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MICKEY SPILLANE LA VENDETTA È MIA (Vengeance Is Mine, 1950) 1 Era morto stecchito, quell'uomo. Giaceva sul pavimento, in pigiama, il cervello spappolato sul tappeto, e stringeva in mano la rivoltella. Presi a massaggiarmi la faccia per dissipare la nebbia che mi ottenebrava il cervello, ma i poliziotti non ne vollero sapere. Uno mi bloccò una mano e mi gridò una domanda che mi fece dolere la testa peggio che mai, e un altro cominciò a picchiarmi con uno straccio bagnato fino a darmi l'impressione che mi avessero aperto in due, semplicemente. Dissi: «Basta, maledizione!» Uno di loro scoppiò a ridere e mi costrinse a retrocedere fino al letto. Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a ricordare. Riuscivo soltanto a vedere il morto in mezzo alla stanza e la mia rivoltella. La mia rivoltella! Qualcuno mi prese per un braccio, mi rimise in piedi, e le domande ricominciarono. Era più di quanto potessi sopportare. Allungai un calcio con tutte le mie forze, ed un viso paffuto sotto un cappello di feltro uscì dal mio campo di visuale, gemendo, piegato in due. Forse risi, non lo so. So soltanto che ci fu un suono rauco, chiocciante. Qualcuno disse: «Adesso aggiusto io questo bastardo.» Ma, prima che potesse mettere in atto il suo proposito, la porta si aprì, ci fu uno scalpiccio di piedi sul pavimento e, con l'eccezione dei gemiti, il silenzio piombò nella camera. Seppi così che Pat era arrivato. La mia bocca si aprì e la mia voce disse: «Il buon vecchio Pat! Sempre pronto a dare una mano.» Il suo tono non era affatto amichevole. «Davvero il momento più adatto per ubriacarsi! Qualcuno ha toccato quest'uomo?» Nessuno rispose. Il viso paffuto sotto il cappello di feltro era rannicchiato in una poltrona e continuava a gemere. «Mi ha allungato una pedata. Mi ha allungato una pedata, quel figlio di puttana... proprio qui.» Un'altra voce disse: «È vero, capitano. Marshall lo stava interrogando e lui gli ha allungato una pedata.» Pat brontolò qualcosa e si chinò su di me. «Bene, Mike, alzati. Avanti, alzati.» Mi strinse un polso con una mano e mi costrinse ad appoggiarmi al
bordo del letto. «Sto terribilmente male,» dissi. «Ho paura che presto ti sentirai ancora peggio.» Prese uno straccio bagnato e me lo tese. «Passatelo sulla faccia. Hai un aspetto davvero molto poco attraente in questo momento.» Presi lo straccio e vi affondai dentro la faccia. Parte della nebbia si sollevò e scomparve. Quando il tremito cessò, fui un poco spinto ed un poco trascinato nel bagno. La doccia fu una frustata fredda che mi sferzò la pelle, ma valse a risvegliarmi al fatto che ero un essere umano, non un'anima che fluttuava nello spazio. Resistetti quanto più a lungo mi fu possibile, poi chiusi il rubinetto ed uscii dalla doccia. Pat intanto aveva fatto preparare una cogoma di caffè bollente, e mi rovesciò in gola, più o meno, il contenuto di una chicchera. Cercai di sogghignare, ma non c'era allegria nel mio sorriso, e ce n'era ancora meno nel tono di Pat. Parlò, la bocca atteggiata ad una smorfia di disgusto. «Smettila di scherzare, Mike. Questa volta ti trovi in un pasticcio brutto davvero. Che cosa diavolo ti ha preso? Mio Dio, ti devi mettere nei guai ogni volta che ti va male con una sgualdrinella?» «Non era una sgualdrinella, Pat.» «Va bene, va bene, era una brava ragazza. Ma non ci sono scuse, in ogni modo.» Dissi qualcosa di poco gentile. Avevo ancora la lingua spessa e impastata, ma sapevo quello che mi dicevo. Anzi, per maggior sicurezza, lo ripetei un paio di volte. «Chiudi il becco,» mi replicò. «Non sei il primo a cui capita. Ma parliamo d'altro adesso. Sai che cosa c'è nella stanza qui accanto?» «Certo. Un cadavere.» «Già, un cadavere, precisamente. Un cadavere che però non era tale quando tutti e due siete entrati nella stessa stanza d'albergo ieri sera. E questa mattina lui ha in mano la tua rivoltella e tu sei ubriaco fradicio. Che cosa significa tutto ciò?» «Significa che io sono sonnambulo, che l'ho accoppato mentre dormivo e che non ricordo niente di niente.» Questa volta fu Pat ad imprecare. «Smettila di scherzare adesso, Mike. Voglio sapere che cosa è successo.» Indicai con un dito la porta dell'altra stanza. «Da che parte sono saltati fuori quegli scagnozzi?» «Sono poliziotti, Mike. Poliziotti come me, e vogliono sapere quello che
voglio sapere io. Verso le tre, una coppia nella stanza qui accanto ha sentito quello che, a suo parere, era un colpo d'arma da fuoco. Lo scappamento di un auto, hanno pensato quei due, per rassicurarsi; poi la cameriera questa mattina ha aperto la porta, ha visto il cadavere per terra ed è svenuta. Qualcuno ha chiamato la polizia, ed eccoci qua. E adesso raccontami che cosa è accaduto.» «Che sia dannato se lo so,» risposi. «Finirai certo per essere dannato se non lo sai.» Guardai Pat, il mio amico, il mio compagno. Il capitano Pat Chambers, il miglior funzionario della Squadra Omicidi di New York. Non aveva certo l'aria dell'uomo contento di stare a questo mondo. Mi sentii assalire da una nausea improvvisa, ed arrivai appena in tempo a sollevare il coperchio dello sciacquone. Pat lasciò che finissi e che mi ripulissi la bocca con un poco d'acqua, poi mi tese i miei abiti. «Vestiti.» Aveva le labbra atteggiate ad una smorfia e scuoteva la testa con aria disgustata. Le mani mi tremavano tanto che cominciai ad imprecare ai bottoni della camicia. Cercai di annodare la cravatta, ma, dopo alcuni tentativi vani, vi rinunciai. Senza una parola, Pat mi aiutò ad infilare la giacca. Fui contento che si dimostrasse amico, anche se aveva tutte le ragioni di essere furibondo con me. Appena fui pronto, aprii la porta e lo precedetti nella stanza vicina. Il viso rubicondo sotto il cappello di feltro se ne stava ancora abbandonato sulla poltrona, ma non gemeva più, e riuscii a vederlo chiaramente per la prima volta. Una espressione antipatica, davvero, e tale da non spingermi a rimpiangere quello che avevo fatto. Se non ci fosse stato Pat, avrebbe certo cercato di darmi il fatto mio. Ma saremmo stati in due, in questo caso. I due agenti in uniforme e i due ispettori in abiti borghesi fissarono Pat con una espressione che voleva dire chiaramente: «Già, gli amici sono sempre amici, vero, capitano?» Ma Pat, con poche parole, rimise a posto le cose, poi, volgendosi a me, disse: «E adesso cominciamo da principio, Mike.» Mi fece cenno di sedere in una poltrona. «Voglio sapere tutto quanto, fino all'ultimo particolare.» Abbassai gli occhi verso il cadavere. Qualcuno aveva avuto la buona idea di coprirlo con un lenzuolo. «Si chiama Chester Wheeler. È proprietario di un emporio a Columbus, nell'Ohio. Ha ereditato l'azienda dai suoi genitori. È sposato, con due figli. Era a New York per un giro d'affari.»
Guardai Pat e feci una pausa. «Avanti, Mike.» «L'ho conosciuto nel 1945, quando ero stato appena congedato. Eravamo tutti e due a Cincinnati, ed era difficilissimo trovare una camera d'albergo. Io ne avevo una, a due letti, e lui dormiva sul pianerottolo. Gli ho offerto il letto libero, e lui ha accettato. Era capitano dell'aviazione — qualcosa che aveva a che vedere con il vettovagliamento — ed era incaricato di non so quale missione da Washington. Ci siamo ubriacati assieme la sera, ci siamo separati il mattino seguente, e non ho più saputo niente di lui fino a ieri sera. L'ho incontrato in un bar, dove stava cercando di annegare i suoi dispiaceri in un boccale di birra, e ce la siamo spassata un poco assieme. Ricordo che abbiamo visitato almeno una mezza dozzina di locali, poi egli ha avanzato l'idea che avremmo potuto passare la notte assieme qui, e siamo venuti qui. Ho comperato una bottiglia, siamo saliti e l'abbiamo scolata. Con ogni probabilità, eravamo piuttosto ubriachi, quando ci siamo addormentati. Poi so che qualcuno ha cominciato a martellarmi la testa nel tentativo di farmi svegliare.» «È tutto?» «Assolutamente tutto, Pat.» Si alzò e diede un'occhiata circolare alla stanza. Uno degli agenti in borghese anticipò la sua domanda e disse: «Niente è stato toccato, capitano.» Pat annuì e si inginocchiò accanto al cadavere. Sarebbe piaciuto anche a me fare la stessa cosa, ma il mio stomaco non era certo del medesimo avviso. Pat non si rivolgeva a qualcuno in particolare quando disse: «Suicidio, nessun dubbio a questo proposito.» Poi, voltandosi verso di me: «Questa faccenda finirà per costarti la licenza, Mike.» «Non vedo perchè. Non sono stato io a sparargli addosso,» risposi, cupo. La faccia paffuta sotto il cappello di feltro disse: «Come fate a sapere di non essere stato voi, furbacchione?» «Non sparo mai addosso alla gente quando sono ubriaco,» replicai, «a meno che non comincino a strapazzarmi e non mi schiaccino i piedi una volta di troppo.» «Avete l'aria di conoscere abbastanza bene la musica, vero?» «Già, il solfeggio è sempre stato il mio forte.» «Smettetela, voi due,» intervenne Pat. Il viso paffuto sotto il cappello di feltro obbedì e mi lasciò in pace con il mio mal di testa. Raggiunsi una sedia in un angolo e mi misi a sedere. Pat tenne una specie di conferenza vi-
cino alla porta, ed il risultato fu che tutti quanti uscirono, ad eccezione di faccia rubiconda. La porta non si era ancora chiusa quando arrivò il coroner, con armi e bagagli, cesta di vimini ed aiutanti. Gli ometti nella mia testa ripresero a battere il martello sull'incudine, ed allora chiusi gli occhi e lasciai al lavoro soltanto le orecchie. Il medico legale ed i poliziotti giunsero alla medesima conclusione. Era stato colpito da un proiettile della mia rivoltella, una grossa .45, esploso quasi a bruciapelo. Sul calcio risultavano tanto le mie impronte quanto le sue. Ma le sue erano le più recenti. In quel momento Pat fu chiamato al telefono, e, mentre egli parlava, sentii faccia rubiconda suggerire al medico legale qualcosa che mi spinse ad alzarmi di scatto. Faccia rubiconda disse: «...Ma può anche trattarsi di delitto. Erano ubriachi tutti e due e hanno cominciato a litigare. Il nostro amico qui presente ha fatto fuori il suo avversario, gli ha messo in mano la rivoltella per simulare il suicidio, poi, per dare maggiore verosimiglianza alla cosa, ha buttato giù altro alcool.» Il medico legale annuì. «Abbastanza ragionevole.» «Grassone maledetto!» Mi alzai di scatto e gli piombai adosso. Gli avrei saldato il fatto suo se Pat, lasciando andare il ricevitore, non si fosse messo fra noi. Mi prese per un braccio questa volta, e non mi mollò fino a quando non ebbe terminato la sua telefonata. Quando il cadavere fu sistemato nel cesto e portato via, Pat si abbottonò la giacca e mi fece cenno di sedere sul letto. Obbedii. Aveva le mani in tasca, e parlava tanto all'agente in borghese quanto a me. Parlava contro voglia, evidentemente, ma senza balbettare minimamente. «Doveva capitare presto o tardi, Mike. Dovevate ficcarvi nei guai, un giorno o l'altro, tu e quella tua maledetta rivoltella.» «Piantala, Pat. Sai benissimo che non sono stato io a sparare.» «Ne sei proprio sicuro?» «Diavolo, dovresti...» «Come fai a sapere di non essere stato tu?» «Era chiusa, la stanza, ed io ero tanto ubriaco che non ho nemmeno sentito la detonazione. La prova alla paraffina dimostrerà che non c'è un briciolo di polvere da sparo sulle mie mani. Non capisco davvero perchè perdiamo il nostro tempo con questa inutile discussione.» «Perchè, suicidio o non suicidio, finirai per perdere la licenza. Non viene
considerata troppo di buon occhio la gente che va in giro con una rivoltella in tasca e con Dio sa quanto alcool nello stomaco.» Aveva ragione, niente da dire. Ero davvero andato a cacciarmi in una situazione poco simpatica. I suoi occhi fecero per l'ultima volta il giro della stanza, indugiando sugli abiti del morto, sulle bottiglie vuote, sui mozziconi sparpagliati dappertutto. La mia rivoltella era sul tavolo, vicino al bossolo del proiettile, l'impugnatura ancora tutta macchiata di polvere bianca. Pat chiuse gli occhi ed abbozzò una smorfia. «Andiamo, Mike,» disse. Per tutta la strada, faccia rubiconda non mi perdette d'occhio un solo istante, con un sorriso fra pelle e pelle che aveva tutta l'aria di voler dire: «Cerca soltanto di battertela ed avrò il pretesto di spaccarti la faccia.» Per la prima volta mi resi conto della fortuna di avere un amico come Pat. Mi sottopose personalmente ad alcune prove e mi fece attendere giù al piano terreno fino a quando non ebbe ottenuto i dati desiderati. Quando tornò a scendere, avevo riempito più che a metà il portacenere. «E allora?» gli chiesi. «Su di te, niente. Sul cadavere tracce di polvere.» «Mi levi un bel peso dallo stomaco.» Corrugò la fronte. «Davvero? Il giudice distrettuale vuole scambiare quattro chiacchiere con te. Il padrone dell'albergo dove hai creduto opportuno andare a passare la notte manca assolutamente di senso dell'umorismo e ha messo in piedi un chiasso del diavolo. Sei pronto?» Lo seguii nell'ascensore, maledicendo la scalogna che mi aveva fatto incontrare una vecchia conoscenza proprio nel giorno in cui costei aveva deciso di trasmigrare a miglior vita. Ma aveva già preso la sua decisione quando mi aveva incontrato? O non era stata per caso la vista della mia rivoltella a dissipare le sue ultime esitazioni? Aveva i suoi guai, d'accordo, ma perchè non si era buttato dalla finestra invece di servirsi della mia arma? Avrebbe anche potuto pensare alle noie che mi avrebbe procurato... Il giudice distrettuale era un tipo che sorrideva solo quando c'erano fotografi nei dintorni. In quel momento aveva il viso atteggiato a un'espressione di sarcasmo, e c'era il ghiaccio nella sua voce. Ci disse di sederci, poi si appoggiò al bordo della scrivania. Mentre Pat spiegava la faccenda in tutti i suoi particolari, egli non tolse per un istante gli occhi da me né fece tentativo alcuno di mutare espressione. Se pensava che quella specie di sorriso professionale mi mettesse in imbarazzo, si sbagliava di grosso. Stavo per dirgli che mi ricordava maledettamente una rana quando egli mi batté sul tempo.
«Per voi è finita in questa città, signor Hammer. Spero che siate tanto intelligente da rendervene conto.» Che cosa diavolo avrei potuto rispondere? Era lui ad avere in mano tutti gli assi. Si allontanò dalla scrivania e rimase fermo in mezzo alla stanza, come per darmi modo di ammirare il suo fisico. «Non nego che ci abbiate reso qualche servizio in passato, ma questa volta vi siete spinto troppo lontano. Mi spiace che le cose debbano terminare così, ma la città, in avvenire, dovrà rinunziare ai vostri servizi.» Stava prendendo davvero le cose molto dall'alto, il nostro giudice distrettuale. Pat gli diede un'occhiata non troppo benevola, ma non aprì bocca. «Sono dunque tornato un cittadino qualunque?» chiesi. «Precisamente: senza licenza e senza permesso di porto d'armi. E questo per sempre, mettetevelo bene in testa.» «Avete per caso intenzione di chiudermi sotto chiave?» «Non posso, in coscienza, e vi assicuro che me ne dispiace.» Dovette probabilmente intuire dal mio sogghigno quello che stavo per dirgli, perchè la sua faccia si fece addirittura cianotica. «Per essere un giudice distrettuale, mi sembrate piuttosto a terra,» dissi. «Senza di me, i giornali vi avrebbero relegato da chissà quanto tempo nella sezione umoristica.» «Mi sembra che basti, signor Hammer!» «Tenete chiuso il becco o fatemi buttare in galera. Mi varrò fino in fondo dei miei diritti di libero cittadino, e uno di questi diritti mi permette di appellarmi contro le decisioni di qualsiasi funzionario pubblico. Da quando siete entrato in questo ufficio mi siete stato alle calcagna perchè io avevo buonsenso sufficiente da andare a scovare alcuni assassini nei loro nascondigli. Il mio nome figurava nella prima pagina dei giornali, mentre il vostro non era neppure menzionato. Ho una cosa soltanto da dire: è una vera fortuna che i poliziotti facciano parte di un servizio civile. Perlomeno, per arrivare ai posti che occupano, devono avere un minimo di intelligenza. Eravate forse un ottimo avvocato, ed è un vero peccato che abbiate lasciato quella professione per cercare di diventare il re dei poliziotti.» «Fuori di qui!» La sua voce era una specie di miccia pronta a scatenare l'esplosione da un secondo all'altro. Mi alzai e mi calcai il cappello in testa. Pat aveva già aperto la porta. Il giudice distrettuale continuò: «La prima volta che vi lasciate semplicemente multare per eccesso di velocità, baderò personalmente ad elevare nei vostri confronti tutte quante le imputazioni
contemplate dal codice. Potrete così vedere ancora una volta il vostro nome nella prima pagina dei giornali.» Mi fermai, una mano sulla maniglia, e mi voltai per rivolgergli un sogghigno, poi Pat mi tirò per una manica, e allora chiusi la porta. Nel corridoio, egli non disse nulla fino a quando non ebbimo raggiunto le scale, ma alla fine non riuscì più a frenarsi. «Tu sei pazzo, Mike.» «Niente affatto, Pat. È stato lui a stuzzicarmi.» «E proprio non potevi tenere chiuso il becco?» «No.» Mi passai la lingua sulle labbra, per inumidirle, poi mi infilai in bocca una sigaretta. «Era un pezzo che aspettava l'occasione buona, e questa volta l'occasione era più che propizia per darmi lo sgambetto.» «E adesso eccoti disoccupato.» «Già, e finirò per aprire un negozio di drogheria.» «Non è una situazione divertente, Mike. Eri un investigatore privato ed un buon poliziotto, quando volevi. C'erano momenti in cui ero contento di averti vicino. Adesso è finita. Vieni nel mio ufficio; non ci resta altro da fare che berci sopra qualcosa.» Mi introdusse nel suo sancta sanctorum e mi indicò una sedia. Nell'ultimo cassetto, in un vano speciale nascosto sotto una pila di registri neri, c'erano una bottiglia ed alcuni bicchieri. Pat prese due bicchieri, li riempì e me ne tese uno. Brindammo in silenzio e li vuotammo di un solo sorso. «Però è stato uno spettacolo abbastanza divertente, fino a quando è durato.» «Già,» risposi, «divertente davvero. Ma adesso?» Fece scomparire bottiglia e bicchieri e si appoggiò pesantemente allo schienale della poltrona. «Verrai chiamato, se c'è un'inchiesta. E il giudice distrettuale, se ne ha voglia, può renderti la vita dura per pura cattiveria. Intanto, per il momento sei libero di fare quello che vuoi. Ho garantito io per te. Sei troppo noto ai ragazzi per riuscire a battertela alla chetichella.» «Non ho la minima intenzione di battermela. Verrai a comperare il pane e il burro da me, vero?» Pat rise. «Vorrei che tu non prendessi le cose tanto alla leggera. Da oggi in avanti il tuo nome figurerà sulla lista nera.» Cavai di tasca il portafoglio, presi la licenza e la buttai sulla scrivania. «Credo di non averne più bisogno.» La prese e la esaminò con espressione cupa. In una grande busta, sullo schedario, c'erano la mia rivoltella e le copie dei rapporti. Affrancò la mia licenza ai fogli e fece il gesto di mettere via tutto quanto. Poi ci ripensò,
tolse dalla rivoltella il caricatore e imprecò: «Bella davvero. L'hanno messa qui carica.» Con il pollice, spinse fuori dalla custodia metallica i proiettili, facendoli cadere sul piano della scrivania. «Vuoi dare un bacio d'addio alla tua vecchia amica, Mike?» Quando si accorse che non rispondevo, disse: «A che cosa diavolo stai pensando?» Gli occhi ridotti a due sottili fessure, ricominciai a sogghignare. «A niente,» risposi, «assolutamente a niente.» Mi guardò, corrugando la fronte, mentre faceva scivolare tutto quanto nella busta e la chiudeva. Il mio sogghigno continuava a farsi più marcato, ed egli finì per perdere la pazienza. «Che cosa c'è di tanto buffo, accidenti? Conosco quella tua espressione... l'ho vista abbastanza spesso. Che cosa diavolo sta passando per il tuo cervello squinternato?» «Oh, niente, Pat, te lo assicuro. Via, non essere tanto duro con un povero amico disoccupato.» «Che cosa ti sta passando per la testa?» insistette. Presi una sigaretta dal pacchetto sulla scrivania, ma, dopo aver dato un'occhiata alla marca, la rimisi a posto. «Stavo semplicemente pensando al sistema di rientrare in possesso di quella licenza, questo è quanto.» La mia risposta parve calmarlo. Si drizzò e si aggiustò il nodo della cravatta. «Un bel colpo davvero, se ci riesci. Ma temo sia impossibile.» Presi di tasca una sigaretta e l'accesi. «Oh, non sarà affatto difficile, invece.» «No? Pensi forse che il giudice distrettuale te la restituisca con un biglietto di scuse?» «La cosa non mi sorprenderebbe affatto.» Pat mi fissò, perplesso. «Non hai più rivoltella, e non puoi riprendergliela con la forza.» «No,» risi, «ma posso proporgli un dilemma. O mi restituisce la licenza, o lo copro di ridicolo.» Appoggiò le mani alla scrivania e tornò a farsi poliziotto, dalla testa ai piedi. Non si trattava più di un gioco. «Sai qualcosa, Mike?» «Niente più di quello che sai anche tu. Tutto quello che ho detto era la verità. Un controllo sarà facile, e i tuoi referti di laboratorio stanno a suffragare le mie asserzioni. Quell'uomo si è suicidato. Sono d'accordo con te su questo punto. Si è fatto saltare le cervella, e non so perchè o quando. So soltanto dove, e la cosa non mi è del minimo aiuto. E adesso hai sentito
abbastanza?» «No, bastardo che non sei altro, niente affatto.» Questa volta sogghignava anche lui. Mi calcai il cappello in testa, e quando uscii sogghignava ancora. Come chiusi la porta, lo sentii allungare un calcio alla scrivania ed imprecare ad alta voce. Uscii nella luce abbagliante del mezzogiorno fischiettando fra i denti, anche se, date le circostanze, avrei dovuto essere di umore nerissimo. Presi un taxì all'angolo e mi feci portare in ufficio. Per tutto il percorso, continuai a pensare a Chester Wheeler ed a quello che era rimasto di lui sul tappeto. Un suicidio lampante, dicevano, e la mia rivoltella in pugno. Il privato cittadino Michael Hammer, cioè io. Niente licenza, niente rivoltella, niente lavoro, e persino niente mal di testa ormai. L'autista mi lasciò davanti al portone, ed io pagai, entrai e premetti il pulsante dell'ascensore. Velda era accoccolata nella mia grande poltrona di cuoio, la faccia nascosta dietro un giornale. Quando entrai, lo abbassò e mi guardò. Sulle sue guance c'erano tracce di lacrime, ed aveva ancora gli occhi rossi. Cercò di dire qualcosa, scoppiò in singhiozzi e si morse le labbra. «Calma, ragazza mia.» Gettai il cappotto sull'attaccapanni e la costrinsi ad alzarsi. «Oh, Mike, che cosa è successo?» Era molto tempo che non vedevo Velda comportarsi da donna a quel modo. La mia bellissima segretaria era una creatura umana, dopo tutto. In fondo, la preferivo così. La presi fra le braccia e feci scorrere le dita fra la serica mezzanotte dei suoi capelli. La strinsi un poco, ed ella appoggiò la testa alla mia spalla. «Smettila, cara. La situazione non è poi tanto brutta. Mi hanno portato via la licenza e mi hanno fatto ritornare semplice cittadino. Il giudice distrettuale è finalmente riuscito a raggiungere il suo scopo.» Si spinse indietro i capelli e mi batté un colpo leggero sulle costole. «Quel maledetto stupido! Spero che tu gli abbia cantato il fatto suo.» Sorrisi, sentendola parlare a quel modo. «Ho fatto del mio meglio per dirgli quello che dovevo dirgli, ecco tutto.» «Avresti dovuto spifferargli tutto quanto.» Tornò ad appoggiare la testa sulla mia spalla e si soffiò il naso. «Scusami, Mike. Sono una stupida a piangere a questo modo.» Si soffiò di nuovo il naso nel fazzoletto che avevo nel taschino, poi io la pilotai verso la scrivania. «Prendi lo whisky, Velda. Pat ed io abbiamo bevuto alla fine dell'agenzia Mike Hammer. Noi invece berremo alla nuova azienda, la S.P.P.P., la Società Protettrice dei Poliziotti Privati.»
Velda prese la bottiglia e riempì due bicchieri. «C'è poco da scherzare, Mike.» «È quello che ho sentito ripetere tutta mattina. Ma il buffo è che invece c'è davvero da scherzare.» Vuotammo i bicchieri e tornammo a riempirli. Accesi due sigarette e gliene tesi una. «Raccontami tutto adesso,» disse Velda. Le lacrime erano scomparse ora, per dar luogo alla curiosità e ad una punta piuttosto accentuata di collera. Per la seconda volta nella giornata ripetei quello che sapevo, prolungando la storia fino alla scena conclusiva nell'ufficio del giudice distrettuale. Quando ebbi terminato, ella si abbandonò ad alcune imprecazioni molto poco femminili e gettò la sigaretta nel cestino della carta straccia. «Questi maledetti funzionari pubblici e le loro meschine ambizioni! Calpesterebbero non so chi per arrivare in cima. Vorrei poter fare qualcosa invece di starmene qui a rispondere alla tua posta, Mike. Mi piacerebbe conciare davvero per le feste quell'individuo.» Si lasciò cadere sulla poltrona di pelle, poi sollevò le gambe, ripiegandole. Allungai il braccio e le abbassai la sottana con le punta delle dita. Per molte donne le gambe sono un semplice mezzo di locomozione. Quelle di Velda, invece, erano molto meglio, e rappresentavano per me una maledetta distrazione. «Ormai non ci sarà più posta alla quale rispondere, bimba.» I suoi occhi tornarono a riempirsi di lacrime, ma ella cercò coraggiosamente di sorridere. «Lo so. Posso però sempre trovare un posto di commessa in qualche negozio. Ma tu che cosa farai?» «Dove è andata a finire la tua innata genialità? Una volta eri sempre piena di idee.» Mi riempii un altro bicchiere di whisky e lo sorseggiai, guardandola. Per un buon minuto ella si morse le unghie, poi rialzò la testa e mi fissò, con espressione perplessa. «A che cosa stai mirando, Mike?» La sua borsetta di pelle verde era sulla scrivania. La presi e la lasciai cadere. Ci fu un tonfo sordo. «Tu hai una rivoltella e l'autorizzazione a portarla, vero? E hai una licenza da agente privato, vero? Bene, da oggi in avanti l'agenzia è tua. Tu farai il lavoro di cervello, io quello di gambe.» L'ombra di un sorriso le sfiorò le labbra, come se si rendesse conto di quello che intendevo. «Anche quello ti piacerà, vero?» «Che cosa?» «Il lavoro di gambe.» Mi scostai dalla scrivania e andai a fermarmi di fronte a lei. Non volevo
correre rischi con Velda. Tornai ad allungare il braccio e ad abbassarle le sottane che si erano sollevate fin oltre il bordo delle calze di nylon. «Certo,» dissi poi, retrocedendo precipitosamente, «anche se le tue gambe valgono infinitamente di più delle mie.» Sorrideva sempre, ma il suo sguardo era pericoloso, e mi resi conto improvvisamente che Velda era l'unica donna al mondo che fosse sempre riuscita a tenermi a distanza pur non facendo nulla per scoraggiarmi. «Adesso la padrona sei tu,» dissi. «Ora devi trascurare la posta e consacrare tutti i tuoi sforzi ad un solo scopo: quello di farmi tornare in possesso della mia licenza e della mia rivoltella. Non voglio certo suggerirti la strada migliore per giungere a questo scopo, ma, se fossi al tuo posto, non perderei di vista il cadavere di Chester Wheeler. Quando era vivo, Wheeler era un buon uomo ed un ottimo padre di famiglia. Per quello che riguarda i particolari, guarda i giornali d'oggi ed avrai un prezioso punto di partenza. Io intanto mi darò da fare per te in giro. Nel primo cassetto troverai alcuni assegni firmati in bianco.» Tornai a riempire il bicchiere e lo vuotai di un fiato. Atteggiai la bocca ad un sorriso, poi scoppiai in una fragorosa risata. «Non c'è niente da ridere, Mike,» osservò Velda. Accesi un'altra sigaretta e mi calcai il cappello in testa. «Non potrai mai immaginare quanto sia buffo tutto questo, bimba. Vedi, Chester Wheeler è stato ucciso con un solo proiettile. Ci sono sempre sei pallottole nel caricatore della mia .45, e quando Pat l'ha vuotato ce n'erano soltanto quattro.» Velda mi fissò, la punta della lingua stretta fra i denti, ed i suoi occhi assunsero una espressione maledettamente pericolosa. Ma non minacciavano me, oh, no certo. Continuai lentamente: «Se tu avessi avuto in mano quella rivoltella, puntata contro il ventre di qualcuno, avresti potuto premere il grilletto e tenerti pronta a premerlo una seconda volta, in caso di necessità?» Si passò la lingua sulle labbra. «Non avrei avuto bisogno di premerlo una seconda volta, no certo.» Mi seguì con lo sguardo mentre traversavo l'ufficio. Mi voltai per rivolgerle un cenno di saluto, poi chiusi in fretta la porta. Non si era presa la briga di abbassarsi la sottana, e, come ho già detto, non volevo correre rischi. Ma un giorno o l'altro avrei finito per prendermi la mia rivincita con lei. A meno che non fosse lei a prendersela con me.
2 Tutti i giornali ne parlavano quella sera, e le mie foto erano in tutte le prime pagine. Quegli stessi che venivano a baciarmi i piedi quando avevano bisogno di qualche storia sensazionale, non esitavano a farmi a pezzi, letteralmente. Uno solo aveva il pudore di dedicarmi qualche pensierino gentile. Scriveva il mio epitaffio. In versi. Il giudice distrettuale doveva torcersi dal ridere. Che aspettasse solo un poco e avrebbe pianto, quel maledetto. Terminai un pasto sommario e misi i piatti nel lavandino. Potevano aspettare. Feci una doccia scozzese, mi rasai, indossai un abito ben stirato e trasferii alcune centinaia di dollari dal cassetto del comodino al mio portafoglio. Mi guardai un attimo allo specchio e sbuffai. Sarei stato un uomo distinto, senza quella mia faccia e il vuoto sotto la giacca là dove ci sarebbe dovuta essere la rivoltella. Ma era, questo, un difetto a cui potevo facilmente ovviare, perchè, se non avevo la rivoltella, avevo pur sempre la fondina. La infilai al solito posto sotto l'ascella, e mi sentii meglio. Tornai a guardarmi nello specchio e sogghignai. Era una vera vergogna che non fossi bello. La sera precedente era un'ombra vaga, rotta qua e là da qualche punto luminoso. Ma, prima di cercare di ricostruirla, volevo sbrigare un'altra faccenda. Erano le sette quando parcheggiai la macchina vicino all'albergo dove tanti guai mi erano capitati. Si trattava di un albergo vecchio stile, di uno di quegli alberghi dove le donne sole non vengono accettate se non hanno più di ottant'anni. Prima di entrare, aprii la cassa dell'orologio, ne feci scivolare fuori il movimento e lo misi al sicuro nella tasca della camicia. L'impiegato al banco non parve certo felice di vedermi. Fece il gesto di sollevare il ricevitore del telefono, poi ci ripensò e premette tre volte il pulsante di un campanello. Qualche secondo dopo apparve un individuo dal collo di toro e dalle spalle larghe, e la sua presenza parve rassicurare l'impiegato. Non ebbi certo bisogno di presentarmi. «Ho perduto il movimento dell'orologio ieri sera,» spiegai, «e lo voglio recuperare». «Ma... la stanza non è stata ancora rimessa in ordine,» balbettò l'altro. «Lo voglio recuperare, e subito,» insistetti. Gli misi la mano sotto al naso e gli mostrai la cassa vuota. Il gigante guardò, interessato, dal disopra
della mia spalla. «Ma...» «Subito,» ripetei. Il poliziotto disse: «Salirò con lui e lo cercheremo assieme, George.» L'impiegato fu evidentemente contento che qualcuno avesse deciso per lui, perchè si affrettò a consegnare le chiavi. «Da questa parte.» Il poliziotto mi diede di gomito, ed io lo seguii. Nell'ascensore rimase in piedi, le mani dietro la schiena e gli occhi fissi al soffitto. Al quarto piano, mi pilotò per il corridoio ed infilò la chiave nella serratura della camera numero 402. Nulla era cambiato. Il pavimento era sempre sporco di sangue, i letti erano sempre in disordine, la polvere bianca per il rilievo delle impronte era sempre visibile un poco dappertutto. Il poliziotto si fermò sulla soglia, le braccia incrociate, senza perdermi d'occhio un istante mentre io guardavo sotto i mobili. Esplorai coscienziosamente ogni centimetro quadrato, senza badare al tempo. Il poliziotto si impazientì e cominciò a tamburellare con le dita contro il muro, poi, quando ebbi guardato dappertutto, disse: «Non c'è. Andiamo.» «Chi è stato qui, dopo che la polizia se n'è andata?» «Nessuno, amico, nemmeno la cameriera del piano. Andiamo. Probabilmente avete perduto quell'orologio in qualche bar.» Non risposi. Avevo scostato le coperte dal letto nel quale avevo dormito ed avevo visto il foro del proiettile nel materasso. Qualche centimetro più alto, e non avrei più avuto il fastidio di dovermi fare la barba. L'imbottitura del materasso può fermare un proiettile come una lastra d'acciaio, e il confetto non doveva essere andato troppo lontano, ma quando sondai il foro con l'indice, non incontrai che lana. Il proiettile era scomparso. Qualcuno mi aveva battuto, precedendomi. E per un paio di cose mi aveva battuto, perchè mancava anche il bossolo. Oramai non avevo più nulla da fare lì dentro. «Eccolo,» esclamai di lì a qualche istante, mostrando al poliziotto il movimento dell'orologio che avevo abilmente sfilato dal taschino della camicia. Annuì con un cenno del capo, non mi perdette d'occhio mentre rimettevo il movimento al suo posto, nella cassa, e tornò a scortarmi fino alla porta dell'albergo. Mi congedai da lui con un sorriso di gratitudine. Qualcosa mi diceva che
non avrebbe tardato a rimpiangere amaramente la sua compiacenza. Ed anche l'impiegato l'avrebbe rimpianta, quando la polizia si sarebbe accorta che Chester Wheeler non si era suicidato, non più di me, certo. Il mio defunto compagno della sera precedente era stato bellamente assassinato. E neppure per me l'avvenire si prospettava troppo roseo. Fermai la macchina davanti ad un bar dove c'era un posto di parcheggio libero ed entrai nel locale. Quando mi portarono la birra che avevo ordinato, presi un nikel dal resto ed andai nella cabina telefonica, in fondo alla sala. Era tardi, ma Pat non era certo tipo da lasciare l'ufficio prima di aver riordinato tutto quanto, e fui fortunato questa volta. «Qui parla il cittadino Michael H.,» dissi. Rise nel ricevitore. «Come va la drogheria?» «Un successo, Pat, un vero successo. Ricevo adesso un ingente ordine di carne fresca di assassinato.» «Che cosa?» «Una semplice metafora.» «Oh.» «A proposito, sono assolutamente fuori causa per quello che riguarda la faccenda Wheeler?» Mi sembrava quasi di vedere l'espressione perplessa del suo viso. «A quanto mi consta, non ti si può muovere imputazione alcuna. Perchè?» «Semplice curiosità. Gli angeli azzurri erano nella stanza molto prima che io tornassi su questa terra dei vivi. Hanno ficcato ben bene il naso dappertutto, secondo la loro simpatica abitudine?» «No, non credo. Quello che era accaduto era così evidente che...» «Hanno portato via qualcosa?» «Il cadavere,» rispose, «la tua rivoltella, un bossolo e gli effetti personali di Wheeler.» «È tutto?» «Uh-uh.» Feci una breve pausa, poi: «Di solito i suicidi non lasciano un biglietto, Pat?» «Di solito sì, quando non sono ubriachi e non hanno un testimone. Se ci pensano da molto tempo, cercano in genere di giustificare il loro atto. Ma se si decidono bruscamente, in un impeto di disperazione, raramente ne trovano il tempo.» «Wheeler non era un tipo impulsivo, o non credo, almeno,» dissi. «Se-
condo ogni apparenza, era un uomo d'affari molto quadrato.» «È sembrato anche a me. Non aveva l'aria di un candidato al suicidio, vero?» «Niente affatto.» «E non ha detto niente che lasciasse prevedere un suo atto insano. Mmmm!» Lasciai passare qualche secondo, poi: «Pat, quanti proiettili restavano nella mia rivoltella?» «Quattro, se non mi sbaglio.» «Esatto. E io non avevo sparato, da quando ci eravamo allenati assieme al tiro a segno, la settimana scorsa.» «E allora...?» C'era un tono di profondo disagio nella sua voce. «E allora,» risposi, a voce bassissima, «la mia rivoltella non ha mai meno di sei proiettili, amico.» Se fosse stato una donna, avrebbe strillato. Invece cominciò a urlare nel telefono, ma io non gli risposi. «Mike, accidenti, parla fuori dai denti... Mike...» Scoppiai a ridere, non fosse altro che per fargli sapere che c'ero, ed interruppi la comunicazione. Di lì a cinque minuti al massimo il giudice distrettuale avrebbe saputo e si sarebbe preso una paura maledetta. Il giudice distrettuale era un pezzo grosso, certo, ma Pat non era tipo da lasciarsi impressionare. Avrebbe parlato chiaro, e quando avesse saputo come stavano davvero le cose il mio poco onorevole avversario si sarebbe sentito venire la pelle d'oca. La faccenda si faceva sempre più divertente. Tornai nella sala e vuotai la mia birra. Erano le otto passate quando chiamai Velda a casa sua. Non c'era. E non c'era nemmeno in ufficio. Forse si era recata da uno specialista di insegne per far cambiare la dicitura sulla porta. Tornai al mio tavolo e cercai di riflettere. Non era facile, perchè non avevo prestato attenzione alcuna a ciò che era accaduto il giorno prima, con l'aggravante che tanto io quanto Wheeler avevamo bevuto come due otri. Il destino me lo aveva fatto conoscere nel 1945 solo per buttarmelo fra i piedi cinque anni dopo, in circostanze cosi straordinarie. Quando l'avevo incontrato, la sera prima, avevo avuto l'impressione che fosse piuttosto depresso. Ma, appena mi aveva visto, si era rianimato, non si era fatto pregare per fare bisboccia in grande stile con me, e un'ombra di melanconia era riapparsa nei suoi occhi solo al termine della serata, nella
camera d'albergo, quando mi aveva detto che era a New York da una settimana, per affari, e che si stava preparando a tornare a casa. Non eravamo stati assieme mollo tempo, no, ma eravamo stati buoni amici. Se fossimo stati assieme nella jungla e un giapponese lo avesse fatto fuori, io non ci avrei pensato due volte a piantare la baionetta nella gola di quel bastardo. E lui avrebbe fatto lo stesso per me. Ma non eravamo nella jungla, purtroppo; eravamo a New York, dove i delitti non dovrebbero accadere ed invece accadono di continuo. Un individuo che mi era simpatico viene in città, ed una settimana dopo è morto stecchito. Una settimana. Che cosa aveva fatto in questa settimana? Che cosa era successo? Chi aveva frequentato? L'origine della sua morte andava ricercata qui, o piuttosto a Columbus, Ohio? Una intera, maledetta settimana. Misi il cappello sulla sedia per marcare il posto, presi ancora qualche nikel dal resto e tornai a scivolare nella cabina telefonica. C'era un'altra domanda ancora. Che cosa dovevo fare in proposito? Dopo un attimo di riflessione sapevo la risposta. Chiamai successivamente due numeri. Al secondo trovai il mio uomo. Era un agente privato, come ero stato io fino a qualche ora prima, ma era retto, onesto e buon lavoratore. Si chiamava Joe Gill. Gli avevo fatto un grosso favore, una volta, ed ora poteva cominciare a mostrarmi la sua riconoscenza. Dissi: «Parla Mike, Joe. Ti ricordi di me?» «Diavolo,» rise, «con tutta la pubblicità che ti stanno facendo, come potrei dimenticarmi di te? Spero solo che tu non sia alla caccia di un posto.» «Non precisamente. Bene, hai da fare in questo momento?» «In questo momento no. Hai in testa qualcosa?» «Un mucchio di roba, amico. Lavori sempre per le compagnie di assicurazioni?» La sua risposta fu qualcosa di simile a un grugnito. «Lavoro solo per le compagnie di assicurazione. Ti puoi tenere le tue rivoltelle e i tuoi duri. Io mi occupo soltanto di beneficiari mancanti.» «Vorresti farmi un piacere, Joe?» Esitò un secondo soltanto. «Certo, Mike. Mi hai cavato dai guai un mucchio di volte. Non hai che da parlare.» «Bene, si tratta di quel tale che è stato trovato morto nella camera d'albergo, vicino a me: Chester Wheeler. Vorrei qualche informazione sul suo conto. Non la storia della sua vita, no; vorrei soltanto sapere che cosa ha fatto qui, in città, nel corso di questa sua ultima settimana. Era venuto per
concludere alcuni acquisti per il suo emporio a Columbus, Ohio, e desidererei un resoconto di quello che ha fatto dal momento in cui ha messo piede a New York. Credi che si tratti di una cosa possibile?» Sentii la sua matita raschiare sulla carta. «Lasciami qualche ora. Comincerò ad occuparmene io personalmente e lascerò i particolari ai ragazzi. Dove posso trovarti?» Ci pensai un momento, poi risposi: «Prova al Greenwood Hotel. È un alberghetto da quattro soldi in una laterale dell'Ottantesima, un posticino dove non fanno troppe domande.» «D'accordo. A più tardi, Mike.» Riappesi il ricevitore e mi feci strada fra la folla del bar. Il mio cappello era appeso ad un gancio sul muro, la mia sedia era occupata, e c'era un tale che si stava pagando la birra con il mio resto. Ma non mi sognai nemmeno di arrabbiarmi. Questo tale era Pat. Il cameriere portò un'altra birra, previo un nuovo prelievo al mio resto. «Be', come vanno le cose, amico?» dissi. Pat si voltò lentamente e mi guardò. Aveva gli occhi velati, la bocca atteggiata ad un sorriso sarcastico. Pareva stanco e preoccupato. «C'è una saletta qui sul retro,» disse. «Andiamo là. Ho bisogno di parlarti, Mike.» Vuotai la birra e portai con me un altro bicchiere pieno nella saletta sul retro. Quando feci scivolare il pacchetto di Luckies attraverso la tavola, egli scosse la testa ed aspettò che avessi acceso. Chiesi: «Come hai fatto a trovarmi? .» Invece di rispondermi, mi chiese a sua volta: «Che cos'è questa storia, Mike?» «Quale storia?» «Lo sai benissimo.» Si piegò in avanti, senza perdermi d'occhio un solo istante. «Mike, non ho la minima intenzione di arrabbiarmi questa volta, non ho nessuna voglia di perderci il sonno. Sono un funzionario di polizia, o almeno dovrei esserlo. Per il momento, sto trattando questo caso come se fosse davvero importante e come se tu la sapessi davvero più lunga di me. Ecco perchè ti rivolgo domande alle quali tu devi rispondere. Che cos'è questa storia?» Socchiusi gli occhi per evitare il fumo della sigaretta. «Se ti dicessi che Chester Wheeler è stato assassinato, Pat?» «Ti chiederei: in che modo? Da chi?» «Non so in che modo, e non so da chi.» «Perchè allora, Mike? Perchè si tratta di un assassinio?»
«Perchè dalla mia rivoltella sono stati esplosi due colpi, ecco perchè.» Cominciò a tamburellare con le dita sul piano del tavolo. «Maledizione, Mike, parla chiaro. Siamo amici, d'accordo, ma sono stufo di essere trattato come un bambino. Spiegati, accidenti.» Scoppiai in una risata. «Dalla mia rivoltella sono stati esplosi due colpi. Non basta?» «Per me non basta. È tutto?» Annui ed aspirai una lunga boccata alla sigaretta. Il viso di Pat parve addolcirsi, ed egli trasse un profondo respiro. Arrivò fino al punto di abbozzare un sorriso. «Stanimi a sentire, Mike,» disse. «Capita abbastanza spesso di trovare un suicida con una pallottola nella testa. Qualche volta la stanza è letteralmente crivellata di pallottole, perchè il nostro uomo ha premuto più di una volta il grilletto prima di trovare il coraggio di tenere ferma la bocca della rivoltella contro la tempia. Si tratta, in genere, di gente che non sa servirsi di un'automatica, e molti sono coloro che sparano un colpo di prova per vedere come funziona l'arma.» «Dal che bisogna dedurre che quello di Chester Wheeler è stato un suicidio e niente altro che un suicidio, vero?» «Un momento, non ho finito,» replicò Pat con un sorriso. «Quando mi hai parlato dei proiettili della tua rivoltella, ho dato ordine per radio ai ragazzi di informarsi degli spostamenti di Wheeler, e siamo riusciti ad individuare un collega d'affari cui egli aveva fatto visita il giorno prima della sua morte. Quest'uomo ci ha dichiarato che Wheeler era piuttosto depresso ed aveva accennato più di una volta al suicidio. Pare che gli affari gli andassero piuttosto male.» «Chi era quest'uomo, Pat?» «Un fabbricante di borsette, Emil Perry. Se hai qualche lamentela da presentare, vieni pure da me, Mike, ma non spaventarmi più. D'accordo?» «Sì,» sibilai. «Ma non mi hai ancora detto come hai fatto a trovarmi.» «Ho fatto individuare il numero da cui avevi chiamato, amico cittadino. Avevi chiamato da un bar, ed ero sicuro che ti saresti trattenuto qualche tempo a bere. Prima di venire qui, sono passato all'albergo a controllare la tua storia. È... sì, ho trovato il foro di proiettile nel materasso.» «E hai trovato anche il proiettile, vero?» «Certo che lo abbiamo trovato E abbiamo trovato anche il bossolo.» Mi irrigidii sulla sedia, in attesa del seguito. «Erano nel corridoio, dove tu li avevi lasciati cadere. Vorrei che tu la smettessi di cercare di dare a questa storia un carattere misterioso... per il semplice gusto di mettermi nei guai.»
«Stammi a sentire...» «Via, Mike, non eccitarti. Il poliziotto dell'albergo mi ha parlato della tua piccola messa in scena.» Mi alzai di scatto, stringendo i denti. «E io che ti credevo furbo! Un idiota: ecco quello che sei, Pat.» «Via, basta con questi scherzi, Mike.» Mi sorrise una seconda volta, amichevolmente, e sì allontanò, lasciandomi con gli occhi fissi sulla sua schiena fino a quando non scomparve fra la piccola folla che si accalcava nella sala. Già, proprio voglia di scherzare avevo, accidenti! Credevo di bestemmiare fra me e me fino a quando mi accorsi che due tizi, scossi dalle espressioni scandalizzate delle loro compagne, mi stavano guardando di traverso. Ma, non appena videro bene la mia faccia, dissero alle ragazze di badare ai fatti loro e ricominciarono a bere. Bene, l'avevo voluta io. Avevo fatto il furbo, e Pat era stato più furbo di me. Forse l'idiota ero io. Forse Wheeler si era davvero suicidato. Forse era tornato lui dalla morgue per seminare là proiettile e bossolo. Perchè io non ero stato: questo era certo. Presi il pacchetto di sigarette ed uscii in strada a respirare una boccata d'aria fresca che non fosse satura di problemi. Dopo pochi istanti, mi sentii subito meglio. C'era un emporio all'angolo. Entrai, mi diressi ad una fila di cabine telefoniche sul retro, presi la guida di Manhattan e cominciai a consultarla. Come ebbi terminato, presi quella di Brooklyn. Anche qui niente. Finalmente, in quella di Bronx, trovai ciò che cercavo: un certo Emil Perry abitava in uno dei migliori quartieri residenziali della zona. Mancavano dieci minuti alle undici quando mi fermai con la macchina davanti ad una bella villa di mattoni rossi e spensi il motore. Accanto al marciapiede c'era già ferma una Cadillac ultimo modello che recava scritto a lettere d'oro, sulle portiere, le iniziali E. P. Sulla porta, un grosso battente di bronzo recava le stesse iniziali, ma non me ne servii. Eo stavo sollevando infatti quando mi capitò di dare un'occhiata alle finestre. Se si trattava di Emil Perry, era un uomo grande e grosso, con una fortuna in gioielli alla cravatta e alle dita di tutte e due le mani. Stava parlando con qualcuno che non potevo scorgere e continuava a passarsi la lingua sulle labbra. Avreste dovuto vedere la sua faccia. Sembrava maledettamente spaventato. Rimisi a posto il battente, adagio, e mi nascosi nell'ombra. Quando diedi
un'occhiata all'orologio, erano passati dieci minuti e nulla ancora era accaduto. Attraverso i cespugli, vedevo la finestra e la parte superiore del cranio del grassone. Non si era mosso. Qualche minuto ancora, e la porta si aprì tanto da lasciare scivolare fuori un uomo. Non c'era luce alle sue spalle, e così mi fu possibile vederlo in faccia solo quando mi passò accanto. Allora la mia bocca si atteggiò ad un sogghigno niente affatto raccomandabile, e, mentalmente, sghignazzai all'indirizzo di Pat. L'individuo uscito da quella casa si chiamava Rainey. Era un duro con una fedina penale maledettamente sporca, ed era sempre a disposizione per quel tipo di lavoro ne! quale un duro era necessario. Aspettai che Rainey avesse raggiunto la strada e fosse salito su una macchina. Quando si fu allontanato, salii a mia volta in macchina ed accesi il motore. Non avevo bisogno di vedere il signor Perry. Non quella sera, in ogni modo. Partii, e pochi minuti dopo ero a Manhattan. Quando raggiunsi il Greenwood Hotel, la mezzanotte era passata da qualche minuto. L'impiegato mi fece firmare il registro, volle essere pagato in anticipo e mi tese la chiave della stanza. Il mio angelo custode doveva avere un ben curioso senso dell'umorismo perchè la stanza che mi era stata assegnata aveva il numero 402. Se l'indomani doveva esserci un cadavere in quella stanza, quel cadavere sarebbe stato il mio. Dovevano essere le tre o le quattro del mattino quando Joe Gill bussò alla porta del 402. Scivolai giù dal letto ed andai ad aprire. Joe entrò e si chiuse la porta alle spalle. «Accidenti!» borbottò. «È mezz'ora che busso. Credevo che tu fossi morto.» «Lascia perdere questa parola. Sono solo stanotte. Trovato qualcosa?» Buttò il cappello su una sedia e si mise a sedere. «Si, ho trovato qualcosa. Abbastanza, credo. Non erano troppo disposti ad aiutarmi all'albergo, dato che avevano appena ricevuto una visita della polizia. Che cosa diavolo hai combinato?» «Gli ho messo una pulce nell'orecchio. E adesso l'onorevole capitano della squadra omicidi, il mio amico che dovrebbe sapere il fatto suo, pensa che io abbia scherzato. Mi sospetta perfino di aver seminato qualche prova fasulla.» «Ed è vero?» «È possibile. Come potrei sapere qual è una prova vera e quale no? Do-
po tutto, una sola cosa importa: è stato davvero un suicidio?» Joe mi rispose: «Sì.» Cavò di tasca un fascio di carte e vi batté sopra un dito. «Se ti dovessi presentare il conto, non te la caveresti con meno di duecento dollari. Sei uomini hanno perso il loro sonno, tre hanno dovuto rinunciare ai loro appuntamenti ed uno ha avuto una sccnataccia con la moglie, la quale sembra ora decisa a chiedere la separazione. E tutto questo per che cosa?» «E tutto questo per che cosa?» ripetei. Continuò: «Questo Wheeler aveva l'aria di essere un tipo assolutamente rispettabile. Con qualche accorta domanda qua e là, siamo riusciti a ricostruire i suoi movimenti. Ma ricordati che abbiamo avuto a disposizione solo qualche ora di tempo, e che non si tratta quindi di un resoconto delia massima precisione. «Otto giorni fa, subito dopo l'arrivo, era sceso all'albergo. Aveva passato le mattine a visitare i fornitori del suo emporio e a compilare ordini dall'aspetto completamente normale. Neppure una di queste visite sembrava aver avuto una importanza insolita. C'era un altro punto invece che forse poteva essere importante: un giorno aveva telegrafato a un certo Ted Lee, a Columbus, Ohio, per chiedergli l'invio telegrafico di cinquemila dollari. Li aveva ricevuti nel giro di un'ora. C'era da pensare che quella somma fosse destinata ad un acquisto particolare di grande importanza. «Non siamo riusciti a ricostruire con la medesima precisione le sue sere. Un paio di volte è rientrato all'albergo lievemente ubriaco. Una sera ha assistito ad una presentazione di modelli organizzata da una compagnia il cui nome figura in questi appunti. Lo spettacolo è stato seguito da un cocktail, e può darsi che egli sia stato fra coloro che poi se ne sono andati in taxì con una delle indossatrici. Poi sembra non si sia più ubriacato fino alla sera in cui ti ha incontrato. Il seguito lo conosci. Questo è quanto.» Attese qualche secondo, poi ripeté: «Questo è quanto, ho detto.» «Ho capito.» «E allora?» «Joe, sei un poliziotto da strapazzo.» Mi guardò con una espressione perplessa e stupita ad un tempo. «Sono un poliziotto da strapazzo? Tu sei senza licenza e io sono un poliziotto da strapazzo? Una bella maniera davvero per ringraziarmi di tutto il disturbo chimi sono preso. Ho trovato più persone mancanti di quanti capelli tu hai su quella tua maledetta testa, e tu...»
«Hai mai sparato addosso a qualcuno, Joe?» La sua faccia si fece bianca come un panno lavato, e le dita gli tremavano tanto che gli riuscì difficile portare la sigaretta alla bocca. «Una volta... si.» «Ti piace?» «No!» Si passò la lingua sulle labbra. «Senti, Mike... questo Wheeler... tu eri là. È stato un suicidio, vero?» «Oh, certo. Qualcuno si è preso il disturbo di farlo suicidare.» «Hai... hai ancora bisogno di me, Mike?» «No. Grazie tante, Joe. Lascia quegli appunti sul letto.» Il mucchietto di fogli andò a cadere sulla coperta, e due secondi dopo sentii la porta che si chiudeva adagio. Tornai a coricarmi, ma non riuscii ad addormentarmi subito. Ero furibondo, troppo furibondo. In primo luogo perchè un mio amico era stato assassinato, poco importava da chi. Un uomo che mi aveva rivisto con piacere anche se erano passati cinque anni dal nostro ultimo incontro. In secondo luogo, perchè l'assassino mi aveva scambiato per un novizio. Immaginava forse che non sapessi quanti proiettili c'erano nel caricatore della mia rivoltella? Pensava forse che mi lasciassi mettere in trappola così, senza reagire? Ma non era ancora il caso di arrabbiarsi. Ignoravo che movente avesse avuto l'assassino per uccidere Wheeler. Un motivo di importanza tale da giustificare un omicidio, certo. Un motivo abbastanza pericoloso da rendere imperioso di mascherare questo omicidio in suicidio. Perchè Chester Wheeler non si era suicidato. Ne ero sicuro come ero sicuro di essere coricato a letto in quel momento. E c'era una cosa che avrei potuto rispondere a Pat, se mi fosse venuta in mente al momento opportuno: Chester Wheeler era stato nell'esercito, sapeva come maneggiare un'automatica, e, una volta deciso a conficcarsi una pallottola in testa, non aveva certo bisogno di sparare un colpo di prova. Ero a questo punto quando mi addormentai. La notte, dicono, porta consiglio. 3 L'agenzia di pubblicità Anton Lipsek, della quale gli appunti di Joe mi avevano dato l'indirizzo, era nella Trentatreesima strada, all'ottavo piano di un vecchio immobile rinnovato e fornito ormai di tutti quanti quegli aggeggi pomposi destinati a piacere ad una clientela eccentrica.
L'ascensore mi portò all'ottavo piano assieme ad un gruppo di indossatrici. Se questo era tutto ciò che l'azienda aveva da presentarmi, bene, non si trattava certo del mio tipo. Ben sviluppate nel treno inferiore, anche perchè dovevano camminare molto, erano nettamente deficienti per quello che riguarda i piani superiori. Non che sia nemico dei tipi snelli, niente affatto, ma un certo qual rilievo fra lo stomaco e le spalle ci vuole, accidenti. Le pareti dell'anticamera dell'agenzia, tappezzate di un grigio azzurro, scomparivano quasi sotto una doppia fila di fotografie dove le indossatrici della casa venivano rappresentate in tutto quello che può essere venduto: dalle mutandine di nylon ad una decapotabile fuori serie. Mi fermai davanti alla scrivania della segretaria e la fissai, sorridendo. «Il signore desidera?» mi chiese. «Alcune indossatrici di questa agenzia hanno partecipato l'altra sera ad una festa organizzata dalle Manifatture Calway,» le spiegai. «Una di queste ragazze mi interessa. A chi devo rivolgermi?» «Si tratta di una questione d'ufficio o di... di una ricerca personale, signore?» Doveva trattarsi, evidentemente, di una domanda che rivolgeva una ventina di volte almeno al giorno. Mi appoggiai al bordo della scrivania e le rivolsi il più smagliante dei miei sorrisi. «Potrebbe trattarsi di una cosa e dell'altra, ragazza mia, ma, in ogni modo, è una faccenda che non vi riguarda.» «Oh... oh...» balbettò. «Anton... volevo dire, il signor Lipsek... si occupa di queste questioni. Lo... lo chiamo subito.» Cominciò a lavorare intorno alle leve del telefono interno. Forse aveva paura che la volessi mordere, perchè non mi tolse neppure per un istante gli occhi di dosso. Dopo che dalla cornetta furono usciti alcuni suoni gutturali, ella interruppe la comunicazione per dirmi che il signor Anton Lipsek mi stava aspettando. Questa volta le dedicai il più grazioso dei miei sorrisi, senza, cioè, mettere in bella mostra i denti. «Scherzavo soltanto, bellezza.» Si limitò a ripetere: «Oh!» evidentemente poco convinta. Sulla porta che mi aveva indicato, spiccava, a lettere d'oro, l'iscrizione ANTON LIPSEK - DIRETTORE. Il signor Lipsek prendeva evidentemente molto sul serio le sue funzioni. Quando entrai nel suo studio, era occupato a puntare la sua macchina fotografica su un pezzo di ragazza vestita per modo di dire, in maniera da abbracciare nell'istantanea la maggior superficie possibile del poco che indossava e la minor superficie possibile di tutto quello che mostrava. Tale, almeno, fu la mia impressione.
Fischiai fra i denti, adagio. «Molto bene davvero!» «Troppa pelle,» brontolò, senza nemmeno voltarsi. La modella non doveva riuscire a distinguere molto, abbagliata com'era da tutti quei riflettori che la illuminavano in pieno. «Che c'è?» chiese. Anton le impose di tacere, mentre modificava, con una mano freddamente professionale, la posizione del dorso praticamente nudo. Quando ebbe trovato la posizione ideale, tornò a chinarsi sulla macchina fotografica e brontolò qualcosa; la modella spinse in avanti il petto in direzione dell'obiettivo ed atteggiò la labbra al fantasma di un sorriso. Un breve scatto metallico, poi la statua tornò a farsi umana, e si stiracchiò voluttuosamente, levando le braccia tanto in alto che il reggipetto si tese al massimo, minacciando di scoppiare. Avrebbero dovuto nominare me direttore lì dentro, un giorno o l'altro. Anton spense i riflettori e girò la testa verso di me. «E adesso, signore, che cosa posso fare per voi?» Era un individuo alto e magro, con una fronte da intellettuale ed un mento corto ed appuntito che accentuava la forma triangolare del suo viso. «Vorrei trovare una certa indossatrice che lavora qui.» Ee sopracciglia di Anton si sollevarono di un paio di centimetri. «Ecco una richiesta che ci viene rivolta spesso, signore. Sì, molto spesso.» Risposi, piuttosto bruscamente: «A me le indossatrici non piacciono. Sono troppo giù di petto.» Anton si preparava ad esprimere il suo stupore quando la ragazza comparve da dietro il paravento. Era un poco più vestita questa volta: aveva le scarpe. «State per caso parlando di me?» Stringeva fra le labbra una sigaretta spenta. «Fiammifero?» Le allungai un fiammifero a un palmo dal naso, e vidi la sua bocca incresparsi intorno alla sigaretta mentre aspirava alla fiamma. «No, voi siete un'eccezione,» dissi. Questa volta sorrise e mi soffiò il fumo in faccia. Anton tossì molto educatamente. «Questa modella di cui parlate... la conoscete?» «No. So soltanto che era alla festa delle Manifatture Calway l'altra sera.» «Capisco. Diverse delle nostre ragazze hanno partecipato a quella festa, mi pare. Miss Reeves è la sola che possa informarvi in proposito. Volete parlare con lei?» «Oh, certo.» La ragazza tornò a soffiarmi in faccia una boccata di fumo, sempre fis-
sandomi con una espressione provocante. «Vi capita mai di portare vestiti?» le chiesi. «No, se ne posso fare a meno. Ma qualche volta mi costringono.» «Se lavoraste per me, vi obbligherei piuttosto a non portarne mai.» Anton, ridacchiando, mi prese per un braccio. «Mi sembra che per questa volta basti. Da questa parte, signore.» Mi indicò una porta laterale della stanza. «Queste ragazze tendono qualche volta a sfuggirmi di mano. Vorrei potere...» «Già, lo vorrei anch'io.» Tornò a ridacchiare ed aprì la porta. Lo sentii pronunciare il mio nome, ma non badai a quello che diceva, perchè avevo occhi e orecchie soltanto per la donna seduta dietro la scrivania. Ci sono le donne belle e ci sono quelle che, con il loro corpo, vi fanno dimenticare il loro viso: questa era splendida di viso ed aveva un corpo semplicemente formidabile. I suoi lineamenti erano di una bellezza soprannaturale. I capelli, tagliati corti secondo la moda, le inquadravano il viso in qualcosa di simile ad un'aureola. Il collo si fondeva armoniosamente con la linea delle spalle larghe e sode. I seni erano quelli della giovinezza — alti, orgogliosi, eccitanti, tesi contro la camicetta di seta bianca, come se cercassero di liberarsene. Ella si alzò e mi tese cordialmente la mano. La sua voce era armoniosa e calda, ma io ero troppo occupato a maledire la lunghezza della sottana per capire il nome con il quale si era presentata. Solo quando si fu di nuovo seduta nella sua poltrona ed io ebbi notato in che modo la stoffa del vestito le modellava i fianchi rotondi smisi di imprecare fra me e riuscii ad individuare sulla scrivania la placca sulla quale spiccava il suo nome: JUNO REEVES. Giunone, la regina degli dei e delle dee! Un nome davvero azzeccato. Mi offri un bicchiere e cominciammo a chiacchierare. La mia voce era volta a volta sarcastica e gentile, ma io quasi non me ne rendevo conto, perchè il minimo movimento del suo corpo mi turbava e mi esasperava allo stesso tempo, in una maniera strana e quasi penosa. «Dite che quella ragazza si è allontanata con il vostro amico, signor Hammer?» «Dico che può essersi allontanata con il mio amico. È proprio quello che voglio appurare.» «Bene, posso mostrarvi le fotografie in modo che siate in grado di identificarla.» «Perfettamente inutile perchè non l'ho mai vista.»
«E allora perchè...» «Voglio sapere che cosa è accaduto quella notte, miss Reeves.» «Juno, se non vi spiace.» Le sorrisi. «Pensate che abbiano fatto...» — atteggiò la bocca ad una smorfia ironica — «...qualcosa che non va?» «Non mi interessa quello che hanno fatto. Mi interessa soltanto sapere. Vedete, questo mio amico... è morto.» «Oh, mi spiace moltissimo.» C'era una espressione addolorata ora nei suoi occhi. «Che cosa è successo?» «Suicidio, dicono i poliziotti.» Juno strinse fra i denti il labbro inferiore, perplessa. «In questo caso, signor Hammer...» «Mike,» la interruppi. «In questo caso, Mike, perchè tirare in ballo la ragazza? Dopo tutto...» «Quell'uomo aveva famiglia. Se un giornalista di pochi scrupoli ficca il naso nella faccenda e ci trova argomento per un grosso scandalo, la famiglia avrà a soffrirne. Se c'è qualcosa in questo senso, voglio soffocarla sul nascere.» Annuì, adagio, mentre il suo viso assumeva una espressione profondamente comprensiva. «Avete ragione, Mike. Vedrò tutte quante le ragazze e cercherò di sapere chi è stata. Potete tornare domani in giornata?» Mi alzai e presi il cappello. «Benissimo, Juno. A domani allora.» «D'accordo.» Anch'ella si alzò e mi tese la mano. Ognuno dei suoi gesti aveva la scioltezza di un liquido in movimento, e nei suoi occhi c'era una fiamma che sembrava aspettare solo di essere ravvivata. La sua mano strinse energicamente la mia. Giunto sulla soglia, mi voltai. I nostri sguardi si incrociarono, ed ella mi sorrise. Era bella, assomigliava ad una dea, ed i suoi occhi mi dicevano cose che avrei dovuto sapere e che mi sembrava di avere completamente dimenticato. Uscii e chiusi la porta. Quando arrivai all'ascensore, mi accorsi di avere compagnia. Questa compagnia mi aspettava in fondo al corridoio, fumando una sigaretta, comodamente appoggiata al radiatore del termosifone. Era vestita questa volta. Quando mi vide comparire, schiacciò il mozzicone sotto il piede e mi venne incontro con un passo così deciso che i miei occhi ricominciarono a spogliarla. «Sempre di quel parere?» mi chiese.
«È necessario prima che ci presentiamo.» «Necessario un accidente.» Scendemmo assieme, e nell'atrio a pian terreno ella infilò il braccio sotto al mio. Avevamo quasi raggiunto Broadway quando ella disse. «Se dobbiamo davvero presentarci, io mi chiamo Connie Wales. E tu?» «Mike Hammer, bellezza. Ex poliziotto privato. Per particolari più ampi puoi consultare un qualsiasi giornale.» Atteggiò la bocca ad un mezzo sorriso. «Una bella compagnia davvero sono andata a scegliermi.» Andammo a finire nella saletta sul retro di un bar. Ordinai una birra ed ella mi imitò. «Non vieni certo a costare molto al tuo cavaliere,» constatai. «In questo modo i tuoi risparmi dureranno più a lungo,» rise ella. «Non sei ricco, vero?» «Ho qualche soldo, ma non sarai certo tu a farmelo sputare, bimba.» La sua risata era abbastanza musicale e soprattutto sincera. «Quasi tutti gli uomini chiedono soltanto di comperarmi tutto quello che voglio. Tu no?» «Forse fino a una birra posso arrivare, ma questo è quanto. Una ragazza che ho conosciuto mi ha detto un giorno che non avrei mai avuto bisogno di pagare altro.» «E aveva perfettamente ragione,» convenne Connie. Mi guardò attentamente per qualche istante, poi aggiunse: «Perchè sei venuto in ufficio oggi?» Le raccontai la stessa storia che avevo già raccontato a Juno. Scosse la testa. «Non ci credo.» «Perchè?» «Non lo so. Mi sembra che la faccenda non stia in piedi. Perchè un giornalista dovrebbe tentare di tirare fuori qualcosa da un suicidio?» Non si poteva darle torto su questo punto, ma io avevo la risposta pronta. «Perchè non ha lasciato lettere d'addio. Perchè aveva una vita familiare perfettamente felice. Perchè aveva un mucchio di danaro e, secondo ogni apparenza, nessun motivo di preoccupazione.» «In questo modo la storia comincia ad apparirmi più plausibile.» Le parlai della festa e di quello che poteva essere accaduto poi, e, senza lasciarle il tempo di interloquire, chiesi: «Conosci qualcuna delle ragazze che vi hanno partecipato?» «Di vista soltanto. Vedi, l'agenzia è divisa, più o meno, in due fazioni: le
indossatrici e le nudiste. Io sono una delle ragazze incaricate di riempire le mutandine ed i reggipetti per la pubblicità del nylon. Le indossatrici, per quello che le riguarda, non sarebbero nemmeno in grado di riempire un sacco di carta, e di conseguenza sono gelose e ci trattano dall'alto al basso.» «Non hanno certo motivo di darsi arie,» brontolai. «Ne ho vista qualcuna in ascensore. Non possono nemmeno respirare come si deve senza correre il rischio di perdere i seni posticci.» Mancò poco che la birra le andasse di traverso. «Molto intelligente Mike, molto intelligente. Se riesco a ricordare tutte le tue battute, mi farò presto la fama di ragazza spiritosa.» Terminai la mia birra e spinsi i due bicchieri vuoti sul bordo del tavolo. «Andiamo, bimba. Ti accompagno dove vuoi, poi cercherò di combinare qualcosa.» «Voglio tornare a casa, e tu potresti combinare qualcosa anche là.» «Se non tieni chiuso il becco, sarò costretto a tirarti le orecchie. Andiamo.» Connie gettò indietro la testa e scoppiò a ridere. «Chissà che cosa non darebbero dieci altre persone per sentirmi dire una cosa simile.» «E lo andrai a raccontare a dieci altre persone?» «No, Mike.» La sua voce era un sussurro di invito ora. Non c'erano taxì in vista, ed allora proseguimmo a piedi lungo Broadway fino a quando non trovammo un vecchio macinino fermo, con l'autista che schiacciava un pisolino dietro il volante. Connie salì, diede un indirizzo della Sessantaduesima, poi mi spinse in un angolo e mi prese una mano. Disse: «È molto importante per te, Mike, trovare quella ragazza?» Le carezzai la mano. «Sì, bimba, molto. Più di quanto tu possa immaginare.» «Posso... aiutarti in qualche modo, Mike? Ne sarei molto contenta, davvero.» Aveva una faccia maledettamente intelligente. Mi voltai a guardarla, e la serietà della sua espressione mi spinse ad annuire quasi prima che potessi rendermene conto. «Ho molto bisogno di aiuto, Connie. Non sono sicuro se il mio amico è uscito con quella ragazza, non sono sicuro se la ragazza vorrà ammetterlo, dato e concesso che sia uscita con lui, e non posso certo biasimarla per questo... Non sono sicuro di niente insomma.» «Che cosa ti ha detto Juno?»
«Mi ha detto di tornare domani. Spera di riuscire a trovare la ragazza.» «Juno è molto... molto...» «Molto che cosa?» «Produce una grande impressione su tutti. Una povera ragazza come me non può reggere il confronto con quella donna.» Atteggiò la bocca ad una smorfia e mi strinse il braccio. «Dimmi che non è vero, almeno.» «Non è vero.» «Ecco che ricominci a dire bugie,» rise. «Ma torniamo a noi. Supponiamo che il tuo amico sia uscito con quella ragazza. Era un tipo da tentare di andare subito a letto con lei?» Mi spinsi indietro il cappello sulla testa e cercai di farmi una immagine precisa di Chester Wheeler. Mi aveva l'aria di essere troppo un uomo di famiglia per correre la cavallina in maniera sfrenata. Risposi quindi di no, ma in tono piuttosto dubbioso. È difficile dire che cosa farà o che cosa non farà un buon padre di famiglia se si trova solo, una sera, in una città dove nessuno lo conosce. «In questo caso,» continuò Connie, «è probabile che la ragazza l'abbia portato a fare il giro di alcuni locali piuttosto in gamba. Ho sentito parlare molto, in questi ultimi tempi, di alcuni locali dove le indossatrici portano i pesciolini che sono riusciti a pescare. Io non ci sono mai stata, ma può essere pur sempre una traccia.» Mi chinai e le presi il mento fra due dita. «Mi piace la tua maniera di ragionare, bimba.» Le labbra, che ella teneva leggermente socchiuse, erano piene e rosse. Mi sarei senza dubbio lasciato tentare, ma il taxì si fermò bruscamente. Eravamo arrivati. Ella mostrò la lingua alla schiena dell'autista, e non mi lasciò la mano per essere certa che scendessi con lei. Tesi all'autista una banconota e gli dissi di tenere il resto. «È l'ora dell'aperitivo, Mike. Non vuoi salire un momento?» «Un momento soltanto.» «Accidenti!» brontolò. «È la prima volta che mi do tanto da fare per conquistare un uomo che non vuol lasciarsi conquistare. Sono dunque completamente sprovvista di attrattive?» «Oh, niente affatto, cara. Ne hai di meravigliose!» «Be', è già qualcosa, per cominciare. Andiamo.» Il suo appartamento era al terzo piano. Gettai il cappello su una sedia ed andai ad accomodarmi su una poltrona. Connie chiese: «Preferisci un caffè o un cocktail?» «Cominciamo con il caffè,» risposi. «Non ho mangiato a mezzogiorno.
Se hai un paio d'uova, mettici pure anche quelle.» Un'ora dopo la frittata non era più che un ricordo. Connie aveva preparato un ottimo cocktail, ed io, abbandonato nella poltrona, mi lasciavo cullare da una piacevole sensazione di euforia. Non avevo più fiammiferi, ma, ogni volta che mi infilavo una nuova sigaretta fra le labbra, Connie me l'accendeva ed approfittava dell'occasione per riempirmi il bicchiere. Un bravo padre di famiglia che era morto. Due proiettili mancanti. Un proiettile ed un bossolo ritrovati nel corridoio. Suicidio. Un accidente! Aprii gli occhi e guardai Connie. Si era rannicchiata in una poltrona e mi fissava. «Qual è il programma, bimba?» «Sono quasi le sette,» disse. «Adesso mi vesto in fretta, poi possiamo uscire assieme. Se siamo fortunati, può darsi che troviamo il locale dove è andato quel tuo amico.» Ero troppo stanco per essere gentile. Avevo gli occhi affaticati per aver fissato troppo a lungo il fumo che ondeggiava nell'aria, il ventre tiepido per il molto alcool bevuto. «Un uomo è morto,» dissi lentamente. «La polizia afferma che si è suicidato, ed i giornali ripetono quello che la polizia afferma. Ma io la so più lunga. Quell'uomo è stato assassinato.» Ella si irrigidì, e la sigaretta si incurvò fra le sue dita. «Volevo conoscere il perchè,» continuai, «così ho cominciato a darmi d'attorno e ho saputo che forse era stato con una ragazza una sera. Ho saputo dove questa ragazza lavora ed ho cominciato allora a fare domande. E proprio in questo momento una bella modella con un corpo da fare girare la testa mi si attacca come una sanguisuga e mi offre il suo aiuto. E io non posso a meno di rivolgermi, a mia volta, alcune domande, e di chiedermi a che cosa sono dovute tutte queste attenzioni da parte di una ragazza per la quale tanti altri uomini farebbero follie e che si incapriccia invece di un uomo che non ha lavoro, che non le paga niente di più di una birra, e che, per soprammercato, mangia le sue uova e beve i suoi cocktails.» Sentii il suo respiro farsi affannoso, sibilante, ma non mi mossi quando ella venne a piantarsi davanti a me. Improvvisamente, senza il minimo preavviso, il suo piccolo pugno scattò e venne ad abbattersi contro la mia guancia. Subito sentii in bocca il sapore del sangue, e quando sogghignai un filo rosso cominciò a colarmi giù dal mento. «Ho cinque fratelli,» ella disse, e c'era un tono di disprezzo nella sua vo-
ce. «Sono grandi e grossi e poco propensi alle galanterie, ma sono veri uomini. C'è un mucchio di individui pronti a fare pazzie per me, ma bisognerebbe metterne assieme non so quanti di quelli per fare un vero uomo. Poi sei arrivato tu. Mi piacerebbe riempirti di pugni quella tua stupida testa. Hai occhi e non sai vedere. Va bene, Mike, adesso ti farò vedere qualcosa, e capirai, forse, perchè sei fatto oggetto di tante attenzioni... come dici tu.» Ci fu un rumore di stoffa strappata, alcuni bottoni rotolarono davanti ai miei piedi, e dopo un attimo ella era davanti a me, le mani sulle anche, i seni nudi ed aggressivamente puntati in avanti, tremante di collera. Dovetti afferrarmi con le mani ai braccioli della poltrona. Mi parve che il collo della camicia fosse diventato improvvisamente stretto, e qualcosa cominciò a darmi una sensazione di formicolio lungo la spina dorsale. Ella aveva i denti serrati, gli occhi accesi come due pezzi di carbone. «Ti aspetto,» disse. Un altro filo di sangue prese a corrermi giù per il mento, quasi a ricordarmi quello che ella aveva fatto. Mi alzai e la colpii violentemente sulla bocca con il rovescio della mano. La testa le si rovesciò indietro, ma ella non retrocedette di un solo centimetro, ed ora i suoi occhi erano più accesi che mai. «Sei sempre dello stesso parere?» chiesi. «Ti aspetto,» ella disse. 4 Cenammo in un ristorante cinese di Times Square. C'era molta gente nella sala, ma nessuno aveva occhi per quello che mangiava. Gli sguardi di tutti, i miei compresi, erano fissi su Connie. Portava uno di quegli abiti senza spalline che si reggono soltanto per la pressione della stoffa sui seni e che sembrano sempre sul punto di afflosciarsi ai piedi di coloro che li portano. La vedevo obiettivamente per la prima volta non più come una donna che desideravo, ma come una donna che era stata mia e che poteva essere ancora mia. Era facile trovare che era bella e difficile dire perchè. Ma io sapevo perchè. Era cresciuta con cinque uomini che l'avevano sempre trattata come un sesto fratello e non come una sorellina delicata e fragile. Era stato questo sistema d'educazione a darle un carattere franco e diretto. Quando desiderava qualche cosa, ella mirava dritto al suo scopo. E in questo consisteva una buona parte del suo fascino. Erano quasi le nove quando uscimmo, ben sazi e con la piacevole sensa-
zione che tutto stava andando nel migliore dei modi, o quasi. «Vuoi dirmi il programma adesso?» chiesi. Mi prese una mano e se la infilò sotto il braccio. «Hai mai bazzicato i bassifondi, Mike?» «C'è chi pensa che io non faccia altro.» «Bene, è proprio nei bassifondi che andremo adesso. A Bowery. Ti dice qualcosa questo nome?» «A Bowery?» ripetei. Il mio viso doveva esprimere una certa sorpresa, perchè ella scoppiò a ridere. «Il grande poliziotto colto in fallo! Deve essere molto tempo che non bazzichi più per i bassifondi, Mike, perchè, da quanto ho sentito dire, Bowery è molto cambiata. Non tutta quanta, certo, ma a locali, uno qui e l'altro là. Recentemente un tale ha avuto l'idea di trasformare una vecchia bettola equivoca in una trappola per turisti, ed ha avuto un successo strepitoso. Non è difficile immaginare come ha fatto: ha reclutato gente dai vicoli per creare l'atmosfera e per accontentare quei membri della classe superiore che vogliono vedere come vive la plebe.» «Ma come diavolo è riuscito a far conoscere un locale del genere?» Un taxì di passaggio vide i miei cenni e venne a fermarsi accanto al marciapiede. Salimmo e diedi l'indirizzo all'autista, che si affrettò ad abbassare la bandierina. Connie disse: «La gente si annoia di vedere sempre le stesse cose, e va alla caccia di sensazioni nuove. E Bowery rappresenta attualmente una di queste sensazioni.» «Chi dirige il locale?» Connie si strinse nelle spalle. «Non lo so, Mike. Si tratta di notizie che conosco di seconda mano. E poi, non c'è un locale soltanto, ora. Ce ne deve essere una dozzina almeno. E tutto quanto si paga abbastanza caro là dentro, a quanto sembra.» Il taxì ci lasciò in fondo a Manhattan. Regolai il conto con l'autista e diedi il braccio a Connie per aiutarla a scendere di macchina. Bowery, una triste strada di gente senza volto. Voci supplichevoli fra le tenebre ed uno scalpiccio di passi alle vostre spalle. Una mano che di tanto in tanto vi afferra il braccio ed una voce che ha il tono della disperazione professionale. Una donna dagli abiti attillatissimi che vi guarda a lungo, fissamente, per farvi capire che è disponibile a bassissimo prezzo. Locali dalle porte che si aprono e si chiudono di continuo. Davanti ai banchi di mescita, una folla alcoolizzata e degenerata. Era molto tempo ormai che non venivo da quelle parti. Un taxì si fermò
davanti a noi, vicino al marciapiede, e ne scesero un uomo in smoking ed una ragazza in abito da sera. Subito una piccola folla si precipitò verso di loro. La ragazza scoppiò a ridere e gettò sul selciato una manciata di monete. Fulmineamente si scatenò una battaglia accanitissima. Le risate della ragazza raddoppiarono d'intensità. Il suo cavaliere dovette trovare la cosa davvero divertente, perchè cavò di tasca un biglietto da cinque dollari e lo buttò in mezzo alla strada. Connie mi mormorò: «Capisci cosa voglio dire?» Avevo voglia di prendere a calci quel bastardo. «Sì, capisco perfettamente.» Seguimmo i due a qualche metro di distanza. Lui parlava con la cadenza del Midwest, la ragazza cercava invano di nascondere il suo accento di Brooklyn. Ella continuava a stringersi al braccio del suo cavaliere e lo favoriva di lunghe occhiate di traverso che egli sembrava apprezzare molto. Doveva avere l'impressione di sentirsi un re, quell'uomo. I due entrarono in un bar, e noi li seguimmo. C'era una puzza di porcile, là dentro, e il pittoresco si sprecava. Gente dagli occhi cerchiati di nero e gente dai denti mancanti. Gente che parlava un linguaggio da fogna, alla lettera. Due baldracche di età venerabile si prendevano per i capelli per i begli occhi di uno spaventapasseri che non riusciva nemmeno a tenersi in piedi. Ma mi disgustavano soprattutto coloro che stavano a guardarli. Erano ancora peggiori, quelli. A furia di ridere, poco mancava che si sentissero male. Turisti. Maledetti turisti che si credevano possibile qualsiasi cosa per il semplice fatto di essere pieni di danaro fino al collo. Ero tanto furibondo che mi riusciva appena di parlare. Un cameriere ci pilotò nella saletta sul retro, affollata anch'essa di esemplari dei due tipi. I turisti si scompisciavano dal ridere leggendo le sudicerie scritte sui muri e pagavano un prezzo addirittura esorbitante per l'infame whisky che la casa forniva gratuitamente agli esemplari del quartiere purché si dessero da fare per creare il cosiddetto ambiente. Connie sorrise ad un paio di ragazze di sua conoscenza, e una di queste ci venne accanto. Non mi presi neppure il disturbo di alzarmi quando Connie fece le presentazioni. La ragazza si chiamava Kate, ed era venuta lì con una banda di provinciali. Disse: «È la prima volta che capiti qui, vero, Connie?»» «La prima e l'ultima,» rispose Connie. «Non è il mio tipo di divertimento, questo.»
La risata di Kate sembrava il suono di un campanaccio da mucche fesso. «Oh, non abbiamo la minima intenzione di marcire qui. I nostri cavalieri hanno voglia di spendere, e così andiamo alla Inn. Volete venire con noi?» Connie mi guardò. Mossi la testa quel tanto sufficiente per farle capire che per me andava bene. «D'accordo allora, Kate.» «Vi presento subito gli altri allora. Vogliono vedere tutte quante le curiosità, comprese... comprese le case dove... be', capisci che cosa voglio dire.» Sogghignò. Connie abbozzò una smorfia ed io brontolai qualcosa. Ci alzammo e ci andammo ad unire alla cosiddetta banda. Se non fossi stato in compagnia di Connie, mi avrebbero certo trattato come uno degli indigeni. Bene, ma se ne sarebbero pentiti, questo è certo. Si chiamavano Joseph, Andrew, Homer, Martin, Raymond, senza la minima parvenza di abbreviativo. Avevano tutti mani molli, grossi diamanti, risate fragorose, portafogli gonfi e belle donne. Tutti, salvo Homer, accompagnato da una segretaria non tanto bella — anzi — quanto competente. Era la sua amante, ed ella ci teneva a che tutti se ne accorgessero. Mi riuscì la più simpatica di tutte, come del resto riuscì la più simpatica di tutte a Connie. Dopo che ebbi stretto la mano a tutti quanti, bevemmo qualcosa, poi Andrew dichiarò che aveva riso abbastanza in quel locale, gli altri fecero coro, la seduta venne tolta e, sotto la guida delle ragazze, l'intera banda prese a marciare per la strada. Due volte fummo costretti a scavalcare ubriachi lunghi e distesi per terra, ed una volta fummo costretti a spostarci al centro della carreggiata per girare alla larga da una rissa. Avevo voglia di gridare ai nostri occasionali compagni che quello era davvero un posto adatto per loro, e forse l'avrei fatto se Connie non mi avesse stretto la mano, di tanto in tanto, per farmi capire fino a qual punto condivideva i miei sentimenti. La Bowery Inn era un locale ignobile, con assi inchiodate a tutte le finestre, un'insegna decrepita e l'aspetto di un luogo abbandonato da chissà quanto tempo. Questo dall'esterno. La prima cosa che si notava entrando era la mancanza di puzzo. Lì dentro c'era l'odore che ci deve essere nei bar. I tavoli e il banco, tarlati e costellati di bruciature di sigarette, sapevano di fasullo come gli esemplari indigeni presenti. Gli altri forse non se ne accorgevano, ma io sì. Connie disse: «Ecco la Inn di cui ho sentito tanto parlare.»
Lasciammo cappelli e soprabiti al guardaroba, affidati alle cure di una vecchia megera guercia che, se fosse stata autentica, avrebbe dovuto emanare un tanfo insopportabile. Mentre Connie scambiava quattro chiacchiere con due delle ragazze dell'agenzia, andai a bere un bicchiere al banco e mi guardai attorno. In fondo alla sala una porta ornata da un vecchio calendario si apriva e si chiudeva di continuo, e dietro quella porta si vedevano soltanto smoking ed abiti da sera. Connie mi tornò accanto. «Questo bar non è che una facciata,» riferì. «Il meglio che possiamo fare è di seguire gli altri.» La presi sotto braccio e raggiungemmo la coda della processione che si dirigeva verso il fondo della sala. La porta del calendario aveva l'aria di reggersi su un cardine solo. Ma si trattava di un trucco, perchè dietro di essa ce n'era un'altra, abilmente camuffata, e la seconda non si apriva se la prima non era chiusa. Il locale nel quale si entrava veniva a rappresentare una specie di anticamera a prova di suono fra il bar vero e proprio e la sala sul retro. Si passava un'altra porta, ed allora sì che lo spettacolo cambiava completamente. Dovevano essere stati spesi migliaia e migliaia di dollari nell'arredamento di quella sala, e dovevano esserci migliaia e migliaia di dollari nei portafogli dei clienti che oziavano davanti ai cromi scintillanti del bar o sulle poltrone di cuoio. Il locale era immerso nella penombra, e gli sguardi di tutti i presenti erano fissi sulla pista dove, nel cerchio luminoso di un riflettore, una ragazza completamente nuda stava rappresentando un numero di spogliarello a rovescio. Non era niente vederla ballare come Dio l'aveva fatta, ma vi assicuro che valeva la pena di vedere il modo piuttosto provocante con il quale si rivestiva. Dopo essersi dato l'ultimo tocco alla sottana, uscì dalla pista ed andò a sedersi accanto ad un individuo dal cranio calvo, che non parve eccitarsi troppo per la vicinanza di una ragazza di cui aveva avuto modo di ammirare le bellezze più intime. Si limitò ad ordinare champagne. Il pubblico intanto applaudiva freneticamente. Le luci si riaccesero, ed allora compresi perchè quel locale aveva tanto successo. I muri erano letteralmente tappezzati di fotografie di modelle. Ragazze, centinaia di ragazze, in piedi, coricate o sedute, più o meno vestite e svestite. C'erano foto originali e c'erano foto evidentemente ritagliate da riviste. Ma tutte quante erano dedicate affettuosamente a un certo Clyde. Un'orchestra di jazz comparve sul palco e cominciò a suonare. Homer
invitò Connie e mi lasciò solo con la sua amica, la quale cominciò a farmi piedino con tanta insistenza, gli occhi ansiosamente fissi sulla pista, che dovetti alla fine decidermi ad invitarla. Non me la faccio troppo con il ballo, io, ma pensava lei a guidare. Mi teneva terribilmente stretto, ad aveva la niente affatto simpatica abitudine di sfiorarmi ogni tanto il lobo dell'orecchio con la punta della lingua. Homer se la sbrigava abbastanza bene per conto suo. Alle undici e mezzo il locale era pieno come un uovo e il baccano indescrivibile. Andrew ricominciò a protestare per qualcosa, le indossatrici presero a confabulare a bassa voce, poi una di loro andò a bisbigliare qualcosa all'orecchio di un cameriere il quale si allontanò, tornò un minuto dopo e bisbigliò a sua volta qualcosa, accennando contemporaneamente con il capo ad una tenda. «Ecco che ci siamo, bimba,» dissi. Connie mi guardò, corrugando la fronte. «Che cosa vuoi dire, Mike?» «Il solito, vecchio trucco, diavolo! Ci sono tavoli da gioco là dietro, e si è ammessi solo se si ha una buona presentazione. Tutto ciò fa parte della messa in scena, naturalmente.» «Davvero?» «Aspetta un poco e vedrai.» Tutti si alzarono e si diressero con aria indifferente verso la tenda. Bene, le cose cominciavano a muoversi. Tutte quelle ragazze erano clienti abituali del locale. Era capitato lì Chester Wheeler qualche giorno prima, con una di loro? Perchè si era fatto mandare cinquemila dollari? Si fa in fretta a perdere una grossa cifra alla roulette, certo. E allora? Suicidio? Perchè uccidersi per cinquemila dollari? E, d'altra parte, perchè pagare? Una parola al poliziotto adatto, una sorpresa nel locale, e del debito non si sarebbe più parlato. Al momento di sparire dietro la tenda, una delle ragazze si voltò a dare un'occhiata e cominciò a strillare: «Oh, ecco Clyde! Salve, Clyde!» Il magro individuo in smoking rispose al saluto con un freddo sorriso e continuò a girare per i tavoli, stringendo ora una mano ed ora l'altra. Sentii la bocca che mi si torceva in un sogghigno niente affatto simpatico e dissi a Connie di precedermi. Mi diressi verso Clyde. «Che sia dannato se non si tratta del mio vecchio amico Dinky,» dissi. Clyde era chinato su un tavolo, ed io vidi la sua schiena irrigidirsi. Ma si voltò solo quando ebbe terminato la sua conversazione. Avevo appena a-
vuto il tempo di accendere una Luckie quando le luci tornarono a spegnersi ed il proiettore ricominciò a seguire le contorsioni pornografiche di una ragazza non meno nuda della precedente. Clyde si raddrizzò alla fine e fissò su di me uno sguardo gelido. «Che cosa facciamo qui, piedipiatti?» «È la stessa domanda che volevo rivolgerti io, avanzo di galera.» «Fuori dalle scatole.» La sua schiena era sempre rigida, come se fosse stata inamidata. Si fece strada fra i tavoli, sorridendo a destra ed a sinistra, ma io lo seguii tranquillamente. «Bel localino hai messo su,» gli dissi, quando si fermò davanti al banco. Rivolse un cenno al barman, che gli mise davanti una bottiglia ed un bicchiere. Riempì il bicchiere e lo vuotò di un sol fiato. I suoi occhi non erano più inespressivi ora: erano accesi di odio. «Forse non hai capito bene quello che ti ho detto.» «Ho capito benissimo, ma non sono uno dei tuoi ragazzi per saltare non appena tu parli, Dinky.» «Che cosa vuoi?» Gli soffiai in faccia il fumo della sigaretta, ed egli si scostò di un passo. «Voglio soddisfare la mia curiosità, Dinky. L'ultima volta che ti ho visto eri in tribunale, e prestavi giuramento da una carrozzella da invalido. Avevi un proiettile nella gamba. Ero stato io a piantartelo, ricordi? Giuravi su tutti i santi che non eri tu al volante della macchina con la quale l'assassino se l'era battuta, ma quel confetto nella gamba stava a dimostrare il contrario. E hai fatto un poco di prigione per questo. Ricordi, adesso?» Non rispose. «Ne hai fatta di strada da allora, amico. Ma hai sempre conservato la carrozzella da invalido, vero?» Si fece versare un secondo bicchiere e se lo portò alle labbra, ma io gli urtai il braccio con il gomito, e tutto il liquido gli andò a finire sulla faccia. Diventò livido di rabbia. «Calma, calma, Dinky,» dissi. «È meglio non richiamare l'attenzione della polizia. Do un'occhiatina qui in giro, poi me la batto.» «I giornali dicono che non puoi più portare rivoltella, Hammer. Non è niente affatto salutare per te. Cerca di girarmi alla larga.» Non appena mi fui allontanato, il mio vecchio amico Dinky Williams, che si faceva ora chiamare Clyde, sollevò il ricevitore del telefono interno, in fondo al banco.
Mi ci vollero due minuti buoni per fare il giro della pista, nella penombra, e per trovare la tenda. Dietro la tenda c'era una porta: chiusa a chiave. Bussai, e l'inevitabile spioncino si aprì, nel pannello superiore, inquadrando due occhi ed un naso attraversato da una cicatrice. Per un istante credetti che non mi avrebbe lasciato entrare. Poi sentii lo scatto della serratura e il battente si socchiuse. Non so se fu diffidenza o istinto di difesa — chiamatelo come volete — ma, come ebbi mosso un passo nella stanza senza vedere anima viva davanti a me, portai di scatto una mano alla nuca, appena in tempo per ricevere un colpo che, in caso contrario, mi avrebbe spaccato la testa. Uscii in una imprecazione sorda, mi tuffai in avanti e mi rotolai su me stesso fino a ritrovarmi sulla schiena, i piedi in aria. Attraverso le gambe, vedevo ora una specie di gorilla che brandiva il randello con il quale, un attimo prima, mi aveva rudemente massaggiato le falangi. Non ci avrebbe ricavato gran che se mi avesse picchiato sui piedi, e non ebbe i riflessi abbastanza pronti da colpirmi mentre ero a terra. Non appartengo alla razza dei gatti, no, pure ero in piedi, sia pure in equilibrio instabile, quando il randello si abbassò per la seconda volta. Ma era stato troppo precipitoso, il mio avversario, e mi mancò. Io sono grande e grosso, ma lui era ancora più grande e ancora più grosso. Avevo una mano in disordine, e non avevo la minima intenzione di rovinare anche l'altra. Mi appoggiai saldamente al muro e lo centrai con una pedata che per poco non lo spaccò in due. Cercò di gridare, ma dalla bocca gli uscì solo un suono gorgogliante. Il randello cadde sul pavimento, e il gigante si piegò, le mani fra le gambe. Mossi un passo avanti questa volta, e rifilai il piede in faccia a quel figlio di puttana con tanta energia da fargli sputare non so quanti denti. Vidi il randello, lo raccolsi e lo soppesai. Più che sufficiente per spedire un disgraziato al Creatore. In tasca faceva troppo volume e lo infilai allora sotto il braccio, nella fondina vuota della .45, poi diedi un'occhiata al gorilla, steso per terra svenuto, nel suo sangue. Il locale era un'altra di quelle camere a prova di suono che sembravano la specialità della Inn. Appoggiata al muro, a destra della porta dalla quale ero entrato, c'era una sedia. Per divertirmi un poco, trasportai il gorilla e lo sistemai a quello che doveva essere il suo solito posto. Feci in modo che avesse la testa ripiegata sul petto, tanto che riusciva impossibile vedere il sangue. Ce ne sarebbe voluta prima che fosse in grado di ricominciare a connettere.
Terminato che ebbi questa piccola messa in scena, traversai il locale, aprii la porta sul fondo e tornai a chiudermela alle spalle. L'illuminazione era così violenta, dopo la penombra dell'anticamera, che non vidi Connie dirigersi verso di me. «Da che parte salti fuori, Mike?» mi disse. «Ho rinnovato la conoscenza con un vecchio amico.» «Chi?» «Oh, un tale che tu non puoi conoscere.» Vide il sangue sul dorso della mia mano, la brutta spellatura alle nocche, e si fece un poco pallida. «Mike... che cosa è successo?» Sorrisi. «Sono andato a urtare contro chissà che cosa.» Mi rivolse un'altra domanda, ma io non la sentii nemmeno. Ero troppo occupato a dare un'occhiata generale alla sala. Doveva essere una miniera d'oro, quella. Al disopra del brusio, si sentiva il ticchettio delle palline nelle ruote delle roulettes, le grida eccitate quando le palline si fermavano. Ma non c'erano le roulettes soltanto: c'erano tavoli per dadi, tavoli da baccarat, tavoli da chemin e tavoli da non so che altro ancora. In altre parole, c'era tutto quello che può convincere un individuo a rischiare la sorte. L'arredamento era quello di una vecchia casa da gioco nel Far-West, con disegni pornografici ai muri, boccali di peltro sulle mensole, lampadari fatti con ruote di carro. Lungo una parete, c'era un banco di solido mogano, completo di corrimano di ottone, di sputacchiere che non erano mai state usate e di specchi costellati di veri buchi di proiettili veri. Ma lo spettacolo più interessante era dato dal pubblico. Intorno a noi non c'erano che pettinature artistiche, visi truccati alla perfezione, schiene nude, seni aggressivi. La bellezza diventava lì dentro qualcosa di comune, di banale, di professionale, sotto forma di una pleiade di indossatrici che portavano quello che avevano l'abitudine di far valere e di mettere in bella mostra. Sembrava incredibile. Mi fregai gli occhi e scossi la testa. Connie sorrise. «Pare impossibile, vero?» «Come va questa storia?» «Te l'avevo detto, Mike. Le ragazze sono qui a fare da specchietto, e la storia durerà fino a quando il locale non si sarà affermato. Quando la loro opera non sarà più richiesta qui, troveranno qualcosa d'altro.» «E tutto questo nel bel mezzo di Bowery! Pat darebbe il suo braccio destro per entrare qua dentro.»
Tornai a guardarmi in giro. Una bellezza che cominciava quasi a diventare monotona. E poi, a rovinare il quadro, c'erano troppe pance grasse e troppe teste calve. Fra la folla individuai Andrew e Homer che si stavano divertendo al tavolo dei dadi. Evidentemente Homer stava vincendo, perchè la sua amica non riusciva più a far entrare nella borsetta i gettoni che egli le passava di continuo. Facemmo un giro completo del locale prima di trovare un angolo adatto per bere in santa pace. Un cameriere vestito da cowboy ci portò cocktails e salatini, avvertendoci che le consumazioni erano a carico della casa. Appena si fu allontanato, Connie mi chiese: «Che ne pensi, Mike?» «Non so, bimba. Non so se al mio amico un posto del genere sarebbe piaciuto.» «Non era un uomo come tutti gli altri?» «Hai ragione. Chi rifiuterebbe di divertirsi un poco con una bella ragazza? Era solo in città, libero, e si annoiava a morte. Dopo una giornata di lavoro aveva bisogno di un poco di distrazione. La ragazza non deve aver fatto molta fatica a convincerlo.» Accesi una sigaretta e presi il bicchiere. Bevvi un lungo sorso, e stavo seguendo con gli occhi il fumo che avevo soffiato dritto davanti a me, quando la folla si aprì un attimo per lasciar passare un cameriere, dandomi così modo di vedere il banco. Seduta al banco, Juno Reeves stava ridendo per qualcosa che Anton Lipsek le aveva detto. Il ghiaccio prese a tintinnare nel mio bicchiere, ed io sentii qualcosa di simile a un brivido corrermi giù per la schiena. Dissi a Connie: «Ti spiace scomparire per un momento?» «È molto bella, vero, Mike?» Arrossii per la prima volta da quando portavo i calzoni lunghi. «È diversa, ecco che cos'è. Mette in ombra quasi tutte le altre.» «Anche me?» «Non l'ho ancora vista spogliata. Fino a quel momento, tu hai la meglio, per ciò che mi riguarda.» «Non dire bugie, Mike.» I suoi occhi mi fissavano, ridenti. Mi alzai e risposi al suo sorriso. «Nel caso che la cosa ti interessi,» precisai, «si tratta della più bella creatura che abbia mai visto. C'è in lei tutto quello che un uomo può desiderare di trovare in una donna. Ma — sempre se la cosa ti interessa — c'è in lei anche qualcosa che non mi convince, qualcosa che non sono in grado di definire.»
Connie allungò la mano e prese una sigaretta. Quando l'ebbe accesa, disse: «È una cosa che mi interessa e che mi fa un piacere enorme. Mike. Adesso scompaio, ma non per molto tempo.» Ci separammo, ed io mi diressi verso il punto dove la regina dell'Olimpo teneva la sua corte. Quando mi vide, il suo sorriso mi fece l'impressione di un raggio di sole, e avvertii una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Mi tese la mano, ed io la strinsi energicamente. «Mike, come mai siete qui?» Andai a sedermi sull'alto sgabello che ella mi indicava, e lo sguardo di Anton Lipsek non fu il solo a posarsi su di me con invidia. «Mentre uscivo dal vostro ufficio, mi sono lasciato sedurre.» Anton si abbandonò a un «ah, ah,» di approvazione. Doveva aver subito intuito come si erano svolte le cose. «Il fascino maschile è forse ancor più difficile da definire di quello femminile,» disse Juno, sorridendo. «Non siete bello, Mike, eppure» — e si diede un'occhiata attorno — «nemmeno uno degli uomini presenti può reggere il paragone con voi.» Complimento per complimento, nessuna delle donne presenti poteva reggere il paragone con lei. Pure, rispetto alle altre, ella era molto più vestita. L'abito di seta nero le saliva fino al collo e le maniche raggiungevano l'orlo dei guanti, ma la stoffa sottile modellava il suo corpo snello, le sue spalle larghe, i suoi seni alti e sodi che si alzavano e si abbassavano dolcemente al ritmo della respirazione. Mi fece servire un cocktail. Anton bevve con noi, poi si diresse verso uno dei tavoli di roulette. Dopo una breve pausa, Juno mi sussurrò: «Ho notizie per voi, Mike. Ma forse farei meglio a tacere per essere sicura di rivedervi domani.» Strinsi la mano intorno al bicchiere. «La ragazza che mi interessa...» «Si. L'ho trovata.» Sapete che cosa significa provare l'impressione di avere lo stomaco stretto in una morsa? Bene, era proprio quella l'impressione che io provavo allora. «Avanti,» dissi. «Si chiama Marion Lester. Immagino che voi vogliate vederla personalmente. Abita al Chadwick Hotel. È la terza ragazza che ho interrogato oggi nel pomeriggio, e non ha avuto difficoltà alcuna a raccontarmi come erano andate le cose, anche se mi è parsa un poco spaventata quando le ho detto come era andato a finire tutto quanto.» «Va bene, va bene. E che cosa ha detto?» Vuotai il bicchiere e lo spinsi
verso il barista. «In sostanza... niente. Il vostro amico l'ha fatta salire su un taxì e l'ha accompagnata a casa. Poi l'ha accompagnata di sopra e l'ha messa a letto completamente vestita, scarpe e tutto. Sembra proprio che si sia comportato da vero gentiluomo.» «Maledizione e poi ancora maledizione!» sbottai. Juno mi sfiorò una mano con la punta delle dita, ed il suo sorriso scomparve per lasciare il posto ad una espressione preoccupata. «Mike, vi prego! Non siete contento che le cose siano andate a questo modo?» «Credo che dovrei esserlo. Ma me ne infischio della morale, io. In questa maniera mi viene a mancare quella che era la pista migliore.» Si chinò verso di me, ed io avvertii, più acuto che mai, il suo profumo. Aveva due occhi grigi, due occhi che, per farsi capire, non avevano certo bisogno dell'aiuto della bocca. «Domani verrete egualmente, vero?» Non volevo rispondere di no, non potevo. Annuii, e le mie labbra si atteggiarono, quasi inconsciamente, ad un sogghigno. Strinsi i pugni, e la mano contusa ricominciò a farmi male. «Verrò, certo,» dissi. Ma ancora provavo quella maledetta sensazione, accidenti. Non riuscivo ad individuarla, non sapevo di che cosa si trattasse. Un dito mi batté sulla spalla, adagio, e Connie disse: «Non ti trovavo più, Mike. Salve, Juno.» Juno sorrise, ed una nuova aurora balenò sull'Olimpo. Connie continuò: «Non sarebbe meglio andare a casa adesso?» Mi lasciai scivolare giù dallo sgabello e guardai la dea. Niente strette di mano questa volta. Lo sguardo che ci scambiammo fu più che sufficiente. «Buona notte, Juno.» «Buona notte, Mike.» Presi sotto braccio Connie e la pilotai verso la porta. Joseph, Andrew, Martin, Homer e Raymond ci richiamarono a gran voce, ma la smisero appena videro l'espressione del mio viso. Uno di loro mormorò: «Non sa proprio divertirsi, quel tipo.» Il gorilla dalla faccia sfasciata non era più sulla sedia dove l'avevo lasciato. Di guardia c'erano ora due altri individui, ed io sapevo benissimo che cosa facevano lì: mi aspettavano. Il primo, un duro che conoscevo e che mi conosceva, si passò la lingua sulle labbra. Il secondo, poco più che ventenne, mi riusciva assolutamente nuovo. Guardarono tutti e due Connie, cercando evidentemente un pretesto per farla uscire, in modo che non fosse testimone di quello che sarebbe succes-
so poi. Il tipo che conoscevo tornò a passarsi la lingua sulle labbra e si fregò le mani. «Proprio te stavamo aspettando, Hammer.» L'altro si credette in dovere di fare qualcosa di più. Squadrò le spalle sotto la giacca dell'abito da sera, atteggiò la bocca al sorriso di chi sa il fatto suo e si staccò dal muro. «Allora sei tu Mike Hammer? Be', non mi hai l'aria di essere molto duro.» Con la destra presi a giocherellare con i bottoni della giacca. Il randello, che avevo sistemato nella fondina, sotto l'ascella, si disegnò in pieno contro la stoffa. Visto cosi, quel gonfiore era tale e quale a quello di una rivoltella. «Oh, hai sempre modo di assicurartene, ragazzino mio,» dissi. Il mio poco simpatico interlocutore si passò a sua volta la lingua sulle labbra, ed un filo di saliva gli colò giù per il mento. Connie mi precedette di qualche passo ed aprì la porta. Passai davanti ai due, e quelli si guardarono bene dal muoversi. Di lì a poco si sarebbero trovati disoccupati, certo. Non c'era un solo tavolo libero nella prima sala sul retro. Lo spettacolo era terminato, e il locale formicolava letteralmente di gente. Il quadro, nel suo insieme, non era particolarmente artistico. Tutti, o quasi, avevano le mani troppo occupate per preoccuparsi di quello che facevano i piedi. Cercai con gli occhi il mio amico Clyde, già Dinky Williams, ma non mi riuscì di trovarlo. Ritirammo la nostra roba dallo sgabuzzino della vecchia megera guercia, che cominciò ad insultarmi quando vide che la mia mancia ammontava soltanto a dieci cents. Io non mi lasciai certo strapazzare tranquillamente, e le risposi per le rime. Le parole che correvano fra noi non erano insolite a Bowery, e due teste soltanto si voltarono dal bar. Una era di Clyde. Indicai con il pollice l'ingresso della sala sul retro. «Le tue guardie del corpo sono tipi da quattro soldi, Dinky.» La sua faccia tornò a farsi livida. Non guardai nemmeno l'altra testa: quella di una donna. Era Velda. 5 Ero seduto nella poltrona di cuoio dell'ufficio quando Velda infilò la chiave nella serratura. Indossava un abito che le dava un'aria da un milione di dollari. I suoi capelli neri scintillavano alla luce del sole mattutino che entrava dalla finestra, e mi balenò alla mente l'idea che, di tutta la bellezza del mondo, io avevo il meglio, proprio sotto il naso. Quando mi vide disse: «Immaginavo di trovarti qui.» Aveva una voce addirittura gelida. Gettò la borsetta sulla scrivania ed andò al mio vecchio
posto. Diavolo, era lei la padrona adesso. «Non ti lasci crescere l'erba sotto i piedi, Velda.» «Nemmeno tu.» «Si tratta di un'allusione alla mia compagnia di ieri sera, immagino.» «Precisamente. Mi sembra che il lavoro di gambe sia quello che più ti si adatta.» Sogghignai. «Vorrei proprio essere in grado di dire qualcosa di carino sul tuo compagno.» Il ghiaccio si sciolse, e la sua voce tornò a farsi dolce. «Sono gelosa per temperamento, Mike, lo sai.» Non avrei dovuto chinarmi verso di lei. La poltrona scivolava troppo facilmente sul pavimento. Le passai le dita sui capelli, cominciai a dire qualcosa, ma subito mi fermai. La baciai sulla punta del naso. La sua mano si strinse attorno al mio polso. Aveva gli occhi socchiusi, e non mi vide spingere, fuori dalla sua portata, la borsetta che, appesantita dalla rivoltella, andò a cadere per terra con un tonfo sordo. Questa volta la baciai sulla bocca. Era una bocca fresca e morbida. Le sfiorai appena le labbra, ma non riuscirò mai a dimenticare quel bacio. Sentii il desiderio di prenderla fra le braccia e di stringerla a me tanto da non permetterle nemmeno di muoversi. Ma non ne feci nulla, no. Tornai ad appoggiarmi allo schienale della mia poltrona, e Velda disse: «Non è mai stato cosi prima, Mike. Non trattarmi come le altre.» Le mani mi tremavano quando cercai di accendere un'altra sigaretta. «Non mi aspettavo davvero di trovarti a Bowery ieri sera, bimba.» «Mi avevi detto di mettermi al lavoro, Mike.» «Va bene. Sentiamo.» Velda si appoggiò allo schienale della sedia, gli occhi fissi nei miei. «Mi hai detto di considerare attentamente la faccenda di Wheeler. Ti ho obbedito. I giornali portavano tutti i particolari della storia, e di conseguenza c'erano poche speranze di venire a sapere qualcosa di più qui. Sono saltata sul primo aereo in partenza, sono andata a Columbus, mi sono recata a visitare la sua famiglia ed i suoi soci e sono tornata con l'aereo seguente.» Allungò una mano, raccolse la borsetta da terra, l'aprì e prese un taccuino alla prima pagina. «Ecco l'essenziale di quello che sono venuta a sapere. Tutti sono d'accordo sul fatto che Chester Wheeler era un marito, un padre e un uomo d'affari energico e coscienzioso. Mai noie in famiglia. Quando era in viaggio d'affari, scriveva o telefonava regolarmente. Questa volta avevano ricevuto da lui due cartoline, una lettera ed una telefonata.
Aveva telefonato subito dopo il suo arrivo a New York per far sapere che il viaggio era stato ottimo. La prima cartolina l'aveva mandata al figlio: una semplice cartolina postale. La seconda recava il timbro di Bowery, ed egli accennava al fatto di aver trascorso la sera in un locale chiamato la Inn. Poi ha scritto alla moglie una lettera assolutamente normale. In un poscritto indirizzato alla figlia di ventidue anni diceva di avere incontrato, qui a New York, una vecchia compagna di scuola della ragazza. Questo per ciò che riguarda la corrispondenza. «I colloqui con i suoi soci e le sue conoscenze d'affari non hanno dato risultato alcuno. La sua azienda andava benissimo; guadagnava molto e non aveva il minimo motivo di preoccupazione.» Strinsi i denti. «Non hanno dato risultato alcuno un accidente!» mormorai. Mi tornò, chiara, alla memoria, una piccola conversazione che avevo avuto con Pat. Una piccola conversazione a proposito di un certo Emil Perry, il quale aveva detto che Chester Wheeler era profondamente abbattuto perchè i suoi affari andavano male. «Sei sicura che la sua azienda sia in floride condizioni?» «Sicurissima. Mi sono informata a buone fonti. In città godeva di credito illimitato.» «Beato lui. Continua.» «Bene, il solo filo conduttore che riuscivo a vedere era quel locale di Bowery: la Inn. Ho fatto una rapida inchiesta al mio ritorno, e sono venuta a sapere di che cosa si trattava. Hai l'aria di saperla più lunga di me sull'individuo che gestisce quel grazioso ambientino. Gli ho gettato l'amo e lui ha abboccato. È forte. Sembra non ti abbia eccessivamente in simpatia, Mike.» «Non posso dargli torto. Una volta l'ho preso come bersaglio ed ho fatto centro.» «Quando te ne sei andato, non è riuscito a parlare per cinque minuti buoni. Poi si è scusato ed è andato nella stanza sul retro. Quando è tornato, pareva molto soddisfatto di sé. Aveva le mani macchiate di sangue.» Già, proprio così era fatto Dinky. Gli piaceva servirsi delle mani, quando a spalleggiarlo c'erano un paio di individui armati di rivoltella. «È tutto?» «Più o meno. Vuole rivedermi.» Strinsi i denti più forte che mai e ruggii: «Maledetto bastardo! Gliene farò passare io la voglia...» Velda scosse la testa e scoppiò a ridere. «Non cominciare ad essere geloso anche tu, Mike. È una parte che non ti va. È importante che lo riveda?»
«Sì, è importante,» ammisi, controvoglia. «Sei sempre del parere che si tratti di un assassinio?» «Più che mai, bimba, più che mai. E sono pronto anche a scommettere che si tratta anche di un delitto di una certa qual importanza.» «Che cosa mi consigli di fare ora?» Ci pensai un momento, poi le diedi una rapida occhiata. «Continua con quel Clyde. Tieni gli occhi bene aperti e guarda che cosa succede. Se fossi al tuo posto, nasconderei la licenza e lascerei la rivoltella. Sarebbe piuttosto pericoloso per te mettergli una pulce nell'orecchio. «Adesso cerca di seguirmi e vedrò di spiegarti qualcosa. Primo: c'è Wheeler. Abbiamo il fatto che può essere uscito con una indossatrice quella sera, che può essere andato alla Inn, e che può essere incappato per caso in ciò che è stato poi il motivo della sua morte. Se Clyde non comparisse nel quadro, lascerei perdere tutta questa parte della storia, ma la sua presenza la rende troppo interessante perchè noi l'abbandoniamo prima di saperne qualcosa di più. «Ma c'è un punto debole. Juno ha trovato la ragazza con la quale si è allontanato la sera della festa. Bene, la ragazza è uscita con lui.» «Ma, Mike, allora...» «Allora può darsi che sia uscito con un'altra ragazza un'altra sera. Ci sono un mucchio di "può darsi" in questa storia. Troppi. Ma si tratta dell'unica traccia che abbiamo, e se saprai lavorare abbastanza a lungo quel Clyde, credo che qualcosa finirà per saltare fuori, in un senso o nell'altro.» Velda si alzò e, piantandosi solidamente su due gambe che valevano quelle di qualsiasi indossatrice, buttò in alto le braccia e si stiracchiò tanto che il suo abito parve sul punto di scoppiare. Per non guardarla, dovetti abbassare precipitosamente il capo. Se quel maiale di Clyde avesse mai osato darle fastidio sul serio... Mi calcai il cappello in testa e le aprii la porta. Quando fummo in strada, la feci salire su un taxì e seguii con gli occhi la macchina fino a quando non fu scomparsa dietro un angolo. Erano le nove e mezzo. Andai alla più vicina cabina telefonica, feci scivolare un nikel nella scanalatura e chiamai la centrale di polizia. Pat era già arrivato, ma sul momento, nessuno riusciva a trovarlo. Dissi all'agente del centralino di avvisarlo che lo aspettavo di lì a mezz'ora in un piccolo locale, nei dintorni, e l'agente mi rispose che non avrebbe mancato di passare la mia comunicazione. Andai a prendere la macchina e mi avviai. La giornata prometteva di essere piuttosto faticosa.
Pat mi aspettava davanti ad una chicchera di caffè mezzo vuota. Quando mi vide, ordinò con un cenno un altro caffè e qualche pasta. Mi misi a sedere davanti a lui. «Buon giorno, capitano! Come vanno le cose in ufficio?» «Abbastanza bene, Mike.» «Oh, mi spiace davvero.» Bevve un sorso di caffè. Il suo volto era assolutamente atono. «Non cominciare a tirare in ballo storie, Mike.» Mi finsi indignato. «Chi? Io? E che cosa potrei cominciare a tirare in ballo che non sia già stato tirato in ballo?» «Mi hai chiesto di venire, sono venuto, ed ora aspetto di sentire quello che hai da dirmi.» Quella sua faccia assolutamente inespressiva finì per farmi saltare la mosca al naso. «Stammi a sentire, Pat. Tu sei un poliziotto intelligente. Tutti lo sanno, ma nessuno lo sa meglio di me e di te. E tu sai anche qualcosa d'altro: sai che neppure io sono uno stupido. Ti ho detto che Wheeler è stato assassinato e tu non hai finto nemmeno di prendermi sul serio. «Ora torno a ripeterlo, Pat. Wheeler è stato assassinato. Se vuoi, puoi darmi una mano, in caso contrario me la sbrigherò da solo. Ti ho detto anche che voglio riavere la mia licenza, e finirò per riaverla, te lo assicuro. E quando ci sarò riuscito, un mucchio di belle reputazioni andranno a farsi benedire, la tua compresa, e non voglio che accada una cosa del genere. «Tu mi conosci e sai benissimo che non scherzo. Ho già visto cose che non hanno fatto che convincermi sempre più dell'esattezza della mia idea, Pat. Fra poco mi permetterò ancora il lusso di far fuori un assassino, e quel giorno un certo giudice distrettuale non avrà altra scelta all'infuori di quella di fare i bagagli.» Non immaginavo assolutamente in quale maniera avrebbe reagito Pat. Forse mi aspettavo di vederlo montare su tutte le furie, forse mi aspettavo che mi consigliasse una cura a base di doccia fredda e camicia di forza. Certo non mi aspettavo di vederlo sorridere e di sentirlo dire, con tono calmissimo: «È molto tempo che ti ho accordato il beneficio del dubbio, Mike. Credo anch'io che Wheeler sia stato assassinato.» Il suo sorriso si fece più ampio quando notò la mia espressione, e continuò: «Ma c'è un guaio. Il giudice distrettuale ha subodorato qualcosa, ed ha dato ufficialmente la sua opinione professionale, suffragata da quella del medico legale: a loro giudizio, il suicidio di Wheeler è al di là di ogni dubbio. Ho ricevuto il consiglio di concentrare i miei sforzi sui più recenti
sviluppi nel vasto campo del delitto.» «Pare che il nostro amico, il giudice distrettuale, non ti abbia più in eccessiva simpatia.» «Già.» «E allora?» «Che cosa sai, Mike?» «Ben poco, amico, ma presto ne saprò di più, e verrò a rovesciarti tutto quanto in grembo non appena ce ne sarà abbastanza perchè tu possa piantarci dentro i denti. Non credo che il tuo prestigio abbia avuto a soffrire qualcosa per la tirata del giudice distrettuale.» «Oh, niente affatto. Ne ha avuto, anzi, un certo qual vantaggio.» «Benissimo. Questa sera ti telefonerò tutti i particolari. Intanto puoi cominciare a tener d'occhio un poco di buono che risponde al nome di Rainey.» «Lo conosco.» «Davvero?» «Lo abbiamo fermato una volta per rissa e ferite. Poi la vittima ha ritirato la querela e noi siamo stati costretti a rimetterlo in libertà. Si proclama organizzatore di combattimenti di pugilato.» «Risse da strada, al massimo,» dissi, acido. «Probabilmente. Aveva le tasche piene di danaro, ma abitava a Bowery.» «Dove, Pat?» «A Bowery. Perchè?» «Una parola davvero interessante. L'ho sentita ripetere diverse volte in questi giorni. Ti spiace vedere se puoi trovare qualcosa contro di lui?» Pat prese a battere una sigaretta contro l'unghia del pollice. «Hai messo in tavola tutte le tue carte, vero?» «Tutte, dalla prima all'ultima. Non voglio nasconderti niente. Ma c'è una cosa che stuzzica la mia curiosità: come mai hai ripudiato la teoria del suicidio per abbracciare quella del delitto?» «Colpa tua, come sempre,» rispose Pat, con un sorriso. «Neppure per un momento ho pensato che tu andassi a caccia di ombre. Mi ero ripromesso di non lasciarmi eccitare, ma, appena tornato in ufficio, non ho saputo resistere, e sono sceso subito a dare un'occhiata al cadavere. Ho consultato un paio di esperti, ed il loro parere è che, per quanto i segni rilevati sul corpo siano abbastanza leggeri da passare quasi inosservati, il nostro amico Wheeler è stato un poco strapazzato prima di ricevere una pallottola in te-
sta.» «Non ha certo potuto dibattersi molto, ubriaco com'era.» «No, non si è dibattuto molto,» confermò Pat. «Appena quel tanto sufficiente perchè qualche traccia rimanesse sul suo corpo. A proposito, Mike... parliamo un poco di quel proiettile e di quel bossolo che abbiamo trovato in corridoio. Sei stato tu?» Uscii in una risata piuttosto aspra. «Te l'ho già detto una volta. No. Qualcuno doveva avere una tasca bucata.» Annuì, pensoso. «Tornerò a ispezionare l'albergo. Deve essere stato o uno dei dipendenti o un cliente. Peccato che vi siate dimenticati di chiudere la porta a chiave.» «Una porta chiusa non basta a fermare un assassino,» risposi. «Aveva a disposizione tutto il tempo che desiderava, e poteva fare tutto il chiasso che voleva. Quasi tutti, là dentro, erano mezzo sordi o morti al mondo quando è echeggiata la detonazione. È un vecchio edificio, con pareti massicce indicatissime a soffocare i rumori delle camere.» Pat mise un dollaro sul conto. «Devo aspettare allora una tua telefonata per questa sera?» «Senza fallo. Puoi intanto far sapere al giudice distrettuale che avrà presto mie notizie.» Mi occorsero quindici minuti per arrivare al Chadwick Hotel. Dietro il banco, nell'atrio, c'era una donna che aveva tutta l'aria di una nonna rispettabilissima. Ma. non appena aprì la bocca, ogni idea di rispettabilità fu subito cancellata dal mio cervello. Le dissi che volevo vedere una certa Marion Lester, ed ella non si prese nemmeno il disturbo di farmi domande o di annunciarmi. Si limitò a rispondere: «Stanza 312. E cercate di salire le scale con un certo riguardo, perchè i gradini scricchiolano.» Salii con tutti i riguardi di questo mondo, ma i gradini scricchiolarono lo stesso. Bussai alla porta della stanza 312, aspettai, poi tornai a bussare. La terza volta intesi uno scalpiccio, poi l'uscio si aprì di quel tanto sufficiente a lasciarmi vedere due grandi occhi azzurri, un numero spropositato di forcine ed una vestaglia di seta allacciata fino al collo. Prima che la ragazza avesse il tempo di aprire bocca, dissi: «Salve, Marion. Juno mi ha consigliato di venirvi a trovare.» I due occhi si fecero ancora più grandi e la porta si aprì completamente. Me la chiusi alle spalle e mi tolsi il cappello, come un compito gentiluomo. Marion si passò la lingua sulle labbra e si schiarì la gola. «Mi... mi sono appena alzata.»
«Lo vedo. Una notte faticosa?» «No... oh, no.» Attraverso una minuscola anticamera mi fece entrare in un non meno minuscolo salotto e mi fece cenno di accomodarmi. Mi misi a sedere. «È così presto che... Se non vi spiace vado a vestirmi.» «Non fate complimenti, vi prego.» Scomparve nella camera da letto, e tornò, una decina di minuti dopo, in tailleur, i capelli pettinati alla perfezione, il viso truccato di fresco. Era una ragazza molto svelta, niente da obiettare su questo punto. Si mise a sedere, accese una sigaretta e disse: «Sono a vostra disposizione, signor...» «Mike Hammer. O, più semplicemente, Mike. Juno vi ha parlato di me?» «Sì.» La voce le tremava leggermente, e tornò a passarsi la lingua sulle labbra. «Eravate con il... con il signor Wheeler quando è morto.» «Precisamente. Tutto quanto si è svolto sotto il mio naso, ma ero troppo ubriaco per accorgermene.» «Temo di non potervi dir molto, Mike.» «Ditemi che cosa è successo quella notte. Basterà.» «Juno non ve ne ha parlato?» «Sì, ma vorrei che me lo ripeteste.» Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta, poi schiacciò il mozzicone nel portacenere. «Mi ha riaccompagnato a casa. Avevo bevuto troppo e... e la testa mi girava un poco. Mi ricordo che abbiamo preso un taxì, poi... ho dovuto addormentarmi prima di arrivare a casa, perchè mi sono ritrovata nel mio letto, completamente vestita, con uno spaventoso mal di testa. Più tardi ho saputo che si era suicidato, e francamente la notizia mi ha sconvolto.» «È tutto?» «Sì, è tutto.» Peccato, pensai. Wheeler avrebbe fatto meglio a divertirsi un poco con lei, prima di farsi spedire per espresso all'altro mondo. Doveva saperci fare, quella ragazza. Un vero peccato. Dato che era ancora abbastanza presto, chiesi: «Raccontatemi ogni cosa dall'inizio. La festa e tutto, voglio dire.» Si lisciò i capelli con il palmo della mano e fissò gli occhi al soffitto. «Le Manifatture Calway ci hanno scritturato per mezzo di miss Reeves... Juno. Ella...» «È sempre Juno che tratta le questioni del genere?»
«No, non sempre. Qualche volta è Anton a occuparsene. Vedete, Juno è la persona più importante là dentro. È lei a stipulare tutti i contratti, ed è tanto persuasiva da accaparrare sempre nuovi clienti all'agenzia.» «Capisco benissimo perchè,» ammisi con un sorriso. Anch'ella sorrise. «La nostra agenzia è forse la più importante di tutta la città. Le indossatrici sono più richieste e meglio pagate di quelle di tutte le altre agenzie, e questo per merito di miss Reeves. Una telefonata di Juno equivale, più o meno, alla telefonata di un grande studio cinematografico. Infatti più di una indossatrice dell'agenzia è passata, grazie a questa credenziale, a Hollywood.» «Torniamo per il momento a quella festa,» la interruppi. «Già. Le Manifatture Calway hanno telefonato e Juno ci ha subito avvertite. Siamo andate alla ditta a scegliere e a far accomodare i modelli che dovevamo presentare. Poi uno dei direttori ci ha accompagnato al banchetto, dove abbiamo assistito alle celebrazioni a base di discorsi, allocuzione, ecc. ecc. Terminate tutte queste belle storie, siamo andate a vestirci. La presentazione dei modelli è durata una ventina di minuti. Siamo poi andate a cambiarci e ci siamo unite agli altri. Hanno incominciato a servire i cocktails, ed io ne ho bevuti un paio di troppo.» «E come è andato il vostro incontro con Wheeler?» «Credo che sia avvenuto quando stavo andandomene. Non riuscivo a trovare la porta dell'ascensore, mi ha aiutato, siamo scesi assieme, e... e il resto lo sapete.» Sì, lo sapevo, purtroppo. Niente. Mi alzai e ripresi il cappello. «Grazie, ragazza mia. Non mi siete stata molto utile, ma grazie lo stesso. Adesso, se volete, potete tornare a letto.» «Mi spiace di non avervi potuto aiutare.» «Un poco mi avete aiutato, invece. Adesso almeno so dove non devo cercare. Forse ci rivedremo uno di questi giorni.» Mi precedette per aprire la porta. «Spero,» disse, «che il nostro prossimo incontro avvenga in circostanze meno penose.» Mi strinse la mano e corrugò un poco la fronte. «Incidentalmente, Juno mi ha parlato di giornalisti. Spero che...» «Allo stato attuale delle cose, è impossibile ricavare un buon pezzo da questa storia. A proposito, potete dormire tranquillamente fra due guanciali.» «Mi sento più sollevata adesso. Arrivederci, signor Hammer.» «Arrivederci, bimba.»
Mi misi al volante e mi diressi verso Bronx. Sentivo ribollire dentro di me una collera furibonda. Perchè un brav'uomo come Chester Wheeler aveva dovuto rimetterci le penne in quel modo mentre sudici delinquenti come Clyde si davano da fare e trafficavano in tutta tranquillità? Danaro? Vendetta? Delitto passionale? Dove diavolo bisognava andare a cercare il movente? Continuavo ancora a chiedermelo quando fermai la macchina nella strada residenziale di Bronx. Tolsi la chiave del contatto e, lungo il viale bordato dalle siepi, mi avviai verso la casa di mattoni rossi. Questa volta non mi limitai a sollevare soltanto il battente monogrammato: lo lasciai anche cadere. Una domestica in uniforme nera e bianca venne ad aprire e si fermò con una mano sulla maniglia. «In che cosa posso esservi utile, signore?» «Ho bisogno di vedere il signor Perry,» risposi. «Il signor Perry ha dato ordine di non essere disturbato. Mi spiace, signore.» «Dite al signor Perry che, per il suo bene, è meglio che si lasci disturbare un poco. Ditegli che c'è qui Mike Hammer, un tale che sa fare molto meglio tutto quello che può fare un certo Rainey.» Entrai nell'anticamera, ed ella, come vide la mia faccia, non cercò nemmeno di fermarmi. «Andate a dirgli tutto questo.» Non dovetti aspettare molto. La donna tornò meno di due minuti dopo dicendo: «Il signor Perry vi aspetta nel suo studio, signore.» Mi indicò una porta in fondo all'anticamera e mi guardò con una espressione piuttosto sbigottita quando le passai davanti. Perry era il grassone spaventato che avevo visto il giorno prima. Anche ora era più spaventato che mai. Accovacciato in una grande poltrona di cuoio dietro una scrivania, tremava come una foglia. Un minuto prima doveva essere tranquillissimo, perchè teneva davanti a sé un libro rovesciato e un sigaro fumava nel portacenere. Liberai con il cappello un angolo del ripiano dalle cianfrusaglie che lo coprivano e mi appoggiai alla scrivania. «Siete un bugiardo, Perry,» dissi. Il grassone aprì la bocca, e il suo mento cominciò a tremare, come se fosse fatto di gelatina. Strinse le dita lardose ai braccioli della poltrona, quasi volesse spremerne il succo, e balbettò: «Come osate... qui, in casa mia! Come osate...» Feci scivolare una sigaretta dal pacchetto e me la infilai in bocca. Non
avevo fiammiferi e, per accendere, mi servii del suo sigaro. «Che cosa vi ha promesso Rainey, Perry? Una buona battuta?» Lo guardai, attraverso il fumo. «O un proiettile nella schiena?» I suoi occhi corsero dalla finestra alla porta. «Di che cosa...?» Terminai io per lui. «Sto parlando di un piccolo delinquente che risponde al nome di Rainey. Che cosa vi ha promesso?» La voce di Perry svanì completamente, ed egli parve sul punto di vomitare. «Vi ho già detto che non ho niente da imparare da Rainey: quello che sa fare lui, io lo so fare ancora meglio. Posso picchiarvi fino a ridurvi una polpetta. Posso piantarvi un proiettile là dove vi fa più male e cavarmela senza il minimo guaio. «E adesso parliamo di un tale che voi avete detto di conoscere. Si chiamava Wheeler, Chester Wheeler. È stato trovato morto in una camera d'albergo, e il coroner ha dato verdetto di suicidio. Voi avete informato la polizia che era in una situazione difficile... a motivo dei suoi affari, avete detto.» Annuì con un timido cenno del capo. Mi chinai in avanti, in modo da potergli sputare in faccia, per così dire, le parole seguenti. «Siete un maledetto bugiardo, Perrv. Non c'era niente che non andava negli affari di Wheeler, e voi lo sapevate benissimo.» Scosse la testa, gli occhi folli di terrore. «Sapete che cosa è capitato a Wheeler?» Parlavo ora a pochi centimetri soltanto dalla sua faccia. «Wheeler è stato assassinato. E sapete anche qualcosa d'altro... che finirete per essere assassinato anche voi quando il criminale saprà che vi sono alle costole. È assolutamente sicuro, quell'uomo, che finirete per parlare, grassone mio, e uno di questi giorni vi troverete un proiettile in quella vostra pancia spropositata.» Gli occhi di Emil Perry erano come due pezzi di carbone nella neve. Da bianco che era, si fece poi terreo e si afflosciò nella poltrona, svenuto. Rimasi appoggiato al bordo della scrivania e terminai la sigaretta, in attesa che tornasse di questo mondo. Quando riaprì gli occhi, tese la mano verso un vassoio su un tavolo. Versai un bicchiere d'acqua ghiacciata e glielo tesi. Lo vuotò di un fiato. Dissi, con voce atona: «Non conoscevate nemmeno Chester Wheeler, vero?» L'espressione del suo viso fu una risposta sufficiente, senza che avesse bisogno di aprire bocca. «Volete parlarne?»
Riuscì a scuotere la testa in maniera appena percettibile. Mi scostai dalla scrivania, presi il cappello e mi diressi verso la porta. Prima di aprirla mi voltai un momento. «Passate per un cittadino rispettabile, grassone. La polizia accetta la vostra parola senza discutere. Sapete che cosa farò adesso? Andrò a intervistare il vostro amico Rainey e gli chiederò come è riuscito a farvi rigare dritto.» La sua faccia tornò a farsi livida, e prima che avessi chiuso la porta era svenuto un'altra volta. Che andasse al diavolo! Quando avesse ripreso i sensi, se la sarebbe sbrigata da solo a procurarsi l'acqua. 6 Il cielo si era rannuvolato e faceva piuttosto freddo. C'era neve sul tetto di qualche macchina proveniente dalla periferia. Entrai in un bar a bere un paio di tazze di caffè bollente, poi salii un momento a casa a prendere cappotto e guanti. Quando tornai in strada, bianchi fiocchi di neve ondeggiavano nell'aria, fra le due pareti di cemento degli edifici. Erano le dodici e un quarto quando trovai un posteggio libero. Presi subito un taxì e diedi all'autista l'indirizzo dell'Agenzia Anton Lipsek, nella Trentatreesima. Forse la mia giornata non sarebbe andata completamente perduta, dopo tutto. La segretaria non mi rivolse domande questa volta, ma parlò al telefono interno, ricevette una risposta affermativa e mi informò che miss Reeves mi aspettava. Gli dei dell'Olimpo potevano andare orgogliosi della loro regina. A venirmi incontro attraverso l'ufficio fu una visione di perfezione in un abito dalle maniche lunghe. Maledetti i vestiti che portava! Coprivano tutto quanto e lasciavano campo libero all'immaginazione. I campioni offerti in mostra erano rappresentati dalle mani e dal viso, ma questi campioni erano più che sufficienti a farvi desiderare di spogliarla per sentire sotto le dita la carne palpitante di una dea. La breve stretta di mano che ci scambiammo mi fece correre un brivido giù per la spina dorsale. «Sono contenta di vedervi, Mike.» «Vi avevo detto che sarei venuto.» Portava un solo gioiello: un pendente che, affrancato ad una catenella d'oro, le posava fra i seni. Lo presi in mano e uscii in un fischio soffocato. Si trattava di uno smeraldo che doveva valere una piccola fortuna. «Vi piace?» mi chiese.
«Meraviglioso.» «Amo le cose belle.» «Anch'io.» Juno volse la testa, ed un sorriso di soddisfazione le sfiorò per un istante le labbra. Due minuscoli diavoletti le danzavano negli occhi quando mi voltò le spalle e si diresse verso la scrivania. In quel momento la luce grigia che filtrava dalle finestre le illuminò i capelli trasformandoli in un casco d'oro la cui vista mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. Avevo un sapore amaro in bocca. Un pugno mi strinse lo stomaco, e quella maledetta musica riprese nel mio cervello la sua dannata sinfonia. Ora sapevo che cos'era quel formicolio lungo la spina dorsale. Ora sapevo perchè sentivo qualche volta il desiderio di prendere Juno fra le braccia e di stringerla ferocemente. Mi ricordava un'altra donna. Una donna di molto tempo addietro. Una donna che credevo di aver cancellato dalla mia mente, che credevo di aver dimenticato in un odio selvaggio che nulla avrebbe potuto eguagliare. Una bionda dai capelli che sembravano oro fuso. Era morta, ormai, ed ero stato io a ucciderla. Mi guardai le mani: tremavano violentemente, ed ogni vena, ogni tendine spiccavano in un rilievo perfetto. «Mike...?» Non era la stessa voce. Era la voce di Juno. Ora potevo anche smettere di tremare. L'oro era scomparso dai suoi capelli. Mi stava tendendo il cappotto perchè l'aiutassi ad infilarlo. «Andiamo a mangiare assieme, vero?» «Non sono qui per affari.» Rise, e sì appoggiò un poco a me mentre si infilava i guanti. «A che cosa stavate pensando un minuto fa, Mike?» Mi voltai, in modo che non potesse vedere il mio viso. «A niente.» «Non mi dite la verità.» «Lo so.» Mi venne dinanzi e mi guardò con due occhi imploranti. «È forse... è forse colpa mia?» Mi costrinsi a sorridere. «No, non è colpa vostra, Juno, ve lo assicuro.» «Ne sono contenta, Mike. Pensavate a qualcuno che odiate, e non vorrei davvero che mi odiaste.» Mi prese per mano e mi trascinò verso una porta laterale. «Da questa parte, Mike. Non voglio dividervi con tutto quanto il personale dell'agenzia.»
Svoltammo l'angolo del corridoio e io schiacciai il pulsante dell'ascensore. Mentre aspettavamo, mi prese sotto braccio, sapendo che non potevo a meno di guardarla. Juno, una dea in pelliccia. Un bel progresso, rispetto all'originale. E, nel breve istante in cui la guardai, la luce filtrò ancora nei suoi capelli, facendoli luccicare come oro. La mia testa si trasformò in un vulcano, il cuore mi si strinse e sentii il nome di Charlotte salirmi alle labbra. Mio Dio! Sempre sarebbe stato così? Dovevo dominarmi. Tornai a premere il pulsante, e lo tenni abbassato fino a quando non sentii lo scatto metallico della cabina in arrivo. All'ultimo momento due altri uomini salirono nell'ascensore, e subito guardarono Juno, riservando a me solo qualche occhiata di invidia. Faceva colpo su tutti quella donna, evidentemente. La strada era coperta da un tappeto bianco che il vento cercava di scompigliare. Sollevai il collo del cappotto e mi guardai in giro alla ricerca di un taxì. Juno disse: «Niente taxì, Mike. Ho la macchina qui all'angolo.» Prese di tasca una catenella d'oro dalla quale pendevano due chiavi. «Ecco, guidate voi.» Abbassammo la testa e svoltammo l'angolo, sferzati dal vento. La macchina che mi indicò era una Cadillac nuova, fornita di tutti quegli aggeggi cromati che sembravano esistere solo nelle vetrine dei concessionari. Le aprii la portiera per lasciarla salire sul sedile anteriore, poi feci di corsa il giro della macchina ed andai a mettermi al volante. Quello sì che era vivere, accidenti! «Dove andiamo, Juno?» chiesi. «Ho scoperto, qualche mese fa, un locale davvero meraviglioso. Si mangiano le migliori bistecche di questo mondo. E la clientela che lo frequenta è la più strana di questo mondo... affascinante, direi.» «Affascinante?» Scoppiò a ridere allegramente. «Forse non è la parola adatta. È... è assolutamente insolita, ecco. Non avevo mai visto niente di simile prima. Ma si mangia benissimo. Vedrete. Andate diritto fino a Broadway, poi vi mostrerò la strada.» Quando vidi il locale che ella diceva di aver «scoperto», non potei a meno di sogghignare. «Mi sembra che non vi riesca nuovo, Mike,» mi disse. «Ci siete già stato?» «Sì, una volta. E mi hanno scaraventato fuori. O almeno hanno cercato
di farlo. Hanno chiamato rinforzi, ed alla fine sono uscito con mezzi miei e con qualche capello di meno in testa. Simpatica gente davvero.» Juno si morse le labbra nel vano tentativo di non ridere. «E io che raccomandavo sempre ai miei amici di venire qui se volevano mangiare bistecche meravigliose! Adesso capisco perchè qualcuno mi ha guardato con una certa aria quando gli ho parlato una seconda volta di questo locale.» «Diavolo, probabilmente non si sono mai divertiti tanto. Bene, andiamo a vedere come vive il terzo sesso.» Entrammo. Tutti gli sgabelli del bar erano occupati. Molti sguardi cercarono i miei occhi, ma io finsi di non accorgermene nemmeno. In fondo al banco, un efebo cercava di attirare l'attenzione di un individuo troppo ubriaco per rispondere ai suoi approcci. Quando mi vide, mi rivolse un sorriso radioso, e mancò poco che gli piantassi un pugno in piena faccia. Anche il barista era di quella razza, perchè parve letteralmente scandalizzato dal fatto che fossi entrato in compagnia di una donna. L'addetta al guardaroba aveva l'aria di un granatiere. Mi considerò con una espressione glaciale, ma sorrise a Juno e la osservò attentamente, squadrandola dalla testa ai piedi. Quando andò ad appendere i nostri cappotti, Juno si voltò verso di me, le guance accese, incerta se ridere o meno. «Oh, Mike, vi devo sembrare molto sciocca!» «Scusatemi, ma mi sembra che voi viviate piuttosto nelle nuvole.» Nessuna delle tavole era occupata nella sala da pranzo. In compenso quasi tutti i salottini erano pieni, se si possono chiamare pieni quei salottini dove due persone dello stesso sesso siedono fianco a fianco. Un cameriere dai biondi capelli arricciati ci venne incontro con un inchino e ci pilotò verso un salottino di fondo. Ordinai bistecche e, prima di tutto, cocktails. Il cameriere si allontanò con un inchino, per ricomparire di lì a poco e farci scivolare davanti, con un nuovo inchino, le miscele richieste. Dissi: «Alla regina dell'Olimpo discesa fra i mortali.» «Fra... meravigliosi mortali,» aggiunse Juno. Vuotammo i bicchieri. Ci furono altri cocktails ed altri brindisi. Poi vennero le bistecche, ed erano davvero le migliori bistecche di questo mondo. Poi venne uno di quei brevi periodi nel corso dei quali ci si sente contenti e soddisfatti, nel corso dei quali si può starsene comodamente seduti, una sigaretta fra le labbra, guardando il mondo e rallegrandosi di farne parte. «Pensieroso, Mike?» «Sì, sto pensando che è bello stare al mondo. Non avreste dovuto por-
tarmi qui, bella signora. Mi distraete dal mio lavoro.» Corrugò la fronte. «State ancora cercando una ragione alla morte del vostro amico?» «Uh-uh. A proposito, sono andato a trovare quella Marion Lester, ma le cose si sono svolte in maniera così rispettabile da togliermi ogni voglia di continuare le mie ricerche in quella direzione.» «Ma insistete a cercare?» «Sì, accidenti. Non ho nessuna voglia di finire droghiere.» Non capì che cosa volevo dire. Il mio sogghigno si trasformò prima in un sorriso, poi in una franca risata. Non avevo nessuna ragione di sentirmi così felice, ma sapevo, quasi inconsciamente, che un giorno si sarebbe fatta luce, una luce che mi avrebbe mostrato la risposta. «Perchè ridete, Mike? Ridete forse di me?» «Niente affatto, Juno. Non potrei mai ridere di voi. Rido della vita. È maledettamente complicata, la vita, qualche volta, poi, improvvisamente, senza una ragione precisa, diventa di una semplicità addirittura infantile. Come quei pancioni e tutte quelle ragazze dalla schienri nuda a Bowery. Sia detto per inciso, non avrei mai immaginato di trovarvi laggiù.» Si strinse nelle spalle, con molta grazia. «E perchè? La maggior parte dei vostri "pancioni" rappresentano eccellenti relazioni d'affari.» «Mi sembra di capire che, nel vostro ramo, dovete essere qualcosa di simile a un asso.» Notai che il mio complimento le aveva fatto evidentemente piacere. Annuì, pensosa. «Non senza ragione, Mike. È il frutto di un duro lavoro, tanto in ufficio quanto fuori dall'ufficio. Trattiamo solo con le migliori case e ci serviamo solo di indossatrici accuratamente selezionate. Anton non si occupa di questioni commerciali, ma è lui a fare tutte quante le fotografie, ed avete visto anche voi quanto interesse dedica alla sua arte.» «Se fossi al suo posto, ci dedicherei molto interesse anch'io.» Mi mostrò la lingua, con aria birichina. «Oh, ci credo, ma non fotografereste certo gran cosa.» «Sì, ma farei grandi cose.» «In questo caso, verreste meno alle regole della professione.» «Basta! Abbiate pietà di un povero fotografo. Lui lavora, e i pancioni si divertono.» Aspirai una boccata alla sigaretta e socchiusi gli occhi. «Sapete, Clyde si è trovato una occupazione davvero redditizia.» Non appena mi sentì nominare quell'individuo, corrugò la fronte. «Lo conoscete?»
«Certo, è un vecchio amico. Parlategli di me, quando vi capita di rivederlo.» «Oh, non lo conosco troppo bene, sapete. Ma, se mi capita l'occasione, non mancherò di farlo. È il perfetto tipo del criminale, vero?» «Sembra preso di peso da un film. Da quanto tempo dirige quella baracca?» Juno si passò una mano sulle guance, adagio. «Oh, da circa sei mesi, credo. Ricordo che un giorno è venuto in ufficio a comperare le fotografie di tutte quante le indossatrici. Ha fatto scrivere una dedica alle ragazze e le ha invitate all'inaugurazione. E ogni cosa si è svolta nel più grande segreto, naturalmente. Io sono andata laggiù solo quando ho sentito le ragazze portare ai sette cieli il locale; Clyde si è comportato allo stesso modo con quasi tutte le agenzie di New York.» «Niente affatto stupido, il nostro Clyde,» sogghignai. «Se le è messe in tasca tutte quante, le ragazze, e quelle nemmeno se ne accorgono. Sapeva benissimo che sono, in genere, tipi da navigare fra grossi conti in banca e che avrebbero fatto affluire nel suo locale clientela ricca. Quando ha cominciato a circolare la notizia che si giocava grosso, gli affari sono subito andati a gonfie vele. E adesso ci sono anche i turisti, che trovano la cosa molto moderna e molto eccitante. Mi piacerebbe sapere a chi fa scivolare in mano parte del malloppo.» «Che cosa?» «Potete scommettere che un paio almeno di pezzi grossi sono profumatamente pagati per tenere gli occhi chiusi. Clyde deve essere in stretto contatto con qualche personaggio molto influente, perchè, in caso contrario, la polizia gli sarebbe piombata addosso fin dalla sera dell'inaugurazione.» Juno disse, con tono un poco impaziente: «Oh, Mike, una tattica del genere è scomparsa con il Proibizionismo.» Poi una nota di curiosità si insinuò nella sua voce. «O forse mi sbaglio?» Osservai attraverso la tavola quella donna che portava la sua bellezza con così fiera arroganza. «Avete sempre visto le cose dalla loro parte più simpatica, ragazza mia. Ma le cose hanno anche molti altri aspetti che è meglio ignorare.» Rovesciò indietro la testa. «Sembra incredibile che possano esistere ancora cose del genere.» Presi a battermi il pugno contro il palmo della mano. «È incredibile,» dissi, «eppure accadono. Chissà che cosa succederebbe se torchiassi ben bene il mio vecchio amico Dinky Williams.» La mia bocca si torse in un
sogghigno. «Forse è un'idea. Forse...» Troncai a mezzo la frase e rimasi con gli occhi fissi al muro. Juno rivolse un cenno al cameriere, che ci portò altri cocktails. Diedi un'occhiata all'orologio e mi accorsi che la prima metà del pomeriggio era abbondantemente passata. «Questo è l'ultimo giro, vero?» Si piegò in avanti, appoggiando il mento sulle mani e sorridendo. «Non mi va affatto l'idea di lasciarvi.» «Non va neanche a me, quanto a questo.» Ella sorrideva sempre, ed allora continuai: «Ho chiesto a un'altra bella ragazza, per la quale decine di persone erano pronte a fare follie, che cosa trovava di bello in me. Mi ha dato una risposta perfettamente azzeccata. Qual è la vostra risposta, Juno?» I suoi occhi erano due abissi senza fondo che cercavano di attirarmi. Le sue labbra sorridevano ancora, impercettibilmente. Due labbra piene e deliziose che si muovevano appena quando ella parlava. «Detesto coloro che mi adulano. Detesto coloro che vogliono a tutti i costi mettermi su un piedestallo. Mi piace, credo, essere trattata con una certa qual brutalità, e voi siete il solo, finora, che lo abbia tentato.» «Ma se non mi sono nemmeno sognato di tentare!» «No, ma ci avete pensato. Qualche volta non parlate certo con eccessiva gentilezza.» Come tutte le vere dee, sapeva leggere nel pensiero, ed aveva ragione, naturalmente. Non sapevo che cosa diavolo succedeva nella mia testa, ma qualche volta, quando la guardavo, sentivo la tentazione di chinarmi sulla tavola e di schiaffeggiarla. Solo a pensarci, sentivo i tendini irrigidirsi sul dorso della mano. Forse una dea era troppo per me. Forse avevo eccessiva familiarità con donne di altro tipo. «Andiamo,» dissi. «Devo lavorare ancora per quel poco di giorno che ci rimane e per tutta quanta la notte.» La dea aveva ancora qualche tratto umano. La seguii con gli occhi mentre si dirigeva verso la toilette per incipriarsi il naso, che, sia detto fra parentesi, non ne aveva il minimo bisogno. Ammirai il movimento felino delle sue anche, la magnifica eleganza del suo passo. E non ero il solo ad ammirare. Una ragazza, una pittrice come dicevano chiaramente le macchie di colore generosamente sparse su tutta quanta la sua persona, fissava Juno con due occhi che sembravano due pezzi di carbone ardenti. Era una di quelle ragazze che paiono germinare come funghi nel cosiddetto mondo artistico. Dopo uno sguardo ostile per farmi chiaramente comprendere che avrei avuto una concorrente, ella partì di galoppo all'inseguimento di Juno.
Meno di un minuto dopo era di ritorno, e. come ebbi visto la sua espressione, non potei a meno di sogghignare. Dopo aver pagato il conto — piuttosto salato, sia detto fra parentesi — andai ad aspettare Juno fuori, sul marciapiede. Nevicava fitto ora, e dovetti lasciarmi incipriare abbondantemente il naso, mentre ella, per suo conto, terminava di incipriare il suo. La Cadillac era munita di gomme speciali, ma per il ritorno impiegammo, come minimo, un tempo doppio rispetto a quello dell'andata. Juno decise che non sarebbe tornata in ufficio, e mi pregò di accompagnarla a casa. Seguendo le sue indicazioni, andai a fermarmi davanti ad un edificio nuovo, nei dintorni di Riverside Drive. «Eccoci arrivati,» sospirò ella. «Lasciate la macchina qui?» «Non ne avete bisogno per i vostri andirivieni di questa notte?» «Non posso permettermi il lusso di rifornire di benzina questo pozzo senza fondo. No, prenderò un taxì.» Scesi ed aprii la portiera per lasciarla scendere. Un guardiaportone gallonato si avvicinò e sollevò la mano alla visiera del berretto. Juno disse: «Portatemi la macchina in rimessa, se non vi dispiace.» Il guardiaportone prese le chiavi. «Certo, miss Reeves.» Ella si rivolse a me con un sorriso. La neve, che continuava a cadere più turbinosa che mai, faceva intorno al suo viso una specie di alone bianco. «Salite a bere qualcosa?» disse, esitante. «Un bicchierino solo, Mike, poi prometto di lasciarvi andare.» «Bene, ragazza mia, uno soltanto. E non cercate nemmeno di farli diventare due.» Juno non abitava all'ultimo piano, ma a una distanza dal piano stradale più che sufficiente per un Olimpo come si deve. Mobili e arredi testimoniavano di un gusto perfetto e di un senso innato per le comodità. Non mi tolsi nemmeno il cappotto, mentre ella preparava i cocktails, ma non mancai di ammirare una volta di più la grazia felina dei suoi movimenti. Nel suo corpo c'era una simmetria che faceva nascere in me il desiderio di toccare e di sentire. I nostri occhi si incontrarono nello specchio sopra il divano, e nei suoi c'era la stessa espressione che doveva esserci nei miei. Ella si girò verso di me, di scatto, e mi tese un bicchiere. Ora parlava con voce bassa e lievemente rauca. «Non ho ancora trent'anni, Mike. Ho conosciuto molti uomini. Ho avuto anche molti uomini, ma nessuno che
desiderassi davvero. Ed è vicino il giorno nel quale desidererò voi, Mike.» Il ben noto brivido mi corse giù per la schiena e la folle musica mi si scatenò nel cervello perchè, in quel momento, c'era ancora la luce nei suoi capelli. Il gambo del bicchiere mi si spezzò fra le dita, graffiandomi il palmo della mano. Sentii che la fronte mi si imperlava di sudore. Mi spostai un poco, di modo che la luce non battesse più sui suoi capelli, l'oro scomparve, ed allora, per placare l'odio che mi scuoteva, vuotai la coppa del bicchiere rotto, poi l'appoggiai sul tavolo. «Mi guardavate come se nutriste per me un odio profondo, Mike,» ella disse. Le presi una mano e passai le dita sui suoi capelli sottili come seta. «Un giorno tutto questo finirà, Juno. Ma ora non posso ancora a meno di pensare, anche se la cosa non ha nulla a che vedere con voi.» «Chi era, Mike? Era bella?» Avrei voluto tacere. Ma fu più forte di me. «Era magnifica, la piti bella creatura che abbia mai visto, ed io ero innamorato di lei. Ma era anche un'assassina — avevo giurato che le avrei fatto la pelle, ed ho mantenuto la mia parola. L'ho uccisa, e quando l'ho uccisa, sono morto con lei.» Juno non fece commento alcuno. Ma quei suoi due occhi che mi fissavano volevano evidentemente convincermi che non ero morto, no, almeno per lei. Accesi una sigaretta, me la infilai in bocca, poi me la battei di lì, quasi di corsa, prima che quegli occhi diventassero troppo convincenti. Ma li sentii fissi e brucianti sulla schiena, perchè tutti e due sapevamo che sarei tornato. Giunone, dea del matrimonio e delle nascite, regina degli dei e delle dee. Perchè non era invece Venere, dea della bellezza e dell'amore? Juno era una regina, e non voleva esserlo. Voleva essere donna. Le tenebre erano calate prematuramente, ma le luci che si riflettevano sul candore della neve rendevano la città più scintillante che mai. Saltai su un taxì, scesi in Time Square e proseguii a piedi verso il parcheggio dove avevo lasciato la macchina prima di recarmi all'agenzia Lipsek. Ogni passo era una lotta contro la neve e contro la folla dei passanti stretti nei loro grossi cappotti, la testa abbassata. Arrivai ad un crocicchio ed avevo già incominciato a traversare la strada quando il semaforo passò al rosso, obbligando tutti i pedoni a tornare precipitosamente indietro.
Qualcuno scivolò, probabilmente, perchè un rumore di vetri infranti risuonò alle mie spalle, all'angolo della strada. Mi voltai appena in tempo per vedere la lastra di una vetrina cadere in pezzi sull'asfalto coperto di neve. Un poliziotto si fece rapidamente largo fra la folla ed andò a piantarsi davanti al negozio, mentre io continuavo per la mia strada. Stavo per svoltare da Broadway nella Trentatreesima quando il cristallo di un'altra vetrina tintinnò accanto a me, senza una ragione apparente, e fu subito percorso da una complicata ragnatela di fenditure. Nessuno l'aveva toccato. Un motore ruggì, e mi voltai appena in tempo per vedere la parte superiore di un viso attraverso il finestrino posteriore di una guida interna. Gli occhi mi fissarono per un lungo istante, poi la distanza fra me e la macchina si fece troppo grande e cessai di distinguerli. «Due volte nello stesso giorno,» imprecai fra i denti. «E in piena Broadway, per soprammercato. Maledetto bastardo! Maledetto figlio di puttana!» Non ricordavo di essere passato a riprendere il mio macinino, ma mi ritrovai improvvisamente al volante, fermo davanti ad un semaforo rosso e circondato da altre macchine, i cui guidatori mi guardavano scuotendo tristemente la testa perchè parlavo da solo, a voce alta. Evidentemente mi scambiavano per un pazzo. E forse avevano ragione, perchè mi rende come pazzo l'idea di essere preso a bersaglio nel bel mezzo dell'arteria più frequentata del mondo. Quella prima vetrina. Avevo pensato che si fosse trattato di un incidente. Ma, nel mezzo della seconda, avevo visto un bel foro rotondo, un attimo prima che il cristallo cadesse in pezzi sul marciapiede. C'era un posteggio davanti all'immobile dove avevo l'ufficio. Vi portai la macchina, diedi le chiavi al guardiano, firmai il registro, poi, con l'ascensore di servizio, raggiunsi il mio piano. Una luce brillava ancora dietro la porta del mio ufficio. Quando scossi la maniglia, subito la serratura scattò e l'uscio si aprì. Velda disse: «Mike, che cosa fai qui a quest'ora?» Le passai accanto, andai ad inginocchiarmi davanti al classificatore ed aprii l'ultimo cassetto. Dovetti spostare molte e molte pratiche per trovare quello che cercavo. «Che cosa è successo, Mike?» Velda era in piedi accanto a me, le labbra strette fra i denti. Aveva gli occhi fissi sulla piccola .25 che stavo facendomi scivolare in tasca. «Non ho nessuna intenzione di lasciarmi prendere a bersaglio dal primo
bastardo che passa,» le risposi. «Quando?» «Non più di dieci minuti fa. Il bastardo ha cercato di farmi fuori in piena strada. Due volte di seguito. Sai che cosa significa questo?» Una espressione di concentrato furore le balenò un istante sul viso. «Sì. Significa che tu sei diventato improvvisamente importante.» «Precisamente, di una importanza tale da giustificare un omicidio.» Disse, lentamente, nella speranza che conoscessi la risposta. «Hai visto... chi è stato?» «Ho visto la parte superiore di un viso. Non abbastanza per riconoscerlo, abbastanza per poter dire che si trattava di un uomo. Tenterà ancora, ma la prossima volta sarò in grado di rispondergli come si deve.» «Fa' attenzione, Mike. Non hai più la licenza, e il giudice distrettuale ti farà arrestare per porto abusivo d'armi.» Risi. «La legge deve proteggere i cittadini. Se, per legittima difesa, uccido e il giudice distrettuale vuole farmi mettere sotto chiave per porto abusivo d'armi, ci sarà da divertirsi, te lo assicuro io. Ne faccio nascere un putiferio tale che il nostro poco onorevole amico si pentirà di averlo scatenato.» «Già, uno scandalo in grande stile.» Per la prima volta da quando ero entrato, la guardai attentamente. Non mi riusciva di capire come diavolo non lo avessi fatto prima. Indossava un abito di seta nero, molto attillato nella parte superiore, ed era qualcosa di meraviglioso ammirare i tratti di pelle nuda incorniciati fra il nero della stoffa da una parte ed il nero dei capelli dall'altra. Ed era meraviglioso anche ammirare a qual punto la stoffa aderiva a tutto ciò che non era scoperto, prima di allargarsi a campana verso il basso. «Hai addosso solo quello?» mormorai. «Sì.» «Fa freddo fuori, bimba.» Sapevo che stavo rendendomi ridicolo, ma non ne potevo a meno. «Dove vai?» «Ho un appuntamento con il tuo amico Clyde. Mi ha invitato a cena.» Strinsi i pugni, quasi senza rendermene conto. Quel bastardo di Clyde! Mi costrinsi a sorridere, ma senza troppo successo. «Se avessi saputo che ti mettevi a quel modo, ti avrei invitato io.» Una volta, nemmeno molto tempo prima, sarebbe diventata rossa e mi avrebbe allungato uno scherzoso pugno alla mascella. Una volta, non molto tempo prima, avrebbe rinunciato a qualsiasi appuntamento per venire a
mangiare con me in una trattoria da quattro soldi. Ma quei tempi erano passati. Si infilò un paio di guanti neri che le arrivavano fino al gomito, fingendo di fissare gli occhi altrove, sapendo benissimo di avermi colpito in pieno nel mio punto di minor resistenza. «Lavoro, Mike. Bisogna sempre mettere il lavoro davanti al piacere.» Il suo volto era assolutamente inespressivo. Assunsi un tono duro. «Che cosa facevi qui, prima che arrivassi?» «C'è un biglietto sulla tua scrivania che spiega tutto quanto. Sono andata alle Manifatture Calway e ti ho portato tutte le foto delle indossatrici che sono state fatte scattare quella sera. Ho pensato che avresti avuto piacere di vederle. Le belle ragazze ti interessano sempre, vero?» «Smettila!» Mi diede un rapido sguardo, e vidi che aveva gli occhi lucidi di lacrime. Mentre si dirigeva verso l'attaccapanni per prendere il cappotto, ricominciai a imprecare sotto voce a Clyde perchè quel maiale avrebbe di li a poco goduto di cose che non avevo mai sospettato. Capita sempre così quando si vive in quotidiano contatto con una ragazza come Velda. Si finisce per andare a cercare lontano quello che si ha sempre a portata di mano. «Avrei voluto vederti prima come ti vedo adesso, Velda,» dissi, con voce malferma. Ci impiegò un buon minuto ad infilarsi il cappotto, e nella stanza c'era un silenzio tale che potevo sentire il respiro che le usciva dal petto, un poco affannoso. Quando si voltò, aveva ancora gli occhi pieni di lacrime. «Mike... non ho bisogno di dirti che puoi sempre vedermi... quando vuoi... in ogni momento...» La presi fra le braccia e sentii contro di me la pressione fremente di tutte le curve del suo corpo. Mi tese le labbra, e cominciò a tremare come una foglia quando le mie mani si posarono sulle sue spalle nude. Liberò la bocca con un singhiozzo, voltò la testa perchè non la potessi guardare in viso, mi imprigionò le mani, le fece scorrere sulla pelle nuda e sulla stoffa del vestito, lungo tutto il suo corpo vibrante, poi si staccò da me, quasi con disperazione, si precipitò verso la porta ed usci. Mi infilai una sigaretta fra le labbra e dimenticai di accenderla. Sentivo ancora, nel corridoio, il ticchettio dei suoi tacchi. Sollevai distrattamente il telefono e, per abitudine, composi il numero di Pat. Dovette sgolarsi per dieci secondi almeno prima che mi ricordassi di rispondergli che lo aspettavo nel mio ufficio. Mi guardai le mani e vidi che erano coperte di sudore. Accesi la sigaretta
e rimasi seduto, immobile, senza pensare ad altro che a Velda. 7 Pat arrivò mezz'ora dopo. Entrò battendo energicamente le scarpe contro il pavimento e sbuffando come una foca. Si tolse cappello e cappotto, mise una borsa sulla scrivania e prese una sedia. «Hai l'aria piuttosto abbattuta, Mike. Che ti succede?» «La neve. Ha sempre un effetto deprimente su di me. Quali sono le ultime notizie?» «Il giudice distrettuale si è fatto un dovere di dirmi una volta di più di non ficcare il naso in faccende che non mi competono. Se mai un giorno verrà licenziato, mi toglierò il gusto di spaccargli la faccia.» Il mio viso dovette tradire una profonda sorpresa, perchè si affrettò ad aggiungere: «Non ti aspettavi uno sfogo simile da me, lo so. Ma comincio a non poterne più di tutta questa democrazia. Tu te la passavi benissimo prima di farti ritirare la licenza, e nemmeno lo sapevi.» «Riavrò la mia licenza.» «Forse. Ma prima dobbiamo trasformare un suicidio in un omicidio.» «Ci è mancato poco che oggi ti capitasse un secondo omicidio fra capo e collo.» Alzò bruscamente la testa. «Chi?» «Io.» «Tu?» «L'umilissimo servo tuo. E in una strada che più affollata non sarebbe potuta essere. Qualcuno ha cercato di farmi fuori con una rivoltella munita di silenziatore, ma è riuscito soltanto a far volare in pezzi due vetrine.» «Che sia dannato. Una di queste vetrine ci è stata segnalata: quella all'angolo con la Trentatreesima. Se il proiettile non avesse bucato anche la parete di fondo della vetrina e non fosse andato a cadere nel negozio, la cosa sarebbe anche potuta passare per un incidente. Dammi l'indirizzo dell'altra.» Glielo diedi, ed egli imprecando, prese il telefono e trasmise ordine a qualcuno, alla centrale, di andare subito a fare ricerche del proiettile. «Che cosa ne penserà il giudice distrettuale?» dissi, quando ebbe interrotto la comunicazione. «Non farti illusioni,» mi rispose. «Con la reputazione che ti sei fatto, dirà che qualcuno dei tuoi vecchi amici ha voluto farti gli auguri per l'anno
nuovo.» «Be', mi sembra un po' troppo presto per auguri del genere.» «Allora tirerà in ballo qualche altro pretesto, e tu dovrai fare una fatica del diavolo per cavartela. Che vada all'inferno!» «Mi sembra che in questo momento tu non stia parlando da poliziotto evoluto e cosciente, amico.» Pat si piegò in avanti, corrugando irosamente la fronte. «Ci sono momenti in cui non vorrei essere poliziotto, Mike. Così come stanno le cose, ho le mani legate. Siamo tutti e due nei pasticci, e la faccenda non mi va affatto. O forse solo adesso comincio a farmi furbo. Se il giudice distrettuale vuole divertirsi un poco con noi, non fosse altro che per farsi fare un poco di pubblicità nei giornali, preferisco avere qualcosa di positivo da mettergli sotto il naso.» Risi. Accidenti, era tanto tempo che non ridevo più così di gusto. Erano anni e anni che continuavo a ripetergli lo stesso ritornello, ed ecco che finalmente, a quanto sembrava, cominciava ad impararne le parole. Era più divertente ora di quanto non lo fosse stato da principio. Dissi: «E Rainey? Lo avete trovato?» «Sì.» «Davvero?» «Certo. Ha una professione legittima: organizzatore di incontri pugilistici. Ha anche una piccola sala sua. Niente da rimproverargli. Perchè hai voluto informazioni su di lui?» Presi una bottiglia dal cassetto della scrivania e riempii due bicchieri. «C'entra in questa storia, Pat. Non so ancora a che titolo, ma c'è dentro fino al collo.» Dopo un brindisi silenzioso, mi alzai ed andai ad appoggiarmi al riquadro della finestra. «Sono andato a trovare Emil Perry. Rainey era là, e Perry era terribilmente spaventato. Nemmeno io sono riuscito a spaventarlo di più. Perry ha detto che Wheeler aveva parlato di suicidio perchè gli affari andavano male, mentre una rapida inchiesta ha mostrato che l'azienda di Wheeler guadagnava quattrini a palate. Cerca di spiegarmi questo piccolo enigma.» Pat fischiò adagio fra i denti. Attesi qualche istante per dargli tempo di raccogliere le idee, poi: «Ricordi Dinky Williams, Pat?» Annuì con un rapido cenno del capo. «Avanti.» Il suo viso era di nuovo il viso di un poliziotto. Cercai di assumere un tono disinvolto. «Sai che cosa fa adesso?»
«No.» «Se ti dicessi che dirige, qui in città, una casa da gioco aperta al gran pubblico, che cosa faresti?» «Direi che sei pazzo, che è impossibile, poi metterei in moto la squadra che si interessa di queste faccende.» «In questo caso, non saprai niente.» Calò sulla scrivania un pugno così energico da far fare un salto al mio pacchetto di sigarette. «Un accidente non saprò niente!» strillò. «Parlerai, e subito. Per chi mi hai preso? Per un poliziotto da quattro soldi che tu puoi far ballare come un burattino?» Mi piaceva vederlo di nuovo furibondo. Mi allontanai dalla finestra e tornai a sedermi al mio solito posto. Aveva il viso rosso come la cresta di un tacchino. «Senti, Pat. Sei pur sempre un poliziotto, tu. Credi nella lealtà e nell'integrità della macchina poliziesca. Anche se controvoglia, ti sentirai costretto a fare quello che hai detto. E in questo caso un assassino avrà modo di battersela.» Aprì la bocca per parlare, ma con un gesto della mano gli imposi il silenzio. «Taci e stammi a sentire. Dietro questa storia c'è più di quanto tu ed io abbiamo potuto immaginare. C'entra Dinky, c'entra Rainey, c'entrano tipi come Emil Perry... e forse c'entrano molti altri che noi non conosciamo... non ancora. Dinky sta guadagnando un mucchio di quattrini con le sue roulettes e con i suoi bar senza licenza. Ma tu, per il semplice fatto che te l'ho detto, non andare a spifferarlo in giro. Mi spiace dovertelo ricordare, Pat, ma è necessario: se Dinky può far funzionare quella baracca, è segno che paga qualcuno. Qualcuno che sta molto in alto. Qualcuno molto importante. O, forse, si tratta di un gruppo di gente non molto importante che, messa assieme, diventa importante. Sei in grado di scatenare battaglia a gente del genere?» «E come!» «Credi di poterlo fare e di conservare il tuo grado e il tuo posto?» La sua voce era ora un rauco sussurro. «Si.» «La pensi diversamente, e lo sai benissimo. Ti piacerebbe poterlo fare, ecco la verità. E adesso stammi a sentire. Ho buoni informatori in questa faccenda; possiamo lavorare insieme, se hai fiducia in me e se prometti di tenere i nervi a posto. In caso contrario, sia come non detto. Se Dinky paga, noi dobbiamo prendere in una sola retata corruttori e corrotti, non
Dinky soltanto. D'accordo?» Pat mi guardò con aria scoraggiata. «Sono davvero un bel capitano della squadra criminale,» mormorò. «Il giudice distrettuale darebbe il suo braccio destro per avere una registrazione di questo nostro piccolo colloquio. E va bene, ispettore. Aspetto i vostri ordini.» Lo salutai portando alla fronte due dita. «Prima di tutto abbiamo bisogno di un assassino. Per trovare questo assassino, dobbiamo conoscere perchè Wheeler è stato ucciso. Se tu fai sapere negli ambienti adatti che un certo Clyde sta andando incontro a grossi guai, può darsi che riesca a raccogliere qualcosa. Niente di bello, certo, ma potrebbe sempre servirci da indicazione.» «Chi è Clyde?» C'era un tono di cattivo augurio nella sua voce. «Clyde è il nuovo nome di Dinky. Probabilmente lo ha giudicato molto più raffinato.» Pat ritrovò il suo sorriso. «Ho già sentito questo nome, Mike.» Prese una sigaretta dal mio pacchetto. «Ho sempre detto che saresti dovuto entrare nella polizia, tu. A quest'ora occuperesti un grado molto elevato, te lo assicuro io. O magari non saresti altro che un nome su una pietra tombale.» «Nel pomeriggio è mancato poco che capitasse qualcosa del genere.» «Già, e capisco benissimo perchè. Questo Clyde ha nella manica diversi pezzi grossi. Può accomodare tutto quanto, da una contravvenzione a un omicidio. Basta pronunciare il suo nome per vedere qualcuno farsi livido e perdere la tramontana. Sembra davvero che il nostro vecchio amico Dinky abbia fatto molta strada in questo mondo.» «Idiozie! È una figura di secondo piano.» «Davvero? Se parliamo dello stesso individuo, quello è un tipo che può manovrare molte fila.» Pat era troppo calmo ora, e la cosa non mi andava affatto. Avevo ancora diverse domande da rivolgergli, ed avevo paura che non volesse rispondermi. «E l'albergo? Avrete fatto un controllo, spero.» «Certo. Diverse persone si erano fermate lì, la notte del delitto, ma avevano tutte quante alibi più che plausibili.» Questa volta non ce la feci a contenermi ed uscii in una serqua di bestemmie. Pat rimase per un istante ad ascoltarmi, sorridendo, poi chiese: «Ci vediamo domani, Mike?» «Sì, domani.» «Cerca di stare alla larga dalle vetrine.» Si calcò il cappello in testa e se ne andò. Tornai a guardare le foto che
Velda aveva lasciato sulla mia scrivania. Marion Lester mi fissava, sorridendo, da una istantanea, al disopra di un meraviglioso collo di pelliccia. Sembrava felice. Nulla lasciava immaginare che, di lì a un paio d'ore, sarebbe stata ubriaca e sarebbe stata messa a letto da un mio amico che doveva morire poco dopo. Feci scivolare le foto nel cassetto della scrivania. La bottiglia era ancora piena a mezzo, il bicchiere vuoto. Rimediai subito a questo sconcio, e non era passata mezz'ora che bottiglia e bicchiere erano vuoti tutti e due. Ma mi sentivo molto meglio. Presi il telefono e composi un numero che avevo annotato sul rovescio della scatola dei fiammiferi. Una voce rispose, e dissi; «Salve, Connie. Parla Mike.» «Senti, senti! Credevo che ti fossi dimenticato di me.» «Niente affatto, bimba. Che cosa fai?» «Ti aspetto.» «Puoi aspettarmi per un altra mezz'ora?» «Mi spoglierò per te.» «Farai meglio a vestirti perchè probabilmente dovremo uscire.» «Nevica,» protestò, con tono lamentoso, «e io non ho soprascarpe.» «Ti porterò in braccio.» Stava ancora protestando quando interruppi la comunicazione. Presi da un cassetto una manciata di proiettili da .25 e me li feci scivolare in tasca; poteva anche darsi che mi fossero utili. Prima di uscire, presi anche la busta delle fotografie. Per ultimo, lasciai un biglietto per pregare Velda di avvertirmi della piega che potevano prendere le cose. Il custode del posteggio aveva molto giudiziosamente messo le catene alle ruote anteriori della mia macchina. Gli diedi un paio di dollari di mancia, presi posto al volante e mi avviai attraverso quella specie di tormenta. Connie venne ad aprirmi e mi tese un bicchiere, senza nemmeno lasciarmi il tempo di togliermi il cappotto. «Il mio eroe,» disse, «il mio grande e coraggioso eroe che sfida la tormenta per venirmi a strappare alla mia solitudine.» Le resi il bicchiere vuoto — un Cinzano meraviglioso, credetemi — e la baciai sulle guance. Il suo riso fu come una campana che mi tintinnasse accanto all'orecchio. Chiuse la porta alle mie spalle e mi aiutò a levare il cappotto. Poi venne a sedersi di fronte a me, nella stanza di soggiorno, ripiegò sotto di sé le gambe e sospirò. «Qual è allora il programma dei festeggiamenti per questa sera?»
«Cercare un assassino.» Prese una sigaretta, e quando sollevò il fiammifero per accenderla, la fiamma tremava leggermente. «Tu... sai?» Scossi la testa. «Sospetto, semplicemente.» Ora sul suo viso c'era una espressione di vero interesse. Bisbigliò: «Chi?» «Sospetto una mezza dozzina di persone almeno. Una sola di loro ha commesso l'assassinio. Le altre vi hanno contribuito, chi in una maniera e chi nell'altra.» Diverse espressioni si succedettero rapidamente sul suo viso, poi, alla fine, disse: «Mike... ti posso aiutare in qualche modo? Voglio dire: è possibile che qualche fatto a mia conoscenza abbia un significato?» «Certo che è possibile.» «E... è questa la sola ragione che ti ha condotto qui stasera?» Quando notai con quanta ansia attendeva la mia risposta, sorrisi. «Tu ti sottovaluti, bimba,» dissi. «Proprio non ti guardi mai allo specchio? Hai un viso da stella cinematografica e un corpo che sarebbe criminale coprire. E sei intelligente, oltre tutto. Io non sono che un uomo. Sì, sono venuto per interrogarti questa sera, d'accordo. Ma, se non avessi avuto altre ragioni, sarei venuto egualmente... perchè mi va molto di vederti.» Fece scivolare le gambe per terra, mi venne accanto, mi abbracciò, poi tornò precipitosamente al suo posto. «Capisco, Mike, sono felice. Dimmi che cosa vuoi.» «Non lo so, Connie. Qui sta il guaio. Non so nemmeno che cosa chiedere.» «Comincia a fare un poco di domande, e vedrai che qualcosa verrà fuori.» Mi strinsi nelle spalle. «Va bene. Ti piace il tuo lavoro?» «Moltissimo.» «Guadagni bene?» «Mi difendo.» «Hai simpatia per la tua padrona?» «Quale padrona?» «Juno.» Connie abbozzò un gesto evasivo. «Juno ha ben poco a che fare con me. Mi ha visto lavorare una volta e ne è rimasta impressionata. Quando mi ha fatto chiamare, mi è sembrato di toccare il cielo con un dito perchè sapevo di aver ottenuto un grande successo. Ora si limita a scegliere quelle pub-
blicità che, a suo giudizio, mi si adattano meglio, e Anton pensa al resto.» «Deve guadagnare un mucchio di soldi, Juno,» osservai. «Credo di sì. Oltre allo stipendio, addirittura astronomico, riceve continuamente regali da clienti generosi. Anton mi farebbe pena, se la cosa gli importasse... Ma lui non ci bada nemmeno.» «Parlami un poco di Anton adesso.» «Oh, è il vero tipo dell'artista. Il danaro non gli interessa, finché ha il suo lavoro. Non permetterà mai ad un dipendente di fare le fotografie. Forse è questo il motivo per cui l'agenzia ha tanto successo.» «È sposato? Una donna baderebbe molto al lato finanziario.» «Anton sposato? Non farmi ridere. Con tutte le donne che manipola — e dico manipola nel senso più preciso della parola — quale donna normale potrebbe attirarlo? È assolutamente frigido. E si tratta di una vera disgrazia per un francese.» «Francese?» Connie annuì ed aspirò una boccata alla sigaretta. «Ho sentito discutere questo piccolo segreto fra Anton e Juno. Sembra che Juno lo abbia trovato in Francia e lo abbia portato qui appena in tempo per evitargli i rigori della giustizia francese. Pare che durante la guerra abbia fatto foto di propaganda per conto dei nazisti. Ma, come ti ho detto, Anton non si interessa né di danaro né di politica, purché abbia il suo lavoro.» «Interessante, ma niente affatto utile. Parlami un poco di Clyde.» «Non so niente di lui, salvo che ha il fisico di un gangster da cinema e che rappresenta una invincibile attrattiva per un mucchio di imbecilli dei due sessi.» «Va mai a letto con le ragazze dell'agenzia?» «Probabilmente. Con chi, però, non saprei. Fa regali a tutte e ogni momento, con il pretesto dell'amicizia, offre sontuosi banchetti che, in fondo, sono soltanto abili pretesti per buoni affari. Sembra che la voga di Bowery debba resistere di più di quella di tutti gli altri locali del genere. Sono curiosa di vedere che cosa succederà quando Clyde comincerà a ricevere clientela ordinaria.» «Anch'io,» dissi. «Senti, dovresti fare una cosa per me. Con accorte domande, cerca di sapere da chi è composta la sua clientela. Parlo di persone importanti, bene inteso. Di coloro che hanno voce in capitolo nell'amministrazione della città.» «Perchè non mi accompagni tu là?» «Temo che Clyde non apprezzerebbe troppo la mia presenza. Non ti sarà
difficile trovare un altro accompagnatore. Esiste sempre la tua coorte di spasimanti?» «Posso fare così. Ma con te sarebbe stato più divertente.» «Vedremo un'altra volta. Qualcuno degli spasimanti è ricco?» «Tutti quanti sono ricchi.» «Allora prendi il più ricco di tutti. Convincilo a spendere. Se cominci a fare domande, cerca di essere discreta e fa' di tutto per non attirare l'attenzione su di te. Non voglio che Clyde cominci a prendersela con te.» Cavai di tasca le foto che Velda mi aveva procurato e gliele mostrai. «Conosci tutte queste ragazze?» Fece scorrere rapidamente le istantanee. «Indossatrici tutte quante. Perchè?» Scelsi la foto di Marion Lester e gliela tesi. «Questa la conosci bene?» Connie atteggiò la bocca ad una smorfia. «È una delle favorite di Juno,» rispose. «È venuta dallo studio Stanton, l'anno scorso, quando Juno le ha offerto un grosso stipendio. È una delle migliori, ma è anche una vera peste.» «Perchè?» «Oh, si crede chissà che cosa. E corre troppo la cavallina. Anche Juno finirà per accorgersene. All'agenzia ci sono clienti seri che non amano il suo modo di fare.» Prese la foto di una giovane vestita di un abito da sera quasi trasparente. «Questa si chiama Rita Loring. A vederla non lo si direbbe, ma è molto vicina alla quarantina. Un pezzo grosso che partecipava quella sera al banchetto delle Manifatture Calway le ha offerto una somma favolosa. Purché si impegni a posare soltanto per lui.» «Adesso non mi verrai a dire che questa ha sessant'anni,» feci, indicandole un'altra fotografia. «Oh, no, questa è Jean Trotter, il nostro tipo per modelli giovanili. Si è sposata l'altro ieri. Ha mandato a Juno una lettera nella quale spiegava il motivo delle sue dimissioni, e noi tutte allora abbiamo versato qualcosa per regalarle un apparecchio televisivo. Anton era molto irritato, perchè lo ha piantato in asso nel bel mezzo di una serie di foto. Juno ha avuto il suo da fare per calmarlo. Non lo avevo mai visto tanto arrabbiato.» Raccolsi le foto e tornai a metterle in tasca. Era ancora abbastanza presto, e dissi allora a Connie di darsi da fare con il telefono per trovarsi un cavaliere. Mi obbedì, ma badò bene a fare di tutto per eccitare la mia gelosia. Fu il più bel lavoro di seduzione telefonica al quale mi fosse mai stato dato di assistere. E più ella si faceva insinuante, più largo diventava il mio
sorriso... fino a quando ella perdette la pazienza e se la prese con il suo interlocutore invisibile. Alla fine gli fissò un appvmtamento al bar di un grande albergo e interruppe la comunicazione. «Sei un mascalzone, Mike,» mi disse. Annuii, ironico. Mi gettò in testa il mio cappotto e si infilò il suo. Quando fummo sul portone, mantenni la mia parola e la trasportai in braccio fino alla macchina. Non si bagnò i piedi, ma la neve le si infilò sotto il vestito, con il risultato di metterla più di malumore che mai. Mangiammo qualcosa in un ristorante, bevemmo un paio di bicchieri, chiacchierammo un poco, poi la lasciai davanti all'albergo dove doveva trovarsi con il suo spasimante. La salutai con un bacio, e questo servì almeno a rasserenarla un poco. Ora avevo un paio di promesse da mantenere. Seguii a passo d'uomo, per qualche isolato, un camion-spazzaneve, poi andai a fermarmi vicino al marciapiede, davanti a un bar, entrai e puntai direttamente sulla cabina telefonica. Ero al secondo gettone quando Joe Gill si decise finalmente ad uscire dal bagno per venirmi a rispondere. «Mike,» cominciò, «se non ti spiace, preferirei...» «Ma che razza di amico sei, accidenti! Senti, non ho nessuna intenzione di comprometterti. Si tratta soltanto di una piccola informazione.» «Bene,» sospirò. «Di che si tratta?» «Di un certo Emil Perry, fabbricante di borsette. Abita a Bronx. Voglio sapere tutto su di lui, tanto dal punto di vista sociale quanto da quello finanziario.» «Oh, una cosa da niente davvero. Per quello che riguarda la posizione sociale posso sguinzagliare qualche uomo, ma, sul piano finanziario, la faccenda cambia aspetto. Ci sono delle leggi in questo paese, lo sai anche tu.» «Certo, ma c'è anche il mezzo di eluderle. Voglio essere informato sul suo conto in banca, anche se tu dovessi entrare con la forza in casa sua per saperlo.» «Stanimi a sentire, Mike...» «Oh, so benissimo che non avrai nessun bisogno di arrivare fino a questo punto.» «È perfettamente inutile discutere con te, lo so. Vedrò quello che posso fare, ma poi saremo pari per ciò che riguarda i favori, intesi? E guardati bene dal favorirmi in qualche modo per l'avvenire.»
Scoppiai a ridere. «Non inquietarti, via. Se mai ti troverai nei guai, andrò a far visita al mio amico, il giudice distrettuale, e tutto quanto andrà a posto.» «Già, è proprio questo che mi fa paura. Tienti in contatto con me, e vedrò che posso fare.» «Va bene. Buona notte. Joe.» Brontolò un saluto affrettato ed interruppe la comunicazione. Ridevo ancora quando uscii dalla cabina. Presto avrei saputo in che modo Rainey spaventava un pezzo grosso come Perry. Intanto avrei cercato di vedere se riusciva a spaventare un poco anche me. Le rotative del Globe stavano stampando l'ultima edizione con un rombo che faceva tremare l'intero edificio. Entrai dalla porta di servizio e, con l'ascensore, salii fino alla sala della cronaca dove le macchine da scrìvere ticchettavano come tante mitragliatrici. Chiesi ad uno degli impiegati dove potevo trovare Ed Cooper, e quello, per tutta risposta, mi indicò una porta a vetri. Ed, redattore sportivo del Globe da tempo immemorabile, aveva la specialità di rendere la vita dura a tutti quanti quegli organizzatori che truccavano i loro combattimenti. Ciò che egli ignorava in questo campo non valeva certo la pena di essere ricordato. Quando entrai, stava maltrattando una macchina da scrivere che doveva avere, più o meno, la sua stessa età. «Salve, Mike,» mi disse, come mi vide. «Di che cosa hai bisogno? Di biglietti di favore o di informazioni?» «Informazioni. C'è un certo Rainey, un ex-delinquente, che si proclama organizzatore pugilistico. Vorrei sapere dove e quando organizza.» Ed accolse la mia domanda come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. «Sai dov'è la Glenwood Housing?» Risposi di sì. Era un quartiere periferico, ad un'ora circa di macchina dal centro. «Rainey ha aperto la sua sala là, assieme a qualche altro, per sfruttare la clientela della zona. I combattimenti sono tutti quanti truccati, ma la gente fa lo stesso a pugni per entrare. E le scommesse sono piuttosto forti. Se la cosa ti interessa, quella sala è nella mia lista nera, Mike.» «Benissimo, Ed. Ci sono buone probabilità che Rainey vada a finire presto nella mia lista nera. Ti prometto che ti informerò prima degli altri.» «Hai intenzione di andare laggiù questa sera?» «Precisamente.» Ed diede un'occhiata all'orologio. «Ci sono combattimenti stasera. Se fai
in fretta, può darsi che arrivi in tempo per il primo incontro.» «Già,» dissi. «Deve essere uno spettacolo davvero interessante. Appena torno, ti racconterò tutto quanto.» Avevo già aperto la porta, quando Ed mi fermò. «Ehi, Mike... quei tali di cui ti ho parlato... i soci di Rainey... hanno fama di essere tipi piuttosto duri. Fa' attenzione.» «Oh, quanto a questo, farò attenzione, puoi stare tranquillo. Grazie, a ogni modo, dell'informazione.» Tornai alla macchina, lasciandomi alle spalle il ticchettio delle macchine da scrivere e il rombo delle rotative. Nevicava sempre, ma la città era giunta ad un tale punto di perfezione, per quello che riguarda la meccanizzazione, che le strade erano in condizioni più che passabili. Effettuai quindi il tragitto in un tempo normale ed in condizioni di guida quasi normali. Quando mi fermai davanti all'arena di Glenwood, sentii subito le grida e gli incitamenti della folla che provenivano dall'interno della sala. Non c'era più posto nel parcheggio, e molte macchine erano ferme sulla strada. Trovai, a un centinaio di metri di distanza, un punto libero e abbastanza protetto da una quercia, e lasciai lì la mia caffettiera. Avevo mancato il primo combattimento, ma, a giudicare dai due pagliacci che stavano picchiandosi ora, non dovevo aver perduto molto. Avevo pagato un dollaro per un posto in ultima fila, e il fumo era così denso che si riusciva a stento a vedere il quadrato. Le pareti buttavano umidità della più bella, e le «sedie del ring» non erano altro che panche ricavate alla meno peggio da legno di demolizione. Ma gli organizzatori dovevano fare affari d'oro. C'era la solita folla di borghesi e di proletari assetati di divertimento e pronti ad eccitarsi per qualsiasi cosa. Quando uno dei combattenti piombò al tappeto come un sacco di patate, si levò un urlo generale. Vidi il braccio dell'arbitro alzarsi ed abbassarsi dieci volte, ma non mi riuscì assolutamente di sentirlo contare. I secondi trascinarono lo sconfitto verso lo spogliatoio, e subito dopo comparvero sul quadrato due altri gladiatori. Alla fine del quarto combattimento, quando i due medi che se le erano date di santa ragione per sei riprese si diressero verso gli spogliatoi mi alzai, raggiunsi il corridoio e mi accodai alla piccola processione. Entrai così in un vasto locale dalle pareti porose, ammobiliato solo con qualche armadietto di ferro e con un paio di panche dondolanti. Da uno sgabuzzino, l'acqua della doccia gocciolava abbondantemente sul pavimento. Nell'aria gravava un pesante odore di sudore e di etere. In un angolo, due massimi,
con le mani già bendate, giocavano a carte e marcavano i punti con una fila di sputi per terra. Mi avvicinai a un tale che, sigaro in bocca, stava discutendo in un angolo dello spogliatoio e gli battei una mano sulla spalla. «Dov'è Rainey?» chiesi. Fece passare il sigaro da un angolo all'altro della bocca e mi rispose: «In ufficio, credo. Qualcuno dei vostri ragazzi combatte qui stasera?» «No,» risposi. «Il mio ragazzo è a letto con il raffreddore.» «Peccato. Non è così che si fanno i quattrini.» «Olà.» Fece compiere al sigaro il viaggio di ritorno e si voltò per continuare con i suoi interlocutori la conversazione interrotta. Mi misi alla ricerca dell'ufficio di Rainey, e finii per trovarlo in fondo ad un corridoio. Si sentiva, attraverso la porta, la cronaca radiofonica di un combattimento clic si stava svolgendo al Madison. Qualcuno cominciò a bestemmiare a gran voce, poi un altro gli impose di tacere. Una porta che si chiudeva con violenza, poi sentii soltanto la radio. Rimasi immobile per cinque minuti, fino al termine del combattimento. Il vincitore stava per parlare al microfono quando la radio venne spenta. Allora aprii la porta ed entrai tranquillamente. Rainey, seduto ad un tavolo, stava controllando gli incassi della serata. Mi chiusi la porta alle spalle, senza fare tronpo rumore, e diedi un giro di chiave. Se non avesse contato ad alta voce, Rainey mi avrebbe sentito. Non mi sentì, invece, e lo lasciai arrivare fino a cinquemila prima di dire: «Una buona serata, vero?» «Chiudi il becco,» brontolò Rainey, e continuò a contare. «Rainey!» feci. Questa volta si interruppe e voltò lentamente la testa fino a quando si trovò a guardarmi. L'imbottitura del cappotto metteva in ombra la parte inferiore del suo viso, ed io cercai di rappresentarmi quel viso attraverso il finestrino posteriore di una berlina che si allontanava per la Trentatreesima. Non mi sembrava lo stesso, ma il particolare non mi interessava eccessivamente. Non era difficile provare antipatia per un individuo come Rainey. Aveva una di quelle facce che sembrano dipinte in una espressione d'odio, di cupidigia e di paura, una espressione che nemmeno un sogghigno forzato riusciva a cancellare. Sotto le palpebre cascanti, i suoi occhi erano freddi, spietati.
Era un duro, Rainey. Mi appoggiai alla porta, una sigaretta nell'angolo della bocca, la destra affondata in tasca e stretta intorno al calcio della piccola .25. Forse pensò che bluffassi, che non avessi rivoltella. Le sue labbra si contorsero in un sogghigno e la sua mano si allungò sotto la tavola. Mandai ad urtare la rivoltella contro la porta, ed anche attraverso la stoffa della tasca il suono metallico aveva un timbro di innegabile autenticità. La mano di Rainey ricomparve. Vuota. «Ti ricordi di me, Rainey?» Non rispose. Tentai un'altra strada. «Oh, ti ricordi di me, certo. Oggi mi hai visto in Broadway. Ero fermo davanti a una vetrina. Mi hai mancato.» Aprì la bocca ed i suoi occhi ebbero un guizzo. Sempre con una mano in tasca, allungai l'altra sotto la tavola, cercai un poco a tentoni ed alla fine trovai, in un angolo del ripiano, una .32. Quando riuscì a ritrovare la voce, Rainey disse: «Mike Hammer! Per che cosa diavolo siete venuto qui?» Con il rovescio della mano feci volare le banconote sul pavimento e mi sedetti su un angolo del tavolo. «Indovinalo un poco.» Rainey guardò il danaro sparpagliato per terra, poi tornò a fissarmi. Il suo viso prese di nuovo una espressione dura. «Battetevela prima che vi faccia scaraventare fuori!» sibilò. E fece il gesto di alzarsi. Il calcio della .32 gli calò sulla guancia, spaccandogliela. Si lasciò cadere sulla sedia, il mento inondato di sangue misto a saliva. Sorrisi, anche se lo spettacolo non era certo divertente. Dissi: «Hai dimenticato qualcosa, Rainey. Hai dimenticato che non sono tipo da lasciarmi schiacciare i piedi. Hai dimenticato che ho avuto a che fare con individui più duri di te, individui che sono tutti quanti finiti con un proiettile nel ventre. E sempre sono stato io a premere il grilletto, non fosse altro che per vedere le smorfie che facevano.» Era maledettamente spaventato, ma cercò egualmente di bluffare. «Perchè non vi ci provate adesso, Hammer? Forse la cosa è diversa quando non si è autorizzati a portare rivoltella. Avanti, provatevici!» Aveva appena cominciato a ridere quando premetti il grilletto della .32 e gli piantai un confetto nel polpaccio. «Mio Dio!» mormorò, e si prese la gamba fra le mani. Sollevai la rivoltella fino all'altezza dei suoi occhi, in modo che fosse in grado di guardare dritto nel piccolo foro che poteva rappresentare il suo biglietto d'andata per l'inferno.
«Un'altra volta comportati meglio, Rainey,» lo consigliai. La risposta fu un suono gorgogliante, ed egli si piegò in avanti e vomitò sul danaro sparpagliato ai suoi piedi. «C'è un certo Emil Perry,» continuai. «Se lo avvicini ancora, ti pianterò il prossimo proiettile proprio nel punto dove calzoni e camicia si incontrano.» Non avrei dovuto interessarmi tanto al suono della mia voce. Avrei dovuto avere il buon senso di chiudere anche l'altra porta. Avrei dovuto fare un mucchio di cose, e nessuno allora si sarebbe piantato alle mie spalle dicendo: «Alza le mani, fratello, alzale bene.» Un tipo atticciato fece il giro della tavola e diede una lunga occhiata a Rainey che stava troppo male per parlare. Quello che impugnava la rivoltella mi stava sempre alle spalle. L'atticciato disse: «Lo hai ferito. La pagherai, bastardo che non sei altro!» Si raddrizzò e mi allungò sulla bocca un pugno così forte che mancò poco mi facesse volare sopra la tavola. «Che cosa sei venuto a fare qui? Rispondi, maledizione!» Mi colpì ancora, sempre sulla bocca, e questa volta mi mandò a finire sotto la tavola. L'altro mi calò violentemente il calcio della rivoltella sulla nuca. Mi stava di fronte, ora, un individuo dal viso pallido con una sadica voglia di uccidere scritta su ogni tratto. «Ci penso io a metterlo a posto, Artie. Questi tipi di forzuti sono proprio il mio genere preferito.» Rainey ebbe un conato e tornò a gemere. Mi sollevai lentamente, e Rainey disse: «Datemi la rivoltella! Datemela! Accidenti, datemi quella rivoltella!» L'atticciato lo aiutò ad alzarsi e lo guidò verso di me. Per quello che mi riguardava, ero andato ad appoggiarmi al muro. L'individuo che impugnava la rivoltella sogghignò e mosse un passo avanti. Era quello che aspettavo. Gli afferrai la mano e gliela rovesciai indietro mentre il suo dito cercava di premere il grilletto. Gli piantai un violento colpo di ginocchio nel basso ventre, dopo di che non ebbi difficoltà alcuna ad impadronirmi dell'arma. Crollò sul pavimento come un sacco di stracci, respirando affannosamente. Forse i fabbricanti di armi riusciranno un giorno a fabbricare una rivoltella che non fa mai cilecca, ma in quel momento non ero certo io che avevo voglia di rimproverarli per la loro mancanza di precisione. L'atticciato che reggeva Rainey lasciò presa e si tuffò verso la .32 che avevo lasciato sul tavolo... Piantai anche a lui un confetto nella gamba. Questo fu più che sufficiente per Rainey. Ogni espressione aggressiva scomparve dal suo viso, ed egli si dimenticò il buco nella gamba al punto
di trascinarsi avanti fino alla sedia e di tendere le mani avanti, nel tentativo di tenermi lontano. Gettai l'automatica sul tavolo, vicino alla .32. «Mi avevano avvertito che eravate dei duri,» feci. «Non ti nascondo che mi avete un poco deluso. E non dimenticare quello che ti ho detto a proposito di Emil Perry.» L'atticciato con un buco nella gamba mi implorò, singhiozzando, di chiamare un medico. Gli dissi che poteva sbrigarsela da solo. L'altro continuava a vomitare. Aprii la porta, mi voltai un momento ad ammirare quel grazioso quadretto e scoppiai a ridere. «Il medico sarà costretto a segnalare ferite del genere,» ricordai a quegli sciagurati. «Farete bene a dire che stavate pulendo una rivoltella ricordo di guerra e che il grilletto è scattato da solo.» Rainey uscì in un nuovo gemito e sollevò il ricevitore del telefono. Chiusi la porta fischiettando e tornai alla macchina. Mi ero divertito, sì, ma, a pensarci bene, non avevo fatto che perdere tempo. C'erano state chiacchiere più che a sufficienza. Ora bisognava cominciare a fare sul serio. 8 Ero a letto quando Joe chiamò. Avevo puntato la sveglia sulle undici e mezzo, e mancavano ancora cinque minuti perchè la suoneria squillasse. Risposi con un «pronto» maledettamente assonnato, e Joe mi disse di svegliarmi e di aprire bene le orecchie. «Sono perfettamente sveglio. Avanti.» «Non domandarmi come mi sono procurato queste informazioni: me le sono procurate, e questo è l'essenziale. Emil Perry ha diversi conti correnti commerciali e due conti correnti personali: uno a nome della moglie ed uno a nome proprio. Tutto in perfetto ordine, salvo il conto che reca il suo nome. Sei mesi fa ha fatto un prelievo di cinquemila dollari. Da allora ha ritirato regolarmente la stessa somma ogni due mesi, e ieri ha prelevato tutto il resto, con l'eccezione di qualche centinaio di dollari. Il totale del prelievo di ieri è stato di ventimila dollari circa.» «Accidenti!» esclamai. «E che cosa ne ha fatto?» «Venire a" capo della sua situazione personale è stato meno facile di quanto immaginassi. Punto primo: ha una moglie e una famiglia che ama quasi quanto la sua posizione sociale, il che non è poco. Punto secondo: ama anche divertirsi con le ragazzine. Punto terzo: metti insieme uno più
uno e il risultato qual è?» «Ricatto,» dissi. «C'è quanto di meglio si desideri per un bel ricatto. È tutto?» «Tutto quello che ho potuto sapere in cosi poco tempo. Ora, se non hai in testa altro, come spero, ti saluto con l'augurio di non avere più niente a che fare con te.» «Sei un vero amico, Joe. Mille grazie.» «E cerca di non farmi più piaceri, Mike, intesi?» «Sì, sì, intesi. Grazie ancora.» Avevo troppe idee per la testa per poter rimanere ancora a letto. Feci la doccia, mi rasai, mi lavai i denti e scesi a fare la prima colazione. Il grassone Emil aveva una paura dannata di Rainey. Il grassone Emil faceva ingenti e regolari prelievi dal suo conto corrente in banca. Che cosa si poteva chiedere di più? Rainey doveva aver avuto bisogno di danaro per impiantare la sua sala. Diedi un'occhiata fuori dalla finestra. Il cielo era ancora grigio di neve che aspettava solo di sciogliersi in fiocchi sempre più fitti. Ee strade erano però pulite, e quando andai alla rimessa a ritirare la macchina, dissi al meccanico di togliere le catene alle ruote anteriori. Quando ebbe terminato, gli feci scivolare in mano due dollari di mancia, uscii a marcia indietro e mi diressi verso Bronx Questa volta la Cadillac dalle iniziali d'oro non era davanti alla casa. Feci due volte il giro dell'isolato per assicurarmene. Tutte le imposte erano abbassate e la villa sembrava deserta. Un ragazzo che faceva acrobazie con la bicicletta in mezzo alla strada mi vide e mi gridò: «Non c'è nessuno, signore. Li ho visti partire ieri sera, tutti quanti.» Mi affrettai ad andare accanto a quel monello che mi pareva abbastanza bene informato. «Tutti quanti chi?» «Tutta la famiglia, credo. E la macchina era carica di roba da scoppiare. E questa mattina sono partite anche domestica e cameriera. Mi hanno dato venticinque cents perchè riportassi al lattaio le bottiglie vuote, e io mi sono anche intascato il prezzo del deposito.» Pescai in tasca una moneta e gliela gettai. «Grazie, amico. Ci si guadagna sempre a tenere gli occhi aperti.» Prese la moneta al volo e ricominciò a fare acrobazie nella strada deserta. Aspettai che si fosse allontanato, poi infilai il sentiero e, al riparo dei fitti cespugli, feci il giro della casa, fermandomi davanti ad ogni finestra. Erano tutte chiuse con il catenaccio. Diedi un'occhiata circolare, poi presi
da terra un sasso e cominciai a picchiare nel bel mezzo di un vetro, sempre più forte, fino a quando la lastra cominciò a coprirsi di una specie di ragnatela. Facevo un chiasso del diavolo, naturalmente, ma nessuno venne a vedere che cosa succedeva. Un quarto d'ora dopo ero nella casa. Se poltrone coperte da fodere di tela e porte chiuse volevano dire qualcosa, Emil Perry se n'era andato. Provai a girare l'interruttore, ma senza successo. Anche il telefono non funzionava. La stanza dove mi trovavo sembrava un piccolo studio, un locale dove una donna trascorre buona parte del suo tempo. In un angolo, c'era una macchina da cucire. Scivolai nell'anticamera, e qui notai che tutte le porte erano chiuse. Nelle stanze che visitai successivamente regnava un ordine impeccabile, una pulizia scrupolosa. Esplorai tutto il piano terreno, poi il primo piano. Due camere, un bagno, un'altra camera, uno studio... il tutto nell'ordine più perfetto, come se fosse nuovo. Poi una porta chiusa con due serrature, una sopra ed una sotto la maniglia. Mi ci volle quasi un'ora per venire a capo di quei maledetti aggeggi di precisione. Ma alla fine ce la spuntai ed aprii. Faceva un buio peggio che in un forno là dentro. Accesi un fiammifero e non tardai a capire perchè. Davanti agli scuri c'era un pesantissimo tendaggio. Non mi feci scrupolo di sollevarlo, sicuro com'ero che dall'esterno nessuno se ne sarebbe accorto. Ero nel santuario privato di Emil Perry. Chissà quante volte doveva aver lasciato cadere il suo corpaccione in una specie di divano, in un angolo! Le molle, infatti, presentavano una marcata depressione al centro. C'erano anche un tavolinetto con una macchina da scrivere ed un classificatore a due cassetti. Ispezionai attentamente quei cassetti. Lettere d'affari, niente altro che lettere d'affari. Alcune polizze d'assicurazione ed altre carte personali. Chiusi i cassetti e concentrai la mia attenzione sul resto della stanza. Non trovai nulla, assolutamente nulla, all'infuori di un piccolo mucchio di cenere nera nel camino. Ma i pochi frammenti che non si ridussero in polvere sotto le mie dita erano neri come se fossero stati passati all'inchiostro. Imprecai fra i denti, tornai al classificatore e prelevai una polizza d'assicurazione intestata al nome della signora Perry. La cavai dalla sua custodia e me ne servii per raccogliere i frammenti e farli scivolare in una busta, che poi chiusi accuratamente. Poi rimisi la polizza al suo posto, mi assicurai che tutto il resto fosse tale e quale come lo avevo trovato e me ne andai. Prima di uscire dal giardino, feci del mio meglio per confondere le impronte che avevo lasciato nella neve e nel fango. Quando mi ritrovai al volante della mia macchina, non ero troppo malcontento. Le cose comincia-
vano ad assumere una forma, sia pure ancora piuttosto imprecisa. Diedi il contatto, lasciai che il motore si scaldasse un poco, poi innestai la marcia e mi diressi verso Manhattan. All'angolo della Cinquantanovesima, mi fermai accanto al marciapiede, entrai in un emporio e chiamai le manifatture Calway. Mi diedero il numero d'ufficio di Emil Perry, che io mi affrettai a comporre. Quando chiesi del signor Perry, la signorina del centralino mi disse di aspettare un momento, poi mi passò la comunicazione. Una voce disse: «Qui è lo studio del signor Perry.» «Vorrei parlare con il signor Perry, per piacere.» «Mi spiace,» rispose la voce, «ma il signor Perry è fuori città. In che cosa posso esservi utile?» «Bene... non saprei. Il signor Perry ci ha ordinato una serie di mazze da golf, con la precisa raccomandazione che venissero consegnate oggi. Non lo abbiamo trovato a casa sua.» «Oh, capisco. La sua partenza è stata piuttosto improvvisa, e non ci ha lasciato recapito alcuno. Potete tenere l'ordine in sospeso?» «Va bene, faremo così,» mentii. Emil Perry era dunque partito per destinazione ignota. Chissà quanto tempo sarebbe durata la sua assenza. Tornai alla macchina e, senza ulteriori tappe, mi recai in ufficio. Se, dopo aver sistemato l'auto in rimessa, non avessi chiamato direttamente l'ascensore nel seminterrato, mi sarei trovato davanti ad una brutta sorpresa. Quando mi vide entrare nella cabina, il fattorino sussultò e mi guardò con una espressione piuttosto sbalordita. «Be', che avete?» gli chiesi. Fece schioccare la lingua contro il palato. «Forse non dovrei dirvelo, signor Hammer, ma due poliziotti sono saliti nel vostro ufficio, poco fa, e due altri sono di guardia nell'atrio.» Mi precipitai fuori dalla cabina. «E nel mio ufficio c'è qualcuno adesso?» «Sì, quella bella ragazza che lavora per voi. C'è qualcosa che non va, signor Hammer?» «Potete dirlo! Sentite, vecchio mio, dimenticate di avermi visto. Più tardi saprò ben io come ricompensarvi.» Chiuse la porta e risalì con la cabina. Feci scivolare una moneta nel telefono a muro e composi il mio numero. Sentii lo scatto di due ricevitori che venivano sollevati quasi contemporaneamente.
«Pronto,» disse nervosamente Velda. Misi il fazzoletto fra la bocca e il microfono, poi chiesi: «Il signor Hammer?» «Mi spiace, signore, ma non è ancora rientrato. Debbo fargli qualche comunicazione per conto vostro?» Brontolai qualcosa e, dopo una breve pausa, come se avessi preso tempo per riflettere, dissi: «Sì, se non vi spiace. Abbiamo appuntamento al Cashmore Bar, a Brooklyn, fra un'ora. Vedete di ricordarglielo, se telefona, e ditegli anche che probabilmente sarò in ritardo.» «Va bene, signore,» fece Velda. La sua voce era più sicura ora. «Glielo riferirò.» Attesi un quarto d'ora circa, poi ripetei la stessa manovra. Questa volta Velda disse subito: «Va bene, Mike, puoi salire. Se ne sono andati. Brooklyn è piuttosto distante.» Quando entrai, aveva i piedi sulla scrivania e si stava curando le unghie. «Non ho fatto che prendere le tue abitudini,» disse. «D'accordo, ma non porto sottane, io, e non metto in mostra le cosce.» Si fece rossa come un peperone e si affrettò a rimettere i piedi per terra. «Come hai saputo che quelli» — e con un cenno del capo indicò la porta — «erano qui?» «Mi ha messo in guardia il ragazzo dell'ascensore. Bisogna metterlo nella lista delle mance più ingenti. Che cosa volevano?» «Te.» «E per che cosa?» «Avevano l'aria di credere che tu avevi sparato addosso a qualcuno.» «Bella faccia tosta ha avuto quel piccolo e puzzolente bastardo!» Buttai il cappello su una sedia ed uscii in una litania di bestemmie, camminando freneticamente per la stanza, avanti e indietro. «Chi erano?» «Mi hanno fatto sapere di essere dell'ufficio del giudice distrettuale.» Una ruga le si disegnò, profonda, sulla fronte. «Mike... è una situazione difficile?» «Peggio ancora. Vuoi chiamarmi Pat al telefono?» Mentre ella componeva il numero, aprii l'armadio e pescai un'altra bottiglia di sherry. Avevo appena terminato di riempire due bicchieri quando Velda mi tese il ricevitore. Cercai di controllare la mia voce, ma ero troppo furibondo per riuscirci. Dissi: «Pronto, Pat. Sono io, Mike. Poco fa ho ricevuto una visita dai ragazzi del giudice distrettuale.»
Parve stupito. «E come mai sei ancora lì, allora?» «Non ero qui a riceverli. Chissà chi li ha spediti a caccia di farfalle a Brooklyn. Che cosa succede?» «Sei in un brutto pasticcio, Mike. Questa mattina il giudice distrettuale ha emesso un mandato di cattura nei tuoi confronti. C'è stata una sparatoria in periferia questa notte. Due individui si sono buscati un confetto, e uno di loro è un certo Rainey.» «È un nome che mi sembra di conoscere. Sono stato identificato?» «No, ma sei stato visto nei paraggi e sei stato sentito minacciare, poco prima, quel Rainey.» «È stato Rainey a raccontare tutto questo?» «Non so come avrebbe potuto. È morto.» «Che cosa?» La mia voce dovette sembrare qualcosa di simile ad una esplosione. «Mike...» La mia bocca non riuscì a formulare una risposta. Pat tornò a ripetere: «Mike... sei stato tu a ucciderlo?» «No,» ansai. «Troviamoci al solito bar, in fondo alla strada. Ho bisogno di parlarti.» «Diciamo fra un'ora. A proposito, dov'eri questa notte?» Esitai un istante. «A casa. Dormivo come un ghiro.» «Puoi dimostrarlo?» «No.» «Va bene. Ci vedremo fra poco.» Mentre telefonavo, Velda aveva vuotato tutti e due i bicchieri e li stava riempiendo di nuovo. Sembrava averne bisogno. «Rainey è morto,» le dissi. «Non sono stato io a ucciderlo, e mi rincresce davvero.» Si morse le labbra. «Lo avevo capito. E il giudice distrettuale vuole appiopparti tutta quanta la faccenda, vero?» «Appiopparmi un accidente! Come è andata questa notte?» Mi tese un bicchiere e bevemmo. «Ho guadagnato qualcosa. Clyde mi ha fatto bere molto, poi ha cominciato ad avanzare proposte. Non ho risposto di no. Ho detto semplicemente: "Più tardi." Lo interesso sempre più. Ho incontrato un mucchio di gente. Ecco che cosa è accaduto.» «Hai perso il tuo tempo, insomma.» «Non completamente. È capitato lì Anton Lipsek, ubriaco fradicio, con una squadra di pezzi grossi e di belle ragazze. Ha invitato tutti quanti a casa sua, a Greenwich Village, e qualcuno ha accettato. Avrei voluto andarci anch'io, ma Clyde ha messo avanti il meschino pretesto che non poteva al-
lontanarsi dal lavoro. Un'altra coppia ha rifiutato, soprattutto perchè lui vinceva alla roulette e voleva continuare a giocare. La ragazza che l'accompagnava era la stessa che era con te l'altra sera.» «Connie?» «Si chiama Connie?» mi domandò, con un tono gelido Annuii con un sorriso. «Due delle ragazze che erano arrivate con Lipsek erano colleghe di Connie. Le ho sentite parlare di questioni di lavoro, fino a quando la tua amica non ha messo fine alla conversazione con un paio di osservazioni poco diplomatiche.» Aspettò che avessi terminato il mio bicchiere, poi: «E tu dov'eri questa notte?» «Sono andato a far visita a un certo Rainey.» Si fece pallidissima. «Ma... ma non hai detto a Pat che...» «Lo so. Ho detto che non ero stato io a ucciderlo. Mi sono limitato a piantargli una pallottola in un polpaccio.» «Mio Dio! E tu allora...» «Non era una ferita grave. L'assassino deve essere entrato subito dopo che io ero uscito: le cose non possono essersi svolte altrimenti. Metterò in luce questi particolari più tardi.» Mi infilai in bocca una sigaretta, e, mentre l'accendevo, la guardai dritta negli occhi. «A che ora ti sei trovata con Clyde ieri sera?» «Mi ha fatto aspettare fino a mezzanotte. Mi ha detto che, all'ultimo minuto, era saltato fuori un lavoro imprevisto.» «Ha avuto così tutto il tempo che voleva per andare da Rainey, ucciderlo e tornare.» Come vidi gli occhi di Velda, mi arrestai. «Oh, no, Mike... non è possibile. L'ho visto subito dopo...» «Oh, Dinky non è certo tipo da mutar espressione per il semplice fatto di aver ammazzato qualcuno. Per lui si tratta, più o meno, di ordinaria amministrazione.» Presi il cappello dalla sedia dove l'avevo buttato e lo lisciai accuratamente. «Se i poliziotti tornano, cerca di divertirli un poco. Non fare il nome di Pat. E se viene personalmente il giudice distrettuale, digli quattro parolacce per conto mio. Arrivederci presto.» Ma, non appena uscii dalla porta, capii subito che non sarei andato troppo lontano. Una specie di gigante in scarpe alte si alzò dall'ultimo gradino sul quale stava seduto e disse: «È una vera fortuna che i ragazzi ci abbiano lasciato qui, dopo tutto. Saranno piuttosto irritati quando torneranno da
Brooklyn.» Un altro individuo di proporzioni colossali comparve in fondo al corridoio e venne a mettersi di fianco al primo. «Avete il mandato d'arresto?» chiesi. Me lo mostrarono. Il primo disse: «Andiamo, Hammer, se non volete provare sulla faccia il sapore dei miei pugni.» Mi strinsi nelle spalle e, inquadrato fra loro, mi diressi verso l'ascensore. Il fattorino afferrò subito la situazione e scosse tristemente la testa. Era come se mi dicesse: vi avevo bene avvisato! Mi appoggiai a lui, mentre la cabina scendeva, e quando sbarcammo al piano terreno mi sentivo molto meglio. La sera, al momento di cambiarsi, il fattorino si sarebbe certo chiesto da che parte era capitata quella piccola .25 che si era trovato in tasca. Forse, da cittadino evoluto e cosciente, sarebbe andato a consegnarla alla polizia. E la polizia avrebbe avuto il suo da fare per rintracciare l'originale di quel gingillo. C'era una macchina della polizia davanti alla porta, ed io andai a prendere posto sul sedile posteriore, sempre stretto fra i miei due angeli custodi. Nessuno parlava, e quando cavai di tasca il pacchetto di sigarette uno dei poliziotti me lo fece volare via con il rovescio della mano. Tre sigarette gli spuntavano dal taschino della giacca, ed alla prima curva il mio gomito gliele ridusse in poltiglia. Mi guardò piuttosto male, ma la mia espressione dovette probabilmente convincerlo a restare tranquillo. Il giudice distrettuale mi aspettava nel suo ufficio. Cera un poliziotto davanti alla porta, e i due in borghese che mi avevano arrestato mi pilotarono fino a una sedia dallo schienale rigido e ripresero il loro posto alle mie spalle. Il giudice distrettuale aveva in quel momento l'aria dell'uomo felice. «Sono arrestato?» chiesi. «Sembra, non vi pare?» «Sì o no allora?» Cercai di dare alla mia voce un tono piuttosto sarcastico. Strinse i denti. «Siete arrestato,» disse. «Per omicidio.» «Voglio fare una telefonata.» Il suo sorriso tornò a farsi radioso. «Certo. Fate pure. Sarò lieto di parlare con voi per mezzo di un avvocato. Sarò lietissimo di sentirmi dire da lui che questa notte eravate a casa vostra, nel vostro letto. Vedremo che cosa tirerà fuori per demolire le testimonianze del portiere e dei vostri vicini, i quali hanno già giurato di non aver sentito il minimo rumore nel vostro appartamento questa notte.» Sollevai il ricevitore e chiesi la linea esterna. Diedi il numero del bar
dove avrei dovuto trovarmi con Pat, numero che il giudice distrettuale si affrettò a trascrivere su un taccuino. Prese la comunicazione Flynn, il barista irlandese, ed io dissi: «Qui parla Mike Hammer, Flynn C'è lì un tale il quale può certificare che non sono uscito di casa stanotte. Pregatelo di venire subito nell'ufficio del giudice distrettuale. Grazie.» Stava gridando la comunicazione nella sala quando riagganciai il ricevitore. Il giudice distrettuale aveva incrociato le gambe e faceva ondeggiare, adagio, un piede. «Ricordate di restituirmi la mia licenza entro la settimana,» dissi. «E con una lettera di scuse, anche, se volete avere qualche probabilità di vittoria nelle prossime elezioni.» Uno dei due poliziotti mi colpì piuttosto energicamente alla nuca. «Qual è l'imputazione che mi si muove?» chiesi. Il giudice distrettuale non riuscì a trattenersi oltre. «Vi dirò tutto, signor Hammer. Correggetemi se mi sbaglio. Siete andato ieri sera all'arena di Gleenwood. Avete avuto una discussione piuttosto violenta con questo Rainey. Due testimoni vi hanno descritto accuratamente ed hanno identificato la vostra fotografia. Più tardi erano tutti e tre assieme nell'ufficio quando voi avete aperto la porta ed avete cominciato a sparare. Uno dei testimoni è stato ferito ad una gamba; Rainey ha ricevuto un proiettile in una gamba e un altro in testa. Esatto?» «Dov'è la rivoltella?» «Siete abbastanza intelligente da averla buttata chissà dove.» «Che cosa succederà quando questi due testimoni verranno chiamati a deporre?» Corrugò la fronte e tornò a stringere i denti. «Ho l'impressione,» continuai, «che si tratti di testimoni piuttosto a terra, di individui da prendere, come si suol dire, con le pinze.» «Aspetto di aver visto il vostro testimone,» mi rispose seccamente. Non ebbi nessun bisogno di replicare, perchè Pat entrò in quel momento, con una espressione piuttosto crucciata — espressione crucciata che però sparì subito non appena ebbe notato la mutria del giudice distrettuale. L'alto funzionario infatti gli aveva lanciato un'occhiata non troppo piacevole. Pat cercò di esprimersi con una certa qual deferenza, ma senza troppo successo. Lo avevo infatti sentito parlare spesso con una gentilezza di gran lunga maggiore a individui gravemente indiziati. «Ero con lui ieri sera. Lo avreste saputo prima, se solo aveste affidato la faccenda al reparto competente. Sono andato a casa sua alle nove, ed abbiamo giocato a carte fino alle quattro del mattino.»
Il viso del giudice distrettuale era letteralmente livido. Sulle mani strette al bordo della scrivania, le vene spiccavano in netto rilievo. «Da che parte siete entrati?» Pat non si lasciò cogliere di sorpresa. «Dalla porta sul retro. Abbiamo messo la macchina al posteggio e siamo entrati dalla porta sul retro. Perchè?» «Che cosa c'è di tanto interessante nell'appartamento di questo individuo da spingervi a frequentarlo?» «Non è una faccenda che vi riguarda, ma abbiamo giocato a carte. E abbiamo parlato di voi. Mike ha fatto a vostro proposito osservazioni niente affatto complimentose. Devo ripetervele, in modo che possano figurare sul rapporto?» Un minuto ancora, e il nostro amico sarebbe morto per insulto apoplettico. «Non importa,» disse ansante, «non importa.» «Questi sì che sono testimoni attendibili,» intervenni io. «Devo dedurre da ciò che l'imputazione nei miei riguardi è finita in niente?» La sua voce ora era così bassa che riusciva piuttosto difficile sentirla. «Uscite di qui. Anche voi, capitano Chambers.» Fissò per un istante gli occhi su Pat. «Noi due ci rivedremo più tardi.» Mi alzai e sorrisi al giudice distrettuale, con un sorriso niente affatto piacevole perchè metteva allo scoperto buona parte dei miei denti. «E ricordatevi della mia licenza. Vi do tempo fino alla fine della settimana.» Si afflosciò sulla sua poltrona e non si mosse più. Seguii Pat giù per le scale fino alla sua macchina. Si mise al volante e girò per dieci minuti buoni senza una meta precisa prima di mormorare: «Non so davvero come diavolo tu faccia.» «A fare che cosa?» «A ficcarti in tanti guai.» Le sue parole mi richiamarono alla mente qualcosa. Gli dissi di fermarsi ad un bar perchè bastava guardarlo in faccia per capire che aveva bisogno di un buon Cinzano. Lo lasciai al banco, andai ad una cabina telefonica, chiamai il Globe e chiesi della redazione sportiva. Quando Ed venne all'apparecchio dissi: «Qui parla Mike, Ed. Devo chiederti un piccolo favore. Rainey è passato nel numero dei più questa notte.» Mi interruppe. «Mi sembrava di averti sentito dire che mi avresti tenuto al corrente. È tutto il giorno che aspetto una telefonata.» «Scusami, Ed, ma le cose non sono affatto andate come tu pensi. Non sono stato io a far fuori quel bastardo. Non sapevo nemmeno che stava per
essere fatto fuori.» «No?» Dal tono della sua voce era chiaro che mi giudicava un bugiardo. «No,» ripetei. «Stanimi a sentire adesso. Quello che è capitato a Rainey non è niente. Delle due cose, una: puoi andare a dire al giudice distrettuale che io ho praticamente previsto quello che doveva succedere ieri sera, o puoi startene tranquillo e riservarti per quando ci sarà il colpo grosso. Che cosa preferisci?» Scoppiò a ridere, nel modo tipico dei vecchi giornalisti. «Aspetterò, Mike. Ho tutto il tempo che voglio per rivolgermi al giudice distrettuale, ma aspetterò. A proposito, sai chi erano i due soci di Rainey?» «Avanti, parla.» «Petey Cassandro e George Hamilton. A Detroit godevano di una pessima fama. Due duri, e hanno fatto tutti e due della galera.» «Oh, non sono poi tanto duri, in fondo.» «No? Non cominci per caso a mutare parere adesso? Bene, Mike. Aspetterò. È un mucchio di tempo che non mi capita più un colpo grosso.» Pat volle sapere che cosa avevo fatto, e gli dissi che avevo telefonato in ufficio. Mi appoggiai allo sgabello e cominciai a bere. Pat, che aveva già vuotato il suo bicchiere, aveva un'aria pensierosa e preoccupata. Gli calai una manata sulla schiena. «Su con il morale, amico!» gli dissi. «Accidenti! Non hai fatto altro che costringere il giudice distrettuale a rimangiarsi le sue parole, ed è una cosa che dovrebbe renderti, se mai, felice.» Pat non la vedeva a questo modo. «Porse sto diventando troppo poliziotto, Mike. Non mi va di mentire. Se non avessi subodorato in questa storia un trucco, avrei lasciato che te la sbrigassi da solo. Il giudice distrettuale ti vuole inchiodare alla sua porta, e fa tutto il possibile per arrivare a questo scopo.» «E questa volta è mancato poco che lo raggiungesse davvero. È una vera fortuna che tu abbia afferrato subito la situazione e abbia inventato sui due piedi una giustificazione assolutamente convincente.» «Doveva essere convincente, diavolo! Sul momento almeno. Come avresti potuto provare di non aver lasciato il letto per tutta quanta la notte?» «Già, non avrei potuto assolutamente provarlo,» dissi. Quando afferrò il significato delle mie parole, mancò poco che il bicchiere gli scivolasse di mano. Mi prese per il colletto e mi fece girare sullo sgabello. «Eri davvero a letto, a casa tua, come mi hai detto, vero?» «Nemmeno per idea. Ero andato a trovare un certo Rainey. Anzi, gli ho piantato addosso un proiettile.»
Pat lasciò la presa mentre il suo viso si faceva di un pallore mortale. «Mio Dio!» Sollevai il mio bicchiere. «Gli ho piantato addosso un proiettile, ma non nella testa. Quello è stato opera di qualcun altro. Non ho la minima intenzione di giocarti brutti tiri, ma dobbiamo farla pagare a un assassino, e non potevo comportarmi altrimenti.» Pat si passò le mani sulla faccia, che non aveva ancora ripreso il suo colore normale. Poi vuotò il bicchiere e fece cenno perchè il barista tornasse a riempirglielo. La mano gli tremava tanto che il ghiaccio andava continuamente ad urtare contro la parete di vetro. «Non avresti dovuto farmi una cosa simile, Mike,» disse. «Non avresti dovuto farmela. Ora sarò costretto ad arrestarti.» «Certo! Arrestami ed affidami, legato mani e piedi, alla collera del giudice distrettuale, il quale si affretterà a farti saltare ed a mettere al tuo posto un incapace pari suo. Arrestami, in modo da permettere al giudice distrettuale di farsi pubblicità a buon mercato. Lascia che l'assassino se ne vada in giro ridendo di noi; è proprio quello che vuole. «Diavolo, non vedi come tutta quanta questa storia puzza dal principio alla fine?» Pat fissò gli occhi nel suo bicchiere, scuotendo la testa. «Sono andato a trovare Emil Perry. Rainey era là. Perry ha qualcosa a che vedere con Wheeler perchè ha dato una giustificazione al suicidio di Wheeler mentre lo conosceva appena per quel tanto necessario a salutarlo con un cenno del capo alle riunioni d'affari. Perry ha a che vedere con Wheeler, e Rainey ha a che vedere con Perry. «Ogni due mesi Perry prelevava regolarmente cinquemila dollari dal suo conto corrente. Non ti sembra che una cosa del genere puzzi maledettamente di ricatto? Ieri Perry ha prelevato ventimila dollari e si è allontanato dalla città. Si è procurato quel danaro per acquistare i documenti in base ai quali veniva ricattato. Ho fatto una ispezione in casa sua, ed ho trovato nel camino gli avanzi di questi documenti.» Presi di tasca la busta e gliela gettai davanti. Egli la considerò con aria distratta. «E adesso ti dirò come si è arrivati alla faccenda Rainey. Quando mi sono recato a trovare Perry, gli ho detto che sarei andato a far vìsita a Rainey, che gli avrei fatto sputare la verità e che l'avrei gridata ai quattro venti. La cosa ha spaventato quel pancione al punto di farlo svenire. Appena sono uscito, ha telefonato a Rainey, si è offerto di comperare le prove del ricatto, e Rainey ha accettato. Ma intanto Rainey doveva fare qualcosa per quello che mi riguardava. Mi ha fatto fuoco addosso in piena Broa-
dway, e se mi fossi buscato un proiettile, la faccenda avrebbe potuto dirsi chiusa. «Quando sono andato a trovarlo, gli ho parlato fuori dai denti, e, tanto per impressionarlo, gli ho piazzato un proiettile in un polpaccio. E la stessa cosa ho fatto con uno dei suoi scagnozzi.» Per un istante ebbi l'impressione che Pat non mi ascoltasse, ma mi sbagliavo. Voltò la testa e mi guardò con due occhi che, se possibile, si erano fatti ancora più freddi. «E come ha fatto allora Rainey a buscarsi quell'altra pallottola?» «Lasciami finire. Rainey non era solo in tutta questa faccenda. Non era tipo da tanto. Era qualcun altro a dare gli ordini, ed un bel giorno Rainey si è creduto abbastanza forte da fare di testa propria. Il pezzo grosso lo è venuto a sapere ed è saltato fuori al momento opportuno per eliminare personalmente Rainey. Mi ha visto, ha pensato che forse avrei fatto io il lavoro per lui, poi, quando si è accorto che mi ero trattenuto in limiti quasi leciti, si è preso il disturbo di portare a termine la faccenda.» Pat stava evidentemente cercando di farsi un quadro della situazione, preciso in tutti i suoi particolari. «Tu sospetti qualcuno, Mike. Chi?» «Già, chi se non Clyde? Non abbiamo ancora dimostrato che Rainey e Clyde lavoravano assieme, ma ci arriveremo. Rainey non abitava certo a Bowery per suo piacere. Sono pronto a scommettere che era là a disposizione di Clyde, assieme ad un'altra dozzina di duri della sua specie.» Pat annuì. «Può darsi. Il proiettile che ha colpito Rainey alla gamba e quello che lo ha colpito alla testa non sono stati sparati dalla medesima rivoltella.» «Era diversa anche quella del secondo ferito. Ho fatto fuoco su di lui con l'automatica del suo amico.» «Questo non lo so. Il proiettile è fuoruscito e non è stato ritrovato.» «Io lo so invece. Ho piantato ad ognuno un proiettile nel polpaccio, e ho lasciato le rivoltelle sulla tavola.» Il barman venne a riempire i nostri bicchieri. Aspettammo che si fosse allontanato, poi Pat continuò: «Ti dirò io che cosa è successo laggiù, Mike. Quello che se l'era cavata senza danni ha trascinato fuori il suo compagno e ha gridato aiuto. Nessuno si è fatto vedere, ha detto, e allori ha caricato il suo socio su una macchina, lo ha portato da un medico di Gleenwood, e dallo studio del medico ha telefonato alla polizia. Ti ha descritto con molta esattezza, ha indicato la tua fotografia, ed eccoci qua.» «Eccoci qua è proprio la parola adatta. L'assassino è arrivato subito dopo
la mia partenza, ha accoppato Rainey ed ha minacciato gli altri o li ha convinti con una certa somma a fare addossare a me la colpa dell'omicidio. Hanno tutti e due precedenti penali a Detroit, e uno di loro aveva una rivoltella. Avevano tutto l'interesse a seguire le istruzioni dell'assassino.» «Il giudice distrettuale ha le loro deposizioni giurate.» «Ma io ho la tua testimonianza. Che cosa valgono le dichiarazioni, sia pure giurate, di due resti di galera davanti alla testimonianza di un capitano Chambers?» «Se si trattasse di giurare, la faccenda prenderebbe tutto un altro aspetto, Mike.» «Non si dovrà certo arrivare fino a questo punto. Il giudice distrettuale si sa battuto, e, sotto un certo punto di vista, sono quasi contento che le cose siano andate così.» Pat disse che tale affermazione riguardava unicamente me, poi tornò a piombare nelle sue meditazioni. Lo lasciai in pace per qualche minuto prima di chiedergli che cosa intendeva fare. Mi rispose: «Cercare quei due. Finirò per sapere che cosa è accaduto in realtà.» Lo guardai a bocca aperta, poi scoppiai a ridere. «Scherzi, Pat? O credi davvero che quei due siano rimasti là ad aspettarti?» «Uno di loro ha un proiettile in una gamba,» mi ricordò. «E con questo?» replicai. «Un proiettile nella gamba non è niente in confronto a un proiettile nella testa. Sono dei duri, quegli individui, certo, ma smettono di esserlo non appena incontrano qualcuno un poco più duro di loro.» «Li farò ricercare, in ogni modo.» «Benissimo. Potranno esserci utili, se riesci a trovarli, cosa di cui dubito. A proposito, hai fatto esaminare i proiettili che hanno fracassato quelle vetrine?» Pat tornò subito a rianimarsi. «È vero, anche di questo intendevo parlarti. Sono tutti e due di .38 speciale, ma sono stati esplosi da rivoltelle diverse. C'è più di una persona che si è messa in testa di toglierti di mezzo.» Se si aspettava di stupirmi, dovette rimanere deluso. «Lo immaginavo, Pat. E tutto questo ci porta ancora una volta a Clyde e a Rainey. Appena lo ho lasciato, Perry ha telefonato a Rainey. Mancava poco all'ora di cena, e quello ha probabilmente pensato che sarei tornato a casa a mangiare. In realtà, dovevo salire soltanto per prendere cappotto e guanti, ma non sospettavo nemmeno lontanamente di essere seguito, e in questo modo ha potuto pedinarmi con tutta tranquillità. Deve essermi rimasto alle calcagna molto
tempo, poi, quando ha creduto di poter agire a colpo sicuro, è entrato in azione.» «In questo modo Clyde viene a essere escluso dal quadro.» «Sveglia, Pat! Se Rainey riceveva ordini da Clyde, forse Clyde lo ha seguito per essere sicuro che il lavoretto fosse condotto a buon termine.» «In questo modo sarebbe stato Clyde l'autore del secondo tentativo. La tua teoria è abbastanza intelligente. Ti manca soltanto la fotografia dell'assassino.» «Ho visto soltanto la metà superiore del suo viso, e non sono sicuro che sia stato lui; ma si trattava di un uomo, e se mi ha sparato addosso una volta, ci si proverà ancora. E sarà l'ultima volta che sparerà a qualcuno.» Vuotai il bicchiere e lo spinsi sul banco perchè tornassero a riempirlo. Ordinammo qualche sandwich e lo divorammo in silenzio, poi, per aiutare la digestione, buttammo giù un altro Cinzano. Offrii a Pat una Lucky, gliela accesi, ne accesi una anche per me e soffiai il fumo sullo specchio dietro al banco. «Per tornare al giudice distrettuale, Pat,» chiesi poi, «chi lo ha spinto a lasciarsi andare a quel modo?» «Mi stavo appunto domandando quando mi avresti rivolto una domanda del genere,» rispose. «Bene?» «Alcune persone si sono lamentate del fatto che un assassino par tuo potesse ancora avere il permesso di libera circolazione ed hanno tempestato perchè si facesse qualcosa in proposito. Persone piuttosto influenti che vivono nella zona di Gleenwood. Qualcuna di queste persone era presente quando i testimoni sono stati interrogati.» «Chi?» «Uno fa parte del ministero dei trasporti, un altro è presidente di un circolo politico a Flatbush. Un altro ancora si è presentato alle elezioni senatoriali ed è stato battuto di strettissima misura. Due sono grossi uomini d'affari, e quando dico grossi non esagero certo. Tutti e due si occupano attivamente delle questioni civiche.» «Clyde ha amici davvero altolocati.» «Può arrivare anche più in alto, se vuole, Mike. E può anche andare più in basso, se necessario, dove i duri sono duri sul serio. Ho fatto qualche indagine, da quando ti ho visto l'utima volta. Mi sono interessato al vecchio Dinky Williams ed ho cominciato a fare qualche domanda. Non ho raccolto molto, ma abbastanza per sapere che egli frequenta tanto la crema
quanto la schiuma della società. Non so come abbia fatto, ma ti assicuro che Clyde non è più un pesciolino.» Rimasi per quasi un minuto a studiare il ghiaccio del bicchiere. «Credo, amico, di poterlo far scendere così in basso da mandarlo a stringere la mano al diavolo. Sì, è tempo che vada a fare una chiacchierata con Clyde. Ma quella sera non riuscii a fare quello che avevo deciso di fare, perchè, mentre passavo a ritirare la macchina diedi un'occhiata in ufficio e trovai che Velda se ne era andata e che un biglietto sulla scrivania mi diceva di telefonare a Connie. Il biglietto era firmato con un pugnale gocciolante sangue. Era un tipo di profezia che esulava completamente dai miei gusti. Pugnale o non pugnale, sollevai il telefono e composi il numero. Quando mi rispose, Connie aveva una voce piuttosto preoccupata. «Oh, Mike!» disse. «Ero terribilmente inquieta.» «Per me?» «E per chi altro? Mike... che cosa è successo ieri notte? Ero alla Inn, e ho sentito parlare... di Rainey... e di te.» «Un momento, bimba. Chi era che parlava?» «Alcuni individui che venivano dalla riunione di Gleenwood raccontavano quello che era accaduto, ed io ero seduta proprio dietro di loro.» «Che ora era?» «Non lo so con precisione, Mike, ma doveva essere piuttosto tardi. Ero così preoccupata che ho detto al mio cavaliere di riaccompagnarmi a casa. Non... non potevo più resistere. Oh Mike!» La sua voce si fece incerta, ed ella cominciò a singhiozzare nel microfono. Dissi: «Aspettami. Sarò da te fra poco, e così potremo parlare di tutto con maggior comodo.» «Va bene. Ma fa' in fretta, ti prego.» Feci in fretta davvero. Passai più di un semaforo col rosso, e un paio di volte sentii risuonare nell'aria sibili di cattivo augurio, ma arrivai davanti al portone di Connie in meno di un quarto d'ora. Dato che l'ascensore era ai piani superiori, feci di corsa le scale e bussai alla porta. Connie aveva gli occhi rossi dalle lacrime, e mi si gettò fra le braccia, stringendomi freneticamente. Il profumo che emanava dai suoi capelli valse a scacciare il freddo dai miei polmoni ed a sostituirlo con una sensazione molto più gradevole. «Bellezza!» dissi. Poi risi delle sue lacrime e la scostai un poco da me per poterla guardare. Ella gettò indietro la testa e sorrise.
«Mi sento molto meglio ora,» disse. «Dovevo vederti, Mike. Non so perchè, ma non potevo a meno di sentirmi terribilmente preoccupata.» «Forse è perchè ti ricordo i tuoi fratelli.» «Forse, ma non credo.» Le sue labbra erano rosse e morbide. La baciai, adagio, ma ella non si accontentò di un esemplare cosi misero. «Non sulla porta, bimba. La gente potrebbe parlare.» Allungò le mani alle mie spalle e spinse il battente. Allora le diedi quello che la sua bocca reclamava. Il suo corpo tremava sotto le mie mani, e dovetti scostarla per passare nella stanza di soggiorno. Mi seguì e venne a sedersi ai miei piedi. Non tanto una donna sembrava, quanto una ragazzina che non ha nessuna voglia di crescere. Era felice, e strofinò la guancia contro le mie ginocchia. «Me la sono passata malissimo ieri sera, Mike. Se solo tu fossi stato là...» «Avanti, raccontami tutto.» «Abbiamo bevuto, abbiamo ballato e abbiamo giocato. Ralph, il mio cavaliere, ha vinto mille dollari, poi li ha perduti. C'era Anton, e Ralph non avrebbe perso se fossimo andati con lui.» «Anton era solo come al solito?» «Sì, fino a quando non si è ubriacato. Quando è stato pieno di alcool fino al collo, ha cominciato a pizzicare tutte le ragazze, e una gli ha rifilato uno schiaflfo. E non posso rimproverarla, quella ragazza. Non aveva niente sotto il vestito. Allora Anton si è attaccato a Lilian Corbett, un'altra ragazza che lavora per l'agenzia, ed ha cominciato a farle la corte in francese. Oh, che cosa non le ha detto!» «Lo ha schiaffeggiato anche lei?» «Lo avrebbe certo fatto, se avesse capito il francese. A un certo momento lo ha piantato, e allora Anton, che evidentemente trovava la cosa molto divertente, ha ricominciato con Marion Lester, ma in inglese, questa volta. E quella scimmia non ha fatto la minima obiezione.» Allungai la mano e le feci correre le dita fra i capelli. «C'era anche Marion allora?» «Avresti dovuto vedere come si dava da fare. Ha lavorato così bene che è riuscita a far eccitare Anton, cioè un tipo piuttosto refrattario alle cose del genere. Anton allora ha invitato tutti quanti a casa sua, e là deve aver avuto luogo qualcosa di simile a un'orgia.» «Non ne dubito. E tu che cosa hai fatto poi?» «Oh, ho giocato un poco. Ma non mi divertivo affatto. Ralph va pazzo per il gioco, a discapito del ballo e dell'alcool. Ho chiacchierato con il ba-
rista fino a quando ha perduto tutto quello che aveva guadagnato, poi siamo tornati al tavolo e abbiamo bevuto un paio di cocktails champagne.» Rovesciò indietro la testa, e l'espressione inquieta tornò a disegnarsi sul suo viso. «Poi sono arrivati quei tali. Parlavano della sparatoria, di Rainey e di te. Uno ha detto di aver letto qualcosa su di te nei giornali, non molto tempo fa, ha detto che eri proprio il tipo da imprese del genere; poi un altro ha scommesso che i poliziotti ti avrebbero acchiappato prima dell'alba.» «Chi ha perduto la scommessa?» «Non lo so. Non mi sono voltata a guardare. Era già abbastanza duro restarsene lì e sentirli parlare a quel modo. Ho... ho cominciato a sentirmi male, e credo di aver pianto un poco. Ralph ha pensato che fosse colpa sua, ed ha preso a carezzarmi per consolarmi. Gli ho detto allora di accompagnarmi a casa. Mike... perchè non mi hai telefonato?» «Ho avuto da fare, bimba. Ho dovuto spiegare tutto quanto alla polizia.» «Non sei stato tu a ucciderlo, vero?» «Il proiettile nella gamba era mio, quello nella testa di qualcun altro.» «Mike!» Le scompigliai i capelli e scoppiai a ridere. «Sei arrivata alla Inn piuttosto presto, vero?» Connie annui. «Clyde c'era?» «No... ora che ci penso, è comparso solo dopo mezzanotte.» «Che aria aveva?» Connie corrugò la fronte e cominciò a mordersi le unghie; poi mi guardò negli occhi e sorrise. «Aveva un'aria... strana. Sembrava piuttosto nervoso.» Già, c'era da credere che sembrasse nervoso. Succede così qualche volta, dopo aver accoppato qualcuno. «Qualcun altro aveva l'aria di interessarsi alla conversazione? Clyde, per esempio?» «Credo che non l'abbia nemmeno sentita. Nessuno faceva attenzione a quel gruppo.» «Chi altro c'era, Connie? Qualcuno che aveva l'aria di essere una persona importante?» «Smettila di scherzare. Bisogna essere persone importanti per entrare alla Inn, o bisogna almeno essere in compagnia di persone importanti.» «Io non sono certo importante,» osservai, «eppure sono entrato.» «Una bella modella vale qualunque parola d'ordine,» replicò ella, sorridendo. «Non venirmi a dire adesso che hanno una parola d'ordine.» «Ce n'era una, agli inizi, per entrare nelle sale sul retro. Ora la cosa non
è più possibile, ma ci sono sempre quelle piccole stanze di controllo fra le sale maggiori. Hanno pareti di acciaio e sono a prova di suono.» Irrigidii le dita fra i suoi capelli e le rovesciai indietro la testa, in modo da poterla guardare negli occhi. «Hai scoperto un mucchio di cose in pochissimo tempo. Quando ci sei venuta con me, era la prima volta che mettevi piede in quel locale.» «Ti sei già dimenticato di avermi detto che avevo una intelligenza abbastanza pronta, Mike? Mentre Ralph giocava, il barman ed io abbiamo avuto una discussione molto interessante. Mi ha descritto tutto quanto, quell'uomo, compreso il sistema di allarme. In caso di incursione della polizia, viene dato immediatamente l'allerta, e i clienti possono battersela da una uscita sul retro. Non è forse, questa, un'idea molto gentile da parte di Clyde?» «Oh, certo. E adesso, ragazza mia, devo proprio andarmene.» «Oh, Mike, rimani ancora un po', ti prego!» «Senti, mi piacerebbe fermarmi, ma ho un mucchio di cose da fare. Chissà dove, in questa maledetta città, c'è un tale, armato, che aspetta solo di potersi servire ancora della sua rivoltella. E quando ci si prova, voglio essere presente.» Si buttò indietro i capelli, con il gesto di un gatto arrabbiato, e disse: «Sei proprio cattivo, Mike. Anch'io ho qualcosa da farti vedere.» «Davvero?» «Resterai fino a quando non te l'avrò mostrata?» «Be', credo che riuscirò a farcela.» Connie si alzò, mi sfiorò una guancia con un bacio e mi costrinse ad appoggiarmi allo schienale della poltrona. «Stiamo facendo una serie di pose per un laboratorio di confezioni. Il nuovo articolo che dobbiamo fotografare è arrivato oggi, ed io devo posare per una foto che apparirà sui giornali di mode a tutta pagina. Terminato il lavoro, il capo resterà di mia proprietà.» Si alzò e scomparve, quasi correndo, nella camera da letto. Vi rimase abbastanza da darmi il tempo di fumare una intera sigaretta. Avevo appena terminato di schiacciare il mozzicone nel portacenere quando ella mi chiamò. «Mike, vieni qui.» Aprii la porta e mi fermai sulla soglia, pietrificato, mentre vampate di calore e ondate di gelo si succedevano attraverso il mio corpo. Connie indossava una camicia da notte lunga fino ai piedi, del tessuto bianco più trasparente che mai avessi visto. Se avesse dovuto essere fotografata, la luce
sarebbe stata sistemata di fronte a lei; la lampada della stanza invece, piuttosto forte, era piazzata alle sue spalle, ed ella non portava niente sotto la camicia. Quando si voltò, la stoffa ondeggiò come una nuvola vaporosa, ed ella mi sorrise fissandomi negli occhi con una espressione che valeva più di mille parole. Sul davanti la camicia era aperta. «Ti piaccio, Mike?» Con un dito, le feci cenno di avvicinarsi. Traversò la Stanza con passo leggero e si fermò davanti a me, in atteggiamento di sfida. Le dissi: «Levala.» Scosse un poco le spalle, e la camicia si afflosciò sul pavimento. La guardai, fissandomi ben bene nella mente un quadro che non avrei dimenticato, mai più. Sarebbe potuta essere una statua, una statua dalla carne di un bianco cremoso che respirava con ritmo irregolare. Una statua con due occhi neri ed ardenti e due seni aggressivi che parlavano di una passione ormai irresistibile. Una statua immobile in un atteggiamento tanto provocante da farvi sentire il desiderio di bruciare del suo stesso fuoco. La statua aveva una voce, una voce bassa e carica di desiderio. «Mi sarebbe così facile amarti, Mike.» «No,» dissi. Si passò la lingua sulle labbra, in fretta. «Non ho tempo adesso.» Il fuoco dei suoi occhi si trasformò nella fiamma che mi bruciava. La presi per le spalle e la strinsi a me, premendo selvaggiamente le labbra contro le sue. La sua lingua era come una freccia saettante che mi colpiva di continuo, cercando di ferirmi tanto da impedirmi di andarmene. Ma non lasciai che quella freccia si piantasse troppo profondamente nella mia carne. La respinsi, cercai di parlare e mi accorsi di non avere più voce. Così me ne andai. Me ne andai e la lasciai là sulla soglia, nuda, le impronte delle mie dita che spiccavano ancora rosse, sulle sue spalle. «Finirai per prendere la persona che ti sei messo in testa di prendere, Mike. Niente può fermarti. Niente.» La sua voce era un poco rauca, ma c'era in essa una nota di allegria, e anche, sia pure meno marcata, una nota di orgoglio. Stavo chiudendo la porta quando la sentii mormorare: «Ti amo, Mike. Ti amo, profondamente e sinceramente.»
Fuori, aveva ripreso a nevicare, ma per fortuna non c'era vento. Salii in macchina ed azionai subito i tergicristallo per togliere dal parabrezza il sottile strato bianco che mi impediva ogni visuale. Quella neve, in un certo senso, rappresentava un vantaggio per me: se qualcuno mi aspettava, rivoltella in pugno, questo qualcuno avrebbe avuto il suo daffare a distinguere la mia dalle altre macchine. Questo pensiero bastò a farmi salire di nuovo i fumi alla testa. Una delle mie rivoltelle era alla centrale di polizia, assieme alla mia licenza, in una grande busta; non sapevo che cosa poteva aver fatto dell'altra il fattorino dell'ascensore, ma non mi sentivo attatto a mio agio con la fondina vuota sotto il braccio. I cittadini evoluti e coscienti potevano ignorare l'esistenza degli assassini, ma c'era uno di questi assassini che voleva farmi la pelle. C'era una Luger calibro .30 nell'ultimo cassetto dell'armadio, a casa mia. una Luger calibro .30 con un caricatore completo. Aveva, più o meno, le stesse dimensioni di una .45, la misura adatta per la mia fondina. Feci le scale a quattro gradini per volta, senza aspettare l'ascensore, aprii la porta e feci scattare l'interruttore. Niente. Già cominciavo a maledire le valvole quando pensai, a un tratto, come in un lampo, che poteva trattarsi di ben altro, e feci un passo di traverso, nelle tenebre. Quali ignote radiazioni emesse dai corpi umani ci avvertono qualche volta della presenza del pericolo e ci ispirano, all'ultimo momento, il riflesso animale che ci salva la vita? Avevo appena fatto questo passo di traverso quando due detonazioni, attutite dal silenziatore, risuonarono all'altra estremità della stanza, e due lingue di fuoco squarciarono le tenebre. Con una bestemmia appena accennata, mi tuffai verso l'origine di queste lingue di fuoco ed entrai violentemente in contatto con due gambe che si piegarono mentre una voce cercava invano di soffocare una imprecazione. Un attimo dopo un pugno mi colpiva in pieno viso e il mio cranio andava ad urtare contro il pavimento. Menai colpi alla cieca. I miei piedi agganciarono il tavolo per una gamba e lo rovesciarono. I due vasi ed il servizio da cocktail volarono in pezzi con un chiasso infernale. Qualcuno cominciò a gridare nell'appartamento vicino. Riuscii a sollevarmi sui gomiti ed afferrai i risvolti di una giacca, ma il mio avversario era forte come un toro, e fui costretto quasi subito a lasciare la presa. Il pugno invisibile continuava a martellarmi il viso con un accanimento diabolico. Ero impacciato dal cappotto, e le luci che vedevo di tanto in tanto nella stanza non venivano certo da lampade. Sapevo
solo che dovevo alzarmi in piedi... alzarmi in piedi e scrollarmi quella cosa da dosso. Dovevo scrollarmela da dosso perchè, se non ci fossi riuscito, le faccende sarebbero finite molto ma molto male per me. Venni a capo del mio proposito, con uno sforzo furibondo, e sentii il mio avversario entrare in collisione con la tavola rovesciata. Uscii in qualcosa di simile a un ruggito e mi precipitai in avanti, a corpo perduto, perchè questa volta mi sarei trovato io in posizione di vantaggio. Ma i miei piedi andarono ad impigliarsi nel cordone di una lampada e caddi lungo e disteso. Picchiai violentemente la testa contro qualcosa, e, prima ancora di aver coscienza di quanto era successo, seppi che l'assassino si stava chiedendo se era meglio per lui trattenersi il tempo sufficiente per saldarmi il conto o battersela alla maggior velocità possibile. Si udiva dappertutto un rumore di porte che si aprivano quando piombai in una specie di sonno artificiale popolato di capelli biondi, di camicie da notte oltraggiosamente trasparenti, di Velda in abiti che più scollati non avrebbero potuto essere. L'uomo chino su di me aveva un viso serio e tondo ed una bocca ovale che assumeva le forme più strane. Scoppiai a ridere; il viso si fece ancora più serio, la bocca prese a torcersi con ancora maggiore energia. Rimasi a lungo ad osservare le contorsioni grottesche di quella bocca prima di capire che l'uomo dalla faccia tonda mi stava parlando. Mi stava chiedendo come mi chiamavo e che giorno era. Riuscii alla fine a smettere di ridere ed a rispondere esattamente alle sue domande. Il viso allora perdette buona parte della sua serietà ed abbozzò un sorriso. «Tutto andrà per il meglio,» disse. «Non vi nascondo che ero un poco preoccupato.» Poi voltò la testa e si rivolse a qualcun altro. «Una leggera commozione cerebrale. Niente di grave.» L'altra voce rispose che era un vero peccato che non ci fossero fratture. Riconobbi subito quella voce. Dopo qualche istante riuscii anche a vedere abbastanza chiaramente. Era il giudice distrettuale, le mani sprofondate nelle tasche e l'aria superiore che i giudici distrettuali devono assumere quando c'è gente in giro. Riuscii a mettermi a sedere, a prezzo di dolori acutissimi, simili a tante pugnalate, nella parte superiore del cranio. La piccola folla che mi stava in giro cominciava ad allontanarsi. L'uomo dalla bocca ridicola, recando in mano la sua piccola borsa nera, due donne con i diavolini nei capelli, il portinaio, l'uomo e la donna che avevano l'aria piuttosto sconvolta se ne andarono. Gli altri rimasero. Un agente in uniforme. Due agenti in borghe-
se. Il giudice distrettuale, naturalmente. E Pat. Il mio amico. Se ne stava seduto un poco in disparte, sull'unica sedia che fosse ancora rimasta in piedi. Il giudice distrettuale tese in avanti una mano e mi mostrò due frammenti di piombo piuttosto schiacciati. Proiettili. «Erano nel muro, signor Hammer. Esigo una immediata spiegazione.» Uno degli agenti in borghese mi aiutò ad alzarmi, e riuscii così a vedere meglio. Tutte quante le facce avevano ora un naso. Prima erano state soltanto una macchia confusa. Mi accorsi di sogghignare solo quando il giudice distrettuale strillò: «Che cosa c'è di tanto buffo? Non vedo niente di buffo in questa storia.» «La cosa non mi meraviglia affatto,» replicai. Era troppo per lui. Mi prese per il risvolto della giacca e portò il suo viso a pochi centimetri dal mio. In un altro momento lo avrei conciato davvero per le feste, ma non avevo nemmeno la forza di alzare le braccia. «Che cosa c'è di tanto buffo?» ripeté. «Vi piacerebbe se...» Voltai la testa e sputai. «Vi puzza il fiato. Statemi lontano.» Mi scaraventò, più o meno, contro il muro. Continuavo a sogghignare, ma ora sapevo perchè: il mio gentile interlocutore era livido di rabbia e la sua bocca era ridotta ad una sottile striscia rossa. «Parlate!» «Dov'è il mandato?» chiesi, con molta disinvoltura. «Dov'è il mandato che vi permette di entrare in casa e di parlarmi con quel tono, piccolo e sudicio bastardo che non siete altro? Fuori di qui, e andate a leccare i piedi a qualche pezzo grosso, tanto per non perdere l'abitudine. Pochi minuti ancora e starò benissimo. Vi consiglio quindi di battervela al più presto, voi e i vostri scagnozzi.» I due agenti in borghese dovettero trattenerlo. Tremava dalla testa ai piedi, scosso da una collera furibonda. Non avevo mai visto un uomo tanto arrabbiato. Lo trascinarono fuori cosi in fretta da non accorgersi nemmeno che Pat era rimasto al suo posto, sdraiato in poltrona. «Credo di avergli parlato fuori dai denti,» dissi. «Un uomo è re a casa sua.» «Temo proprio che non imparerai mai a stare al mondo,» rispose tristemente Pat. Prese una sigaretta e me la infilò fra le labbra. Il fumo mi graffiò i polmoni e si rifiutò sulle prime di uscirne. Sollevai una sedia e mi sistemai in modo da avvertire il meno possibile il dolore lancinante alla testa. Pat lasciò che terminassi la sigaretta, dandomi così anche il tempo di ritrovare il
fiato, poi mi chiese: «Con me parlerai, vero, Mike?» Mi guardai le mani: sanguinavano, ed un'unghia era mezzo staccata. Inserito in questa spaccatura, c'era un minuscolo frammento di stoffa. «Era qui quando sono entrato. Mi ha fatto fuoco addosso due volte, ma mi ha mancato. Poi abbiamo fatto un baccano tale che, quando sono caduto, ha preferito battersela. Se non fossi andato a finire con un piede nel filo della lampada, il giudice distrettuale mi avrebbe fatto arrestare per omicidio, perchè avrei accoppato quel farabutto. Chi ha avvertito la polizia?» «I vicini hanno telefonato alla stazione di zona,» spiegò Pat. «È stato fatto il tuo nome, e allora l'agente di servizio si è messo subito in comunicazione con il giudice distrettuale. Puoi immaginare a che velocità il tuo amico si è precipitato qui.» Brontolai e cominciai a massaggiarmi le nocche della mano. «Hai visto i proiettili che mi ha mostrato?» «Uh-uh. Li ho recuperati io.» Si alzò e si stiracchiò le braccia. «Uguali a quelli che sono stati trovati nelle vetrine di Broadway. È la seconda volta che ti mancano. Dicono che la terza non sarai tanto fortunato.» «Confronteranno i proiettili con quelli trovati a Broadway?» «Sì, certo. Secondo la tua teoria, se risulteranno eguali a quelli della prima vetrina, è Rainey che ha tentato il colpo. Se risulteranno invece eguali a quelli trovati all'angolo della Trentatreesima, è stato Clyde.» Presi a massaggiarmi la mascella, tutta escoriata e coperta di lividi. «Non può essere stato Rainey.» «Vedremo.» «Un accidente vedremo! Che cosa aspettiamo? Andiamo ad acchiappare quel grosso mascalzone di Clyde.» Pat sorrise tristemente. «Cerca di essere sensato, Mike. Cerca di ricordare la parole "prova". Dov'è la prova? Credi che il giudice distrettuale accetterà la tua teoria... in un momento come questo? Ti ho già detto che Clyde ha molte fila da tirare. Se anche fosse stato lui, non ha lasciato tracce. Non ha lasciato certo maggiori tracce dell'uomo che ha ammazzato Rainey questa notte.» «Hai ragione. In caso di necessità, potrebbe anche crearsi una serie di eccellenti alibi.» «Non è questa la risposta,» disse Pat. «Se lavorassimo a un caso di omicidio che aspetta ancora di essere risolto, sarebbe diverso. Ufficialmente, Wheeler si è ancora suicidato, e ci sarà maledettamente difficile fare accettare il contrario.»
Tolsi dall'unghia scheggiata il frammento di stoffa e glielo tesi. «Chiunque sia stato, mi ha lasciato un piccolo campione del suo vestito. Tu sei uno specialista in materia. Fallo esaminare dai ragazzi del tuo laboratorio.» Pat osservò attentamente il non troppo ricco esemplare che gli avevo dato, poi lo ripose in una busta che mise in tasca. «Chiunque sia stato,» continuai, «era un individuo forte come un toro. Ricordi quello che ti ho detto a proposito delle tracce rilevate sul cadavere di Wheeler. Supponiamo che questo individuo abbia pedinato Wheeler e lo abbia seguito in stanza con l'intenzione di ucciderlo e di dare a tutta quanta la faccenda l'aspetto di una lite fra ubriachi. Supponiamo che abbia trovato Wheeler non a letto, come immaginava, ma alzato, diretto al bagno, per esempio. Wheeler ha subito capito che cosa stava succedendo ed ha preso la rivoltella che avevo appesa alla spalliera della sedia. «Cerca di rappresentarti la scena, Pat. Wheeler con la rivoltella, l'altro che la scosta bruscamente e il primo proiettile va a conficcarsi nel materasso. Poi l'assassino piega il polso di Wheeler, rivolge la canna verso il cranio della sua vittima e fa scattare il grilletto. Una lotta del genere non corrisponderebbe forse alle tracce rilevate sul corpo di Wheeler?» Pat non rispose subito. La testa leggermente piegata su un fianco, vagliava punto per punto la mia ipotesi, sistemando ogni pezzo al suo posto. Quando fu riuscito a ricomporre il quadro, annuì. «Sì,» ammise, «è possibile.» Poi continuò, stringendo gli occhi: «L'assassino ha quindi raccolto uno dei bossoli ed ha recuperato il proiettile dal materasso. Nessuno avrebbe certo notato un foro così piccolo. Tutto sarebbe andato secondo i suoi piani, se tu non avessi saputo quanti proiettili c'erano nel tuo caricatore. Tutto sarebbe andato così bene per lui che anche tu avresti accettato senza discussioni la teoria del suicidio.» «Molto probabilmente,» dissi. «Poi l'assassino trova modo di perdere nel corridoio proiettile e bossolo, dove noi li troviamo a molte ore di distanza. È vero che, se tu non avessi dato fuoco alle polveri, io non sarei certo tornato all'albergo, e questi due importanti indizi sarebbero probabilmente andati a finire nella spazzatura.» «In questo caso l'assassino doveva portare un abito vecchio.» «Che cosa?» «Se aveva buchi nelle tasche, doveva trattarsi di un abito vecchio.» Pat mi guardò e corrugò la fronte. Prese di tasca un taccuino, lo sfogliò, consultò alcune annotazioni, compulsò attentamente l'ultima pagina, poi lo chiuse e tornò a metterselo in tasca. «Il giorno precedente la morte di
Wheeler sono stati registrati due clienti soltanto. Uno era un individuo molto vecchio. L'altro era un tipo relativamente giovane, dagli abiti non troppo in ordine, che ha pagato in anticipo. È partito l'indomani, dopo la morte di Wheeler, ma prima che noi facessimo indagini nell'albergo ed a un intervallo di tempo sufficiente a non suscitare i sospetti del personale, una volta scoperto il cadavere.» Dimenticai ogni dolore al cranio e sentii i muscoli che mi si tendevano. «Sono stati in grado di descrivertelo? Era...» «No. Nessuna descrizione. Era un tipo di media statura, e, a quanto diceva, si trovava in città perchè aveva bisogno di cure dentistiche. Aveva il viso quasi tutto nascosto da una benda.» Bestemmiai. «Era un'ottima ragione per giustificare la mancanza di qualsiasi bagaglio. Inoltre, aveva di che pagare in anticipo.» «Poteva benissimo essere Clyde,» feci, ansando. Mi sembrava di avere la gola in fiamme. «Poteva essere chissà chi. Se credi ci sia Clyde dietro tutta questa storia, voglio chiederti una cosa: pensi davvero che si sia preso il disturbo di commettere personalmente un omicidio?» «No,» risposi, sia pure di controvoglia. «Un bastardo del genere avrebbe pagato qualcuno perchè sbrigasse il lavoro per lui.» «E la stessa cosa vale per l'omicidio laggiù all'arena di Gleenwood.» Picchiai energicamente il pugno sul bracciolo della poltrona. «Sciocchezze, Pat. Queste sono soltanto supposizioni nostre. Non dimenticare che l'omicidio non è una cosa nuova per Clyde. Forse ci ha preso gusto. Forse è abbastanza intelligente da non fidarsi degli altri. Aspettiamo di vedere fino a che punto è furbo. Aspettiamo qualche giorno ancora e vediamo se non è lui stesso a mettersi al collo il cappio della forca.» «Abbiamo il tempo contato, Mike.» La sua espressione non mi andava affatto: «Perchè?» «Il giudice distrettuale non crede che io fossi a casa tua ieri sera. Ha sguinzagliato i suoi uomini perchè vadano in giro a fare domande. La verità non tarderà a venire a galla.» «Oh, mio Dio!» «Stanno esercitando pressioni su di lui, pressioni che non può assolutamente ignorare. C'è qualcosa di grosso in aria, e può darsi che uno di questi giorni tu ci rimetta l'osso del collo e io il posto.» «D'accordo, Pat, d'accordo. Cercheremo di sbrigarci allora. Ma come
diavolo possiamo fare? Posso prendere da parte Clyde, ma il giudice distrettuale mi metterà i suoi scagnozzi alle calcagna prima ancora che abbia avuto il tempo di alzare un dito. Ho bisogno di tempo, accidenti! Ho bisogno di qualche giorno soltanto.» «Lo so, ma che cosa posso farci?» «Niente, un accidente di niente... per il momento.» Accesi un'altra sigaretta e lo guardai attraverso il fumo. «Sai, Pat, si può restare chiusi per un mese in una stanza con un calabrone senza che quello ti punga. Ma provati a stuzzicarlo, e nel giro di pochi secondi ti morderà.» «Dicono che, se ti punge troppo spesso, ti spedisce all'altro mondo.» Mi alzai e mi infilai il cappotto. «D'accordo, ma è un rischio che bisogna correre. Quali sono i tuoi progetti per il resto della sera?» Pat mi aspettò sulla porta mentre andavo a pescare il mio cappello. «Dato che tu hai buttato all'aria tutti i miei piani, devo tornare in ufficio per sbrigare un poco di lavoro. E voglio anche sapere se hanno trovato i due soci di Rainey. Sai, non ti sei sbagliato sul loro conto. Si sono volatilizzati, letteralmente.» «E che cosa hanno fatto dell'arena di Gleenwood?» «L'hanno venduta a un certo Robert Hobart Williams. L'atto di cessione, a quanto pare, è perfettamente in regola.» «Dinky... Clyde! Che sia dannato!» «Già, ci ho pensato anch'io. L'ha comperata per un boccone di pane. Ed Cooper dà la notizia questa sera nelle colonne del Globe, con tutti i sottintesi di rigore in casi del genere.» «Che sia dannato!» ripetei. «In questo modo viene ad essere stabilito in maniera più che lampante il rapporto fra Rainey e Clyde, non ti pare?» Pat si strinse nelle spalle. «E chi può dimostrarla? Rainey è morto e i suoi soci sono scomparsi. Non è, quella, l'unica sala di pugilato di proprietà di Clyde. È apparso chiaro ora che egli ha interessi in più di un impianto sportivo.» Stavo per chiudere la porla quando mi ricordai il motivo che mi aveva spinto a salire a casa. Pat mi aspettò nel corridoio ed io tornai nella stanza da letto ed aprii l'ultimo cassetto dell'armadio. La Luger era al suo posto, in una scatola, bene avvolta in stracci oleati. Controllai il caricatore, feci scivolare un proiettile in canna e sistemai l'arma nella fondina. Non era il suo astuccio, certo, ma stava abbastanza bene là dentro. Per quello che mi riguardava, mi sentii subito meglio.
La neve, la maledetta neve. Cadeva lentamente, quasi pigramente, ma era cosi fitta da bloccare la visuale al di là di una decina di metri. Il traffico era lentissimo, e molti erano coloro che lasciavano la macchina vicino al marciapiede per servirsi della sotterranea. Davanti all'ufficio, trovai uno spiazzo libero, e mi affrettai a parcheggiare lì il mio macinino. Entrai proprio nel momento in cui Velda stava per uscire; quando scesi dall'ascensore ella si stava preparando infatti a chiudere la porta. Non ebbi bisogno di chiederle di tornare ad aprire. Quando gettò il suo cappotto sul mio, la guardai e mancò poco che tornassi a lasciarmi eccitare. Era ancora più bella dell'ultima volta che l'avevo vista. Le domandai: «Dove andavi?» Prese dal cassetto una bottiglia e mi versò uno whisky puro. Aveva un sapore delizioso. «Mi ha chiamato Clyde. Voleva sapere se il mio "più tardi" di ieri voleva dire oggi.» «E tu che cosa gli hai risposto?» «Gli ho risposto: forse.» «E dove deve aver luogo questo grande avvenimento?» «A casa sua.» «Sei riuscita davvero a conquistare quell'uomo. Come mai per te trascura persino il suo lavoro alla Inn?» Velda mi diede una rapida occhiata, poi fissò lo sguardo altrove, Mentre prendevo la bottiglia, mi disse: «Sei stato tu a chiedermelo.» Le bastava guardarmi così, quando mi comportavo a quel modo, per darmi subito la sensazione di uscire dritto da una fogna. «Scusami, bimba. Sono geloso, credo. Ti ho sempre considerato come una specie di mobile qui dentro, ed ora che corro il rischio di perderti mi sento salire i fumi alla testa.» Il suo sorriso fu come un raggio di sole nella stanza. Si piegò in avanti e tornò a riempire il mio bicchiere. «Vorrei sentirti parlare così più spesso, Mike.» «La penso sempre così, anche se non lo dico. E adesso raccontami un poco che cosa hai fatto a quell'individuo.» «Recito la parte della ragazza facile ad aversi ma difficile ad abbordarsi. Vi sono occasioni in cui la virtù abbinata ad un poco di ritrosia dà risultati stupefacenti. Negli occhi di Clyde comincia ad apparire ben chiara quella certa espressione che tu forse conosci. Mi ha già proposto di diventare la sua amante, con una velata allusione persino ad una licenza di matrimonio, se proprio lo desidero.»
Misi il bicchiere sulla scrivania. «Puoi smettere di recitare la tua parte quando vuoi, Velda. Intendo cominciare ad occuparmi personalmente di Clyde.» «Credevo di essere io la padrona qui dentro,» replicò, sorridendo. «Certo che lo sei... per quello che riguarda l'agenzia. Fuori dall'agenzia, il padrone sono io.» La presi fra le braccia e la costrinsi a guardarmi in faccia. La sua vicinanza mi ispirò pensieri che, in quel momento, non avevo tempo di approfondire. «Ce n'ho messo però di tempo a capirla, vero?» «Troppo, Mike.» «Comprendi che cosa sto cercando di dirti, Velda? Non ho nessuna intenzione di scherzare con te. Io...» Le mie dita le facevano male, ma era una cosa più forte di me. «Voglio sentirtelo dire, Mike. Hai avuto tante altre donne che non posso crederci se non te lo sento dire. Dillo, Mike, ti prego.» C'era nei suoi occhi una supplica disperata. La sentivo tremare contro di me, e non era perchè le mie mani le facevano male. Sapevo che sul mio viso stava succedendo qualcosa che non riuscivo a controllare. Le parole erano come inchiodate nella mia gola. Scossi la testa per interrompere l'infernale sinfonia che si era scatenata nel mio cervello e mormorai. «No... no! Oh, mio Dio, non posso, Velda, non posso.» Sapevo perfettamente che cosa mi stava capitando. Avevo paura. Una paura terribile che appariva evidentissima dal mio viso e dal modo in cui traversai la stanza con passo incerto e mi lasciai cadere su una poltrona. Velda si inginocchiò sul pavimento davanti a me, e il suo volto era una specie di macchia bianca che continuava a baciarmi. Le sue mani mi carezzavano i capelli ed io sentivo, vicinissimo, il piacevole sentore femminile di pulizia e di bellezza che le era caratteristico, ma quella maledetta sinfonia non ne voleva sapere di troncarsi. Mi chiese che cosa era accaduto e glielo dissi. Ma non era questo. Era qualcosa d'altro. Volle sapere di che cosa si trattava, a tutti i costi, e la voce che mi implorava era mezzo soffocata dai singhiozzi. Bastò questo a darmi la forza di ritrovare le parole. Dissi: «Niente bacio della morte per te, bimba. Ho creduto di amare una donna prima di te. Le ho detto che l'amavo. È morta, e non voglio che muoia anche tu, bimba.» Le sue mani erano sulle mie, dolci, buone. «Mike... a me non accadrà niente.» La mia memoria fece un salto indietro nel tempo: a Charlotte.
«È inutile, Velda. Forse, quando tutto sarà finito, sarà diverso. Non posso a meno di pensare a quella donna che è morta. Mio Dio, se dovessi levare ancora la mia rivoltella contro una donna, credo che morirei prima di aver trovato la forza di premere il grilletto. Da quanto tempo quei capelli biondo oro e quel volto meraviglioso sono scomparsi? Eppure sono ancora qui. So che quella donna è morta, e continuo a sentire la sua voce...» «Mike, no... Fallo per me, ti prego... no!» Mi mise a forza in mano un bicchiere. Lo vuotai di un fiato: il selvaggio rombo della musica si tacque ed io ritrovai la mia calma. Dissi: «È finito, cara, grazie.» Ella sorrideva, ma il suo viso era ancora umido di lacrime. La baciai sugli occhi e sulla fronte. «Quando questa storia sarà finita, ci prenderemo un periodo di vacanza. Preleveremo tutti i soldi che ci sono in banca e ci cercheremo un angolino dove nemmeno sanno che cosa sia il delitto.» Mi lasciò fumare una sigaretta mentre andava a rinfrescarsi un poco il viso. Rimasi seduto in poltrona, troppo stanco per pensare a qualcosa, cercando di ritrovare il controllo dei miei nervi, troppo spesso sottoposti a durissime prove. Velda tornò di lì a poco, stretta nell'abito grigio che modellava tutte quante le sue forme. Aveva le più meravigliose gambe di questo mondo, e nulla v'era in lei che non fosse bello e adorabile. Non era difficile capire perchè Clyde la desiderava. Chi non l'avrebbe desiderata? Mi prese la sigaretta di bocca ed aspirò una lunga boccata. «Vado da Clyde questa sera, Mike. Voglio sapere quale minaccia tiene sospesa sulla testa di tanta gente, come può avere influenza su gente tanto importante da avere mano nella nomina di alti funzionari, di giudici e persino di governatori. Di che genere di ricatto può trattarsi?» «Continua, Velda.» «Ha frequenti colloqui con alti personaggi del genere. Gli telefonano di continuo alle ore più impensate. Non gli chiedono mai niente, anzi, sono sempre loro a dare qualcosa. Qualcosa che Clyde accetta come se gli fosse più che giustamente dovuta. Voglio sapere con quali mezzi li ricatta.» «E tu credi di trovare qualcosa del genere in casa di Clyde?» «No, Clyde ha tutto quanto qui dentro.» Si batté una mano sulla fronte. «Ma non è furbo al punto da potersi ritenere al sicuro da tutti gli assalti.» «Fa' attenzione, Velda, fa' molta attenzione con un tipi del genere. Ha le braccia troppo lunghe e riesce a conservare le mani troppo pulite per essere davvero un ingenuo. Bada bene a quello che fai.»
Sorrise, mentre si infilava i guanti. «Farò molta attenzione. Se si spinge troppo oltre, seguirò l'esempio di Anton Lipsek: comincerò ad insultarlo in francese.» «Ma tu non conosci il francese.» «Nemmeno Clyde lo conosce. Ed è proprio questo a farlo uscire dai gangheri. Anton lo insulta in francese e ride sgangheratamente. Clyde diventa rosso come un tacchino, ma non muove un dito.» C'era qualcosa di poco chiaro sotto tutto questo, e glielo dissi. «Clyde non è tipo da lasciarsi insultare da una mezza cartuccia come Anton. È un miracolo che non lo abbia ancora fatto eliminare da uno dei suoi scagnozzi.» «Eppure lascia fare. Incassa e si limita a rodersi il fegato. Forse Anton sa qualcosa su di lui.» «Può darsi,» convenni. «Sono cose che capitano.» Si infilò il cappotto e si guardò nello specchio. Era inutile, perchè non si può migliorare quello che è già perfetto. Avvertii per una seconda volta il morso della gelosia e fissai gli occhi altrove. Quando, dopo una accurata ispezione, si sentì soddisfatta, Velda si chinò su di me e mi baciò. «Perchè non ti fermi qui questa notte, Mike?» «Certo, se dopo vieni qui anche tu.» Uscì in una risata un poco rauca e tornò a baciarmi. «Sì, a condizione che tu te ne vada quando arrivo. Può darsi che faccia tardi, ma la mia virtù rimarrà intatta, te lo assicuro.» «Lo spero bene.» «Buona notte, Mike.» «Arrivederci, Velda.» Tornò a sorridermi, poi la porta si chiuse alle sue spalle. Se avessi avuto per le mani Clyde in quel momento, lo avrei fatto a pezzi, letteralmente. Anche la sigaretta che stavo fumando aveva un gusto perfido. Presi il telefono e chiamai Connie. Non era a casa. Provai con Juno, e stavo per interrompere la comunicazione quando ella rispose. Dissi: «Qui parla Mike, Juno. È tardi, lo so, ma mi stavo domandando se eravate occupata.» «No, Mike, niente affatto. Volete salire da me un momento?» «Con molto piacere.» «Ed io con molto piacere vi aspetto. Fate in fretta, Mike.» In fretta? Davanti a parole simili, il minimo che si poteva fare era traversare la città di volo.
Juno mi accolse, sorridendo, sulla soglia dell'Olimpo, bellissima nell'abito di stoffa variegata che mutava colore ad ogni minimo movimento del suo corpo. «Non posso stare lontano da voi, a quanto pare, Juno.» I suoi occhi assunsero per un istante la stessa tinta variegata della stoffa del suo vestito. «Vi aspettavo, Mike.» Soltanto la radio suonava, ma sarebbe potuto essere un coro angelico, destinato a fare da sfondo allo splendore dell'ambiente. Juno aveva disposto l'Olimpo in modo da far desiderare ad un mortale di lasciare questa terra. L'unica illuminazione della stanza di soggiorno era rappresentata da due lunghe candele di cera le cui fiamme disegnavano ombre danzanti sul muro. Al centro della stanza c'era una tavola preparata in maniera deliziosa. Mangiammo qualcosa di cui non riuscivo nemmeno a sentire il gusto perchè non ce la facevo a distaccare gli occhi da lei, da quel suo diabolico vestito che mutava colore ad ogni guizzo delle candele. Come al solito, ella aveva lasciato scoperti soltanto il viso e le mani. Mani stupende, lunghe ed eloquenti: mani da dea. Passammo poi nella biblioteca, dove ci aspettavano le sigarette e le bottiglie del bar. Ella andò a sedersi davanti a me, sul divano, e rovesciò la testa per appoggiarla ai cuscini. «Perchè non siete venuto prima?» mi chiese. «Ho avuto un mucchio di cose da fare, da quando ci siamo visti l'ultima volta.» «Cose di che genere?» «Lavoro.» Una delle sue dita mi sfiorò una grossa abrasione alla mascella. «E questa dove ve la siete procurata?» «Lavoro.» Rise, poi, quando notò la mia espressione, tornò a farsi seria. «Ma come...» «Non mi sembra l'argomento di conversazione più adatto, Juno. Forse, un giorno o l'altro, vi racconterò tutto quanto.» «Va bene, Mike.» Appoggiò la sigaretta al portacenere e mi prese una mano. «Volete che balliamo, Mike?» Pronunciò il mio nome come se fosse stato qualcosa di particolare, di prezioso. Il suo corpo era caldo e morbido, la musica dolce ed insinuante. Ci tenevamo abbastanza distanti l'uno dall'altra da poter leggere i rispettivi pensieri nelle fuggitive espressioni che si succedevano sui nostri visi. Alla fine
non riuscii più a dominarmi e cercai di attirarla a me, ma ella si abbandonò a una risata argentina e si scostò con una agile giravolta che le fece sollevare un poco la sottana attorno alle gambe. L'orchestra, dopo un attimo di intervallo, attaccò un valzer lento, e Juno mi fu di nuovo accanto; ma io scossi la testa. Ne avevo abbastanza... più che abbastanza. Quel non so che che ella aveva messo nel ballo mi dava la sensazione di qualcosa di assolutamente nuovo, di qualcosa che non avevo mai conosciuto. Non era il primitivo riflesso animale cui ero abituato, non era la passione che fa nascere il desiderio di stringere, di mordere, di prendere quello che si vuole, a costo di dover far ricorso alla forza. Era qualcosa che mi faceva uscire di senno perchè non sapevo di che si trattasse, e non mi piaceva affatto questo qualcosa, questa abitudine degli dei. Così tornai a scuotere la testa, con energia ancora maggiore. La presi per un braccio, ed ella scoppiò ancora a ridere, perchè sapeva che cosa stava succedendo dentro di me, e ne era felice. «Basta, Juno, smettiamola con questo gioco. Mi fate capire più chiaramente che mai che vi desidero, ed ora, devo avere altro per la testa, capite?» «No,» mi rispose ella, socchiudendo gli occhi. «Sono io che desidero voi, Mike. Farò il possibile per avervi. Nulla riuscirà a fermarmi. Non ho mai incontrato nessuno come voi.» «Più tardi.» «Adesso.» E forse l'avrebbe spuntata, se la luce non fosse andata a cadere sui suoi capelli — la luce gialla di una candela che li trasformò in quell'oro che tanto odiavo. Allora la spinsi sul divano e mi diressi verso il mobile del bar. Ella rimase là, distesa, ad aspettarmi in posa languida, ed io lottai e lottai fino a quando non riuscii a ritrovare il controllo di me stesso. Se ne accorse, e mi sorrise, buona. «Siete ancora più forte di quanto pensassi, Mike. Siete un uomo, ma avete gli istinti di una belva della jungla. Tutto deve accadere quando voi volete, vero?» Vuotai un bicchiere con un solo sorso. «Non prima,» dissi. «È, questa, una caratteristica che mi piace moltissimo in voi, Mike.» «Piace anche a me. Mi evita un mucchio di guai.» Tornai a riempire il bicchiere e andai a sedermi sul bracciolo del divano, di fronte a lei. «Che cosa sapete di me, Juno?» «Ben poco,» ammise. «Ma ho già sentito parlare di voi.» Prese dal tavolino una sigaretta, l'accese e soffiò una pigra nuvola di fumo verso il soffit-
to. «Perchè?» «Vi dirò perchè sono quello che sono. Sono un poliziotto. In spirito soltanto, per il momento, ma non molto tempo fa avevo una licenza e una rivoltella. Mi hanno portato via l'una e l'altra perchè ero con Chester Wheeler quando si è servito della mia rivoltella per suicidarsi. Ed è stato, questo, un grosso errore, perchè Chester Wheeler non si è suicidato: è stato ucciso. È stato ucciso anche un certo Rainey. Due delitti e un bel mucchio di gente spaventata. L'individuo che voi conoscete come Clyde è un poco di buono di piccolo bordo, un certo Dinky Williams; oggi, chissà come, è salito tanto in alto che nessuno può levare un dito su di lui, tanto in alto da poter dettar legge ai dittatori. «E la storia non è ancora finita. Qualcuno desidera farmi fuori, lo desidera al punto da non esitare a provarcisi una prima volta per strada ed una seconda volta nel mio stesso appartamento. Fra un attentato e l'altro, ha fatto del suo meglio per far ricadere su di me la colpa dell'assassinio di Rainey, e, se non avessi buone carte nella manica anch'io, a quest'ora sarei in prigione. E tutto questo perchè un certo Chester Wheeler è stato trovato morto in una camera d'albergo. Una bella storia, vero?» Sarebbe stato troppo chiederle di afferrare subito la situazione. Cominciò a morsicarsi le unghie, ed una profonda ruga le si disegnò sulla fronte. «Mike...» «Oh, è piuttosto complicato, lo so,» la interruppi, con un tono più calmo. «Quasi sempre il delitto è complicato. E questo è così maledettamente complicato che io sono il solo a cercare un assassino, mentre tutti gli altri continuano a tenersi stretti alla teoria del suicidio... tutti gli altri con l'eccezione di Rainey, bene inteso. Si tratta di un lavoretto fatto proprio per benino, devo riconoscerlo.» «È spaventoso, Mike! Non mi ero mai resa conto che...» «E non è ancora finito. Per il momento ho un paio di idee ben fisse in testa. E ci sono frammenti di idee che fanno del loro meglio per trovare il loro posto. Ho dormito troppo poco ed ho dovuto affrontare prove troppo dure, in questi ultimi giorni, per essere in grado di ragionare come si deve. Pensavo che, se fossi venuto da voi, avrei trovato modo di riposarmi un poco.» Sorrisi. «Ma non mi siete stata del minimo aiuto, anzi, non avete fatto che aumentare la confusione nella mia povera testa. Adesso non farò altro che pensare a voi.» «Lo spero, Mike,» mi sussurrò. «Devo andare a dormire in qualche posto, ora,» continuai. «Devo dormi-
re almeno per un giro completo del quadrante dell'orologio. E, quando mi sveglierò, i frammenti di idee che ho in testa andranno a posto, e io avrò trovato un altro assassino. È forte, quel bastardo... forte abbastanza da torcere il pugno di Wheeler, un uomo robusto la sua parte, e da costringerlo a farsi saltare le cervella. Forte abbastanza da attaccarmi a casa mia e da mancare per un soffio il successo. Ma la prossima volta le cose andranno diversamente. Sarò pronto, e con queste mani torcerò il collo a quel figlio di puttana.» «Quando tutto quanto sarà finito, tornerete, Mike?:» Mi calcai il cappello in testa ed abbassai gli occhi su di lei. Appariva così maledettamente bella e desiderabile che sentii il desiderio di fermarmi. Dissi: «Tornerò, Juno, e voi ballerete per me... Da sola. Io vi guarderò ballare, e voi mi farete vedere come ci si diverte nell'Olimpo. Comincio ad averne abbastanza di essere un semplice mortale.» «Ballerò per voi, Mike. Vi farò vedere cose che non avete mai visto prima. L'Olimpo vi piacerà. È diverso quassù, le cose non sono quali sono sulla terra. Avremo una vetta tutta per noi, ed io farò in modo che voi desideriate rimanerci, per sempre.» «Ci vuole una donna eccezionale per farmi desiderare di restare a lungo in qualche posto.» Si passò la lingua sulle labbra, mentre un lampo di desiderio le passava negli occhi. Si piegò un poco in avanti, mettendo in evidenza tutti i morbidi contorni del suo corpo. «Riuscirò ad essere una donna eccezionale,» bisbigliò. Il suo sguardo m'invitava, mi sfidava ad andarle accanto, a strapparle quella maledetta stoffa che la copriva perchè sapessi una volta per sempre come era fatta la carne di una dea. Mossi un passo avanti, e, per una frazione di secondo, ella dovette pensare che avessi trovato il coraggio di osare, perchè i suoi occhi si fecero ancora più grandi, le sue spalle sussultarono, e nelle sue pupille apparve chiaro, al di là del desiderio, la ritrosia istintiva della donna davanti agli attacchi del maschio da lei provocato. Ma non fu questo a fermarmi. Voltai la testa altrove perchè c'era qualcosa d'altro, qualcosa che non potevo capire e che mi stringeva, con una mano gelida, la spina dorsale. Le augurai la buona notte. L'occhiata che mi rivolse non fece che accrescere il mio malessere, e mi precipitai fuori, letteralmente. Liberai alla meno peggio la macchina dalla neve che l'aveva coperta a mezzo, andai all'albergo più vicino, mi feci dare una stanza, salii, e poco dopo dormivo pro-
fondamente. 9 Dormii di un sonno di morte, ma i morti non sono turbati dai sogni dei vivi. Parlavo, e nel silenzio sentivo la mia voce — la mia voce che poneva domande e che esigeva risposte, risposte che non venivano, e bastava questo a far centuplicare la mia rabbia. Un'infernale processione di visi mi sfilava davanti agli occhi, e le risate di questi visi non facevano che aumentare il rombo della ormai ben nota sinfonia infernale, una sinfonia che si faceva sempre più forte, sempre più forte, sempre più forte, che si sforzava di far sprofondare la ragione fino al fondo del mio cervello, tanto in fondo da non darle più la possibilità di risalire. La mia voce gridava, gridava di smetterla, ma era soffocata dal coro demoniaco di risa. E sempre quei visi. Sempre quel viso con i capelli d'oro, capelli di un giallo cosi intenso da sembrare quasi bianchi, che rideva e comandava ai tamburi infernali di battere, di martellare, di martellare il ritmo sul quale sfilava la processione dei morti. E la mia voce che tentava di gridare non era che un brontolìo rauco: «Charlotte, ti ucciderò una seconda volta, se sarà necessario... Charlotte... Charlotte l'assassina!» E improvvisamente apparve un altro viso, un viso dai capelli neri come l'ebano, neri come una notte senza luna. Un viso dalla bellezza pura, dallo sguardo così dritto da poter sfidare i morti, un viso che ordinò ai morti e ai tamburi di scomparire. E morti e tamburi sparirono. Sentii la mia voce che diceva: «Velda, sia ringraziato Iddio! Velda, Velda, Velda...» Mi svegliai. L'orologio si era fermato, e nessuna luce filtrava dalle finestre. Diedi uno guardo al cielo: era nero e punteggiato di stelle che facevano piovere il loro incerto bagliore sulla strada sottostante, coperta di neve. Sollevai il ricevitore del telefono interno e chiesi: «Che ora è? Parla Hammer, camera 541.» Dopo una breve pausa l'impiegato rispose: «Sono le nove meno cinque, signore.» Lo ringraziai e interruppi la comunicazione. Le sfere avevano fatto non uno, ma quasi due giri completi di quadrante. Non mi ci vollero più di dieci minuti per vestirmi e scendere al ristorante, dove consumai una cena piuttosto rapida, ma sostanziosa. Appena terminato, accesi una sigaretta e chiamai Velda. La mia mano tremava intorno al ricevitore. Dissi: «Pronto, bellezza. Sono io, Mike.»
«Oh, Mike, dove sei stato? Ero letteralmente fuori di me.» «Calmati, cara. Ho dormito, semplicemente. Sono sceso ad un albergo ed ho dato ordine di non disturbarmi fino a quando non mi fossi svegliato. Come te la sei cavata con Clyde? Sei riuscita a sapere qualcosa?» Soffocò un singhiozzo, ed io irrigidii le mani, nel gesto di chi sta strangolando qualcuno. Clyde aveva ancora poco tempo da vivere. «Mike...» «Avanti, Velda.» Non avevo nessuna voglia di sentire, ma dovevo. «È mancato... è mancato poco che ci riuscisse.» Clyde aveva le ore contate, questo era certo. «Raccontami tutto, Velda.» «Mi desidera più che mai, Mike. Mi sono studiata di fargli perdere la testa, ed è mancato poco che avessi a pentirmene. Se non fossi riuscita a farlo ubriacare... non so come sarebbero andate a finire le cose... ma sono riuscita a convincerlo ad aspettare. Era fradicio, ed ha cominciato a vantarsi della posizione che ha raggiunto. Ha detto di essere in grado di governare la città come vuole. Ha detto cose che avevano lo scopo di impressionarmi e che sono riuscite ad impressionarmi, Mike. Sta ricattando alcune delle personalità più in vista della città. E tutto questo ha qualcosa a vedere con la Inn di Bowery.» «Sai di che cosa si tratta?» «Non ancora, Mike. Pensa che io sia per lui la compagna ideale. Mi ha assicurato che mi dirà tutto, se... se io... Oh, Mike, che cosa devo fare? Che cosa devo fare? Odio quell'uomo, e non so cosa fare!» «Quel sudicio bastardo!» «Mike, mi ha dato la chiave del suo appartamento. Mi aspetta questa sera. Mi dirà tutto, e disporrà le cose in modo da potermi prendere con sé. Mi desidera, Mike.» Avevo la precisa impressione che qualcosa mi rodesse lo stomaco. «Smettila, accidenti! Non farai niente di niente, tu!» La sentii singhiozzare, e mancò poco che strappassi il telefono dal muro. Il sangue mi martellava così forte nella testa che quasi non riuscivo a sentire quello che ella mi diceva. «Devo andare, Mike, devo. Solo così riusciremo a sapere.» «No!» «Mike... non cercare di fermarmi, ti prego. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con... con quello che hai fatto tu. Non metto a repentaglio la mia vita. Cerco di fare semplicemente del mio meglio come te, perchè... perchè è importante. Andrò a casa sua a mezzanotte, Mike, e allora sapremo. E, quando sapremo, non ci vorrà poi molto.»
Non sentì quello che gridavo nell'apparecchio perchè aveva interrotto la comunicazione. Non c'era modo di fermarla. Sapeva che avrei fatto il possibile per impedirglielo, e non sarebbe certo rimasta dov'era ad aspettarmi. Mezzanotte. Avevo a disposizione tre ore di tempo. Non era affatto divertente la mia situazione. Pescai in tasca un altro nikel e chiamai Pat. Non era a casa: ma riuscii a trovarlo in ufficio. Gli dissi che ero io, senza dare il mio nome, ed egli, dopo un secco saluto, mi rispose che sarebbe stato al solito bar di lì a dieci minuti, se avevo bisogno di vederlo. Lo scatto dell'interruttore mi suonò, secco, all'orecchio mentre interrompeva la comunicazione. Rimasi per qualche istante immobile, gli occhi fissi al ricevitore. Quando mi fermai davanti al locale dove ci eravamo trovati tante e tante volte, Pat non mi lasciò neppure il tempo di scendere. Prima ancora che avessi modo di rendermene conto, era seduto accanto a me, in macchina, e mi faceva segno di partire al più presto. «Hanno ascoltato la nostra conversazione,» spiegò, «e può darsi che siamo seguiti.» «Gli uomini del giudice distrettuale?» «Già. E sono nel loro pieno diritto. Ho smesso di essere un poliziotto da quando ho mentito per favorirti. Merito tutte le indagini a cui credano opportuno sottopormi.» «Ma perchè tutta questa segretezza?» Pat mi diede una rapida occhiata, poi fissò gli occhi altrove. «Sei ricercato per omicidio. C'è un mandato di cattura nei tuoi confronti. Il giudice distrettuale ha trovato un altro testimone al posto dei due che gli sono sgusciati fra le mani.» «Chi?» «Un tale di Gleenwood. Ha riconosciuto la tua foto, e in tal modo è stata definitivamente stabilita la tua presenza là quella sera. Il nuovo testimone, nelle ore di libertà, vende biglietti all'arena.» «E così tu vieni a trovarti in una situazione piuttosto difficile.» «Già,» mormorò Pat. Sbucammo in Broadway. «Dove andiamo?» chiesi. «Al ponte di Brooklyn. Una ragazza ha fatto il salto. e devo andare a dare un'occhiata. Ordine del giudice distrettuale. Cerca di rendermi la vita difficile, facendomi trottare a destra e a manca, e intanto si prepara a vibrarmi il colpo, quando i suoi uomini avranno ricostruito con esattezza l'uso che ho fatto del mio tempo, la sera che sarei dovuto essere a casa tua.»
«Può darsi che ci mettano tutti e due nella stessa cella,» osservai. «Oh, smettila!» «Se vuoi, potrai lavorare nella mia drogheria... mentre io sconto la mia bella condanna.» «Ti ho detto di smetterla Non mi sembra davvero il momento di fare sfoggio di tanta allegria.» Avevo i denti stretti, ma riuscii egualmente a sorridere. «Ho tutti i motivi per sentirmi allegro, amico. Presto un assassino ci lascerà le penne. Me la sento nel sangue.» Pat non rispose. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, e rimase immobile, in quella posizione, fino a quando non andai a fermarmi vicino al marciapiede, sotto il ponte. Un'ambulanza ed una macchina della polizia ci avevano preceduto, ed un'altra macchina della polizia stava arrivando quando Pat scese. Mi disse di aspettarlo, senza muovermi di lì. Promisi che sarei stato bravo, e lo seguii con gli occhi mentre traversava la strada. Ma non appena mi ritrovai solo, ricominciai a pensare a Clyde, a Velda, a quello che sarebbe successo di lì a poco. Fumavo una sigaretta dietro l'altra e continuavo a consultare l'orologio. Dopo venti minuti, non ne potei più: malgrado i rischi che correvo, decisi di andare a vedere che cosa tratteneva Pat tanto a lungo. C'era un gruppo di persone intorno al cadavere; l'ambulanza se n'era andata, ed al suo posto era arrivato il furgone della morgue. Pat, inginocchiato accanto al corpo, cercava, senza successo, qualche segno di identificazione. Il raggio luminoso della sua torcia elettrica batteva in pieno sul volto della morta. Dopo qualche istante Pat si drizzò e tese ad uno degli agenti un foglio di carta che aveva evidentemente trovato nelle tasche dell'annegata. L'agente lesse a voce alta: «Mi ha lasciato.» Poi aggiunse: «È tutto, capitano. Niente firma, niente nome. Non c'è altro.» Pat annuì, ed i miei occhi tornarono a fissarsi sul viso della morta. Gli uomini del furgone sollevarono il cadavere e lo sistemarono nella cesta di vimini. Pat disse loro di classificarlo fra i «non-identificati» fino a quando la polizia non fosse riuscita a sapere qualcosa di più. Diedi un'ultima occhiata a quel volto. Il furgone si allontanò, e il piccolo gruppo cominciò a disperdersi. Mi diressi verso la macchina. Quel viso pallido al punto da sembrare diafano... labbra socchiuse, palpebre abbassate... Mi appoggiai ad una palizzata, gli occhi fissi nella notte, le orecchie tese al concerto cacofonico della città.
Pensavo sempre a quel viso. Un taxì frenò bruscamente a pochi passi da me. ed io ritenni più opportuno ritirarmi nell'ombra. Ma l'ometto che correva gesticolando verso gli agenti non era un funzionario di polizia, e parlava inglese con un tono molto gutturale. Chi si stava allontanando tornò precipitosamente sui propri passi. Seguii gli altri, senza fretta, e, al disopra delle teste del piccolo crocchio, sentii la voce di Pat dire all'uomo di calmarsi e di cominciare da principio. L'altro annuì, prese una sigaretta che gli veniva offerta, ma non se la mise in bocca. «Sono capitano, capite,» disse. «Capitano di marina. Siamo passati due ore fa sotto il ponte, e tutto era così tranquillo che mi sono seduto sul bastingaggio a guardare il cielo. Sempre osservo il ponte quando ci passo sotto. Ammiro le auto che ci passano sopra, e mi meraviglio di tutte le belle cose che ci sono in questo nostro paese. «E allora la vedo, capite? Sta lottando con un uomo, e non può gridare perchè quello le tiene una mano sulla bocca. Vedo tutto, ma non posso farci niente, perchè sulla maona non abbiamo altro che il megafono per chiamare. Tutto quanto si svolge come in un lampo. L'uomo la solleva e la ragazza precipita a capofitto. Penso sulle prime che sia caduta sull'ultima maona della fila, e corro, e grido, ma invece è andata a finire dritta nell'acqua. Ho dovuto perdere tempo a trovare qualcuno che prendesse il mio posto sulla maona, poi ho subito chiamato la polizia. «La polizia mi ha detto di venire qui. Qui c'eravate voi. La ragazza era già stata ripescata. Ecco che cosa sono venuto a dirvi, capite?» Pat rispose: «Capisco perfettamente. Avete visto l'uomo con il quale la ragazza lottava?» Il capitano annuì vigorosamente. «Sareste in grado di identificarlo?» «Volete dire se sarei in grado di riconoscerlo e di proclamare: è lui? Oh, no.» Sollevò le mani e si strinse nelle spalle. «Aveva un cappello, un cappotto. Ha sollevato la ragazza e l'ha lasciata andare nel vuoto. Non ho visto la sua faccia, perchè ero troppo eccitato.» Pat si rivolse ad uno degli agenti. «Prendete nome ed indirizzo di quest'uomo. Avremo bisogno della sua testimonianza.» Mentre l'agente scriveva sotto dettatura sul taccuino, Pat chiese se, fra i presenti, c'era per caso qualche altro testimone. Ma non ebbe tempo di ripetere la sua domanda, perchè, in un attimo, la piccola folla si sbandò, come se tutti si fossero improvvisamente ricordati di qualche appuntamento
urgente. Pat assunse una espressione sarcastica, brontolò qualcosa fra i denti e si diresse verso la macchina dove avrei dovuto aspettarlo. Traversai obliquamente la strada, in modo da arrivargli accanto. «Bello quel cadavere, vero?» dissi. «Mi sembrava di averti pregato di non scendere. Tutti quei poliziotti ti hanno sulla loro lista.» «E con ciò? Credo di essere sulla lista di molte persone, in questi giorni. Che cosa pensi di quella ragazza?» «Non identificata. Probabilmente una lite amorosa. Aveva un paio di costole rotte e il collo spezzato. Doveva essere già morta quando è piombata in acqua.» «E il biglietto? L'amico glielo ha ficcato in tasca prima di farla volare al di là della balaustra?» «Hai orecchie abbastanza lunghe, se non mi sbaglio. Si, proprio cosi sembra. Probabilmente avevano litigato prima, lui l'ha invitata a fare quattro passi, poi si è sbarazzato di lei.» «Deve essere piuttosto robusto per averla conciata a quel modo, no?» Pat annui. «Già, se è arrivato al punto di romperle le costole.» Aprii la portiera e scivolai dietro il volante. Pat prese posto accanto a me. «Non forte, fortissimo deve essere,» continuai, meditabondo. «Io non sono una mammoletta, ma so che cosa vuol dire trovarsi contro un bastardo del genere.» Poi tacqui, in attesa della sua reazione. Una espressione incredula cominciò a dipingersi sul suo viso. «Un momento. Parliamo di due cose diverse, amico. Non cercherai di farmi credere che è stato...» «Sai chi era quella ragazza, Pat?» «Ti ho già detto che non siamo ancora riusciti ad identificarla. Non aveva borsetta. Ma, seguendo la traccia dei suoi vestiti, arriveremo a sapere chi era.» «Ci vorrà un mucchio di tempo.» «Conosci per caso qualche sistema migliore?» «Sì,» dissi, «mi capita proprio di conoscerlo.» Cavai di tasca una busta piena di fotografie e la tesi a Pat. Egli fece scattare l'interruttore della luce e cominciò ad esaminarle distrattamente, a una a una, fino a quando non si trovò dinanzi proprio quella che desideravo vedesse. Allora rimase per un istante come impietrito, poi mi guardò con aria scoraggiata. «Si chiamava Jean Trotter, Pat,» dissi. «Era indossatrice all'agenzia An-
ton Lipsek, e si era licenziata improvvisamente pochi giorni fa, per sposarsi.» Non sapevo che avesse una conoscenza così vasta nel difficile campo delle imprecazioni. Aprì a ventaglio le altre foto, come se si trattasse di carte da gioco, mentre nei suoi occhi balenavano lampi d'ira niente affatto simpatici. «Fotografie, fotografie! Maledizione, Mike, a che cosa diavolo ci troviamo di fronte? Sai che cosa erano quei frammenti bruciacchiati che hai pescato in casa di Emil Perry?» Scossi la testa. «Fotografie!» sbottò. «Pezzi di fotografie troppo carbonizzati perchè sia possibile ricostruire che cosa rappresentavano.» Poco mancò che il volante mi si spezzasse fra le mani, tanta fu la furia con la quale partii. Pat aveva ripreso la foto di Jean Trotter e continuava ad esaminarla alla luce del cruscotto di bordo. Il respiro gli usciva dai polmoni con una specie di sibilo. «Finalmente possiamo lavorare alla luce del giorno. Se sarà necessario, darò ordine a tutta quanta la brigata di interessarsi a questa storia. Dammi una settimana, e il nostro uomo sarà pronto a presentarsi in tribunale.» «Una settimana un accidente. Abbiamo due ore soltanto. Sei riuscito a ricavare qualcosa da quel frammento di stoffa che ti ho dato?» «Sì e no... Abbiamo trovato il negozio dove il capo è stato venduto... più di un anno fa. Il commesso lo ricorda benissimo — si trattava di un capo piuttosto elegante — ma non ricorda assolutamente chi l'ha acquistato. È stato pagato a contanti, e l'acquirente non ha di conseguenza lasciato né nome né indirizzo. Il nostro assassino è un tipo piuttosto in gamba.» «Finirà per rimetterci le penne. Presto o tardi ce le rimettono tutti.» Lasciai Pat davanti agli uffici dello stato civile. Dato il suo grado sarebbe riuscito certo ad ottenere abbastanza facilmente una copia del certificato di matrimonio di Jean Trotter. Dovevamo sapere chi aveva sposato, e dovevamo ritrovare questo marito. Pat aveva tenuto la foto della ragazza. In caso di necessità, poteva servire, se non altro, a rinfrescare certe memorie. «E tu intanto che cosa farai?» mi chiese Pat. Diedi un'occhiata all'orologio. «Prima cercherò di raccogliere informazioni sulla ragazza da un'altra fonte. Poi andrò a interrompere una scena di seduzione prima, molto prima che le cose arrivino al punto culminante.» Lasciai Pat sul marciapiede, piuttosto perplesso, andai a fermarmi davanti ad un emporio, ad un paio di isolati di distanza, telefonai a Juno. Non c'era. Chiamai allora Connie. Era a casa. Mi avrebbe visto più che volen-
tieri, anche se era già tardi. Dovevo avere una voce piuttosto alterata perchè mi chiese: «C'è qualcosa che non va, Mike?» «C'è un mucchio di roba che non va. Vengo da te proprio per parlartene.» Arrivai a casa di Connie a tempo di record, lasciandomi alle spalle una turba di autisti imprecanti per essersi visti improvvisamente costretti a sterzare verso il marciapiede. Un tale stava aprendo il portone, e non ebbi così bisogno di suonare il campanello per entrare. E non ebbi neppure bisogno di suonare il campanello di sopra, perchè la porta era aperta. Appena sentì il mio passo nel corridoio, Connie mi gridò di andare pure avanti. Buttai il cappello su una sedia e mi fermai un attimo nella penombra del corridoio, per rendermi precisamente conto del punto dove mi trovavo. Una lama di luce filtrava dalla porta della camera da letto, socchiusa. Chiamai: «Connie!» «Sono qui, Mike.» Era sul letto, due cuscini dietro la schiena, e stava leggendo; sorrideva, ma il sorriso scomparve non appena notò l'espressione del mio viso. Sarebbe stato perfettamente inutile dirle che era successo qualcosa di molto grave. «Siediti qui, vicino a me, e dimmi per che cosa sei venuto, Mike,» mormorò. Mi accomodai sul bordo del letto, e le sue dita si strinsero, affettuosamente, intorno alla mia mano. «Jean Trotter... è stata assassinata questa sera. Qualcuno l'ha uccisa e l'ha gettata nel fiume dal ponte di Brooklyn. Nelle intenzioni dell'assassino, la cosa sarebbe dovuta passare per un suicidio, ma c'è stato un testimone.» «No!» «Si.» «Mio Dio, Mike, quando finirà tutto questo? Povera Jean!» «Finirà quando avremo trovato l'assassino, non prima. Che cosa sai di lei, Connie? Che tipo era? Chi aveva sposato?» Connie scosse la testa. «Jean... era una brava ragazza, quando l'ho conosciuta. Non... non so molto di lei, per essere sincera. Non era più giovanissima, ma aveva l'incarico di presentare i modelli per le debuttanti. I nostri campi di lavoro erano assolutamente diversi, e non saprei proprio che cosa dirti.» «Che tipi di uomini frequentava? Li hai mai visti?»
«No. Quando ho cominciato a lavorare per l'agenzia, era fidanzata a un cadetto di West Point, poi tutto quanto è andato a monte. Jean ne ha sofferto molto sulle prime. Juno le ha dato un certo periodo di vacanza, e quando è tornata sembrava perfettamente a posto, anche se mostrava una profonda indifferenza per gli uomini. Aveva gioielli di grande valore, e, per un certo periodo, è corsa voce all'agenzia che se l'intendesse con uno studente molto ricco, ma non so se la cosa corrispondeva a verità. Non ti nascondo che sono rimasta molto sorpresa quando si è licenziata dall'agenzia per sposarsi.» Mi passai le mani sulla fronte, cercando di ricavare qualche significato da tutte quelle notizie apparentemente prive di importanza. «Proprio non sai altro di lei? Sai da dove veniva? Sai qualcosa dei suoi genitori?» Connie socchiuse un poco gli occhi e si appoggiò l'indice alla fronte. «Aspetta un momento!» «Via, avanti! Di che cosa si tratta?» «Me ne ricordo proprio adesso; Jean Trotter non era il suo vero nome. Aveva uno di quegli interminabili nomi polacchi, e se lo era cambiato quando aveva incominciato a fare l'indossatrice. Aveva fatto legalizzare questo mutamento, e io ho ritagliato dal giornale il trafiletto che ne dava notizia. Mike... deve essere là, nel cassettone, in un vecchio portafoglio. Cercalo e dammelo.» Cercai affannosamente, ma non trovai nulla. «Accidenti, Connie, vedi se riesci a trovarlo tu.» «Non posso,» mi rispose, e rise, nervosamente. Presi a gettare per terra tutto quanto il contenuto del cassetto fino a quando ella, con un grido acuto, non corse alla riscossa. Capii allora perchè aveva proclamato di non poter scendere dal letto: era nuda come un verme. Trovò subito il portafoglio, in fondo al cassetto, e me lo tese, corrugando la fronte. «Potresti almeno avere il pudore di chiudere gli occhi!» «E perchè? Mi piaci moltissimo così!» «Dimostramelo allora.» Cercai di guardare nel portafoglio ma i miei occhi non ne volevano sapere di concentrarsi su di esso. «Mettiti addosso qualcosa, accidenti!» esclamai. Si appoggiò le mani sui fianchi e si chinò verso di me, passandosi continuamente la lingua sulle labbra. Poi si voltò, con molta maestà, prese dall'armadio il cappotto di pelliccia e se lo infilò. «Così imparerai!» disse.
Andò a sedersi in una poltrona ed incrociò le gambe, con una mimica che lasciava chiaramente intendere che ormai mi ero lasciato sfuggire l'occasione buona. Ma, non appena ricominciai a frugare nel portafoglio, ella si lasciò negligentemente scivolare il cappotto sulle spalle, ed io fui costretto a voltarmi da un'altra parte, se volevo continuare le mie ricerche. Scoppiò a ridere, ma io riuscii a trovare il ritaglio che cercavo. Il suo vero nome era stato Julia Travesky. Per decreto ministeriale, poteva ora chiamarsi legalmente Jean Trotter. Il suo indirizzo era quello di una pensione per donne sole in un quartiere elegante. Feci scivolare in tasca il ritaglio e rimisi il portafoglio al suo posto, nel cassetto. «È sempre meglio che niente,» dissi. «Potremo sapere il resto dai documenti ufficiali.» «Che cosa cerchi esattamente, Mike?» «Tutto quello che possa dirmi perchè è stato necessario ucciderla.» «Stavo pensando...» «Sì?» «C'è una pratica a suo nome, in ufficio. Quando chiede di essere assunta all'agenzia, una ragazza deve presentare un resoconto di tutte le sue attività precedenti, corredato da molte fotografie e da molti ritagli ricavati da giornali. Forse la pratica intestata a Jean è ancora là.» Fischiai fra i denti, adagio. «Mi hai dato una informazione preziosa, Connie. Ho chiamato Juno prima di venire qui, ma non era a casa. Qual è il numero di Anton?» Connie sbuffò e lasciò scivolare un poco di più il cappotto sulle spalle. «Quel vecchio ubriacone sta probabilmente cercando ancora di fare passare la sbornia di ieri sera. Quando sono usciti con gli altri dalla Inn, verso le tre del mattino, tanto lui quanto Marion Lester erano pieni di alcool fino al collo. Non si sono fatti vedere in ufficio stamattina. Juno non ha detto niente, ma si capiva benissimo che era piuttosto irritata.» «Chi altro allora può avere le chiavi degli uffici?» «Oh, se è solo per questo, io posso entrare quando voglio. Sono in ottimi rapporti con il portiere. Una volta avevo dimenticato in ufficio il portafoglio; per farmi dare le chiavi da lui è bastato un casto bacio sul suo capino calvo.» Le sfere del mìo orologio correvano troppo in fretta. Ricominciavo ad avvertire una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. «Fammi un piacere, Connie. Va' a vedere se riesci a trovare la pratica intestata a Jean Trotter, prendila e torna qui subito. Io intanto vedrò di sbrigare un'altra
faccenda. Non immagini nemmeno che favore mi renderesti.» «No,» replicò ella, decisa. «Accidenti, Connie, cerca di ragionare. Ti ho detto...» «Vieni anche tu con me.» «Non posso.» Sorrise, si alzò e, con la massima naturalezza, come se avesse indossato un abito da sera, scostò i lembi del cappotto e si appoggiò le mani sui fianchi. Mai, in vita mia, avevo visto qualcosa di più seducente. «Vieni con me,» insistette, «e poi torneremo qui, assieme.» Le feci cenno di avvicinarsi, la presi fra le braccia e l'attirai a me, i suoi seni nudi contro il mio petto, stringendola forte, fino a quando non socchiuse la bocca. Ed allora la baciai come si deve baciare. Quando la lasciai, respirava affannosamente, e nei suoi occhi c'era qualcosa di simile ad una espressione di beatitudine. «E adesso,» feci, «fa' quello che ti ho detto di fare, se non vuoi guai.» Abbassò gli occhi e si chiuse stretta nel cappotto. Cercò di sorridere, ma senza troppo successo. «Sei tu il padrone, Mike. E quando giudicherai necessario far pesare la tua autorità, non avrai bisogno di dirmelo: lo capirò da sola.» Le misi un dito sotto il mento e la costrinsi ad alzare la faccia. «Il mondo avrebbe bisogno di molta gente come te, bimba.» «Sei un tipaccio, Mike. Sei grande e grosso e rude come i miei fratelli, e io ti voglio bene dieci volte di più di quello che non voglia bene a loro.» Mi chinai verso di lei per baciarla un'altra volta, ma ella, prevenendo il mio gesto, si liberò con mossa rapida del cappotto e si strinse a me, spasmodicamente, incendiandomi con la sua nudità. Non era facile respingerla, perchè avvertivo, sotto le dita, la morbida dolcezza della sua pelle satinata, ma la scena alla quale partecipavo mi richiamava dolorosamente alla memoria un'altra scena, inversa in un certo senso, che avrebbe avuto luogo, di li a poco, a casa di Clyde. Era una cosa che non potevo permettere, a nessun costo. Bastò questo pensiero a farmi uscire come un bolide dall'appartamento, a farmi scendere di corsa le scale ed a scagliarmi nella cabina telefonica dell'emporio più vicino, dove, con dita tremanti, introdussi il nikel nella scanalatura dell'apparecchio, senza il minimo riguardo per le proteste del proprietario che avevo scostato piuttosto bruscamente, proprio mentre si accingeva ad abbassare la saracinesca.
Forse c'era ancora tempo, pensai. Dio, doveva esserci tempo. Che cosa era a dare tanta importanza ai minuti ed ai secondi? A queste piccole frazioni di eternità che potevano rendere la vita degna di essere vissuta? Feci il numero di Velda e sentii la suoneria squillare. Squillò a lungo, tanto a lungo da darmi l'idea che non dovesse mai finire, prima che Velda rispondesse. Quando sentì che ero io, cercò di troncare la comunicazione. Ma gridai, gridai tanto forte da costringerla alla fine a chiedermi dove ero. Dissi: «Sono lontano da casa tua, Velda, e non devi quindi aver paura che voglia giocarti qualche brutto scherzo. Senti, non andare là questa sera. È perfettamente inutile. Credo di essere ormai venuto a capo della faccenda.» La voce di Velda era bassa ma decisa, così maledettamente decisa da darmi la voglia di gridare. Mi rispose: «No, Mike, è inutile che cerchi di fermarmi. So che inventerai ogni scusa possibile, ma è inutile. Non mi hai mai lasciato fare niente prima d'ora, si può dire, e adesso so che si tratta di una cosa della massima importanza. Ti prego, Mike...» «Stammi a sentire, Velda.» Cercavo di parlare con tono calmo. «Non si tratta di una storia. Una delle ragazze dell'agenzia è stata assassinata questa sera. Si chiamava Jean Trotter... ma il suo nome era, in origine, Julia Travesky. L'assassino le è piombato addosso e...» «Chi?» «Jean... Julia Travesky.» «Mike... è il nome della ragazza che, nella sua lettera, Chester Wheeler diceva di aver incontrato a New York. La ragazza che era stata compagna di scuola di sua figlia.» «Che cosa?» «Non ricordi? Te ne ho parlato quando sono tornata da Columbus.» La mia gola si fece improvvisamente arida. Parlare mi costava uno sforzo spaventoso. «Velda, per l'amore di Dio, non andare là questa sera. Aspetta... aspetta un poco soltanto.» «No.» «Velda...» «Ho detto di no, Mike. Vado. Questa sera è venuta la polizia. Ti cercano. Sei imputato di omicidio.» Cercai di rispondere, ma solo un gemito mi uscì dalla gola. «Se ti trovano, per te è finita, Mike. Ti metteranno in prigione, ed è un'idea, questa, che non sopporto.» «So già tutto, Velda. Ho visto Pat questa sera. Che cosa devo fare per
convincerti? Mettermi in ginocchio?» «Mike...» Quanta decisione c'era nella sua voce! Mio Dio, pensava che volessi proteggerla, ed io non riuscivo a convincerla che il suo sacrificio era ormai inutile. Sarebbe andata avanti, ad ogni costo. Fermala tu, Signore, pregai mentalmente, perchè io non ce la faccio. «È inutile che tu venga qui, Mike.» ella disse. «Non ci sarò più, e la casa è tenuta d'occhio dalla polizia. Non rendermi le cose ancora più difficili, ti prego.» E interruppe la comunicazione. Bruscamente. Interruppe la comunicazione, accidenti, lasciandomi in una cabina di un metro quadrato, di fronte ad un apparecchio ormai inutile. Riagganciai violentemente il ricevitore e passai di corsa davanti al padrone dell'emporio che mi aspettava, una mano sull'interruttore, pronto a spegnere l'ultima luce. Luci che si spegnevano. Luci che si spegnevano anche per me. Mi precipitai sulla macchina e partii. Il tempo. Quanto tempo, maledizione? Pat aveva detto di dargli una settimana. Poco prima, io avevo avuto bisogno di alcune ore. Adesso i minuti contavano. I minuti che io non potevo perdere, ora che tutta quanta la storia cominciava a delinearsi con una certa chiarezza. Jean Trotter... era lei che Wheeler aveva incontrato la sera della festa. Era con lei che era uscito. Ma Jean Trotter aveva lasciato l'agenzia per sposarsi e Marion Lester aveva preso il suo posto ed aveva detto di essere stata lei ad uscire con Wheeler. Marion Lester e Anton Lipsek erano in ottimi rapporti. Avevo bisogno di chiacchierare un poco con Marion Lester. Volevo sapere perchè mi aveva mentito e chi l'aveva convinta a mentire. Le avrei rivolto le mie domande con molta gentilezza, sulle prime, ma, se si fosse rifiutata di rispondermi, l'avrei lavorata un poco, fino a quando non avesse gridato, con un senso di liberazione, il nome di quel qualcuno che io andavo cercando. Feci del mio meglio per rintracciare Pat. Lo cercai dappertutto, fino a quando la mia riserva di nikel non fu esaurita e non mi riuscì di pensare ad altri posti dove telefonare. Era alla caccia di un nome che non aveva più ormai importanza alcuna, ed io non riuscivo a trovarlo proprio nel momento in cui avevo maggiore bisogno di lui. Dissi dappertutto di avvertirlo di restare a casa o in ufficio fino a quando non lo avessi richiamato, e tutti mi promisero di trasmettergli il mio messaggio se lo avessero visto. Quando ebbi terminato, avevo la camicia fradicia di un sudore gelido. Aveva ricominciato a nevicare. Splendido! Magnifico! Ecco altri minuti
preziosi che andavano a farsi benedire. Diedi un'occhiata all'orologio, uscii in una nuova litania di bestemmie, salii in macchina e partii come un pazzo. Jean Trotter e Wheeler. Tutti e due erano stati assassinati per lo stesso motivo. Per quale motivo? Perchè Wheeler aveva riconosciuto nella ragazza una vecchia compagna di scuola della figlia? Sapeva per caso su Jean qualcosa che rendeva indispensabile toglierlo di mezzo? C'era il ricatto dietro tutta questa storia, un tipo di ricatto così insidioso da terrorizzare Emil Perry ed un mucchio di altri pezzi grossi che non potevano permettersi di allontanarsi dalla città quando ne avevano voglia. Fotografie. Fotografie bruciate. Indossatrici. Un fotografo che rispondeva al nome di Anton Lipsek. Un duro che rispondeva al nome di Rainey. Il cervello soprannominato Clyde. I pezzi di uno stesso gioco. Risi tanto da avvertire un dolore al petto. Risi, risi e mi promisi la pelle di un assassino. Quando avessi avuto le prove, avrei potuto togliermi quel gusto, mandando al diavolo il giudice distrettuale, i poliziotti e tutti gli altri. Sarei stato in una botte di ferro, ed avrebbero sputato bile, gli imbecilli. Il giudice distrettuale soprattutto. Dovetti lasciare la macchina ad un isolato di distanza dal Chadwick Hotel e percorrere un tratto di strada a piedi. Avevo sollevato il collo del cappotto come tutti, e passai così accanto ad un poliziotto senza venire minimamente notato. Entrai nell'atrio dell'albergo e mi diressi subito al banco. Il tipo di nonna mi accolse con un sorriso e con un saluto abbastanza cordiale. «Vorrei salire da miss Lester,» dissi. «Ci siamo già visti noi, amico. Salite pure.» «C'è?» «L'ho vista arrivare e non l'ho vista uscire. Deve esserci.» Non mi fu difficile trovare la camera di Marion, e bussai due volte. Nessuno rispose, ma dalla fessura sotto la porta filtrava una lama di luce. Forse la ragazza era in bagno. Appoggiai l'orecchio al battente, ma non sentii il minimo rumore d'acqua. Bussai una terza volta, più forte. Nessuna risposta. Abbassai la maniglia, e la porta si aprì. Era facile capire perchè non aveva risposto. Marion Lester era morta, morta stecchita. Entrai nella stanza, adagio, e mi chiusi la porta alle spalle. «Maledizione!» mormorai. «Maledizione e ancora maledizione!» Indossava un pigiama di seta rossa, e sarebbe anche potuta sembrare addormentata, a condizione di considerare normale il bizzarro angolo di in-
clinazione del suo collo. Era stato spaccato con tanta violenza, quel collo, che la vertebra disarticolata appariva in netto rilievo sotto la pelle. Sulla gola spiccavano, nette, le impronte delle dita dell'assassino. Il cadavere era già freddo e rigido. L'assassino aveva due mani di una potenza spaventosa e sapeva servirsene. Sollevai il telefono interno, e quando la vecchia, giù al banco, mi rispose, chiesi: «A che ora è rientrata miss Lester?» «Oh, è rientrata questa mattina, ubriaca fradicia. Quasi non ce la faceva a camminare. Non è lì, per caso?» «Oh, per esserci, c'è. E corre il rischio di restarci per un pezzo, se nessuno si occupa di lei. È morta. Farete meglio a salire subito.» La donna uscì in un gemito e si allontanò di corsa, senza nemmeno interrompere la comunicazione. Il rumore dei suoi passi risuonò sulle scale, poi ella aprì la porta, senza neppure prendersi il disturbo di bussare. Quando ebbe visto quello che c'era da vedere, si fece dapprima pallida, poi rossa. «Mio Dio, siete stato voi?» Si lasciò cadere su una poltrona e si copri gli occhi con le mani. Dissi: «È morta già da molte ore. E adesso calmatevi e cercate di riflettere. Di riflettere, capite? Voglio sapere chi è salito qui da lei oggi. Chi è venuto a farle visita o chi ha chiesto di lei. Dovete saperlo, perchè siete rimasta al banco tutto il giorno.» La sua bocca si mosse, ma solo un gemito le uscì dalle labbra. «Mio Dio!» La presi per le spalle e la scossi piuttosto rudemente, fino a quando una fiammella di ragione tornò a farsi luce nei suoi occhi. «Statemi a sentire,» dissi. «Quella ragazza non è la prima. L'individuo che l'ha uccisa ha assassinato altre due persone, ed altre ancora ne ucciderà, se non riusciamo a mettergli le mani sopra. Capite quello che vi sto spiegando?» Annuì, mentre sul suo viso si andava disegnando ora una espressione di terrore. «Va bene. Chi è salito in questa stanza oggi?» «Nessuno.» «Eppure qualcuno è salito, qualcuno l'ha uccisa!» «E... e come faccio a sapere chi l'ha uccisa?» «Non ho detto questo. Ho detto che qualcuno è stato qui.» Si passò la lingua sulle labbra, nervosamente. «Sentite, figliolo, non guardo troppo chi va e chi viene. È facilissimo entrare qui, è facilissimo
uscire.» «E voi non notate chi entra e chi esce?» «No.» «Perchè?» «Non... non è cosa che mi riguarda.» «Il che significa che questo preteso albergo altro non è se non un bordello.» La sua indignazione fu tale da mettere in secondo piano persino il terrore. «Non sono una mezzana, ragazzo mio. Qui le pensionanti fanno quello che vogliono, senza che io mi prenda la briga di ossessionarle di domande. Ma non sono una tenutaria.» «Sapete che cosa succederà qui?» chiesi. «Fra dieci minuti ci sarà un vero formicaio di poliziotti qui dentro. È inutile che cerchiate di battervela, perchè finiranno sempre per acchiapparvi. Quando scopriranno che cosa succede qui — e non tarderanno a scoprirlo, ve lo assicuro — vi troverete in un brutto pasticcio. Ora voi potete fare una delle due cose seguenti: o riflettere un poco e pensare che cosa direte ai nostri pubblici funzionari, o dare le stesse risposte che avete già dato a me ed aspettare di vedere che cosa succede poi. Allora?» Mi guardò dritto negli occhi, e quello che mi rispose era la verità vera del buon Dio. «Ragazzo mio,» disse, «se anche da ciò dovesse dipendere la mia vita, non potrei rispondervi diversamente. Non so chi sia stato qui oggi. Da mezzogiorno in poi c'è stato un andirivieni continuo, e io ho letto quasi tutto il pomeriggio.» «E va bene,» sospirai. «C'è forse qualcuno in grado di sapere qualcosa?» «Nessuno. Le ragazze che fanno la pulizia nei corridoi lavorano il mattino soltanto. Alle stanze badano le pensionanti stesse. E qui si affittano stanze solo per periodi abbastanza lunghi, non per una notte soltanto.» «Niente fattorini?» «Niente. Non ne tengo più da un anno a questa parte, perchè non ne abbiamo bisogno.» Mi voltai verso il cadavere di Marion, e mancò poco che vomitassi. Nessuno sapeva. L'assassino non aveva volto. Nessuno aveva visto. Quelli che sapevano qualche cosa finivano per rimetterci le penne. Io rappresentavo un'eccezione. Ero stato ben fortunato a cavarmela. Prima aveva tentato di accopparmi. Fallimento. Poi aveva cercato di togliermi di mezzo con una accusa di omicidio. Altro fallimento. Aveva cercato di farmi la pelle a casa mia, ed aveva avuto il terzo insuccesso. Dovevo essere maledettamente
importante, a quanto sembrava. E non avevo tempo di aspettare il quarto tentativo. Gli occhi sempre fissi su Marion, parlai alla vecchia che, seduta nella poltrona, tremava dalla testa ai piedi. «Scendete e passatemi qui la comunicazione con la polizia. Li avvertirò, ma non sarò qui quando arriveranno. Potete ripetere agli agenti quello che avete già detto a me. Avanti, filate.» Uscì barcollando, schiantata dal peso della calamità che si era abbattuta su di lei. Staccai il ricevitore e aspettai. Quando mi ebbe passato la comunicazione, chiesi la squadra omicidi e dissi al sergente di servizio: «Qui parla Mike Hammer. Sono al Chadwick Hotel con una donna assassinata. No, non sono stato io a ucciderla, perchè è morta già da diverse ore. La cosa migliore che possiate fare è di avvertire subito il giudice distrettuale, badando bene a fare il mio nome. Ditegli che passerò da lui più tardi. No, non ho nessuna intenzione di aspettarlo. Se questo non gli va, ditegli che può mettere il mio nome nella lista di coloro ai quali è conveniente leccare le scarpe. Riferite questo, parola per parola, mi raccomando. Arrivederci.» Scesi le scale di corsa ed uscii dall'albergo con un minuto circa di anticipo sull'arrivo degli agenti. Avevo fatto appena in tempo ad innestare la marcia quando le macchine della polizia piombarono sul posto, fra un grande ululare di sirene, precedute da una berlina nera dalla quale scese precipitosamente il mio amico, il giudice distrettuale. Quando gli passai davanti, diedi due colpi di klaxon, ma era troppo occupato a dirigere il suo piccolo esercito per accorgersi di qualcosa. Incrociai un'altra macchina della polizia e guardai attentamente, nella speranza di vedere Pat. Ma non c'era. Il mio orologio segnava le dodici meno venti. Più o meno in quel momento, Velda doveva uscire di casa. Le mie mani tremavano quando presi una Lucky, e per accenderla dovetti servirmi dell'apparecchio del cruscotto, perchè non ce la facevo assolutamente a tenere ferma la fiamma di un fiammifero. Mi fermai davanti a un bar, presi la guida telefonica e cercai febbrilmente l'indirizzo di Anton Lipsek. Abitava alla periferia del Village, in una zona che conoscevo abbastanza bene. Tornai in macchina e mi diressi verso Broadway. Venti minuti. Un quarto d'ora. Il tempo passava con una velocità diabolica. Dodici minuti. Nevicava fitto ora, e il vento faceva mulinare i fiocchi leggeri sullo sfondo delle luci multicolori che inquadravano la strada. Un semaforo rosso. Finsi di slittare e passai egualmente, fra le pittoresche im-
precazioni degli altri autisti. La rivoltella sotto il braccio mi dava una piacevole sensazione di calore, e già il mio dito, sotto il guanto, si piegava spasmodicamente al pensiero di quanto sarebbe accaduto di li a poco. Due macchine mezzo sventrate bloccavano il crocicchio della Quattordicesima. Senza esitazione, montai sul marciapiede e passai oltre. Un poliziotto fischiò. Gli gridai di andare al diavolo e continuai tranquillamente per la mia strada. Cinque minuti. Avevo i denti stretti al punto che le mascelle mi facevano male. Arrivai alla via che cercavo e lasciai la macchina in un posteggio. Un altro minuto passò mentre mi orientavo per seguire il giusto andamento dei numeri. Altri due minuti ancora: il tempo strettamente necessario per trovare la casa. Due minuti. Doveva essere ormai quasi arrivata. Il biglietto sopra il campanello diceva: ANTON LIPSEK, Esq., e un monello ci aveva scarabocchiato sotto una parola oscena. Il monello aveva tutta quanta la mia simpatia, perchè nessun'altra parola avrebbe potuto esprimere meglio il mio giudizio. Premetti il pulsante e sentii la suoneria tintinnare chissà dove, al primo piano. Niente. Ricominciai, e questa volta tenni il dito premuto sul campanello. Ancora la suoneria che tintinnava al primo piano, e ancora niente. Premetti allora un altro pulsante, e la porta si aprì. Una voce gridò dal primo piano: «Chi è?» «Sono io,» risposi. «Ho dimenticato la chiave.» La voce disse: «Oh, va bene!» e la porta si chiuse. Io, la parola magica. Io, l'idiota, lo stupido, il bersaglio per un assassino. Io, il maledetto bastardo che aveva il coraggio di farsi avanti mentre l'assassino guardava e rideva. Io, certo. Dovetti accendere un fiammifero ad ogni porta per vedere se era quella che cercavo. Trovai l'ingresso di Anton all'ultimo piano, ed anche qui c'era il solito biglietto, con tanto di Esquire. Non c'era luce all'interno, non si sentiva rumore alcuno. Provai la maniglia: la porta era chiusa a chiave. Era tardi ormai. Mezzanotte e cinque. Velda doveva già essere arrivata. E il letto, poi, chissà da quanto tempo era stato preparato. Per giungere alla verità Velda aveva scelto la via più difficile. Allungai nella porta una pedata così energica da far saltare la serratura. Poi, subito, chiusi l'uscio alle mie spalle, e restai qualche secondo immobile, chiamando silenziosamente l'assassino, la Euger in pugno, il dito piegato sul grilletto.
Nulla. Cercai a tentoni il commutatore e lo feci scattare. l'no strano posto davvero. Mobili da giardino, lampade da quattro soldi, tappeti buoni da buttare nella spazzatura. Ma le pareti valevano un milione di dollari. I muri erano infatti nascosti da quadri di maestri, e dovevano essere autentici, a meno che le cornici sontuose e le piccole placche di metallo con il nome dell'autore non fossero altrettanti specchi per le allodole. Così Anton aveva danaro e non lo spendeva con le donne, no. Lo investiva in quadri, cioè in qualcosa di valore più stabile rispetto ai biglietti di banca. Le didascalie erano tutte quante in francese, e non significavano niente per me. Anche se in ogni angolo della stanza si vedevano bicchieri sporchi e mozziconi di sigarette, non c'era un filo di polvere sulle cornici, e le placche di metallo avevano tutta l'aria di essere state lucidate di recente. Si trattava di quello che Anton aveva ricavato dalla sua collaborazione con i nazisti in tempo di guerra? O era il risultato di qualche sua attività privata? Feci il giro dell'appartamento. C'era uno studio ingombro di tutti quei piccoli aggeggi che si possono trovare a casa di un uomo che ha una profonda passione per il proprio mestiere, e, lì accanto, c'era una piccola camera oscura. Le vasche di sviluppo erano piene, e in un'angolo, sopra un tavolo, brillava una piccola luce rossa. Niente altro. Me ne sarei andato se non avessi visto il bagliore della piccola lampada riflettersi in qualcosa di metallico, ed allora, a tentoni, feci scorrere le mani da quella parte. Non era un muro, era una porta, rivelata solo da un infinitesimo frammento di metallo messo a nudo dal frequente ruotare dei cardini. Doveva essere azionata da un qualche meccanismo nascosto, quella porta, ma io non avevo tempo da perdere. Mi appoggiai bene al lavandino e sferrai un calcio con tutte le mie forze. Parte del muro tremò e cominciò a fendersi. Un nuovo calcio, ancora più energico, e il mio piede passò dall'altra parte del tramezzo. La terza volta praticai un foro largo abbastanza da permettermi di passare. Mi trovai in un armadio vuoto, le cui ante davano su un altro appartamento. Ecco dove Anton Lipsek conduceva una vita più conforme alla sua vera situazione. Una sottile parete soltanto separava i due mondi. Lo stato della prima stanza stava a testimoniare di un'orgia recente. In un angolo c'era un bar, fornito di quanto di meglio si poteva trovare sul mercato. E tutta quan-
ta la stanza, del resto, era arredata con quanto di meglio si poteva trovare sul mercato: poltrone, divani, tavoli non erano stati fabbricati in serie, no certo. Erano stati fatti su disegno, e con i tappeti, i tendaggi e la tappezzeria formavano un assieme armonioso, degno di quel principe dei fotografi che era Anton Lipsek. C'erano altre stanze, naturalmente, un mucchio di altre stanze. In particolare, tre stupende stanze da letto ognuna con il suo bagno e con il suo gabinetto privato. Dappertutto c'erano portaceneri pieni di mozziconi, molti dei quali recavano tracce evidentissime di rossetto. Nell'ultima stanza, vicino al letto, trovai tre mozziconi di sigaro schiacciati in un piattino di vetro. Anton aveva dunque affittato due appartamenti contìgui trasformando, per così dire, la camera oscura in corridoio di comunicazione. Avrei probabilmente capito subito se il mio cervello non fosse stato turbato da altri pensieri. Anton era scapolo e, secondo ogni apparenza, non se la faceva troppo con le donne. E allora? Perchè quei due appartamenti? Perchè tutte quelle stanze? Perché tutti quei letti a due piazze? Inconsciamente, i miei occhi presero a cercare qualcosa. In tutte le camere, sui letti, c'era un curioso quadro, dipinto su vetro. Una marina, con una grande distesa d'acqua color dell'argento. Mi avvicinai, respirando affannosamente, e vidi il mio viso riflesso nel mare. Il mare aveva quell'aspetto argenteo e brillante perchè si trattava in realtà di uno specchio inquadrato fra piccole palme. Grazioso davvero. E molto pratico. Cercai di staccare questi quadri-specchio, ma erano avvitati al muro, e riuscii soltanto a scheggiarmi le unghie. Traversai di corsa il salone e, passando per l'armadio vuoto, tornai nell'appartamento vicino. Quei meravigliosi quadri dei vecchi maestri! Valevano milioni di dollari per quello che erano, ed altri milioni di dollari per quello che nascondevano. Ne staccai uno che rappresentava due donne nude a passeggio per una foresta, e trovai quello che cercavo. C'era un foro rettangolare, nella parete, e, dall'altra parte del foro, vedevo il piccolo paesaggio dipinto su vetro. Cielo e terra erano opachi, ma attraverso il mare si vedeva tutto quello che succedeva nell'altra stanza. Uno specchio trasparente sistemato sopra un letto a due piazze! Che cosa si poteva desiderare di meglio per un bel ricatto? Non mi ci vollero più di dieci secondi per scoprire la macchina fotografica di cui Anton si serviva. Un aggeggio perfezionato che, nelle mani di un artista come Anton, doveva prendere foto magnifiche, senza perdere un
solo particolare dell'espressione. Il treppiede era ancora regolato all'altezza più indicata per puntare l'obiettivo nella camera vicina. E allora mi diedi a cercare dappertutto le fotografie, le fotografie che avrebbero rappresentato la mia giustificazione, a fatti compiuti, quando avessi piantato una bella scarica di piombo nel ventre dell'assassino. Tutto diventava chiaro come la luce del giorno, ora. Anton Lipsek si serviva delle indossatrici per attirare i pezzi grossi nelle camere da letto truccate, poi prendeva fotografie piuttosto pornografiche che permettevano a lui e a Clyde di regnare indisturbati sulla città. Impossibile immaginare una forma di ricatto più raffinata. L'opinione pubblica poteva perdonare molte cose ai pezzi grossi, ma non grossolane infedeltà di quel genere. Anche Chester Wheeler veniva ora ad avere il suo posto preciso nel quadro. Era ricco, molto ricco. Era solo in città ed un poco brillo. Era andato a cadere diritto nella rete, ma aveva commesso un errore che gli era costato la vita. Aveva riconosciuto la sua adoratrice. L'aveva riconosciuta come una vecchia compagna di scuola della figlia. La ragazza si era spaventata e ne aveva parlato a Anton, e Anton aveva disposto le cose in modo che Wheeler fosse tolto di mezzo. Ma la ragazza, sempre spaventata, si era licenziata ed aveva accettato di sposare il primo uomo che le era capitato a tiro. Tutto era andato per il meglio fino a quando l'assassino non l'aveva ritrovata e non l'aveva uccisa, per essere ben sicuro del suo silenzio. Sì, tutto appariva chiaro, ora. Anche per quello che riguardava Marion. Anton aveva paura di me. I giornali avevano scritto a tutte lettere che ero un poliziotto e che per quella storia del suicidio, mi ero visto ritirare la licenza. Anton aveva allora incaricato Marion di dirmi che era stata lei ad uscire quella sera con Wheeler, e di dare poi a questa scappatella una conclusione tanto innocente da convincermi a rinunciare a quella pista. Che cosa era successo poi? Marion era diventata troppo esigente? Certo, perchè no? Aveva voluto ricattare chi di ricatti era maestro. Una bella imprudenza da parte sua! L'assassino aveva dovuto sentirsi piuttosto inquieto quando aveva saputo dai giornali che l'individuo, ubriaco fradicio, che divideva il letto con Wheeler, quella notte, era un poliziotto. Aveva dovuto capire subito che avrei fatto il possibile per rientrare in possesso della mia licenza. Aveva certo preso informazioni sul mio conto, consultando le collezioni dei giornali, spulciando negli archivi dei tribunali. Ed era venuto così a sapere che io uccidevo non meno facilmente e non meno rapidamente di lui. Ma fra me e lui c'era pur sempre una certa differenza. Io uccidevo soltanto gli as-
sassini, ed avevo fama di non dare quartiere quando mi trovavo alla presenza di una di quelle belve che lavorano in serie e che riescono troppo spesso a restare impunite. Tutti questi pensieri mi erano balenati alla mente nel giro di pochi secondi, ma il tempo, purtroppo, era passato da quando ero entrato nella casa di Anton, e, quando diedi un'occhiata all'orologio, il sangue mi si ghiacciò nelle vene. Ma non potevo ancora andarmene. Avevo bisogno delle prove, delle fotografie. Se me ne andavo a mani vuote. Anton, quando fosse tornato a casa, si sarebbe subito accorto che il suo trucco era stato scoperto e si sarebbe affrettato a fare scomparire le foto, dovunque fossero, ed a dare l'allarme al suo socio Clyde. Che cosa avrebbe fatto allora Clyde di Velda? Dove l'avrebbe portata? Quali iniziative Velda avrebbe giudicato opportuno prendere, e come sarebbe andata a finire tutta quella storia? Sfogai tutta la mia rabbia sull'appartamento studio, dove era più logico che le foto si trovassero. Spaccai, sventrai, fracassai tutto quanto c'era nelle due stanze, e stavo per fare altrettanto nella camera oscura quando sentii un rumore di passi nel corridoio che portava all'appartamento vicino. La chiave girò nella serratura e la porta si aprì. Vidi per un istante il viso pallido di Anton, un viso pallido che si fece subito bianco come un panno lavato, poi la porta si chiuse e ci fu un rapido scalpiccio giù per le scale. Che idiota ero stato a lasciare dappertutto accese le luci che avrebbero dovuto essere spente! Saltai, letteralmente, attraverso la parete sfondata. Il cappotto mi si impigliò nei frammenti di legno. Con un grido di rabbia, diedi uno strappo violento, poi continuai il mio inseguimento, lasciandomi alle spalle più di un frammento di stoffa. Il delinquente stava per sfuggirmi. Aprii la porta e mi precipitai giù dalle scale. Caddi e rotolai fino al primo pianerottolo, mi rialzai nell'istante in cui la porta su strada si chiudeva, ripresi la corsa, caddi ancora, ed arrivai miracolosamente al piano terreno senza nemmeno essermi rotto il più piccolo degli ossi. Avevo il corpo coperto di lividi che più tardi mi avrebbero certo fatto male, di abrasioni sanguinanti che mi tenevano la camicia appiccicata alla pelle. Stringevo in pugno la rivoltella quando sbucai sulla strada, ma l'arma rappresentava solo un peso inutile, perchè la macchina di Anton si stava già dirigendo, a tutto motore, verso il crocicchio. Mancò poco che uscissi in un grido di gioia, malgrado tutto, perchè immaginavo che il mio distacco fosse ancora maggiore. Prima di salire, An-
ton doveva aver chiuso a chiave la portiera. La mia invece era aperta. La raggiunsi in quattro salti, mi misi al volante, ed avevo appena girato il contatto quando, dal quadrivio, mi giunse all'orecchio un rumore di metalli fracassati. Levai la testa e sogghignai, mentre premevo il pedale della messa in moto, perchè il destino, che fino a quel momento mi era stato sempre contrario, sembrava essersi improvvisamente deciso ad aiutarmi. Infilando il crocicchio, Anton era andato a urtare contro un taxì che veniva da una laterale. Solo la rapidità di riflessi dei due guidatori aveva evitato che l'incidente avesse conseguenze più gravi. Il mio motore diede qualche scoppio, poi si fermò. Vidi Anton innestare la marcia indietro, e pregai il Cielo di non lasciarmi in panne, non in quel momento. Un altro colpo alla messa in moto, un rombo pieno, sonoro, le ruote fecero presa nella neve e la macchina si allontanò dal marciapiede. Schiacciai a fondo il klaxon per far capire all'autista del taxì, il quale era sceso dal suo seggiolino e stava gesticolando in mezzo alla strada, di togliersi di mezzo. Anche Anton dovette sentire quel suono prolungato, perchè premette l'acceleratore, e la grossa berlina nera schizzò avanti come un razzo. La stessa macchina che era servita da piazzola di tiro quando mi avevano fatto fuoco addosso, all'angolo della Trentatreesima. Rainey. Speravo proprio che in quel momento bruciasse fra le fiamme dell'inferno, perchè proprio quello era il suo posto. Era stato lui a sparare, mentre al volante c'era stato Anton, certo. Ora la neve tornava a mio vantaggio, perchè quasi tutte le macchine private erano nelle loro rimesse e quasi tutti i taxì erano fermi lungo il marciapiede. Le strade erano enormi strisce bianche che si allungavano quasi all'infinito, sotto la luce dei lampioni. Guadagnavo terreno, ed egli dovette accorgersene perchè pigiò più forte sull'acceleratore. Ignorava i semafori rossi, naturalmente, ed io non ero certo da meno. La berlina ebbe, ad un certo punto, un pauroso ondeggiamento, ma subito si riprese e continuò la dritta. Doveva essere spaventato, Anton, spaventato sul serio. Le mani disperatamente strette al volante, doveva cominciare a chiedersi come mai un bolide come il suo non riusciva a seminare una vecchia caffettiera come la mia. Anton poteva bestemmiare finché voleva, perchè non sapeva che motore ci fosse sotto il vecchio cofano della mia macchina, un motore davanti al quale il suo non poteva reggere nemmeno il paragone. Aveva poco più di venti metri di vantaggio ormai, e il distacco diminuiva costantemente. Cercò di prendere una curva a piena velocità, slittò ed andò ad urtare
contro il marciapiede. Credetti per un istante che sarebbe riuscito a cavarsela e strinsi i denti perchè sapevo che con la mia macchina, più leggera, non ce l'avrei fatta, se avessi cercato di imitarlo. Ma il destino mi fu ancora una volta propizio e mi accordò Anton. Me lo accordò con un urto tremendo che mandò la berlina a fracassarsi e a rovesciarsi contro il muro di una casa, fra un vulcano di vetri infranti e di metalli contorti. Azionai i freni e girai, strettissimo, al centro della strada. Lasciai la macchina là dove mi ero fermato e mi precipitai, rivoltella in pugno, verso la berlina rovesciata. Ma subito rimisi in tasca la rivoltella ed uscii in una litania di bestemmie. Anton era morto. Al posto della sua testa c'era ora un informe ammasso sanguinolento. Gli occhi soltanto erano rimasti intatti, anche se non si trovavano dove sarebbero dovuti essere. Le portiere erano scardinate, naturalmente, e diedi un rapido sguardo all'interno, nella speranza di trovare quello che stavo cercando. Nella macchina c'era solo Anton, ridotto ormai a sostanze chimiche per il valore di un paio di dollari al massimo. Sotto lo sguardo di uno di quegli occhi morti, cominciai una accurata ispezione delle tasche. Quando aprii il portafoglio trovai un rotolo di biglietti da cinquecento dollari e la ricevuta di una raccomandata che recava la data del mattino. L'indirizzo era quello di Clyde Williams. Allora, in ultima analisi, il capo non era Anton... era Clyde. Quel piccolo farabutto da quattro soldi era, in sostanza, il cervello. Clyde era l'assassino, e Velda in quel momento era a casa sua. Clyde era il cervello e l'assassino, e Velda stava cercando di far parlare un individuo che era a conoscenza di tutti quanti gli ingranaggi di quella sudicia storia. Ero in ritardo di più di un'ora. Il tempo aveva camminato più in fretta di me e mi aveva superato. Ma potevo sempre tentare di raggiungerlo e di farmi restituire quello che mi aveva rubato. Grida acute partirono da tutte quante le finestre quando, con un salto, raggiunsi la mia macchina. Già si sentivano da destra e da sinistra gli ululati delle sirene della polizia, ed allora, per non farmi bloccare, svoltai in una laterale. Qualcuno aveva rilevato il numero della mia targa, certo. Qualcuno lo avrebbe comunicato alla polizia, certo, e quando fosse risultato che la macchina era mia, il giudice distrettuale avrebbe cominciato a dare i numeri. Suicidio, aveva detto. Suicidio un corno! Furbo, il nostro giudice distrettuale, furbo come un pesce che va a in-
cappare dritto nella rete. Come se non fosse sufficiente quello che già scaricava sulla terra, il cielo chiamò rinforzi, e la neve prese a cadere più fitta che mai. Mi restava ancora un buon miglio da percorrere prima di arrivare a destinazione. 10 Presi di tasca la ricevuta e controllai l'indirizzo. Era quello, nessun dubbio. Una tettoia permetteva agli inquilini di scendere dalla macchina e di raggiungere la porta d'ingresso senza esporsi alle intemperie. Un portiere in divisa d'ammiraglio camminava avanti e indietro nell'atrio, per controllare chi entrava e chi usciva. Il suo aspetto mi convinse che avrei fatto meglio a non passare da quella parte. Non avevo nessuna intenzione di perdere tempo a discutere con lui, con il rischio di mettere in guardia Clyde. Finsi di traversare la strada, poi, riparandomi dietro il sipario della neve, m'inoltrai nel viale a cemento che portava sul retro dell'edificio. Una breve rampa di scale dava su una porta socchiusa. Entrai, e mi trovai faccia a faccia con un vecchio robusto e baffuto, il quale mi chiese subito, con voce gutturale, che cosa volevo. Ero capitato nel locale delle caldaie del riscaldamento centrale. «Venite qui, nonno,» dissi al vecchio. In un angolo, c'erano una sedia ed un tavolo. Gettai sul tavolo una banconota da dieci dollari. Il vecchio prese un lungo attizzatoio appuntito e mosse qualche passo verso di me. «Clyde Williams,» continuai. «Che numero ha il suo appartamento?» La mia domanda non dovette evidentemente riuscirgli molto simpatica, perchè vidi le sue mani stringersi più forte intorno all'attizzatoio. Non avevo nessuna intenzione di perdere tempo in inutili discussioni. Cavai di tasca la Luger e la misi sul tavolo, accanto al biglietto da dieci. «Quale dei due preferite, nonno?» Prima di rispondermi, volle a sua volta rivolgermi una domanda. «Perchè volete vederlo?» «Perchè voglio farlo a pezzi, nonno. A pezzi piccolissimi. E lo stesso farò con chi cercherà di fermarmi.» «Mettete via quell'aggeggio e il danaro,» brontolò. «Sta all'ultimo piano. L'ascensore di servizio è là dietro. Allora andate a fargli sputare l'anima, eh?» Feci scivolare in tasca la Luger, ma lasciai i dieci dollari sul tavolo.
«Precisamente. E si direbbe che la cosa non vi spiaccia affatto, vero, nonno?» «Esatto. Avevo una figlia, io. Era una brava ragazza. E adesso invece... Quel mascalzone...» «Va bene, nonno. Vi prometto che presto non darà più fastidio a nessuno. Avete per caso una chiave dell'appartamento?» «No,» rispose, scuotendo tristemente la testa. I suoi baffi tremavano, e nei suoi occhi c'era qualcosa di molto simile ad una espressione di speranza. Non sarebbe stato lui a dare l'allarme, certo. L'ascensore di servizio, un trabiccolo destinato alla servitù, saliva con una lentezza così esasperante che dovetti mordermi le labbra per impedirmi di gridare. Ma si trattava di una macchina, in fondo, di una macchina che continuava nel suo solito ritmo, senza curarsi del pazzo che camminava avanti e indietro nella cabina, mentre un'altra macchina, anch'essa insensibile, sgranava secondi lunghi come secoli. Alla fine rallentò e si fermò. Feci scivolare le ante scorrevoli e, dominando l'impulso che mi spingeva a correre, socchiusi appena la porta e diedi un'occhiata nel corridoio. C'era un silenzio simile a quello che ci si può aspettare di trovare in una tomba, un silenzio che centuplicava ogni suono. Torno torno, c'erano finestroni a cristallo che davano sulla città addormentata. Mi chiusi la porta alle spalle, adagio, e cominciai ad avanzare. Tenevo la rivoltella in pugno, pronto a spedire all'inferno il primo che mi si fosse parato davanti. Ma il diavolo, probabilmente non aveva bisogno di nuovi domestici, perchè l'atrio era deserto. L'atrio, immenso, era lussuosamente ammobiliato con poltrone e tavoli sui quali spiccavano vasi di rose fresche che con il loro profumo rendevano balsamica l'aria. I portaceneri erano d'argento, e vicino ad ogni portacenere c'era un grosso accendino dello stesso metallo. La sola nota fuori posto era un mozzicone di sigaro che qualcuno aveva negligentemente lasciato cadere al centro di uno spesso tappeto orientale. Diedi una rapida occhiata a questo atrio da mille e una notte, sul quale si aprivano soltanto due porte: quella dell'ascensore, senza maniglia, e quella dell'appartamento, tutta adorna di pesanti guarnizioni di metallo e con un campanello di argento massiccio. Il tappeto soffocò il rumore dei miei passi mentre traversavo quel vasto ambiente. Fermo davanti alla porta, mi chiesi se dovevo suonare o se sarebbe stato preferibile far saltare la serratura con un proiettile bene aggiustato.
Ma il mio problema trovò una rapida soluzione. Una piccola chiave piatta giaceva a terra, proprio davanti alla porta, e, mentre la raccoglievo, ringraziai il destino che voleva mostrarsi una volta ancora favorevole nei miei confronti. Avevo la bocca arida, così arida che, quando sogghignai, non riuscii a staccare le labbra dai denti. Furba davvero, Velda. Non avevo mai immaginato che potesse essere tanto furba. Aveva aperto la porta ed aveva lasciato lì la chiave nel caso che io venissi. (Sono qui, Velda. Sono arrivato troppo tardi, ma sono qui adesso, e non ti dirò mai che quello che tu hai fatto era inutile. Crederai sempre che non era possibile per te agire altrimenti, che dovevi sacrificarti a questo modo, per salvarmi, che dovevi sacrificare quello che io desideravo più al mondo, e io non ti dirò niente. Mi costringerò a sorridere e cercherò di dimenticare. Ma per me c'è un modo soltanto di dimenticare; quello di sentire la gola di Clyde sotto le mie dita, o quello di piantargli i proiettili della mia rivoltella nel ventre, di piantarglieli tutti quanti, dal primo all'ultimo. In questo modo, forse, ritroverò il mio sorriso e potrò dimenticare...) Girai la chiave nella serratura ed entrai. La porta si chiuse alle mie spalle con un lieve scatto. La musica mi guidò verso la stanza di soggiorno. Era una musica dolce, insinuante, dal ritmo ossessionante. Le luci erano tenute basse, deliberatamente, in modo da creare l'atmosfera adatta. Non capivo che aspetto aveva il locale, non cercavo nemmeno di non fare rumore. Puntai diritto alla musica, senza badare agli splendori che mi circondavano, fino a quando vidi un enorme radiogrammofono, fino a quando vidi Velda stesa su un divano e Clyde chino su di lei. Clyde non era che un'ombra scura stretta in una vestaglia di seta, un'ombra scura che esigeva con voce rauca quello che un'altra ombra scura si ostinava ancora a rifiutargli. Vidi il candore abbagliante delle gambe di Velda, il candore abbagliante delle mani con le quali ella si copriva il viso, e la sentii gemere. Clyde buttò indietro le braccia per togliersi la vestaglia, ed io sbottai: «Alzati, sudicio bastardo!» Il viso di Clyde era una maschera di rabbia che, non appena mi vide, si mutò in una maschera di paura. Non ero arrivato troppo tardi, dopo tutto. All'ultimo momento, forse, ma ero arrivato in tempo. Drizzandosi sul divano, Velda gridò un ansioso; «Mike!» Clyde mosse un passo verso di me, mentre un odio, un odio sconfinato si irradiava da
ogni tratto del suo viso. Fissò Velda con due occhi che sembravano carboni. «Mike hai detto!» ansò. «Tu lo conosci allora! È stato tutto quanto un inganno.» Parlava come se ogni sillaba gli uscisse a fatica dalla bocca. Velda si alzò e venne a rifugiarsi contro il mio petto. Singhiozzava, e quando la presi fra le braccia sentii che tremava dalla testa ai piedi. «Certo che mi conosce, Dinky,» dissi. «E anche tu mi conosci. E sai che cosa succederà adesso?» La caverna rossa che era stata la sua bocca si chiuse bruscamente. Sollevai il viso di Velda e chiesi: «Ti ha fatto male, bimba?» Non ce la faceva a parlare. Scosse la testa, singhiozzando più forte che mai. Quando la crisi fu superata, mormorò: «Oh, Mike... è stato terribile!» «E non sei riuscita a sapere nulla, vero?» «No.» Rabbrividì e prese a giocherellare con i bottoni del suo vestito. Scorsi sul tavolo la sua borsetta e gliela indicai. «Hai portato con te quella cosa, cara?» Capì subito che alludevo alla rivoltella e annuì. «Prendila,» dissi. Velda si scostò adagio, evidentemente riluttante ad abbandonare la protezione del mio braccio. Prese la borsetta e l'aprì. Come ebbe la rivoltella stretta in pugno, scoppiai a ridere, notando l'espressione di Clyde. «Le lascerò il piacere di farti fuori, Dinky. Offrirò a Velda la gioia di piantarti un proiettile nel ventre, per quello che hai cercato di fare a lei e per quello che hai fatto a un mucchio di povere ragazze.» Borbottò qualcosa che non riuscii ad afferrare, e il suo labbro inferiore si rovesciò verso il basso, scoprendo i denti. «So tutto, Dinky,» continuai. «So che cosa hai fatto e perchè lo hai fatto. Il tuo sistema di ricatto non ha più segreti per me. Tu e Anton vi servivate delle indossatrici per far cadere in trappola gli individui che valeva la pena di far cadere in trappola. Quando le ragazze erano a letto con loro, Anton faceva scattare le sue fotografie, e da quel momento voi avevate, come si suol dire, il coltello per il manico. Sai il fatto tuo, Dinky, e hai cervello, niente da dire. Hai cervello più di quanto ti avessi mai fatto credito. «Questo dimostra una volta di più che non bisogna mai sottovalutare le persone. Avevo sempre immaginato che tu fossi una comparsa, e invece sei il cervello. Intelligente davvero la maniera in cui hai liquidato Wheeler perchè aveva riconosciuto una delle ragazze. Forse non avrebbe detto niente, se tu non ti fossi fatto avanti con le tue fotografie e con le tue minacce
di rivelare tutto quanto. Lui si è fatto mandare telegraficamente cinquemila dollari e te li ha consegnati, vero? Poi, furibondo, si è messo ancora in contatto con Jean Trotter e le ha detto chi era. Tean è venuta a spifferare tutto quanto a te, e questo ha segnato la fine di Wheeler.» Clyde mi guardava, senza parlare, le mani abbandonate lungo i fianchi. «Ed è a questo punto che la storia ha avuto veramente inizio. Tu avevi deciso di uccidere Wheeler, e Wheeler ha preso la mia rivoltella ed ha cercato di saldarti il conto. Due cose soltanto mi lasciano perplesso. Qual era il tuo progetto nei confronti di Wheeler, prima che egli impugnasse la rivoltella, dandoti così la brillante idea del suicidio? E perchè uccidere Rainey? Perchè non era quel cane fedele che tu credevi? A questo proposito ho una mia teoria abbastanza intelligente. Rainey mi ha mancato, a quel suo primo tentativo, in Broadway, e tu lo hai strapazzato abbastanza da farlo arrabbiare e da far nascere in lui l'idea di battersela con il danaro che aveva incassato da Emil Perry per le foto. Tu allora sei andato all'arena per ucciderlo e mi hai visto. Hai subito capito che ti si presentava una superba occasione per farmi arrestare per omicidio, e hai promesso a due testimoni una buona scarica di piombo se non facevano quello che tu dicevi loro di fare. «Tutto è andato secondo i tuoi desideri. Sono pronto a scommettere che, per quella notte, hai anche un signor alibi, un alibi a prova di bomba. Velda mi ha detto che sei arrivato alla Inn solo a mezzanotte passata. Molto più tempo di quello che fosse necessario, ti pare?» Clyde teneva gli occhi fissi alla rivoltella che stringevo in pugno. La tenevo all'altezza dell'anca, ma la canna era puntata contro il suo ventre. «Che cosa hai fatto con Jean. Clyde? A quanto si diceva, aveva lasciato l'agenzia per sposarsi. L'avevi chiusa in qualche casa d'affitto con la precisa intenzione di liberarti di lei? Aveva letto sui giornali che cosa era capitato a Kainey? Aveva tentato di fuggire per evitare la stessa sorte, e tu l'hai liquidata a sua volta? Marion Lester ha forse voluto trasformare in danaro contante quello che sapeva, tanto da costringerti a torcere il collo anche a lei?» «Mike...» disse. «Chiudi il becco. Parlo io adesso. Voglio sapere qualcosa, Clyde. Voglio sapere dove sono queste foto. Anton non ha potuto dirmelo perchè è morto. Avresti dovuto vedere la sua testa. Aveva gli occhi là dove sarebbe dovuta essere la bocca. Non aveva le foto, e di conseguenza devi essere tu ad averle.»
Clyde gettò indietro le braccia e cominciò a gridare. Aveva il viso sconvolto, e la vestaglia gli scivolò giù dalle spalle e cadde sul pavimento. «Non riuscirai a dimostrare neppure un'accusa di omicidio nei miei confronti, poliziotto dei miei stivali! Non sarò io a pagare per gli altri, no certo!» Velda mi prese per un braccio, ma io la scostai piuttosto bruscamente. «Lo hai detto, Clyde. Non pagherai per nessuno, e sai perchè? Perchè morirai qui, in questa stanza. Morirai, e quando i poliziotti verranno, racconterò loro che cosa è accaduto. Dirò che avevi in mano questa rivoltella, che io me ne sono impossessato e me ne sono servito contro di te. O posso lasciare sbrigare la faccenda a Velda e metterti poi in mano questa rivoltella. Viene dall'Europa, e sfido qualunque poliziotto a risalire fino a me. Che te ne sembra dei miei progetti. Clyde?» Una voce alle mie spalle disse: «Non gli piacciono affatto, signorino mio. Giù quel gingillo se non vuoi che ti faccia fuori subito, sui due piedi, assieme alla tua amichetta.» No, non era possibile che mi capitasse una cosa del genere. No, non questa volta, mio Dio! Ma era certo la bocca di una rivoltella quella che mi faceva il solletico sulla schiena. Lasciai cadere la Luger, e subito dopo anche l'arma di Velda andò a finire sul pavimento. Clyde uscì in un grido di gioia folle e la raccolse. Non pronunciò una sola parola. Prese la rivoltella per la canna, e mi colpì in piena faccia, violentemente, con il calcio. Cercai di bloccargli il braccio, ma il calcio tornò a calare, cogliendomi alla tempia con un colpo che mi fece piegare le ginocchia. Entrò in azione anche l'individuo che mi stava alle spalle, picchiandomi alla nuca, ed io mi afflosciai per terra. Non so quanto durò il mio stordimento. Il tempo aveva perduto ormai ogni significato. Troppo tardi prima, puntuale, poi, ed ora, ancora una volta, troppo tardi. Attraverso la nebbia, sentii Clyde ordinare a Velda di passare in un'altra stanza. Lo sentii dire al suo scagnozzo: «Trascinalo là con lei. Le pareti sono a prova di suono e nessuno ci sentirà. Prima me la sbrigherò con lei, poi mi occuperò un poco di lui. Voglio che veda, tutto quanto. Mettilo su una sedia e cerca di fare in modo che possa vedere.» Poi due mani mi afferrarono sotto le ascelle ed i miei piedi presero a strisciare sul pavimento. Una porta si chiuse e venni lasciato cadere su una poltrona. Velda gridò: «No, mio Dio.... no!» Clyde disse: «Spogliati. E in fretta!» Aprii gli occhi. Clyde era in piedi, le mani ad artiglio, una espressione di libidine insoddisfatta dipinta sul vi-
so. L'altro, pur sorvegliandomi, non perdeva d'occhio Velda, che indietreggiò fino a quando non si trovò con le spalle contro il muro. Stringeva sempre in pugno la rivoltella. Con una sola occhiata compresi la situazione, e mi alzai in piedi, scosso da un pazzo desiderio di ucciderli. Clyde gracchiò: «Sparagli, se tenta qualche scherzo.» Lo disse sapendo che avrei fatto qualcosa, in ogni modo, e il suo scagnozzo sollevò la rivoltella. Tutto quanto si svolse in meno di un secondo. Clyde e l'altro avevano appena distolto gli occhi da Velda quando ella infilò, fulminea, una mano sotto l'abito. Quando ricomparve, la mano stringeva una piccola automatica dall'aspetto innocuo che abbaiò con qualcosa di simile a un ululo di morte. L'uomo della rivoltella si portò le mani allo stomaco e cercò di bestemmiare. Il dolore alla testa era tale che non ce la facevo a stare in piedi. Cercai di raggiungere Velda e caddi in ginocchio, nel momento in cui Clyde le piombava addosso, cercando di strapparle di mano l'automatica. Mi trascinai faticosamente verso la rivoltella che il ferito, a terra, stringeva ancora in pugno. Velda lottava con Clyde, piegata in due per impedirgli di agguantare l'automatica. Clyde raddoppiò i suoi sforzi, ed ella cadde, con un grido. L'automatica piombò a terra. Clyde non sarebbe arrivato in tempo a raccoglierla prima che mi fossi impossessato dell'altra, ed anche lui se ne accorse. Uscì in una bestemmia oscena, si precipitò verso la porta e se la chiuse violentemente alle spalle. Uno scatto della serratura ed il rumore di mobili spinti affrettatamente contro il battente. Poi il rumore di un'altra porta che si chiudeva. Clyde se n'era andato. Avevo la testa sul grembo di Velda, che mi cullava dolcemente. «Mike, pazzo che non sei altro, stai meglio? Mike, parlami!» «Sto bene, bimba, e fra un minuto starò benissimo.» Mi sfiorò con la punta delle dita le abrasioni sulla faccia, poi cercò di affrettarne la guarigione con un bacio. Le lacrime le scorrevano giù dalle guance. Cercai di sorridere, ed ella mi strinse più forte. «Per essere in gamba, sei davvero in gamba,» mormorai. Feci scorrere un dito sulle sottili strisce di cuoio della fondina invisibile che ella portava ancora sotto le rovine di quello che una volta era stato il suo abito. «Come proprietaria di agenzia ci sai fare. Chi avrebbe mai sospettato la presenza di una automatica sotto il braccio di una così bella ragazza?» Rispose al mio sorriso e mi aiutò ad alzarmi. Barcollai un poco e, per
reggermi, dovetti appoggiarmi ad una sedia. Velda provò ad aprire la porta, scuotendo la maniglia con tutte le sue forze. «Mike... è chiusa! Siamo chiusi qua dentro!» «Maledizione!» L'individuo disteso sul pavimento uscì in un gemito e si mosse un poco. Prima che desse l'ultimo guizzo convulso, il sangue cominciò a colargli dalla bocca. Dissi: «Puoi segnare una tacca sul calcio della tua rivoltella Velda.» Credetti che fosse sul punto di sentirsi male, ma riuscì ad irrigidire le mascelle e ad atteggiare la bocca ad un sorriso. «Mi spiace di non averli uccisi tutti e due. Che cosa dobbiamo fare, Mike? Non possiamo uscire?» «Dobbiamo uscire, Velda. Clyde...» «È... è lui, Mike?» La testa mi faceva male, il cervello era solo una massa dolente che si rifiutava di pensare. «È lui. Prova ancora con quella porta.» Poi presi la rivoltella dal pavimento e cercai di sistemare io quella faccenda. L'arma mi sembrava così pesante che quasi non riuscivo a reggerla in mano. «Mike... la sera in cui Rainey è stato ucciso... Clyde era in seduta. Proprio di questo li ho sentiti parlare alla Inn. C'era.» Lo stomaco mi si contrasse. Il sangue mi rombava alle tempie. Appoggiai la bocca della rivoltella alla serratura e premetti il grilletto. La scossa del contraccolpo mi fece cadere l'arma di mano. La serratura non aveva ceduto. Velda ripeté: «Mike...» «Ti ho sentito, accidenti. Non mi importa di quello che hai visto o di quello che qualcuno ha detto. Era Clyde, non capisci? Erano Clyde e Anton. Avevano le fotografie, e...» Mi interruppi e guardai la porta, come pietrificato. «Le fotografie... Clyde è andato a cercare le fotografie. Se riesce ad impossessarsene, avrà tutta la protezione di cui ha bisogno, ed uscirà da questa storia più candido di un fiorellino a primavera!» Recuperai la rivoltella e sparai sulla serratura fino a quando tutta quanta la stanza fu piena di fumo di cordite. Maledetta l'anima sua! Quelle fotografie... Non erano in casa di Anton, e non erano nemmeno lì. La porta si era chiusa troppo in fretta perchè Clyde potesse avere avuto il tempo di prendere qualcosa. Restava, di conseguenza, un altro posto soltanto: gli uffici dell'agenzia. Questo pensiero mi diede la forza di cui avevo bisogno per attaccare la porta ad energiche spallate. Velda venne a darmi man forte. Ci appog-
giammo tutti e due, a peso morto, sino a che qualcosa cadde dall'altra parte del battente e la porta retrocedette di quel tanto bastante a lasciarci scivolare fuori. Regnava il silenzio più assoluto. Gettai la rivoltella su una sedia, raccolsi la Luger dal pavimento e me la infilai sotto al braccio. Indicai a Velda il telefono. «Chiama Pat. Se proprio non riesci a metterti in comunicazione con lui, chiama l'ufficio del giudice distrettuale. Di' loro di scatenare tutti gli uomini disponibili alle calcagna di Clyde, e forse arriveremo ancora in tempo.» Mi diressi barcollando verso la porta e l'aprii. Velda mi gridò qualcosa che non riuscii ad afferrare, ma non mi fermai ed uscii nell'atrio. L'ascensore principale era al piano terreno, ma il montacarichi di servizio era rimasto dove lo avevo lasciato. La discesa durò un tempo che mi parve eterno; fermai la cabina prima che continuasse il suo viaggio fino al seminterrato e mi precipitai nel grande atrio d'ingresso. L'ammiraglio mi guardò con una espressione strana, cercò di bloccarmi, afferrandomi per un braccio, ma ci guadagnò soltanto un pugno in faccia. Quando si rialzò, ero già scomparso fra la neve, ma lo sentii gridare proprio nel momento in cui salivo in macchina. Avevo percorso due isolati quando incrociai la prima auto della polizia. Ed avevo percorso cinque isolati quando ricordai che Connie era andata agli uffici dell'agenzia, quella sera. Avvertii una strana sensazione alla bocca dello stomaco e premetti a fondo l'acceleratore... C'era una luce accesa dietro il portone, e sotto la luce un vecchio stava leggendo il giornale. Aveva appena terminato di dare un'occhiata al suo orologio a cipolla quando picchiai energicamente contro i vetri. Scosse la testa e mi fece cenno di andarmene. Quando allungai un calcio nel pannello inferiore, scattò in piedi come una furia e venne a socchiudere la porta, gridando: «È tardi. Non potete entrare. È chiuso tutto da più di mezz'ora. Filate.» Con un buon colpo di spalla, spalancai completamente il battente ed entrai. «È stato qui qualcuno in questa ultima mezz'ora?» Scosse nervosamente la testa. «È più di un'ora che non si vede nessuno. Sentite, non potete entrare, e vi consiglio quindi...» Clyde non era stato lì! Era una storia che non stava in piedi, accidenti. Doveva essere venuto. «Si può entrare da qualche altra parte?» «Dalla porta sul retro, ma è sbarrata con un catenaccio. E, per passare di li, devono farsi aprire da me dall'interno. Sentite, signore...»
«Oh, tenete chiuso il becco. Chiamate la polizia, se proprio ne avete voglia.» «Perdonatemi, ma non capisco. Che cosa state cercando?» Lo guardai con l'espressione più feroce che mi riuscì di trovare. «Un assassino. Un tale con una rivoltella.» Deglutì a fatica. «Nessuno è stato qui... Ma voi scherzate, vero, signore?» «Già, scherzo tanto da sentirmi addirittura male. Sapete chi sono, amico? Mi chiamo Mike Hammer. La polizia mi cerca. L'assassino mi cerca. Tutti vogliono la mia pelle e io giro ancora come mi pare e piace. E adesso rispondete alla mia domanda: Chi è salito questa sera. dopo l'ora normale della chiusura? «Un tale... un tale del primo piano che doveva finire un lavoro. Poi due o tre impiegati della compagnia di assicurazione. Sono saliti a cercare qualcosa, ma sono andati via quasi subito. Poi c'è stato qualcun altro. Se volete dare un'occhiata al registro dei ritardatari...» «Già, l'assassino ha perso proprio il suo tempo a scrivere il suo nome in bella calligrafia. Accompagnatemi di sopra adesso. Voglio dare un'occhiata ai locali dell'Agenzia Lipsek.» «Ah, a proposito. Una ragazza è salita lì diverso tempo fa. Una bella ragazza. L'ho lasciata entrare. Non ricordo di averla vista uscire. Probabilmente se n'è andata mentre facevo il mio giro di ronda.» «Accompagnatemi di sopra, e subito.» «Faremo meglio a servirci dell'ascensore di servizio.» Lo spinsi in una delle cabine e ci fermammo al piano che cercavamo. Quando uscimmo sul pianerottolo, stringevo in pugno la Luger. Questa volta non mi sarei lasciato cogliere di sorpresa alle spalle, no certo. La porta dell'agenzia era socchiusa e, nell'anticamera, brillava la luce. Entrai di corsa, la rivoltella tesa in avanti. Il custode si fermò sulla soglia, fissandomi con occhi sbarrati. Feci il giro di tutti quanti i locali, accendendo le luci l'una dopo l'altra. C'erano spogliatoio, piccoli uffici, tre camere oscure magnificamente attrezzate ed una quarta camera oscura attrezzata un po' meno bene. Poi trovai la stanza che cercavo. La trovai, aprii la porta e rimasi come inchiodato sulla soglia, la bocca socchiusa per tentare di placare il pazzo odio che mi ribolliva nel petto. Connie giaceva al centro della stanza, gli occhi spalancati, la schiena piegata a forma di V. Morta. Torno torno alle pareti, c'erano enormi classificatori coperti di polvere. Il
cassetto di uno di questi classificatori era rimasto aperto, e balzava subito all'occhio la mancanza di un certo numero di pratiche. Ancora una volta ero arrivato troppo tardi. Il custode dovette aggrapparsi a me per non afflosciarsi per terra, svenuto. Faceva con la bocca smorfie strane, cercando di distogliere gli occhi dal cadavere. Cominciò a gridare e mi strinse il braccio ancora più forte quando mi inginocchiai accanto al corpo della povera Connie. Nessun segno, solo quella espressione di incredibile sofferenza sul suo viso. L'assassino le aveva spezzato le reni con un solo colpo, senza esitazioni, senza il minimo errore di manovra. Presi dalle dita spasmodicamente piegate il frammento di un bollettino a stampa. Si riusciva ancora a leggere: «... fissarsi allo schermo in maniera di...» Niente altro. Nella polvere che ricopriva il pavimento spiccava un punto dove un oggetto di una certa dimensione doveva essere rimasto fermo diverso tempo. Altre tracce mostravano chiaramente che l'oggetto era stato poi trascinato nell'anticamera. Poi le tracce scomparivano, senza che per questo fosse possibile trovare il misterioso oggetto. Lasciai la porta aperta e andai al centralino telefonico, seguito sempre dal custode, più sconvolto che mai. Dopo quattro o cinque tentativi vani, riuscii a pescare la linea esterna e chiamai la polizia. Quando il sergente di servizio ebbe ben capito quello che gli dicevo, trascinai il vecchio fino all'ascensore e gli ordinai di portarmi al piano terreno. Non se lo fece ripetere una seconda volta. Era proprio come avevo immaginato. La porta sul retro, che avrebbe dovuto essere chiusa con il catenaccio, era spalancata. Inutile chiedersi da che parte era passato l'assassino. Il custode non voleva rimanere solo e mi supplicò di non andarmene. Lo scostai bruscamente ed uscii. Sapevo ora dove si nascondeva l'assassino. 11 La neve, che aveva fatto del suo meglio per bloccarmi, non rappresentava più un ostacolo per me, ormai. Mi appoggiai allo schienale del sedile della macchina e, per la prima volta da molto tempo a quella parte, gustai veramente una sigaretta. Facevo scendere il fumo giù nei polmoni e lo soffiavo fuori con una certa qual riluttanza. Persino il fumo sembrava bello quando usciva dal finestrino per disperdersi nella notte.
Tanto candore per nascondere tanto sudiciume! La Natura sa il fatto suo. Guidai lentamente, prudentemente, seguendo i solchi tracciati nella neve da altre macchine. Quando accesi la radio, sentii, come prima cosa, il mio nome trasmesso sulla lunghezza d'onda della polizia, e mi affrettai allora a girare la manopola fino a quando non ebbi trovato un poco di musica. Quando arrivai a destinazione, mi presi il disturbo di parcheggiare con molta cura la macchina e di chiudere la portiera a chiave, come un buon cittadino che torna a casa per concedersi una tranquilla notte di riposo. Poche luci brillavano nell'enorme edificio, ma non avrei saputo dire se una di esse era o meno quella che cercavo. Aspirai l'ultima boccata alla sigaretta e la buttai nel canale di scolo, lungo il marciapiede, dove essa diede un guizzo prima di spegnersi. Traversai la strada, premetti il dito sul pulsante del campanello fino a quando la porta si aprì, poi entrai. Che bisogno avevo ormai di correre? Il tempo aveva perduto ogni valore. Salii le scale, adagio, ad un gradino per volta, a passi lunghi e calmi sui pianerottoli. Arrivato a destinazione, puntai diritto alla porta socchiusa e dissi: «Salve, Juno.» Entrai senza nemmeno aspettare la sua risposta. Andai nella stanza di soggiorno e scostai le poltrone negli angoli. Andai nella camera da letto e aprii l'armadio. Andai in bagno e strappai le tende della doccia. Andai in cucina e guardai dietro la dispensa. Le mie mani erano pronte ad afferrare, i miei piedi erano pronti a colpire, la mia rivoltella era pronta a vomitare morte. Ma non c'era nessuno. Le fiamme, partendo dai piedi, mi salivano per tutto il corpo, rodendomi il cervello. Il dolore che era stato ignorato fino a quel momento dava origine a dolori ancora più grandi, qualcosa di simile a denti che mi straziassero la carne. Il viso che rivolsi verso Juno doveva essere quasi irriconoscibile per l'odio e per la sofferenza. La mia voce doveva essere qualcosa di simile al sibilo di una vipera, apportatore di morte. «Dov'è, Juno?» Ella era là, davanti a me, grande e bella, con quel suo abito dalle maniche lunghe, con quei suoi occhi supplichevoli. «Mike...» riuscì soltanto a mormorare. Il fiato le si mozzò in gola ed i seni le tremarono sotto la stoffa. «Dov'è, Juno?» Avevo in pugno la Luger. Il mio pollice trovò il percussore e lo spostò all'indietro. Le sue labbra, le sue splendide labbra tremarono mentre arretrava di un
passo. Un altro passo ancora, finché si trovò nella stanza di soggiorno. «Tu lo nascondi, Juno. È venuto qui. Non aveva altri posti per andare, quel bastardo. Dov'è?» Ella chiuse gli occhi, lentamente, molto lentamente, e scosse la testa. «Oh, vi prego, vi prego, Mike! Che cosa vi hanno dunque fatto, Mike?» «Ho trovato Connie, Juno. Era nella sala dell'archivio. Morta. Assassinata. Le pratiche erano scomparse. Dopo aver ucciso Connie, Clyde ha avuto appena il tempo di vuotare i cassetti. Ho trovato qualcosa d'altro, qualcosa che Connie aveva trovato prima di morire. Il frammento del bollettino di spedizione di un apparecchio televisivo. L'apparecchio che avresti dovuto regalare a Jean Trotter, in occasione del suo preteso matrimonio, e che avevi nascosto invece in archivio, in attesa del momento più adatto per sbarazzartene. Fino a questa sera, tu soltanto sapevi che era là. Clyde lo ha forse trovato e lo ha portato via, perchè tu non venissi implicata in questa sudicia storia?» Spalancò gli occhi, due occhi che dicevano che non era vero, che non c'era un briciolo di verità nelle mie parole. Ma non mi lasciai convincere, oh, no. «Dov'è, Juno?» Ora la bocca della rivoltella era puntata fra i seni che, giovanili e ridenti, si disegnavano sotto la stoffa. «Non c'è nessuno, Mike. Lo avete visto anche voi. Vi prego...» «Sette persone sono morte, Juno. Sette persone. In tutto questo pazzo schema di cose tu hai una parte. È uno schema ingegnoso, devo riconoscerlo, qualcosa che rappresenta un ben duro problema per chi vuole venirne a capo. Non cercare di prenderti gioco di me, Juno. So perchè queste sette persone sono morte, e so come sono morte. Mi sono dato tanto da fare perchè volevo sapere chi le aveva uccise. È un vero peccato che Wheeler quella notte non sia stato solo! Un vero peccato che con lui ci fossi proprio io! La vostra macchina di ricatti sarebbe potuta funzionare chissà fino a quando. Ma chi poteva prevedere che avrei fatto di tutto per demolirla?» Gli occhi sempre fissi su di me, si portò le mani alla gola. Scosse la testa e disse: «No, Mike, no!» e le ginocchia le tremavano tanto che quasi cadde. Per reggersi, dovette allungare una mano ed afferrare la spalliera di una poltrona. Poi si mise a sedere, lentamente, le labbra strette fra i denti. Sì, diceva tutto il mio viso, sì, Juno. Stringevo la Luger con mano ferma. L'odio che mi ribolliva nel petto traspariva chiaramente all'esterno. «Ho creduto sulle prime che fosse Anton. Poi ho trovato la ricevuta di una raccomandata indirizzata a Clyde. Anton gli aveva mandato alcune fotografie.
La Inn era un meraviglioso specchio per le allodole, destinato ad attirare le ragazze, e, con le ragazze, i pezzi grossi. Era questo, precisamente, il suo scopo. «Grazie alle foto di Anton, Clyde aveva tutte quelle protezioni che gli erano necessarie per tenere aperto il suo locale. I pezzi grossi cadevano nella trappola... e subivano il ricatto. In questa organizzazione Anton non era altro che un artigiano, un artigiano pagato abbastanza da permettersi di acquistare i quadri d'autore che tanto amava. Clyde era l'esecutore delle basse manovre, ed aveva, ai suoi ordini, una piccola armata di scagnozzi. Ma il cervello eri tu... eri tu, Juno, che dirigevi ed organizzavi tutto quanto, dall'alto del tuo Olimpo.» Tacqui ed attesi. Attesi per un intero minuto. «Juno...» Ella alzò la testa, lentamente. Aveva gli occhi rossi, le lacrime le avevano fatto colare il rimmel giù per le guance. «Mike... tu non puoi...» «Chi li ha uccisi, Juno? Dov'è?» Le mani le ricaddero, inerti, in grembo. Sollevai la rivoltella. «Juno...» Solo i suoi occhi si mossero. «Sparerò, Juno, poi me ne andrò e troverò tutto quanto da solo. Ti piazzerò un proiettile là dove fa più male, un male d'inferno, e tu morirai lentamente, molto lentamente... se non mi dici tutto. Devi dirmi semplicemente dove posso trovarlo, e io gli darò la possibilità di servirsi delle mani, come ha già cercato di fare con me e come ha fatto con tanti altri. Dov'è, Juno?» Non mi rispose. Non mi restava altro che ucciderla. Che Dio mi perdonasse! Se non la uccidevo, sarebbe riuscita a cavarsela, perchè io solo sapevo come si erano svolte le cose. Non c'era, contro di lei, ombra di prova da poter presentare in tribunale, e lo sapevo perfettamente. Ma potevo sempre ucciderla. Tutto quanto era stato opera sua, ed ella non era certo meno colpevole dell'assassino. La rivoltella mi tremò in mano, ed io strinsi convulsamente il calcio per conservare la linea di mira. I miei occhi erano due pezzi di brace, e tutto il mio corpo lottava per resistere alla forza implacabile che mi spingeva verso di lei. Sollevai la rivoltella all'altezza della sua testa, presi la mira, poi singhiozzai: «Mio Dio, non posso!» Perchè nei suoi capelli c'era ancora quella luce che richiamava in vita una morta, perchè non il suo viso vedevo, ma quello di Charlotte.
Per qualche secondo fui pazzo, pazzo da legare. Rovesciai indietro la testa e scoppiai in una risata isterica, irrefrenabile. E quando il momento di pazzia fu passato, mi trovai a respirare affannosamente, come un cane dopo una lunga corsa. «Credevo di riuscirci, Juno. Credevo di poterti uccidere. E invece non posso. Mi ricordi troppo un'altra donna. Era lei che odiavo con tanta intensità, ogni volta che hai visto sul mio viso quell'espressione che ormai ben conosci. L'ho amata e l'ho uccisa. Le ho piazzato un proiettile nel ventre. Sì, Juno... Non sapevo che mi sarebbe stato impossibile uccidere un'altra donna, ma è così. «Non morrai questa notte. Ti consegnerò alla polizia, e tu avrai così buone probabilità di cavartela a buon mercato, anche se, per quello che mi riguarda, farò il possibile perchè tu venga condannata.» Feci scivolare la rivoltella sotto il braccio e le tesi una mano. «Andiamo, Juno. Ho nella polizia un amico che sarà più che felice di arrestarti, sulla forza della mia parola, anche se questo dovesse costargli il posto.» Ella si alzò. Ed allora fu come se l'inferno avesse scatenato in una volta sola tutti i suoi demoni. Mi afferrò un braccio, e un pugno mi si abbatté sul naso, facendomi retrocedere. Mi trovai contro il muro, senza aver avuto il tempo di stendere le mani avanti, a difesa. Un diavolo mi afferrò alla gola, ed un ginocchio mi si puntò contro l'inguine. Uscii in un grido e mi piegai, rompendo la presa di quelle due mani intorno al collo. Quel poco di ragione che ancora mi restava mi diede l'idea di rotolare alla cieca, ma, un attimo dopo, ella era di nuovo su di me, le unghie che cercavano i miei occhi. Buttai indietro la testa e sentii la pelle che si spaccava. Picchiai a mia volta e sentii il suo naso appiattirsi sotto il mio pugno. Il sangue le inondò la bocca, trasformando il suo grido in una specie di gorgoglio che ben poco aveva di umano. Cercò di liberarsi, a pugni e a calci, ma io continuai a picchiare come un maglio, fino a quando non rotolò lontano da me. Non desistette, tuttavia. Le sue mani si strinsero, ferree, intorno alle mie braccia, strappandole indietro, facendomi perdere l'equilibrio. Un ginocchio si puntò contro la mia schiena, le mani mi salirono alle spalle, e fui come piegato all'indietro. Qualche istante ancora, e la mia spina dorsale sarebbe saltata. Fu l'intensità del mio odio a salvarmi. Fu essa ad infondermi nelle vene l'energia necessaria allo sforzo supremo, titanico che mi catapultò — è la parola — fuori dalla sua stretta. Ci scagliammo uno addosso all'altra, ed io
allungai avanti una mano e la presi per il vestito. Si liberò con uno strappo, e la stoffa si spaccò, netta, dall'alto in basso, Juno retrocedette attraverso la stanza, nuda, con l'eccezione delle scarpette a tacco alto e delle calze di seta. Si appoggiò di traverso a un tavolino, nell'angolo, ed aprì un cassetto, di quel tanto necessario a lasciarmi vedere la rivoltella verso la quale stava allungando la mano. La Luger scivolò fuori, fulminea, dalla fondina, e io dissi, con voce rauca: «Ferma, Juno!» Si pietrificò, senza che un solo muscolo si muovesse su quello splendido corpo. Tenevo gli occhi fissi sulle sue spalle nude, notando quanto contrastavano con le scarpe e le calze. Le sue mani erano ferme nel cassetto, a pochi centimetri di distanza dalla rivoltella. La lasciai in quella posizione, in quella ridicola ed oscena posizione, mentre sollevavo il ricevitore dell'apparecchio telefonico. Chiesi l'ufficio informazioni, diedi un indirizzo, e un attimo dopo sentivo la suoneria squillare nell'appartamento di Clyde. Ci volle quasi un minuto di discussione per convincere il poliziotto a passarmi Velda. Le rivolsi una domanda, una sola, ed ella mi rispose. Mi disse che Clyde era nel seminterrato, stecchito. Il vecchio addetto ai caloriferi, per una ragione che ancora si ignorava (ma che io conoscevo), lo aveva colpito con un attizzatoio mentre cercava di sgattaiolare fuori dalla casa. Così Clyde non poteva essere stato negli uffici dell'agenzia. Velda mi stava ancora tempestando di domande quando interruppi la comunicazione. Ora era tutto finito per davvero. Avevo trovato il perchè, avevo trovato il come, ed ora sapevo il chi. Dissi: «Voltati, Juno.» Ruotò con molta eleganza, sulla punta dei piedi, e mi guardò. C'era una ridda di diavoli scatenati in quei suoi occhi. Lo spirito dell'assassinio era una forza così potente che potevo avvertirla attraverso tutta la stanza. Juno, la regina delle dee, nuda dinanzi a me, la pelle che brillava alla luce. "Domani il giudice distrettuale mi restituirà la mia licenza con un biglietto di scuse. Domani Ed Cooper avrà il suo colpo grosso." Ma quella sera... Guardai Juno nel suo Olimpo. «Avrei dovuto capire, Juno. Avrei dovuto capirlo ogni volta che mi provocavi e poi ti ritraevi, proprio all'ultimo momento, perchè sapevi perfettamente di non avere il coraggio di spingerti oltre. Maledizione! Lo sentivo fin da principio, e mi rifiutavo di crederci, tanto la cosa mi sembrava assurda. Io, un uomo che ama le donne, che conosce tutti i loro trucchi...
proprio io dovevo cadere in un tranello simile! Sì, tu e Clyde avevate stretto rapporti d'affari. E tu eri anche qualcosa di più di un semplice socio. Chi dei due aveva il sopravvento sull'altro, Juno? È per questo che Clyde ha perduto completamente la testa con Velda? Mio Dio, che idiota sono stato! Avrei dovuto capire tutto, il giorno in cui quella lesbica ti ha seguito nella toilette di quel simpatico locale dove tu mi avevi portato. Deve essere rimasta davvero male quando si è accorta che tu non valevi certo più di lei. Era una parte, la tua, che ti si adattava come un guanto. La recitavi così bene che ne erano al corrente solo coloro che non osavano parlarne. Bene, Juno, so tutto in proposito. Io, Mike Hammer. So tutto e dirò tutto. Dirò che hai ucciso Chester Wheeler perchè era stato così pazzo da cercare di chiamare in causa la ragazza che lo aveva messo nei pasticci, che hai ucciso Rainey perchè voleva truffarti un poco del tuo sporco danaro. Jean Trotter è morta perchè conosceva la verità, e Marion Lester per la stessa ragione. Non potevi permettere che qualcuno conoscesse qualcosa che rappresentasse poi sempre una minaccia per te. E Connie è morta perchè aveva scoperto l'apparecchio televisivo in archivio e poteva, in questo modo, arrivare a capire troppo. Sì, tutto questo dirò, ma prima voglio fare qualcosa d'altro.» Lasciai cadere la Luger per terra. Non le riuscì di capire, e perdette così la sua occasione. Avevo di nuovo la Luger in mano prima che potesse pescare la rivoltella dal cassetto. Avevo giurato di non fare più fuoco su una donna, certo, ma ora le mie riserve non avevano più ragione d'essere. Risi e sollevai la Luger, mentre Juno si voltava, gli occhi accesi dall'odio più bestiale che mai avessi visto. La mia fida arma fece sentire la sua voce, vomitando confetti che, con un ritmo scandito e ben preciso, aprivano un nuovo foro sanguinoso in quella pelle bianca. Juno visse fino a quando l'ultimo proiettile non le ebbe trapassato la carne e gli intestini, diede un ultimo, spasmodico calcio contro il muro, poi morì, le rosse labbra atteggiate ad una smorfia di dolore e di atterrita consapevolezza. Visse abbastanza da sentirsi dire che lei soltanto poteva essere stata, che lei soltanto aveva avuto il tempo. Era stata la sola che avesse avuto l'abilità di rendere assolutamente impossibile la propria identificazione. Era stata la sola che aveva potuto prendermi a bersaglio in Broadway perchè mi aveva pedinato dal momento in cui ero uscito da casa sua. Era stata la sola, sempre, perchè tutte le ragioni che valevano per Clyde valevano per lei, e Clyde non aveva mai ucciso. E le prove necessarie sarebbero certo venute
fuori l'indomani, quando precisi ricordi si sarebbero cristallizzati davanti all'immagine di quello che era stata Juno, con i suoi capelli corti accuratamente pettinati all'indietro e divisi in mezzo da una riga. Juno morì solo dopo aver sentito tutto questo, ed io continuai a ridere, osservando gli inevitabili seni falsi, e i muscoli lunghi, fini e possenti a un tempo, che salivano fino al collo e scendevano poi fino ai polsi, quei muscoli che Juno aveva sempre saputo nascondere cosi bene sotto i suoi infernali vestiti. Buffo. Molto buffo. Più buffo ancora di quanto avessi immaginato. Forse avreste riso anche voi. Guardai con disprezzo quello che una volta era stata Juno, la regina degli dei e delle dee. Sapevo ora perchè, ogni volta che l'avevo osservata, avevo provato (potevo ora finalmente definirlo con esattezza) un senso di repulsione istintiva. Juno era una regina, certo, una regina in carne e ossa. Sapete che cosa voglio dire! Juno era un uomo! FINE