Intervis te e saggi brevi
Umberto Galimberti
La lampada di Psiche Il mra di Paolo Belli
Introduzione
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Seconda edizione: aprile 2004 2001 , Edizioni Casagrande s.a., Bellinzona In copertina:
Figura mitologica femminile, disegno a penna di Antonio Rinaldi (Pinacoteca Zli,l) Progetto grafico: Nancy Ranfi e Marco Z
Diceva Pasca! che ci sono due eccess1: escludere la ragione e non ammettere che la ragione. Umberto Galimberti non sta nel mezzo, non è un moderato; non è neppure un debole, nel senso, ovviamente, del «pensiero debole». Il suo è un pensiero forte che, in effetti, non ammette che la ragione. Vorrei aggiungere, anche se forse egli, temo, non sarebbe d'accordo con me, una ragione ideologica. O, per meglio dire: una ragione apocalittica, che evoca un fantasma che s'aggira per l'Europa e in tutto l'Occidente, da almeno tre secoli: il fantasma di un mondo dominato dalla macchina, dall'iperrazionalismo tecnologico e scientifico, dove l'uomo, ormai privato della propria identità , regred ito a mero fantoccio, ridotto ad analfabeta emptivo, non ne è che il piccolo funzionario, acriticamente predisposto al suo funzionamento. È la grande deriva dell'umanesimo. Espropriato della propria ragione, dipendente dalla 7
macchina tecnico-economico-produttiva, inadeguato a vivere in quella che egli chiama, ricordando Heid egger, l'età della tecnica, l'uomo contemporaneo è sempre più aggrappato a concetti divenuti ormai irrimediabilmente obsoleti (verità, conoscenza, scienza,/amtR,,lia, storia ecc.); si trova pertanto a vivere in una condizione di perenne spaesamento, incapace com'è di ripensare - e di rifondare - le categorie che per millenni l'avevano ancorato alla propria id entità psicologica e culturale. Aveva detto cose si mili, o, per meglio dire, evocato simili fantasmi, Karel Capek, grande scrittore c drammaturgo ceco, il quale fra le due guerre, già nel r920, in un suo famoso dramma, R.U.R., aveva raccontato il pericolo del predominio della tecnica, dove degli automi costruiti d a uno scienziato si ribellano all'umanità fino a distruggerla. La differenza, rispetto a C apck, osserverebbe Galimberti, è ch e nell'età della tecnica non c'è (non c'è più) contrapposizione, né ribellione, il dominio è totale; ne consegue che l'uomo non è più il soggetto della storia. Molti altri esempi si porrebbero citare, nella letteratura , nel cinema, nell'arte; e anche in filosofia, dove la memoria rimanda, per esempio, a un testo come L'uomo a una dimensione di H erb crt Marcuse, dove persi8
ste, tuttav ia, uno spiraglio di liberazione e di speranza. Galimberti, con i suoi scritti, si è conquistato un ruolo importante non solo nel mondo accademico e della ricerca ma anche in quello della comunicazione. Discetta con autorità e competenza, spaziando disinvoltamente in ogni ambito dello scibile, come anche questo libro dimostra, rilanciando una figura, quella del filosofo, che negli ultimi decenni aveva attraversato una crisi profonda. Si può essere, naturalmente, più o meno d'accordo con le sue asserzioni, ma è indubbio che egli possieda il dono di farsi ascoltare (e leggere). Un pensiero apocalittico, come sempre, non è privo di seduzioni. L'interesse suscitato dai suoi libri, dai suoi articoli, come anche dagli interventi radiofonici che qui presentiamo, mostra che di quell'apocalisse qualcosa ci riguarda, e molto da vicino. Molte cose ci sarebbero da osservare in proposito, ma non è questa la sede per articolare una critica al suo so lido costrutto filosofico. I tragici eventi de ll'u settembre 2001 hanno gettato una luce nuova sulle tesi sostenute da Galimberti, e anche su queste pagine. Il terrore generato dagli attentati, lo scatenarsi della guerra contro un nemico invisibile, il senso di 9
pericolo e di vulnerabilità in cui si viene a scoprire la società occidentale (e non solo queHa americana), indubbiamente sono elementi che ci consentono di cogliere forse con maggiore profondità (non disgiunta, ovviamente, da un senso di inquietudine) le parole del filosofo milanese circa 1' età che stiamo vivendo, con i suoi potentissimi strumenti tecntCI e la sua immensa fragilità. C'è poi da chiedersi, in questo nuovo e drammatico scenario, quale sia il ruolo del filosofo (posto che ne abbia ancora uno). Una specie, come i panda, in via d'estinzione? Il ritorno del filosofo-re, o del re-filosofo, divenuto l'unico faro in una generale deriva del pensiero? Il consigliere del tiranno (del tiranno tecnologico-mediatico)? E ancora: da quale luogo ci parla il filosofo Galimberti? È, la sua, una voce del mondo pre-tecnologico, che ci giunge dalle rovine del mondo umanistico? Dal lu ogo della rinuncia, poiché non si vede, nella totale assenza di dialettica, chi potrà contribuire alla trasformazione delle cose? O dal luogo di un'improbabile rivoluzione di là da venire? E infine: è ancora possibile una rifondazione del pensiero? Questioni che rim angono aperte, naturalmente, alle quali questo libricino non pretende di trovare n sposta. ro
Queste pagine, che raccolgono la trascrizione di due cicli realizzati per il palinsesto estivo della Rete Due della Radio Svizzera di lingua italiana, nascono da alcune conversazioni avute con lui, sulla base di 26 questioni da me preparate per stimolare le sue riflessioni e il suo discorso, nel quale mi piace leggere una sorta di «erranza», nel senso (platonico) di spedizione rischiosa, di movimento disordinato, dove egli intreccia sapientemente la ratio filosofica e quella più sotterranea dell'inconscio (Galimberti è anche psicanalista) e del suo linguaggio. Guardo a lui - e oserei dire, anche a noi, smarriti naviganti senza rotta e senza bussola dell'era tecnologica - come a un uomo <<postumo». Forse lo siamo tutti, oggi, uomini postumi. Traggo la definizione da un autore molto amato da Galimberti, Friedrich Nietzsche (Crepuscolo degli idoli, 1888): <
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Gli interventi dell a Lampada di Psicbe sono qui riproposti nell'ordine originale della trasmissione radiofonica, diffusa in due cicli nel>ooo e nel 2001. L'ultimo inten·ento, Tcrrommo. p,Jil'rra .wnta e scontro di Ctl'ilttì, i: stato raccolto pochi giorni dopo la traged ia dell' 11 settembre 200 1. T rascrivendo queste conve rsazio ni, ho cercato di man te nere il più possibi le la Freschezza c la mobilità del parla to, anche a costo di qualche Forzatura sint attica. Va pure ten uto presente che le citazioni di altri autori, anche quando racchiuse tra virgolette (per facilitan: la lettura), ricmergono dalla memoria e si innestano in un discorso orale che se ne appropria senza nessuna pretesa di correttezza filologic
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La la mpada di Psiche
Psiche era una fanciulla di straordinaria belLezza, figlia di un re. Furente di gelosia, Afrodite, dea deLLa bellezza e dell'amore, ordinò a suo figlio Eros di /are innamorare la ragazza di un uomo orribile. Ma a innamorarsi di Lei fu lo stesso Eros, che una notte, senza/arsi riconoscere, s'introdusse furtivamente nel suo letto, vietando/e tuttavia di guardarlo. La fanciuLLa trascorse ore felici. Le sorelle, frementi d'invidia per la fortuna che le era capitata, la convinsero che probabilmente iL suo amante era un mostro. Fu così che una notte Psiche, non potendo trattenere La curiosità, portò con sé una lampada a olio, e un coltello, nel caso in cui l'amante si fosse rivelato davvero un mostro. Quando l'accese, la luce rischiarò il corpo splendente di Eros che giaceva addormentato nel suo letto. Psiche lo contemplava, piena di desiderio, quando una goccia d'olio bollente gli cadde addosso, svegliando/o d'improvviso. Il giovane dio allora fuggì ...
Sessualità e pros tituzio ne nell'era d ell a tecnica
Una serie di delitti ha riacce.m il dibattito attorno al fenomeno (in fondo sempre sommerso) della prostituzione. La più grande rivoluzione del ventesimo :;eco/o (l'emancipazione femminile), non ha estirpato f'antichùsimo mestiere, che sopravvive ad ogni epoca storica, fa nostra inclusa. Il fatto di cronaca ci suggerò·ce dunque una prima riflessione: sessualità e prostituzione nell'età della tecnica. Ho sempre pensato che la prostituzione avesse pochissimo a che fare con il sesso e moltissimo con il denaro. Anche Marx la segnala come una delle forme dell'accumulazione capitalistica e anche oggi noi vediamo che a fare le prostitute sono ragazze del terzo mondo e lo fanno per accumulazione di denaro. Quindi incominciamo a togliere di mezzo il concetto che la prostitm:ione abbia a che fare con la sessualità: riguarda invece il denaro, ci si prostituisce per accumulare denaro. E per accumulare denaro ci sono molti modi, tra cui anche andare incon tro all'immaginario
sessuale maschile, che prevede una messa in scena di espressioni sessuali che di solito non sono quelle abituali che si svolgono fra le mura di casa. Per cui la prostituzione, nonostante l'emancipazione femminile - proprio perché non ha a che fare con il femminile, con la sessualità, bensì con il denaro - proprio per questo la prostituzione sarà eterna, nel senso che il bisogno di denaro è eterno. Per quanto riguarda l'emancipazione femminile, da che cosa è stata determinata? Non certamente dalla presa di coscienza delle donne, ma da un evento tecnico che è l'introduzione della pillola, che ha liberato il corpo femminile dal peso della generazione; e ciò per la prima volta nella storia. La ritengo una delle rivoluzioni più importanti: la donna ha potuto sganciare il corpo di riproduzione dal corpo di piacere. Ossia il piacere non è stato più connesso alla riproduzione e così la donna ha potuto giocare il proprio corpo con una libertà fino allora inimmaginabile. Più il corpo si emancipa dalla riproduzione, più diventa libero per tutte le sue manifestazioni, inclusa la commercializzazione. Quindi in un certo senso la liberazione della donna favorisce la prostituzione, non la impedisce, non la scoraggia, perché è una sessualità senza conseguenze. Nell'età della 18
tecnica, qual è appunto quella di oggi, dobbiamo inoltre considerare che la tecnica sviluppa nella mente di ciascuno di noi una modalità molto interessante, ovvero le cose hanno valore se si raggiunge immediatamente lo scopo. Per la tecnica non ci devono essere tempi morti, non ci devono essere tempi rilassati, quello che conta sono i risultati. Questa mentalità, tradotta sessualmente, abolisce tutti i tempi del corteggiamento, delle lettere, delle telefonate, gli appostamenti, che è poi il tempo della crescita emozionale, della formazione dei sentimenti, a favore del risultato, cioè del compimento dell'atto sessuale. Tant'è che se oggi un ragazzo esce con una ragazza e dopo tre volte non ci va a letto nascono i sospetti intorno a lui. Questo è l'effetto dell'età della tecnica, sono i risultati che si considerano. Ciò comporta tuttavia una riduzione dell'apparato sentimentale; per cui nell'età della tecnica diventiamo sostanzialmente degli analfabeti emotivi perché il tempo della crescita, della cultura, dell'educazione e della formazione del sentimento è proprio quello che occupa l'intervallo che c'è tra il desiderio e la sua realizzazione. Più questo intervallo viene bruciato, più diventiamo afasici dal punto di vista sentimentale, anche se possiamo diventare 19
efficaci, tecnicamente efficaci, dal punto di vista sessuale. La liberazione del corpo femminile ha prodotto una seconda novità: una volta la sessualità marcava l'identità di una persona; mentre oggi non è più così, nel senso che si va a cercare l'identità in scenari che non sono necessariamente quelli sessuali. Finalmente ci si accorge che nessuno di noi è radicalmente maschio e nessuno radicalmente femmina; per cui nascono tutti gli scenari possibili di omosessualità e transessualità che consentono di liberare l'identità dall'esercizio della sessualità e la sessualità dal codice sociale che l'ha assunta come primo marchio di identificazione. Vantaggio notevolissimo, perché ci sono delle espressioni di sé che possono venir fuori attraverso l'esercizio della sessualità e che prima invece erano coartate, pensiamo per esempio alla femminilità degli uomini, che doveva essere negata o mascherata; o la mascolinità delle donne che dovevano essere sottomesse e quindi denegare la loro maschiezza. Un ultimo elemento da prendere in considerazione nell'età della tecnica è lo spostamento della sessualità dalla pratica alla visione. Non solo per l'intervento del virtuale, ma perché lo scenario delle manifestazioni sessuali spettacolarizzato consente di fruire 20
delle emozioni sessuali senza l'i m pegno del confronto sessuale con un altro. Vi è pertanto una riduzione di incontri di corpi, a mio parere, e un ventaglio molto più ampio di manifestazioni delle possibilità del corpo; per cui spostiamo la sessualità dalla pratica alla visione. Questo in conformità all'andamento sempre più virtuale del nostro immaginario.
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Il ritorno di Socrate
Uno spettacolo teatrale (Socrate, scritto da Vincenzo Cerami e interpretato da Gigi Proietti) ha riproposto la figura di Socrate, al quale peraltro sono stati recentemente dedicati alcuni saggi. Socrate venne processato e ucciso: il suo pensiero critico era considerato pericoloso nell'Atene del IV secolo prima di Cristo; insegnava l'esercizio del dubbio (a dubitare e non a credere) e venne accusato perciò di essere un corruttore di giovani. Dunque: a morte.' Che cosa significa oggi il rinnovato interesse per Socrate? Una nostalgia per un antico modo di intendere il ruolo del filoso/o? Un ripensamento della funzione dell'intellettuale? O si celebra piuttosto la seconda definitiva condanna del filoso/o, in un contesto sociale dove il motto «Conosci te stesso» sembra avere perduto ogni significato? È interessante riconsiderare Socrate oggi, perché l'Occidente ha un grosso debito di formazione con la cultura greca. Non si deve tuttavia dimenticare che l'Occid ente è stato 22
anche il percorso della cultura ebraica, e poi di quella cristiana. Ciò ha radicalmente mutato l'impianto e la modalità del pensare (che cos'è giustizia?, che cos'è legge?), com'era stato nel mondo greco classico. I greci ritenevano che la felicità si raggiungesse solo nella città, attraverso l'osservanza degli accordi che noi oggi chiamiamo leggi. Quando Socrate è nel carcere del Pireo gli si dice: «Scappa, se vuoi!» Fedone aveva già organizzato una barca per liberarlo dalla condanna a morte, ma Socrate gli dice: <
sappiamo rutti, si raggiunge attraverso la trasgressione della legge. Abbiamo dunque un decadimento dell'ordine comunitario a favore del vantaggio individuale. Quindi Socrare è morto fisicamente all 'epoca sua; ed è sepolto dalla culwra occidentale in quanto cristiana che non prevede che la felicità sia di questo mondo, nel buon accordo delle convivenze regolate dalle leggi. Noi occidentali siamo radicalmente antisocrarici, proprio perché siamo cristiani, cristiani di formazione: anche l'ateo è cristiano! Anche coloro che leggono il cristianesimo come una continuità del mondo greco e addirittura in Platone un filosofo precristiano, probabilmente non hanno capito nulla della grecità. Basti pensare a come muore Socrate, e a come muore Gesù: Socrate muore con dign ità per ottemperare alla legge; Gesù muore in una modalità di manifestazione enfatica della sofferenza, invocando il padre di risparmiargli il supplizio. Scenari completamente diversi, dunque. Ma soprattutto la differenza consiste nel fatto che il greco pensa comunitariamente, il cristiano pensa individualmente; perché il primo ha fissato i luoghi della felicità nella comunità, mentre il secondo li ha fissati nell'aldilà, dove ci si salva da soli, non in comunità.
La seconda differenza che separa Socrate da Gesù (assumendoli naturalmente in termini simbolici, fatte salve entrambe le personalità), è che Socrate abitua le persone a pensare con la loro resta, mentre il cristianesimo, come peraltro tutte le religioni, obbliga all'osservanza di una dottrina già costituita. Il metodo socratico, dove la verità deve uscire dall'anima, è esattamente il contrario della verità cristiana, che secondo l'immagine di san Paolo prevede che l'individuo sia un vaso da riempire. Quindi c'è una componente dogmatica nella modalità cristiana di produrre l'insegnamento; e una modalità maieutica nell'accezione del tirar fuori la verità dall'interno, come Socrate diceva di sua madre levatrice quando aiutava le partorienti a generare. Le differenze tra grecità e cristianesimo sono abissali e, nella misura in cui il cristianesimo è diventato forma stessa dell' Occidente, ha sepolto la grecità. Dei due filoni culturali che hanno composto questa civiltà ha vinto senz'altro l'ebraismo e la sua variante eretica che è il cristianesimo. Poi c'è un'altra considerazione, proprio per effetto di questa vittoria: l'atteggiamento critico è diventato l'atteggiamento eretico, quando la Chiesa poteva bruciare i dissenzienti. Ed è diventato atteggiamento da guardare
con sospetto quando si assume un atteggiamento critico nei confronti di quello che è l'assestamento del sapere o della verità. O ggi io assisto a un'infinità di filosofi che si fanno cristiani (penso a Vattimo, a Vitiello, a Cacciari) e che quindi abdicano allo statuto tipico d ella filosofia che è quello di esse re atteggiamento di messa in questione costante e continua dell'esistenza. C'è un ultimo tratto di Socrate che è quello formativo. Noi oggi concepiamo la formazione come acquisizione di abilità tecnich e e non come formazion e dell'uomo. Ma questa è una ri sultanza tipica d ell'età della tecnica, la quale non ha alcun interesse nei confronti dell'uomo, perché percepisce l'uomo solo come prestatore d'opera di azioni già descritte e prescritte dall'apparato tecnico. Per cui l'uomo nella sua individualità costituisce un inconveniente per la tecnica, perché alla tecnica interessa dell'uomo la sua sostituibilità (perché se un uomo s'ammala, se un uomo vien meno, non può interrompersi il ciclo). Per cui il valore della sostituibilità di ciascuno di noi è molto maggiore del valore della qualità di ciasc uno di noi; e qui è la seconda sepoltura di Socrate.
La religione-spettacolo e il volto occidentale di Dio
Un musical ad Assisi spettacolarizza la figura di san Francesco, con la piena ed entusiastica approvazione della comunità francescana. Il Papa sempre di più è al centro d 'avvenimenti mediatici. Un evento mediatico è diventata persino la rivelazione del segreto di Fatima. Si potrebbe anzi affermare che l'intero pontificato di Giovanni Paolo II è stato caratterizzato da una particolare attenzione alla spettacolarizzazione di eventi legati al cattolicesimo. Qual è dunque il senso della religione spettacolo? La religione catto lica è senz'altro una religione spettacolare, nel senso d i <
Dio diffonde il cristianesimo e in particolare il cattolicesimo di oggi? L'abbiamo visto in maniera esplicita con l'evento di Fatima, un paesino del Portogallo che porta il nome della figlia di Maometto e che i musulmani considerano tutt'ora un loro luogo sacro: è un luogo che simbolicamente potremmo assumere come il limite di una differenziazione tra mondo cristiano e mondo musulmano. Poniamo bene i confini: il secondo confine è quello con il mondo degli ortodossi. Noi non consideriamo abbastanza gli onodossi, i quali dalla Grecia alla Serbia, con I'Uc raina, la Bielorussia, la Russia, sono l'altra facc ia del cristianesimo, separata dal cattolicesimo. È un Papa questo che, per il cattolicesimo da lui rappresentato, ha disegnato un volto occidentale di Dio: quindi un Dio anticomunista, ma un po' meno antinazista, nel senso che con il nazismo non abbiamo avuto una presa di posizione da parte della Chiesa analoga a quella assunta nei confronti del comunismo. È un Papa che dialoga con le altre religioni in una maniera che a mio parere è una pura e semplice messinscena: gli ortodossi, per esempio, hanno accolto il Papa come capo di stato, o come vescovo di Roma, ma non come primate della cristianità, nella misura in cui il
Papa non abdica alla sua funzione di primate della cristianità. È quindi inutile che ipotizzi un dialogo con le altre forme di cristianesimo. Anche in merito al perdono che il Papa ha più volte invocato: anche questa mi pare una sceneggiata un po' comica, perché si chiede perdono degli errori che la Chiesa ha commesso di fronte a contenuti ormai incontrovertibili, come la fisica galileiana o l'evoluzione darwiniana. Però si continua a strillare nei confronti delle scoperte scientifiche attuali. E allora da questo punto di vista è chiaro che se si chiede perdono di ciò che è universalmente ammesso significa riconoscere in qualche misura che le posizioni non sono più difendibili. Quando poi si chiede perdono si prevede anche, oltre alla richiesta, una conversione, cioè un cambiam ento di atteggiamento, che però di fatto non si verifica, nel senso che l'atteggiamento della Chiesa rimane comunque «io sono la verità assoluta>>, e se sono la verità assoluta è chiaro che tutti gli altri non sono nella verità. Pensare di ipotizzare un dialogo con le altre religioni partendo da queste premesse significa negare il dialogo in anticipo e fare semplicemente delle dichiarazioni di buona educazione o di cortesia rispetto alle altre religioni. Dopodiché dobbiamo considerare anche che la Chiesa non è un evento 29
esclusivamente monolitico, presenta moltissime sfaccettature. Il mondo del clero diocesano non è il mondo monacale, il mondo monacale non è il mondo della briosità dei Francescani, i quali si presentano sempre come soggetti allegri, come soggetti che incarnano la misericordia e che però civettano anche con il potere, inevitabilmente, perché ogni situazione può reggere solo se ha buoni rapporti con il potere. Ma il problema è un altro. Una volta ero a una conversazione a Firenze tra Paolo Rossi e padre Balducci. Paolo Rossi da buon ateo dice a padre Balducci: «Se tutti i preti fossero come Lei diventerei anch'io cristiano». Padre Balducci gli rispose: «Non si confonda professore, noi siamo spo rtelli differenziati della stessa banca». Per dire che la differenziazione della Chiesa è una modalità un po' subdola per catturare diverse sensibilità all'interno però del suo blocco monolitico (<
cattolico. Il quale, a sua volta, può essere indotto a una sorta di doppia coscienza, nel senso che le proibizioni, i peccati segnalati dal pulpito, vengono poi perdonati nel confessionale e così si i m para a trasgredire con l'assoluzione, che è quanto di più nefasto per la formazione della coscienza. Il mondo francescano, poi, recita la letizia fino alla sua esasperazione, nel senso che prende alla lettera forse quella frase evangelica «Se non sarete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli». Il ,che però presuppone che esista un Padre provvidente, il quale, qualunque cosa accada, risolva i problemi. Io resto dell'idea di Platino: se Dio è sceso in terra certo non è sceso .per starei vicino. Essere lieti dopo aver guardato alle sorti del mondo, manifestare la letizia nella fo rma dell'esaltazione, significa essere sostanzialmente inconsapevoli di quanto sta accadendo in questo mondo. Questo sarà poi anche un verso che la Chiesa cattolica fa alla new age, visto che sta acquistando molto credito nelle coscienze so/t della gente. Io chiamo gli uomini della new age le «parabole» che si dispongono di fronte a luoghi sacri, allargando le braccia e muovendosi come parabole televisive nel tentativo di catturare l'armonia cosmica in modo che diventi
anche armonia interiore. Ma tutte queste sono figurazioni di pace e di letizia che possono avere una loro lcggibilità alla sola condizione che vi sia una rimozione radicale del dolore del mondo.
Amori senza età
Sono sempre più frequenti gli amori senza età, coppie o matrimoni dove fra i due partner ci sono ventt; trenta e persino quarant'anni di differenza. 11 fenomeno non è certo nuovo, in O?,ni epoca storica ci sono stati casi del genere. Ciò che tuttavia sorprende oggi è la dz/fusione sociale del fenomeno; oltre al /atto che in molti casi è la donna ad avere l'età maggiore. Come cambiano dunque le relazioni amorose (la coppia e la famiglia) nell'età della tecnica? La famiglia è stata (ed è ancora) il cardine di riferimento, la struttura sociale più solida. Ma lo è sostan:dalmente dal punto di vista dell'organizzazione e dell'economia, non certo della gestione dei sentimenti. Questo lo vediamo già nei ragazzi che non si educano sentimentalmente in famiglia, anzi, il loro atteggiamento in famiglia è sovente di silenzio; non possiamo quindi pensare alla famiglia come a un luogo di educazione sentimentale. L'età della tecn ic a ha inoltre brucia33
to i tempi della formazione dei sentimenti, perché ha portato (o ha indotto) ciascuno a raggiungere il più velocemente possibile lo scopo, ovvero la meta sessuale, e quindi ha bruciato il tempo della formazione sentimentale. Ma soprattutto l'età della tecnica ha tolto la categoria del senso della vita. Un tempo la categoria del senso era leggibile in un andamento tutto sommato precodificato: si nasceva, si cresceva, si lavorava, si generava, si invecchiava e si coglievano le soddisfazioni della vecchiaia, che di solito arrivava a sessant'anni. Il senso della vita era d unque un senso comunitario, codificato, uno moriva in qualche modo sazio della vita. Oggi invece, attraverso la velocizzazione del tempo, e attraverso l'abolizione di tutti i sensi, di tutti gli scopi - perché la tecnica è un universo di mezzi che insegue solamente il proprio potenziamento in vista di nulla -, ecco che resta un vuoto di significato nella vita delle persone. Il vuoto lo si può riempire o attraverso la cultura, o attraverso le emozioni. La cultura è un itinerario impraticabile per chi non si è allenato da ragazzo e allora non resta che la strada delle emozioni. Per cui questi fidanzamenti senili, queste pratiche amorose tra giovani e vecchi, rispondono piuttosto alla disperazione del vecchio che aveva impiegato tutta la vita 34
nell'affaccendarsi per realizzare posiZIOni e situazioni sociali, ma a un certo punto si trova nel vuoto e tenta allora di recuperare quello che ha trascurato per tutta la sua esistenza: il mondo emozionale. Resta da chiedersi perché i giovani si trovino bene con i vecchi. La risposta potrebbe essere che la società della tecnica, fortemente individualista e fortemente menefreghista delle sorti degli individui, non protegge, e quindi tutte le persone che hanno un minimo bisogno di protezione trovano nell'accoppiamento con una persona matura la soddisfazione di questo bisogno che determinerebbe, se non appagato, precarietà e angoscia. Quindi di tutto si tratta fuorché di amore, ma di soddisfazione di bisogni reciproci: nel vecchio il bisogno di un'emozione mai vissuta; nel giovane il bisogno di protezione difficilmente reperibile fuori da quella relazione. Naturalmente sono due inganni. Innanzitutto perché non è vero che la scienza ha allungato la vita, la scienza ha allungato la vecchiaia e i corpi vecchi non sono corpi giovani. Per cui si creano queste relazioni di coppia, ma vorrei sapere se si traducono anche in vicende sessuali. In secondo luogo se il bisogno di protezione costituisce la molla dell'amore, allora si tratta di un amore che si rivolge a 35
tu tela delle proprie défaillance e delle proprie debolezze: non è qualcosa che investe l'altro. L'amore resta fisiologicamente quell'evento che va dai quindici ai venticinque anni, credo agli amori solo se sbocciano in quell'età in cui l'io non è abbastanza formato e rigido per potersi contaminare con un altro io. Dopo quell'età (allunghiamola fino ai trent'anni!) non si tratta più di vicende d'amore, ma di soddisfazione di bisogni o cautela da terrori. Un'altra componente che può promuovere questi amori, che io continuo a considerare disperati, può essere anche una difesa strenua nei confronti della depressione. Quando si diventa vecchi il passato acquista un'incombenza che non rilancia più l'esistenza; pur di non perire e di non spegnersi in uno stato depressivo s'inventano allora disordinatamente (e anche un po' comicamente) situazioni di entusiasmo che sono riprese di memorie adolescenziali, agite però quando non si ha più l'età. L'amore finisce col configurarsi come un antidoto, una medicina contro la depressione. Dopodiché tutte queste figure io non le condannerei, siccome la vita è una cosa terrificante ciascuno si salva come può. L'importante però è tener ferme le definiZIOni. Non chiamiamo amore le difese dalle
nostre paure o la soddisfazione dei nostri bisogni. L'aspetto più inquietante è che non c'è una crescita. Si continua sul modello originario dell'amore verticale (quello del figlio con la madre o della figlia con il padre) e si prosegue su questo andamento senza rischiare un rapporto orizzontale che è necessariamente e inevitabilmente un rapporto più rischioso perché non incondizionato.
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Divertenti a tutti i costi
L'imperativo è: divertenti a tutti i costi-' in trasmissioni televisive o radio/oniche, al cinema, in occasioni mondane o nei villaggi turistici imperversano le battute (non di rado battutacce). Il cabaret, che fino a non molti anni/a era considerato un genere per pochz; oggi prolz/era un po ' ovunque. In ogni occasione l'imperativo è far ridere, divertire il pubblico.' Una questione: questo fenomeno è l'esito di un linguaggio finalmente liberato dai dogmi della politica o della religione? Oppure è diventato uno stile, una moda, e /orse un modo di dewadare qualsiasi/atto o persona? Una volta andavo in televisione e mi concedevo anch'io delle battute, perché mi ero reso conto fin dall'inizio che i media non possono pensare. Non possono pensare perché il medium è l'immagine, e l'immagine è una folgorazione, non può ospitare il tempo della riflessione. Quindi andare a parlare alla televislOne significa immediatamente non poter
pensare, non dover pensare, non produrre parole pensate, perché lo strumento è antitetico alla condizione della riflessione. Qualcosa di più rappresentava la radio, per cui a un certo punto ho abbandonato la televisione e sono andato alla radio perché concedeva maggiori spazi d i riflessione. Poi anche la radio è diventata un luogo di battute frenetiche e anche abbastanza stupide, non vedo tutta quella gioia, quell'ilarità che si propongono di produrre. Il problema è dunque il seguente: cosa vuol dire che gli strumenti audiovisivi devono sostanzialmente far ridere? Per me questo è uno stigma dell'impotenza di ciascuno di noi. Nel senso che, dal momento che nessun individuo può cambiare il mondo, dal momento che nessun gruppo, ne ssuna associazione, nessuna configurazione sociale può trasformare alcunché, allora ridiamo. Mi viene in mente Franceschiello che continuava ad aumentare le tasse al popolo di Napoli. Cosa dice il popolo? Il popolo si lamenta. Cosa ·dice il popolo? Il popolo si propone di fare la rivoluzione. Cosa dice il popolo dopo il terzo aumento? Il popolo ride! Allora il riso è proprio il sintomo dell' impotenza, sia di colui che parla, nei media, s1a di colui che ascolta. Si ride perché non 39
abbiamo nessun'altra possibilità di espressione o di trasformazione del mondo. Da un lato i media ci hanno allargato il mondo, nel senso che oggi non abbiamo più a che fare con il nostro mondo-ambiente, ma con i confini del mondo e per la prima volta nella sLOria siamo contemporanei; d'altra parte io non posso addossarmi tutto il dolore del mondo; non posso neppure sensibilizzarlo, perché il mio sentimento ha una gittata corta: se muore un mio familiare piango, se muore un mio vicino di casa faccio le condoglianze, se muoiono mezzo milione di tutsi è solo una notizia televisiva. I media dunque mi allargano il mondo c mc lo offrono a una sensibilità che resta ancora antropologica, quindi corta nello spazio c nel tempo, incapaci come sono di assumersi la responsabilità del prodotto te levisivo che ormai è diventato cosmico. Quindi implodo in una sostanziale indifferenza o in una sorta di gaiezza di battutacce tragiche, perché dopo aver ascoltato una trasmissione radiofonica o televisiva a sfondo cabarettistico non credo che si venga colti dalla gioia, ma semma i dalla depressione. L'impossibilità di riDettere è dunque il primo elemento che induce alla versione cabarettistica dello strumento televisivo e
radiofonico; un secondo elemento può essere la componente della distrazione, cioè un antidoto alla depressione: la distrazione dai dolori personali e dai dolori del mondo. Distrazione nella forma: ottundo il mio cervello all'unico scopo di trovarmi nella condizione di non dover pensare, perché non posso pensare. Penso che noi ci stiamo avviando molto velocemente verso una cultura dell' impossibilità di pensare. E questo non lo dico in modo tragico o catastrofista. Ricordo che negli anni Sessanta televisione e radio facevano dci programmi culturali, penso alle tragedie greche, per es e m pio, che oggi nessuno si sognerebbe di mettere in circolazione per ragioni di audience. Oggi invece funziona questa cultura dello «Stordimento discorecaro». Sono luoghi di non comunicazione: non si comunica nelle discoteche, non si comunica per radio, nonostante l'esplosione delle telcronatc, non si comunica attraverso le trasmissioni televisive, perché il fenomeno è sempl icemente quello dell'apparire, ci si trova quindi nella cultura del divertimento come ottundimento. Non solo non sai pensare, non solo non si offrono le occasioni di pensiero: addirittura azzeriamo l'organo del pensiero che è il cervello, buttandolo nel frastuono. Questo mi
pare un processo irreversibile, tipico delle nostre c ulture mediatiche, dove il bacc ano, il rumore, diventa la componente fissa.
Guerra con tro il vizio del fumo
Dagli Stati Uniti all'Europa è guerra senza quartiere contro il vizio del fumo. Mentre si portano sul banco de?,li imputati le multinazionali del tabacco, l'europarlamento di Strashurgo ha approvato norme severissime: meno nicotina, abolizione della scritta «lzj!,ht>>, più spazio alle avvertenze dissuasive, divieto di vendere tabacco ai ?,iovani minori di sedici anni. Il divieto di fumare verrà esteso in pratica a tutti i luoghi pubblici. Per i viziosi sarà dunque vita difficile. Eppure nessuna epoca storica è stata esente da vizz~ La crociata contro il vizio del fumo su[!,!!,erisce dunque una questione: la scienza (la scienza medica) è portatrice di una sorta di neoproibizionismo? Senza vizi gli uomini non possono vivere perché ciascuno di noi ha in sé una componen te di autoconservazione come pure una d i autodistruttività. Il vizio ha certo degli effetti di stru tti vi, ma ha anche degli effetti di conforto, nel senso che i vizi piacciono, è inutile negarlo, consentono di vivere in una maniera 42
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immaginificamente più confortante. Bisogna sottolineare inoltre che da quando gli uomini hanno perso il loro senso religioso e soprattutto la fede nell'immortalità dell'anima, hanno incaricato il corpo di esprimere tutti quei valori che un tempo erano dello spirito: se prima il vizio era rubricato nella formula del peccato, adesso lo è in quella del danno fisico. Il corpo è diventato insomma il santuario ideologico che ha sostituito l'anima e le virtù; e i vizi dell'anima sono diventati i vantaggi e gli svantaggi dell a salute del corpo. Contro questa identificazione religiosa della medicina non esito a dire che oggi medici e scienziati della biologia e delle biotecnologie sono diventati i nuovi sacerdoti. Ho in proposito delle grosse riserve, nel senso che non ritengo corretto attribuire valori spiritual i a quelli che sono semplicemente valori medici e scientifici. Uno può, non dico decidere della propria vita, ma perlomeno salvaguardarne il principio di distruttività che c'è in ciascuno di noi e che qualche forma la deve pur assumere. È inutile pretendere che si viva esclusivamente per un prolungamento biologico perfetto, per una sorta di quantitativo biologico da portare intatto al termine della nostra esistenza. Non mi interessa una vita quantitativamente sana, m1 44
interessa una vita piacevole. Bisogna dunque decodificare la componente religio sa che è stata applicata alla medicina, come pure la traduzione della categoria della salvezza nella catecroria della salute. Perché ciò porta un n carico scmantico di colpevolizzazione eccessiva e soprattutto impropria. Contro la sacralizzazione del corpo preferisco allora la configurazione spirituale del vizio c della virtù , dove posso settimanalmente essere perdonato; se Dio perdona sembra invece che la natura non perdoni. Il vizio del fumo? Penso che farà certo male, così come farà male l'inquinamento, e faranno male anche molte altre cose. Mi chiedo: com'è il sistema nervoso di quelli che non fumano? E il loro stato di salute? Demonizzare, creare un oggetto fobico, realizzando il quale si pensa di essere immediatamente in salute, mi pare un atteggiamento puerile. Le droghe esistono innanzitutto perché producono piaceri, e so prattutto perché momentaneamente riducono l'angoscia. Il problema è allora di chiedersi come mai c'è un assillo e una componente di angoscia così grande, al punto di dover ricorrere alla droga, che è la massima forma di ottundimento. L'interrogazione deve quindi avvenire sulla base non del «perché la droga» ma del «perché 45
l'angoscia». L'angoscia è facilmente reperibile in un universo sostanzialmente destituito di senso come quello occidentale, dove gli unici valori sono l'efficienza, la produttività e l'escalation sociale, c dove è chiaro che io mi trovo inadeguato rispetto agli standard di esistenza e di riconoscibilità che mi sono richiesti. Devo sempre essere all'altezza: se una droga aiuta, affidiamoci pure alla droga! Con la parola droga pensiamo solamente alla coca ina, all 'eroina, e non pensiamo per esempio agli psicofarmaci, che sono delle effettive droghe. Lavorano sulla seroton in a, lavorano sui ncuroni, più o meno producono, sotto controllo medico, quello che fanno disordinatamente le droghe. Tra questo «fai da te» farmacologico, questa autogestione dei propri umori e questi robot chimici ch e sono le persone che utilizzano la farmacia come se fosse una d ispensa di buona salute, davvero non troverei nessuna differenza. C'è da aggiungere poi un'ultima osservazion e in merito a un altro diffuso vizio, l'alcool, che rientra nella nostra tradizione e non è quindi percepito come droga. Un'altra ragione è che l'alcool è interdetto nel mondo islamico, e la secolare contrapposizione tra cristiani e islamici fa sì che questa parola (di origine araba, come tutte le parole che incominciano
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Viaggiare senza andare lontano
L 'estate è tempo di vacanze e di viag,!!.i. Ma la P,rande industria del turismo /inùce con il proporre viaggz; anche in paesi lontanz; dove il turùta è sempre più confrontato non con la diversità, ma con l'identico: ovvero la stessa lz'ngua, la stessa cucina, lo stesso comfort: tutto dev'essere insomma come a casa prorpia. La promessa è sole, mare, piscine e tanta felicità-' Com 'è cambiato il modo di viaf!j!,iare? La gente viaggia (diceva Orazio: «Non è cambiando il cielo che si cambia animo») probabilmente per un bisogno di evasione, per dare una scossa alla propria condizione psicologica. Evasione vuoi dire «uscir fuori», ma non mi pare che nei viaggi si esca davvero fuori, per quanto noi (come occidentali) abbiamo la pretesa di poter andare da qualsiasi parte. Non so se questa pretesa cc l'abbiamo davvero; voglio dire: tu sci uno che va nello Yemen, ma cc l'hai veramente la possibilità di andare nello Yemen, inteso come capacità di acculturarti, di integrarti con l'ambiente, di
vivere gli usi e costumi del luogo, di mangiare le cose che lì si mangiano, di parlare con quelli che lì vivono? Oppure sei semplicemente un <? Estendiamo la figura del «voyeur» ormai anche a tutte le forme di viaggio; viaggio che poi si configura semplicemente come un transito da un luogo a un altro, dove il secondo deve avere le stesse car atteristich e (occidentali) del primo, lasciando perdere tutto lo spazio intermedio, che è lo spazio degli «interluoghi», per cui i viaggiatori «voyeun> si spostano da un posto all'altro ma non viaggiano, perché viaggiare significa un'altra cosa. Viaggiare significa percorrere territori e incontrare luoghi continuamente diversi c prendere decisioni: incontro la montagna e devo trovare il mondo di aggirarla, incontro il fiume e devo trovare il modo di oltrcpassarlo, incontro la notte e devo trovare il modo di difendermi, incontro un altro, che è per davvero un altro, e devo trovare la maniera di intendermi. Se tutto ciò non avviene, non sto facendo un viaggio, sto facendo spostamenti. La figura del viaggiatore, com'era realizzata una volta e come oggi non lo è più, può diven tare invece una figura simbolica molto interessante, per una forma di etica, l'unica possibile oggi, che io chiamo l'e tica del viandante. 49
Perché noi ci troviamo, nella nostra cultura, a dover prendere continuamente posizione di fronte a novità che non erano previste e quindi moralmente non codificate. Pensiamo alla clonazione, pensiamo alla fertilizzazione, pensiamo a tante novità scientifiche che ci vengono scodellate giorno per giorno, di fronte alle quali dobbiamo continuamente prendere posizione. Il viaggiatore (mi pare molto emblematico) prende posizione in ogni difficoltà del viaggio, in ogni imprevisto, mentre noi non facciamo più viaggi imprevisti. Sono viaggi prenotati, previsti e prevedibili, e come tali non sono viaggi. Perdiamo così una bella metafora che è quella della presa di posizione della decisione sul contingente imprevisto. Noi occidentali oggi non siamo assolutamente preparati all'imprevisto, perché viviamo una vita molto codificata, viaggiamo proprio per venir fuori dalla noia del previsto, naturalmente non incontriamo l'imprevisto perché non siamo attrezzati, non ne abbiamo neppure la capacità psichica, e perdendo questa metafora del viaggio che potrebbe diventare davvero un simbolo dell'etica contemporanea, perdiamo un altro territorio, una risorsa umana che potrebbe invece essere molto utile al nostro tempo. 50
Prima dicevo che non so se gli occidentali hanno davvero il diritto di andare in tutti i posti del mondo. Innanzitutto ci vanno per trovare le cose che desiderano e che qui non hanno per ragioni stagionali, e allora le trovano là e vanno là . Ma qual è questa condizione privilegiata dell'occidentale, che può andare ovunque mentre sappiamo tutti che gli altri popoli non possono fare viaggi? Oggi potremmo addirittura dire che le merci sono molto più libere degli uomini, perché possono viaggiare ovunque, mentre non credo che un rumeno o un alban ese possa permettersi Ji fare un bel viaggio in Italia. Questa situazione di disparità a me mette disagio. Perché noi occidentali abbiamo il privilegio di viaggiare, di evadere, di essere capaci di movimento, di conoscenza? Perché abbiamo il denaro. E allora bisogna dirlo: il viaggio è una succursale del denaro, il denaro è una succursale del nostro desiderio, purtroppo noi abbiamo un desiderio rattrappito che desidera le solite cose che abbiamo sempre. Del viaggio perdiamo dunque l'ultimo scrigno segreto che potrebbe offrirei: lo spaesamento. Lo spaesamento è una condizione dell'anima, per cui io metto in questione i miei canoni psichici, intellettuali, le
mie stesse ahiLUdini e provo a rivisitarli alla luce di una situazione dislocata. Noi invece non ci spaesiamo, perché anche quando viaggiamo entri amo in un paesaggio che è la fotocopia di que1lo che abbandoniamo e a cui ritorneremo.
Credere
La morte: per i religiosi (di qualsiasi confessione) sep,na il passaggio a un mondo mz~liore. Per gli atei viceversa è la fine di ogni cosa. Ma relz~iosi e pro/ani/iniscono con l'assomigliarsi in quanto per entrambi vi èun tratto fondamentale che si riassume nel verbo <
in ogni caso morire. Cosa significa questo? Che la morte è l'implosione di ogni senso che ho dato alla vita. Poniamoci nella prospettiva di coloro che non credono nell'immortalità. Come osserva giustamente Nietzsche (e prima di lui Goethe), l'uomo può vivere solo se è in grado di conferire senso; ciascuno di noi cerca di dare un senso alle proprie cose, questa è la condizione della nostra vita. La morte è l'implosione di ogni senso. Quando Nietzsche avverte questa contraddizione la eleva a culmine della tragedia. La tragedia è la consapevolezza che la vita è possibile solo come senso, in vista della morte che è l'implosione di ogni senso. Dice Nietzsche «incipit tragoedia>>; e Satira dice a Re Mida: «Meglio per te non esser nato»; una volta che hai scoperto questa verità la cosa migliore che ti possa augurare è di morire presto, di chiudere questa contraddizione che la vita è possibile solo come senso, in vista dell'implosione di ogni senso. I greci avevano una consapevolezza enorme della mortalità dell'uomo, tant'è che non lo chiamavano mai uomo, ma sempre mortale: era mortale l'uomo rispetto all'immortale che era il divino. Avevano dunque il senso del limite. Aristotele diceva: «Chi non conosce il suo limite, tema il destino>>, guai a prevaricare, 54
guai alla tracotanza, guai a oltrepassare il limite! Era una società dove il concetto di morte regolava l'etica. Se sei mortale sei finito, non compiere azioni eccessive, conosci il limite, non trasgredire! I trasgressori, coloro che oltrepassavano i limiti, erano gli eroi tragici. Dice Nietzsche: «La grecità sarebbe implosa se non avesse avuto una speranza»; e allora ecco Platone che introduce il concetto di anima, che è l'espediente in qualche modo dell'immortalità. Un'anima che non ha lo spessore dell'anima cristiana, è un'anima più come luogo della verità che come luogo della salvezza. Per i greci infatti non c'era un peccato originale da cui bisognava redimersi e poi salvarsi. C'era quindi una certa economia dell'uomo come animale finito nelle sue azioni, il quale può avere una speranza che tuttavia non garantisce assolutamente una vita ultraterrena. Per i cristiani invece il desiderio di immortalità è diventato infinito, anzi io sono convinto che il successo del cristianesimo è consistito esattamente nell'aver promesso speranze ultraterrene, rispetto alla cultura precedente che di speranze ultraterrene non ne aveva in nessun modo. Oggi ci troviamo invece nell'età della tecnica che ha depotenziato tutto il mondo della religione, perché la tecnica c1 55
consente di raggiungere, da noi, le cose che un tempo chiedevamo a Dio. Questa seco larizzazione della religione e questa sua sparizione (la morte di Dio di Nietzsche), ha il senso di affermare che Dio non è più la chiave interpretativa del mondo, perché altre sono le chiavi. Dio è morto; ed ecco che si ripropone il tema della morte in termini molto più drammatici di quanto non fosse nel contesto religioso, dove la morte era comunque un passaggto. La differenza tra l'ateo e il credente, la differenza radicale, qual è? È vero che entrambi credono (che ci sia una ulreriorità oppure che non ci sia), ma proprio per effetto di questa fede si modifica la qualità della vita. Perché colui che crede che c'è un'immortalità che magari si guadagna con il dolore, affronterà il dolore della vita in una chiave radicalmente diversa rispetto a colui che crede che il dolore non sia una caparra per l'aldilà ma se m plicemente una sofferenza che bisogna temere. È vero dunque che le due posizioni di chi crede e di chi non crede sono speculari, in entrambi i casi possiamo parlare di fede, ma la diversa qualità di questa fede modifica la qualità della vita. L'ateo è colui che costruisce un'etica del finito, che ron assume il dolore come caparra per la salvezza eterna, che vive nel suo limite e
concepisce la vita come mescolanza di gioie e dolori, accettandoli entrambi con estrema semplicità. L'atteggiamento è sostanzialmente quello greco. Quello cristiano, invece, prevede che il dolore sia una caparra per la salvezza, che la gioia verrà rinviata all'a ldilà e sotto questo profilo la capacità di consegna alla rassegnazione, all'accettazione del dolore è decisamente su peri ore rispetto a quella dell'ateo. G ià Marx faceva notare che la religione è l'oppio dci popoli, proprio per effetto di questa capacità di far tollerare il dolore in vista dell'aldi là; ma, diceva freud, anche a vantaggio di coloro che lo infliggono nell' aldiquà! Il p roblema del nostro tempo è che la morte c'è comunque, visualizzata come trapasso o come termine ultimo della mia esistenza. Come trapasso non è più accreditata come una volta, perché il mondo si è ateizzato e vi è oggi una diffusa capacità di pensarla come termine ultimo della vita (quindi la vita come riverbero di insignificanza). Mi pare che sia questo un motivo dilagante e tutto sommato anche il sottosuolo dell'atteggiamento depresso dell'occidentale.
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Il fallimento della modernità
Libertà, e[!,uaglianza, fratellanza: i tre principichiave della modernità (grande conquista della Rivoluzione francese, e chiave di volta delle democrazie occidentalt), paiono oggi particolarmente appannati. Per quali ragioni? Siamo soliti considerare la modernità come il tempo in cui si è cercato di far valere delle figure che la Rivoluzione franc ese ha indicato nelle parole libertà, uguaglianza e fra tellanza, guardando le sorti delle quali verrebbe da dire che la modernità è effettivamente fallita e io sono convinto che sia fallita. Se parliamo di libertà, già Marx aveva detto che la libertà cammina proporzionalmente alla quantità di denaro che si possiede, perché è chiaro che se io sono ricco sono più libero rispetto al povero. Ricordo che a Treviso avevo letto in un'osteria che se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria! La libertà è quindi pesantemente condizionata dall'economia.
Sull'uguaglianza si sono considerate due cose: l'uguaglianza degli uomini oppure l'uguaglianza per la soddisfazione dei bisogni. C i ha provato il comunismo e sembra che non ci sia riuscito. Il capitalismo non ci ha neppure provato, quindi l'uguaglianza diventa qualcosa che noi rivendichiamo di fronte a Dio post mortem. La fratellanza è un concetto che si è capito sempre poco, ma è invece il cardine degli altri due. Fratellanza vuol dire che io devo percepire l'altro (insisto su questa parola, perché l'altro è percepito come altro solo se lasciato nella sua alterità), lo devo percepire come mio fratello, come mio simile. D evo tuttavia !asciarlo nella sua alterità; mentre noi, oggi, quando siamo buoni, accettiamo gli altri solo nella forma dell' integrazione, quindi annullando la loro alterità: solo se tu diventi come uno di noi allora ti accettiamo! Neghiamo quindi l'alterità. La negazione dell'alterità è la negazione della differenza (e anche la negazione di una ricchezza). L'alternativa è: rifiutare l'altro. Si potrebbe dire: dimmi come accetti (o rifiuti) gli altri e ti dirò chi sei. Il problema della fratellanza (e del suo rovescio, l'alterità) è il riconoscimento dell'alterità, che viene recepita da noi solo sotto il profilo della sofferenza. Ci mobilitiamo quando gli altri soffrono. 59
Ridurre tuttavia il problema dell'alterità a quello della soH"erenza significa che con la parola fratellanza (e con il rispetto dell'alterità), percepiamo solam ente un prob lema assistenziale c non un problema di riconoscimento. La questione del riconoscimento è un problema classico, fondamentale, identificatorio, che identifica la condizione umana. Hegel dice che gli animali si aggrediscono per fame, gli uomini si aggrediscono per riconosc imento. Vogliono essere riconosciuti. Se il riconoscimento è il fondamento della mia identità e la mia identità viene sa lvaguardata dal riconoscimento dell'alterità, mi pare che il problema della frate llanza (che è il luogo, la forma, il terreno in cui accade il riconoscimento dell' identità e dell'alterità e quindi della fratellanza), sia un tema che si propone in maniera minacciosa in questo tempo. È inutile fare leggi razziali, sarebbe come pensare che un romano poteva difendersi dai barbari facendo delle leggi di esclusione! I processi di globalizzazione portano in evitabilmente al la global izzazione anche degli uomini. Questa è dunque una questione che pende minacciosamente sulla nostra testa di occidentali, difesissimi dal punto di vista tecnico, ma difesi da uno stru mento che, per quanto potentissimo, è anche fragilissimo. 6o
La tecnica potrà infatti risolverei molti problem i, ma non quello etico del riconoscimento dell 'altro, che sarà la condi zione della pace futura. Il fa llim ento di questi tre concetti rimanda allora a un altro fallim ento, o meglio, più che fallimento a un'altra fine , quella che io considero la fine dell' umanesimo. In che senso( Lihertà, uguaglianza e fratellanza sono tre categorie che prevedono un'etica a misura d'uomo. La mia persuasione è che l'uomo oggi non è più interessante, dal punto di vista degli apparati tecnici, che sono i veri regolatori della nostra cultura, perché la tecnica individua l'uomo esclusivamente come suo funzionario. Noi lo sappiamo e soffriamo di andare a lavorare per esempio in cooperazioni che sono già previste dall' apparato e dove la nostra individualità conta pochissimo, per cui il nostro riconoscimento, troppo logico, è nullo. L'uomo oggi non c'è più perché percepito so lo come funzionario dell'apparato tecnico. Nei confronti della tecnica abbiamo un atteggiamento molto ambivalente. Da un lato la temiamo, dall'altro la rincorriamo perché è diventata la cond izione della nostra esistenza. Noi occidentali siamo uomini assistiti dalla protesi tecnica. Questa ambivalenza si riflette 61
anche nei nostri giudizi abituali, quando succede per esempio un disastro ferroviario diciamo che c'è un errore umano che dovrà essere eliminato attraverso l' intervento tecnico. Quindi concepiamo già l'uomo come un errore, già a livello di senso comune, di sensibilità popolare. Ora io sono persuaso che l'uomo come l'abbiamo conosciuto non c'è più. Queste tre parole, libertà, uguaglianza, fratellanza, cedono perché è ceduto il soggetto. L'uomo non è più colui che governa la storia: egli è governato dagli apparati tecnici, i quali non hanno come scopo di far star meglio gli uomini, perché l' unico scopo della tecnica è il . . propno potenzlamen to. Il fa llimento dell a modernità è dunque la chiusura della vicenda umana, nel senso dell' «homo homini s» che abbiamo conosciuto per 2500 anni di storia: prima di allora non c'era l'umanesimo, oggi non c'è più l'umaneSlmo.
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La crisi della psicanalisi
La psicanalisz; dopo aver compiuto la bella età di cento anni (dalla pubblicazione de/l'Interpretazione dei sogni, il saggio di Freud unanimemente conszderato il suo atto di nascita) appare come una disciplina in crisi. Sempre meno sono i pazienti disposti ad affrontare il lavoro analitico. La farmacologia appare a molti un rimedio più facile e meno costoso. C rande successo hanno le psicoterapie brevi e finalizzate a trattamenti Jpecifià E così la scienza dell'inconscio, come la definiva Freud, sopravvissuta al nazùmo, rischia di non sopravvivere all'età della tecnica. Per quali ragioni? Lo scopo della psicanalisi era fondamentalmente la conoscenza di sé, cioè la psicanalisi è una terapia che guarisce. M a cosa vuol dire guarigione nel contesto psicanalitico? Guarigione vuol dire che devo arrivare a me stesso al di là di tutte le incrosrazioni che ho ricevuto dal mondo parental e, da l mondo sociale, dalle esigenze degli altri. Se arrivo a me stesso e conosco quel che sono posso
anche piegarmi e assecondare le esigenze degli altri, ma con consapevolezza. La guarigione psicanalitica consiste nella guarigione di sé, come dice Freud; o nel diventare se stessi, come dice Jung. Cose che peraltro aveva già detto Nictzsche: diventa ciò che sei! Il problema, oggi, è questo: alla tecnica interessano degli uomini individuati? Interessano degli uomini che conoscono se stessi? Io penso di no, perché alla tecnica interessano uomini seriali, sostituibili, abbastanza simili, perché in un processo di azioni già in qualche modo previste dagli apparati, l'individuazione è un elemento di disturbo. Quindi ciascuno di noi cercherà sempre meno di individuarsi quanto a specificità umana, e di farsi notare invece sempre di più nella sua coerenza alle attese degli apparati. Ne conseguono processi d i falsificazione di ' personifica%ione, che già Marx indicava. Persona vuoi dire maschera, io indosso la maschera sociale e anche la maschera d'ufficio ogni volta che vado a lavorare; mi produco in un linguaggio previsto dalla mia organizzazione, se vado in banca parlerò un linguaggio bancario e non un linguaggio umano, perché se parlo un linguaggio umano compio delle deroghe. Quindi è la tecnica stessa che m1 Invita a non essere me stesso, ma a essere
conforme all'apparato. Esercitandomi per cinque giorni alla settimana a essere conforme all'apparato, dimentico mc stesso; c'è quindi una sorta di riduzione della conoscenza di sé e una certa angoscia a iniziare un percorso di conoscenza di sé. Preferisco seppellire l'angoscia con dei farmaci, o con degli ottundimenti, o con delle feste, o con delle distrazioni, piuttosto di pervenire a uno sguardo su me stesso. A questo si deve aggiungere che una volta le psiche degli uomini erano molto difierenziate, perché ciascuno faceva un'esperienza differente del mondo. Oggi per fare esperienza del mondo, invece di uscire di casa, dobbiamo tornare a casa, accendere la televisione e la nostra anima viene rifornita dallo stesso mondo. Tutti siamo riforniti dallo stesso mondo, diventiamo quindi più omogenei e anche coloro che non accendono la televisione finiscono per sapere quello che gli altri sanno. Questa omogeneizzazione fa sì che quando due si incontrano non abbiano sostanzialmente nulla da dirsi. La psiche diventa un evento molto superficiale, soprattutto ci si difende dall'introspezione di sé. Al posto della psicanalisi subentrano pra tiche terapeutic he sviluppatesi sotto il segno del comportamenusmo e del
cognitivismo, dove se hai un' idea di storta rispetto all'ambiente sociale è meglio che la modifichi, se hai un comportamento deviante è meglio che te l'aggiusti: si tratta insomma di psicologia dell'adattamento e non di psicologia della conoscenza di sé. Siccome la tecnica non è qualcosa che ci passa a fianco, ma è il mondo in cui viviamo, questo mondo impone le sue leggi c per sopravvivere non possiamo che adeguarci. Ciò comporta la morte dei processi di conoscenza e l'incremento dei processi di adattamento. Naturalmente la fine dell'uomo come individuo e come curioso di sé comporta anche la fine della psicanalisi, perché conoscere se stessi non è una curiosità come le altre, è un percorso interiore che implica delle difficoltà in ordine alla qualità delle scoperte che si vengono a fare rispetto all'immagine di sé che si vorrebbe e che gli altri vorrebbero da noi. Io credo che questo tipo di percorso diventerà sempre più raro, per la semplice ragione che se l'uomo conta più per la sua prestazione che per quello che è (quando per esempio ci si trova in una riunione e uno mi dice il nome non mi dice niente, se mi dice que llo che fa incomincio a orientarmi), se c'è questo spostamento dall'essere al fare, allora è chiaro che nessuno è portato alla conoscenza di se, ma
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sarà sempre più attratto dalle proprie prestazioni, e di quelle avrà cura. Siccome la psicanalisi non ha cura della prestazione, ma dell'essere di ciascuno, la scienza dell' inconscio non può che ridursi ai margini come pratica di esseri che appariranno sostanzialmente eccentrici per la qualità della loro ricerca.
La comunicazione nell'era di internet
La rete comunicativa Ira persone e popoli si è infinita nep.,li ultimi anni come mai prima nella storia, soprattutto con la P,rande rivoluzione di internet. Nuove importanti trasformazioni sono annunciate a breve termine. Come internet e le nuove frontiere della comunicazione cambiano la qualità delle comunicazionifra le persone? Internet ha portato una rivoluzione in ord ine al pensiero, in ordine alla comunicazione e anche un po' di confusione tra parole che sembrano simili, ma simili non sono, come comunicazione e informazione. Mi pa re che l'elemento unificante tra il «prim a-inte rne t» e il «dopo-internet» sia la parola memoria. La memoria ha sempre costituito nell'uomo il fondamento della sua id e ntità, perch é se io non mi ricordo di me, se non ho me moria di me, non so più chi sono. Di consegue nza è il fondamento della tradizione d ella memoria di gruppo che consente a me che nasco di trovarm i in un ambiente con degli usi e dei 68
costumi che mi conferiscono un habitat c una dimensione. Questa memoria oggi noi la ritroviamo come categoria principale del mondo mediatico di internet. Solo che si tratta di una memoria come puro assemblaggio e accumulazione di dati, qu indi non più una memoria connessa alla qualità della mia id entità o alla qualità della mia vita, ma un magazzino dove io posso intervenire, assemblare, accumulare, togliere, espellere, adunare. Questo tipo di memoria è una disponibili tà, ma tutto ciò che è a disposizione prevede anche dei sogge tti che la sappiano utilizzare. Il soggetto, privato di pensiero, privato di identità, privato di memoria, si trova anche ad essere un soggetto molto elementare rispetto alla quantità di dati di cui può disporre. Siccome un magazzino è interessante non tanto per la quantità d i cose che possiede quanto per la capacità di utilizzare quello che si possiede, questo scarto è secondo me insupcrabile, perché andremo sempre di più verso un'accumulazione di dati ad opera di soggetti sempre meno capaci di disporne. Non vorrei che la gente pensasse che con internet si comunica di più, perché non posso chiamare comunicazione gli e-mail che si mandano; sono battute quelle, non sono
comunicazioni! La comunicazione prevede una relazione dove non c'è solamente il significato scritto di una parola, c'è la mimica, c'è lo sguardo, c'è quel doppio registro per cui le parole vengono confermate dalla gestualità c dalla mimica, o vengono trasformate dallo sguardo dell'altro. Per il resto si danno delle informazioni (arrivo l non arrivo; le cose sono fatte l non sono fatte, ccc.), che è altra cosa rispetto alla comunicazione. Soprattutto disponiamo di una possibilità di inform arci ben superiore alle cose che abbiamo effettivamente da dire. Non abbiamo una sensibilità c una produzione di pensiero grande come grande è il mezzo; abbiamo cioè un mezzo comunicati vo enormemente più ampio rispetto a quello che abbiamo effettivamente da comunicare. Un mezzo comunicativo di questo genere ci dà un senso di onnipotenza, ma questo non compensa l'impotenza del nostro pensiero, un pensiero che diventa sempre più povero, perché pensare non significa trasmettere velocemente dei dati, ma significa elaborare dei dati. Questo processo di elaborazione viene trascurato anche nelle scuole, anche nei processi di formazione dove non si forma l'uomo ma lo specialista. Qual è insomma il contenuto da comunicare? Il contenuto non ce lo dà il mezzo! )
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Dobbiamo considerare infine che il mezzo di comunicazione ci modifica, indipendentemente dall'uso buono o cattivo che ne facciamo: il solo fatto che io per comunicare usi internet mi modifica. Perché una cosa è comunicare con quel mezzo, a ltra cosa è comunicare guardandoci in faccia. Per cui i mezzi di comunicazione trasformano l'uomo indipendentemente dall'uso che se ne fa. Noi diventiamo una sorta di erem iti di massa, non dissimili da quelli che r5oo anni fa vivevano in Cappadocia, si ritiravano dal mondo nella loro grotta; loro per non vedere più il mondo, noi per non perdere neppure un frammento di mondo, ma con lo stesso solipsismo e con la stessa solitudine.
Pensare, esercizio obsoleto
L 'esercizio del pensiero è stato uno dei tratti fondamentali delle discipline umanùtiche. Imparare a pensare è quanto per secoli si è insegnato nelle migliori scuole e accademie, nobilissimo fine della pedagop,ia e della filosofia . Ma questi oggi sembrano principi ormai obsoletZ: Ciò che conta è l'acquisizione di una pratica, o di una conoscenza tecnica. L 'approfondimento del pensiero filosofico appare sempre più una disàplina superflua. Imparare a pensare sembra essere diventato un esercizio inutile. È un cambiamento epocale, che .regna il prevalere di una logica economica. Con quali conseguenze? La filosofia è stata superata dalla scienza, su questo non c'è alcun dubbio. Vediamo la qualità di questo superamento. La qualità consiste in questo, che la scienza è efficace, produce delle cose, crea mondi, mentre la filosofia contempla mondi. A questo riguardo non farei nessuna differenza fra la scienza e la tecnica. Nel senso che non considero la tecnica
un derivato della scienza, ma considero la tecnica l'anima della scienza. Perché lo sguardo dello scienziato non è mai uno sguardo contemplativo e disinteressato; è sempre uno sguardo che ha in vista la manipolazione del mondo c la sua trasformazione. Sarebbe come se in un bosco ci andassero un poeta e un falegname: non è lo stesso paesaggio che i due vedono! La filosofia è il poeta che va nel bosco, contempla il mondo, riflerte, pensa. Successivamente elabo ra un atteggiamento critico, c ioè si tratta d i vedere se l'esistente ha una sua legittimità, oppure serve interessi vari e merita di continuare a dirigere la storia, oppure se l'esistente debba essere modificato. Questo che noi chiamiamo «pensiero critico» è il tratto tip ico della filosofia. Oggi non ci troviamo più di fronte a un pensiero critico, ma a un pensiero specializzato. È questa la ragione per cui Heicleggcr ha c..! etto che la scienza non pensa perché l'uomo specializzato è l'uomo che non pensa in quanto segue procedure. Quello che a lui importa è vedere dove la procedura conduce. Quello ch e a lui importa è il risultato di una procedura, non la legittimità, l'opportunità, l'utilità, il vantaggio, lo svantaggio, i problemi che può creare, il risultato ottenuto da quella procedura. Infatti gli scienziati si proclamano sempre 73
innocenti. Lo stesso Ferm i, interrogato sul la bomba atomica, diceva: sì, mi sono reso conto di quello che ha fatto la bomba atomica, ma potevamo noi evitare questa ricerca c questa scoperta? Evidentemente no. E dunque la scienza, in quanto pensiero specializzato, produce l' aueggiamento mentale di chi non pensa criticamente, ma pensa produttivamente. Noi siamo passati da un pensiero critico, che è quello che ha caratterizzato l'umanità da duemila anni a questa parte, a un pensiero produttivo che produce delle cose, fa degli effetti, crea dei mondi, però non riflette sul senso di questi mondi. Questo è il tratto tipico del pensiero scientifico. Ora la mancanza di riflessione fa sì che noi raggiungiamo una condizione in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere e di valutare. Per cui ad esempio noi possiamo anche clonare gli uomini, ne siamo capaci, abbiamo la possibilità di farlo, ma non abbiamo nessuna capacità di valutare, di prevedere l' effetto di questa scoperta. Ci troviamo nella condizione in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere e valutare, sebbene l'atteggiam ento previsionale, la messa in atto di uno sguardo che consideri e valuti l'opportunità di fare una cosa piuttosto che un'altra, sia la condizione necessaria per 74
individuare una direzione c una guida in questo mondo. Questa situazione era già stata prevista da Platone, il quale diceva che le tecniche sono capaci di/are le cose, ma non sono capaci di ualutare \e cose. Per questo aveva ipotizzato che accanto alle tecniche e al di sopra di esse ci fosse la politica, il cui compito era quello di indicare i fini per cui le tecniche dovevano produrre i loro effetti. Oggi assistiamo invece al fenomeno per cui la politica non è in grado di indicare i fini alla scienza, semmai è succube delle scoperte tecnico-scientifiche, e le ricerche tecnico-scientifiche producono delle cose senza la possibilità di valutare l'opportunità o meno di produrle. In questo senso sostengo che siamo come su un'automobile senza pilota, che va a trecento all'ora e anche di più, senza la possibilità di un governo. Questo comporta anche un secondo risvolto: nessun giovane è indotto a pensare c ri ticamente e prevarranno le specializzazioni produttive. Per cui avremo sempre più un'uman ità specialistica, competente in ordine al suo oggetto e acritica circa \'opportunità ch e quell'oggetto debba essere al mondo oppure no.
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La società d ella depressione
Una psicoanalista francese, Élùabeth Roudinesco, ha recentemente pubblicato un saggio ' in cui so.1·tiene che l'uso indi.1·criminato di psico/armacz; unitamente a una concezione asettica e meccanicistica della psiche e dei rapporti umam; /avorùce il di/fondersi di una «società depressiva>> che cancella ogni sogge!lività. È una tesi condivisibile? L 'età della tecnica sarebbe dunque anche l'età della depressione? Oggi viviamo nell'era della depressione, con questo non si scopre nie n te, perché l' umani tà ha sempre avuto una patologia egemone rispetto a tutte le altre, in ogni epoca storica. All'epoca dei greci la patologia egemone era la mania, che è poi l'euforia c la malinconia. Gli euforici erano allora i pazzi del villaggio; c i malinconici i po e ti , i filosofi e via di seguito. Nell' età mod erna con Cartesio, dopo la scoperta del corpo, tutti sono diventati Pcrd,,: la f'JICana lrll, ftlitori R1uni1i. Roma woo.
ipocondriaci, cioè avevano paura d i essere ammalati. Il filosofo Hegel ha avuto nel corso della sua vita un episodio di schizofrenia di due anni, che definisce come anni d'ipocondria (in real tà si trattava probabilmente di una dissociazione mentale, da cui era poi guarito). Nel l'Ottocento l'isteria - che era poi il conflitto tra desiderio sessuale e divieto della sessualità - era diventata egemone. Dall'analisi di tale conflitto, poi approfond ito ed elaborato da F reud, è nata la psicanali si. Il Novecento è senz'altro il secolo della depressione. La depressione era già nota prima, non a caso abbiamo parlato dell'antica Grecia come dell'epoca che aveva individuato la malinconia. Tuttavia la depressione ha cambiato volto nel «secolo breve». Mentre prima la malinconia, nella sua forma più grave, era connotata dal senso di colpa, dal rifugio del soggetto in un passato caratterizzato da colpe considerate irrimediabili, oggi invece la depressione non nasce più da una cultura della colpa, tipica delle società molto normate, molto regolate, molto dirette da impianti etici. Si diffond e una nuova forma d i depressione co me ins ufficienza a raggiungere gli obiettivi che ci vengono assegnati: ce la farò? o non ce la farò? Ecco quello che si domanda il depresso quando incomincia a capire che non ce la 77
farà! Il depresso di oggi non si colpevolizza, se non in second a battuta: siccome non cc la faccio non valgo niente! La nostra società, ponendoci d elle mete molto elevate ri spe tto agli standard abituali , ed elevandoli sempre più, moltiplica le condi zioni d'insuccesso e quindi di disidentità e di d epressione. Questo fe nomeno va valutato con attenzione. La depressione del giorno d 'oggi è caratterizzata come forma di insufficienza. Una conseguenza immediata è che vi si pon e rim edio attraverso la farmacologia, cioè si assumono farmaci per essere all' altezza. I farmaci aumentano lo standard delle nostre prestazioni e quindi diventano in qualche modo complici dell'elevazione d e llo standard , per cu i il farmaco non rimedia alla depressione, ma la tampona, alzando il livello di prestazio ne, quindi creando la pre messa per un' ul tcriorc d epressione. Ma penso che il punto nodale sia proprio questo: la depressione ha cambiato forma, non più il senso di colpa, ma il senso di insufficienza, tipico di un passaggio da una società dell'obbligazione, dove c'erano dei grandi regolamenti e quindi d e lle ipotizzabili trasgressioni, a una soc ietà dove ci sono invece altissimi obiettivi c grandi in suffic ienze a raggiungerli.
Pedofilia, il d esiderio inconfessabile
Nessun argomento suscita tanta indignazione e solleva tanti rigurgiti rel!,ressivi quanto d constatare che la pedo/ilia - una delle molteplici /orme della perversione- è una realtà con cui/are i conti. Una realtà psichica e una realtà economica, dato che esiste un commercio sommerso sia di porno[!,ra/ia (che prolifica z·n internet), sia di sessualità minori/e. È curioso che persino la psicanalisz; che pure ha a lungo trattato ii deszderio del /i?,lio, si trovi completamente spiazzata dal desiderio incon/essabile del padre- e in certi casi anche della madre. Le ragioni di un 'aberrante perversione. Diciamo che la pedofilia è una condizione di relazione sessuale che c'è sempre stata nella storia. Non è una novità del nostro tempo. L a novità del nostro tempo è costituita dal fatto che da evento sessuale è diventata un evento economic o. Stando poi alle ultime vicende che si sono verificate, sembra anche una faccenda di diritti umani, nel senso che i pedofili o ra rivendicano il diritto 79
di esprimere il loro Jesiderio. La comprens ion e di questo fenomeno è davvero miserabile. Non c'è trattato di psichiatria o di psicanalisi che ne parli in una maniera diffusa o perlomeno esauriente. Anch'io, quando ho scritto il Dizionariodipsicologia', ho dedicato solamente una decina di righe al problema, mentre gli altri dizion ari neppure la nominano. Varrebbe la pena di fare una piccola distinzione: innanzitutto il termine è sbagliato, perché pedofilia vuoi dire «amore per i fanciulli», propensione che può benissimo tradursi anche in opere positive. Non avrei nessuna difficoltà a dire che don Bosco era un pedofilo. Ciò che la gente chiama pedofilia dovrebbe chiamarsi invece pederastia, cioè relazione sessuale-erotica con i bambini. È un sentimento non facile da id e ntificare. Ma se questo piacere è così scon osciuto, evidentemente è perché l'erotismo parla anche un altro linguaggio - e non è infrequente che la sessualità si presti a parlare un altro linguaggio. Anche nei rapporti cosiddetti normali la sessuali tà parla un altro linguaggio, che è il riconoscimento dell a propria identità, il riconoscimento della propria potenza. Direi che Prima edizione
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Torino
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199.Z.
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nella condizione pedofila il linguaggio che fiancheggia quello erotico è sostanzialmente la violenza, perché vi è una disparità enorme sia in termini di potere che di sapere, nel senso che l'adulto può sul bambino e sa molto di più del bambino. Perché la pedofilia è un fatto tanto grave? Perché un ragazzo <>. L'essere sgarbati, un po' violenti, è un modo di tenere lontano il pericolo - il maschio - e quindi abbattono radicalmente la loro femminilità. Il problema è di capire quello che io vado chiamando «il grande silenzio». Sembra che 81
l'ottanta per cento di questi eventi accadano all'interno delle famiglie. Questo fenomeno avrà origini ancestrali, ma rimane il fatto che la gente un po' sa e un po' non sa, però in famiglia non si dice nulla e al di fuori della famiglia si sussurra, ma non si denuncia nessuno. La pedofilia coinvolge anche persone che non sono necessariamente disagiate, sono sovente professionisti, avvocati, gente cosiddetta perbene. Si tratta dunque di un sintomo trasversale, non di classe. Il grande silenzio che avvolge la pedofilia fa sì che la possibilit à di individuazione, e quindi il relativo approfondimento, sia decisamente ridotta. Temo che subentri anche una sorta di complicità con questo mondo, perché com'è vero che abbiamo messo a fuoco, anche se non abbiamo vinto, la mafia, com'è vero che siamo capaci di mettere a fuoco il problema dell'emigrazione, perché non riusciamo a mettere a fuoco il problema della pedofilia? Va bene il grande silenzio, però i silenzi si perforano se non c'è la complicità. Io sono arrivato addirittura a pensare che ci sia una complicità politica, cioè nel mondo dei politici ci devono essere dei pedofili, se è vero che nessuna legge, nessuna disposizione, nessuna salvaguardia del mondo infantile è mai diventata così attrezzata da poter esorcizzare
questi fatti criminali che avvengono ovunque e comunque. Io sarei molto feroce con gli adulti che osano queste pratiche, dobbiamo capire che il ragazzo o la ragazza «pedofilizzati» non si riscatteranno mai più, va detto con molta chiarezza. La ragione è che la pedofilia non è devastante come episodio, è devastante in una sua forma a priori. Quando io incomincio a vivere e non riesco a ordinare l'esperienza, perché subisco un trauma che supera le mie capacità di organizzazione di quel fatto, proverò in seguito un'enorme sfiducia circa la possibilità di elaborare l'esperienza che vivo. Questo determina una psicologia sostanzialmente ansiogena, che porta le vittime ad affrontare il mondo con un tasso d'angoscia e di diffidenza che diventerà poi lo stile di vita, il modo con cui in generale si fa l'esperienza della propria esistenza.
Adolescenti che uccidono
La cronaca porta .l(:mpre più frequentemente alla ribalta delilli atroci di jz~li che uccidono i genitori. È l'eterna vicenda di Edipo che si ripete? Una differenza rispetto al passato appare rilevante: in un tempo non lontano il delitto era passionale: amore, odio, ma pur sempre passione. Oggi si uccide per noia, per colmare un vuoto interiore, o forse soltanto per imitare un video?,ioco. Il parricidio forse non è più un tabù? Parricidio o matricidio, da atto simbolico - come momento di emancipazione, necessario passa?,?,io daLL'adolescenza all'età adulta - è ora a?,ito, senza mediazioni e in modo cruento, nel reale. l ?,iovani .rtanno dunque perdendo la capacità di simholz'zzare? Parricidi, matricidi e figlicidi, se si può dire così, ci sono sempre stati nella storia, ma avevano un carattere che conteneva un nesso di causal ità, nel senso che o il padre faceva dei torti ai figli, o i figli facevano dei torti ai padri. C'era comunque una relazione, qualcosa che trascinava l'evento drammatico in un
rapporto di razionalità. Era insomma evidenziabile un rapporto di causa-effetto. Quando ci si chiede se i figli non abbiano sempre ammazzato i padri, la risposta è che ciò è nello stesso tempo vero e non vero. A me pare che questo genere di delitti si compiano oggi con una qualità psicologica radicalmente diversa da quella del passato. Qualità che non ho nessuna difficoltà a identificare in una categoria psichiatrica che gli psichiatri purtroppo trascurano, anche se poi questa parola viene utilizzata dai giovani con facilità: la psicopatia. È una condizione psicologica per cui io compio delle azioni senza avere alcuna risonanza emotiva. Posso sferrare una coltellata a mia madre, poi andare a bere il caffè, come se avessi semplicemente letto il giornale. Si compiono delle azioni e non c'è un sentimento adeguato, in grado di registrare a livello emotivo l'azione che si com pie. Questo è il tremendo! Varrebbe la pena, a questo proposito, di citare Imm anuel Kant, quando diceva, a proposito del bene e del male: non è necessario fare delle distinzioni, perché tutti sentono cos'è bene c cos'è male. Questa proposizione io non mi sentirei più di attribuirla ai ragazzi di oggi, perché li vedo affetti da un deficit di sentimento, ovvero di risonanza emotiva delle
loro azioni. Questa è esattamente la definizione di psicopatia. Prendiamo il caso di Novi Ligure: Erica, dopo avere sferrato le coltellate, il giorno dopo, impassibile, era in grado di reggere un confronto con il giudice, cosa che io stesso non sarei stato in grado di fare, pur essendo probabilmente più attrezzato di lei; perché ho delle risonanze emotive nei confronti non solo dei gesti, ma anche della loro semplice narrazione. Lei invece sì. Esonerata dal riverbero sentimentale, che è sempre un elemento confusivo nella buona conduzione delle idee la psicopatia fa sì che la ragazza abbia un'intelligenza iper lucida, proprio perché priva di sobbalzi emotivi che la corrompano. Da che cosa proviene generalmente la psicopatia? Dal fatto che da piccoli non si è costruito un nucleo «caldo», cioè una comu nicazione per cui, vicino a una persona, io sento se mi ama o mi odia. Se in una famiglia non passa una comunicazione, che chiamerei «di pancia», al di là della comunicazione verbale (sei andato bene a scuola, a che ora torni questa sera, ecc.), per cui non si costruisce, all'interno, la consapevolezza di essere amati e di essere riconosciuti - se non si è costruita quindi un'identità positiva - allora avremo degli psicopatici. )
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La seconda fonte della psicopatia è costituita dal fatto che i giovani d 'oggi, quand'erano bambini, sono stati esposti a troppi stimoli visivi. Con un eccesso di stimoli, rispetto alla capacità di contenimento e d'organizzazione, cresce l'ansia. Per abbatterla non v'è altra possibilità se non quella di diventare indifferenti agli stimoli. Con soggetti psicopatici, o perché non hanno costruito un nucleo «caldo», o perché non hanno partecipato a una comunicazione emotiva, o perché hanno ricevuto troppi stimoli visivi, ci troviamo di fronte a delle personalità che intendono, vo?,liono e non sentono. È questo un elemento intorno a cui la giurisprudenza dovrebbe riflettere, perché se va solo con due pedali, intendere e volere, non riuscirà mai a individuare lo psicopatico, il quale appunto intende, vuole, ma non sente. È necessario allora che anche la giurisprudenza intervenga a verificare la capacità di sentire di questi giovani. Quando parliamo di giovani indi/ferenti, stiamo in realtà parlando di giovani psicopatici che non hanno un riscontro emozionale delle loro azioni. Se vogliamo utilizzare il linguaggio della psicanalisi, si tratta di persone che non sono in grado di simbolizzare. Cosa significa? Chissà quante volte nella vita ciascuno di noi vuole ammazzare il padre o la madre! Poi
simbolina, cioè non passa all'atto, perché ha una «casa>> psichica dentro di sé, dove questa volontà di morte viene gestita psicologicamente, non agita nei fatti . Nello psicopatico manca proprio la casa di psiche. Lo psicopatico, lo dice la parola stessa, soffre dell'assenza di psiche - e per psiche dobbiamo intendere la conOuenza di dimensioni intellettuali cd emotive. Se manca uno di questi clementi,
Assumerci dunque la psicopatia come la caratteristica di fondo dci giovani d'oggi, dovu ta a una riduzione della comunicazione emotiva, a un eccesso d'esposiz ione agli stimo li e all a non costituzione di un nucleo sentimental e, che, lo ripeto con Kant, è l'organo che prima di intendere mi fa sentire cos'è buono e cos'è cattivo. Se non si costituisce questo organo, i giovani si troveranno nella condizione di compiere qualsiasi delitto, senza avere alcuna percezione, neppure di averlo commesso.
Iden tità e neuroscienza
«Conosci te stesso.1>> .ruggeriva Socrate ai contemporaner; che finirono col «suicidarlo». Ma la conoscenza di sé e la ricerca dell'identità, per molti secoli non ha smesso di interessare filoso/i e psicolop,i. Freud, per sondare i labirinti dell'inconscio, della sessualità e della follia, creò una nuova e rivoluzionaria disciplina, la psicanalisi. Dopo 2500 anni la neuroscienza pare tagliar corto, offrendo una risposta rozza, ma chiara: la ricerca dell'identità è vana, non dipende dalla nostra volontà, si tratta invece di un processo neuro/ùiologico. Possibile che una questione così complessa si rzduca oggi a un fatto puramente biologico e materiale? Che cos'è dunque l'identità nell'era della tecnica? In merito all a questione dell'iden tità, d irei ch e il neuro sc ienziato segue il suo me to d o fon dato su un accanito d eterm in ismo. Metodo che io rispetto, perché sono a nch'io determinista; e poi perché ciascuno fa il proprio lavoro e il neuroscienziato deve essere
determinista. L'errore che compie, tuttavia, è di prelevare dalla storia della cultura parolecome identità, come depressione- il cui significato non è univoco in tutta la storia e la cultura dell'Occidente. L'identità è sostanzialme n te un mito cristiano. Che io sia me stesso è una verità che ci racconta il cristianesimo, da quando ha collocato in ciascuno il principio dell'identità, che si chiama anima. I greci, ad esempio, ne avevano un co ncetto mo lto più flu ido. Loro avevano la parola ego che vuoi dire «io»; però non la usavano mai, nel senso che il vero soggetto era la comun ità. Lo stesso Platone sostiene che ciascuno di noi è parte del tutto; ed è giusto solo se è in sintonia con la totalità. Nel mondo greco il primato spetta dunque alla com unità, all a polis, non al singolo individuo. La parola identità d iventa forte con il cristianesimo, che la colloca nell'anima. Perché proprio nell'anima? Perché il corpo cambia, muta, invecchia, si ammala, non è qualcosa di stabile, d'identico a sé. È proprio il mutevole asso lu to. Su questo concetto cristiano si costruisce la mitologia dell'identità, che fun ziona sostanzia lmente per duemila ann i, fino all'emergere, nell'Ottocen to, d i un' interessante sindrome ps ichiatrica denominata demenza precoce, studiata da Bleuler - che io
considero grande quanto Freud. Bleulcr ipotizza che non siamo una persona, ma una moltitudine; c iò che chiamiamo io è semplicemente uno eli questi personaggi del teatro che ci compongono, che riesce ad avere l'egemonia sugli altri. Con la parola egemonia egli riprende un vocabolo eli Platone, il quale parla dell'anima come dell' heghemonikon, qualcosa che ha egemonia sulle passioni, che sono le altre identità. Dunque l'identità è qualcosa che io costruisco ogni giorno, non l'ho per sempre. Ogni giorno, uscendo di casa, mi produco in un'identità falsa, perché pubblica, consona alle convenzioni sociali. La produco. Quando torno a casa ne produco un'altra, l'identità privata, famigliare, emotiva, sentimentale ... L'identità è pertanto qualcosa di sfumato, impreciso, ma soprattutto è il prodotto di un lavoro. Ogni mattina, alzandosi, ciascuno ha l'impressione di essere nella condizione di risveglio, una condizione faticosa, siamo irritabili ... Perché? Stiamo ricuperando la nostra identità, dopo un periodo d'assenza ch e è stata la notte. Quando ci ubriachiamo, diciamo cose che normalmente non diremmo, facciamo azioni che normalmente non faremmo e il ' giorno dopo la gente ci dice: ieri sera non eri 92
più tu! r;identità era andata a farsi benedire! Per cui l'iden tità è un tenere l'identltà, comporta un lavoro. Jung diceva che bisogna rinunciare alla parola dei filosofi, i quali quando parlano di coscienza dicono Bewusstsein, essere coscienti. Bisogna introdurre la parola Bewusstwerden: la coscienza è un divenir coscienti di giorno in giorno. L'identità è un lavoro che si costruisce di giorno in giorno. Non si dà dunque come codice. Quando i neuroscienziati sostengono che il fondamento dell'identità sarebbe nel lobo fronto-parietale, stanno dicendo che lì c'è una cosa di cui i filosofi e gli psicologi non sono assolutamente sicuri. Stanno prelevando una parola culturale solidificata dall'abitudine, per indicarne la genesi. Questa parola culturale è tutt'altro ch e qualcosa di stabile: è mobile e molto costruita. Se avessimo davvero quell'identità eli cui credono eli aver trovato l'origine, saremmo delle persone rigide, incapaci eli adattarci alle varie situazioni, mentre la nostra identità è qualcosa di mobile, eli plastico, che consente di adattarsi a situazioni diverse, attraverso una continua mutazione di sé. In conclusione: i neuroscienziati trovino pure l'origine dell'identità, ma poi si devono porre il problema se si tratta eli una struttura stabile, o 93
invece ipermobile, che costruiamo al solo scopo di renderei noti a noi stessi e agli altri. L'essere identico a se stesso è qualcosa che si produce per l'altro, affinché ci possa riconoscere. Ciascuno di noi può verificare, guardando se stesso, come sia notevolmente diverso da come si propone agli altri. D'altra parte è essenziale riproporsi secondo una logica dell'identità, in modo da essere riconosciuti. Se non altro per creare rapporti fiduciari. Ma l'identità è una nozione mobilissima e soprattutto qualcosa che si costruisce per con venienza sociale.
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Clonazione umana
La torrenziale proP,ressione della scienza e della tecnica produce innanzltutto un effetto: moltiplica le nostre ansie. Come, per esempio, quetla che circonda la clonazione umana e la prospettiva di un futuro zoo di replicanti. Eppure, nonostante i divietz; dopo la pecora Dolly~ dopo topolinz e cricetz; tutto sembra ormai pronto: il primo uomo clonato potrebbe P,ià essere stato creato, in paesi dove in pratica non c'è nessun divieto e dove la lef!.f!,e è facile da af!.f!,irare. c e chi ha perso il fz~lio e lo n'vorrebbe tale e quale; chi vorrebbe veder rivivere la madre, il marito ecc. L 'idea è sconvoiP,ente, sollecitafantasmz; inquietudini e anche tecno-fobie. I l P,iudizio che ne danno orP,anizzazioni relt~iose e di bioetica è P,eneralmente ne?,ativo. Un dubbio: sono ?,iudizi o pre?,iudizi? Dobbiamo considerare il fenomeno come assolutamente neP,ativo .1 Come cambierebbero la società, la famz~lia, come cambierebbero le relazioni umane se la clonazione diventasse una realtà possibile e liberamente praticabile? 95
A proposito della clonazione umana, distinguerei i problemi a due livelli: il primo è quel che tutti percepiamo, che consiste nella possibilità della riproduzione identica di un esemplare umano. Questa è la fonte d'ogni timore. Il timore lo si comprende benissimo, perché sconvo lge le nozioni tradizional i di vita e di morte, di congedo e di frequentazione, l'ordine degli affetti ... Cosa intendo per primo livello? Nel caso in cui noi davvero siamo persuasi di essere entrati in quest'età assolutamente nuova, l'età della tecnica, non possiamo pensare che passi nel nostro orizzonte lasciando immutato l'uomo. Il suo passaggio produce inevitabilmente una modificazione radicale. Quindi, nell'ipotesi che la clonazione, evento tecnico-scientifico, produca i suoi effetti, gli uomini verrebbero trasforma ti. Come? Non nel senso materialistico, ma della nostra percezione di che cos'è la fine, di che cos'è l'inizio, di che cos'è la vita, di che cos'è la morte, di che cos'è il desiderio (che diventerebbe in questo caso onnipotente), di poter riavere quello che ho perso. Verrebbero meno un'infinità di categorie antropologiche su cui l'umanità si è finora consolidata, equesta è la fonte del timore inconscio. Poi la gente non pensa a queste cose, però inconsciamente
le prevede; sembra che la percezione inconscia sia, tante volte, più intelligente di quella conscia. Previsione che nell'età della tecnica è molto ridotta, nel senso che noi oggi siamo in grado di fare molto più di quanto non sappiamo prevedere, quind i ci stiamo muovendo un po' alla cieca. Passiamo al secondo livello, al fatto materiale della clonazione. È ormai assodato che la riproduzione identica del medesimo consenta dei processi di sterilizzazione, perché l'eliminazione della diversità fa sì che i processi riproduttivi si riducano c non siano van taggiosi. Quando la tecnica si scontra con uno svantaggio economico, questo diviene l'unico criterio per cui la tecnica cessa il proseguirhento delle sue ricerche. Dobbiamo tuttavia considerare anche gli sfruttamenti possibili. Pensiamo alla bomba atomica: la scissione dell'atomo è stata pensata per motivi bellici; dopo ha trovato anche un'infinità di utilizzazioni benefiche. Una delle conseguenze benefiche della clonazione sarebbe lo studio delle cellule staminali, che opportunamente clonate ci consen ti rebbero di inserire delle cellule totipotenti nelle parti malate del nostro organismo - penso a un fegato, a un pancreas ... e alla possibilità di ricostruirli daccapo. Ecco un effetto benefico 97
della clonazione, cui nessuno si sottrarrebbe. Dobbiamo pertanto osservare tre cose. Primo: i fenomeni assolutamente nuovi non sono necessariamente ed esclusivamente negativi, come l'i m patto della scoperta scientifica con l'opinione pubblica può far credere; da un' inven:lionc si possono ricavare strade diverse, positive c negative. Secondo: quelle negative sarebbero bloccate dallo svantaggio economico, in quanto l'elimina zione della biodiversità, nel caso degli animali per esempio, non sarebbe vantaggiosa né per gli allevatori, né per il mercato. Ma, vorrei sottolineare, non possiamo essere una cosa c l'altra, volere la moglie ubriaca e la botte piena, non possiamo insomma volere tutto ciò che la tecnica ci offre e poi allarmarci quando ci propone scoperte che non rientrano nelle nostre categorie interpretati ve. Terza e ultima considerazione: non dimentichiamolo, l'età della tecnica modifica l' uomo. Quindi l'eventuale impatto della clonazione ci costringerà a rivedere categorie antropologiche, lo dicevamo all'inizio, come il desiderio, il concetto di morte, il concetto di vita, il concetto di limite ... concetti tutti da revisionare perché l'onnipotenza tecnica ci mette a disposizione la possibilità di trascendere
questi limiti, all'interno dei quali l'umanità si era trattenuta. Oltrepassare il limite penso sia pericoloso. Nell'oltrepassamenro del limite i greci avevano posto il massimo rischio. Aristotele diceva: chi conosce il suo limi te non teme il destino. Nell'età della tecnica ci troviamo ormai in una condizione spaventosa, dovuta al fatto, lo ripeto, che la nostra capacità di fare è notevolmente superiore alla capacità di prevedere. Quindi l' im possibilità a prevedere fa sì che la nostra stessa storia sia ingovernabile. Questo è il vero rischio, più che ìl singolo episodio della scoperta scientifica, la quale procede tranquillamente, senza remore La scienza non si cura di aspettare dall'etica l'indicazione del limite. Anzi, nei confronti della recno-scienza, l'etica appare patetica, perché non può che invocare la scienza e la tecnica affinché non facciano ciò che possono fare. Non si è mai visto «uno che-puÒ» che si faccia arrestare, nel suo potere, da una semplice invocazione, se questa non ha capacità reali di arrestare un processo. Sembra che tutti percepiscano il bisogno di arrestare la tecnica, ma è una percezione ambivalente: guai, infatti, se la tecnica si ferma! Come produce qualcosa di nuovo, tutti accorrono ad acquistarlo. D'altra parte 99
v'è il rischio che possa ritorcersi in qualcosa di pernicioso. La doppia coscienza che noi abbiamo nei confronti dell'accadere tecnico è subentrata quando la tecnica, da tecnica della fisica (si andava sulla Luna c tutti ne erano entusiasti), è diventata tecnica biologica, in altre parole è entrata nel nostro corpo. Sono incomin ciati allora gli allarmi. Tutti assistono a una sorta di contrapposizione tra il progresso scientifico e le istanze eriche. Ma le istanze etiche sono radicalmente insufficienti a controllare l'accadimcnto scientifico. ln Occidente abbiamo conosciuto sostanzialmente due etiche: l'etica cristiana, che è l'erica dell'intenzione (la quale non serve a niente, perché non me ne faccio niente dell'intenzione dello scienziato); e l'etica della responsabilità: si devono considerare le azioni a partire non dall'intenzione di chi le compie, ma dagli effetti che producono. Max Weber ci avvertiva che gli effetti delle scoperte tecniche sono imprevedibili. Come faccio a calcolarli? Ci troviamo dunque in uno spiazzamento etico, nel senso che l'etica non è all'altezza dell'accadere tecnico. Il suo atteggiamento può essere solamente quello di invocare la «tecnica-che-puÒ>> di non fare ciò che può. Questo nella storia non si è mai visto.
TOO
Verso la sterilità?
Paesi come la Svizzera, t'Italia e la Spagna sono agli ultimi posti (in Europa e nel mondo) per p,li indici di natalità. l matrimoni si/anno e si smanIano con molta celerità. Alcuni vanno a sposarsi a Las Vep,as, poco fiduciosi/arse sulle sorti della loro unione. Ci sono sempre più /amz~lie senza /z~lz; con /z~li ado!Latz; e nuclei con pochi figlz; o /zi,li unici. Inoltre in alcuni paesi come l'Olanda, la Germania e alcuni cantoni della .'·)vizzera, si cominciano ad acce!Lare - e a lep,ittimare - famiglie omosessuali (dunque sterilz). Da tempo, è risaputo, la /amt~lia a!Lraversa una crùi profonda. Dove porterà questa trasformazione? Come cambieranno la famz~lia e la società, con.riderando il problema della crescente sterilità? [n Svizzera, in Italia, ma io penso in tutto l'Occidente, ad eccezione dell'America, non si fanno più figli, perché le nostre condizioni d'esistenza sono ta li che ogni nascita ne sconvolge il ritmo economico e il ritmo abitativo. Le nostre condizioni di vita sono ormai così I O!
complicate ed esigenti che ogni «sopraggiunto>> le modifica. E di solito le modifica verso il basso. Nelle società primitive i figli non incrinavano il regime economico di povertà media in cui si trovavano, anzi, costituivano una ricchezza. Mentre oggi noi viviamo in una società che non si fonda sulle «braccia» e per giunta ha anche un altissimo livello di prestazioni per la cura della crescita. Questo fa sì che ogni figlio costituisce sostanzialmente un i m pegno di notevole portata. Il fenomeno si è sviluppato soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Prima, quando la società era ancora agricola e contadina, i figli si facevano. Io stesso appartengo a una famiglia di dieci figli e m i rendo conto che dieci figli non sarei in grado di farli. C'è anche una seconda ragione: il benessere economico ha portato a un privilegio del desiderio rispetto al mondo della responsabilità: desiderio di comodità dei genitori; desiderio di cambiare partner, secondo le proprie inclinazioni sentimentali; desiderio d'impostare un rapporto non esclusivamente eterosessuale, secondo le proprie tendenze. Il primato del desiderio, rispetto al primato della responsabilità (sia detto senza un carattere mora listico) e delle istituzioni sociali, fa sì che oggi ci sia una variazione di qualità delle famiglie. Si tratta di famiglie tendenzialmente 102
sterili, perché la soddisfazione del desiderio (non capisco perché non debba essere legittimo) comporta un'incrinatura della famiglia come coppia riproduttiva. Il terzo elemento, invece, che ci persuade ancora di più è che, probabilmente, questa trasformazione ci fa vedere come la genealogia della famiglia non sia fondata tanto sull'amore, quanto piuttosto costituisca il primo nucleo di un'organizzazione economica. Le famiglie patriarcali prevedevano che tutti fossero dei soggetti lavorativi. Oggi il venir meno dell'utilità di braccia lavorative fa sì che le famiglie patriarcali si siano disfatte e siano nate famiglie basate sul regime del sentimento e non su quello della produzione economica e generativa. Finché la società era povera erano necessarie organizzazioni di natura familiare a forma forte; invece oggi che le possibilità economich e sono migliorate per tutti, la famiglia non svolge più il ruolo d'assistenza e di economia, ma semplicemente quello di piacevole convivenza tra gente che si ama. Inoltre, più lo stato si assume compiti e incarichi un tempo delegati alla famiglia, più assiste i bambini attraverso le organizzazioni degli asili n ido, più assiste i vecchi attraverso le organizzazioni dei ricoveri, più assiste le 103
persone al di fuori del lavoro attraverso le pensioni, ecc., più la funzione sociale della famiglia viene meno. Quind i venendo meno la famiglia come istituto economico-assistenziale, emerge una famiglia basata sul solo regime del sentimento. Cosa ne deriva da questa trasformazione? Due aspetti, secondo mc. Il primo: se l'unico regime attraverso cui decido le mie scelte d i convivenza è costituito da l sentimento - è chiaro che il sentimento è una cosa mobile, fluida, vaga, generica, intcrmitte nte -,ne consegue che le possibilità di distruzione e di composizione d'altri nuclei familiari saranno magg10r1. Secondo e lemento: se tutte le scelte che avvengono sul registro emotivo sono reversibili - perché noi oggi assistiamo a un fenomeno di reversibilità delle scelte impressionante: mi sposo, divorzio; sono incinta, abortisco ... - questa possibilità di recedere dalla propria scelta, che una volta era molto più limitata, fa sì che nascano quelle composizioni familiari mu ltiple, dove convivono molti padri, molte madri, dove i figli che nascono sono quelli che sono stati voluti rispetto a quelli che erano capitati. L'ampliamento dello spazio della libertà scompone il nucleo rigido della famiglia, un
tempo rego lato dalla necessità. Necessità economica, perché era l'un ico istituto di cui ci si poteva fidare, garanzia di sicurezza c di tutela. E in secondo luogo anche unico regime del mondo fiduciario, perché fuori della famiglia non si sapeva a che cosa si andava incontro. Risultato finale: la riduzione della procreazione. Un figl io cresciuto in una società agricola viene infatti cresciuto con pochi soldi c costituisce alla fine un vantaggio. Un figlio in una società emancipata costa molti sold i e non si sa se sia un vantaggio economico; non abbi amo bisogno di lui per essere ricchi, o addirittura potremmo essere più ricchi senza di lui. Questo comporterà, in breve, che l'Occide nte si estinguer à. Sarà una faccenda di cinquant'anni, ma l'Occidente si estinguerà perché non genera. Importerà forze nuove. La cu ltura occidentale diventerà un reperto o, comunyue, un bagaglio gestito da altre culture. Su yuesto non ho il minimo dubbio.
L'amore e il tempo
Nel suo romcmzo L' ignoranza•, lo scrittore Milan Kundera si interro?,a circa L'amore e il tempo. IL primo rapporto amoroso è diverso dal centesimo. IL centesimo è diverso dal millesimo. Cosa accadrebbe se La vita si allungasse ultenòrmente."J «Dove si situa La barriera al di là della quale- si chiede Lo scrittore ceco - La ripetizione diventerà stereotipata, quando non comica o addirittura impossibile? E una volta varcato questo Limite, che ne sarà del rapporto amoroso fra uomo e donna? Si dissolverà? O, al contrario, gli amanti considereranno La fase sessuale della Loro vita come La barbarica preistoria di un vero amore?» Tornano alla mente Le parole di jean-Paul ,)'artre: La vita è dunque una passione inutile? L' impressione è che Kundera guardi la relazio ne amorosa da u n punto di vista esterno c no n interno. Bisogna allora incominciare a d ire, demitizzando un po', che cos'è amore? Io Pubblicato <.la Addphi, ,\t fiano wo1.
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m'atterrei alla definizione di Platone: amore è mancanza. Uno s'innamora perché gli manca un pezzo e lo va a trovare in un altro. Noi ci innamoriamo sempre della nostra anima mancante. Convivendo con la persona che rappresenta la parte di noi che ci manca, a poco a poco noi acquisiamo questa parte, diventiamo, come dice P latone, uomini interi. A questo punto l'amore cede e se ne va. Questo è interessante perché ci induce a ridurre l'amore a quell a d imensione che è la mancanza, mentre di solito l'amo re rappresenta se stesso come un momento d'effusione, di sovrabbondanza, mentre in realtà è il bisogno di ciò che non c'è. Essendo l'amore impostato sul desiderio, io desidero le cose che non ho - le cose che ho non le desidero, perché le possiedo. Quando c'è una frequentazione, entro progressivamente nel possesso dell'altro, almeno per q uel tanto che l'altro si lascia possedere d a me. E non lo desidero più. Quind i, diciamolo chiaramente, nonostante le buone maniere con cui ci si cerca di consolare, quando non ci si ama più, si d ice che abbiamo u n bel rapporto, delle affinità elettive, u na buona in tesa intellettuale ... tutte metafore per dire che il desiderio si è estinto. Nella vecch iaia - basta avere a che fare con le persone anziane per rendersene conto 107
si può assistere invece a episodi d'amore d'enorme potenza, perché lo spettro della morte fa sì che si riproduca di nuovo lo stesso meccanismo della mancanza. L' ipotesi che uno dei due muoia crea quel crollo della consuetudine che Freud chiamava lutto, che riattiva immediatam ente il desiderio dell'altro. Ho assistito a coppie che si sono odiate per tutta la vita e poi, arrivate a una certa età, s'adoravano. Che cosa temevano, con questa forma d 'amore? Nient'altro che la perdita dell'altro. Stabilito che l'amore è desiderio e il desiderio è caratterizzato dalla mancanza, ogni volta che nella vita si produce la mancanza, abbiamo un'insorgenza d 'amore. Quando si produce la mancanza? Per esempio quando da giovani la fanciulla sfugge al nostro possesso; durante la vita, quando andiamo incontro a défaillance esistenziali; nella vecchiaia, quando è lo spettro della morre che agisce. La morte è un fenom eno interessante perché lo si anticipa, non perché accade; quando accade non c'interessa più, mentre quando è anticipata ci lavora dentro, come riduzione della progettualità e dell'a ttività: è già lì la morte. La morte riattiva il desiderio come perdita; come si annuncia la dimensione dello smarrimento, della perdita, della mancanza, in quello stesso momento si riattiva l'amore. 108
Il concetto d 'amore che sto fornendo è molto elementare, anche un po' depressivo, ma non è mio, è di Platone, il quale se ne intendeva di queste cose, visto che ci ha dedicato dei dialoghi. Se incastriamo l'amore nella categoria della mancanza, direi che continua a essere eterno e non semplicemente una tappa della vita. Platone dice: gli amanti che passano la vita insieme non vogliono solamente i piaceri carnali, cui si dedicano; evidentemente vogliono dire cose che non riesco no a dire, perciò parlano in modo enigmatico e buio. Ecco, ci sono cose che non si riescono a dire, dunque, quando si è esaurito il discorso, non ci si ama più. Ma che il discorso sia esaurito è solo una tappa della vita, il discorso può ripresentarsi come inesauribile, sempre però sorto l'aspetto della mancanza. Dopodiché mi si può chiedere: allora l'amore è egoismo? La risposta è: ebbene sì!
Colpa di Platone?
Secondo il filoso/o Karl Popper, le radici del pensiero storicistico- vera e propria culla dei regimi totalitari (le «società chiuse»), che nel «Secolo breve» hanno generato lager e campi di sterminio, a Occ·zdente come a Oriente - a/fondano nel pensiero dell'allievo di Socrate. Popper nega la dialettica così come rifiuta il corso storico diretto verso una meta. Assume invece il metodo di ricerca scientifico come l'unico in grado di produrre vera conoscenza, proprio perché non si pone dep,li orizzonti meta/isiet; ma procede per tentativi ed errori e proprio per questo è in grado di garantire delle «società aperte», autenticamente democratiche. Ma èrealistico pensare a una ricerca scientifica pura? Possiamo /are a meno di uno !>guardo storicùtico? Come dire: potremmo navigare senza carte nautiche e senza rotta? Poppe r prende, mi pare, lucciole per lan terne. Nel senso che la mentalità storicistica non è assolutamente greca, ma affonda le sue radici nella tradizio ne giu d aico-cristiana. Basti pensare che i greci n on avevano storici; TTO
il più famoso, Tucidide, inizia le sue storie con questa espressione: «Faccio com inciare la sto ri a dieci anni prima della mia nascita, perché prim a non è successo niente di importante>>. Questo ci dice il livello di mentalità storica che potevano avere i greci. La ragione è molto semplice, per i greci il tempo era c iclico, q u alcosa di simile al tempo vissu to dagli agricoltori: inverno, primavera, estate, autunno e poi il ciclo ricomincia. In una mentalità cic lica non c'è storia. La storia incomincia con la tradizione giudaico-cristiana. Costoro pensano ch e il tempo sia scritto in un disegno, un disegno di salvezza. Se è inserito in un disegno, il tempo ha un senso; e quando il tempo ha un senso parliamo propriamente di storia. La storia è un tempo fornito di senso, che tende a una me ta. Questo tipo di tempo i cristiani l' hanno chiamato «escatologico»: éschatos è una parola greca che vuoi dire «ultimo». All'ultimo giorno, alla fine, si realizza quello che all'inizio e ra stato annunciato. A questo punto il tempo acquista senso. Questa men talità storica, di tradizion e cristiana, è stata ribadita dalla tradizione c dalla filosofia di Agostino. Non è assolutamente greca. Accusare Platone di essere storicista, di avere avviato lo storicismo, è prendere lucciole per lanterne. JJ!
La seconda lucciola per lantern a presa da Popper consiste nel fatto che egli ritiene che la mentalità platonica, la dialettica di Platone, sia antiscien tifica. Nel senso che Platone fissa le idee, gli schemi , i costrmti della mente, i numeri per la lettura del reale, men tre la scienza procede per esperimenti, per prove ed errori. O ra, se c'è una persona cui la scienza deve essere riconoscente è proprio P latone. Platone ha fatto un'operazione di gr andissimo valore scientifico, che consiste in questo: non fidiamoci dell' esperienza sensibil e. Perché? Se dovessi costru ire un sapere fondato sulle informazioni che ricevono i miei sensi, allora basterebbero due persone per non essere più d'accordo. «ln questa stanza fa caldo», direbbe l'una. «Fa freddo», risponderebbe l'altra. Dovessimo ottenere la risposta dalle sensazioni corporee, non ne arriveremmo a una. Rifiutando la conoscenza sensibile, Platone fissa il sape re come costruzione della mente, che lui chiama idee e numeri. Per conoscere le cose non dobbiamo dunque fidarci d elle sensazion i corporee e sensoriali. Il corpo, infatti, è mo lto svalutato da Platone. Dobbiamo fid arc i solamente delle idee costruite dall'anima. Quest'anima no n è l'anima cristiana, che si deve salvare, ma è l'organo delle id ee e dei costrutti mentali. Sotto questo p rofilo la scienza è debitrice a Platone. TT2
La scienza moderna, con Cartesio, non fa che ribadire la dimensione platonica. Quando Cartesio dice cogito ergo sum, vuoi dire che l'essere va considerato a partire d ai costrutti della mente, del cogito, esattamente come sosti ene Platone. La differenza nasce con l'età della tecnica, come la vado chiamando, un'età incominciata con la seconda guerra mondiale in maniera potente e decisiva. Prima, nella tradizione giudaico-cristiana, la sto ria aveva un senso, perch é proiettata verso uno scopo. L'età d ella tecnica non ha più nessun senso, perché non ha nessuno scopo. La scienza è la stessa cosa, bisogna evitare di pensare che la scienza sia pura c la tecn ica sia sporca, o che la tecnica sia solo un' applicazione della scienza, perch é già nello sguardo dello scienzia to c'è l'atteggiamento tecnico: lo sc ienziato non guarda il mondo per contemplarlo, ma per manipolarlo. Sarebbe come se in un bosco entrasse un poeta e con lui un fa legname: i due non vedono la stessa cosa. Lo sguardo scienti fico è lo sguardo del falegname. Non si dà una scienza pura, si dà sempre un a sc ienza già impostata, in o rdine alla manipolazione del mondo. Scienza e tecnica procedono oggi senza uno scopo, perché hanno come scopo esclusivamente - sottolineo esclusivamente - il
proprio potenziamenro. Di loro si potrehbe dire quello che Nietzsche fa dire a Zarathustra: «Cosa vuole la volontà di potenza?» E Zarathustra risponde: «La volonrà di potenza vuol e se stessa». Ecco, la scienza vuole solo il proprio potenziamento, al di là di qualsiasi scopo. L'eliminazione degli scopi determina il crollo dello storicismo, ma io direi che, prima dello storicismo, deter mina il crollo dell 'uomo come l'ahbiamo conosciuto, perché l'uomo che abbiamo conosciuto agiva in funzione di fini, mentre l'uomo che conosc iamo oggi non agisce in funzione di fini, ma della buona esecuzione di ordini o di azioni già descritte e prescritte dall'a p para t o tecnico. Oggi l'uomo è un funzionario dell'apparato tecnico, non è più un soggetto storico. Ma non è colpa di Platone. È vero che lo storicismo sia gravido di violenze, rispetto all'età della tecnica, che creerebbe per contro società aperte, non gravate dal peso della storia? Il tasso di violenza storicistico, che si muove sul la logica amico l nemico (m ia tradizione !tua tradizione, miei usi e costumi/ tuoi usi e costumi ... ), è un tasso di violenza inferiore, decisamente inferiore a quello che può esercitare l'apparato tecnico-scientifico su tutti gli uomini. I quali non avranno più da contrapporsi tra loro, perché saranno tutti, come diceva nel
1959 Herbert Marcuse, «uomini a una dimen-
sione>>, semplicemente depotenziati della loro carica umana, perché diventeranno semplicemente funzionari di apparati tecnici. Facciamo un esempio molto elementare: un serbo che dovesse uccidere un albanese o un albanese che dovesse uccidere un serbo, compiono delle azioni che sono alla portata dell' uomo, azioni accompagnate da un sentimento di amore o di odio, che le giustifica come azioni umane. Distruttive, ma umane. Il pilota euro-americano che sgancia le hombe su Belgrado non sa né amare, né odiare i serbi. Non è che uccide di meno, uccide di più, ma uccide con indifferenza, perché non sta facendo un'azione alla portata umana, corredata di amore o di odio, non gliene importa nulla dell'a more o dell'odio per i serbi, lui sta semplicemente lavorando. Quando è stato chiesto a uno di questi piloti che cosa provava, ha risposto: «Nothing, that was my job!» Questo era il mio lavoro! Ecco cosa ci porta l'età della tecnica: a una società dove non abbiamo neppure più bisogno di sentimenti d'odio per fare le guerre, è semplicemente un'operazione distruttiva, radicalmente priva d'emozioni e di sentimenti.
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Libertà e disuguaglianza
La parola libertà ha conosciuto, ne!!,li ultimi decennz; un curioso destino: da bandiera della sinistra nef!.li anni ,)'e.l·santa, a slogan della destra, trent'anni dopo. Scriveva il filosofo Karl Popper che la libertà è più importante dell'uguaf!.lianza: la ricerca dell'uguaglianza sociale in/atti causa inevitabilmente regimi violenti e persecutorz; come i reJ!.imi comunisti. Si pone tuttavia una questione: le «società aperte», come le chiama Popper in uno dei suoi saf!.f!.i più celebri•, accolgcmo zl principio della disuf!.uaf!.lianza, con l'inevitabzle esa ltazione del ricco e della ricchezza, per cui i Paperon de' Paperoni si trovano a f!.overnare il mondo, mentre aumenta prowessivamente nei paesi ricchi il numero dei miliardari (quasi il tre per cento negli ultimi due annz) e nei paesi poveri quelfo dei morti di /a me. Come conciliare dunque un princtfJÙJ irrinunciabile, com e quello di libertà, con quello di dùuf!.ua!!,lianza? /.ti
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Innanzitutto dobbiamo incominciare a capire che il concetto di libertà confliage con ' ~ il concetto d 'id entità. E vero che l'identità è una figura mobile, però è pur vero che se noi ogni giorno cerchiamo di riprodurre una nota di identità (e quindi costruiamo una stabilità), questa identità confligge inesorabi lmente con la libertà. Io credo pochissimo alla libertà. Un piccolo esempio: J e an-Paul Sartre una volta andò in montagna, cadde, si spaccò una gamba, fu ricoverato in ospedale. Andò a travario Maurice Merleau-Ponty, che gli disse: «Ma non potevi andare su quella montagna ass ieme a una gu ida?» E Sartre gli rispose: «Ma te lo immagini Sartre che va in montagna con una guida?!» Sartre non era libero di andare in montagna con una guida, perch é se Sartre è Sartre, Sartre è que llo che va in montagna senza gu ida: li bero! Questo per sotto li neare che si tratta di un concerto piuttosto equivoco. Temo inoltre che questa parola, libertà, come già pensavano i rinascimentali , servisse solo per affibbiare delle responsabilità alla gente. I rinascim entali chiamavano Martin Lutero «Martinus Eleutherius», ovvero Martino il Liberatore (eleutheria sign ifica «libertà») perché affermando la predestinazione (le opere non 117
concorrono alla salvezza, secondo Lutero), aveva liberato tutti dalla responsabilità, dalla colpa e dal peccato: liberi dal controllo delle azioni, che non concorrono alla salvezza. A livello socio-politico non dobbiamo dimenticare l'origine di questa parola, che nasce con la Magna charta libertatum inglese (r2r5), dove la Carta delle libertà era la Carta delle libertà dalla legge. C'erano dei privilegiati, i quali erano liberi di non osservare le leggi. È questo il concetto di destra della libertà. Il concetto di sinistra prevede che questa dimensione si costituisca in compagnia della categoria d'uguaglianza, non nel senso di assicurare l'uguaglianza a tutti, ma di rendere concreta la libertà. Sappiamo tutti che io sono libero in base alle mie risorse economiche: più soldi ho, più sono libero, meno soldi ho, meno sono libero. Rivendicare una categoria della libertà, prescindendo dalle condizioni che ne rendono possibile l'esercizio, significa frullare la testa della gente con parole nobili, alle quali però non corrisponde sos tanzialm ente nulla. La confluenza migliore dei concetti autolimitativi tra libertà e uguaglianza l'ha realizzata la Rivoluzione francese, la quale aveva affermato: é!!,alité e liberté. Aveva però aggiunto una parola, /raternité, c he poi nel corso del n8
tempo è andata perduta. Nel senso che sulla libertà è nato il liberismo (e le democrazie liberistiche), mentre sulla parola uguaglianza sono nate le società socialiste-comuniste. Si è eliso quindi il loro rapporto, la loro confluenza, la loro autolimitazione; ma soprattutto si è persa la categoria della fraternità. Questa prevede che io riconosca l'al tro come simile a me, come mio fratello. Se noi ricuperassimo la categoria della fraternità, questa consentirebbe all'uguaglianza di non diventare totalitaria, e alla libertà di non diventare spavalda o dispotica. In ogni caso tutti coloro che parlano di libertà dovrebbero spiegarci le condizioni del suo esercizio. Se la libertà ha come condizione la disponibilità economica, allora parlare di libertà significa semplicemente mettere un sigillo nobile su un rapporto di giungla, dove il più forte vince sul più debole. Le società aperte sono senz'altro più libere. Non nel senso che i ricchi hanno possibilità di movimento e d'azione maggiore dei poveri, ma nel senso che le società aperte offrono più opzioni di scelta, sia ai poveri che ai ricchi, più opzioni d'impiego, d'espressione, di qualità di lavoro, di forme, di relazioni ... Inevitab ilmente sono più libere delle società chiuse e delle società coatte.
Ma non si confonda la libertà con la disponibilità economica o con l'ampliamento di tale disponibilità: questo è un principio di libertà in malafede, perché rivendica come valore dello spirito, come prerogativa dell'uomo, una categoria che è invece bassamente materialistica, perché resa possibile dalle condizioni economiche; mentre si rivendica invece il concetto che le società aperte sono più libere perché offrono una chance, un'apertura di giochi molto più ampia delle società chiuse. Il concetto di fondo però è di tenere in continua tensione la libertà e l'uguaglianza , perché anche la libertà dei ricchi non è sufficientemente tutelata dalla miseria dei poveri, perché la miseria dei poveri può sempre essere un potenziale rivoluzionario. Non a caso gli stati sociali - il famoso wel/are- sono nati non tanto perché i ricchi si sono presi pietà dci poveri, ma perché si spendeva meno a creare uno stato sociale di quanto non sarebbero stati i costi di una condizione di perenne ribellismo e di rivoluzione.
Disagio psichico e contenzione
Un giovane su cinque, in Occidente, soffre di disturbi mentali. In futuro, secondo i dati di una previsione, i disturbi neuropsichiatrici cres-ceranno in misura superiore cd cinquanta per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia. Lo sostiene l'Organizzazione mondiale della sanità. «Solo in manicomio si sa quanto arriva a poter soffrire una creatura umana», aveva scritto M ario Tobino. Ma che fare di fronte alla cosiddetta follia? Perché, malgrado l'esperienza dell'antipsichiatria, malgrado Laing, Cooper, Basaglia, Borgna, perché di fronte ai cosiddetti folli - pazienti che soffrono di psicosi e di schizofrenia, soggetti deboli che chiedono solo di essere curati - ancor oggi si attuano disumane pratiche di contenzione? Che cosa .1paventa della follia? Il problema del disagio mentale, che è poi il problema della follia, è una questione attorno alla quale l'umanità si è affaccendata non poco. Basti pensare che fino alla prima metà dell'Ottocento i pazzi erano rinchiusi in
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carcere. Poi tre psichiatri, il francese Pinel, l'italiano Chiarugi e lo spagnolo Esquirol, hanno stabilito che i pazzi non sono responsabili c quindi i loro eventuali delitti non erano rubricabili sotto il potere giudiziario, ma sotto quello sanitario. Dico potere, perché quello che si è fatto con questa prima e in un certo senso grande riforma, è stato semplicemcnte di spostare i pazzi da un manicomio a un altro, da un carcere a un manicomio quindi da un luogo di reclusione a un altr~ luogo di reclusione. La società non riesce a tollerare la pazzia, perché percepiamo la nostra ragione come qualcosa di fragile, ne siamo tutti persuasi, temiamo che da un momento all'altro tutti possiamo entrare in questo abisso, o episodicamente, o perm anentem ente. Noi chiamiamo pazzi coloro che, a nostro parere, vi sono entrati permanentemente; anche se ciò non è vero, perché uno schizofrenico non è tale per tutta la vita, ma solo episodicamente. Poiché questi episodi si susseguono, la società, da un lato per il timore che ha nei confronti della pazzia, dall'altro per il disagio effettivo che un pazzo crea all'in terno di un nucleo familiare, pensa innanzitutto a sedare il pazzo. Queste procedure di sedazione avvenivano talvolta con le corde, con cui si legava 122
il corpo del folle. Oggi si utilizzano altri espe· clienti di ordine chimico, ma il concetto di abbattere il livello di manifestazione c di espressione della pazzia rimane il medesimo. Tutto ciò non è assolutamente terapeutico, lo sappiamo, e soprattutto lo sarà sempre meno: la pazzia potrebbe essere forse attenuata altraverso la continua comunicazione. Alcune ricerche di etna-psichiatria mostrano per esempio che un depresso, senza farmaci e senza nulla, nelle popolazioni cosiddette primitive - mi riferisco al Sud America e ad alcune regioni africane - in quaranta giorni emerge dalla sua depressione. Così come una crisi schizofren ica si risolve in una settimana. Ma cosa succede in quei processi? Che il depresso viene continuamente coccolato, amato, circondato, tutte le donne sono per lui e c'è una riattivazione della vita. Lo schizofrenico viene invece messo al centro di un cerchio per otto giorni, si ascoltano le sue parole come se fossero le parole di un dio. Probabilmente ci sono dci disagi psichici molto gravi (come la depressione e la schizofrenia) che potrebbero essere risolti attraverso una comunicazione. Ma non ne abbiamo né tempo né voglia, e forse nemmeno la possibilità. Allora la strada che l'Occidente ha preso è quella della repressione, un tempo L23
fisica, oggi chimica. Io penso che quella chimica sia ancora peggio di quella fisica. I residui manicomiali che oggi esistono (i pochi letti destinati ai pazzi all'interno delle strutture sanitarie), sono disposti all'unico scopo di togliere la sintomatologia più effervescente e rimandare a casa un paziente altrettanto malato di quello entrato a farsi curare, senza però le manifestazioni di disturbo che prima provocava. Il risultato finale: non si cura in Occidente la follia, però i dati statistici sono in grande aumento, se è vero che il cinque per cento della popolazione giovanile soffre di disturbi considerati gravi, se è vero che il livello di tendenza dei suicidi è in aumento, se è vero che in Italia ci sono cinque milioni di persone che soffrono di panico, se è vero che i tassi ansiogeni e le manifestazioni depressive sono in aumento. Non si potrà continuare ad andare avanti solamente con la repressione della follia, bisognerà anche trovare le strade della cura. E le strade pa ssano attraverso la paro la - la comunicazione - e non solo la parola verbale, ma anche quella affettiva. È evidcnre che la gente non ci crede, perché ha bisogno di risposte rapid e. Quindi meglio la pillola che stare a frequentare un pazzo. Ma terapcutica è solo la frequentazione
con partecipazione emotiva. Eugenio Borgna sostiene che queste procedure di partecipazione emotiva e di com unicazion e intensa guariscano addirittura dal diabete, c che tante mal attie psicosomatiche sarebbero riducibili perché sono semplicemente sintomatologie di comunicazioni mancate. Sono scelte sociali che bisogna fare: ha tempo, ha voglia la nostra società di prendersi cura della follia? Non sarebbe anche l'occasione di prendersi cura della nostra follia? Oppure la nostra società è così frettolosa, così priva di tempo, di spazio e addirittura di canali di comunicazione adeguati, per cui l'unico criterio che può adottare è solo la segregazione dei pazzi? Queste sono scelte sociali. Le società che si orientano per la contenzione esorcizzano il male, ma il male cacciato fuori dalla porta, rientra comunque dalla finestra. Il problema è molto serio. La chiusura dei manicomi non ha risolto il problema, perché al loro posto dovevano nascere dci luoghi social i assistiti, mentre oggi questa assistenza non si verifica se non a livelli minimali di sussistenza. Il mani,comio svolgeva comunque la sua funzione, che era quella di circoscrivere il mondo (anche i vecchi tendono a non uscire di casa, perché in casa conoscono tutto e fuori casa stanno male). Così il pazzo, che non ha troppi 125
strumenti per orientarsi nel mondo, in un mondo chiuso vive meglio. La chiusura dei manicomi è stata opportuna, perché lì si faceva di rutto, anche pratiche di contenzione che potrebbero essere rubricare nell'ordine della criminologia. Chiudere il manicomio e aprire strutture fatiscenti, non è risolvere il prohlema. Il giorno in cui questa società, di fronte all'aumento del disagio mentale, organizzerà strutture idonee al ricupero, quel giorno incominceremo a fare un discorso serio attorno alla follia. Per ora, siamo a un livello elementare, non dissimile da quello ottocentesco, che con metodi diversi aveva come unico obiettivo la rimozione dal sociale dell' elemento folle.
Uccidere per Satana
Nel!'era postmoderna, o età della tecnica, fioriscono le sette sataniche ed esoteriche. Molto scalpore ha suscitato l'uccisione di una suora a Chiavenna, Maria Laura Mainettt; da parte di tre raP,azze ancora adolescenu; per attuare una macabra ritualità satanica. Come si !JpieP,a questo ritorno di pratiche di sapore medievale? Cristo :;tessosostiene Galimberti- è stato corrotto da Satana, convincendolo di essere ilfig,lio di Dio. Perché esista, al diavolo bisoP,na credere. Ma perché, ancor Of!,f!,t; nell'era dominata dalla razionalità tecnoloP,ica e scientifica, tanti seguact; credenti e soprattutto creduloni? Il cristianesimo può essere considerato il principio dell'ateismo, perché, di tutte le religioni che ci sono al mondo, è l'unica che sostiene che Dio si è fatto uomo. Ma se Dio si è fatto uomo, allora si scompone, si scioglie, si elimina la differenza tra uomo e Dio. Quindi anche l'uomo può essere considerato Dio. La parola sacro, di cui le religioni dovrebbero
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occuparsi, significa «separato». Separato vuoi c.lire che l'uomo nel sacro vede potenza, che non riuscendo a dominare, ipotizza come al dl là dl sé. Nei confronti di questa potenza si rapporta nella forma della preghiera e c.lel sacrificio, all'unico scopo di tenerla in qualche moc.lo lontan a. Se il sacro irrompe nella comunità, si disfa la comunità. Ne abbiamo un esempio con Euripide nella tragedia delle Baccanti, dove Dioniso entra nella città, c.listrugge il palazzo reale (che è il principio dell'ordine), il sovrano diventa un meschino, le Jonne c.liventano menadi, i vecchi diventano bambini. Si scompone insomma un orc.line. Alla c.lomanda: «Come facciamo a cacciare Dioniso?» Dioniso è il simbolo del sacro -, il coro risponde: «Non lo possiamo cacciare, perché le nostre fo rze sono inferiori, solo Dioniso può c.lccidere di andarsene, c solo se concede di anJarsene, allora ritornerà l'ordine nella città». Solo il Dio può anJarsene dalla comunità c.legli uomini. Questo per dire che non è che gli uomini possono consic.lerarsi qualche cosa di vicino al divino, o c.li lontano dal divino. Il Jivino è separato dall'umano. Non appena il c ristian esimo stabilisce che il divino si fa uomo, perde le orme del sacro, immediatamente, e c.livcnta religion e mondana. Oggi lo T28
si vede, lo si tocca con le mani: la religione non parla più di Dio, ma Ji morale sessuale, di scuole pubbliche, di scuole private, di limitazione alle ricerche biotecnologiche... Ma queste sono cose del mondo, non hanno nulla a che fare con la dimensione del sacro. Però il sacro, nonostante che le religioni non se ne prenJano più cura, continua ad esistere. Esiste, per esempio, nella religione islamica, dove Allah è ancora separato dagli uom ini, e dove gli uomini sono ancora disposti a morire pe r Allah. Esiste forse nella sezione ortodossa c.lell' ebraismo. Non esiste più nel cristianesimo, che è la più laicizzata e monc.lana delle religioni, proprio per effetto della figura di Cristo, che diventando uomo e professandosi figlio di Dio, istituisce una Jivinità che non ospita più contemporaneamente il bene e il male, perché anche questo è un secondo significato del sacro . Caccia il male da una parte, nell'Inferno, con Satana, e si istituisce esclusivamente come figura buona, paterna. Quando noi operiamo una divisione tra il bene e il male, operiamo una cosa che la nostra psiche non è mai in grado di comprendere, perché ciascuno c.li noi sa che la nostra psiche ospita la confluenza dei contrari. Quando io amo odio anche, quanc.lo odio 129
amo anche. Cioè i sentimenti sono tutti contaminati. La religione invece allontana da sé il male, lo mette in Inferno, Io racchiude nella figura di Satana, il quale naturalmente, separato da Dio, istituisce nella religione cristiana un Dio positivo che tiene lontano il sacro, e un male assoluto che non riconosce Dio. Come direbbe Freud: tutto ciò c he è rimosso, ritorna. Questa lacerazione fa sì che il Diavolo ritorni con tutte quelle fantasie micidiali che vanno dalle religioni apocalittiche ai su icidi di massa, dagli auto-sacrifici all'adorazione del male e levato a divinità, perché non più composto con la figura benefica di Dio. Questi sono per me i due elementi che fa nno del cristianesimo una religione un po' scombinata: ha distrutto la categoria del sacro, a llo n tanando dal positivo, il Padre, il male che è di ventato il Diavolo, e soprattutto incarna ndo Dio n e ll'uomo, consentendo all' uomo di pensarsi come Dio, che è poi la storia d e ll'Occ iden te. Siccome il sacro agisce comunque nella storia degli uomini, questi, non reperendolo più n ella religione tradizional e, lo vanno a cercare là dove lo trovano, e sono, come s'è detto, i movimenti apocaliuici, le sette esoteriche, le
sette sataniche, i movimenti su icidali; fino ad arrivare a quelle forme più morbide che si chiamano new age, cu i aggiungerei anche i fiori di Bach ... Con questo inconveniente però, che la potenza del sacro è enorme, e mentre prima c'era una religione che com unitariamente, attraverso riti e sacrifici, sosteneva la violenza del sacro - perché il sacro è una dimensione violenta, anche la Bibbia parla di «tremendum», anche il cristianesimo parla d i «timor di D io» - oggi invece, a reggere le dimensioni del sacro è il singolo nella sua solitudine, i cui mez;>;i sono troppo pochi per reggere una forza di queste dimensioni. In q uesto senso parlo del cristianesimo come principio dell'ateismo, in quanto ha d esacralizzato Dio, il qua le non si prende più cura degli uomini, nel senso che dice quello che devono fare, ma non li difende più dalla potenza dell'irrazionale, che la psicologia conosce come potenza dell'inconscio. Ma prima che lo si chiamasse inconscio, il demoniaco era forse il nome più appro priato per quella potenza che ciascuno di noi avverte personalm en te, ma non ha più riti collettivi per poterl a contenere.
Scienza e potere
L'età moderna è inaugurata da un/atto sinP,olare: l'abiura di Galileo (22 P,iugno r633). Filosofo e scienziato, Galileo Galilei aveva J'Coperto, fra l'altro, i fondamenti della teJi copernicana, che scardinava il principio cristiano dell'antropocentrùmo l'uomo al centro dell'universo. L 'abiura di Galileo, indubbiamente determinata dalla paura di finire sul rogo, come capitò a Giordano Bruno, mette in luce tutta la problematicità di a/fermare una verità (o il dubbio) difronte alla verità ùtituita dal potere. O[!,[!,i l'uomo di scienza non è costretto all'abiura, né corre il rischio del rogo, ma il confronto con il potere (interessi economici di parte, mass media, opinione pubblica, ecc.) permane. La ricerca della verità in ambito scientifico è ancora un valore? Oppure occorre, come si è più volte sostenuto, frenare zl progresso scientifico e tecnoloP,ico l A proposito di scienza e di potere, possiamo ricordare quello che diceva Bacone quando ha inaugurato la scienza. Bacone con estrema chiarezza ha detto: «Scientia est potentia».
La disputa tra Galileo e il Papa si basava sul fatto che allora il potere era sostanzialmente un potere politico-religioso, il quale è una forma molto antiquata, rispetto ai poteri sc ientifici, perché il potere politico-religioso fonda la sua legittimità esclusivamente sulla forza. La prova è che oggi la Chiesa, non avendo la fo rza di mettere lo scienziato sul rogo, o semplicemente in galera, non lo fa. Ma solo perché non ha la forza, perché se l'avesse lo farebbe . Invece Bacone dice opportunamente che «scien tia est potentia>>, cioè che il potere sta passando dalla dimensione della forza alla dimensione della competenza. Chi sa può. Non è necessario che sia forre, può per il solo fatto di avere competenza. E questo noi lo vediamo oggi: il potere politico è subordinato al potere scientifico, o, meglio, al potere tecnico-scientifico. Mentre una volta al potere politico spettava la capacità di decidere, oggi il potere politico per decidere deve guardare a un'altra dimensione, che è la dimensione dell' economia, che è una forma più razionale della polit~ ca. Ma anche l'economia, per decidere, guarda alle risorse tecnico-scientifiche. Allora il potere è trasmigrato, non è più nel luogo del politico, non è più nel luogo dell'economico, è già nel luogo del tecnico-scientifico. 1 33
Pensare pertanto che la scienza sia oggi subordinata al potere, ad un potere d'altra natura che non sia quello della competenza, non è più possibile. La scienza del nostro tempo è davvero il potere assoluto. Dobbiamo però tener conto di una cosa: non siamo ancora in un'età della scienza e della tecnica tutta dispiegata, siamo in una fase di passaggio in cui l'uomo tende ancora a pensare di essere il soggetto e che la tecnica sia soltanto uno strumento. Mentre in realtà le cose sono già molto mutate: la tecnica è il soggetto c l'uomo è il funzionario dell'apparato tecnico. Fatta questa precisazione, che molti stentano ancora ad avvertire, dobbiamo dire con estrema chiarezza che il potere economico e il potere politico già dipendono dal potere tecnico-scientifico. Quindi le limitazioni che oggi la scienza subisce, sono limitazioni storiche, temporali, provvisorie, per il semplice fatto che né la politica può realizzare i suoi scopi senza l'apparato tecnico-scientifico, né la religione può realizzare i suoi scopi di mondializzazione di sé medesima senza avvalersi dell'elemento tecnico, come può essere, per esempio, l'elemento mediatico. Se dunque la politica, se la religione, se l'economia hanno bisogno dell'attrezzatura tecnico-scientifica, o, comunque, delle scoperte 134
tecnico-scientifiche per potenziare se stesse, è evidente che il fondamento del potere è già migrato altrove. Quindi non ci sarà più un conflitto tra tecnica e scienza, da un lato, e potere d'altra natura dall'altro, perché il potere d'altra natura ha la propria potenza solo se si fonda sull'a p para to tecnico-scientifico. La condizione di Galileo non si verificherà più, se non come ritardo storico, come lamento delle figure di potere preistorico, che sono per esempio figure di potere religioso o figure di potere politico grossolano, perché il potere più avanzato si appoggia a pancia stesa sulla scienza e sulla tecnica.
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Distruzione ambie ntale
Città sempre più al/oliate e inquinate. Vecchie petroliere affondano nel mare e causano disastri ecologici. Patrimoni forestali si estinguono senza sosta. L 'el/etto-serra produce sconvolgitnenti climatici. O[!,ni anno si diffondono i detti degli incidenti strada!t; che registrano migliaia di morti e feriti in ogni paese. Malgrado la sistematica distruzione dell'ambiente e di chi vi abita, siano essi animali o persone, malgrado la mz~liorata sensibilità dell'opinione pubblica e l'attenzione dei mass media, il processo sembra inarrestabile. Non vi è rimedio? Chi ci salverà dall'autodistruzione? Perché è dii/ici/e conciliare sviluppo economico e conservazione dell'ambiente? Come confrontarsi con la distruzione a mbientale è u n problem a che c i trova completamente impre parati, pe rché non abbiamo una base etica che contempli l'ambiente; non l'abbiamo perché non è stata ancora pensata, c non è stata ancora pensata perch é, fino alla seconda guerra mondiale, la tecnica era ancora
uno stru mento nelle mani degli uom ini, veniva impiegata secondo fi ni umani, mentre adesso è il soggetto della storia. E gli uomini, l' abbiamo detto c ripetuto, sono diventati suoi funzionari in questo suo lancio verso l' infinito, dal momento che la tecnica vuole solo il proprio potenziamento, al d i là di ogni senso c di ogni possibile ipotes i ragionevole. Basti pensare che negli Stati Uniti, ancora oggi, si stanno potenziando le armi nucleari, q uando sappi amo che possono distruggere la Terra già diec imi la volte! E allora, che senso ha migliorare? Che senso ha mettere un comparativo, quando siamo già in grado di distruggere la Te rra d iecimila volte? Questa è una prova che la tecni ca e la scienza procedono comunque, al di là degli scopi. Quando la stori a va al di là degli scopi, nessuno più la pilota. Ma tornando al nostro argomento, dicevo che non abbiamo nessuna etica all'altezza dell' età d ella tecnica. Perché? Vorrei ricordare, per esempio, una delle etiche più famose, forse anche una delle più interessanti, quella di Kant: «Bisogna trattare l'uomo sempre come un fine e mai come un mezzo». A parte che è un'etica che attende ancora di essere realizzata, perché oggi gli uomini sono funzionari delle merci, molto d i più di quanto avesse previsto 137
Marx, basti pensare alla libertà di circolazione delle merci e alla libertà di circolazione degli uomini, per vedere chi è avvantaggiato in questa libera circolazione. Ma è vero che solo l'uomo va trattato come un fine e non come un mezzo? Per esempio: l'aria, che non è un uomo, è un mezzo, o è un fine da salvaguardare? E quello che si di ce dell'aria lo possiamo dire dell' acqua: anche l'acqua è un fine da salvaguardare; anche le foreste so no un fine da salvaguardare; so lo che noi fino a oggi abbiamo pensato a etiche che regolano i rapporti tra gl i uomini, ma che non si fann o carico degli enti ex tra-umani, e per questo siamo completamente disattrezzati dal punto di vista dell a fonda zione di un'etica. Non abbiamo, quindi, un'etica all'altezza dell'età della tecnica. In secondo luogo, per paradosso, dovremmo pensare che sia proprio la tecnica a salvare l'umanità, a salvare la Terra. Nel senso che, dopo il crollo del com unismo, il ca pitalism o è l'unica regola di com portamento rimasta, e il capitalismo ha un suo «padrone» che si chiama profitto. Ora il profitto, per realizzarsi, ha bisogno dello sfruttamento della Terra. Solo che il ca pitalismo non può sfruttare la Terra - che è la risorsa del suo profitto - fino alla sua esaustione, perché esaurisce anche la
fonte d el suo profitto. E allora sarà costretto a limitare il consumo della Terra attraverso espedienti tecnici. Questo già lo vediamo, anche nelle piccole cose, vedi amo per esempio che si impon e all e singole aziende d i fare un depuratore. Che cosa significa? Che il capitalista della piccola azienda serve da un lato il profitto e dall'altro la Terra, facendo il depuratore. H a due padroni, oggi. Il secondo padrone è la tecnica, che gli impone, in un qualche modo, per la salvaguardia della Terra e quindi per lo stesso interesse del profitto capital istico, di salvaguardare quella risorsa del profitto che si chiama Terra. Una parte d el capitale dovrà dunque essere (inevitabilmente, ma per fo rza, non per invocazione patetica), adibito al mantenimento della Terra. Solo che la nostra sensib ilità, oggi, è ancora inferiore alla velocità di distruzione. Noi siamo arrivati a una velocità di distruzione che oltrepassa di gran lunga la coscienza della distruzione. Questo fa sì che si possa creare quella corsa vertiginosa al consumo della Terra, dove, dopo, il riparo diventa praticamente impossibile. E qui non penso solamente ai gas inquinanti, ai petroli dispersi nel mare ... È suffic iente pensare, per esempio, anche solo ai cib i transgemci, che una I39
volta seminati e raccolti re ndono la terra improduttiva per un cerro numero di anni. Tra tecnica da un lato - che è la condizione pe r cui possono mangiare a nche tutti qu e lli che oggi n o n mangiano - c conservazion e della Terra, c'è un equilibrio di tempi. Se l'uso della Te rra si prolunga fin o alla sua usura, o ltre un certo limite non ci sarà più nessuna possibilità di riscatto. Dobbiamo fermarci un mome nto prim a, anch e se i segnali politic i non ci confortano in questo: basti pensare all' atteggiame nto degli Stati Uniti e a lla sensibilità di quel popolo per le sorti d e l pianeta. Se è vero che è il popolo-guid a, se tutti dovessero seguire la loro co ndotta, la Te rra si esaurirà. A q uel p unto sarà guerra tra gli uomin i, e ritorneremo prob abilmente selvaggi alla ricerca di un pezzo di pane.
Terrorismo, guerra santa e scontro di civiltà
L'uragano di morte che si è abbattuto sul mondo occidentale l'n settembre 200 r ha cambiato il corso della storia e ha inaugurato tragicamente il nuovo secolo. A molti osservatori è parso realizzarsi quello <<scontro di civiltà» preconizzato da Samuel H untington in un suo celebre sa[!,[l, iO '· Ma in che modo? Da un lato il mondo ipertecnologico e finanziario americano (rappresentato dalle torri gemelle colpite, simbolo stesso dell'età della tecnica), con il suo armamentario militare sofisticatissimo; dall'altro quella parte non ma[!,[!,ioritaria ma sempre più numerosa del mondo islamico - la sua fazione più fanatica e fondamentalista - che guarda all'Occidente come all'incarnazione del demonio. Due mondi contrappostz; in guerra fra loro. Così l'età della tecnica si è drammaticamente inaugurata con l'invocazione arcaica alla guerra santa. l .o scoll/ro delle cir·iltà l ' llnuot'O ordmc mondw/1•, Garzanti. ,\!ila no 1 000.
La f!.tterra del nuovo millennio ha un cuore antico. Lo «scontro di civiltà», innescato dagli attentati terroristici negli Stati Unitz; ci riporta indietro nel tempo di molti secoli. Come cambierà il corso della storia? Nel nosiro futuro ce dunque l'ombra minaccio.m di un nuovo oscurantismo? Occidente c Oriente sono divisi all'interno di un'unica famiglia fondata sulla dimensione religiosa a sfondo ebraico. Non dimentichiamo che il Dio degli ebrei è un Dio di guerra, che protegge il suo popolo, c che gli ebrei hanno sempre fatto «guerre sante». Queste guerre sono finite nel 70 d.C. Da allora lo scettro della «guerra santa» passò dall'ebraismo al cristianesimo. Basterà leggere l'Apocalisse per avere l'idea di quanta violenza pervada il Dio di Giovanni. Non dimentichiamo soprattutto che l'Occidente è nato quando Costantino vide, a mezzogiorno, nel cielo: «ln hoc signo vinces», che era il segno della croce. La croce è quindi diventata la spada; e l' Occidente cristiano è nato sotto il segno della guerra. Sotto questo segno il cristianesimo ha convertito le popolazioni del Nord, i cosiddetti «barbari». Ha consegnato la propria fede - il sigillo della cristianità - a Carlo Magno, che con le sue guerre ha fondato l'Impero
d'Occidente. Mentre, a partire dal vn secolo, nasceva l' Islam, con Maometto, per il quale, la <
Noi occidentali siamo usciti da questo costru tto sim bolico a partire dall'illuminismo. L'illuminismo ha significato il trionfo della ragione, o perlomeno il primato della ragione, con quel suo coro llario che è l'a teismo (e questo è stato un vantaggio non indifferente). Cem o anni dopo, N ierzsche proclama la «morte di Dio»; niente di più benefi co, perché non abbiamo ch e da guadagnarc i dal supcramento d e l costrutto simbolico di cu i Dio è il fon d amento. La morte di Dio non ha lasciato solamente degli orfani, ma anche degli eredi, nel senso ch e, seppure in forme diverse, noi abbiamo contin uato una <
che riproduce alla lettera lo spirito della tradizione bellica, che consegue all a legge del «tutto o nulla», «o con me o contro di me». Così come la missione di guerra ch iamata inizialmente, Giustizia infinita: come si fa a 'parlare d i giustizia quando a rivendicarla è solo una delle d ue parti? È ciò che, del res to, si è sempre fatto! All'Occ idente resta solo un'alternativa: o si considera come identico alla totalità dell'umanità, o, viceversa, come una parte di un orizzonte più grande. Se riesce a fare questo sforzo, a cui la ragione, sua conquista, lo conduce, allora arriveremo proba bilmente a un miglioramento delle nostre relazioni ed eviteremo quella condizione d i guerra permanente d i cui non riusciamo neppure a percepire gli esiti di sastrosi (che, in ogni caso, ci saranno). Oppure l'Occidente si considera come coinci dente con la totalità dell'umanità. Allora la logica d ella «guerra santa», sotto nuove forme - sen za più Dio, oppure sotto un dio minore, quale p uò essere il d enaro- con tinuerà finché sarà praticabile. Tenendo conto che non possiamo più immaginarci co involti in guerre frontali, ma dovremo aspettarci in futuro sempre maggiori confronti con il terro rismo. Anzi, io addirittura considero il nostro co me il secolo del terrorismo, pe rché se d a T45
un lato l'Occidente possiede un'enorme potenza tecnica ed economica, non dimentichiamo che questa è sempre molto fragile e per spezzarla basta un incidente (lo abbiamo avuto sotto gli occhi). Quindi, avremo sempre meno guerre frontali e sempre più atti terroristici, cui non potremo rispondere con guerre frontali, perché il terrorismo non è visibile, è stratificato, sotterraneo. Questi atti di terrorismo cambieranno radicalmente la Storia, come la qualità della nostra vita, ne sono persuaso. Del resto, Oswald Spengler l'aveva detto cent'anni fa che se l'Occidente fosse andato avanti per la sua strada, avrebbe conosciuto il tramonto. Come tramonta, l'Occidente? Non certo attraverso una contrapposizione di eserciti (perché noi occidentali siamo i più forti), quanto attraverso operazioni terroristiche. Israele muove uno degli eserciti più attrezzati del mondo, contro la povertà più disperata del mondo, quella palestinese. Eppure l'uno si trova nelle mani dell'altro da cinquant' anni, senza riuscire a cavare un ragno dal buco! La sanguinosa storia d'Israele e dei palestinesi ci sta dunque raccontando il futuro: o siamo capaci di leggerlo, o faremo diventare mondiale quello che, per ora, è solamente un conflitto locale. q6
L'uomo nell'età della tecnica
«Ciò che è verame n te inquietante non è c he il mondo si trasformi in u n completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affa tto preparato a questo radicale mutamento del m ondo. Di gran lunga più inquietante è ch e non siamo anco ra capac i di t". J\L l!I IDEGGER, Gelassenheit (1959), 1r. i t. L 'abbandono, l l ,Vlela ngolo, Ce nova, 1983, p. 36.
T.
L'uomo e la tecnica
Siamo tutti persuasi di abitare l'età della tecnica di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirei. Ogni rimpianto, ogni disaffezione al nostro tempo ha del patetico. Ma nell'assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, van ificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se 149
il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l'età della tecnica che non noi, ma l'astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un'obbligazione più forre di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte. In questo inserimento rapido c ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell'uomo pretecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario «umanistico», e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo program ma trovar risposte a simili domande. La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario, occorre rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di na tura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l'età pre-tecnologica e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.
2.
La tecnica è il nostro mondo
Sono questi alcuni temi che nascono dal pensare la configurazione che l'uomo va assumendo nell'età della tecnica. Le riflessioni qui svolte sono solo un avvio. Resta ancora molto da pensare. Ma prima di tutto resta da pensare se le categorie che abbiamo ereditato dall'età pre-tecnologica e che tuttora impieghiamo per descrivere l'uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo in cui l'umanità, come storicamente l'abbiamo conosciuta, fa es perierha del suo oltrepassamento. Per orientarci occorre innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male. La tecnica non è neutra, perché crea un mondo con determinate caratteristiche che non possiamo evitare di abitare e, abitando, contrarre a bitud ini che ci trasformano ineluttabilmente. Non siamo infatti esseri immacolati ed estranei, gente che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne p rescinde. Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni,
persino sogni c desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per espnmerst. Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente c senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, so no sempliceme nte degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell'uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a veder e l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza.
3-
La tecnica è l'essenza dell'uomo
Con il termine «tecnica>> intendiamo sia l'universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l'apparato tecn ico, sia la razionalità che presiede alloro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello «sp irito>> umano, ma come «rimed io» alla sua insufficienza biologica. Infatti, a differenza dell'animale che vive nel mondo stabilizzato dall'istinto, l'uomo,
per la carenza della sua dotazione istintuale. può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell'enigma del mondo, un mondo per l'uomo. L'anticipazione, l'ideazione, la progettazione, la libertà di movimento c d'azione, in una parola, la storia come successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro radice c nell'agire tecnico la loro espressione. In questo senso è possibile dire che la tecnica è l'es:;enza dell'uomo, non so lo perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l'uomo, senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva dal la genericità e non rigidità dei suoi istinti, h a potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione c stabilizzazione, raggiungere «culturalmente» quella selettività e stabilità che l'animale possiede «per natura». Questa tesi, che Arnold Gehlen ha ampiamente documentato nel nostro tempo, era stata anticipata da P latone, Tommaso d'Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer, Nictzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero occidentale, indipendentemente dalla direzione del loro orientamento filosofico.
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4· La tecnica e la n/ondazione radicale della psicoloJ?,ia
Se si accolgono queste premesse, la psicologia deve fare con se stessa dei conti radicali e incominciare a pensare le varie figure, oggetto del suo sapere, a partire dalla tecnica, che è poi quel patto originario tra uomo e mondo che è rimasto «impensato» sia dalla psicologia a indirizzo scienti/ico-naturalistico, che tenta di «spiegare» l'uomo a partire dall'esperimento sull'animale, sia dalla psicologia a indirizzo fenomenologico-ermeneutico che, in tutte le sue varianti: psicodinam iche, comportamentiste, cognitiviste, sistemiche, sociologiche, tenta di «comprendere>> l'uomo a partire dai condizionamenti tipici della cultura occidentale che parla di «corpo», «anima» o «coscienza». Senza un'adeguata riflessione sulla tecnica, pensata come essenza dell'uomo, la psicologia scientifico-naturalistica non può che approdare all'etologia, mentre la psicologia fenomenologico-ermeneutica non può che arrestarsi all'ingenuità del soggettivismo, in quanto all'una sfugge che l'uomo è abissalmente distante dall'animale perché privo di quel connotato tipico dell'animale che è l'istinto, all'altra che !'«anima» o la <
sono il residuato dell'azione e del suo prolungamento tecnico, quindi ciò che resta dopo che l'azione ha già consentito all'uomo di essere al mondo c, in esso, di ritagliare il suo mondo. A questo punto occorre fondare una psicoioJ?,ia dell'azione per evitare sia uno sguardo riduttivo sull'uomo, come accade alla psicologia sciemifico-naturalistica che pensa l'u~mo a partire dall'animale, sia uno sguardo reattivo sull'uomo, come accade alla psicologia fenomenologico-ermeneutica che non accosta l'uomo a partire dalla sua esperienza immediata della realtà attraverso l'azione, ma dalla sua esperienza seconda, e qu ind i re-attiva, che è la riflessione sull'azione. Si scoprirà allora che, a partire dalla carenza istintuale compensata dalla plasticità dell'azione, sarà possib ile spiegare la motricità, la percezione, la memoria, l'immaginazione, la coscienza, il linguaggio, il pensiero, nella loro genesi e nel loro sviluppo, seguendo un percorso assolutamente lineare che, per giustificare il suo tracciato, non ha bisogno di ricorrere a quel dualismo anima e corpo che ogni psicologia dichiara di voler superare senza sapere come. Non c'è scienza infatti che, nata da un falso p re supposto, possa rim uoverlo. senza 1 55
negare se stessa. E questo è proprio il caso della psicologia che, anche se non lo sa, è la più «platonica» delle scienze, perché ancora non si è emancipata dal dualismo antropologico che, inaugurato da Platone e rigorizzato da Cartesio, impedisce alla psicologia di approdare al suo oggetto, se prima questa scienza non si disloca dal presupposto dualistico da cui è nata. Si tratta di una dislocazione che può avvenire solo attra verso una rifondazione radicale della psicologia, che deve assumere come suo punto di partenza non il «soggetto psicologico» e tantomeno l' «oggetto psichico», ma l'azione.
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La ?,enesi «J"Irumentale» della tecnica
Se condividiamo la tesi che la tecnica e l'essenza dell'uomo, allora il primo criterio di leggibilità che va modificato nell'età della tecnica è quello tradizionale che prevede l'uomo come so?.?,etLo e la tecnica come strumento a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo antico, dove la tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un'enclave all 'interno della natura, la cui legge mcontrastata regolava per intero la vita dell'uomo. Per questo Prometeo, l'inventore
delle tecniche, poteva d ire: «La tecnica è di gran lunga più debo le della necessità». Ma oggi è la città ad essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua enclave, a ritaglio recintato entro le mura della città. Allora la tecnica, da strumento nelle mani dell'uomo per dominare la natura, diventa l'ambiente dell'uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell'efficienza, non esita a subordinare alle esigenze dell'apparato tecnico le stesse esigenze dell'uomo. La tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del dominio, da cui è nata e al cu i interno ha potuto svi lupparsi solo attraverso rigorose procedure di controllo che, per esser davvero tale, non può evitare di essere planetario. Questa rapida sequenza era già ch iaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna al suo primo sorgere quan do, senza indugio e con chiara preveggenza, Bacone toglie ogni equivoco e proclama: «Scientia est potentia».
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6. La trasformazione della tecnica da «mezzo» in «fine»
Ma all'epoca di Bacone i mezzi tecnici erano ancora insufficienti e l'uomo poteva ancora rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione tecnica. Oggi invece il «mezzo» tecnico si è così ingigantito in termini di potenza ed estensione da determinare quel capovolgimento della quantità in qualità che Hegel descrive nella Logica e che, applicato al nostro tema, fa la differen za tra la tecnica antica e lo stato attuale d ella tecnica. Infatti, finché la srrumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamenle al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l'acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventafi·ne, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma
perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica. Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei mezzi in fini a proposito del denaro che, se come mezzo serve a produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e bisogni sono mediati per intero dal denaro, allora il conseguimento del denaro diventa il fine, per raggiungere il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni. In altra prospettiva e sullo sfondo di un altro scenario Emanuele Severino osserva che se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può esser raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico il consef!,uimento del mezzo diventa il vero fine che tu tro subordina a sé. Ciò com porta il crollo di numerosi impianti categoriali con cui l'uomo aveva finora definito se stesso e la sua collocazione nel mondo. )
7·
La tecnica e la revisione def!,li scenari storici
Se la tecnica diventa quell'orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d'esperienza, se non è più l'esperienza T59
che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è p iù l'uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero «Strumento», dispone della natura come suo fondo e dell'uomo come suo funzionario . Ciò comporta una radicale revisione dei tradizionali modi di intendere la ragione, la ve rità, l'ideologia, la poli tic a, l'etica, la natura, la religione e la stessa storia. LA RAGIONE non è più l'ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmologie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obiettivi che si intendono raggiungere. LA VERJTÀ non è p iù conformità all'ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più orizzonte capace di garantire il quadro eterno dell'ordine immutabile, se l'ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal «fare tecnico», l'efficacia diventa esplicitamente l'unico criterio di verità. LE IDEOLOGIE, la cui forza riposava sull'immutabilità del loro corpo dottrinale, nell' età della tecnica non reggono alla dura
riduzione di tu t te le idee a semplici tj)otesi di lavoro. La tecnica infatti, a differenza dell'ideologia che muore nel momento in cui il suo nucleo teorico non «fa più mondo>> e tantomeno lo «spiega>>, pensa le proprie ipotesi come «per principio» superabili, e perciò non si estingue quando un suo nucleo teorico si rivela inefficace perché, non avendo legato la sua verità a quel nucleo, può mutare e correggersi senza smentirsi. I suoi errori non la fanno crollare, ma si convertono immediatamente in occasioni di autocorrezione. LA POLITICA, che Platone aveva definito «tecnica regia» perché assegnava a tutte le tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordinc all'apparato economico, a sua volta subordinato alle disponibilità garantite dall'apparato tecnico. In questo modo la politica si trova in quella situazione di adattamento passivo, condizionata com'è dallo sviluppo tecnico che essa non può control lare e tamomeno indirizzare, ma solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura amministrazione tecnica, la politica mantiene un ruolo attivo e quind i decisionale solo là dove la tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua razionalità strumentale. T6 T
L'ETiCA, come fo rm a dell'agire in vista di fini, celebra la sua impotenza ne l mondo della tecnica regolato dal /are come pura produzione di risultati, dove gli effetti si addizion a no in modo tal e ch e gli esiti finali n on sono più riconducibili alle intenzioni d egli agenti iniziali. Ciò significa che non è più l'etica a scegliere i fini e a incaricare la tec nica di reperire i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle su e procedure, condiziona l'etica obbligandola a prender posizione su una realtà, non più naturale ma arti ficiale, che la tecnica non cessa di costruire e rendere possibile, qualunque sia la posizione ass unta dall'etica. Infatti, una vol ta che l' «agire» è subordinato al «fare», come si può impedire a chi può fare di non far e ciò che può? Non con la morale dell'intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta nei termini della «pura ragione» da Kant, perch é questa, fondandosi su l principio soggettivo dell'autodeterminazione e non su quello della responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze oggettive delle azioni e, proprio perch é si limita a salvaguardare la «b uona inte n zione», non può essere all'altezza del fare tecnico. Ma all'altezza non è neppure l'etica della responsabilità che Max Weber ha introdotto e Hans T62
Jonas riproposto perché, se l'etica d ella responsabilità si limita ad esigere, come scrive Weber, che «SÌ ri spond a d ell e conseguenze prevedibili d e ll e pro prie azioni», ebbene è proprio della tecnica dischiudere lo scenario dell'imprevedibilità, imputabil e, non come quella antica a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di /are enormemente maggiore del nostro potere di prevedere. LA f\'ATURA Il rapporto uomo-natura è sta to regol ato per noi occidentali da due visioni del mondo: que lla greca, che concepisce la natura come dimora di uomini e dèi, e quella giudaico-cristiana, poi ripresa dalla scienza moderna, ch e la concepisce come campo d i dominio dell'uomo. Per differenti ch e siano, queste due concezioni convengono n ell'esclud e re che la natura rientri nella sfera di competenza dell'etica, il cui ambito è stato finora limi tato a ll a regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcun a estensione agli enti di n atura. Ma oggi che la natura mostra tutta la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di fronte al quale le etiche tradizionali si fanno mute, perché non h anno strumenti per accogli ere la natura nell'a mbito della responsabilità umana. LA RELIGIONE ha come suo presupposto quella dimensione del tem po dove alla fine
(éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato. Solo in questa dimensione «escatologica>>, che iscrive il tempo in un disegno, tutto ciò che accade nel tempo acquista il suo senso. Ma la tecnica, sostituendo alla dimensione escatologica del tempo quella progettuale, contenuta, come scrive Salvatore Natoli, tra il recente passato in cui reperire i mezzi disponibili e l'immediato futuro in cui questi mezzi trovano il loro impiego, sortrae alla religione, per effetto di questa contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un disegno, un senso, un fine ultimo a cui poter far riferimento per p ronunciare parole di salvezza e verità. LA STORIA si costituisce nell'atto della sua narrazione, che ordina l'accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso. Rispetto alla memoria storica, la memoria della tecnica, essendo solo procedurale, traduce il passato nell' insignificanza del «superato» e accorda al
futuro il semplice significato di <
La tecnica e la soppressione di tutti i/ini nell'universo dei mezzi
8.
Tra le categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l'unica che ci pone all'altezza dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto. «Assoluto» significa sciol to da ogni legame (solutus ab), quindi da ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e condizionamento. Questa prerogativa, che l'uomo ha attribuito prima alla natura e poi a Dio, ora si trova a rifcrirla non a se stesso, come lasciavano presagire la promessa prometeica e la promessa biblica quando alludevano al progressivo dominio dell'uomo sulla natura, ma al mondo delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell'automatismo del loro potenziamento, l'uomo, come scrive
Gunter Anders, ri su lta decisamente inferiore e inconsapevole della sua inferiorità. Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l'apparato tecnico o chi vi è semplicemente inserito, senza poter p iù distinguere se è attivo o è a sua volta azio nato, più non si pone la domanda se lo scopo per cui l'apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dub itare della tecnica, senza di cui nessun se nso e nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la «responsabilità» viene affidata a l «respo nso» tecnico, dove è sotteso l'imperativo che si «deve» /are
tutto ciò che si «PUÒ» /are. Ma quando il positivo è per intero iscritto nell'esercizio della potenza tecnica e il neP.,ativo è circoscritto all'errore tecnico, al guasto tecnicamente riparabile, la tecnica guadagna quel livello di au roreferenzialità che, sottraendola ad ogni condizionamento, la pone come assoluto. Un assoluto che si presenta com e un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vi sta veri/im· ma solo effetti, traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l'increm ento infinito d ella sua funzionalità e della su a efficienza. In questa «cattiva infinità», come la chiamerebbe Hegel, qualcosa ha valore so lo se è «buono per qualcos'altro>>, per cu i proprio gli obiettivi 166
finali, gli scopi, che nell'età pre-tecnologica regolavano le azioni degli uomini e ad esse conferivano «senso», nell'età della tecnica appaiono assolutamente «insensati». A questo proposito non ci si deve far ingannare dal bisogno di senso, dalla sua ricerca affannosa, dalla sua domanda incessante a cui cercano d i dar risposta le religioni con le loro promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del «senso>> non si è salvata d all'u niverso d ei mezzi. Se infa tti il reperimento di senso favor isce l'esistenza, se, come scrive Nietzsche, rappresenta per la condizione umana un vantaggio biologico, là dove il senso non si trova occorre inventario e allora anche il «se nso» si giustifica perché, come mezzo per vivere, è in grado di assurgere a sua volta al rango di <<mezzo». )
Dall'alienazione LecnoloP.,ica all'identificazione tecnoloP.,ica 9.
C he n e è dell'uomo in un universo di m ezzi che non ha in vista altro se non il perfe zionam en to e il potenziamento della pro pria str umentazione? Là d ove il mondo della vita è per intero genera to c reso possibile
dall'apparato tecnico, l'uomo diventa un/unzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell'età della tecnica l'uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell'altro-da-sé che è la tecnica. La tecnica infatti non è l'uomo. Nata come condizione dell'esistenza umana e quindi come espressione della sua essenza, oggi, per le dimensioni raggiunte e per l'autonomia guadagnata, la tecnica esprime l'astrazione e la com bi nazione dell e ideazioni e delle azioni umane ad un livello di artificialità tale che nessun uomo e nessun gruppo umano, per quanto special izzato, e forse proprio per effetto della sua specializzazione, è in grado di controllarla nella sua totalità. In un simile contesto, essere ridotto a funzionario della tecnica significa allora per l'uomo essere «altrove>> rispetto alla dimora che ha storicamente conosciuto, significa essere lontano da sé. Marx ha chiamato questa cond izione «alienazione» c, coerentemente alle condizioni del suo tempo, ha circoscritto l'alienazione al modo di produzione capitalistico. Ma sia il capitalismo (causa dell'alienazione) sia il comunismo (che Marx progettava come rimedio all'alienazione) sono ancora figure iscritte 168
nell'umanismo, ossia ancora in quell'orizzonte di senso, tipico dell'età pre-tecnologica, dove l'uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento. Ma, nell'età della tecnica, che prende avvio quando l'universo dei mezzi non ha in vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovo lge, nel senso che l'uomo non è più un sopgelto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell'alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l'uomo come suo predicato. Ne consegue che la strumemazion e teorica messa a disposizione da Marx, che pure fu tra i primi a prevedere gli scenari dell'età della tecnica da lui chiamata «civiltà delle macchine», non è più del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non perché storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma perché Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con rife rimento all'uomo pre-Lecnolo?,ico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell'età della tecnica, non ci sono p1u né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono su bordinarsi sia i servi sia i stgnon.
A questo punto anche il concetto marxiano di «alienazione» appare insufficiente, perché di alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c'è un'antropologia che vuoi recu perarsi dalla sua estraneazione nella produzione, in un contesto caratterizzato dal conf1itto di due volontà, di due soggetti che ancora si considerano titolari delle loro azioni, non quando c'è un unico soggetto, l'apparato tecnico, rispetto al quale i singoli soggetti sono semplicemente suoi predicati. Esistendo esclusivamente come predicato dell'apparato tecnico che pone se stesso come assoluto, l'uomo non è più in grado di percepirsi come «alienato», perché l'alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario alternativo che l'assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro contesto scrive Romano Madera, l'uomo traduce la sua alienazione nell'apparato in identz/icaàone con l'apparato. Per effetto di questa identificazione, il soggetto individuale non reperisce in sé altra identità al di fuori di quella conferitagli dall'apparato e, quando si compie l'identificazione degli individui con la funzione assegnata dall'apparato, la funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni senso residuo di identità.
w. La tecnica e la revisione delle categorie
umanistiche Siccome, in quanto funzionario dell'apparato tecnico, l'uomo non è più leggibile secondo gli impianti categoriali elaborati e maturati nell'età pre-tecnologica, occorre una radicale revisione delle categorie umanistiche, a partire dalle nozioni di individuo, identità, libertà, comunicazione, fino al concetto di «anima», la cui arretratezza psichica ancora non consente all'uomo d 'oggi un'adeguata comprensione dell'età della tecnica. L'INDIVIDUO. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di «anima», rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell'età della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore quell'entità indivisibile (dal latino: in-dividuum) che a livello naturale fa parte della specie e a livello culturale di una società di cui ripete, per le sue caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l'individuo empirico, l'atomo sociale, ma il
sistema di valori che, a partire da questa singolarità , hanno deciso la nostra storia. L'TDENTITA. Questa nozione che, come quella di individuo, nasce all'interno dell'antropologia occid entale perché, prima dell'Occidente e a fianco dell'Occidente, l'individuo non riconosce la sua identità ma solo l' appartenenza al gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal riconoscimento. Solo che, mentre nell'età pre-tecnologica era possibile riconoscere l'identità di un individuo dalle sue azioni, perché queste erano lette come manifestazioni della sua anima, a sua volLa intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell'individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità, ma come possibilità calcolate dall'apparato tecnico, che non solo le prevede, ma add irittura le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il soggetto non rivela la sua identità, ma quella dell'apparato, all'interno del quale l'identità personale si risolve in pura c semplice funzionalità. LA LIBERTÀ. Se con questa parola intendiamo l'esercizio della libera scelta a partire dalle condizion i esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamentc avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello concesso nelle società poco differenziate,
dove la qualità personale e non oggettiva dei legami, nonché l'omogeneità sociale riducono il margine di libertà a quello elementare dell'obbedienza o della disobbedienza. La tecnica, avendo come suo imperativo la promozione di tutto ciò che si può promuovere, crea un sistema aperto che di continuo genera un ventaglio sempre più allargato di opzioni, che diventano via via praticabili in base ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio espressivo quello impersonale dei rap porti professionali, c rea quella scissione radicale tra «pubb lico>> e «privato» che, anche se da molti è acclamata come cardine della libertà, comporta quella conduzione schizofrenica della vita individuale (sch izofrenia funzionale), che si manifesta ogni volta che la funzione che all'individuo spetta come membro impersonale dell'organizzazione tecnica, entra in collisione con quello che l'individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina infatti per la prima volta nella storia la possibilità per l'indi viduo di entrare in rapporto con gli altri individu i, e quindi di «fare soc ietà», senza che ciò comporti un qualsiasi legame di natura personale. E allora, privati di una comune esperienza d'azione, che è 173
sempre più prerogativa esclusiva della tecnica, gli individui reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi c, nell'impossibilità di riconoscersi comun itariamente, finiscono con il considerare la società stessa in termini puramente stru mentali. LA CULTURA DT MASSA. La disarticolazione tra «pubblico» e <<priva to», tra <<sociale» e «i ndividuale» operata dalla razionalità tecnica, modifica anche il concetto tradizionale di «massa», introducend o quella variante che è la sua atomizzazione c disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello d i massi/icazione come qualità di milioni di sin!!,Ofi, ciascuno dei quali produce, consuma, riceve le stesse cose di tutti, ma in modo so listico. Viene così consegnata a ciascuno la propria massificazione, ma con l'illu sione della privatezza e l'apparente riconoscimento della propria individualità, in mod o che nessuno sia più in grado di percepire un «esterno» rispetto a un «interno», perché ciò che ciascuno incontra in pubblico è esattamente ciò di cui è stato rifornito in privato. Nascono da qui quei processi di deindividuazione c
deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società o mologate e conformiste. I MEZZI D I COMUNICAZIONE. All'omologaz ione sociale contribuiscono in modo esponenziale i mezzi di comunicazione che la tecnica ha potenziato modificando il nostro modo di/are esperienza: non più in contatto con il mondo, ma con la rappresentazione mediatica del mondo che rende vicino il lontano, presente l'assente, disponibile quello che altrimenti sarebbe indisponibile. Esonerandoci dall'esperienza diretta e mettendoci in rapporto non con gli eventi, ma con il loro allestimento, i mezzi di comunicazione non hanno alcun bisogno di falsificare o di oscurare la realtà, perché proprio ciò che informa codifica, e l'effetto di codice diventa non solo criterio interpretativo della realtà, ma anche modello induttore dei nostri giudizi, che a loro volta generano comportamenti nel mondo reale conformi a quanto appreso dal modello induttore. In questa comunicazione tautologica, dove chi ascolta sente le stesse cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque, in questo monolop,o collettivo 1'esperienza della comunicazione crolla, perché è abolita la differenza specifica f75
tra le esperienze personali del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci c le mille immagini che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora esistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono supcrf1uo se non impossibile parlare <~in prima persona». A questo punto i mezzi di comunicazione non appaiono più come semplici «mezzi» a disposizione dell'uomo perché, se intervengono sulla modalità di fare esperienza, modificano l'uomo indipendentemente dall'uso che questi ne fa e dagli scopi che si propone quando li impiega. LA PSICIIE. Quando nell'epoca pre-tecnologica il mondo non era disponibile nella sua totalità, ogni anima costruiva se stessa come risonanza del mondo di cui faceva esperienza. Questa risonanza era per ogni uomo la sua interiorità. Oggi, esonerata dall'esperienza personale del mondo, l'anima di c iascuno diventa coestensiva al mondo. In questo modo viene soppressa la differenza tra interiorità ed esteriorità, perché il contenuto della vita psichica di ciascuno finisce con il coincidere con la comune rappresentazione del mondo, o per lo meno con ciò che i mezzi di comunicazione le destinano come «mondo»; la differenza tra pro/an-
dità e superficie perché, con buona pace della psicologia del profondo, la profondità finisce con l'essere null'altro che il riflesso individuale delle regole del gioco a tutti comune dispiegato in superficie; la differenza tra attività e passività perché, se la tendenza della società tecnologica è quella di funz ionare ad un regime di massima razionalità, quindi leibnizianamente come un sistema armonico prestabilito, non si dà alcuna «allività» che non sia per ciò stesso «adattamento» alle procedure tecniche che, sole, la rendono possibile. In questo modo l'anima viene progressivamente depsicologizzata e resa incapace di comprendere che cosa veramente significa vivere nell'età della tecnica, dove ciò che si chiede è un potenziamento delle facoltà intelleuuali su quelle emotive, per poter essere all'altezza della cultura oggettivata nelle cose la tecnica esige a scapito e a spese di quella soggettiva degli indivzdui.
L 'età della tecnica e l'inadeP,uatezza della comprenszone umana
n.
La depsicologizzazione dell'anima trattiene le discussioni sull'età della tecnica a quel livello inessenziale che è l'esaltazione incondizionata o la demonizzazione acritica. Questo libro
vorrebbe promuovere quel passo ulteriore che è l'apertura dell'orizzonte della comprensione, persuasi come siamo che oggi orizzonte della comprensione non è più la natura nella sua stabilità e inviolabilità, e neppure la storia che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio dell'uomo sulla natura, ma la tecnica, che dischiude uno spazio interpretativo che si è definitivamente congedato sia dall'orizzonte della natura che da quello della storia. Questo è il passaggio epocale in cui ci troviamo, dove l'epocalità è data dal fatto che la storia che abbiamo vissuto ha conosciuto la tecnica come quel fare manipolativo che, non essendo in grado di in cidere sui grandi cicli della natura e della specie, era circoscrirro in un orizzonte che rimaneva stabile e inviolabile. Oggi anche questo orizzonte rientra nelle possibilità della manipolazione tecnica, il cui potere di sperimentazione è senza limite perché, a differenza di quanto accadeva agli albori dell'età moderna, dove la sperimentazione scientifica avveniva in «laboratorio», quindi in un mondo artificiale distinto da quello naturale, oggi il laboratorio è divenuto coestensivo al mondo, ed è difficile continuare a chiamare «sperimentazione» ciò che modifica in modo irreversibile la nostra realtà geografica e quindi storica. q8
Quando le condizioni poste «per ipotesi>> lasciano effetti irreversibili, non è più possibile continuare a iscrivere la tecnica nel giudizio ipotetico-congetturale che ha come sue caratteristiche la problematicità, la revisionabilità, la provvisorietà, la perfettibil ità, la falsificabilità, ma occorre iscriverla nel giudizio storico-epocale che, tra i giudizi, è il più severo, perché ciò che accade una volta è accaduto per sempre in modo irrevocabile. A questo punto la domanda: se l'uomo non esiste a prescindere da ciò che fa, che cosa diventa l'uomo nell'orizzonte della sperimentazione illimitata e della manipolazione infinita dischiusa dalla tecnica? Per rispondere è necessario superare la persuasione ingenua secondo cui la natura umana è un che di stabile che resta incontaminato e intatto qualunque cosa l'uomo faccia. Se infatti l'uomo, come vuole l'espressione d i Nietzsche, è quell'«animale non ancora stab ilizzato» che fin dalle origini non può vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si modifica in base alle modalità di questo «fare», che perciò diventa l'orizzo nte della sua autocomprensione. Non dunque l'uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma l'uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con f79
cui si declina tecnicamente. Oggi la tecnica dispone l'uomo di fronte a un mondo che si presenta come illimitata manipolahilità, e perciò la natura umana non può essere pensata come la stessa che si relazionava a un mondo, che è poi il mondo che la storia ci ha finora descritto, ai suoi limiti inviolabile e fondamentalmente immodificabile. Eppure ancor oggi l'umanità non è all'altezza dell'evento tecnico da essa stessa prodotto e, forse per la prima volta nella storia, la sua sensazione, la sua percezione, la sua immaginazione, il suo sentimento si rivelano inadeguati a quanto sta accadendo. Infatti la capacità di produzione che è illimitata ha superato la capacità di immaginazione che è limitata e comunque tale da non consentirci più di comprendere, e al limite di considerare <<nostri», gli effetti che l'irreversibile sviluppo tecnico è in grado di produrre. Quanto più si complica l'apparato tecn ico, quanto più fitto si fa l'intrecc io dei sottoapparati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto più si riduce la nostra capacità di percezione in ordine ai processi, ai risultati, agli esiti, per non dire degli scopi di cui siamo parti e condizioni. E siccome di fronte a ciò che non si riesce né a percepire né a immaginare il nostro .'ìentimento diventa incapace di T80
reagire, al <
sce dalla perfetta razionalità di un 'organizzazione, per la quale «Sterminare» aveva il semplice significato di «lavorare», può essere assunto come quell'evento che segna l'atto di nascita dell'età della tecnica. Non si trattò allora, come oggi potrebbe apparire, di un evento erratico o atipico per la nostra epoca e per il nostro modo di sentire, ma di un evento paradigmatico, in grado ancora oggi di segnalare che se non saremo in grado di portarci all'altezza dell'operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacune, ciascuno di noi resterà irretito in quella irresponsabilità individuale che consentirà al totalitarismo della tecnica di procedere indisturbato, senza neppure più il bisogno di appoggiarsi a tramontate ideologie. r8r
A differenza, infatti, del nichilismo descritto dalla filosofia che si interroga sul senso dell'essere e del non essere, il nichilismo della tecnica non mette in gioco solo il senso dell'essere e quindi dell'uomo, ma l'essere stesso dell'uomo e del mondo nella sua totalità. E se il nichilismo descritto dalla filosofia era anticipatore, profetico, ma impotente, perché non era in grado di determinare il nichilismo che prefigurava, il nichilismo sotteso al carattere afinalistico della tecnica non solo ha in suo potere la nienti/icazione, ma, stante la qualità degli imperativi tecnici e la morale degli strumenti che ne deriva, è nella possibilità di esercitare questo potere. Il fatto che la filosofia, e con lei la letteratura e l'arte, ancora si trattengono sul problema del senso dell'essere e quindi dell'uomo, senza sporgere sul problema della possibilità che hanno l'uomo e il mondo di continuare ad essere, contribuisce a quel «nichilismo passivo» che Nietzsche denunciava come nichilismo della rassegnazione. Nata sotto il segno dell'antict;oazione, di cui Prometeo, <
ormai inadeguatezza psicbica, si nasconde per l'uomo il massimo pericolo , così come nell'ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza. Questo ampliamento psichico, alla cui promozione questo intervento affida il suo senso, se da un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all'uomo che la tecnica accada a sua insa p uta e, da condizione essenziale all'esistenza umana, si traduca in causa dell'inszgnzji"canza del suo stesso esistere.
Indice
p.
7
l ntroduz ione
La la mpada di Psiche 17
Sessualità e prostituzione nell'era della tecnica
22
Il ritorno di Sonate
27
La religione-spettacolo e il voltO occidentale di Dio
33
Amori senza età
38
Divertenti a tutti i costi
43
Guerra contro il vizio del fumo
48
Viaggiare senza andare lontano
53
Credere
58
Il fallimento della modernità
63
La crisi della psicanalisi
68
Comunicazione nell 'era di internet
72
Pensare, esercizio obsoleto
76
La societa della depressione
79
Pedorilia, il desiderio inconfessabile
p.
84
Adolescenti che uccidono
90
Identità e neuroscienza
95
Clonazione umana
101
Verso la sterilità?
J06
L'amore e il tempo
IlO
Colpa di Platone)
11 6
Libertà c d isuguaglianza
121
D isagio psichico e contenzione
127
Uccidere per Satana
132
Scienza c potere
136
Distruz ione ambientale
141
Terrorismo, guerra santa e scontro di civiltà
L'uom o neli ' età della tecnica 149
L'uomo c la tecnica
1 51
La tecnica è il nostro mondo
152
La tecnica è l'essenza dell'uomo
154
La tecnica è la rifondazione radicale della psicologia
156 1
58
159
La genesi <<Strumentale>> della tecnica La trasformazione della tecnica da <<mezzo>> in «fine» La tecnica c la revisione degli scenari storici La tecnica c la soppressione di tutti i fini ncll'uni\'erso dei mezzi Dall'alienazione tecno logica all'identificazione tecnologica
171
La tecnica e la re\·isione delle categorie umanistiche
177
L'età della tecnica e l'inadeguatezza della comprensione umana
Finito di stampare nel mc;e di aprile 2004 nell'officina dell'Istituto grafico Casagrande s.a. a Bdlinzona
Interviste e saggi brevi l ntcrviste di Maueo T\ellinclli: Abraham B. Yehoshua, Il cuore delmo11do Davi d G rossm;tn, l.a 1111'1/lOrÙI della 5hoab Amos Oz, llsemo della pace Interviste di Gu ido rcrrari: Erich Fromm, II coraggio di e.uere Eugènc loncsco, La ncerca di D10 lmerviste di Paolo
n, Stefano:
Giulio Einaudi, Tu/11 i nmtri mercoledì Saggi brevi: Al ben o Cadioli, L {•dliore c i su m letto n L: m ben o G alimberti, Lulampada dJ Psrche Carlo Dionisotti, L'n'ltalw/ra Snzzeru <' ln[!,hiltcrra Ctrlo Agi iati, Il rr/ral/o carprto d1 Carlo Caltaneo lkttina M iil lcr (cur.), Leragwnidelnt'mÙ'o Cesare fium i, Cuor/ti barre Fricdrich D iirrcnmau, Le scintille del f><'nsiero
Biblioteca di storia
Scrittori
Philippe Braunsrein er al., Il me.\lreredello storrco dell'Età moderna Ale:.sandro Pastore, Il medrco 111 trrbunale Raffaello Ccschi. ,'Jellabir111t0 delle ~·alli
Fricdrich D tirrenmau, Il pensronato Catherine CoIomb, GISidlr d infanzia Laura Pariani, TI paese delle ~·oca!L l l ugo l .octschcr, L 't!ll<'llore delle /owre Ma x Frisch, Fo!!,lt dal ttHcapa11e Robc rt \X'alscr, Poe.\te Emmanucl Bovc, ( 1n uomo che sapeva Jiirg Sreiner, 11 collega 'l(my Dm·ert, L 'irola atlanlmr Emmanuel Bave. La mortedt Drnah Corinna Bilie, Cento ptcwle stom· crude/t ,\Iax Frisch · Friedrich DLirrenman, Cormpmulenza Giuliano Scabia, Ll'ltm·a un lupo Céci le I n es l .oos, !.a morte c la bambola Romain G a ry, C:hwro dt donna Patrizia Runfola, Lczwm dt tenebre .\laurizio Salabcllc, L 'altro mquilino fricdrich Di.irrcnmall, La l'alle/la dell'Eremo Bcrnard Commcm. Il mnp_resso der bustt Annemarie Schw:~rzenbach, Srbylle Riccardo D e Gennaro, l giorm della lumaca Amélie Piu me, A1arte-.\1élma se ne va M iche le Ansani, Ultllllllllt'Ssaggia/rati Carherine Colomb, Il tt•mpo degli angeli Bruno Pischcdda, C:artÌ}I,a hlue.r Markus \X'crncr. Vt .1pal/e C.'cilc lncs Loos, Untdod'orodasposa Dcnton \X'elch. /11 ?.iOt'<'IIIIÌ il ptacere George' llyvernaud, 11 L'a?_oneddle cacchc
.fon Marhieu, Storia delle 11lpt r 5"'J-1 9"" Sandra Bia nconi, l.ùt[!,lli' di/ronttera Fabrizio Mena, Stamperte at mary,mi d'Italia