare. Non sono mai saliti sul palcoscenico, non hanno mai avuto niente di reale. È stata tutta una illusione... una delusione. Dasein assorbì l'intensità delle parole, il loro significato e ciò che si trovava sotto di esse. C'era un terrificante senso di verità nelle parole di Burdeaux. — Così vengono spenti — mormorò Dasein. — È tutta televisione — disse Burdeaux. Dasein girò la testa e guardò fuori dalla finestra. — Lei dovrebbe davvero mangiare qualcosa, dottor Gil — insisté Burdeaux. — No. — Dottor Gil, lei per certe cose è una persona saggia, ma per altre... — Non mi chiami saggio — lo corresse Dasein. — Mi chiami navigato. — Qui il cibo è migliore — disse Burdeaux. — Vado a prenderlo e glielo servirò io stesso. Non deve temere un... — Sono rimasto scottato già abbastanza volte — ribatté Dasein. — Il fuoco non può creare un vaso pieno, dottor Gil. — Win, io la ammiro e mi fido di lei. Mi ha salvato la vita. Non credo che fosse previsto che lei lo facesse, ma l'ha fatto. È per questo che il dottor Piaget l'ha mandata qui. Ma un incidente potrebbe succedere perfino con lei. — Dottor Gil, dicendomelo lei mi ferisce. Non sono il tipo capace di nutrirla a granoturco e soffocarla con la pannocchia. Dasein sospirò. Aveva offeso Burdeaux, ma l'alternativa... D'un tratto Dasein si rese conto di trovarsi seduto su uno speciale tipo di bomba. Santaroga aveva attenuato i suoi attacchi contro di lui, probabilmente in parte a causa della sua attuale impotenza. Ma la comunità era senz'altro capace di ritornare alla produzione di incidenti se e quando lui avesse voluto qualcosa che là non era permesso. Al momento Dasein non voleva nient'altro che essere quanto più possibile lontano da là. Lo voleva disperatamente malgrado la consapevolezza, la certezza che quel suo desiderio doveva trovarsi sulla sua lista proibita. La porta accanto a Burdeaux si aprì. Un'infermiera entrò arretrando nella stanza tirando un carrello. Si girò. Jenny! Jenny lo fissò con un'espressione stranamente addolorata. Le sue labbra carnose erano spinte in fuori, quasi gli facessero il broncio. I lunghi capelli neri erano raccolti in una crocchia composta. Indossava un'uniforme bian-
ca, calze bianche, scarpe bianche, nessun berretto. Dasein deglutì. — Signorina Jenny — disse Burdeaux. — Cos'ha su quel carrello? Jenny parlò senza distogliere lo sguardo da Dasein. — Un po' di cibo per questo pazzo. L'ho preparato io stessa. — Ho cercato di farlo mangiare — l'informò Burdeaux, — ma lui dice di no. — Vuole lasciarci soltanto per un po', Win? — gli chiese Jenny. — Voglio... — Il dottore ha detto che non dovevo... — Win, per favore? — insisté Jenny. Si girò verso di lui, implorante. Burdeaux deglutì. — Be'... dal momento che... — Grazie, Win. — Venti minuti, — disse Burdeaux. — Sarò qui fuori in corridoio, dove potrà chiamarmi se avrà bisogno di me. — Grazie, Win. — Jenny riportò la sua attenzione su Dasein. Burdeaux deglutì e lasciò la stanza. Chiuse la porta con delicatezza. Dasein disse: — Jen, io... — Stai buono — lei l'interruppe. — Non devi sprecare le tue energie. Lo zio Larry dice... — Non ho intenzione di mangiare in questo posto — dichiarò Dasein. Lei picchiò un piede per terra. — Gil, sei... — Sono uno sciocco — lui terminò. — Ma quello che più conta è che sono ancora vivo. — Ma guardati! Guarda il... — Come sta Harry Scheler? Jenny esitò, poi: — Vivrà. Avrà delle cicatrici, e se è per questo ne avrai anche tu, ma tu... — Hanno capito cos'è successo? — È stato un incidente. — È tutto? Soltanto un incidente? — Hanno detto qualcosa a proposito del cavo della pompa della benzina che si è rotto... un cattivo collegamento elettrico con una delle luci, e... — Un incidente — ripeté Dasein. — Capisco. — Riaffondò nel cuscino. — Ti ho preparato un po' di uova sode e toast col miele — disse Jenny. — Devi mangiare qualcosa per tenerti in... — No. — Gil!
— Ho detto di no. — Di cosa hai paura? — Di un altro incidente. — Ma l'ho preparato io stessa! Dasein girò la testa, la fissò, e parlò a bassa voce: — Rimani lontano da me. Ti amo. — Gilbert! — Sei stata tu a dirlo — lui le ricordò. Il volto di Jenny impallidì. Si appoggiò al carrello, tremando. — Lo so — bisbigliò. — Qualche volta riesco a sentire il... — Sollevò lo sguardo, con le lacrime che le colavano lungo le guance. — Ma io ti amo. E adesso sei ferito. Voglio prendermi cura di te. Ho bisogno di prendermi cura di te. Guarda. — Sollevò il coperchio da uno dei piatti sul carrello, portò una cucchiaiata di cibo alla bocca. — Jenny — bisbigliò Dasein. L'espressione ferita del suo volto, l'intensità del suo amore per lei, voleva prenderla fra le braccia e... Un'espressione stralunata comparve sul volto di Jenny. Si portò entrambe le mani alla gola. La sua bocca si agitò ma non ne uscì alcun suono. — Jenny! Lei scosse la testa, con gli occhi che lo fissavano come impazziti. Dasein buttò via le coperte dal letto, sussultò quando i bruschi movimenti aumentarono il dolore lungo le sue braccia. Ignorò il dolore, mise i piedi sul freddo pavimento di piastrelle, si drizzò. Si sentì afferrare da un'ondata di vertigine. Jenny, con le mani ancora strette alla gola, arretrò verso la porta. Dasein andò verso di lei, con la camicia da notte dell'ospedale che gli sbatteva intorno alle ginocchia. Scoprì che i movimenti gli riuscivano difficili, che le ginocchia gli parevano di gomma. D'un tratto Jenny si accasciò sul pavimento. Dasein si ricordò di Burdeaux e gridò: — Aiuto! Win, aiuto! — Barcollò, si afferrò al bordo del carrello. Questo cominciò a rotolare. Dasein si ritrovò seduto impotente sul pavimento quando la porta si spalancò di colpo. Burdeaux si arrestò sulla soglia a fissarlo con uno sguardo furente, guardò Jenny che giaceva a terra con gli occhi chiusi, le ginocchia raccolte contro il petto, rantolando. — Chiami il dottore — lo sollecitò Dasein con voce roca. — C'era qualcosa nel cibo. Ha mangiato qualche... Burdeaux si riscosse, esalò un lungo respiro, si girò di scatto e si precipi-
tò fuori di corsa nel corridoio, lasciando la porta della camera aperta. Dasein cominciò a strisciare verso Jenny. La stanza ondeggiava e si contorceva intorno a lui. Le braccia gli palpitavano. C'era un fischio nel rantolare di Jenny che lo spingeva a precipitarsi versi di lei, ma non riuscì a trovare la forza per farlo. Aveva percorso soltanto un paio di metri quando Piaget si precipitò dentro subito seguito da Burdeaux. Piaget, il volto rotondo ridotto a una maschera di pallore e di vacuità, s'inginocchiò accanto a Jenny, indicò Dasein e disse a Burdeaux: — Riportalo a letto. — Il cibo sul carrello — balbettò Dasein con voce roca. — Ha mangiato qualcosa. Un'infermiera bionda con un berretto bianco inamidato spinse un carrello di emergenza dentro la porta e si chinò sulla spalla di Piaget. Rimasero tagliati fuori dalla vista di Dasein quando Burdeaux lo raccolse da terra e lo depositò sul letto. — Lei rimanga qui, dottor Gil — gl'intimò Burdeaux. Quindi si girò e fissò quanto stava accadendo accanto alla porta. — Reazione allergenica — disse Piaget. — La gola si sta chiudendo. Mi dia un tubo doppio, dobbiamo darle una pompata. L'infermiera porse qualcosa a Piaget, che si mise al lavoro su Jenny, con la schiena che nascondeva i suoi movimenti. — Atropina — disse Piaget. Ancora una volta prese qualcosa dall'infermiera. Dasein trovò difficile mettere a fuoco la scena. La paura gli stringeva la gola. Perché sono così debole? si chiese. Poi: Buon Dio, non può morire. Ti prego, salvala. I volti degli altri membri del personale dell'ospedale comparvero sulla soglia della stanza, con gli occhi spalancati, in silenzio. Piaget sollevò lo sguardo da Jenny e ordinò: — Portate una barella. Alcuni dei volti scomparvero. Poco dopo risuonò un rumore di ruote nel corridoio. Piaget si rialzò in piedi e disse: — Qui non posso fare di più. Stendetela sulla barella, con la testa più bassa dei piedi. — Si rivolse a Dasein. — Cos'ha mangiato? — Ha preso... — Dasein indicò il carrello con le vivande. — Qualunque cosa dalla quale ha tolto il coperchio. Uova? Piaget balzò accanto al carrello, sollevò un piatto, l'annusò. Il suo movimento permise a Dasein di vedere quello che accadeva vicino
alla porta. Due infermieri e un'infermiera avevano sollevato Jenny e la stavano trasportando fuori della porta. Intravide per un attimo il suo volto pallido con un tubo che le penzolava da un angolo della bocca. — Era veleno? — domandò Burdeaux con voce sommessa. — Certo che era veleno! — sbottò Piaget. — Si comporta come l'aconito. — Si voltò sempre con il piatto in mano e corse fuori della porta. Dasein ascoltò il rumore delle ruote e dei rapidi passi che si allontanavno lungo il corridoio fino a quando Burdeaux non chiuse la porta, cancellandoli del tutto. Con il corpo inzuppato di sudore, Dasein rimase immobile senza opporre resistenza mentre Burdeaux lo sollevava sistemandolo sotto le coperte. — Per un momento... — disse Burdeaux, — ... avevo pensato che lei avesse fatto del male a Jenny. Non può morire, pensò Dasein. — Mi spiace — aggiunse Burdeaux. — So che lei non le farebbe mai del male. — Non può morire — bisbigliò Dasein. Sollevò lo sguardo e vide le lacrime che tracciavano delle scie luccicanti sulle guance scure di Burdeaux. Quelle lacrime innescarono una strana sensazione di rabbia in Dasein. Era consapevole della rabbia che montava in lui, ma incapace di fermarla. La rabbia! Era rivolta non contro Burdeaux, ma contro l'essenza disincarnata di Santaroga, la cosa collettiva che aveva cercato di usare la donna che amava per ucciderlo. Fissò furioso Burdeaux. — Il dottor Larry non permetterà che accada niente a Jenny — disse Burdeaux. — Lui... Burdeaux vide l'espressione negli occhi di Dasein e arretrò istintivamente. — Esca da qui! — gl'intimò Dasein con voce raschiante. — Ma il dottore ha detto che dovevo... — Il dottor Gil dice che lei deve andarsene di qui, per l'inferno! Il volto di Burdeaux assunse un'espressione cocciuta: — Non devo lasciarla sola. Dasein sprofondò nel letto. Cosa poteva fare? — Lei ha avuto una bruttissima reazione da shock la scorsa notte — disse Burdeaux. — Hanno dovuto darle del sangue. Lei non dev'essere lasciato solo. Mi hanno fatto una trasfusione? si chiese Dasein. Perché non mi hanno
ucciso allora? Mi hanno risparmiato perché lo facesse Jenny! — Siete tutti così preoccupati per Jenny — disse Dasein. — Le avete permesso di uccidermi. Questo l'avrebbe distrutta, ma per voi non avrebbe fatto nessuna differenza, vero? Sacrificare Jenny, è questo il vostro verdetto, branco di... — Lei parla come un matto, dottor Gil. La rabbia lasciò Dasein con la stessa rapidità con cui era venuta. Perché aggredire il povero Win? Perché aggredire chiunque di loro? Non potevano vedere la scimmia che avevano sulla schiena. Si sentiva sgonfiato. Era naturale che tutto questo apparisse pazzesco a Burdeaux. La ragione di una società era l'irragionevolezza di un'altra. Dasein imprecò contro la debolezza che aveva afferrato il suo corpo. Brutta reazione da shock. Si chiese allora cos'avrebbe fatto se Jenny fosse morta. Era un sentimento stranamente frammentato. Parte di lui che si lamentava dal dolore a quel pensiero, un'altra parte che s'infuriava contro il destino che l'aveva intrappolato in quell'angolo... e parte di lui che continuava ad analizzare, ad analizzare in eterno... Quanta parte dello shock era una reazione dovuta allo Jaspers? Era anche lui sensibilizzato come tutti gli altri santarogani? Mi uccideranno senza pensarci due volte se Jenny dovesse morire, si disse. Burdeaux l'informò: — Rimarrò seduto qui vicino alla porta. Mi raccomando di dirmi se le serve qualcosa. Si sedette davanti a Dasein e incrociò le braccia, proprio come se fosse stato una sentinella. Dasein chiuse gli occhi e pensò: Jenny, per favore, non morire. Ricordò che Piaget gli aveva detto come Harry Scheler aveva saputo della morte del fratello. Un posto vuoto. Dove percepisco la presenza di Jenny? si chiese Dasein. Lo tormentava il fatto di non poter sondare dentro di sé, da qualche parte, e venir rassicurato dalla presenza di Jenny. Quel tipo di rassicurazione valeva qualsiasi prezzo. Doveva essere là. Era una cosa che qualunque santarogano poteva fare. Ma io non sono un santarogano. Dasein sentì di essere in bilico sulla lama d'un rasoio. Su un lato c'era il grande mare inconscio del mondo umano nel quale lui era nato. Sull'altro
lato: eccolo là, simile alle acque verdi di un lago, sereno, composto, dove ogni singola goccia conosceva le proprie vicine. Sentì una porta che si apriva, percepì una tempesta che cominciava nel mare dell'inconscio, sentì una brezza che agitava la superficie del lago. La sensazione di equilibrio arretrò. Dasein aprì gli occhi. Piaget era in piedi in mezzo alla stanza. Aveva uno stetoscopio intorno al collo. C'era un'impressione di affaticamento intorno agli occhi. Studiò Dasein con un'espressione perplessa, corrugando la fronte. — Jenny? — bisbigliò Dasein. — Vivrà — rispose Piaget. — Ma c'è mancato poco. Dasein chiuse gli occhi, esalò un profondo sospiro. — Quanti altri incidenti come questo possiamo ancora accettare? — chiese. Riaprì gli occhi, incontrò lo sguardo di Piaget. Burdeaux si avvicinò a Piaget e disse: — Ha detto cose folli, dottor Larry. — Win, vuoi lasciarci soli per un po'? — disse Piaget. — Ne è proprio sicuro? — Burdeaux fissò Dasein corrugando la fronte. — Per favore — insisté Piaget. Tirò a sé una sedia, prese posto accanto al letto, fronteggiando Dasein. — Mi troverà qui fuori — disse Burdeaux. Uscì, e chiuse la porta dietro di sé. — Lei ha sconvolto Win, ed è una cosa piuttosto difficile a farsi — dichiarò Piaget. — Sconvolto... — Dasein lo fissò senza parole. Poi: — È questo il suo riassunto di quanto è successo? Piaget abbassò lo sguardo sulla propria mano destra, la chiuse a pugno, la riaprì. Scosse la testa. — Non intendevo apparire irriverente, Gilbert. Io... — Sollevò lo sguardo su Dasein. — Dev'esserci qualche spiegazione ragionevole, razionale. — Lei non penserà che la parola incidente spieghi tutto questo? — Qualcuno incline agli incidenti... — Sappiamo tutti e due che non esiste qualcosa che si possa definire inclinazione agli incidenti nel significato popolare del termine — disse Dasein. Piaget unì le mani per i palmi, davanti a sé, si sporse indietro, corrugò le labbra, poi disse: — Be', dal punto di vista psichiatrico... — Suvvia! — abbaiò Dasein. — Ha forse intenzione di ricadere sul vecchio cliché della «tendenza neurotica ad autoinfliggersi danni», un difetto
nel controllo dell'ego? Dove ho mai avuto qualche controllo sul lavoro fatto su quel ponte? Oppure sul ragazzo con l'arco e la freccia? — Il ragazzo con l'arco e freccia? Dasein decise di mandare al diavolo la sua promessa, e gli raccontò dell'incidente al parco, e aggiunse: — E che mi dice del montacarichi e dell'incendio là nel garage? E se è per questo, cosa mi dice del veleno nel cibo preparato da Jenny... Jenny fra tutte le persone possibili! Il cibo che lei... — Va bene! Ha delle ragioni per... — Ragioni! Le ho esposto un'intera sindrome. Santaroga sta cercando di uccidermi. Avete già ucciso un giovane all'apparenza inoffensivo. Avete quasi ucciso Jenny. Cosa sarà la prossima volta? — Nel nome del cielo, perché mai dovremmo... — Per eliminare una minaccia. Non è forse ovvio? Io sono una minaccia. — Oh, adesso, insomma... — Adesso insomma! Oppure vi va bene che io porti Jenny fuori da questa valle e vi denunci? — Jenny non lascerà il suo... — Piaget fece una pausa. — Denunciarci? Cosa intende dire? — Adesso chi fa piangere gli angeli? — chiese Dasein. — Voi sostenete di amare Jenny e di non volere che le venga fatto del male. Quale cosa più terribile ci può essere di fare in modo che sia lo strumento della mia morte? Piaget impallidì, tirò due respiri affranti. — Lei... Ci deve essere... Cosa intende con denunciarci? — Un ispettore del Dipartimento del lavoro ha mai esaminato la situazione del lavoro minorile nella vostra scuola? — chiese Dasein. — E che mi dice del Dipartimento Statale dell'Igiene Mentale? I vostri registri dicono che non ci sono malati di mente a Santaroga. — Gilbert, lei non sa di cosa sta parlando. — Davvero? E cosa mi dice della propaganda antigovernativa del vostro giornale? — Non siamo antigovernativi, Gilbert. Noi... — Cosa? Diamine, non ho mai visto una tale... — Mi lasci finire, per favore. Non siamo antigovernativi. Siamo antiesterno. È tutto un altro paio di maniche. — Voi pensate che... siano tutti matti? — Pensiamo che finiranno per eliminarsi da soli.
Follia, follia, pensò Dasein. Fissò il soffitto. Il sudore gl'inondava il corpo. L'intensità dell'emozione che aveva impiegato nella discussione con Piaget... — Perché ha mandato qui Burdeaux a sorvegliarmi? — chiese Dasein. Piaget scrollò le spalle. — Io... per prevenire la possibilità che lei potesse aver ragione del suo... — E ha scelto Burdeaux. — Dasein girò gli occhi verso Piaget. Studiò l'uomo. Piaget pareva essere in conflitto con se stesso, serrava e disserrava nervosamente i pugni. — La ragione dovrebbe essere ovvia — disse infine il dottore. — Non potete permettere che io lasci la valle, non è vero? — chiese Dasein. — Non è in condizioni fisiche per... — Lo sarò mai? Piaget incontrò lo sguardo di Dasein. — Come posso dimostrarle quello che noi veramente... — C'è un posto qua dentro dove posso davvero proteggermi dagli incidenti? — chiese Dasein. — Proteggerla dagli... — Piaget scosse la testa. — Vorrà pure dimostrarmi le sue intenzioni onorevoli — insisté Dasein. Piaget contrasse le labbra, poi: — C'è un appartamento per l'isolamento, un attico sul tetto: ha una propria cucina, i servizi, tutto. Se vuole... — Burdeaux può portarmi fin lassù senza ammazzarmi? Piaget sospirò: — L'accompagnerò là sopra io stesso non appena potrò trovare... — Burdeaux. — Come vuole. Può venir portato là sopra su una sedia a rotelle. — Andrò a piedi. — Non è abbastanza forte per... — Troverò le forze. Burdeaux mi può aiutare. — Molto bene. In quanto al cibo possiamo... — Mangerò il contenuto di barattoli presi a caso dagli scaffali del supermercato. Burdeaux potrà fare le spese per me fino a quando io... — Adesso senta, Gilbert... — È così che faremo, dottore. Lui mi procurerà un'ampia scelta, ed io sceglierò a caso da quella scelta. — Sta prendendo delle inutili... — Facciamo una prova e vediamo quanti incidenti salteranno fuori.
Piaget lo fissò per un attimo, poi: — Come vuole. — E Jenny? Quand'è che potrò vederla? — Il suo sistema nervoso ha subito un grave shock, e c'è stato anche un trauma intestinale. Direi che non dovrebbe ricever visite per parecchi giorni a meno che questi... — Non ho intenzione di lasciare quell'appartamento d'isolamento fino a quando non l'avrò convinta — disse Dasein. — Quando potrà venire a trovarmi? — Ci vorranno parecchi giorni. — Piaget puntò un dito contro Dasein. — Adesso senta, Gilbert, lei non porterà Jenny fuori della valle. Non acconsentirà mai a... — Lasciamo che sia Jenny a decidere. — Molto bene. — Piaget annuì. — Vedrà. — Andò alla porta. — Win? Burdeaux passò davanti a Piaget ed entrò nella stanza. — Parla ancora come un matto, dottor Larry? — Faremo un esperimento, Win — disse Piaget. — Per la salute del dottor Dasein e la felicità di Jenny, lo trasferiremo nell'appartamento d'isolamento. — Piaget sollevò un pollice verso il soffitto. — Vuole che sia tu a portarlo di sopra. — Vado a prendere una sedia a rotelle — disse Burdeaux. Piaget lo fermò. — Il dottor Dasein vuole provare a camminare. — È in grado di farlo? — Burdeaux rivolse un'occhiata perplessa a Dasein, corrugando la fronte. — Era troppo debole anche per reggersi in piedi per pochi istanti soltanto... — Pare che il dottor Dasein intenda affidarsi alla tua forza — gli spiegò Piaget. — Pensi di potercela fare? — Potrei trasportarlo — disse Burdeaux, — ma mi parrebbe di... — Trattalo con la stessa cura con cui tratteresti un neonato — l'interruppe Piaget. — Se lo dice lei, dottor Larry. Burdeaux si avvicinò al letto, aiutò Dasein a sedersi sull'orlo. Lo sforzo fece girare la testa a Dasein. Nel confuso girare e inclinarsi della stanza, vide Piaget andare alla porta, aprirla e starsene lì a guardare Burdeaux. — Per il momento porterò altrove la mia cattiva influenza — disse Piaget. — Non le dispiace, non è vero, Gilbert, se tra poco verrò a darle un'occhiata, puramente nella mia capacità di medico? — Fintanto che spetterà a me dire l'ultima parola su ciò che avesse intenzione di farmi — replicò Dasein.
— È giusto che l'avverta che le sue fasciature andranno cambiate — disse Piaget. — Win può farlo? — La sua fiducia in Win è molto commovente — osservò Piaget. — Sono sicuro che ne è rimasto colpito. — Può... — Sì, sono sicuro che è in grado di farlo, seguendo le mie istruzioni. — Bene, allora — disse Dasein. Con l'aiuto di Burdeaux, Dasein lottò per alzarsi in piedi. Rimase lì ansante, appoggiandosi a Burdeaux. Piaget uscì, lasciando la porta aperta. — È sicuro di potercela fare, signore? — Burdeaux chiese a Dasein. Dasein cercò di fare un passo. Le sue ginocchia erano due sezioni di gomma flessibile. Sarebbe caduto, se non fosse stato per il sostegno di Burdeaux. — Andiamo con l'ascensore? — chiese Dasein. — Sì, signore. Si trova subito sull'altro lato del corridoio. — Allora procediamo. — Sì, signore. Mi scusi, signore. — Burdeaux si chinò, sollevando Dasein fra le braccia, e si girò per sgusciare attraverso la porta. Dasein intravide il volto sorpreso di un'infermiera che camminava lungo il corridoio. Si sentì sciocco, impotente... cocciuto. L'infermiera corrugò la fronte, guardò Burdeaux, il quale l'ignorò, e schiacciò il pulsante dell'ascensore con un gomito. L'infermiera proseguì a grandi passi, con un ticchettio di tacchi. La porta dell'ascensore si aprì con un sibilo. Burdeaux lo trasportò dentro, e schiacciò sempre col gomito un pulsante contrassegnato da una «P». Dasein sentì la bocca diventargli secca quando le porte dell'ascensore si chiusero. Sollevò lo sguardo al soffitto color crema, una losanga di luce lattea, pensando: Non hanno esitato a sacrificare Jenny. Perché dovrebbero pensarci due volte con Burdeaux? E se l'ascensore fosse stato sabotato per precipitare? Si udì un debole ronzio. Dasein sentì che l'ascensore saliva. Poco dopo la porta si aprì e Burdeaux lo trasportò fuori. Dasein intravide per un attimo un atrio dalle pareti color crema e una porta di mogano con la scritta «Isolamento». Entrarono. Era una stanza lunga con tre letti, le finestre che davano sopra un tetto, nero per il rivestimento di catrame. Burdeaux depose Dasein sul letto più
vicino, e fece due passi indietro. — La cucina è là dentro — l'informò, indicando una porta oscillante all'estremità della stanza. — Il bagno è dietro quella porta laggiù. — Quella era la porta sul lato opposto del letto di Dasein. C'erano altre due porte sulla destra di questa. — Le altre due porte sono un armadio a muro e un laboratorio. È questo che voleva, dottore? Dasein incontrò l'occhiata scrutatrice di Burdeaux e rispose: — Dovrà bastare. — Riuscì ad esibire un mesto sorriso e gli spiegò l'accordo sull'alimentazione. — Cibo in scatola, signore? — chiese ancora Burdeaux. — Sto approfittando di lei, lo so — disse Dasein. — Ma lei era... come me... una volta. Credo che lei simpatizzi con me... nell'inconscio. Conto su questo per... — Dasein riuscì a dare in una debole scrollata di spalle. — È questo che il dottor Larry vuole che faccia? — Sì. — Devo prendere dei barattoli dagli scaffali... a caso? — Proprio così. — Be', mi pare pazzesco, signore... ma lo farò. — Lasciò la stanza borbottando. Dasein riuscì a strisciare sotto le coperte, e giacque lì per un momento, per riprendere le forze. Poteva vedere una fila di cime di alberi al di là del tetto: alti sempreverdi, e un cielo azzurro senza nubi. Quella stanza irradiava una sensazione di quiete. Dasein tirò un profondo sospiro. Quel posto era davvero sicuro? Era stato un santarogano a sceglierlo. Ma quel santarogano si era trovato sbilanciato dai dubbi personali. Per la prima volta dopo tanti giorni, Dasein sentì di potersi rilassare. Si sentì invadere da una profonda stanchezza. Cos'è questa innaturale debolezza? si chiese. Era molto di più della naturale reazione allo shock o un risultato delle sue ustioni. Era come una ferita all'anima, qualcosa che coinvolgeva tutto il suo essere. Era un comando centrale impartito a tutti i suoi muscoli, una costrizione all'inattività. Dasein chiuse gli occhi. Nella rossa oscurità dietro alle sue palpebre Dasein si sentì infranto, il suo ego rannicchiato in posizione fetale, terrorizzato. Non bisogna muoversi, pensò. Muoversi avrebbe significato sollecitare un disastro più terribile della morte. Un incontrollabile tremito gli scosse le gambe e i fianchi, facendogli sbattere i denti. Lottò per rimanere immobile, aprì gli occhi mettendosi a
fissare il soffitto. È una reazione dovuta allo Jaspers, pensò. C'era quell'odore nella stanza. L'aroma gli rodeva i sensi. Annusò l'aria, si voltò verso un appoggio accanto al letto, un cassetto in parte aperto. Dasein tirò fuori completamente il cassetto fino a quando non rimase bloccato. Si rotolò sul fianco per sbirciare dentro lo spazio che aveva esposto. Vuoto. Ma c'era stato uno Jaspers qualcosa nel cassetto... e molto di recente. Cosa? Dasein esplorò la stanza con un rapido sguardo. Un appartamento per l'isolamento, aveva detto Piaget. Isolamento di che? E da cosa? Per che cosa? Dasein deglutì e riaffondò nel cuscino. Quel profondo rilassamento, delizioso e terrorizzante, lo stringeva nella propria morsa. Dasein sentiva le verdi acque dell'incoscienza pronte ad avvolgerlo. Con un disperato sforzo di volontà costrinse i suoi occhi a rimanere aperti. Da qualche parte qualcosa di fetale gemette spaventato. Un dio senza volto ridacchiò. La porta d'ingresso si aprì. Dasein si mantenne rigido e immobile, timoroso che se avesse mosso la testa di lato il suo volto avrebbe potuto affondare sotto quell'inconsapevolezza che saliva come una marea, che avrebbe potuto affondare nel... Piaget comparve nel suo campo visivo e abbassò lo sguardo su di lui. Il dottore sollevò con il pollice la palpebra sinistra di Dasein, studiò l'occhio. — Dannazione, se non lo sta ancora combattendo — disse. — Combattere cosa? — bisbigliò Dasein. — Ero pressoché sicuro che l'avrebbe messo fuori combattimento se lei avesse usato tanta energia a questo stadio — dichiarò Piaget. — Fra non molto dovrà mangiare, sa. Allora Dasein divenne consapevole del dolore: una cavità che si faceva sentire imperiosa dentro di lui. Si aggrappò al dolore. Lo aiutava a respingere quelle avviluppanti onde verdi. — Sa che le dico? — riprese Piaget. Uscì dal campo visivo di Dasein. Sentì un raschiare, un grugnito. — Me ne rimarrò seduto qui a sorvegliarla fino a quando non tornerà Win con qualcosa da cacciar dentro quella sua faccia pazza. Non la toccherò e non permetterò a nessun altro di farlo. Le sue fasciature possono aspettare. È più importante che lei riposi. Che dor-
ma, se è possibile. La smetta di combatterlo. Dormire! Per gli dèi, com'era invitante quella lassitudine... Combattere cosa? Cercò d'inquadrare una volta ancora la domanda, ma non riuscì a trovare l'energia per farlo. Gli ci voleva ogni sforzo soltanto per tenersi aggrappato al minuscolo nucleo ardente di consapevolezza che fissava il soffitto color crema. — Quello contro cui sta combattendo — riprese Piaget, con tono di voce discorsivo, — è l'arrampicata fuori dell'acquitrino. Il fango rimane appiccicato a qualcuno. È questo che mi spinge a sospettare che la sua teoria possa avere un germe di verità, che delle chiazze di violenza ci siano ancora rimaste appiccicate addosso, arrivando ad avere effetto su di noi dal lato cieco, per così dire. La voce di Piaget era un ronzio ipnotico. Le frasi si facevano strada zigzagando dentro e fuori la coscienza di Dasein. — ... esperienza di addomesticamento... — — ... rimosso dalla ex-stasi, da una condizione fissa... — — ... bisogna reimprimere il senso d'identità... — — niente di nuovo: l'umanità si è sempre trovata in qualche specie di guaio... — — ... una esperienza religiosa di un certo qual tipo, creando un nuovo ordine di teobotanici... — — ... non ritrarsi dalla vita o dalla consapevolezza della medesima... — — ... creare una società che cambi senza problemi, in modo scorrevole, come lo richiedono le necessità collettive... Uno degli dèi senza volto produsse un bisbiglio tonante nel cranio di Dasein: — Questo è il comandamento che ti impartisco: Un uomo povero non può permettersi i princìpi e un uomo ricco non ne ha bisogno. Dasein giaceva sospeso in un'amaca di silenzio. La paura dei movimenti lo dominava. Sentì una presenza mondiale in qualche punto sotto di sé. Ma lui giaceva arenato lì sopra. Qualcosa lo chiamava. Familiare. Sentì il mondo familiare e ne provò ripugnanza. Il luogo pullulava di mascheramenti che cercavano di nascondere le macerie delle presunzioni, degli stratagemmi, delle finte facce infrante. E ancora lo chiamava. Era un luogo al quale poteva adattarsi, plasmato per lui. Sentì se stesso che si protendeva verso di esso con una sensazione di esuberante autogratificazione, si ritrasse. Le macerie: erano dovunque, una coperta sopra la vita, una noia cremosa, vellutata, tranquillizzante, adulante, saccarinosa. E ancora lo chiamava. L'esca era inesauribile, una borsa di vividi fuochi artificiali, una tavoloz-
za inondata da colori sgargianti. Era tutto un trucco. Lo sentiva... tutto un trucco, una massa di segnali-cliché e riflessi in scatola. Era un mondo odioso. Quale mondo? si chiese. Era Santaroga... o quello esterno? Qualcosa afferrò Dasein per la spalla. Urlò. Dasein si svegliò e si trovò in preda a gemiti e a farfugli. Gli ci volle qualche istante per localizzarsi. Dov'erano gli dèi senza volto? Piaget era chino su di lui. Gli teneva una mano sulla spalla. — Era in preda ad un incubo — gli disse Piaget. Tolse la mano. — Win è tornato con il cibo, quello che è riuscito a trovare. Lo stomaco di Dasein si aggrovigliò per il dolore. Burdeaux era in piedi alla sua destra vicino al letto adiacente. Su questo letto c'era uno scatolone pieno di cibo in barattoli. — Mi porti un apriscatole e un cucchiaio — disse Dasein. — Mi dica quello che vuole, e gliel'aprirò io — rispose Burdeaux. — Lo farò io personalmente — ribatté Dasein. Si sollevò su un gomito. Il movimento gli fece palpitare il braccio, ma si sentiva più forte, come se avesse attinto all'energia della disperazione. — Accontentalo — disse Piaget a Burdeaux che esitava. Burdeaux scrollò le spalle e uscì dalla porta che si trovava sul lato opposto al letto. Dasein buttò indietro le coperte e mise i piedi fuori dal letto. Fece segno a Piaget di arretrare e si alzò. I suoi piedi toccarono un pavimento freddo. Tirò un profondo respiro e si avvicinò barcollando al letto adiacente. Si sentiva le ginocchia più forti, ma anche percepiva la scarsità delle sue riserve. Burdeaux ricomparve e porse a Dasein un apriscatole dal manico contorto. Dasein si sedette accanto allo scatolone, vi affondò dentro le mani e afferrò un panciuto barattolo verde senza neppure guardare l'etichetta. Applicò l'apriscatole all'orlo del barattolo e lo girò. Prese il cucchiaio che Burdeaux gli offriva e scostò indietro il coperchio. Fagioli. Un odore di Jaspers si avventò su Dasein dal barattolo aperto. Guardò l'etichetta: «Inscatolato dalla Cooperativa Jaspers». C'era il numero della
licenza, la data di un anno prima e l'avvertimento: «Vendita non consentita per il commercio interstato. Esposto dic. '64». Dasein fissò il barattolo. Jaspers? Non poteva essere. La cosa non veniva spedita da nessuna parte. Non poteva venir conservata fuori da... — Qualcosa non va? — chiese Piaget. Dasein studiò il barattolo: scintillante, un'etichetta sfavillante. «Fagioli con salsa di carne di manzo» dicevano quelle lettere gialle. Dasein ignorò l'allettamento dell'aroma che si sprigionava dal barattolo, guardò lo scatolone. Cercò di ricordare se il barattolo avesse sprigionato il sibilo della chiusura sotto vuoto quando l'aveva aperto: non riusciva a ricordarlo. — Cosa c'è che non va? — insisté Piaget. — Non può esserci niente di sbagliato — ribatté Burdeaux. — È tutto stock privato. Dasein sollevò lo sguardo dallo scatolone. Tutti i barattoli che aveva potuto vedere portavano l'etichetta della Cooperativa. Stock privato? — Ecco — disse infine Piaget. Prelevò cucchiaio e barattolo dalle mani di Dasein, assaggiò un boccone di fagioli, sorrise. Restituì il barattolo e il cucchiaio a Dasein che li prese automaticamente. — Non c'è niente che non vada — dichiarò Piaget. — Sarà meglio — disse Burdeaux. — Viene dal negozio di Pete Maia, dritto dallo scaffale dello stock privato. — È Jaspers — esclamò Dasein, con voce rauca. — Certo che lo è — disse Piaget. — Messo in scatola proprio qui, per il consumo locale. È immagazzinato qui per conservarne la forza. Non dura a lungo un volta aperto, però, perciò farà meglio a cominciare a mangiarlo subito. Le rimangono sì e no cinque minuti, dieci al massimo. — Scoppiò a ridere. — Ringrazi il cielo che si trova qui. Se fosse fuori e aprisse quel barattolo, non durerebbe più di qualche secondo. — Perché? — Ambiente ostile — spiegò Piaget. — Su, mangi. Ha visto che io ne ho mangiato un po'. Non mi ha fatto niente. Dasein assaggiò un po' della salsa con la punta della lingua. Una sensazione tranquillizzante gli si diffuse sull'intera lingua, e poi giù nella gola. Era delizioso. Se ne mise in bocca un'intera cucchiaiata e la buttò giù. Lo Jaspers gli arrivò nello stomaco con un tonfo. Dasein si girò verso Burdeaux spalancando gli occhi. Incontrò un'espressione meravigliata, occhi castano-scuri come amuleti africani con dentro
pagliuzze giallo-burro. Il barattolo attirò l'attenzione di Dasein. Vi guardò dentro. Era vuoto. Dasein provò una strana sensazione rievocativa, come il riavvolgimento rapido del nastro di un registratore, uno stridio della memoria: la sua mano che con il movimento di un pistone estraeva a cucchiaiate il contenuto del barattolo cacciandoglielo in bocca. I trangugiamenti erano una macchia confusa. Adesso riconobbe il tonfo. Era stato il tonfo della consapevolezza. Non aveva più fame. È stato il mio corpo a farlo, pensò Dasein. Si sentì cogliere da una sensazione di meraviglia. È stato il mio corpo a farlo. Piaget prese il barattolo e il cucchiaio dalle dita di Dasein che non opposero resistenza. Burdeaux aiutò Dasein a ritornare a letto, tirò su le coperte, le lisciò. È stato il mio corpo a farlo, pensò ancora Dasein. Era scattato il grilletto che l'aveva fatto agire: la conoscenza che l'effetto Jaspers si stava dissipando... e la consapevolezza era stata esclusa. — Ecco — disse Piaget. — E le fasciature? — chiese Burdeaux. Piaget esaminò la benda sul viso di Dasein, si chinò ad annusare, si tirò indietro. — Forse stasera — disse. — Mi avete intrappolato, vero? — chiese Dasein. Sollevò lo sguardo su Piaget. — Ecco che ricomincia — disse Burdeaux. — Win — disse Piaget, — so che hai delle faccende personali che devi sbrigare. Perché non le sbrighi adesso e mi lasci solo con Gilbert? Puoi tornare qui verso le sei, se non ti spiace. Burdeaux disse: — Potrei chiamare Willa e farle... — Non c'è bisogno di disturbare tua figlia — l'interruppe Piaget. — Vai e... — Ma se per caso... — Non c'è nessun pericolo — ribadì Piaget. — Se lo dice lei — disse Burdeaux. Andò verso la porta che dava sull'esterno, si fermò un attimo a studiare Dasein, poi uscì. — Cos'è che non voleva che Win sentisse? — domandò Dasein. — Ecco che ricomincia — rispose Piaget, facendo il verso a Burdeaux. — Qualcosa deve aver...
— Non c'è niente che Win non possa sentire! — Eppure ha mandato lui a sorvegliarmi... perché era speciale — disse Dasein. Tirò un profondo respiro, sentendo che i sensi gli si schiarivano, la mente che gli si ridestava. — Win era... sicuro per me. — Win deve vivere la propria vita e lei sta interferendo — disse Piaget. — Lui... — Perché mai Win era sicuro? — È una sua sensazione, non la mia — replicò Piaget. — Win l'ha salvata da una caduta. Lei ha mostrato una precisa empatia per... — Lui è venuto da fuori — calcò la voce Dasein. — Era come me... una volta. — Molti di noi sono venuti da fuori — disse Piaget. — Anche lei? — No, ma... — Com'è che funziona veramente la trappola? — chiese Dasein. — Non c'è nessuna trappola! — Che effetto fa lo Jaspers su una persona? — insisté Dasein. — La ponga a se stesso questa domanda. — Tecnicamente... dottore? — Tecnicamente. — Cosa fa lo Jaspers? — Oh, fra le altre cose accelera la catalisi dei trasmettitori chimici nel sistema nervoso: 5-idrossitriptamina e serotonina. — Cambiamenti nelle cellule di Golgi? — Assolutamente no. Il suo effetto è quello di scindere i sistemi di bloccaggio, di aprire la funzione dell'immagine della mente e i processi di formulazione della coscienza. Ci si sente come se si avesse una memoria migliore... potenziata. Non è vero, naturalmente, salvo che come effetto. È soltanto un effetto collaterale relativo alla velocità con la quale... — La funzione delle immagini — disse Dasein. — E se per caso la persona non fosse capace di far fronte a tutti i suoi ricordi? Ci sono ricordi estremamente sgradevoli, vergognosi... pericolosamente traumatici in qualche... — Abbiamo i nostri insuccessi. — Insuccessi pericolosi? — Talvolta. Dasein chiuse la bocca, una reazione istintiva. Tirò un profondo respiro attraverso le narici. L'odore dello Jaspers aggredì i suoi sensi. Guardò in
direzione dello scatolone di barattoli sul letto adiacente. Jaspers. Il combustibile della consapevolezza. Una sostanza pericolosa. Una droga di cattivi presagi. Fantasie speculative svolazzarono attraverso la mente di Dasein. Si girò, e colse un'espressione trasognata sul volto di Piaget. — Voi non potete andarvene dalla valle, non è vero? — gli chiese. — Chi mai vuole farlo? — Voi sperate che io rimanga, forse anche che vi aiuti con i vostri insuccessi. — Certamente c'è del lavoro da fare. Dasein fu colto da un impeto di rabbia. — Come posso pensare? — volle sapere. — Non posso allontanarmi dall'odore di... — Calma — mormorò Piaget. — Adesso la prenda con calma. Lo diventerà senza neppure accorgersene. Ogni società ha una propria chimica essenziale, pensò Dasein. Il suo aroma, una cosa di profonda importanza, ma meno visibile ai suoi membri. Santaroga aveva cercato di ucciderlo, Dasein lo sapeva. Adesso si chiese se non poteva essere stato provocato dal fatto che lui aveva un odore diverso. Fissò lo scatolone sul letto. Impossibile! Non poteva trattarsi di niente così vicino alla superficie. Piaget si girò e a sua volta andò vicino allo scatolone; ne strappò una minuscola strisciolina di carta arricciata, toccò la carta con la lingua. — Questa scatola è stata giù nel deposito — disse. — La sua carta è materia organica. Qualunque cosa di natura organica s'impregna di Jaspers dopo essere stata esposta per un certo tempo. — Buttò la striscia di carta dentro lo scatolone. — Diventerò anch'io come quella scatola? — chiese Dasein. Sentiva di avere un fantasma alle calcagna, un'essenza che non poteva eludere. Quella presenza in agguato si agitò nella sua mente. — Sarò... — Si tolga simili pensieri dalla mente — l'interruppe Piaget. — Sarò uno degli insuccessi? — insisté Dasein. — Le ho detto di smetterla! — Perché dovrei? Dasein si rizzò a sedere. Aveva la forza della paura e della rabbia. La sua mente era un ribollire di congetture, ognuna peggiore di quella che l'aveva preceduta. Si sentiva più esposto e vulnerabile di un bambino che stesse scappando per evitare una raffica di botte.
Con un improvviso shock della memoria, Dasein ricadde sul cuscino. Perché mai ho scelto questo momento per ricordarmelo? si chiese. Un doloroso episodio della sua infanzia si trovava là esposto alla sua consapevolezza. Ricordava il dolore causatogli dalla verga sulla schiena. — Lei non è il tipo dell'insuccesso — dichiarò Piaget. Dasein fissò con occhio accusatore lo scatolone odorante. Jaspers! — Lei è il tipo che può andare molto in alto — aggiunse Piaget. — Quale pensa che sia il vero motivo per cui si trova qui? Soltanto a causa di quella stupida ricerca di mercato? O a causa di Jenny? Ah, no. Niente di così isolato o semplice. Santaroga chiama certi individui. E loro vengono. Dasein gli lanciò un'occhiata obliqua. — Sono venuto in modo che a voi, gente, si offrisse la possibilità di farmi fuori — replicò Dasein. — Noi non vogliamo ucciderla! — Un momento lei sospetta che io possa aver ragione, quello successivo lo nega. Piaget sospirò. — Ho un suggerimento — disse Dasein. — Qualunque cosa. — Non le piacerà — aggiunse Dasein. Piaget lo fissò furibondo. — Cos'ha in mente? — Lei avrà paura di farlo. — Non ho... — È una specie di test clinico — spiegò Dasein. — La mia ipotesi è che lei cercherà di non farlo. Cercherà delle scuse, qualunque cosa pur di tirarsene fuori o di sospenderlo. Cercherà di equivocare le mie parole. Cercherà di... — Per l'amor del cielo! Cos'è che ha in mente? — Potrebbe riuscirci. — Riuscire a far che? — A non fare quello che suggerisco. — Non cerchi di mettermi con le spalle al muro, Gilbert. — Allora cominciamo — disse Dasein. Sollevò una mano, troncando la risposta in bocca a Piaget. — Voglio che lei mi permetta d'ipnotizzarla. — Cosa? — Mi ha sentito. — Perché? — Lei è un nativo — spiegò Dasein, — del tutto condizionato a questo...
combustibile della consapevolezza. Voglio vedere cosa c'è sotto, che tipo di paure lei... — Di tutte le cose folli... — Non è un dilettante pasticcione che le chiede di fare una cosa del genere! Io sono uno psicologo clinico esperto d'ipnoterapia. — Ma cosa può mai sperare di... — Quello che un uomo teme — ribatté Dasein, — vale a dire le sue paure, è come un faro. Punti sulle paure di un uomo, e scoprirà le sue motivazioni sotterranee. Sotto ogni paura c'è una violenza che... — Sciocchezze! Io non ho... — Lei è un medico. Lei sa bene che è così. Piaget lo fissò in silenzio, soppesandolo. Poco dopo, parlò: — Bene, ogni uomo ha paura della morte, naturalmente. E... — Molto di più. — Lei crede di essere una specie di dio, Gilbert? Lei va in giro a... — L'aquila si leva forse al tuo comando e fa il suo nido sulle vette? — chiese Dasein. Scosse la testa. — Lei, che cosa venera? — Oh, la religione. — Piaget tirò un profondo respiro di sollievo. — Tu non ti farai spaventare dal terrore della notte, né dalla freccia che vola di giorno; né dalla pestilenza che cammina nel buio; né dalla distruzione che devasta a mezzodì... È questo? Cosa mai... — Non è questo. — Gilbert, io non sono ignorante di queste faccende, come lei dev'essersi ben reso conto. Sommuovere, mettere in agitazione quei substrati che lei suggerisce... — Cosa sommuoverei? — Sappiamo tutti e due che non c'è modo di prevederlo con precisione. — Voi fate le cose come comunità... un gruppo, una società nella quale non volete che io scavi — disse Dasein. — Cos'è che venera veramente questa società? Con una mano voi mi dite: «Guardi pure dovunque vuole». Con l'altra mano mi sbattete la porta in faccia. In ogni azione... — Davvero lei crede che qualcuno di noi abbia cercato di ucciderla per il bene della comunità? — Lei no? — Non potrebbe esserci qualche spiegazione? — Quale? Dasein continuò a fissare Piaget con sguardo tranquillo. Il dottore era turbato, su questo non c'erano dubbi. Si rifiutava di guardare Dasein negli
occhi. Muoveva le mani senza uno scopo. Il suo respiro si era fatto più rapido. — Alle società è impossibile credere di poter morire — osservò Piaget. — Ne deve conseguire che una società, come tale, non venera nessuno. Se non può morire, non dovrà mai affrontare il giudizio finale. — E se non dovrà mai affrontare il giudizio finale — replicò Dasein, — come società potrebbe fare cose che un singolo individuo non avrebbe lo stomaco di fare, perché eccessive. — Forse — borbottò Piaget. — Forse. — E poi: — Bene, allora. Perché esaminare me? Io non ho mai tentato di farle del male. Dasein guardò altrove, colto alla sprovvista da quella domanda. Fuori dalla finestra poteva vedere, attraverso una cornice di rami, un tratto delle colline che racchiudevano Santaroga. Si sentiva imprigionato da quella linea di colline, impigliato in quel luogo da una ragnatela di significati. — Cosa mi dice della gente che ha tentato di uccidermi? — chiese poco dopo Dasein a Piaget. — Sarebbero soggetti adatti? — Il ragazzo, forse — rispose Piaget. — Dovrò esaminarne uno, comunque. — Petey, il ragazzo della Jorick — disse Dasein. — Un insuccesso, eh? — Non credo. — Un'altra persona che si sta aprendo... come me? — Se ne ricorda? — Allora, lei ha detto che le società muoiono, che qui da voi vi siete tagliati fuori... con lo Jaspers. — A quanto ricordo ne avevamo parlato anche allora — disse Piaget. — Si è davvero aperto, adesso? Riesce a capire? È diventato...? D'un tratto, Dasein si ricordò della voce di Jenny al telefono: — Fai attenzione. — E la sua paura quando aveva detto: — Vogliono che tu te ne vada. In quell'istante, per lui Piaget divenne ancora il gatto grigio del giardino che azzittiva gli uccelli, e Dasein seppe di essere ancora solo, senza un gruppo. Ricordò il lago, la percezione della percezione, la consapevolezza del proprio corpo, la comunione degli umori, la spartizione di ogni cosa. Allora ogni conversazione che aveva avuto con Piaget ritornò alla memoria di Dasein per venir soppesata e bilanciata. Sentì che le sue esperienze a Santaroga erano andate accumulandosi, un momento sull'altro, fino a quell'istante. — Le farò avere dell'altro Jaspers — disse Piaget. — Forse allora...
— Sospetta che abbia uno sfarfallio dietro gli occhi? — chiese Dasein. Piaget sorrise. — Sarah rimane fedele alle frasi del passato — disse, — prima che noi sistematizzassimo i nostri rapporti con lo Jaspers... e con l'esterno. Ma non rida di lei o delle sue frasi. Sarah ha un occhio innocente. — Che io non ho. — Lei ha ancora alcune supposizioni e pregiudizi dei non-uomini — dichiarò Piaget. — E ho anche sentito troppo... ho appreso troppo su di voi, perché mi possiate mai permettere di andar via — ribadì Dasein. — Non vuole neppure tentare di diventare? — insisté Piaget. — Diventare cosa? — Il discorso folle, quasi schizofrenico, di Piaget fece arrabbiare Dasein. Un parlare! Un vedere! — Soltanto lei lo sa — disse Piaget. — So cosa? Piaget si limitò a fissarlo. — Le dirò quello che so — riprese infine Dasein. — So che lei ha terrore del mio suggerimento. Non vuole scoprire come l'insetticida in polvere per scarafaggi di Vina è finito nel mio caffè. Non vuole sapere come Clara Scheler ha avvelenato il mio stufato. Non vuole sapere cosa ha spinto qualcuno a sbattermi giù dal pontone, laggiù sul lago. Non vuole sapere perché un ragazzino di quindici anni ha tentato di trafiggermi con una freccia. Non vuole sapere come Jenny ha fatto ad avvelenare le uova. Non vuole sapere come un'automobile è stata predisposta per schiacciarmi, o come il mio furgone è stato sistemato per scoppiare come una bomba incendiaria. Non vuole... — Va bene! Piaget si sfregò il mento e guardò altrove. — Le avevo detto che lei avrebbe potuto riuscirci — concluse Dasein. — «Iti vuccati» — mormorò Piaget. — «Così è detto: Ogni sistema e ogni interpretazione diventano falsi alla luce di un sistema più completo». Mi chiedo se non sia per questo che lei si trova qui: per ricordarci che nessuna affermazione positiva può essere fatta senza essere priva di contraddizione. Si girò e tornò a fissare Dasein. — Di che cosa sta parlando? — gli chiese Dasein. Il tono di voce e i modi di Piaget mostravano un'improvvisa calma... inquietante. — L'illuminazione interiore di ogni essere dimora nell'io — continuò Piaget. — L'io che non può venir isolato dimora nella memoria come una
percezione di simboli. Noi siamo consapevoli di una proiezione dell'io sul contenuto ricettivo dei sensi. Ma può capitare che l'io venga fuorviato, l'io di una persona o l'io di una comunità. Mi chiedo se... — Cerchi di smetterla di distrarmi con quel linguaggio burocratico — l'interruppe Dasein. — Lei sta cercando di cambiare argomento, di evitare... — Un... vuoto — disse Piaget. — Ah, sì. Il vuoto attiene molto a tutta questa faccenda. Einstein non può venir confinato nella matematica. Tutta l'esistenza fenomenologica è transitoria, relativa. Nessuna cosa particolare è reale. Si trasmuta in qualcos'altro ad ogni istante. Dasein si rizzò a sedere sul letto. Il vecchio dottore era forse impazzito? — Il comportamento da solo non produce i risultati — disse ancora Piaget. — Lei sta cercando di afferrare gli assoluti. Però, cercare una qualsiasi cosa fissa significa trattare con la falsa immaginazione. Lei, Dasein, sta cercando di tirar fuori il sapone dall'acqua con le dita. La dualità è un'illusione. Dasein scosse la testa da parte a parte. Le parole di quell'uomo non avevano alcun senso. — Vedo che lei è confuso — disse Piaget. — In realtà lei non capisce qual è la sua energia intellettuale. Lei cammina lungo sentieri angusti. Io le offro nuove orbite di... — Può smetterla — l'interruppe Dasein. E a questo punto si ricordò del lago, e della rauca voce femminile che diceva: — C'è soltanto una cosa da fare. — E Jenny: — La stiamo facendo. — Lei deve adattarsi al pensiero condizionale — riprese Piaget. — In questo modo lei sarà in grado di capire l'autoesistenza relativa e di esprimere la verità relativa di qualunque cosa lei percepisca. Lei ha la capacità di farlo. Lo vedo. La sua capacità d'introspezione nelle azioni violente che la circondano... — Qualunque cosa lei mi stia facendo, non ha certo intenzione di fermarsi, vero? — chiese Dasein. — Lei continua a spingere a spingere a spingere... — Chi spinge? — chiese Piaget. — Non è forse lei quello che esercita la spinta maggiore... — Maledizione a lei! Vuole smetterla? Piaget lo guardò in silenzio. — Einstein — borbottò Dasein. — La relatività... gli assoluti... l'energia intellettuale... fenomenica... — S'interruppe mentre la sua mente si lancia-
va per un attimo in una serie di rapidi calcoli molto simili a quelli che aveva fatto quando aveva deciso di saltare la breccia del ponte. È come dare la caccia ai sottomarini... nella mente, pensò Dasein. Dipende da quante unità di ricerca si possono mettere al lavoro e dalla velocità con cui riescono ad operare. La sensazione scomparve con la stessa velocità con cui era arrivata. Ma Dasein non si era mai sentito così scosso in vita sua. Nessun pericolo immediato aveva attivato questa capacità... non stavolta. Sentieri angusti, pensò. Sollevò lo sguardo su Piaget con espressione stupita. Qui c'era molto più di ciò che le orecchie sentivano. Possibile che fosse quella la maniera con la quale i santarogani pensavano? Dasein scosse la testa. Non pareva possibile... o probabile. — Posso elaborare? — chiese Piaget. Dasein annuì. — Lei avrà osservato la maniera spiccia con cui noi dichiariamo le nostre verità relative quando mettiamo in vendita qualcosa — disse Piaget. — Il pensiero condizionale respinge qualunque altro approccio. Il reciproco rispetto è quindi implicito nel pensiero condizionale. Osservi il contrasto con l'approccio al mercato di quelli che l'hanno mandata a spiarci. Essi hanno... — Con quanta rapidità riesce a pensare? — chiese Dasein. — Rapidità? — Piaget scrollò le spalle. — Con tutta la rapidità necessaria. Con tutta la rapidità necessaria, pensò Dasein. — Posso continuare? — chiese Piaget. Ancora una volta Dasein annuì. — È stato osservato — riprese Piaget, — che i momenti di sovraccarico nell'uso delle fogne tendono a corrispondere agli intervalli degli spettacoli televisivi: un fatto che può constatare anche lei riflettendo anche molto brevemente. Ma c'è soltanto un breve passo da questo fatto elementare al collocamento di contatori nelle fogne per misurare lo scorrimento dei liquami come controllo molto accurato delle unità di ascolto disponibili in qualunque momento. Non ho alcun dubbio che questo venga già fatto: è talmente ovvio. Adesso, rifletta un momento sugli atteggiamenti basilari nei confronti dei propri simili di gente disposta a fare questo genere di cose, a confronto di quelli che non hanno potuto trovarle dentro di sé per farle. Dasein si schiarì la gola. Quello era il nocciolo del capo di accusa contro
l'esterno. Come si usava la gente? Con dignità? Oppure si sfruttavano le loro funzioni più fondamentali per i propri scopi? L'esterno cominciava sempre più ad apparirgli come un luogo di vuoto irritante e di artificiose blandizie. Comincio davvero a vedere le cose come un santarogano, pensò Dasein. C'era una sensazione di vittoria in quel pensiero. Era ciò che si era impegnato a fare come parte integrante del suo lavoro. — Non è sorprendente — disse Piaget, — scoprire la legge dell'«n al quadrato» applicata alla guerriglia, alla pubblicità e alla politica: altri tipi di guerriglia, capisce, senza un vero problema di conversione da un campo all'altro. Ciascuno ha i suoi concetti di concentrazione ed esposizione. La matematica dei differenziali e delle predizioni si applica ugualmente bene, non importa quale sia il campo di battaglia. Eserciti, pensò Dasein. Si concentrò sulle labbra in movimento di Piaget, chiedendosi d'un tratto come l'argomento fosse stato spostato su un campo così diverso. Piaget l'aveva forse fatto deliberatamente? Avevano parlato del lato cieco di Santaroga, delle sue paure... — Mi ha dato argomenti sui quali fare ipotesi — riprese Piaget. — Ora la lascerò solo per un po', per vedere se non mi riesce di tirar fuori qualcosa di costruttivo. C'è un campanello vicino alla testiera del suo letto. Le infermiere non sono su questo piano, ma una di loro può arrivare qui molto in fretta in caso di emergenza. Le daranno un'occhiata di tanto in tanto. Vuole qualcosa da leggere? Posso mandarle qualcosa? Qualcosa di costruttivo? si chiese Dasein. Cosa vuol dire? — Che ne direbbe di qualche copia del giornale della nostra valle? — chiese Piaget. — Della carta da lettere e una penna — disse Dasein. — Esitò, poi: — E anche i giornali... sì. — Molto bene. Cerchi di riposare. Mi sembra che lei si stia riprendendo un po' delle sue forze, ma non strafaccia. Infine, Piaget si girò e uscì a grandi passi dalla stanza. Poco dopo un'infermiera dai capelli rossi entrò con un mucchio di giornali, una tavoletta per scrivere e una penna a sfera verde scuro. Depositò il tutto sul comodino e disse: — Vuole che le metta a posto il letto? — No, grazie. L'attenzione di Dasein fu irresistibilmente attratta dalla sua straordinaria rassomiglianza con Al Marden. — Lei è una Marden — disse Dasein.
— E allora, cosa c'è di nuovo? — gli chiese l'infermiera, e uscì. Be', vattene a quel paese! pensò Dasein. Lanciò un'occhiata al mucchio di giornali, ricordando come avesse cercato per tutta Santaroga la redazione. Adesso, li aveva ottenuti con tanta facilità da perdere buona parte dell'interesse. Scivolò fuori dal letto e scoprì che le sue ginocchia avevano perso parte della loro debolezza. Il cibo in scatola attirò la sua attenzione. Dasein frugò dentro lo scatolone, trovò una marmellata di mele, la mangiò in fretta fintanto che il cibo sapeva ancora di Jaspers. Già mentre mangiava, sperò che questo lo riportasse a quel livello di chiarezza e rapidità di pensiero che aveva provato sul ponte e, più brevemente, con Piaget. La marmellata di mele alleviò la sua fame, lasciandolo vagamente inquieto, niente di più. Stava forse perdendo la sua carica? si chiese. Gli ci voleva una dose maggiore di quella roba tutte le volte che la mangiava? Oppure si stava solo acclimatando? Drogato? Pensò a Jenny che lo implorava, che lo blandiva. Un carburante per la consapevolezza. In nome di Dio, cos'era che Santaroga aveva scoperto? Dasein fissò fuori della finestra il profilo delle colline che segnavano i confini della valle. Un fuoco in qualche punto al di sotto del suo campo visivo faceva innalzare delle volute di fumo al di sopra del crinale. Dasein fissò il fumo, avvertendo una strana sensazione di misticismo costrittivo, una sensazione profondamente primitiva a proposito di quel fuoco invisibile. Quel fuoco era vergato dalla firma di uno spirito, qualcosa di uscito dal suo passato genetico. Nessuna paura accompagnava quella sensazione. Invece era come se lui fosse stato riunito con una parte di se stesso tagliata fuori sin dall'infanzia. Spingere indietro la superficie dell'infanzia, pensò. Si rese conto allora che un santarogano non tagliava fuori il suo passato primitivo; lo rinchiudeva dentro una comprensione membranosa. Fino a che punto devo diventare un santarogano prima di tornare indietro? si chiese. Ho un dovere verso Selador e quelli che mi hanno assunto. Quando attuerò la mia fuga? Il pensiero di tornare all'esterno lo riempì d'una profonda ripugnanza. Ma doveva farlo. Provò un'intensa sensazione di nausea alla gola, un doloroso martellare alle tempie. Pensò all'irritante vuoto dell'esterno: macerie di vita a spizzichi, ego con toppe fasulle, un vuoto quasi del tutto privo di qualsiasi cosa che potesse elevare l'anima e
farla volare. La vita all'esterno non aveva nessuna sottostruttura, pensò, nessuna sequenza soggiacente che unisse insieme ogni cosa. C'era soltanto una strada bassa e scintillante lungo la quale spiccavano insegne sgargianti ed ipnotiche di divertimenti. E dietro agli sfavillii, soltanto la nuda struttura dei materiali di scena... e la desolazione. Non posso tornare indietro, pensò. Tornò al suo letto, vi si buttò sopra di traverso. Il mio dovere: devo tornare. Cosa mi sta succedendo? Ho aspettato troppo a lungo? Piaget gli aveva forse mentito sugli effetti dello Jaspers? Dasein si girò sulla schiena, si coprì gli occhi con un braccio. Qual era l'essenza chimica dello Jaspers? Là Selador non poteva essergli di nessun aiuto. Quella roba non era in grado di viaggiare. Lo sapevo, pensò Dasein. L'ho sempre saputo. Si scostò il braccio dagli occhi. Non c'era alcun dubbio su ciò che aveva fatto: aveva evitato la propria responsabilità. Dasein guardò le porte nella parete davanti a lui, la cucina, il laboratorio... Un sospiro gli gonfiò il petto. Sapeva che il formaggio sarebbe stato il vettore migliore. Tratteneva l'essenza dello Jaspers più a lungo. Il laboratorio... e un po' di formaggio. Dasein suonò il campanello al capezzale del letto. Fu sorpreso da una voce che usciva direttamente da dietro la sua testa: — Desidera subito un'infermiera? Dasein si voltò e vide la griglia di un altoparlante nella parete. — Vorrei... un po' di formaggio Jaspers — disse. — Oh... subito, signore. — C'era una delizia in quella voce femminile che nessuna riproduzione elettronica sarebbe stata in grado di nascondere. Poco dopo l'infermiera dai capelli rossi con l'impronta dei geni di Al Marden sul viso entrò nella stanza reggendo un vassoio, dopo aver aperto la porta con la spalla. Mise il vassoio sopra la pila dei giornali, sul comodino di Dasein. — Ecco qua, dottore — disse la donna. — Le ho portato anche un po' di crackers. — Grazie — rispose Dasein. Arrivata alla porta, l'infermiera si voltò e prima di uscire disse: — Jenny sarà deliziata quando lo saprà. — Jenny è sveglia? — Oh, sì. La maggior parte del suo problema era dovuto a una reazione
allergica all'aconito. Abbiamo purgato il suo sistema dal veleno, e adesso si sta riprendendo molto in fretta. Vuole alzarsi. È sempre un buon segno. — Come ha fatto il veleno ad arrivare al cibo? — s'informò Dasein. — Una delle apprendiste infermiere l'ha scambiato per un barattolo di MSG... ha... — Ma come ha fatto ad arrivare in cucina? — Non l'abbiamo ancora stabilito. Senza dubbio si è trattato di uno stupido incidente. — Senza dubbio — borbottò Dasein. — Bene, adesso mangi il suo formaggio e si riposi un po' — disse la donna. — Suoni pure se le serve qualcosa. La porta tornò a chiudersi rapidamente alle sue spalle. Dasein fissò il blocco dorato di formaggio. Il suo odore di Jaspers rumoreggiava nelle sue narici. Ruppe fra le dita un angolino del formaggio, se lo mise sulla lingua. I sensi di Dasein si ridestarono di colpo. Senza nessuna volontà cosciente, si portò il formaggio in bocca, lo inghiottì: un sapore liscio, tranquillizzante. Con un impeto improvviso la mente gli si illimpidì e la sensazione si diffuse in tutto il suo corpo. Qualunque cosa accada, pensò Dasein, il mondo deve scoprire l'esistenza di questa roba. Ruotò i piedi fuori dal letto, si alzò in piedi. Un dolore pulsante gli palpitava nella fronte. Chiuse gli occhi, sentì il mondo roteare tutt'intorno, si aggrappò al letto per recuperare l'equilibrio. La sensazione di vertigine passò. Dasein trovò un coltello da formaggio sul vassoio, tagliò una fetta di quel mattoncino dorato, fermò la mano che stava trasferendo il cibo dentro la bocca. È il corpo che lo fa, pensò. Sentì la forza di quell'esigenza fisica, si ripromise dell'altro formaggio... più tardi. Prima... il laboratorio. Era proprio come se l'era aspettato: spartano ma sufficiente. C'era una buona centrifuga, un microtomo, un microscopio binoculare con l'illuminazione controllata, un bruciatore di gas, file di provette: tutti gli strumenti e gli esoterismi del mestiere. Dasein trovò un contenitore d'acqua sterile, un altro di alcool, mise i pezzetti di formaggio nella miscela. Iniziò una coltura in flacone, ne prelevò un vetrino di controllo e lo esaminò sotto il microscopio. Una struttura legante simile a un filo gli balzò alla vista, all'interno del formaggio. Quando aumentò l'ingrandimento i fili si risolsero in spirali
dalla struttura allungata che assomigliavano a delle cellule la cui suddivisione normale fosse stata bloccata. Dasein si rizzò a sedere perplesso. Il disegno del filo assomigliava a spore d'un micelio fungoide. Ciò concordava con la sua prima supposizione: aveva a che fare con un tipo di fungo. Qual era l'agente attivo, però? Chiuse gli occhi per pensare, si rese conto che stava tremando per la fatica. Prenditela con calma, si disse. Non stai bene. Alcuni degli esperimenti richiedevano tempo per maturare, rifletté. Potevano aspettare. Tornò quindi a letto, si distese sulle coperte. La sua mano sinistra si allungò verso il formaggio, ne ruppe un pezzo. Dasein divenne conscio della propria azione mentre inghiottiva il formaggio. Fissò i frammenti sbriciolati che aveva sulle dita, li sfregò, ne sentì l'oleata levigatezza. Una deliziosa sensazione di benessere gli invase il corpo. È il corpo a farlo, pensò Dasein. Il corpo lo fa da solo. Avrebbe potuto il suo corpo andare fuori e uccidere un uomo? Molto probabile. Sentì il sonno serpeggiare attraverso la sua consapevolezza. Il corpo aveva bisogno di dormire. Il corpo avrebbe dovuto dormire. La mente, però, costruì un sogno: alberi che crescevano fino a raggiungere dimensioni gigantesche mentre lui li guardava. Balzavano alti con rapida vitalità. I loro rami spaziavano all'infuori, foliavano, fruttificavano. Tutto si crogiolava sotto un sole che aveva il colore del formaggio dorato. CAPITOLO DODICESIMO Il tramonto ardeva arancione a occidente quando Dasein si svegliò. Stava disteso con la testa rivoltata verso la finestra, lo sguardo sul cielo avvampante, la sua attenzione avvinta come da un incanto simile all'antica venerazione del sole. La nave della vita era diretta in basso verso il suo giornaliero riposo. Ben presto un'oscurità d'acciaio avrebbe rivendicato il dominio del suolo. Un clic echeggiò alle spalle di Dasein. Una luce artificiale inondò la stanza. Dasein si girò. L'incanto era rotto. Jenny era in piedi appena oltre la soglia. Indossava una lunga vestaglia verde che le arrivava fin alle caviglie. Un paio di pantofole verdi le coprivano i piedi.
— Era ora che ti svegliassi — disse. Dasein la fissò come se fosse un'estranea. Poteva vedere che era la stessa Jenny che amava, i lunghi capelli neri raccolti da un nastro rosso, le labbra carnose leggermente dischiuse, la fossetta visibile sulla sua guancia, ma un velo come di fumo si aggirava furtivo nei suoi occhi azzurri. Intorno a lei regnava la calma di una dea. Qualcosa che apparteneva perennemente al passato fece muovere il suo corpo quando Jenny avanzò nella stanza. Un brivido di paura trapassò Dasein da parte a parte. Era la paura che un contadino dell'Attica poteva provare davanti a una sacerdotessa di Delfo. Era bella... e micidiale. — Non mi chiedi come sto? — disse Jenny. — Posso vedere che stai bene — rispose Dasein. Le fece un altro passo verso di lui e aggiunse: — Clara ha portato la macchina di Jersey Hofstedder e l'ha lasciata giù per te. È al garage. Dasein ripensò a quella bellissima automobile sovraelaborata, un altro gingillo per attirarlo. — E tu cos'hai portato... stavolta? — le chiese. — Gil! — Non c'è cibo nelle tue mani — lui osservò. — Forse si tratta di uno spillone da capelli avvelenato? Le lacrime le inondarono gli occhi. — Stai lontano da me — disse lui. — Ti amo. Lei annuì. — Ti amo. E... avevo sentito quanto potevo essere pericolosa... per te. Ci sono stati... — Scosse la testa. — Sapevo che dovevo rimanere lontana da te. Ma non più. Non adesso. — Così è tutto finito — disse lui. — Mettiamoci una pietra sopra. Non faresti prima con una pistola? Lei picchiò un piede per terra. — Gil, sei impossibile! — Sono impossibile? — Sei cambiato? — bisbigliò lei. — Non senti nessun... — Ti amo ancora — disse lui. — Rimani lontana da me. Io ti amo. Lei si morse le labbra. — Non sarebbe più gentile farlo mentre sono addormentato? — chiese lui. — Senza farmi mai sapere chi... — Piantala! D'un tratto Jenny si strappò di dosso la vestaglia verde rivelando sotto una camicia da notte orlata di pizzo. Lasciò cadere la vestaglia, si sfilò la
camicia da notte da sopra la testa e la buttò sul pavimento, rimanendo là nuda e fissandolo con furore. — Visto? — disse. — Non c'è niente qui, soltanto una donna! Niente, soltanto una donna che ti ama. — Le lacrime le scorrevano giù dalle guance. — Non c'è veleno nelle mie mani... Oh, Gil... — Il suo nome le uscì dalle labbra come un gemito. Dasein si costrinse a distogliere lo sguardo da lei. Sapeva di non poterla guardare: adorabile, snella, desiderabile, mantenendo una qualsivoglia parvenza gelida di giudizio. Era bellissima e micidiale... l'esca suprema offerta da Santaroga. Udì un frusciare d'indumenti vicino alla porta. Dasein si girò di scatto. Jenny era di nuovo abbigliata con la vestaglia verde. Le sue guance erano scarlatte, le labbra le tremavano, gli occhi bassi. Lentamente sollevò lo sguardo e incontrò quello di lui. — Non provo nessuna vergogna nei tuoi confronti, Gil — gli disse. — Ti amo. Non voglio affatto che ci siano segreti tra noi, nessun segreto della carne... nessun segreto di alcun genere. Dasein si sforzò di deglutire, ma aveva un nodo in gola. La dea era vulnerabile. Era una scoperta che gli causava un dolore nel petto. — Provo anch'io la stessa cosa — le disse. — Jen... adesso farai meglio ad andartene. Se non lo farai... potrei afferrarti e violentarti. Lei cercò di sorridere, non ci riuscì, si girò di scatto e corse fuori della porta. La porte sbatté. Vi fu un momento di silenzio. La porta tornò ad aprirsi. Piaget comparve sulla soglia con lo sguardo rivolto dietro di sé, verso il piccolo atrio. Il rumore della porta dell'ascensore che si chiudeva arrivò con chiarezza fino agli orecchi di Dasein. Piaget entrò e chiuse la porta. — Cosa c'è stato fra voi due? — chiese. — Credo che abbiamo appena litigato e ci siamo riconciliati — disse Dasein. — Ma non ne sono sicuro. Piaget si schiarì la gola. C'era un'espressione fiduciosa nel suo volto rotondo, pensò Dasein. Comunque non era un giudizio del quale potesse essere sicuro in quel terreno inesplorato della concentrazione. In ogni caso, quell'espressione era subito scomparsa, sostituita da un paio di occhi spalancati e da uno sguardo carico d'interesse per Dasein. — Sembra che lei abbia fatto assai presto a rimettersi — dichiarò Piaget. — Il suo viso ha un colore migliore. Si sente più forte?
— A dire il vero, sono più forte. Piaget diede un'occhiata ai resti del formaggio sul comodino, si avvicinò e li annusò. — Un po' rancido — osservò. — Ne farò mandare un blocco fresco. — Lo faccia — disse Dasein. — Le spiace se do un'occhiata alle sue fasciature? — chiese Piaget. — Pensavo che avremmo lasciato che fosse Burdeaux a occuparsi delle mie fasciature. — Win ha avuto una piccola emergenza a casa. Sua figlia si sposa domani, sa. Verrà più tardi. — Non lo sapevo. — Stiamo giusto terminando proprio in tempo di costruire la casa della nuova coppia — disse Piaget. — C'è stato un po' di ritardo, siccome avevamo deciso di costruirne quattro tutte insieme nella stessa area. Un bel posto. A lei e a Jenny potrebbe piacere una di quelle case. — È carino da parte vostra — commentò Dasein. — Lavorate tutti insieme per costruire una casa ai nuovi sposi. — Ci prendiamo cura dei nostri — ribadì Piaget. — Diamo un'occhiata a queste fasciature, che ne dice? — Facciamolo. — Mi fa piacere constatare che è diventato più ragionevole — disse Piaget. — Torno subito. — Entrò nella porta del laboratorio e tornò un paio d'istanti dopo con un carrello pieno di tutto il necessario, fermò il carrello accanto al letto di Dasein e cominciò a tagliargli via le fasciature della testa. — Vedo che si è arrabattato in laboratorio — constatò Piaget. Dasein sussultò quando l'aria entrò in contatto con la bruciatura sulla guancia. — È questo che ho fatto, mi sono arrabattato? — Cos'è che ha fatto? — chiese Piaget. Si curvò, esaminò la guancia di Dasein. — Questo sta venendo fuori benissimo. Non lascerà neppure una cicatrice, credo. — Sto cercando l'agente attivo dello Jaspers — l'informò Dasein. — Sono stati fatti parecchi tentativi in quel campo — dichiarò Piaget. — Il guaio è che abbiamo sempre troppo da fare con dei problemi più immediati. — Ci ha provato? — chiese Dasein. — Quand'ero più giovane. Dasein aspettò che la fasciatura alla testa fosse completata prima di
chiedere: — Ha degli appunti, un riassunto... — Nessun appunto. Non ne ho mai avuto il tempo. Piaget cominciò a lavorare al braccio destro di Dasein. — Ma cos'ha scoperto? — Ho ottenuto una brodaglia ricca di amminoacidi — spiegò Piaget. — Come un lievito. Le resterà una cicatrice su questo braccio. Niente di allarmante, e si sta rimarginando in fretta. Può ringraziare lo Jaspers. — Cosa? — Dasein sollevò lo sguardo su di lui. Era perplesso. — La natura dà, la natura toglie. I cambiamenti che lo Jaspers causa nella chimica del corpo lo rende più suscettibile alle reazioni allergeniche, ma il suo corpo si rimarginerà con una velocità dalle cinque alle dieci volte maggiore di quanto farebbe all'esterno. Dasein abbassò lo sguardo sul proprio braccio esposto. Una nuova pelle rosea già ricopriva l'area ustionata. Poteva vedere l'increspatura della cicatrice che Piaget aveva notato. — Quale cambiamento nella chimica del corpo? — chiese Dasein. — Be', di solito un miglior equilibrio ormonale — spiegò Piaget. — Più prossimo a quello che si trova in un embrione. — Questo non quadra con la reazione allergica — protestò Dasein. — Non sto dicendo che sia una cosa semplice — disse Piaget. — Tenga il braccio così. Fermo, adesso. Dasein aspettò che anche questa fasciatura venisse completata, poi: — Che mi dice della struttura che... — Qualcosa fra un virus e un batterio — disse Piaget. — Fungoide sotto certi aspetti, ma... — Ho visto una struttura cellulare in un campione sotto il microscopio. — Sì, ma niente nuclei. Del materiale nucleare, certo, ma può venir indotto a formare dei cristalli virali. — I cristalli creano l'effetto Jaspers? — No, possono però venir introdotti nell'ambiente adatto e dopo uno sviluppo adeguato produrranno gli effetti desiderati. — Quale ambiente? — Lei sa quale ambiente, Gilbert. — La caverna della Cooperativa? — Sì. — Piaget terminò di esaminare il braccio sinistro di Dasein. — Non credo che le rimarrà altrettanto tessuto cicatriziale su questo lato. — Cos'ha di tanto unico l'ambiente della caverna? — chiese Dasein. — Non ne siamo sicuri.
— Qualcuno ha mai cercato di... — Abbiamo un mucchio di problemi immediati anche per conservare la nostra esistenza, Gilbert — l'interruppe Piaget. Dasein abbassò lo sguardo, osservò Piaget che terminava di fasciargli il braccio sinistro. Conservare la loro stessa esistenza? si chiese. — Avreste qualcosa da obiettare se volessi darci un'occhiata? — chiese Dasein. — Certo che no, quando troverà il tempo. — Piaget rimise gli strumenti e tutto il resto sopra il carrello e lo spinse da parte. — Ecco, penso che domani potremo già togliere le fasciature. Sta progredendo benissimo. — Davvero? Piaget gli sorrise. — L'assicurazione del garage si occuperà di pagare la sua nuova automobile — aggiunse. — Presumo che Jenny le abbia parlato della macchina. — Me l'ha detto. — Stiamo anche sostituendo i suoi vestiti. C'è qualcos'altro? — Che ne direbbe di sostituire la mia libertà di scelta? — Lei ha la libertà di scelta, Gilbert, e un'area molto più ampia nella quale scegliere. Adesso ho alcune... — Si tenga i suoi consigli — ribatté Dasein. — Consigli? Stavo per dirle che ho delle informazioni piuttosto interessanti per lei. Il suo suggerimento che indagassi sulla gente che lei accusa di aver tentato di ucciderla ha dato dei... — Il mio suggerimento che lei indagasse? — Mi sono preso la libertà di mandare avanti il suo suggerimento. — Così, lei ne ha ipnotizzato qualcuno — commentò Dasein. — Ha preparato un grafico Davis delle loro suscet... — Non li ho ipnotizzati — sbottò Piaget. — Vuole star zitto e ascoltare? Dasein sospirò, si lasciò andare all'indietro e si mise a guardare il soffitto. — Ho intervistato parecchie di queste persone — proseguì Piaget. — Il ragazzo, Petey Jorick, primo perché rappresenta una mia preoccupazione primaria, poiché è stato appena rilasciato dalla... scuola. È emerso un fatto di estremo interesse. — Oh? — Ognuna di queste persone ha una forte ragione inconscia per temere e odiare l'esterno. — Cosa? — Dasein rivolse un'occhiata carica di perplessità a Piaget.
— Non attaccavano lei come Gilbert Dasein — spiegò Piaget. — Lei era l'estraneo. C'è un forte e irrisolto... — Lei vuol dire che considera questo valido e sufficiente... — Le ragioni sono inconsce, proprio come lei sospettava — dichiarò Piaget. — La struttura delle motivazioni, però... — Così, Jenny mi ama e mi odia allo stesso tempo... come un estraneo? — Chiariamo subito una cosa, Gilbert. Jenny non ha tentato di farle del male. È stata un'apprendista infermiera a... — Ma Jenny mi ha detto che è stata lei stessa a preparare... — Questo è vero soltanto in senso ampio — preciso Piaget. — Jenny è andata nella cucina delle diete e ha ordinato il suo cibo, e ha sorvegliato la sua preparazione. Però, non poteva tenere un occhio su ogni... — E questo... questo odio verso gli estranei — disse Dasein, — pensa che sia per questo che qualcuno dei vostri ha cercato di farmi fuori? — È indicato con chiarezza, Gilbert. Dasein lo fissò. Piaget ci credeva, su questo non c'era alcun dubbio. — Perciò, mentre mi trovo a Santaroga, basterà che io stia attento a quelli che odiano gli estranei? — domandò Dasein. — Adesso lei non ha proprio nulla da temere — dichiarò Piaget. — Lei non è più un estraneo. È uno di noi. E quando lei e Jenny vi sposerete... — Fra tutte le sciocchezze che ho sentito — l'interruppe Dasein, — a questa vanno davvero tutti gli onori! Quel... quel ragazzino, Petey, voleva trapassarmi con una freccia perché... — Petey ha un timore patologico di lasciare la valle per l'università che si trova all'esterno — disse Piaget. — Lo vincerà, certo, ma le emozioni dell'infanzia hanno più... — La polvere antiscarafaggi nel caffè — proseguì Dasein, — era soltanto... — Quello è un caso molto sfortunato — riprese Piaget. — La ragazza si era innamorata di un estraneo quand'era fuori all'università, all'identico modo di Jenny, posso aggiungere. La differenza è che il suo amico la sedusse e l'abbandonò. Ha una figlia che... — Mio Dio! Ma lei crede davvero a queste baggianate — esclamò Dasein. Si spinse contro la testiera del letto e rimase là seduto a fissare Piaget con occhi furenti. — Gilbert, trovo assai più facile credere a questo che alla sua pazzesca teoria secondo la quale Santaroga avrebbe avviato un attacco concertato contro di lei. Dopotutto, lei stesso dovrà vedere che...
— Sicuro — ribatté Dasein. — Voglio che lei mi spieghi l'incidente sul ponte. Voglio vedere come... — Quello è il più facile di tutti — disse Piaget. — Il giovanotto in questione era innamorato di Jenny prima che lei comparisse sulla scena. — Così, ha aspettato proprio il momento quando... — È stato del tutto a livello inconscio, questo glielo posso assicurare, Gilbert. Dasein si limitò a fissarlo. La struttura razionalizzante che Piaget aveva costruito assumeva per lui la conformazione di un albero. Era come l'albero dei suoi sogni. C'era un robusto tronco che sporgeva alla luce del giorno: la consapevolezza. Ma le radici erano là sotto che crescevano nel buio. I rami uscivano fuori e penzolavano graziosamente mostrando le foglie e i frutti. Era una struttura in sé coerente, malgrado la sua falsità. Dasein vide che non ci sarebbe stato modo di abbatterlo. La cosa era troppo intrinseca, sostanziale. Ce n'erano troppi, come quello, nella foresta che era Santaroga. Questo è un albero, visto? Non assomiglia a tutti gli altri? — Credo che quando avrà avuto modo di riflettere — riprese Piaget, — arriverà a rendersi conto della verità di ciò che... — Oh, nessun dubbio — disse Dasein. — Io, uhm... le manderò un altro po' di formaggio fresco — disse ancora Piaget. — Quello dello stock speciale. — Lo faccia — annuì Dasein. — Capisco benissimo — proseguì Piaget. — Lei ritiene di essere molto cinico e saggio in questo momento. Ma cambierà idea. — Uscì a grandi passi dalla stanza. Dasein continuò a fissare la porta aperta per molto tempo dopo che Piaget se n'era andato. Quell'uomo non era in grado di vederlo, non sarebbe mai stato in grado di vederlo. Nessun santarogano poteva farlo. Neppure Jenny, malgrado la sua consapevolezza acuita dall'amore. La spiegazione di Piaget era troppo facile da accettarsi. Sarebbe stata la linea ufficiale. Devo uscire da questa pazza valle, pensò Dasein. Scivolò fuori dal letto proprio mentre la porta si apriva e una giovane apprendista infermiera grassoccia e senza berretto entrava con un vassoio. — Oh, è uscito dal letto — disse la ragazza. — Bene. Tolse l'altro vassoio dal comodino, mise quello nuovo al suo posto, appoggiò il primo vassoio su una sedia. — Le rifaccio il letto mentre è fuori — disse la giovane.
Dasein rimase su un lato della stanza mentre la ragazza si dava da fare intorno al letto. Poco dopo, la giovane se ne andò, portando con sé il primo vassoio. Dasein guardò quello che la ragazza aveva portato: una fetta dorata di formaggio, cracker, un bicchiere e una bottiglia di birra Jaspers. Con un impeto di rabbia Dasein scagliò il formaggio contro la parete. Se ne stava là fissando il pasticcio che aveva combinato quando una sensazione tranquillizzante sulla sua lingua gli fece constatare che si stava leccando le briciole di formaggio sulle dita. Dasein fissò la propria mano come se appartenesse a un'altra persona. Si costrinse, coscientemente, a non chinarsi per raccogliere il formaggio dal pavimento e si voltò verso la birra. C'era un apribottiglia, sul vassoio. L'aprì, versò la birra nel bicchiere, bevendola poi a rapide sorsate. Solo quando il bicchiere fu vuoto si rese conto del ricco bouquet di Jaspers nelle ultime gocce di birra rimaste. Reprimendo un tremito convulso, Dasein appoggiò il bicchiere sul comodino e scivolò dentro al letto come per cercarvi asilo. Il suo corpo si rifiutava di venir privato. Non era la gente a prendere lo Jaspers, pensò. Era lo Jaspers che prendeva la gente. Sentì l'effetto espandersi nella sua coscienza. Sentì il rimbombare di un esercito nel paesaggio interiore della sua psiche. Il tempo perse il suo flusso normale, si fece compresso ed esplosivo. Da qualche parte in una stanza d'ospedale echeggiò un deciso rumore di passi. I contatti di un interruttore si staccarono dai loro alloggiamenti per creare il buio. Una porta si chiuse. Dasein aprì gli occhi su una finestra e la luce delle stelle. Alla luce delle stelle vide una fetta di formaggio fresco sul comodino. La parete e il pavimento erano stati puliti. Ricordò la voce di Jenny: morbida, musicale... che s'increspava come l'acqua scura sulle rocce, scossa da un tremito supplichevole. Jenny era stata lì con lui, nel buio? Non percepì nessuna risposta. Dasein cercò a tentoni il pulsante del campanello sulla testiera del letto, lo schiacciò. Una voce risuonò dall'altoparlante: — Vuole un'infermiera? — Che ore sono? — chiese Dasein. — Le tre e ventiquattro. Vuole un sonnifero? — No... grazie.
Dasein si rizzò a sedere, fece scivolare i piedi sul pavimento, fissò il formaggio. — Voleva soltanto l'ora? — gli chiese il suo interlocutore. — Quanto pesa una forma completa di formaggio Jaspers? — chiese Dasein. — Il peso? — Vi fu una pausa, poi: — Variano. Quelle più piccole pesano all'incirca una quindicina di chili. Perché? — Mi mandi su una forma completa — disse Dasein. — Completa... Non ha già del formaggio, adesso? — La voglio per delle prove di laboratorio — replicò, e pensò: Ecco! Vediamo se Piaget è stato onesto con me. — La vuole per quando si alzerà domattina? — Sono alzato adesso. E mi procuri una vestaglia e delle pantofole, se può. — Non farebbe meglio ad aspettare, dottore? Se... — Controlli con Piaget, se deve proprio farlo — disse Dasein. — Voglio quella forma adesso. — Molto bene. — La donna parve disapprovare. Dasein aspettò seduto sull'orlo del letto. Guardò la notte fuori della finestra. Con un movimento distratto ruppe un pezzo del formaggio sul comodino, lo masticò e l'inghiottì. Poco dopo una striscia di luce comparve sotto la porta che dava sull'esterno. Un'infermiera alta, dai capelli grigi, entrò, accese le luci della stanza. Trasportava una grossa forma di formaggio dorato ancora luccicante nel suo sigillo di cera. — Questi sono diciotto chilogrammi di formaggio Jaspers di prima qualità — dichiarò. — Dove devo metterlo? — Le sue parole trasudavano d'indignazione e di protesta. — Trovi un posto su uno dei banchi del laboratorio — le disse Dasein. — Dove sono la vestaglia e le pantofole? — Se ha pazienza ora vado a prendergliele — rispose la donna. Aprì la porta del laboratorio con la spalla, tornò dopo un momento e si avvicinò ad una stretta porta all'estremità della stanza, l'aprì rivelando un armadio a muro. Tolse dall'armadio una vestaglia verde e un paio di pantofole nere che lasciò cadere ai piedi del letto di Dasein. — È tutto, signore? — Tutto, per adesso. — Ummmp. — La donna uscì dalla stanza a grandi passi, chiudendo la
porta esterna con un tonfo a mo' di commento. Dasein prese un altro boccone di formaggio dal comodino, s'infilò la vestaglia e le pantofole e andò nel laboratorio. L'infermiera aveva lasciato accese le luci. La grossa forma di formaggio giaceva sopra un banco metallico a!!a sua destra. L'alcool non può ucciderlo, pensò. Altrimenti non verrebbe incorporato nella birra locale. Cosa lo distrugge? La luce del sole? Ricordò la fioca luce all'interno della caverna della Cooperativa. Be', c'erano modi per scoprirlo. Rimboccò le maniche della vestaglia e si mise al lavoro. Nel giro di un'ora aveva ridotto i tre quarti della forma ad una soluzione lattea in una damigiana per acidi, e si mise a far passare un campione dopo l'altro alla centrifuga. Le prime provette vennero fuori con il contenuto disposto a strati in un modo che gli ricordò il cromatografo. Vicino alla cima c'era una sottile striscia di sostanza grigio-argentea. Dasein versò fuori il liquido, fece fondere il fondo di una provetta e rimosse i solidi intatti attraverso il foro che aveva praticato. Mise un po' della sostanza grigia su un vetrino e l'esaminò al microscopio. C'era la struttura d'un micelio, distorta ma riconoscibile. Annusò il vetrino. Odorava di Jaspers. Mise mano al controllo dell'illuminazione del microscopio, osservò il campione mentre faceva ruotare la manopola di controllo. D'un tratto il campione cominciò a raggrinzirsi e a cristallizzarsi sotto i suoi occhi. Dasein esaminò il controllo della luce. Era del tipo del filtro di banda, e in quel momento faceva passare la luce fra i 4000 e i 5800 Angstrom. Dasein notò che tagliava fuori l'estremità rossa dello spettro. Un'altra occhiata attraverso il microscopio gli mostrò il campione ridotto a una massa bianca e cristallina. La luce del sole, dunque. Cosa avrebbe potuto fare il lavoro? si chiese. Una bomba per scoperchiare la caverna? Una lampada solare portatile? Mentre rifletteva su questo, Dasein sentì che l'oscurità fuori dell'ospedale si dischiudeva per rivelare una forma, un mostro che si levava fuori da un lago nero. Rabbrividì. Si voltò verso la damigiana piena di soluzione lattea. Lavorando meccanicamente fece passare il resto della soluzione attraverso la centrifuga, separò la fascia grigio-argentea, raccolse il materiale in una
bottiglia marrone-scura. La soluzione produsse quasi mezzo litro di essenza Jaspers. Dasein annusò la bottiglia: aveva un odore ben definito e pungente di Jaspers. Dasein vuotò la bottiglia dentro un piatto basso, raccolse un po' della sostanza con una spatola, se la mise sulla punta della lingua. Un'elettrizzante sensazione di lontani fuochi d'artificio esplose dalle sue papille gustative attraverso la spina dorsale. Sentì di poter vedere con la punta della lingua o con la punta di un dito. Percepì il nucleo della sua consapevolezza trasformarsi in un nocciolo d'acciaio circondato dalla desolazione. Concentrò la sua energia, si costrinse a guardare il piatto di essenza Jaspers. Vuoto! Cosa l'aveva distrutta? Come poteva essere vuoto? Fissò il palmo della sua mano destra. Com'era vicino al suo viso! C'erano particelle grigio-argentee sulla sua pelle rosa. Pulsazioni brucianti di consapevolezza cominciarono a emanare dalla sua gola e dal suo stomaco, percorrergli le braccia e le gambe. Gli parve che tutta la sua pelle si animasse. Avvertì la remota sensazione di un corpo che scivolava sul pavimento, ma sentì che il pavimento ardeva tutte le volte che il corpo lo toccava. Ho mangiato l'intero piatto di essenza, pensò. Che effetto gli avrebbe fatto l'agente attivo estratto da più di quindici chili di Jaspers? Cosa avrebbe fatto... cosa stava facendo? Dasein sentì che questa era una domanda più interessante. Cosa stava facendo? Mentre si poneva la domanda provò una sensazione di perdere la sua padronanza della realtà. Il nocciolo d'acciaio dell'io! Dov'era? Su quale fondamenta di realtà sedeva il suo io? Con frenesia Dasein cercò di estendere la sua consapevolezza, provò la diretta sensazione di proiettare la propria realtà sull'universo. Ma c'era anche una proiezione simultanea dell'universo. Seguì le linee di questa proiezione, le sentì saettare dentro di sé come attraverso un'ombra. In quell'istante si sentì perduto, rotolò via. Ero soltanto un'ombra, pensò. Il pensiero lo affascinò. Ricordò il gioco delle ombre della sua infanzia, si chiese che forma di ombre avrebbe potuto proiettare distorcendo il nocciolo dell'io. Quell'interrogarsi produsse un effetto di forme. Dasein perce-
pì uno schermo di consapevolezza, un contorno informe su di lui. Impose alla forma di cambiare. Prese la forma di un eroe che si picchiava il petto. Dasein cambiò. L'ombra divenne uno scienziato miope, dalle spalle curve, con un lungo camice. Un altro cambiamento ancora: questa volta fu un Apollo nudo che correva sopra un paesaggio di forme femminili. E ancora: un bracciante curvo sotto una massa informe. Con una sorta di spasimo in gola, una sensazione di deitgrasp, Dasein si rese conto che stava proiettando i soli limiti che il suo essere finito era in grado di conoscere. Fu un atto di autoscoperta che fece nascere in lui una sensazione di speranza. Era una strana forma di speranza, non fissa, disorientata, ma definita nella sua esistenza: non una speranza di discernimento, ma una speranza pura, senza confini, direzione o affetti. La speranza stessa. Fu un istante d'inimitabile profondità che gli permise di afferrare per un istante fugace la struttura della sua esistenza, le sue possibilità in quanto essere. Un qualcosa di contorto, frastagliato, alterato, attraversò il campo di consapevolezza di Dasein. Riconobbe il nocciolo dell'io. La cosa aveva perso tutta la sua forma utile. La scartò, ridacchiando. Chi l'ha scartata? si chiese Dasein. Chi ridacchia? Udì un suono rimbombante: un rumore di piedi sul pavimento. Delle voci. Riconobbe il timbro di voce dell'infermiera dai capelli grigi, ma c'era una vibrazione di panico nei suoni che produsse. Piaget. — Portiamolo a letto — disse Piaget. Le parole erano chiare e distinte. Invece non era distinta la forma di un universo ora confuso dagli arcobaleni, né la pressione di mani che oscuravano la sensazione ardente della sua pelle. — È difficile diventare consapevoli della consapevolezza — borbottò Dasein. — Ha detto qualcosa? — Era stata l'infermiera a parlare. — Non sono riuscito a capire. — Piaget. — Ha sentito l'odore di Jaspers che c'è qua dentro? — L'infermiera. — Credo che abbia separato un concentrato di essenza e l'abbia inghiot-
tito. — Oh, mio Dio! Cosa possiamo fare? — Aspetti e preghi. Mi porti una camicia di forza e un carrello di emergenza. Una camicia di forza? si chiese Dasein. Che strana richiesta. Sentì un rumore di passi in corsa. Quanto rimbombavano! Una porta sbatté. Altre voci. Un tale correre affannoso tutt'intorno! Sentì la propria pelle come se stesse diventando buia. Ogni cosa veniva oscurata. Con un'improvvisa sensazione sussultante, Dasein si sentì rimpicciolire fino a diventare una forma infantile che scalciava, strillava, si allungava verso l'esterno, ancor più all'esterno, le dita annaspanti. — Datemi una mano! — Questo era Piaget. — Che disastro! — Un'altra voce maschile. Ma Dasein già si sentiva diventare una bocca, soltanto una bocca. Soffiava, soffiava e soffiava: un tale vento! Certamente il mondo intero avrebbe finito per crollare sotto quell'uragano. Era una tavola che dondolava... un'altalena. Su e giù. Giù e su... Una buona corsa è meglio di una brutta sosta, pensò. E lui stava correndo, e correndo, senza più fiato, ansando. Una panchina si profilò in mezzo alle nubi turbinanti. Si buttò su di essa, divenne la panchina, un'altra tavola. Questa precipitò giù, sempre più dentro un ribollente mare verde. La vita in un mare di consapevolezza, pensò Dasein. Si fece sempre più buio, più buio. La morte, pensò. Ecco lo sfondo contro il quale posso conoscere me stesso. Il buio si dissolse. Lui stava schizzando verso l'alto, rimbalzando in mezzo a un bagliore accecante. Delle forme scure si stavano muovendo in mezzo a tutto quel bagliore. — I suoi occhi si sono aperti. — Era stata l'infermiera a parlare. Un'ombra ridusse l'intensità del bagliore. — Gilbert? — Quello era Piaget. — Gilbert, riesce a sentirmi? Quanto Jaspers ha preso? Dasein si sforzò di rispondere. Le sue labbra si rifiutavano di obbedire. Il bagliore tornò. — Dovremo tirare a indovinare. — Era ancora Piaget. — Quanto pesava quel formaggio? — Diciotto chili. — L'infermiera.
— Il crollo fisico è massiccio. — Piaget. — Tenete pronto un respiratore. — Dottore, e se... — A quanto pareva, l'infermiera non era stata in grado di completare la sua domanda terrorizzata. — Sono... pronto. — Piaget. Pronto a fare che cosa? si chiese Dasein. Scoprì che, concentrandosi, riusciva a far diminuire il bagliore. Questo si risolse, per un fugace istante, in una prospettiva chiara e lucida, con Piaget all'estremità più lontana. Dasein giaceva là, impotente, con lo sguardo fisso, incapace di muoversi, mentre Piaget avanzava su di lui portando una damigiana esalante fumi e vapori. Acido, fu il silenzioso pensiero di Dasein, che interpretava le parole dell'infermiera. — Se io dovessi morire, dissolveranno il mio corpo e lo elimineranno attraverso lo scarico di un lavandino. Nessun cadavere, nessuna prova. La prospettiva crollò. La sensazione del bagliore si dilatò irresistibilmente, poi parve contrarsi. Forse, non posso più essere, pensò Dasein. Si fece più buio. Forse non posso farlo, pensò. Ancora più buio. Forse non posso avere, pensò. Niente. CAPITOLO TREDICESIMO — O uccidere o curare — disse il dio giallo. — Io me ne lavo le mani — disse il dio bianco. — Quello che ti ho offerto, non l'hai accettato — l'accusò il dio rosso. — Mi fai ridere — disse il dio nero. — Non c'è nessun albero che sia te — disse il dio verde. — Adesso ce ne andremo e soltanto uno di noi ritornerà — dissero in coro gli dèi. Si udì qualcuno che si schiariva la gola. — Perché non avete una faccia? — domandò Dasein. — Avete colore, ma non facce. — Cosa? — Era stata una voce vibrante, tonante, a parlare. — Per essere un dio hai una voce molto strana — disse Dasein. Aprì gli
occhi e sollevò lo sguardo sui lineamenti di Burdeaux. Sorprese un'espressione perplessa e accigliata sul suo volto scuro. — Non sono affatto un dio, di nessun tipo — dichiarò Burdeaux. — Cosa sta dicendo, dottor Gil? Forse ha un altro incubo? Dasein ammiccò più volte, cercò di muovere le braccia. Non successe niente. Sollevò la testa, abbassò lo sguardo sul proprio corpo. Era robustamente stretto in una camicia di forza. In quella stanza c'era un gran puzzo di disinfettanti, di Jaspers e di qualcosa di acido e ripugnante. Si guardò intorno. Si trovava ancora nell'appartamento d'isolamento. La testa gli ricadde sul cuscino. — Perché sono legato in questo modo? — bisbigliò Dasein. — Cos'ha detto, signore? Dasein ripeté la domanda. — Insomma, dottor Gil... non volevamo che lei si facesse male. — Quando... quando posso venir liberato? — Il dottor Larry ha detto di liberarla non appena lei si fosse svegliato. — Sono... sveglio. — Lo so, signore. Era soltanto che... — Scrollò le spalle e cominciò a sciogliere i legacci sulle maniche della camicia di forza. — Per quanto tempo — bisbigliò ancora Dasein. — Per quanto tempo è rimasto così? Dasein annuì. — Tre giorni interi, ormai, e un po' di più. È quasi mezzogiorno. I legacci vennero sciolti. Burdeaux aiutò Dasein a mettersi seduto, gli sciolse i lacci sulla schiena e gli sfilò la camicia di forza. Dasein si sentì la schiena escoriata e sensibile. I suoi muscoli reagivano come se appartenessero a un estraneo. Questo era un corpo del tutto nuovo, pensò Dasein. Burdeaux arrivò con un bianco camice d'ospedale, lo infilò a Dasein, glielo allacciò dietro la schiena. — Vuole che l'infermiera venga a sfregarle la schiena? — chiese Burdeaux. — Ci sono un paio di punti che hanno proprio un brutto aspetto. — No... no, grazie. Dasein mosse una delle braccia dell'estraneo. Una mano familiare si sollevò davanti al suo viso. Era la sua mano. Ma come poteva essere la sua mano, si chiese, dal momento che i muscoli del braccio appartenevano a un estraneo? — Il dottor Larry ha detto che mai nessuno prima d'ora aveva preso tan-
to Jaspers — dichiarò Burdeaux. — Lo Jaspers è una buona cosa, signore, ma tutti sanno che il troppo stroppia. — Jenny... sta... — Sta bene, dottor Gil. Era preoccupata da matti per lei. Tutti lo siamo stati. Dasein mosse una delle gambe dell'estraneo, poi l'altra, fino a quando non penzolarono fuori dall'orlo del letto. Abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia. Trovò la cosa molto strana. — Su, adesso — lo sollecitò Burdeaux. — È meglio che lei rimanga a letto. — Io... io ho... — Vuole andare in bagno? Meglio che le porti la padella. — No... io... — Dasein scosse la testa. D'un tratto, si rese conto di cos'era che non andava. Il suo corpo aveva fame. — Fame — disse. — Oh, e perché mai non l'ha detto? Abbiamo del cibo, proprio qui, bell'e pronto. Burdeaux sollevò una scodella e la tenne davanti a Dasein. Il ricco aroma dello Jaspers lo avviluppò. Dasein allungò la mano verso la scodella, ma Burdeaux disse: — È meglio lasciare che sia io a darle da mangiare, dottor Gil. Lei non mi sembra molto saldo sui suoi muscoli. Dasein rimase seduto, paziente, lasciandosi imboccare. Poteva sentire le forze che si andavano accumulando nel suo corpo. Decise che quel corpo gli andava male. Aveva rivestito la sua psiche in maniera troppo maldestra. Gli venne in mente di chiedersi cosa mangiasse il suo corpo, oltre allo Jaspers che lo circondava e lo invadeva con la sua presenza. Farina d'avena, gli disse la lingua. Miele Jaspers e panna Jaspers. — C'è un visitatore in attesa per lei — gli annunciò Burdeaux non appena la scodella fu vuota. — Jenny? — No... un certo dottor Selador. Selador! Quel nome esplose nella consapevolezza di Dasein. Selador si era fidato di lui, si era affidato a lui. Selador gli aveva mandato la pistola per posta. — Si sente abbastanza in forma per vederlo? — gli chiese Burdeaux. — Non... le importa se lo incontro? — disse Dasein. — Importarmi? E perché mai dovrebbe importarmi, signore? Burdeaux, non sei tu il lei che intendo, pensò Dasein.
Allora, sentì sorgere dentro di sé l'impulso di mandar via Selador. Sarebbe stata una cosa così facile da fare... Santaroga lo avrebbe isolato da tutti i Selador del mondo. Non ci sarebbe voluto altro che una semplice richiesta rivolta a Burdeaux. — Lo... uhm... lo vedrò — disse Dasein. Lanciò un'occhiata intorno a sé. — Può aiutarmi a indossare una vestaglia... e c'è una sedia dove possa... — Perché non posso metterla su una sedia a rotelle, signore? Il dottor Larry ne ha fatta mandare su una quando lei si è svegliato. Non voleva che lei si sforzasse. Non deve stancarsi, capito? — Sì... sì, capisco. Una sedia a rotelle. Poco dopo, il corpo malandato di Dasein si trovava sulla sedia a rotelle. Burdeaux era uscito per andare a prendere Selador, lasciando la sedia all'estremità opposta della stanza rispetto alla porta che dava sull'esterno. Dasein si trovò davanti a un paio di porte-finestre che davano su un solarium. Sentiva di essere stato lasciato solo in maniera brutale, in una posizione esposta, con l'anima denudata, angosciato dalla paura. Si sentiva oppresso da qualcosa di pesante, pensò. Provava imbarazzo alla prospettiva d'incontrare Selador, e un tipo di paura tutta speciale. Selador vedeva attraverso le finzioni e gli inganni. Non era possibile ostentare una maschera davanti a Selador. Era lo psicanalista degli psicanalisti. Selador mi umilierà, pensò Dasein. Perché mai ho acconsentito ad incontrarlo? Mi pungolerà ed io reagirò. La mia reazione gli dirà tutto ciò che vuole sapere su di me... sul mio fallimento. Allora Dasein sentì che il suo equilibrio mentale era stato corroso fino a diventare un guscio crivellato, niente di più consistente d'una pura apparenza... o fantasia. Selador l'avrebbe calpestato con l'aspra, scrollante dinamica della sua vitalità. La porta esterna si aprì. Lentamente, costringendosi a farlo, Dasein girò la testa verso la porta. Selador era lì, sulla soglia, alto, con i lineamenti da falco, la pelle scura e la forza selvaggia nell'India racchiusi in un abito di tweed grigio-argento, e un tocco dell'identico argento alle tempie. Dasein provò l'improvvisa, confusa sensazione di aver visto quella faccia in un'altra vita, quegli occhi simili a bisturi che lo fissavano da sotto un turbante. Era stato un turbante con incastonato un gioiello rosso. Dasein scosse la testa. Follia. — Gilbert — disse Selador, attraversando a grandi passi la stanza, — in nome del cielo cosa s'è fatto, adesso? — Il preciso accento di Oxford mar-
tellò ogni singola parola negli orecchi di Dasein. — Mi hanno detto che è rimasto gravemente ustionato. E così comincia, pensò Dasein. — Io... le braccia e le mani — disse Dasein. — E un po' il viso. — Sono arrivato soltanto stamattina — riprese Selador. — Eravamo molto preoccupati per lei, sa. Da giorni non avevamo più nessuna notizia. Si fermò davanti a Dasein, occludendo parte della visuale del solarium. — Devo dire che ha un aspetto orribile, Gilbert. Però non sembrano esserci cicatrici sul suo viso. Dasein si portò una mano alla guancia. D'un tratto, era la «sua» guancia. Non più quella di un estraneo. Si sentì la pelle liscia, nuova. — C'è un dannatissimo odore di muffa in questo posto — osservò Selador. — Le spiace se apro queste porte? — No... faccia pure. Dasein si trovò a combattere contro la sensazione che Selador non fosse Selador. C'era una superficialità nel modo di parlare di quell'uomo, nei suoi manierismi, che stonavano con il Selador che lui ricordava. Selador era forse cambiato, in qualche maniera? — Bellissima giornata — disse Selador. — Che ne direbbe se la portassi fuori su questo solarium a prendere un po' d'aria? Le farebbe bene. Dasein si sentì afferrare la gola dal panico. Da quel solarium s'irradiava una minaccia. Cercò di parlare, di sollevare obiezioni. Lui non poteva uscire là fuori... Non una parola gli uscì di bocca. Selador interpretò il suo silenzio per consenso, spinse la sedia a rotelle di Dasein fuori della porta. Vi fu un leggero sobbalzo in corrispondenza della soglia, e poi si trovarono fuori. La luce del sole riscaldò la testa di Dasein. Una brezza quasi priva di Jaspers gli lambì la pelle, gli schiarì la testa. Disse: — Non... — Quest'aria non la rinvigorisce? — gli chiese Selador. Si fermò accanto al basso parapetto, l'orlo della terrazza. — Ecco, lei può ammirare il panorama ed io posso sedermi qui, sulla sporgenza. Selador si sedette, mise una mano sullo schienale della sedia di Dasein. — Immagino che in quella stanza ci siano dei microfoni — disse. — Però non credo che abbiano dei congegni d'ascolto qui fuori. Dasein strinse le ruote della sua sedia. Timoroso che potesse sobbalzare in avanti, farlo precipitare dalla terrazza. Fissò là in basso, l'area di parcheggio, le macchine parcheggiate, il prato, gli alberi. Il senso delle parole di Selador gli si palesò un po' per volta.
— Microfoni... — Si girò e incontrò una divertita espressione interrogativa in quegli occhi scuri. — È ovvio che lei non è ancora del tutto se stesso — puntualizzò Selador. — Comprensibile. Il suo calvario è stato terribile. Questo è ovvio. Comunque la farò portare via di qui non appena sarà in grado di viaggiare. Si tranquillizzi pure su questo punto. Sarà al sicuro in un ospedale normale di Berkeley prima che la settimana finisca. Dasein sentì un ribollire di emozioni, il cozzare di contrasti. Al sicuro! Che espressione rassicurante. Andarsene? Lui non poteva andarsene! Ma doveva farlo. All'esterno? Andare in quell'orrendo posto? — È stato drogato, Gilbert? — chiese Selador. — Mi sembra così... così... — Sto... sto bene. — Davvero, si sta comportando in maniera molto strana. Non mi ha chiesto una sola volta cosa abbiamo scoperto partendo dai suggerimenti che ci ha fornito. — Cosa... — La fonte del loro petrolio non si è rivelata di nessuna utilità. Tutto normalissimo... sempre che si capiscano le loro motivazioni economiche. Un acquisto in contanti da un produttore indipendente. Il Dipartimento Statale dell'Agricoltura dà al formaggio e agli altri prodotti della loro Cooperativa il certificato d'igiene. Il comitato della proprietà terriera, però, è interessato che nessuno, salvo i santarogani, acquisti proprietà nella valle. Potrebbe darsi che abbiano violato la legislazione antidiscriminatoria con... — No — l'interruppe Dasein. — Loro... non fanno niente di così ovvio. — Ah, ah! Lei parla come un uomo che ha scoperto lo scheletro nell'armadio. Bene, Gilbert: di che si tratta? Dasein sentì di essere stato afferrato dal vampiro del dovere. Gli avrebbe risucchiato fino all'ultima goccia di sangue. Selador se ne sarebbe nutrito. Scosse la testa da un lato all'altro. — Sta male, Gilbert? La sto stancando? — No. Fintanto che la prendo lentamente... Dottore, deve capire, ho... — Ha degli appunti, Gilbert? Forse potrei leggere il suo rapporto e... — No... il fuoco... — Oh, sì. Il dottore, quel Piaget, ha detto qualcosa sul fatto che il suo furgone si è incendiato. Ogni cosa è andata in fumo, immagino. — Sì. — Bene, allora, Gilbert, dovremo averlo dalle sua labbra. C'è una brec-
cia che possiamo usare per spezzare questa gente? Dasein pensò alle serre, al lavoro minorile. Pensò alla statistica dei pochi santarogani che lo Jaspers aveva distrutto. Pensò alle implicazioni del termine «narcotico» nei prodotti Jaspers. C'era tutto: avrebbe significato la distruzione per Santaroga. — Dev'esserci qualcosa — proseguì Seìador. — Lei è durato molto più a lungo degli altri. A quanto pare a lei è stata offerta la libertà di muoversi nella regione. Sono sicuro che deve avere scoperto qualcosa. Durato molto più a lungo degli altri, pensò Dasein. C'era una nuda rivelazione in quella frase. Come se vi avesse partecipato, Dasein vide le discussioni che erano state fatte per decidere di scegliere lui per quel progetto. — Dasein ha dei collegamenti con la valle: una ragazza. Quello potrebbe essere il vantaggio che ci serve. Certo, ci dà ragione di sperare che duri più a lungo degli altri. Dasein sapeva che doveva essere stato qualcosa del genere. C'era un cinismo, in tutto ciò, che gli ripugnava. — Erano più di due? — chiese. — Due? Due cosa, Gilbert? — Due altri investigatori... prima di me? — Non vedo come questo... — C'erano... — Be'... è molto perspicace da parte sua, Gilbert. Sì, ce ne sono stati più di due. Sospetto che siano stati otto o nove. — Perché... — Perché non le è stato detto? Volevano instillarle un po' di cautela, ma non vedevamo nessun motivo per terrorizzarla. — Ma pensavate che fossero stati assassinati in questo posto... dai santarogani? — Era tutto eccessivamente misterioso, Gilbert. Non ne eravamo affatto sicuri. — Studiò Dasein, con gli occhi spalancati che lo sondavano. — È così, eh? Un assassinio? Siamo in pericolo in questo momento, ha l'arma che... — Se soltanto fosse così semplice — disse Dasein. — In nome del cielo, Gilbert, di cosa si tratta? Deve aver scoperto qualcosa. Avevo così grandi speranze per lei. Grandi speranze per me, pensò Dasein. Ancora una volta era una frase che apriva una porta su conversazioni segrete. Com'era possibile che Selador fosse così trasparente? Dasein si trovò scosso dalla superficialità di
quell'uomo. Dov'era lo psicanalista onnipotente? Come poteva aver cambiato in maniera così profonda? — Voi... voi mi avete soltanto usato — disse Dasein. Mentre parlava ricordò l'accusa che Al Marden gli aveva lanciato. Marden aveva capito questo... sì. — Suvvia, Gilbert, non è questo l'atteggiamento da assumere. Ebbene, poco prima di partire per venire qui, Meyer Davidson mi ha chiesto di lei. Si ricorda di Davidson, l'agente della compagnia d'investimento alle spalle della catena di supermercati? È rimasto molto colpito da lei, Gilbert. Mi ha detto che pensava di trovarle un posto fra quelli del suo personale direttivo. Dasein fissò Selador. Quell'uomo non poteva parlare seriamente. — Questo sarebbe un notevole passo avanti nel mondo per lei, Gilbert. Dasein represse l'impulso di scoppiare a ridere. Provò la strana sensazione di essere staccato dal proprio passato e di essere capace di studiare una pseudopersona, una persona che avrebbe potuto essere e che era lui. L'altro Dasein si sarebbe buttato subito su quell'offerta. Il nuovo Dasein vedeva attraverso l'offerta la vera opinione che Selador e i suoi consociati avevano di «quella persona utile ma non troppo intelligente, Gilbert Dasein». — Ha dato un'occhiata a Santaroga? — chiese Dasein. Si chiese se Selador avesse visto la rivendita di macchine usate di Clara Scheler o la pubblicità nelle vetrine del supermercato. — Questa mattina, mentre aspettavo l'ora di visita per venire da lei, ho fatto un giro in macchina — disse Selador. — Cosa ne pensa del posto? — La mia sincera opinione? Uno strano villaggio. Quando ho chiesto la direzione a dei nativi... il loro modo di esprìmersi è stato così brusco... e strano. Per niente fatto come... be', non è inglese, naturalmente, è pieno di americanismi, ma... — Hanno una lingua che assomiglia al loro formaggio — esclamò Dasein. — Tagliente e piena di sapore piccante. — Tagliente! Un vocabolo ottimamente scelto. — Una comunità d'individualisti, non le pare? — chiese Dasein. — Forse, ma con una certa somiglianza comune. Mi dica, Gilbert, questo ha qualcosa a che fare con il motivo per il quale è stato mandato qui? — Questo? — Queste domande. Devo dire che lei sta parlando come... già, che io
sia dannato se lei non sembra un nativo. — Un sorriso forzato gli filtrò dalle labbra scure. — È diventato nativo? La domanda proveniente da quella scura faccia orientale, stilata con quell'accento di Oxford, parve a Dasein divertente all'estremo. Proprio Selador! Selador... che gli faceva una domanda del genere. Una risata gorgogliò dalle labbra di Dasein. Selador equivocò la sua reazione. — Meno male — disse. — Speravo proprio che non le fosse successo. — L'umanità dovrebbe essere al primo posto nell'interesse degli esseri umani — disse Dasein. Ancora una volta Selador equivocò. — Ah, e lei ha studiato i santarogani da quell'eccellente psicologo che è. Ottimo. Bene, allora, lo dica a modo suo. — Lo esprimerò in un'altra maniera — ribadì Dasein. — Per avere la libertà bisogna sapere come usarla. C'è la concreta possibilità che certa gente dia la caccia alla libertà in maniera tale da diventare schiava della libertà. — È tutto molto filosofico, ne sono molto sicuro — disse Selador. — In che modo lo si può applicare per arrivare a fare giustizia per i nostri sponsor? — Giustizia? — Certo, giustizia. Sono stati attirati in questa valle e imbrogliati. Qui hanno speso grosse somme di denaro e non hanno ricevuto proprio niente in cambio. Non è gente che accetti alla leggera un trattamento del genere. — Attirati? — fece Dasein. — Nessuno gli avrebbe mai venduto niente, di questo sono sicuro. Come sono stati attirati? Se è per questo, come hanno fatto a ottenere una concessione su... — Questo non è pertinente, Gilbert. — Sì, lo è. Come hanno fatto a ottenere una concessione sul territorio di Santaroga? Selador sospirò. — Molto bene. Se insiste. Hanno forzato un appalto su una parte eccedente della proprietà dello stato e hanno fatto un'offerta... — Un'offerta tale da essere sicuri che nessun altro potesse uguagliarla — commentò Dasein. Ridacchiò. — Hanno fatto una ricerca di mercato? — Conoscevano bene il numero degli abitanti. — Ma sapevano di che tipo di gente si trattava? — Cosa sta cercando di dire, Gilbert? — Santaroga è molto simile a una polis greca — cominciò a spiegare
Dasein. — Questa è una comunità d'indivìdui, non una collettività. I santarogani non sono gli schiavi d'un formicaio dediti all'accumulo del cibo. Questa è una polis, quel che basta per far fronte ai bisogni umani. Il loro interesse primario è per gli esseri umani. Ora per quanto riguarda la giustizia per... — Gilbert, lei sta parlando in modo molto strano. — Per favore, dottore, mi ascolti. — Molto bene, ma spero che vorrà dare un senso a questo... questo... — La giustizia — disse Dasein. — Questi sponsor che lei ha citato, e il governo che essi controllano, sono meno interessati alla giustizia di quanto lo siano nell'ordine pubblico. In loro si è bloccato lo sviluppo dell'immaginazione a causa della loro associazione troppo lunga e troppo intima con un sistema incarnito di precedenti auto-perpetuati. Vuol sapere come appaiono a un santarogano loro, e le loro macchinazioni? — Lasci che le ricordi, Gilbert, che questa è una delle ragioni per cui è stato mandato qui. Dasein sorrise. Il tono accusatorio di Selador non gli faceva provare il benché minimo senso di colpa. — Potere grezzo — disse. — È così che l'esterno appare a un santarogano. — Un luogo di potere grezzo. Là, il denaro e il potere grezzo hanno preso il sopravvento. — L'esterno — osservò Selador. — Quale interessante enfasi lei ha dato a una parola interessante. — Il potere grezzo è movimento senza un governo — proseguì Dasein. — Si svilupperà senza alcun controllo e distruggerà se stesso e tutto ciò che lo circonda. C'è una civiltà di campi di battaglia là fuori. Hanno nomi tutti speciali: area di mercato, area commerciale, tribunali, elezioni, senato, aste, scioperi... ma sono pur sempre campi di battaglia. Non si può negarlo poiché ciascuno di essi può far ricorso ad un'intera gamma di armi, dalle parole ai fucili. — Credo che lei stia difendendo questi furfanti di Santaroga — disse Selador. — Certo che li sto difendendo! Qui mi si sono aperti gli occhi, le dico. Ho resistito molto più a lungo, non è vero? Lei aveva speranze così grandi in me! Come può essere così dannatamente trasparente? — Adesso senta, Gilbert! — Selador si alzò in piedi, abbassò gli occhi su Dasein guardandolo con furore. — Sa cosa m'infastidisce... cosa davvero m'infastidisce? — chiese Da-
sein. — La giustizia! Siete tutti così maledettamente interessati a coprire col mantello della giustizia e della legalità le vostre frodi! Mi fate venire il... — Dottor Gil? Era la voce di Burdeaux che lo chiamava dalla porta dietro di lui. Dasein tirò indietro di scatto la ruota sinistra della sua sedia, spinse sulla destra. La sedia a rotelle ruotò all'improvviso. Nello stesso istante Dasein vide Burdeaux in piedi sulla soglia della porta-finestra, sentì la sua seggiola che colpiva qualcosa. Girò la testa verso Selador in tempo per vedere un paio di piedi scomparire oltre l'orlo del tetto. Vi fu un lungo grido di disperazione che terminò con il più nauseante tonfo umido che Dasein avesse mai sentito. D'un tratto Burdeaux gli fu accanto per sporgersi dal parapetto e guardare in basso verso l'area del parcheggio. — Oh, mio Dio — esclamò Burdeaux. — Oh, mio Dio, che terribile incidente. Dasein sollevò le mani, le guardò: le sue mani. Non sono abbastanza forte per aver fatto questo, pensò. Sono stato male. Non sono abbastanza forte. CAPITOLO QUATTORDICESIMO — Uno dei fattori che hanno maggiormente contribuito all'incidente — dichiarò Piaget, — è stata la follia da parte della stessa vittima di rimanere così vicino all'orlo del tetto. L'inchiesta era stata indetta nella stanza d'ospedale di Dasein: — Perché si trova sulla scena dell'incidente ed è conveniente per il dottor Dasein che non si è ancora del tutto ripreso dalle ferite e dal trauma. Un investigatore speciale era stato mandato dall'ufficio del Procuratore Generale dello Stato, ed era arrivato poco prima dell'inchiesta alle dieci del mattino. Risultò ovvio che l'investigatore, un certo William Garrity, era conosciuto da Piaget. Si erano salutati con un «Bill» e un «Larry» ai piedi del letto di Dasein. Garrity era un ometto dall'aspetto fragile, i capelli color sabbia, un volto sottile immerso in una maschera di timidezza. Presiedeva il magistrato inquirente di Santaroga, un negro che Dasein non aveva mai visto prima: Leroy Cos, capelli grigi, riccioluti, e un volto quadrato e massiccio che ispirava una dignità distaccata. Era vestito di nero. Si era tenuto in disparte durante il subbuglio dell'inchiesta preliminare,
fino allo scoccare delle dieci quando si era seduto a un tavolo che gli era stato fornito, aveva battuto una volta con una matita sul tavolo e aveva detto: — La seduta è aperta. Gli spettatori e i testimoni avevano preso posto sulle sedie pieghevoli portate per l'occasione. Garrity divideva il tavolo con un Assistente Procuratore distrettuale che, risultò, era un Nis, Swarthout Nis, un uomo dalle pesanti palpebre tipiche della sua famiglia, un'ampia bocca e i capelli color sabbia, ma senza la profonda fessura del mento. Nei due giorni che erano trascorsi dal momento della tragedia, Dasein aveva scoperto che le sue emozioni erano intrise d'una crescente sensazione di rabbia contro Selador: quel pazzo, quel dannato pazzo, farsi ammazzare in quel modo. Piaget, sulla sedia dei testimoni, riepilogò le cose per Dasein. — In primo luogo — dichiarò Piaget con un'espressione di severa indignazione sul volto rotondo, — non avrebbe dovuto portar fuori il dottor Dasein. Gli avevo spiegato con molta chiarezza le condizioni fisiche del dottor Dasein. A Garrity, l'investigatore dello stato, venne concessa una domanda: — Ha visto l'incidente, dottor Piaget? — Sì. Il signor Burdeaux, avendo notato che il dottor Selador stava spingendo la sedia del mio paziente fuori sul solarium e sapendo che lo consideravo uno sforzo fisico, era venuto a chiamarmi. Sono arrivato giusto in tempo per vedere il dottor Selador che inciampava e cadeva. — Lo ha visto inciampare? — chiese Swarthout Nis. — Decisamente. È parso che allungasse le mani verso il dorso della sedia a rotelle del dottor Dasein. Considero un fatto fortunato che non sia riuscito ad afferrare la sedia. Avrebbe potuto trascinare tutti e due giù dall'orlo del tetto. Selador ha inciampato? pensò Dasein. Una sensazione di sollievo lo invase. Selador ha inciampato! Non sono stato io a urtarlo. Sapevo che non potevo essere abbastanza forte. Ma contro cosa ho urtato? Una tavola sconnessa del solarium, forse? Per un istante Dasein ricordò le proprie mani sulle ruote della sedia, la stretta salda, sicura, l'urto morbido. Una tavola può sembrare morbida? si chiese. Adesso sulla sedia dei testimoni si trovava Burdeaux, intento a corroborare la testimonianza di Piaget. Allora doveva essere vero. Dasein sentì le forze scorrergli attraverso il corpo. Cominciò a vedere la
sua esperienza a Santaroga come una serie di tuffi giù per le rapide precipitose. Ogni tuffo l'aveva lasciato più debole finché il tuffo finale, attraverso una mistica fusione, l'aveva messo in contatto con una fonte d'energia infinita. Era quella la forza che adesso sentiva. La sua vita prima di Santaroga assumeva l'aspetto di un delicato mito mantenuto fugacemente nella mente. Era un albero in un paesaggio cinese visto in modo vago attraverso nebbie color pastello. Sentiva di essere caduto in qualche modo in un seguito che con la sua esistenza aveva cambiato il passato. Ma il presente, qui-e-adesso, lo circondava come il tronco d'una robusta sequoia, saldamente radicata, che sorreggeva i forti rami del senno e della ragione. Garrity con le sue domande sonnacchiose era un futile incompetente. — Lei è corso subito al fianco del dottor Dasein? — Sì, signore. Era piuttosto malato e debole. Temevo che potesse cercare di scendere dalla sedia a rotelle e cadere anche lui di sotto. — E il dottor Piaget? — È corso giù, signore, per vedere cosa poteva fare per l'uomo che era caduto. Soltanto i santarogani presenti in quella stanza erano consapevoli per intero, pensò Dasein. Si rese conto, allora, che più consapevolezza acquisiva, maggiore doveva essere il suo contenuto inconscio: una naturale questione di equilibrio. Quella doveva essere la fonte della forza reciproca di Santaroga, naturalmente: delle fondamenta spartite da tutti nelle quali ciascuna parte doveva adattarsi. — Dottor Dasein — disse il magistrato inquirente. Fecero prestare giuramento a Dasein. Tutti gli occhi nella stanza si appuntarono su di lui. Soltanto gli occhi di Garrity infastidirono Dasein: incappucciati, remoti, dissimulanti: gli occhi di un estraneo. — Ha visto cadere il dottor Selador? — Io... il signor Burdeaux mi ha chiamato. Mi sono voltato verso di lui e ho udito un grido. Quando mi sono voltato di nuovo... i piedi del dottor Selador stavano scomparendo oltre l'orlo della terrazza. — I suoi piedi? — È tutto quello che ho visto. Dasein chiuse gli occhi, ricordando quel momento di elettrizzante terrore. Sentiva che stava usando un effetto-tunnel nella sua memoria, mettendo a fuoco soltanto quei piedi. Un incidente... un terribile incidente. Aprì gli occhi, escluse quella visione prima che la memoria riproducesse quel ge-
mito discendente, la puntualizzazione di quel tonfo finale. — Conosceva il dottor Selador da molto tempo? — Era... sì. — A cosa stava mirando Garrity da dietro quegli occhi incappucciati? Garrity tirò fuori un pezzo di carta da una valigetta appoggiata sul tavolo, gli dette un'occhiata, e disse: — Ho qui una pagina del diario del dottor Selador. Mi è stata mandata da sua moglie. C'è un passo che mi interessa. Lo leggerò al... — È pertinente? — chiese il magistrato Cos. — Forse no, signore — replicò Garrity. — E forse lo è. Vorrei l'opinione del dottor Dasein. Dopotutto, stiamo soltanto cercando di arrivare alla verità di una terribile tragedia. — Posso vedere il passo? — Era stato Swarthout Nis a parlare, l'assistente del Procuratore Distrettuale, la voce suadente e interrogativa. — Certo. Nis prese il foglio e lo lesse. Cos'è? si chiese Dasein. Cosa può avere scritto Selador da indurre sua moglie a mandarlo all'investigatore dello stato? È per questo che è venuto Garrity? Nis restituì il foglio a Garrity. — Tenendo a mente che il dottor Selador era un psichiatra, questo passo potrebbe avere molte interpretazioni. Comunque, non vedo nessuna ragione per la quale il dottor Dasein non dovrebbe avere la possibilità di far luce su di esso, se può. — Posso vederlo? — chiese il magistrato inquirente. Garrity si alzò in piedi, portò il foglio a Cos, e aspettò mentre il coroner lo leggeva. — Molto bene — disse Cos, restituendo il foglio a Garrity. — Presumo che ciò che la interessa sia il passo che lei ha segnato in rosso. Può interrogare il testimone su quel passo, se desidera farlo. Garrity si girò, tenendo rigidamente il foglio stretto in mano davanti a sé, fronteggiò Dasein. Lanciando di tanto in tanto un'occhiata al foglio, lesse: — «Dasein: uno strumento pericoloso per questo progetto. Dovrebbero venir avvertiti». Abbassò il foglio: — Quale progetto, dottor Dasein? Come una fitta nebbia, un improvviso silenzio calò sulla stanza. — Io... quand'è che l'ha scritto? — Stando a sua moglie, la data risale a circa un mese fa. Ripeto: che progetto?
Dasein frugò nella propria memoria. Progetto... pericoloso? — Il... il solo progetto... — Scosse la testa. Il passo non aveva alcun senso. — Perché è venuto a Santaroga, dottor Dasein? — Perché? La mia fidanzata vive qui. — La sua fidanzata... — Mia nipote, Jenny Sorge — intervenne Piaget. Garrity lanciò un'occhiata a Piaget, che adesso sedeva in prima fila, poi guardò di nuovo Dasein: — Non è forse venuto qui per fare una ricerca di mercato? — Oh, quello... sì. Ma non vedo come potevo essere pericoloso per quella... — Dasein esitò, soppesando bene l'intervallo, — ... a meno che non avesse paura che pensassi troppo ad altre cose. Il morbido frusciare d'una risata sussurrata si propagò per la stanza. Il magistrato picchiò la matita sul tavolo. — Vi ricordo che questa è una circostanza seria. È morto un uomo. Silenzio. Garrity guardò un'altra volta il foglio di carta che stringeva in mano. Il foglio pareva aver acquistato peso, lo tirava giù. — Che altro c'è su quella pagina del suo diario? — chiese Dasein. — Non spiega cosa... — Chi sono i loro che dovrebbero essere avvertiti? — chiese Garrity. Dasein scosse la testa. — Non lo so... a meno che non sia la gente che ci ha assunto per la ricerca di mercato. — Ha preparato quello studio? — Lo completerò non appena starò abbastanza bene da venir dimesso dall'ospedale. — Le sue ferite — disse Garrity, con una nota di rabbia nella voce. — Mi è stato detto qualcosa a proposito di ustioni. Non ho affatto chiaro come... — Un momento, per favore — intervenne il magistrato. — Qui non sono in discussione le ferite del dottor Dasein, se non per il fatto che spiegano perché si trovasse in un particolare posto in un particolare momento. Abbiamo avuto testimonianza che era molto debole e che il dottor Selador aveva spinto la sedia a rotelle del dottor Dasein fuori del solarium. — Quanto debole? — chiese Garrity. — E quanto pericoloso? Il magistrato sospirò, lanciando un'occhiata a Piaget, poi riportò il suo sguardo su Garrity. — I fatti che riguardano le ferite del dottor Dasein so-
no di pubblico dominio a Santaroga, signor Garrity. C'è stata più di una dozzina di testimoni. È rimasto gravemente ustionato mentre salvava la vita di un uomo. Il dottor Dasein è un po' un eroe a Santaroga. — Oh. — Garrity tornò alla sedia dietro il tavolo, rimise il foglio nel diario di Selador nella valigetta. Era ovvia la sua rabbia, la sua confusione. — Permetto un considerevole grado d'informalità in un'inchiesta come questa — disse Cos. — Il dottor Dasein ha fatto una domanda circa quella pagina. Confesso che quelle annotazioni non hanno senso per me, ma forse... — Il magistrato lasciò la questione in sospeso, concentrando la sua attenzione su Garrity. — Il mio ufficio può aggiungere molto poco — disse Garrity. — C'è un'annotazione che è ovviamente un dato relativo alla popolazione; così è indicato. C'è una riga... — Sollevò la pagina: — «Compagnia petrolifera controllata. Negativo». C'è una frase piuttosto enigmatica: «Nessuna malattia mentale». Salvo per quell'annotazione relativa al dottor Dasein... — E il resto del diario? — domandò il magistrato. — Il suo ufficio ha indagato? — Per sfortuna la signora Selador ha detto di aver obbedito ai desideri testamentari di suo marito e di aver bruciato il diario. Ha detto che conteneva dati confidenziali su casi medici. Questa singola pagina è stata conservata e ci è stata spedita... — Garrity scrollò le spalle. — Mi spiace, ma l'unica persona che potrebbe spiegarlo non è più in vita — disse il magistrato. — Se questo, però, era un diario di dati medici con riferimento alla pratica psichiatrica del dottor Selador, allora mi sembra che l'annotazione in questione possa venir spiegata con facilità in termini piuttosto innocui. La parola pericoloso può avere molte interpretazioni in un contesto psichiatrico. Potrebbe perfino darsi che l'interpretazione del dottor Dasein sia quella corretta. Garrity annuì. — Ha qualche altra domanda? — chiese il magistrato. — Sì, ancora una. — Garrity guardò Dasein con un'espressione velata e incerta. — Lei e il dottor Selador eravate in rapporti di amicizia? Dasein deglutì. — Era... il mio maestro... un mio amico. Lo chieda a chiunque a Berkeley. Una vacua espressione frustrata si disegnò sul volto di Garrity. Lo sa, pensò Dasein, e subito si chiese cos'era che Garrity poteva sapere. Non c'era niente da sapere. Un incidente. Forse era al corrente dei sospetti di Selador su Santaroga. Ma quella era follia... a meno che Garrity non
fosse un altro degli investigatori che volevano mettere il naso in affari che non lo riguardavano. Dasein sentì che la vista gli si offuscava e, fissando Garrity, vide la faccia dell'uomo diventare un teschio. L'illusione scomparve quando Garrity scosse la testa e tornò a ficcare la pagina del diario di Selador nella valigetta. Un mesto sorriso comparve sul suo viso. Lanciò un'occhiata al magistrato, scrollò le spalle. — Qualcosa la diverte, signor Garrity? — chiese il magistrato. Il sorriso scomparve. — No, signore. Be'... talvolta i miei stessi processi mentali... È ovvio che ho consentito a una donna infelice, la signora Selador, d'indurmi a una ricerca sciocca e inutile. L'investigatore si sedette e disse ancora: — Non ho altre domande, signore. All'improvviso, Dasein fu attraversato da un vivido sprazzo di comprensione: Garrity era rimasto spaventato dai propri pensieri! Aveva sospettato una vasta cospirazione, qui a Santaroga. Ma era un'ipotesi troppo fantastica; di qui il sorriso. Adesso il magistrato inquirente stava concludendo la sua indagine: un breve riassunto, tutti i fatti erano stati appurati... un'allusione ai macabri particolari del patologo: Ingenti lesioni alla testa, morte istantanea... e l'annotazione che un'inchiesta ufficiale sarebbe stata tenuta in data da stabilire. Il signor Garrity desiderava tornare per parteciparvi? Il signor Garrity pensò che non era il caso. Dasein si rese conto, allora, che quello era stato tutto uno spettacolo a beneficio di Garrity, qualcosa per tranquillizzare la sua mente. Piccoli frammenti della conversazione pre-inchiesta di Piaget con Garrity ritornarono alla mente di Dasein, trovando una loro collocazione in un disegno più grande. Erano stati a scuola insieme, all'esterno! Naturalmente: vecchi amici Larry e Bill. Non era possibile sospettare di cospirazione i vecchi amici, no? Ragionevole. Era finita, allora: morte per infortunio, un incidente. Garrity stava stringendo la mano al magistrato inquirente Cos, con Piaget. Piaget avrebbe partecipato alla riunione della loro classe? Sì, se il lavoro gliel'avesse consentito... Ma Garrity certamente doveva sapere come stavano le cose, per i medici di campagna. Sì, Garrity capiva. — È stata una cosa terribile — commentò Garrity. Piaget sospirò: — Sì, una terribile tragedia.
Adesso Garrity si era soffermato sulla porta che dava all'esterno. C'erano gruppi di persone alle sue spalle in attesa dell'ascensore, un brusio di conversazioni. Si girò, e a Dasein parve di vedere un'espressione rabbiosa, come di un angosciato, interno, rimuginare sul suo volto. Allora Piaget si chinò su Dasein, oscurandogli la visuale della porta. — Tutto questo è stato uno sforzo per lei, e voglio che adesso si riposi un po' — gli disse il dottore. — Jenny ora entrerà per un minuto, ma non voglio che si fermi troppo a lungo. Si spostò. La porta sull'esterno era aperta e vuota. — Capito? — chiese Piaget. — Sì... Jenny sta per arrivare. Cos'era quell'espressione negli occhi di Garrity? si chiese Dasein. Un selvaggio nero, in Africa, avrebbe potuto sbirciare in quel modo dentro una scintillante città degli uomini bianchi. Se Meyer Davidson e la sua cricca avessero scelto Garrity come investigatore, sarebbe stato uno di quelli pericolosi. Comunque, quello sarebbe stato un ponte da varcare con il tempo... sempre che fosse stato necessario farlo. Molte cose potevano accadere ad un uomo là fuori, nel vasto, grande mondo. Dasein poteva sentire che Santaroga si stava preparando a spingersi là fuori. È per questo che sono stato scelto, pensò. E Burdeaux... e gli altri... chiunque essi siano. La sola difesa buona è un'efficace offesa. Quello era un pensiero inquietante che gli trasmise un tremito agitato attraverso lo stomaco e le gambe. Perché mai sto tremando? si chiese. Cercò di ricatturare il pensiero che l'aveva turbato, ma non ci riuscì. Era stato un turbamento fugace, di poca importanza, una momentanea increspatura su un lago che per il resto stava diventando sempre più calmo. Dasein permise a quella sensazione di acque verdi e calme di scorrergli sopra e intorno. Divenne consapevole di trovarsi solo nella stanza insieme a Jenny. Era la calma personificata: occhi azzurri corrugati dal riso agli angoli, le labbra carnose che gli sorridevano. Indossava un vestito arancione, un nastro arancione fra i capelli scuri. Jenny mise un pacchetto sul suo comodino, si chinò e lo baciò: labbra calde, una profonda sensazione di pace e di spartizione. Lei si staccò, si sedette accanto a lui, gli tenne la mano. Dasein pensò che mai gli era parsa così bella.
— Lo zio Larry dice che questo pomeriggio devi riposare, ma potrai venir dimesso dall'ospedale entro sabato — disse Jenny. Dasein allungò la mano e le passò le dita fra quei capelli sensuali, lisci come la seta. — Perché non ci sposiamo domenica? — le chiese. — Oh, tesoro... Ancora una volta lei lo baciò, si tirò indietro, assunse un aspetto compito. — Sarà meglio che io non lo faccia più, oggi. Non vogliamo indebolirti. — La fossetta le tremolò nella guancia. — Vorrai esserti completamente ripreso, e forte, per domenica. Dasein trasse la testa di Jenny contro il proprio collo, sfregandole i capelli. — Possiamo avere una delle case nella nuova sezione — lei bisbigliò. — Saremo vicini a Cal e a Willa. Tesoro, tesoro, sono così felice. — Anch'io. Jenny cominciò a descrivergli la casa, lo spazio per il giardino, la vista... — Ne hai già scelta una? — Ero là fuori, a sognare, a sperare... La casa era tutto ciò che aveva sempre desiderato, per una donna era importante avere la casa giusta nella quale cominciare a vivere con l'uomo che amava. C'era perfino un grande garage, con lo spazio per un negozio... e un laboratorio. Dasein andò col pensiero alla macchina di Jersey Hofstedder dentro il grande garage che Jenny gli aveva descritto. C'era una sensazione di continuità in quel pensiero, un compiacimento contadinesco che implicava «cose buone» e «vendemmie eccezionali». La sua attenzione si concentrò sul pacchetto che Jenny aveva deposto sul suo comodino. — Cosa c'è nel pacchetto? — Pacchetto? Jenny sollevò la testa, la girò per seguire la direzione del suo sguardo. — Oh, quello. La banda alla Cooperativa... hanno messo insieme un pacchetto di «guarisci presto» per te. — Jaspers? — Certo. — Jenny si lasciò andare contro lo schienale, si ravvivò i capelli. Dasein ebbe l'improvvisa visione di se stesso intento a lavorare alla catena d'imballaggio della Cooperativa. — Dove lavorerò? — chiese.
— Lo zio Larry ti vuole nella clinica, ma entrambi avremo un mese di ferie per la luna di miele. Tesoro... sarà così lungo aspettare fino a domenica. Nella clinica, pensò Dasein. Non come paziente, grazie a Dio. Si chiese allora quale dio stesse ringraziando. Era uno strano pensiero, senza inizio e senza fine, un pezzo di spago che penzolava nel lago verde della sua mente. Jenny cominciò a togliere l'involucro al pacchetto sul comodino: una fetta triangolare di formaggio dorato, due bottiglie di birra, cracker scuri di grano, un contenitore bianco che diede l'impressione di contenere del liquido quando lei lo mosse. Si chiese quant'erano stati esposti. Dasein ebbe l'improvvisa sensazione di essere un moscerino in una gabbia di vetro, una minuscola creatura che svolazza frenetica contro le sue barriere, smarrita, confusa. — Tesoro, ti sto stancando. — Jenny gli appoggiò una mano sulla fronte. Lo calmò. Lo tranquillizzò. Il moscerino della sua emozione si adagiò su un robusto ramo verde. Il ramo era attaccato a un albero. Sentì il ramo dell'albero come se fosse lui stesso: forte, una fonte infinita di forza. — Quando ti rivedrò? — le chiese. — Verrò domattina. Lei gli lanciò un bacio, esitò, si chinò su di lui: la dolce fragranza dello Jaspers nel suo alito, un tocco di labbra. Dasein la seguì con lo sguardo finché la porta esterna non si fu chiusa. Un'angoscia temporanea lo colse, la fugace sensazione di aver perduto la presa sulla realtà... quella stanza senza Jenny era irreale. Dasein afferrò un pezzo del formaggio dorato, se lo cacciò in bocca, sentì la tranquillizzante presenza dello Jaspers, la sua coscienza che si espandeva, diventando solida e governabile. Cos'è la realtà, comunque? si chiese. È finita come un pezzo di formaggio, contaminata dall'errore come qualunque altra cosa che abbia limiti. Allora stabilizzò con fermezza la sua mente sul pensiero della casa che Jenny gli aveva descritto, si raffigurò se stesso che trasportava Jenny oltre la soglia, sua moglie. Ci sarebbero stati regali: Jaspers della «banda», mobili... Santaroga si prendeva cura dei suoi. Sarà una bella vita, pensò. Bella... bella... bella... FINE