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Gaetano Salvemini LE ORIGINI DEL FASCISMO IN ITALIA LEZIONI DI HARVARD a cura di Roberto Vivarelli Feltrinelli Editore, Milano: aprile 1966 (Collana Universale Economica)
NOTA DI COPERTINA Le "Lezioni di Harvard" furono redatte intorno al 1943 negli Stati Uniti d'America, dove Salvemini aveva trovato stabile asilo sin dal 1933 e dove, a partire dal 1934, ricoprì presso la Harvard University una cattedra di storia della civiltà italiana. Destinate ad un pubblico di studenti americani, esse risentono naturalmente nella loro impostazione di uno sforzo per chiarificare il più possibile e rendere più facilmente comprensibili, a chi non abbia esperienza diretta di cose italiane, situazioni e fenomeni della nostra storia, senza tuttavia cadere mai in una schematica semplificazione dei fatti tale da privarli della loro profondità prospettica. Ciò che ne risulta è una esposizione di straordinaria nitidezza, che fa di quest'opera uno strumento prezioso specialmente per tutti quei giovani e giovanissimi che il fascismo non conobbero e per quanti, ormai quarantenni, che lo conobbero appena, in troppo tenera età, negli ultimi anni di guerra, oppure non lo conobbero affatto per esperienza diretta e del fascismo appresero solo, più tardi, per sentito dire; i quali desiderino invece rendersi conto delle sue origini nel quadro complessivo della storia italiana, e conoscere attraverso quali vie esso riuscì ad affermarsi. Complessivamente, anche per il tono più meditato e meno direttamente polemico rispetto ad altri scritti precedenti, quest'opera costituisce il frutto più maturo del pensiero salveminiano intorno al fascismo, nella pacata disamina della cui brutalità Salvemini riconferma di considerare l'insegnamento della storia come il più valido strumento di libera educazione civile.
INDICE Nota introduttiva. LEZIONI DI HARVARD. Capitolo primo. L'Italia dal 1871 al 1919. Osservazioni al capitolo primo. Capitolo secondo. La crisi del dopoguerra. Capitolo terzo. La ripresa dell'Italia. Osservazioni al capitolo terzo. Capitolo quarto. L'arretratezza dell'Italia e il 'Volksgeist'. Capitolo quinto. L'assetto politico del 1914. Osservazioni al capitolo quinto. Capitolo sesto. Il colpo di stato del maggio 1915. Osservazioni al capitolo sesto. Capitolo settimo. Mussolini e i 'fascisti della prima ora'. Osservazioni al capitolo settimo. Capitolo ottavo. Il partito popolare. Osservazioni al capitolo ottavo. Capitolo nono. Il partito socialista. Osservazioni al capitolo nono. Capitolo decimo. Lo sciopero generale dell'aprile 1919. Capitolo undicesimo L'Italia nel giugno del 1919. Osservazioni al capitolo undicesimo. Capitolo dodicesimo. Da Orlando a Nitti.
Capitolo tredicesimo. Conservatori e rivoluzionari. Osservazioni al capitolo tredicesimo. Capitolo quattordicesimo. 'La terra ai contadini' e D'Annunzio a Fiume. Capitolo quindicesimo. La paralisi parlamentare. Capitolo sedicesimo. Il 'bolscevismo' italiano nel 1920. Capitolo diciassettesimo. L'occupazione delle fabbriche. Osservazioni al capitolo diciassettesimo. Capitolo diciottesimo. La reazione 'antibolscevica'. Capitolo diciannovesimo. Il drago rosso e la camicia nera. Capitolo ventesimo. La congiura militare. Capitolo ventunesimo. 'Un capo che precede, non un capo che segue'. Capitolo ventiduesimo. Il partito popolare e il Vaticano. Capitolo ventitreesimo. Lo sciopero generale del 1-3 agosto 1922. Capitolo ventiquattresimo. La marcia su Roma. Osservazioni al capitolo ventiquattresimo. Capitolo venticinquesimo. Il delitto Matteotti. Capitolo ventiseiesimo. La costituzione dello stato totalitario. 1. Lo stato a partito unico. 2. Gli istituti corporativi. 3. Le elezioni totalitarie. Capitolo ventisettesimo. Chiesa e Stato. NOTE.
NOTA INTRODUTTIVA L'opera che qui si presenta non venne mai pubblicata durante la vita del suo autore; concepita come corso universitario per gli studenti dell'università americana di Harvard e redatta in forma di lezioni presumibilmente intorno al 1943, di essa vennero fatte allora solo poche copie a ciclostile. In quel tempo Gaetano Salvemini, che per ragioni politiche nell'agosto del 1925 aveva definitivamente abbandonato l'Italia e la cattedra di cui era titolare a Firenze, si trovava da circa un decennio negli Stati Uniti, dove a partire dal 1934 aveva trovato stabile e cordiale asilo presso la Harvard University, occupando una cattedra di storia della civiltà italiana intitolata a Lauro De Bosis. Ciò permise a Salvemini di riprendere in più serene condizioni morali e materiali la sua attività di studioso e di insegnante, e di portare a compimento quell'opera di ricerca e di riflessione critica, ininterrottamente condotta sin dall'avvento di Mussolini al potere, per chiarire a sé e spiegare agli altri come fu che il fascismo nacque e si affermò nella vita italiana: che è appunto il tema di queste Lezioni di Harvard. Destinate ad un pubblico di studenti americani, e scritte perciò in lingua inglese, esse risentono naturalmente nell'impostazione di uno sforzo per chiarificare il più possibile e rendere facilmente comprensibili, a chi non abbia esperienza diretta di cose italiane, situazioni e fenomeni della nostra storia, talvolta con riferimenti alla storia americana e all'esperienza anglosassone, che possono apparire singolari a un lettore italiano. Ma non si può dire mai, neppure in casi particolari, che i fatti appaiano perciò eccessivamente semplificati o resi in modo schematico, privati insomma in qualche modo della loro profondità prospettica. Al contrario, uno degli aspetti di maggior rilievo di queste "Lezioni" è la meditata visione d'insieme del quadro di storia italiana in cui si inserisce il fenomeno fascista, sicché tutte quelle forze e quegli elementi particolari che condizionarono la conquista fascista del potere appaiono qui già disposti in una prospettiva storica, e il giudizio di Salvemini si spoglia di ogni asprezza polemica per offrirsi come maturo frutto di una lunga e più comprensiva riflessione. Come è già noto, nella composizione di queste "Lezioni" Salvemini si valse della collaborazione di Giorgio La Piana, anch'egli italiano espatriato, seppur per altre ragioni e in diverso tempo, e professore nella stessa Harvard University. Determinare i limiti precisi di questa collaborazione costituisce uno di quei problemi praticamente insolubili; la profonda amicizia che legava Salvemini e La Piana, la loro continua vicinanza in quegli anni, il loro costante scambio di idee e di opinioni sulle vicende italiane, sono tutti elementi che portano a far ritenere come indubbiamente rilevante la parte di La Piana, soprattutto come stimolo critico, in quel generale processo di 'ripensamento' della storia d'Italia rispetto al fascismo quale si dispiega nel quadro tracciato in queste "Lezioni". Ma quanto alla stesura materiale del testo e alla parte vera e propria della ricerca è da ritenere che, ad eccezione forse dei capitoli che più da vicino trattano delle questioni con la Chiesa, il lavoro sia tutto di Salvemini. Difatti non solo si ritrova qui, sia pure ampiamente rielaborato, buona parte del materiale di precedenti scritti di Salvemini intorno agli stessi temi, ma addirittura alcune delle idee direttrici di queste "Lezioni" sono già riscontrabili in pagine del suo diario del 1922: a testimonianza di un lungo lavorio di ricerca e di meditazione sul fenomeno fascista, condotto in assoluta indipendenza, e di cui quest'opera costituisce a conti fatti il risultato conclusivo. Se dunque queste "Lezioni di Harvard" rappresentano la più compiuta espressione del pensiero di Salvemini intorno al problema delle origini del fascismo in Italia, rimarrebbe tuttavia ancora da vedere quale sia il loro valore attuale, a oltre vent'anni di distanza dalla loro stesura e dopo che una massa cospicua di studi e ricerche
particolari si è venuta via via pubblicando in questi ultimi anni. In realtà, proprio alla luce di tutta questa nuova letteratura l'opera di Salvemini mostra di non aver perso nulla della sua efficacia. Intanto andrà ricordato come le ricerche più importanti pubblicate in questi ultimi vent'anni intorno alle origini del fascismo hanno avuto prevalentemente carattere monografico; sono davvero rare le opere apparse dopo la caduta del fascismo che si siano poste come oggetto di studio l'insieme della storia d'Italia tra la prima guerra mondiale e la marcia su Roma. Può quindi ben dirsi che come quadro complessivo, accanto semmai all'altro tracciato nella classica opera di Angelo Tasca, questo di Salvemini rimane ancora assolutamente insuperato. Inoltre, proprio la maggior somma di notizie particolari di cui oggi disponiamo intorno al tema di quest'opera grazie ai nuovi studi, sembra sempre più confermare la solidità di impostazione del lavoro di Salvemini, sia nelle linee generali che nella percezione dei singoli fenomeni. Ma, soprattutto, è la capacità di Salvemini di svolgere sulla base dei fatti un limpido discorso critico, è proprio cioè l'apporto di pensiero che Salvemini reca, accanto ed oltre i fatti narrati, ad illuminarne il significato e giudicarne il valore, ciò che garantisce la permanente validità di quest'opera nella storia della storiografia sulle origini del fascismo e in qualche misura nella storia del nostro pensiero politico. Il testo che qui si presenta è la ristampa identica, salvo poche correzioni di errori materiali, di quello contenuto nel volume primo di "Scritti sul fascismo", pubblicato nel 1961 presso questo stesso editore nella serie 'Opere di Gaetano Salvemini,' dove queste "Lezioni di Harvard" vennero stampate per la prima volta. Tuttavia, al sottotitolo apposto allora, "L'Italia dal 1919 al 1929", si è oggi preferito quello più comprensivo di "Le origini del fascismo in Italia", l'uno e l'altro, del resto, frutto di una decisione editoriale, data la incertezza di titolo in cui quest'opera fu lasciata dall'autore. Tutte le note non siglate N.d.C. (nota del curatore) sono di Salvemini. R. V. 1961.
CAPITOLO PRIMO. L'ITALIA DAL 1871 AL 1919. Dei tre paesi europei, Russia, Italia e Germania, che attualmente si trovano sotto un regime dittatoriale, l'Italia soltanto aveva precedentemente una forma democratica di governo. Sia nella Russia zarista che nella Germania imperiale, tutte le potestà sovrane, direttamente o indirettamente, si trovavano prima della guerra nelle mani della corona, della casta militare e della burocrazia civile. Sia in Russia che in Germania, si ebbe l'instaurazione di un governo repubblicano in seguito alla disfatta militare. Le nuove istituzioni democratiche non avevano dietro di sé nessuna tradizione. Esse erano il prodotto della sconfitta militare. Il regime democratico russo non ebbe neppure il tempo di sollevarsi dal caos e darsi organi propri; tanto che non fu un regime democratico quello che sotto l'assalto dei comunisti venne sconfitto, ma solo il tentativo di costruirne uno dalle rovine del regime zarista. Per quanto imponente e radicale possa essere come esperimento sociale ed economico, la dittatura del partito comunista è stata sinora una nuova forma di assolutismo al posto dello zarismo. In Germania, la sconfitta che causò l'allontanamento degli Hohenzollern e delle altre dinastie principesche scosse la potenza della casta militare, ma non la distrusse, e questa trovò subito il modo di riorganizzarsi. La vecchia burocrazia rimaneva intatta. La Repubblica di Weimar non osò neppure sopprimere i privilegi e confiscare le proprietà di quei casati principeschi, di quegli "junkers" e di quei capi militari che erano stati i responsabili della sconfitta. La prima ragione della sua esistenza fu quella di placare i vincitori. La casta militare le permise di rimanere in vita fintanto che la situazione internazionale ne rese necessaria l'esistenza. Ma non appena venne allentata quella morsa nella quale, sotto forma di occupazione militare e di riparazioni finanziarie, i vincitori stringevano la Germania, la Repubblica di Weimar venne liquidata. Non fu un regime democratico costituito quello che sotto l'attacco dei nazisti venne sconfitto, ma solo un regime democratico tollerato. Ma dove effettivamente le istituzioni democratiche vennero sconfitte fu in Italia. Qui la libertà politica era stata conquistata attraverso mezzo secolo di lotte e di sofferenze (1820-1870), e quando, nel 1922, ebbe luogo il disastro, il regime libero aveva dietro di sé un altro mezzo secolo di vita. Durante questo mezzo secolo, le classi dirigenti italiane dovettero affrontare il compito di costruire un sistema amministrativo ed economico capace di reggere. Il problema era assai più arduo in Italia di quanto non lo fosse stato negli Stati Uniti d'America dopo la Rivoluzione. Sia in Italia che in America, le più vive speranze che, una volta conseguita l'indipendenza dallo straniero, potesse sorgere quasi per incanto un periodo di immediata prosperità si mutarono, nel primo periodo di riassestamento del paese, in una delusione profonda. Ma, a differenza dell'America, l'Italia era formata di tante parti, ciascuna delle quali per tredici secoli era vissuta sotto sovrani diversi e con diversi sistemi di governo. Si dovevano dimenticare tutte le tradizioni locali e i pregiudizi contrastanti. L'amministrazione civile, il sistema fiscale, le forze armate, l'educazione pubblica, tutto doveva essere creato di sana pianta o riorganizzato. Il paese non aveva carbone e solo scarsi giacimenti di ferro: le due materie prime essenziali per l'industria del secolo diciannovesimo. Rispetto a quelle dei paesi dell'Europa centrale e occidentale, le ferrovie erano arretrate di trent'anni; e la struttura fisica del territorio, con prevalenza di rilievi montani, ne rendeva assai costosa sia la costruzione che il mantenimento. Di vere e proprie industrie non si poteva parlare. Nell'Italia settentrionale, l'agricoltura non era nel complesso arretrata rispetto a quella dei paesi limitrofi. Ma nell'Italia meridionale, durante la primavera e l'estate vi è scarsità di pioggia. Tutti i fiumi del Meridione, presi insieme, non hanno una portata d'acqua che
stia alla pari con il solo fiume Adda, uno dei numerosi affluenti del Po. Non vi è quindi possibilità di irrigazione, e la siccità ostacola gravemente l'agricoltura. Nei terreni montani non coltivabili, e che coprono un quarto dell'intero paese e praticamente tutto il Mezzogiorno, la pioggia, cadendo sui declivi assolutamente privi di alberi, provoca delle frane gigantesche, che distruggono le case coloniche situate nelle vallate, e danno luogo ad acquitrini, che a loro volta producono zanzare portatrici di malaria. Le condizioni delle popolazioni rurali erano ovunque pessime. Nel Nord faceva scempio la pellagra, nel Sud la malaria. A Napoli, che era allora la città più popolosa d'Italia, il cimitero per i poveri consisteva in 365 tombe, quanti erano i giorni dell'anno. I morti, in media 200 al giorno, venivano portati al cimitero su dei carretti, come si trattasse di spazzatura, e scaraventati alla rinfusa dentro quella che era la tomba del giorno, che veniva quindi chiusa, finché l'anno seguente non arrivava ancora il suo turno. (1) C'erano provincie, quella di Potenza ad esempio, dove praticamente i cimiteri erano sconosciuti. I poveri venivano portati a seppellire nelle chiese su barelle, scoperti o coperti appena con un lenzuolo, e scaraventati senza tante cerimonie nella fossa comune, sotto il pavimento della chiesa, dove decomponendosi appestavano l'aria. Vi erano luoghi in cui i poveri venivano buttati in voragini naturali, di cui non si conosceva il fondo, oppure abbandonati alle ortiche di certi cosiddetti cimiteri, ove i cani si raccoglievano a far festino portandosi dietro per le strade ossa e crani spolpati (2). L'ostilità del Papato, il brigantaggio, una percentuale altissima di analfabetismo tra le masse popolari, un pesante debito pubblico, in parte eredità dei precedenti governi locali e in parte dovuto al costo delle guerre di indipendenza e all'opera di unificazione, tutto ciò rendeva quasi disperato il compito del nuovo regime. Dopo un faticoso decennio di riassestamento (1860-1870), lo sviluppo economico dell'Italia sino allo scoppio della guerra del 1914-15 può essere all'incirca diviso in tre periodi: dapprima quindici anni di lento ma continuo progresso (1871-1885); poi quindici anni di depressione (1886-1899); da ultimo, quindici anni di crescente aumento del benessere, sino allo scoppio della guerra. Nel 1859, la rete ferroviaria italiana non arrivava a 1800 chilometri, di cui soltanto un centinaio nel Sud; nel 1914, essa arrivava a 13800 chilometri. Nel 1862, la flotta mercantile a vapore italiana ammontava a 10000 tonnellate; nel 1914, a 933000. Nel 1881, l'Italia aveva importato 2 milioni di tonnellate di carbone; nel 1913, ne importò quasi 11 milioni. Nel 1860, l'elettricità non era ancora entrata in uso; i primi impianti sorsero nel 1882; nell'anno finanziario 1913-14, (3) l'Italia consumò 23 miliardi di chilovattore. Nel 1881, l'Italia aveva importato merci per un valore totale di 1 miliardo e 200 milioni (pari a lire 43,7 per abitante), e aveva esportato merci per un valore totale di 1 miliardo e 100 milioni (pari a lire 41,1 per abitante); nel 1913 il totale delle sue importazioni ammontò a lire 3 miliardi e 600 milioni (pari a lire 102,9 per abitante), e il totale delle sue esportazioni a lire 2 miliardi e 500 milioni (pari a lire 70,9 per abitante). La differenza di 1 miliardo di lire tra importazioni ed esportazioni era largamente compensata dalle cosiddette 'esportazioni invisibili,' cioè turismo, rimesse degli emigranti e trasporti marittimi (4). Nel 1881, il risparmio depositato nelle banche ammontava a 781 milioni di lire (lire 27,65 per abitante); nel 1913, a 4 miliardi e 700 milioni (lire 132,31 per abitante). Nel 1860, il governo dell'Italia all'indomani dell'unificazione poteva disporre di un'entrata non superiore ai 500 milioni di lire. Nei primi quindici anni di vita del nuovo regime (1861-1875), le uscite superarono di gran lunga le entrate. Nel 1866, il totale delle entrate ammontò a 600 milioni, quello delle uscite a 1 miliardo e 200 milioni. Nel 1875, le entrate cominciarono a superare le uscite, e sino al 1885 il bilancio fu in avanzo. Dal 1886 al 1897, si tornò ad essere in deficit; ma dal 1898 al 1911, vi furono considerevoli avanzi. La guerra per la conquista della Libia (1912) provocò un deficit nei bilanci degli anni 1912-14; ma le condizioni generali sia economiche che finanziarie erano
buone, e, se non fosse sopraggiunta la guerra del 1914-18, la crisi libica sarebbe stata in breve superata nel migliore dei modi. Nel 1866, un buono del tesoro del valore nominale di 100 lire si poteva acquistare al prezzo di 40 lire; tra il 1899 e il 1911, i titoli di stato italiani furono sempre al di sopra della pari; nel 1906, venne riscattato il consolidato 4 per cento per un valore di 12 miliardi di lire, ed entrò in circolazione con pieno successo una nuova emissione al 3,5 per cento. I buoni del tesoro emessi dal vecchio regime (2 miliardi), come quelli emessi nel primo decennio di vita del nuovo regime (6 miliardi), erano quasi tutti nelle mani di investitori stranieri, specialmente francesi; poco alla volta, questi titoli furono acquistati da investitori italiani, e nel 1907, ai possessori stranieri ne restavano per un importo non superiore ai 650 milioni. Fu solamente a causa della guerra di Libia che il consolidato scese a 98,59. Da 27 milioni, nel 1870, la popolazione crebbe a 35,5 milioni nel 1914. Questo aumento non era dovuto soltanto all'alto indice di natalità, ma anche ad un più basso indice di mortalità, ciò che era il risultato di un progresso nelle condizioni generali igieniche e sanitarie, come nelle condizioni generali di vita. Quest'ultimo fatto è dimostrato dal consumo del grano. Da una media annua di 3,6 milioni di tonnellate nell'ultimo decennio del secolo diciannovesimo, la produzione di grano salì a 5 milioni di tonnellate nel quinquennio precedente la guerra del 1914-15. Contemporaneamente, l'importazione del grano aumentò da una media annua di 6,6 milioni di tonnellate nell'ultimo quinquennio del diciannovesimo secolo, a una media annua di 13,5 milioni di tonnellate nel quinquennio precedente la guerra. Il consumo del grano aumentò di quattro quinti, mentre la popolazione era aumentata soltanto di un ottavo. Nel 1860, il 78 per cento della popolazione in età superiore ai sei anni era analfabeta; verso il 1911, la percentuale si ridusse al 38 per cento. L'analfabetismo era praticamente scomparso tra le nuove generazioni dell'Italia del Nord, ed era stato sensibilmente ridotto tra i giovani del Meridione. L'87 per cento dei giovani che finirono venti anni nel 1927, e dovevano quindi aver frequentato le scuole o prima o durante la guerra, sapeva leggere e scrivere (5). Il progresso intellettuale che si ebbe nella classe italiana elevata e media durante il cinquantennio che va dal 1871 al 1920 può essere misurato da un solo fatto. Dal 1875 al 1888, si pubblicò una "Enciclopedia Italiana", le cui voci, per i nove decimi, non erano che una pietosa rimasticatura del "Larousse" e della "Encyclopaedia Britannica". A quel tempo ciò era quanto di meglio la "intellighenzia" italiana poteva fare. Nel 1921 fu progettata una nuova enciclopedia italiana, che fu annunciata al pubblico nel 1922, e di cui i primi cinque volumi apparvero nel 1929. Senza ombra di dubbio, essa è superiore a tutte le opere del genere pubblicate in tutti i paesi dall'inizio del secolo. Essa è un monumento alle due generazioni di uomini che operarono per la ricostruzione della cultura italiana dal 1870 al 1920. Vi erano in Italia, come scrisse Gioacchino Volpe storico ufficiale della dittatura fascista, 'fermenti operosi e forze di rinnovamento e capacità di costruire sulla base di questa modesta realtà che era la realtà italiana...' «... Non erano passati venti anni dalla breccia di Porta Pia, e si facevano visibili, agli osservatori più attenti, i frutti di queste felici attitudini, di questa laboriosità, di questa virtù di rinnovarsi, di questa sensibilità agli stimoli del mondo circostante. L'unità politica, l'azione di governo sollecitava, fomentava, valorizzava» (6). Nelle pagine di questo storico, il lettore troverà in compendio un resoconto di quanto lo stato liberale aveva portato a compimento: pareggio del bilancio, costruzione di strade e ferrovie, migliorie agricole, creazioni di nuove industrie, espansione dei traffici, fondazione di scuole pubbliche e di istituti scientifici, provvedimenti per la
conservazione del patrimonio storico ed artistico, legislazione sociale per la protezione dei lavoratori e la loro assistenza. Come è avvenuto in tutti gli altri paesi, il processo di industrializzazione e i progressi dell'agricoltura dettero luogo anche in Italia al formarsi di un partito socialista e di organizzazioni operaie. Il socialismo contribuì in misura non piccola a elevare intellettualmente e moralmente le classi lavoratrici e a dare loro una educazione politica. Il risveglio delle organizzazioni operaie, nonostante gli occasionali disordini, scioperi, tumulti e conflitti che in Italia come altrove contrassegnarono la nascita del socialismo, recò un notevole contributo al processo di unificazione nazionale (7). Sarebbe facile rimproverare agli uomini politici dell'Italia prefascista ogni sorta di errori e di misfatti, imprese arrischiate, occasioni mancate, sprechi e leggerezze. Non tutti i problemi che il paese doveva fronteggiare furono risolti, e non sempre le soluzioni adottate furono le migliori e i metodi impiegati i più efficienti. Ma si sarebbe potuto in così breve tempo risolvere tutti i problemi? E si è mai dato nella storia esempio di un paese che abbia risolto tutti i suoi problemi nello spazio di mezzo secolo e senza commettere spropositi? Se ci si dà a giudicare l'opera degli uomini politici dell'Italia prefascista assumendo come unità di misura un perfetto ideale secondo il metodo dei riformatori politici - non vi è uomo politico che non meriti l'inferno. Ma se si accetta il metodo dello storico, che è quello di confrontare il punto di partenza, che per l'Italia è il 1871, col punto di arrivo, che è la prima guerra mondiale, e la povertà italiana di risorse con la ricchezza delle altre nazioni, non si può non concludere che nessun paese europeo in tanto breve tempo aveva percorso così lungo cammino. Nel 1920, uno studioso italiano di statistica ridusse in numeri indice il movimento economico in Italia, Austria, Francia, Germania e Inghilterra, dal 1886-1890 al 19061910, prendendo come termine di confronto il periodo 1901-1905, che indicò col numero 1000. Risultò che nel periodo 1886-1890, rispetto al numero indice 1000 del periodo 1901-1905, l'Italia era inferiore di 771 unità; la Francia 711; la Germania 615; la Gran Bretagna 776. Tali dati significano che, dato il punto di partenza, il progresso compiuto nei quindici anni dal 1886 al 1901, era stato maggiore in Inghilterra e in Italia e minore in Germania, dove tuttavia, tra il 1871 e il 1885, vi era stato uno straordinario balzo in avanti. Nel quinquennio tra il 1906 e il 1910, il progresso era rappresentato dai seguenti numeri indice: Italia 1296; Francia 1205; Germania 1192; Gran Bretagna 1055. In altre parole, il progresso maggiore si era avuto in Italia (8). Il risultato dello sviluppo economico, politico ed intellettuale di mezzo secolo può essere misurato da un semplice fatto. Nella guerra contro l'Austria del 1866, pochi anni dopo che l'Italia si era ridestata dall'avvilimento dei regimi assolutisti, una piccola schermaglia nella quale l'esercito italiano perdette non più di ottocento uomini, fu sufficiente a creare nei capi militari un tale stato di confusione e di scompiglio da rendere impossibile ogni ulteriore iniziativa. Durante la guerra mondiale, il popolo italiano ebbe oltre mezzo milione di caduti sul campo, un altro mezzo milione di invalidi, e un milione di morti a causa di epidemie; non perciò si abbandonò il terreno, e nell'autunno del 1918 gli italiani poterono essere testimoni della disfatta dell'esercito e dell'Impero austriaco.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO PRIMO. Chiunque si accosti alla storia d'Italia dal 1870 al 1922 senza un acuto senso critico corre il rischio di essere messo fuori strada da due ordini di errori. Innanzitutto, la letteratura politica italiana di quel periodo è piena di una critica amara contro tutto e contro tutti (confer a questo proposito quanto si dice alla fine del
capitolo seguente). I conservatori, che erano stati al governo sino al 1876 e in seguito non erano più stati capaci di fare a modo loro, criticavano i ministeri che non erano abbastanza conservatori. I repubblicani, i socialisti e gli anarchici li criticavano perché non permettevan loro di preparare la rivoluzione. Coloro che desideravano una amministrazione onesta ed efficiente e un più rapido progresso sociale li criticavano sia dicendo che non erano abbastanza onesti sia che erano assolutamente disonesti, e non abbastanza efficienti e non abbastanza progressisti. Tutti, anche gli uomini politici che erano al potere, erano scoraggiati per la distanza profonda che divideva la vita mediocre di ogni giorno dalla promettente aspettazione che era stata covata durante le lotte e i sacrifici del Risorgimento. Più tardi, dopo il 1922, il processo si invertì. Tutto quanto si faceva o non si faceva in Italia sotto la dittatura di Mussolini diventava un monumento di saggezza, di efficienza e di successo. Il risultato di tutto ciò è che lo storico si trova di fronte una massa di letteratura pessimistica, che sorge spontanea in Italia nel periodo precedente al 1922, e una massa egualmente vasta di letteratura apologetica, che venne incoraggiata dal governo fascista dopo il 1922. In tali circostanze è facile concludere, in perfetto accordo con la propaganda fascista, che in Italia, prima che Mussolini iniziasse a fare i miracoli, 'non si faceva niente.' Tipici esempi di questa storiografia fascista sono: L. Villari, "The Awakening of Italy: the Fascist Regeneration", London, Methuen & Co., 1924, pagine 1-8; "Italy", New York, C. Scribner's Sons, 1929, pagine 79-134; gli articoli sull'Italia nella "Encyclopaedia Britannica", 14 ediz. alla voce "Italy", pagine 806-817. La versione fascista è stata tranquillamente bevuta dalla maggior parte degli 'specialisti' di storia italiana di lingua inglese. Tra questi i più deplorevoli sono: H. W. Schneider, "Making the Fascist State", New York, oxford University Press, 1928, pagine 1-15, e "The Fascist Government of Italy", New York, D. Van Nostrand, 1926, pagine 22-25; H. Goad, "The Making of the Corporate State", London, Christopher, 1932, pagine 2738; G. B. McGlellan, "Modern Italy", Princeton, Princeton University Press, 1933, pagine 135-200. Non si riesce a capire come un tale monumento di ignoranza, stupidità e disonestà, quale è questo ultimo autore, abbia potuto ricevere dall'Università di Princeton l'incarico di insegnare storia italiana. Nel 1901, gli storici inglesi Bolton King e Thomas Okey, persone oneste ed assai ben preparate, pubblicarono un libro, "Italy To-Day". Lo scrissero sotto l'impressione della grave crisi economica e del malgoverno che aveva afflitto il paese durante gli ultimi anni del secolo diciannovesimo, e presentarono quindi un quadro pessimistico. Ma si resero anche conto che 'sotto la cortina del malgoverno, della corruzione e della apatia politica, c'era una giovane nazione, piena di quelle qualità, che fanno un popolo grande' (Prefazione, pag. VI). Nel 1910, Okey, Regius Professor di italiano a Oxford, scrisse per la "Cambridge Modern History" un capitolo sull'Italia contemporanea, dove, per quanto ancora con una intonazione piuttosto pessimistica, si rilevavano i progressi compiuti durante gli ultimi dieci anni. Villari, nella "Fortnightly Review" del 15 novembre 1912, rimproverava aspramente l'ingiustificato pessimismo di Okey. «Lo straniero medio non sa niente dell'Italia che lavora e che produce, e quanto alle sue idee sul Regno esse si possono riassumere in una mezza dozzina di aforismi: l'Italia è il paese più povero del mondo, la maggior parte della sua popolazione è composta di mendicanti, e tutti sono incredibilmente pigri; ladri e mendicanti si trovano in abbondanza; il governo è completamente corrotto, e sia gli uomini politici che i funzionari non pensano ad altro che ad arricchirsi a spese del pubblico. (...) I sentimentali radicali (...) non vedono altro che la lotta tra i ricchi e le vittime oppresse che stanno sotto di loro. E questo è spesso l'atteggiamento che assumono i democratici inglesi; un caratteristico esempio di tale atteggiamento si trova negli scritti di Thomas Okey, il cui capitolo sull'Italia nel XII volume della "Cambridge
Modern History" offre uno dei punti di vista delle cose italiane più deformati e libellistici.» Dopo l'avvento di Mussolini, Okey mi riferì di essere rimasto colpito dall'inaspettata intensità di vendita di "Italy To-Day". Ricercando la causa di questa rinnovata richiesta, trovò che i propagandisti fascisti in Inghilterra e in America raccomandavano il libro a quanti volevano formarsi un'idea sull'Italia prefascista. Nel suo libro "The Fascist Experiment", Villari scriveva: «Quando, specialmente da parte di osservatori stranieri, si parla della pretesa distruzione da parte di Mussolini della 'libertà costituzionale' in Italia, si dimentica del tutto quanto succedeva prima. Due scrittori inglesi, Bolton King e Thomas Okey, nel volume "Italy To-Day", pubblicato nel 1901, danno nel capitolo 1 un quadro di quella che era l'Italia sotto i cosiddetti governi liberali (pag. 89).» Sarebbe lo stesso che, a quanti si vogliono render conto di cosa fosse la storia degli Stati Uniti durante il diciannovesimo secolo, si consigliasse un libro sugli stati del Sud all'indomani della Guerra Civile. C. E. McGuire, "Italy's International Economic Position", New York, MacMillan, 1926, non ha mai sentito parlare di un periodo di prosperità finanziaria in Italia tra il 1900 e il 1914, e afferma quindi (pagine 52-71) che tutta la storia d'Italia, dal 1860 al 1925, fu una serie di deficit, e che solo con la venuta del fascismo il bilancio italiano si presentò in avanzo. Vedremo che sotto il fascismo avanzi non ce ne sono mai stati. Dopo l'annuncio, dato da Mussolini nel dicembre 1928, del suo proposito di bonificare tutte le terre incolte, è venuto di moda parlare della bonifica in Italia, come se questa fosse stata inventata da Mussolini. Villari, ad esempio ("Italy", pagine 13, 263, 264), a proposito di quanto era stato fatto in questo campo prima del 1922, dice soltanto che gli sforzi per prosciugare le paludi e migliorare l'agricoltura erano sfumati nel nulla per gli intrighi parlamentari e per la mancanza di cooperazione, da parte del governo e delle autorità locali, con le iniziative private: "'durante e dopo la guerra' (il corsivo è nostro), quando le misure contro la malaria subirono una battuta d'arresto e i lavori di bonifica furono sospesi, ci fu anche nel Veneto una ripresa della malaria' (pag. 11). La verità è che, dal 1882 al 1915, 332000 ettari di terra vennero completamente prosciugati e bonificati e resi in tal modo coltivabili; 416000 ettari di terra erano già stati bonificati, ma appartenevano a zone nelle quali i lavori di bonifica in corso non erano stati ancora finiti; e si erano già iniziati i lavori in altri 440000 ettari di terra. Dal 1900 al 1914, il governo spese 390 milioni di lire-oro per la bonifica delle terre, e si calcolò che per terminare i lavori già iniziati sarebbero stati necessari altri 353 milioni di lire-oro (1). La guerra fece sospendere queste opere e tutti quei lavori che non avevano carattere di urgenza immediata. Ma non appena la guerra fu finita, si riprese a lavorare in pieno. Il 17 ottobre 1919, l'addetto commerciale americano a Roma scriveva nel "Commerce Reports": 'Il governo sta facendo ogni sforzo non soltanto per imporre l'obbligo di coltivare tutte le aree disponibili, ma anche per incoraggiare l'introduzione di moderni metodi di colture intensive.' A questo scopo, nei quattro anni dal 1 luglio 1918 al 30 giugno 1922, furono spesi 664 milioni di lire (2). Le opere di bonifica erano l'orgoglio degli agricoltori italiani. In provincia di Ferrara, dal 1862 al 1912, la superficie delle terre coltivate aumentò da 100000 a 200000 ettari, e la produzione di grano da 500000 quintali passò a 1.200.000 (3). La bonifica dell'isola di Ariano, di 12000 ettari, terminata nel 1906, costò da sola allo stato 2.829.722 lire, e nel 1922 lo stato tra imposte dirette e indirette, diritti doganali e altre imposte addizionali incassò una somma superiore di cinque volte. La popolazione
della zona aumentò da 15538 nel 1901, a 25572 nel 1921; i capi di bestiame salirono da 3695 nel 1902, a 8557 nel 1921; la produzione del 1924 fu valutata per una cifra sette volte maggiore di quanto fosse prima della bonifica (4). Nella piana di Catania, la tenuta 'Costantino,' che prima della guerra era un campo di 300 ettari, nel 1923 era coperta da 100000 alberi, 300000 viti, e molte altre piantagioni ad alto reddito, e il suo valore era aumentato di quindici volte rispetto a dieci anni prima (5) Nel dicembre 1922, i due addetti commerciali inglesi a Roma scrivevano quanto segue: «Un'area per una estensione superiore ai 500000 acri (dato che è inferiore alla estensione reale di 332000 ettari) di quella che è diventata una delle terre più ricche dell'Italia settentrionale, è stata già bonificata e resa coltivabile con un'opera durata oltre quarant'anni. La più importante stazione di pompaggio già sistemata per l'attuazione dei molti progetti di bonifica, la stazione di Ongaro Inferiore, venne inaugurata nell'estate del 1922. E' stata progettata per prosciugare una larga zona della parte inferiore del Veneto, e i suoi complessi segnano un notevole passo avanti nell'opera di trasformazione delle paludi malariche in fertili terre coltivabili. Dato che la legge consente allo Stato di assistere i consorzi locali per l'irrigazione coprendo un terzo delle spese delle opere irrigatorie di importanza nazionale, si è potuto provvedere, per opera dei più eminenti esperti italiani, alla irrigazione di circa 500000 acri di pianura padana. Oltre a questo, sono stati progettati o sono in corso di studio, molti altri piani di irrigazione, connessi con vasti bacini idroelettrici, quali quello della Sila in Calabria e dell'Alto Belice in Sicilia (6).» Nell'aprile 1923, un gruppo di agricoltori olandesi, in visita alle bonifiche di Ferrara e di Chioggia, rimasero molto ammirati di scoprire una 'Olanda italiana.' (7) Quell'Olanda non era nata dal mare in una notte, era costata mezzo secolo di duro lavoro. Naturalmente sarebbe stato possibile fare di più e meglio. Nessun'opera di questo mondo è tanto rapida e perfetta da non essere suscettibile di miglioramento, e nessun'opera è tanto lenta e malfatta che non si possa farla anche più lentamente e in modo peggiore. Ma nessuna persona onesta e bene informata ha diritto di affermare che nel campo delle bonifiche agrarie prima di Mussolini in Italia non si era fatto niente. E' vero che durante la guerra del 1915-1918 l'abbandono delle opere di bonifica nel Veneto e la vita trascorsa nelle trincee fangose e nelle zone malariche della Macedonia e dell'Albania produssero una violenta ripresa della malaria. Ma, alla fine della guerra, la lotta contro la malaria fu ripresa energicamente e la situazione migliorò rapidamente. Le morti per causa di malaria, che dallo 0,6 per ogni 10000 abitanti del 1914 erano salite all'1,8 nel 1919, retrocessero all'1,1 nel 1922 (8). Quanto a Villari, nel suo caso si tratta di un propagandista che consapevolmente cerca di trarre in inganno i suoi lettori. Ma anche studiosi di assoluta integrità morale sono cascati nelle reti tese dal fascismo. Prendiamo ad esempio il caso della studiosa australiana Miss Margot Hentze, donna diligente, di larghe vedute ed eccezionalmente dotata, la quale nel 1939 pubblicava un libro, "Pre-Fascist Italy: the rise and fall of the parliamentary regime" (London, George Allen & Unwin Ltd.), frutto di una onesta, anche se non fortunata, ricerca. Miss Hentze ammette che il progresso materiale del paese era stato 'fenomenale,' 'prodigioso' (pagine 134-137), ma nessuno la consigliò a compiere uno studio metodico del progresso che era una parte della storia d'Italia dal 1871 al 1915. Al contrario, essa ripete con insistenza l'affermazione secondo la quale, a partire dal 1870, il paese avrebbe avvertito una specie di prostrazione spirituale; prostrazione non nella produzione artistica, ma nei mezzi atti a dare espressione di sé e nel generale uso del potere creativo; invece di trovare 'la sua vocazione politica, l'Italia
sembrava essersi messa sulla strada che sempre più l'allontanava da essa' (pag. 137). Se Miss Hentze avesse fatto uso di parole così prive di significato come 'prostrazione,' 'mezzi atti a dare espressione di sé,' 'vocazione politica,' quali esempi per descrivere le lamentele che molti italiani avevano l'abitudine di levare al cielo, essa avrebbe dato il quadro esatto di quel vago scontento che era la malattia dello spirito italiano nel periodo da lei studiato, e che fu una delle fonti del movimento fascista. Ma siccome ha usato queste parole come cosa propria, le sue pagine mancano assolutamente di buon senso. Miss Hentze ammette che l'Italia era un paese povero (pagine 23, 29, 207), ma si unisce al coro dei fascisti nel rimproverare gli uomini politici italiani per non aver perseguito una politica estera di espansione, quando altri paesi facevano una politica imperialista (pagine 149-151). Ma è possibile che un paese povero adotti una politica imperialista senza rompersi il collo? Dove è stata condotta l'Italia dall'imperialismo di Mussolini? Miss Hentze avrebbe dato prova di una maggiore saggezza se non avesse rimproverato quegli uomini politici italiani che seguirono una politica estera prudente e modesta, e non si fosse unita al coro fascista in lode proprio di Francesco Crispi, che nel 1896 condusse l'Italia al disastro coloniale della battaglia di Adua; per quanto Miss Hentze in un momento di buon senso si renda conto che il periodo Crispi è stato 'disastroso' (pag. 231). Miss Hentze non si permette di affermare nulla senza appoggiarsi alla autorità della sua brava citazione. Ma il fatto è che sceglie sempre le sue autorità con lo stesso criterio di chi, volendo scrivere la storia dell'amministrazione Roosevelt, si serva soltanto dei fatti presentati da Mister Hoover, o di chi, volendo scrivere la storia delle amministrazioni Harding Coolidge e Hoover, si serva soltanto dei discorsi fatti dai candidati democratici durante le elezioni presidenziali dal 1920 al 1928. Spesso fascisti e stranieri innocenti si richiamano alla sconfitta di Caporetto, per dimostrare che l'Italia era in una situazione di inefficienza amministrativa e militare, prima che arrivasse Mussolini a mettere le cose a posto. Durante la guerra mondiale vi furono molte altre sconfitte oltre quella di Caporetto. Nell'agosto 1914, le truppe francesi ed inglesi ebbero a subire un terribile rovescio in quella che è generalmente conosciuta come la 'battaglia delle frontiere.' Si dovette abbandonare un decimo del territorio francese, per non parlare del Belgio. I tedeschi arrivarono sino a meno di cinquanta chilometri da Parigi. Un centinaio di generali francesi vennero congedati come incapaci. Il disastro avvenne nelle prime settimane di guerra, malgrado che i francesi stessero combattendo una guerra difensiva sul loro proprio territorio. L'esercito francese riuscì a cambiare la situazione alla Marna, ma anche allora i tedeschi rimasero sul territorio francese per quattro anni. Durante i primi sei mesi di operazioni, la guerra mondiale fu per l'esercito austriaco una serie di Caporetto. I russi, dopo il maggio 1915, non fecero che passare da una Caporetto a un'altra. Pochi mesi prima di Caporetto, l'esercito francese quasi si disintegrò da capo a fondo, in seguito alla carneficina a cui era stato sottoposto dal generale Nivelle nell'aprile 1917. Dalla fine di maggio al 15 giugno, vi furono ammutinamenti in 75 reggimenti di fanteria, 23 battaglioni di 'chasseurs' e 12 reggimenti di artiglieria (9). Se i tedeschi avessero avuto un servizio informativo migliore e avessero attaccato in quel momento, avrebbero inflitto all'esercito francese una sconfitta che forse sarebbe stata irreparabile. Per due anni e mezzo gli italiani erano stati in guerra senza venire avviati in una campagna offensiva sul suolo nemico. Nel maggio e giugno del 1917, un tentativo di rompere le linee austriache era costato la perdita di 132000 uomini, e nell'agosto e settembre un altro tentativo ci era costato la perdita di 148000 uomini (10). L'esercito francese, nell'aprile 1917, non ne perse più di 112000. I soldati francesi si ammutinarono per molto meno di quanto avrebbe giustificato una ribellione dei soldati italiani. Storici e critici militari concordano nel dare la responsabilità della
sconfitta ai capi militari, e nell'affermare che lo sbandamento delle truppe avvenne "nelle retroguardie", dopo che gli austriaci avevano rotto il fronte ed erano penetrati in profondità nelle linee italiane, dove non era stata apprestata nessuna misura difensiva (11). La disfatta francese del 1940 non è stata altro che una Caporetto su scala enormemente più ampia. Tuttavia in Italia, nel 1917, l'esercito italiano fermò l'avanzata austriaca, non appena fu possibile trovare una conveniente linea di difesa, il Piave, e prima che fosse arrivato un qualsiasi aiuto da parte inglese o francese. Ecco quanto un eminente storico ed uomo di stato inglese, Lord Tweedsmuir, che morì nel 1940 mentre era governatore del Canada e scrisse sotto il nome di John Buchan, ebbe a dire nella sua "History of the Great War" (IV, pagine 55 seguenti) su quanto successe in Italia dopo Caporetto: «Davanti al pericolo lo spirito della nazione si sollevò energicamente. (...) Nel paese tutti, o quasi tutti, affrontarono la crisi con grande forza d'animo. Si dimenticarono le dispute di partito, si recriminò poco o punto sulle passate manchevolezze, e ci si risolse a stringere le file, tutti uniti, per far fronte alla tempesta. Solo pochi estremisti, i quali vedevano di buon occhio il disastro, rimasero in disparte. (...) Se i momenti di panico possono trovare giustificazione, questa deve valere per quelle molte miglia percorse sotto un incubo, durante le quali la truppa venne sottoposta a una prova troppo sproporzionata al valore umano. Ma va a gloria eterna della Terza Armata il non aver ceduto. La ritirata della Terza Armata fu una di quelle azioni che si possono dire inesplicabili. Essa rese possibile agli italiani di fermarsi e privò il nemico del coronamento di quel successo che aveva già quasi raggiunto. (...) La gloria maggiore va attribuita alla Cavalleria (...) che caricò il nemico ininterrottamente, e gioiosamente si sacrificò perché la ritirata potesse guadagnare un'ora di tregua. Ci si deve fermare sul Piave. (...) Mentre il Duca d'Aosta combatteva sul lato ovest, De Robilant calava dal Cadore e in tutta fretta si dirigeva verso il punto centrale del Piave. Verso il 10 novembre, Cadorna aveva raggiunto completamente la linea del Piave e la ritirata aveva termine. Era stata condotta per intero dalle truppe italiane, e ad esse sole andava tutto il merito. (...) I rinforzi alleati non potevano arrivare in linea subito, sebbene la certezza del loro arrivo semplificasse il problema delle riserve e sollevasse lo spirito degli italiani, "e per diverse settimane la difesa del Piave fu opera degli italiani soltanto". (...) Di tutto il fronte il punto più cruciale era il massiccio del Monte Grappa. Riuscendolo a conquistare, il nemico avrebbe potuto sfociare nella valle del Brenta e aggirare il fianco della difesa del Piave. (...) Per tenerlo, si presero dai depositi e dai reparti ragazzi di sedici e diciassette anni, che spesso avevano un solo mese di addestramento. Nel momento in cui la loro patria sembrava agonizzante essi si gettarono disperatamente nella breccia. (...) Nelle rimanenti settimane di novembre vi fu una lotta disperata, specialmente nella zona del Monte Grappa. I colpi fioccavano senza interruzione, colpi che coraggiosamente si cercava di evitare, e tuttavia le truppe italiane logorate dovettero lentamente ceder terreno. (...) "Fu soltanto il 4 dicembre" che Plumer (comandante delle truppe inglesi) e Fayolle (comandante delle truppe francesi) resero possibile a De Robilant di concentrarsi sul Grappa. (...) La ritirata del Piave saldò l'Italia in un più stretto sentimento unitario, e rinnovò quello spirito indomabile che era una delle eredità che le venivano da Roma.» Ancora nel marzo 1918 gli inglesi e i francesi subirono una terribile sconfitta nella battaglia del 'Chemin des Dames,' e dovettero ritirarsi per quasi 50 chilometri. Viceversa, nel giugno 1918, gli italiani vinsero la grande battaglia del Piave, la prima vittoria dell'Intesa antigermanica dopo una lunga e prolungata serie di disastri. La battaglia del Piave, durante l'ultimo anno di guerra, ebbe la stessa importanza storica e strategica della battaglia della Marna durante il primo anno. Quella sconfitta segnò l'ultima ora dell'Impero austro-ungarico.
Tuttavia le sole battaglie che si ricordano quando si pensa alla prima guerra mondiale sono la battaglia della Marna, vinta dai francesi, e la battaglia di Caporetto, perduta dagli italiani. Perché? 1) I capi di tutti gli altri eserciti accettarono i loro insuccessi in dignitoso silenzio; mentre il comandante in capo dell'esercito italiano, Cadorna, che con Capello e Badoglio fu uno dei tre capi militari responsabili del disastro, in un bollettino ufficiale diffuso in tutto il mondo, accusò i suoi soldati di vigliaccheria e tradimento. Per aver calunniato i suoi uomini allo scopo di scolparsi, e non per aver perduto la battaglia, avrebbe dovuto esser portato davanti alla corte marziale. Invece, il governo fascista gli ha eretto un mausoleo. 2) Le mire italiane sulla Dalmazia, il Medio Oriente e i territori coloniali in Africa erano in contrasto con quelle dei governi inglese e francese e dei loro vassalli yugoslavi e greci. Di conseguenza, non soltanto la propaganda tedesca ed austriaca, ma anche quella dei piccoli e grandi alleati dell'Italia desiderava di screditare lo sforzo bellico italiano e affermare in tal modo che le sue 'smodate ambizioni imperialistiche' erano campate in aria. La sconfitta di Caporetto era proprio quello di cui avevan bisogno, e quindi Caporetto divenne una specie di motivo d'obbligo di tutta la loro musica. 3) A proposito delle loro disavventure militari, i governi degli altri paesi fecero il meno chiasso possibile. Il governo inglese, ad esempio, dopo i terribili disastri di Passchendaele (agosto-settembre 1917) e di Cambrai (nov. 1917), di cui si può leggere nelle "War Memories" di D. Lloyd George (IV, pagine 420, 438-39, 442-43), condusse un'inchiesta, i cui risultati vennero resi noti nel "London Times" del 16 gennaio 1918, in non più di ventidue righe. La Camera dei comuni si guardò bene dal fare il minimo chiasso, e in tal modo ogni cosa fu messa a tacere. In Italia, dopo Caporetto, si creò una grande commissione di inchiesta per appurare la responsabilità del disastro. I lavori della commissione durarono 18 mesi e approdarono, nell'estate 1919, in una enorme relazione in tre grossi volumi in folio. Della relazione si impadronirono i giornali, che ne discussero per intere settimane, scambiandosi accuse e contro accuse. Poi se ne iniziò la discussione alla Camera dei deputati, e se ne discusse dal 6 al 10 settembre. In tal modo, anche coloro che avrebbero dimenticato Caporetto furono obbligati a pensarci sopra di continuo, raggiungendo l'unico risultato di perdere una quantità enorme di tempo e di fiato in una discussione che non poteva aver più nessun effetto pratico. 4) In tutti gli altri paesi, 'esperti' militari e storici ufficiali hanno avuto cura di mascherare il più possibile le sventure dei loro eserciti, o almeno di attenuarle, quando non si poteva ignorarle del tutto. Ancora oggi si hanno informazioni molto sommarie a proposito della disintegrazione morale che, nell'estate del 1917, minacciò l'esercito francese. In un libro di 694 pagine di grande formato ("Histoire de la Grande Guerre", Paris, Gallimard, 1936), H. Bidou è tanto prudente da dedicare non più di sei pagine (pagine 511-516) all'insuccesso di Nivelle, e non più di una pagina e quindici righe (pagine 516-518) agli ammutinamenti che seguirono. In Italia, dopo la sconfitta di Caporetto, sorsero amare dispute intorno a chi ne dovesse essere tenuto responsabile. Socialisti, cattolici, Papa Benedetto Quindicesimo, e quegli uomini politici 'liberali' che, insieme ai socialisti e ai cattolici, non avevano favorito la continuazione della guerra, furono accusati del disastro. Senza dubbio, lo scoraggiamento, che dopo tre anni di guerra e la disfatta della Russia si era impadronito dei soldati, contribuì allo sbandamento morale delle forze italiane, dopo che la sconfitta militare era divenuta evidente, e le recriminazioni di socialisti, cattolici e 'liberali' contrari alla guerra ebbero la loro parte nel determinare un morale basso. Gruppi 'disfattisti' erano all'opera in Italia come in tutti i paesi belligeranti. Poi, durante tutti questi ultimi vent'anni, i fascisti e i loro soci in Italia e all'estero hanno ripresentato Caporetto almeno un giorno sì e un giorno no come uno dei delitti più lampanti commessi dagli uomini politici italiani, prima che i fascisti risollevassero
l'Italia da un tale pantano. Essi continuano insistentemente ad ignorare i cattolici e Papa Benedetto Quindicesimo, contro i quali, dopo Caporetto, Mussolini indirizzò gli insulti più violenti, e muovono le loro accuse contro i 'liberali' e i socialisti, che deliberatamente avrebbero inquinato il morale dei soldati (Villari, "The Awakening of Italy", pagine 24-43; Goad, "The Making of the Corporate State", pag. 39). Essi trascurano il fatto che i tre capi militari responsabili del disastro di Caporetto non appartenevano al Parlamento democratico italiano. In tutti i paesi, anche nei paesi a regime parlamentare, la scelta dei comandanti militari avviene al di fuori del controllo del Parlamento. Essa è fatta da un piccolo numero di persone, che in maggioranza sono altri capi militari. Nei paesi democratici, i cittadini e i loro rappresentanti possono soltanto esigere ed ottenere il congedo di quei capi militari che abbiano commesso degli errori palesi.
CAPITOLO SECONDO. LA CRISI DEL DOPOGUERRA. La prima guerra mondiale, in Italia come in tutti gli altri paesi neutrali e belligeranti, produsse profondi mutamenti nella vita economica. (1) Rami della produzione che prima della guerra erano ad uno stadio rudimentale raggiunsero proporzioni enormi, mentre altri che erano stati fiorenti cessarono di esistere. Industrie che si erano trasformate per adattarsi ai bisogni della guerra dovevano, a guerra finita, essere riconvertite per i bisogni del tempo di pace. Molte imprese che erano fiorite come funghi occorreva che fossero ridotte o eliminate addirittura. L'intero sistema commerciale doveva essere rimesso in piedi. Nuove fonti di materie prime e nuovi mercati dovevano essere conquistati in concorrenza con nazioni assai più favorevolmente dotate, impegnandosi con le loro industrie e i loro commerci in un duello animato per il controllo dei mercati e dei prodotti. Le ferrovie e il materiale rotabile erano stati sottoposti ad un logoramento eccezionale. Uno degli ostacoli principali alla ripresa delle attività industriali e al normale funzionamento delle ferrovie era costituito dalla scarsità di carbone, che per lo più doveva essere importato dall'Inghilterra ad assai caro prezzo. Nel 1919, il suo costo arrivò a toccare i 56 dollari per tonnellata, e spesso, a causa degli scioperi tra minatori, portuali e marittimi inglesi, non se ne trovava affatto. Le classi agricole - vecchi, donne e bambini - erano riuscite durante la guerra, a prezzo di fatiche enormi, a mantenere la produzione ad un livello non molto inferiore a quello prebellico ma il terreno si era impoverito. Molto bestiame era stato macellato, senza che poi si fosse provveduto a sostituirlo. Il patrimonio forestale era stato manomesso, sia per esigenze militari, sia perché in molte industrie la legna aveva sostituito il carbone. Le zone adiacenti al vecchio confine austro-ungarico, che erano state il teatro delle operazioni militari, erano in uno stato di rovina: 163000 case di abitazione, 435 municipi, 255 ospedali, 1156 edifici scolastici, 1000 chiese, 1222 cimiteri erano stati distrutti o danneggiati; 80 imprese di bonifica agraria interessanti un'area di circa 120000 ettari erano andate in rovina; 350 chilometri di strade erano fuori uso; 450000 capi di bestiame erano andati perduti. Fertilizzanti, macchine e mezzi di trasporto erano, alla fine della guerra, generi piuttosto rari. Durante la guerra le importazioni avevano superato le esportazioni per un ammontare medio annuo di 1,1 miliardo di dollari, e le esportazioni invisibili erano venute quasi del tutto a cessare. A questo deficit della bilancia commerciale si era provveduto mediante prestiti all'estero. Allo stesso modo, fu mediante prestiti ottenuti dai governi alleati che la lira aveva potuto mantenere il proprio corso sia durante la guerra che nei primi mesi del dopoguerra. Nella seconda metà del 1919, il governo italiano dovette di nuovo far conto esclusivamente sulle proprie risorse. Si doveva far fronte ai debiti straordinari di guerra, di cui si approssimava la scadenza, e il cui importo, dal luglio 1918 al luglio 1922, ammontò a 4 miliardi di dollari. Per un paese come l'Italia, tale cifra rappresentava una somma enorme, che non poteva ricavarsi esclusivamente dal gettito fiscale, sebbene le tasse avessero subìto un aumento fortissimo. Il Tesoro dovette aumentare il debito pubblico e moltiplicare la carta moneta; sicché il totale del circolante e il debito pubblico aumentarono secondo quanto è mostrato nella seguente tabella (2). TABELLA. [Nell'ordine: anno - circolante in milioni - debito interno in milioni]. 1914, 30 giugno - 2764 - 15765 lire oro. 1918, 30 giugno - 12183 - 48402 lire carta.
1919, 1920, 1921, 1922,
30 30 30 30
giugno giugno giugno giugno
-
14803 20355 20704 20371
-
60213 74496 86482 92856
lire lire lire lire
carta. carta. carta. carta.
Tali procedimenti erano inevitabili, e tutti i governi dei paesi belligeranti fecero lo stesso; ma ciò nonostante erano sistemi malsani. L'inflazione di carta moneta conduce al deprezzamento della moneta. Nel luglio 1914, quando la carta moneta ammontava a 2764 milioni di lire, il cambio con il dollaro era a lire 5,17. Nel giugno 1919, la lira scese rispetto al dollaro a 8,05; nel dicembre 1919, a 13,07; nel giugno 1920, a 16,89; nel dicembre 1920, a 28,57 (3). Il deprezzamento della moneta faceva salire i prezzi. Ponendo a 100 la media dei prezzi italiani del 1913, i numeri indice per il 1919 e il 1920 hanno il seguente andamento: 1919: giugno 451, dicembre 576; 1920: giugno 795, dicembre 825. Si ebbe dunque un vero e proprio rialzo economico. Gli operai industriali ed agricoli, che non potevano più vivere con i vecchi salari, il cui potere d'acquisto scemava rapidamente, reclamavano salari più alti. E quando le loro richieste non venivano accolte o le cose andavano troppo per le lunghe, allora scioperavano. I pubblici funzionari, sia delle amministrazioni statali che degli enti locali, e gli addetti ai pubblici servizi, seguivano l'esempio dei lavoratori delle imprese private. All'interno di questo sconvolgimento economico si svilupparono i motivi di propaganda degli anarchici e dei bolscevichi, i quali, sperando in tal modo di preparare la via alla rivoluzione sociale, incitavano agli scioperi sia generali che locali, e predicavano l'occupazione delle fabbriche e delle terre, il sabotaggio e l'ostruzionismo. Né si trattava soltanto di scioperi economici, perché frequenti erano infatti gli scioperi politici e di 'solidarietà,' molti dei quali erano originati dai pretesti più assurdi e meschini, ed erano perciò tanto più esasperanti, specialmente quando venivano a colpire i più essenziali servizi pubblici, quali ferrovie, trasporti urbani, servizi telegrafici e postali, illuminazione e servizi di approvvigionamento alimentare delle grandi città (4). Questi motivi di agitazione erano allora comuni a tutti i paesi e non c'era modo di evitarli. Soli rimedi a tanti malanni erano la pace, la pazienza, il tempo e la tenace operosità. Ma in Italia si intromise tra questi fattori un'altra terribile crisi morale, che praticamente condusse il paese sull'orlo dello sfacelo. Nel Patto di Londra (26 aprile 1915), con il quale l'Italia si era impegnata a intervenire nel conflitto contro la Germania e l'Austria, i governi in carica dei paesi dell'Intesa avevano promesso al ministro degli Esteri italiano, Sonnino, a titolo di compenso, che in caso di vittoria l'Italia avrebbe ottenuto: 1) il Trentino di lingua italiana; 2) il SudTirolo di lingua tedesca; 3) le città di Gorizia e Trieste e la parte occidentale dell'Istria, la cui popolazione era in maggioranza italiana; 4) gli "hinterlands" di Gorizia, Trieste e l'Istria orientale, le cui popolazioni erano quasi totalmente slave; 5) la maggior parte della Dalmazia e delle isole dalmate, le cui popolazioni erano in schiacciante maggioranza slave; 6) libertà di azione in Albania e nelle isole del Dodecaneso, strappate dall'Italia alla Turchia nel 1912; 7) accessioni territoriali in proporzione agli acquisti che Inghilterra e Francia avrebbero fatto nel Medio Oriente a spese della Turchia, e in Africa a spese della Germania. Nel corso della guerra, il ministero degli Esteri italiano e gli alti comandi dell'esercito e della marina avevano organizzato un sistematico servizio di propaganda, per convincere il popolo italiano che questi acquisti territoriali erano indispensabili per il benessere e il prestigio della nazione. Finita la guerra, gli inviati italiani alla Conferenza della Pace ottennero senza difficoltà quanto era da essi atteso secondo i titoli 1, 2 e 3. Ma con lo smembramento
dell'Impero austro-ungarico, la guerra aveva portato alla nascita della Yugoslavia (regno unito di serbi, croati e sloveni). Alla Conferenza della Pace, Sonnino si trovò a dover contendere i territori slavi e italo-slavi che il Patto di Londra assegnava all'Italia, non con gli Asburgo, che erano ormai usciti dalla scena, ma con i rappresentanti del nuovo stato yugoslavo. Il problema di Fiume sopraggiunse ad aumentare le difficoltà italiane. Questa città, abitata da una maggioranza italiana, e che sotto l'Impero austro-ungarico aveva sempre goduto della condizione di città libera, analogamente ad Amburgo in Germania, era stata lasciata da Sonnino alla Croazia, secondo i termini del Patto di Londra, che impegnava il governo italiano. Se l'Austria-Ungheria non fosse stata smembrata, la maggioranza italiana della città avrebbe potuto acconsentire che Fiume rimanesse città libera in uno stato plurinazionale austro-ungarico-croato. Ma nelle condizioni attuali, essa si ribellava all'idea di venir privata delle sue immunità tradizionali e lasciata alla mercé dei croati. Su questo punto, gli italiani tutti, senza distinzione di fedi politiche, erano decisi a sostenere gli italiani di Fiume; anche coloro che erano convinti si dovesse arrivare ad un compromesso amichevole tra italiani e yugoslavi si univano alle schiere dei protestatari, esigendo almeno che la città conservasse la sua tradizionale autonomia sotto il protettorato italiano. La questione in sé non era di grande importanza. Nessun interesse vitale né italiano né yugoslavo vi era coinvolto. Come ebbe a dire un giornalista americano, gli italiani fanno tanto chiasso per un arancio e si scordano delle miniere d'oro disponibili altrove. Per risolvere il problema non c'era che un modo: rinunciare alla rigida esecuzione del Patto di Londra, servendosene invece come base di negoziati per raggiungere una sistemazione migliore. I ministri degli Esteri di Francia e d'Inghilterra, che secondo i termini del Patto di Londra erano impegnati a dare la Dalmazia all'Italia, adesso desideravano invece che questa fosse data alla Yugoslavia; per contro, l'Italia era impegnata dallo stesso Patto a dare Fiume alla Croazia, ma tutti gli italiani erano contrari alla cessione della città alla Yugoslavia. Sarebbe bastato quindi che gli inviati italiani avessero acconsentito alla revisione del Patto di Londra, abbandonando le loro pretese sulla Dalmazia in cambio di Fiume. A una soluzione del problema in questi termini si giunse finalmente tra il 1920 e il 1924, senza che la Yugoslavia andasse perciò in rovina, né l'Italia divenisse più felice o acquistasse maggiore potenza per via di Fiume. Sia Sonnino che il presidente del Consiglio Orlando, durante i negoziati di pace, fecero tutto quanto era possibile per dare importanza al problema e renderlo insolubile. Sonnino, come ministro degli Esteri, continuava a reclamare la Dalmazia, mentre Orlando, come presidente del Consiglio, faceva appello al principio di nazionalità, a nome di tutti gli italiani, reclamando in aggiunta la città di Fiume. Gli inviati italiani, insomma, invocavano per Fiume il diritto di nazionalità, mentre lo ignoravano per la Dalmazia; invocavano il Patto di Londra per la Dalmazia, mentre lo ignoravano per Fiume. Questa tattica era tanto più assurda in quanto alla Conferenza della Pace Sonnino ed Orlando non dovevano fare i conti soltanto con i diplomatici inglesi e francesi, impegnati dal Patto di Londra, ma avevano di fronte il presidente Wilson, che, non avendo sottoscritto quel Patto, non aveva obblighi verso l'Italia. Wilson era pronto ad accettare che ci venisse concesso il Trentino, il Sud-Tirolo, Gorizia, Trieste e l'Istria occidentale, ma rigettava le nostre pretese sulla Dalmazia, su Fiume, sull'Istria orientale e sulla maggior parte degli "hinterlands" di Gorizia e di Trieste. Non appena Sonnino ed Orlando si scontrarono nella opposizione di Wilson, essi scatenarono contro di lui sulla stampa italiana una campagna di minacce, insulti e recriminazioni, che ebbe l'effetto di irrigidire sino all'assurdo la resistenza del presidente americano.
Approfittando della frattura creatasi tra Sonnino, fermo a reclamare quel mezzo chilo di carne che gli era stato promesso, e Wilson, che non aveva sottoscritto il Patto e non era quindi impegnato a renderlo esecutivo, Lloyd George e Clemenceau poterono eludere le promesse fatte nel Patto di Londra. Quando questo era stato stipulato, l'opposizione di Wilson non era stata contemplata; tale opposizione era cosa che riguardava gli italiani, non gli inglesi né i francesi: in tal modo essi assunsero l'aria innocente di spettatori disinteressati. Così il problema degli "hinterlands" di Gorizia e Trieste, e il problema dell'Istria orientale, di Fiume, della Dalmazia e dell'Albania, rimasero sospesi. E mentre gli uomini politici italiani, i giornalisti e i professori si scaldavano per Fiume, e Sonnino e Orlando litigavano con Wilson, Lloyd George e Clemenceau si pappavano rispettivamente 450000 e 225000 chilometri quadrati di colonie tedesche in Africa, e si dividevano tutti i territori del Medio Oriente non abitati da popolazioni turche. La città di Smirne e il suo distretto, che durante la guerra (Trattato di, Saint Jean de Maurienne, 1917) era stata promessa a Sonnino, fu restituita ai greci. La questione dei compensi territoriali che l'Italia avrebbe dovuto ricevere nel Medio Oriente e in Africa venne rinviata a negoziati futuri. Uno dei compensi che Sonnino aveva sperato di strappare a Clemenceau e Lloyd George durante i negoziati di pace era una qualche specie di mano libera in Etiopia. Londra e Parigi rifiutarono con fermezza. Gli innocenti diplomatici inglesi e i loro cavallereschi colleghi francesi sfruttarono sino in fondo il fatto di non aver più bisogno della carne da cannone italiana per la continuazione della guerra. Le promesse da essi fatte per trascinare l'Italia in guerra e vincolarla sino alla sconfitta tedesca, adesso potevano essere impunemente trascurate. Essi non si presero la pena di considerare che dietro Sonnino ed Orlando vi era una nazione, i cui sacrifici sopportati durante la guerra meritavano una ricompensa migliore. Gli effetti di questa sconfitta diplomatica ebbero una vasta portata. Nel 1914, l'Italia non aveva subito sul proprio territorio nessun attacco, a differenza del Belgio e della Francia, e neppure si era trovata improvvisamente impegnata nel conflitto e senza il tempo di riflettervi, come era accaduto alla Germania, all'Austria-Ungheria, all'Inghilterra e alla Russia. L'Italia per nove mesi, dall'agosto del 1914 al maggio 1915, si era logorata a discutere se avrebbe dovuto o no intervenire nel conflitto. Un paese dove per nove mesi si discute intorno al problema della guerra e della pace è inevitabilmente destinato a dividersi in fazioni contrastanti. Ciò è avvenuto negli Stati Uniti negli anni dal 1939 al 1941. Ed è quanto avvenne in Italia nel 1914-1915. I partiti italiani si divisero in 'interventisti' e 'neutralisti,' e tale divisione si mantenne durante tutta la guerra. Finita la guerra, quando fu ripristinata la libertà di stampa e di parola, la polemica, che durante la guerra era stata soffocata, scoppiò con estrema violenza. Quegli uomini politici e quei giornali che nel 1915 si erano opposti all'entrata dell'Italia in guerra, adesso che il fallimento degli inviati italiani alla Conferenza della Pace appariva evidente, potevano vantarsi che "essi" avevano sempre avuto ragione, cercando di risparmiare al popolo italiano una guerra dalla quale non si era potuto trarre nessun profitto. Essi avevano previsto il 'tradimento' dei 'perfidi' alleati, e per "questa" ragione si erano opposti all'entrata dell'Italia in guerra al fianco di tali alleati. Responsabili del 'disastro' diplomatico a cui si era esposto il paese erano ritenuti tutti coloro che erano stati favorevoli all'intervento in guerra. Ora era giunto per essi il tempo di render conto del loro misfatto. E come se ciò non bastasse, si dette il caso che fossero proprio gli uomini politici che avevano spinto l'Italia in guerra e quei giornali che avevano soffiato sul fuoco, che ora in ogni tono andavano ripetendo ai quattro venti che il sangue di mezzo milione di morti e di mezzo milione di invalidi era stato versato invano, dato che i 'perfidi alleati' non ci avevano dato la Dalmazia, l'Asia Minore, l'Etiopia e chissà mai cos'altro. Al popolo si era promesso che questa sarebbe stata l'ultima guerra, la guerra per porre fine a tutte le guerre, e che sarebbe stata
assicurata la pace per i loro figli e per i loro nipoti. Ed ora, dopo tre anni e mezzo di sovrumane fatiche, a questo popolo si disse che esso aveva 'vinto la guerra, ma perduto la pace,' che l'America, l'Inghilterra e la Francia avevano 'mutilata' la vittoria, e che ci si doveva preparare per vendicare l'inutilità di questa guerra. Neppur il governo francese riuscì ad ottenere alla Conferenza della Pace tutto ciò che voleva: non riuscì ad ottenere che venisse tolta alla Germania la riva sinistra del Reno, né poté ottenere l'annessione della Saar, e neanche lo smembramento della Germania. Tuttavia il popolo francese non attraversò una crisi di disperazione e di esasperazione come quella che fece completamente perdere la testa a molti italiani. Poincaré, Clemenceau e Foch non si misero a proclamare al paese che la Francia era stata truffata della sua vittoria, che la Francia era rovinata, che la Francia doveva prepararsi a fare la guerra ai suoi alleati per prendersi ciò che questi alleati le avevano rifiutato. Che cosa sarebbe accaduto in Francia se quasi tutti i giornali, i deputati e i ministri responsabili della guerra, o coloro che avevano deplorato la guerra, avessero iniziato una violenta campagna di recriminazione, simile a quella a cui si abbandonarono in Italia Orlando, Sonnino, gli alti comandi dell'esercito e della marina, giornali e uomini politici? Se ne sarebbero tornati beati e contenti alle loro case, i soldati francesi, o non avrebbero piuttosto trucidato ministri, deputati e giornalisti, che avevano provocato la guerra e ora proclamavano che a causa di essa gli 'interessi vitali' del paese erano andati in rovina? Il popolo italiano, anche sottoposto ad un trattamento così dissennato, non si dette a massacrare i responsabili della guerra, qualunque fosse la loro fede o partito, come avrebbero meritato; cadde invece in uno stato di morbosa irritazione. Chiunque voglia comprendere le agitazioni che ebbero luogo in Italia negli anni del dopoguerra deve tenere presente non soltanto l'esaurimento fisico che tre anni e mezzo di sofferenze avevano causato, ma anche e soprattutto il veleno della propaganda disfattista alla quale fu assoggettato il popolo italiano nel 1919. La storia d'Italia, delle sue agitazioni sociali e dei suoi malanni politici nel dopoguerra appare nella sua vera luce solo quando si inquadri nella cornice psicologica della 'vittoria mutilata.' Nel suo "Golia", Borgese ha descritto da maestro il morbo che rodeva gli animi della "intellighenzia" italiana negli anni dal 1870, alla guerra mondiale. Era il cancro romano-imperiale: il ricordo e la nostalgia della grandezza dell'Impero romano, e insieme un inquieto anelare ad impossibili imprese, che generava delusione e amarezza, e portava gli uomini a mortificare se stessi. L'Italia era schiacciata dal suo passato. Gli americani non hanno passato; vivono nel futuro. E' quanto hanno di meglio e la loro più grande fortuna. Un certo grado di intelligente autocritica è un correttivo utile contro la sciocca boria nazionale: tale autocritica è stata giustamente definita come quel 'divino scontento' che conduce gli uomini a sempre maggiori progressi. Ma una aspettazione assurda e un'opera incessante di degradazione sono veleni che creano la mania di persecuzione e conducono a errori madornali. Invece di porre a confronto il loro presente con il loro passato immediato e prender coscienza del cammino che il loro popolo andava compiendo con eroico e silenzioso sforzo, gli uomini della "intellighenzia" italiana giudicavano le condizioni presenti secondo il metro dei ricordi di una passata grandezza o dei sogni di primati impossibili. La conseguenza fu che nessuna misura di progresso poteva soddisfarli. Essi ebbero parole soltanto per lamentare la mediocrità, l'incapacità, la disonestà e i fallimenti dei loro uomini politici. Questa malattia italiana non fu mai tanto diffusa e violenta come negli anni che seguirono la prima guerra mondiale: 'Si verificò un miracolo, mai visto prima, di alchimia psicopatica. L'Italia, o almeno la classe intellettuale e politica alla quale un destino avverso aveva affidato l'Italia, aveva mutato una vittoria in una sconfitta. (...) La nazione, colpita da masochismo, esultava di delusione.' (5) I soli italiani, tra tutti i
popoli che avevano vinto la guerra, soffrivano di un loro specifico disturbo. Invece dell'orgoglio della vittoria che doveva recare la fiducia in se stessi, subentrò negli italiani il nero pessimismo della sconfitta.
CAPITOLO TERZO. LA RIPRESA DELL'ITALIA. Sino all'estate del 1920 ci furono momenti in cui si poté temere che non fosse possibile evitare una catastrofe politica. Eppure non si arrivò mai alla crisi fatale, né si verificò un collasso economico. Al contrario: non appena la guerra fu finita, cominciò a manifestarsi un processo di ripresa che, nonostante difficoltà di ogni genere, si svolse rapido e costante. Scegliamo tra i molti alcuni dati indicativi. In un paese come l'Italia, che ha miniere di carbone insufficienti ai bisogni del paese, le importazioni di carbone danno una misura caratteristica dell'attività economica. Quando le importazioni aumentano, l'attività economica è in progresso; quando diminuiscono, questo è segno di depressione. Nel 1913, alla vigilia della guerra, l'Italia importò 11,8 milioni di tonnellate di carbone. Durante la guerra le importazioni scesero a 5,8 milioni di tonnellate. Nel 1922 le importazioni raggiunsero i 9,6 milioni. Nello stesso tempo il consumo di forza elettrica aumentò rapidamente. Un altro indice di attività economica è il movimento delle merci sulle ferrovie. Nel 1913, le ferrovie italiane trasportarono 37,4 milioni di tonnellate. Nel 1918 il movimento era sceso a 28,9 milioni. Nel 1922 esso era risalito a 36,2 milioni, (1) cioè le ferrovie avevano riguadagnato quasi tutto il terreno perduto durante la guerra. Nello stesso tempo il numero dei camions cresceva rapidamente. Quasi un miliardo fu speso nel riparare le linee ferroviarie e accrescere il materiale rotabile. Il numero delle società per azioni, che nel 1918 era di 3463 con un capitale di 7257 milioni, salì a 4520 con un capitale di 13014 milioni nel 1919; a 5541 con un capitale di 17784 milioni nel 1920; a 6191 con un capitale di 20350 milioni nel 1921; a 6850 con un capitale di 21395 milioni nel 1922. I depositi nelle casse di risparmio postali e ordinarie salirono da 7906 milioni nel 1918 a 10643 nel 1919; a 13213 nel 1920; a 15576 nel 1921; e a 17250 nel 1922. Il dicembre 1919 e il gennaio 1920 furono fra i mesi più turbolenti di quel periodo. Vi furono scioperi nelle ferrovie e nelle poste, nell'industria e nell'agricoltura. Tumulti e repressioni provocarono scioperi di protesta. Ebbene, proprio nel gennaio 1920 un prestito nazionale fruttò 18 miliardi di lire, somma assai superiore a qualunque altro prestito nazionale emesso prima. Gli eventi politici, spesso, stanno alla vita economica di una nazione, come le onde superficiali stanno agli strati profondi del mare: mentre quelle sono agitate dalle tempeste, questi rimangono immoti. Nel 1920, l'anno delle più acute agitazioni, la disoccupazione fu insignificante. I grandi scioperi erano resi possibili appunto dalla scarsezza di mano d'opera, mentre la inflazione, facendo salire il costo della vita, spingeva gli operai a domandare salari più alti: 'Contadini ed operai,' scrisse un economista nel 1921, 'non hanno mai goduto di tanto benessere e di tanta agiatezza come in questi anni.' (2) Questo benessere non era dovuto a più alti salari reali: nel 1921 i salari industriali avevano una capacità di acquisto superiore appena per il 10 per cento a quelli del 1913. Ma nel 1919 e 1920, ogni persona capace di lavorare nelle famiglie operaie - uomo, donna, figli adulti - era occupata. Dopo il dicembre 1920, un lento processo di deflazione cominciò, e il valore della lira conseguentemente risalì. La seguente tabella ci dà mese per mese il valore del circolante e il tasso di scambio per gli anni 1920-22 (3). TABELLA. [Nell'ordine: Mesi - anno 1920: circolazione in milioni - tasso scambio 1 dollaro // idem 1921 // idem 1922].
1 - 18167 - 13,98 // 21808 - 28,25 // 21300 - 22,94. 2 - 17979 - 18,21 // 21472 - 27,34 // 20802 - 2045. 3 - 18465 - 19,03 // 21309 - 26,04 // 20657 - 19,55. 4 - 18963 - 22,94 // 20823 - 21,65 // 20257 - 18,68. 5 - 19397 - 19,86 // 20575 - 18,73 // 19866 - 19,04. 6 - 20355 - 16,89 // 20704 - 19,84 // 20371 - 20,07. 7 - 20441 - 17,28 // 20485 - 21,90 // 20545 - 21,96. 8 - 20500 - 20,54 // 20387 - 23,51 // 20293 - 22,28. 9 - 21458 - 22,89 // 20702 - 23,54 // 20537 - 23,41. 10 - 21846 - 25,67 // 20846 - 25,33 // 20761 - 23,97. 11 - 22022 - 27,55 // 20468 - 24,29 // 20513 - 22,09. 12 - 22277 - 28,57 // 21755 - 22,69 // 20559 - 19,88. Nonostante alcune oscillazioni stagionali, è innegabile un generale processo di ripresa (4). Nel dicembre del 1923, Mortara scrisse: «La fine del 1920 segna una svolta decisiva nella recente storia del nostro paese. Frenato l'aumento della circolazione, ricondotto gradualmente l'equilibrio nel bilancio dei pagamenti internazionali, apparsa alla prova la impotenza del bolscevismo nostrano, la vita economica del paese riprende con ritmo più regolare. (...) Come l'instabilità del potere d'acquisto della moneta era stata la principale caratteristica del biennio 1919-20, così la stabilità di esso è la caratteristica fondamentale del biennio 1921-23» (5). Il sistema fiscale sia statale che delle amministrazioni locali venne riformato in modo radicale, e i contribuenti spremuti senza pietà. Il gettito delle imposte, che era stato di 9175 milioni nel bilancio 1918-19, salì a 15207 milioni nel 1919-20; a 18820 milioni nel 1920-21; e a 19790 milioni nel 1921-22. I debiti dovuti alle spese di guerra e di cui giungevano le scadenze vennero puntualmente pagati. La loro spesa ammontava a 25,5 milioni nel bilancio 1918-19; 12,4 milioni nel 1919-20; 23,3 milioni nel 1920-21; 18,2 milioni nel 1921-22; e scese a 4,8 milioni nel 1922-23. Il peso maggiore si fece sentire nei primi quattro anni dopo la guerra 86). Uno dei maggiori esperti italiani di economia, il Mortara, nel dicembre 1921 predisse che nel 1924 il decifit sarebbe sparito (7). Nei rapporti mandati negli anni del dopoguerra a Washington dagli "attachés" commerciali presso l'ambasciata americana a Roma e pubblicati nei "Commerce Reports", non appare mai il minimo indizio di un cataclisma economico in Italia. Al contrario, tutti hanno l'impressione che il paese sia in una fase di intensa attività nel passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. 'Parecchie imprese americane estendono i loro affari in Italia.' (8) Gli italiani emigrati in America erano così poco preoccupati per il 'bolscevismo' in Italia, che ritornavano in Italia con le tasche piene di dollari; 'la ricchezza portata da questa gente forma oggi una larga fonte di reddito nell'Italia meridionale.' (9) 'Le industrie tessili sono arrivate al punto che possono non solo provvedere ai bisogni normali dell'Italia, ma anche produrre per l'esportazione.' (10) 'L'anno 1919 fu estremamente prospero, (...) un periodo di eccezionale attività che è continuata anche dopo.' (11) Neanche i turisti erano spaventati dal 'bolscevismo' italiano. 'Il volume del movimento turistico cresce continuamente, e i grandi alberghi annunziano una buona quantità di affari.' (12) Gli italiani si permettevano persino il lusso di organizzare a Venezia una mostra internazionale d'arte. «Il popolo italiano ha dato prove evidenti di fiducia nella capacità che ha il suo governo di assumere il peso finanziario risultante dalla guerra. L'aumento di più che il
35 per cento avvenuto nelle somme depositate nelle casse di risparmio dal dicembre 1918 all'ottobre 1919 (...) dimostra chiarissimamente che il popolo italiano è disposto ad affidare al governo i propri risparmi. Un'altra prova della stessa attitudine è data dai prezzi dei titoli, compreso il debito consolidato 5 per cento messo sul mercato nel 1917 a lire 86,50. Questi titoli sono stati sempre venduti ad un prezzo superiore a quello di emissione, e oggi sono giunti a 87 lire nonostante che un'altra campagna sia condotta con grande energia per un nuovo prestito al 5 per cento. Nel 1866, dopo la guerra per l'indipendenza italiana, i titoli 5 per cento messi sul mercato caddero a circa 41 lire (13). Quasi senza eccezione le industrie italiane sono state e sono estremamente attive. Dove è possibile la forza elettrica è stata utilizzata. L'uso del petrolio cresce continuamente. Si ha una eccezionale domanda per i prodotti necessari all'agricoltura. I produttori di automobili sono sopraffatti dagli ordini. Vi è stata una notevolissima domanda di prodotti di seta, tanto che i setaioli debbono rifiutare le ordinazioni per prima del 1921. Ciò può essere dovuto al maggiore potere di acquisto raggiunto da certe classi della popolazione, che spendono largamente i loro aumentati guadagni in articoli di abbigliamento. La esportazione di prodotti tessili di seta è quasi cessata; anzi prodotti tessili di seta sono importati dalla Svizzera, e trovano un largo mercato nonostante gli alti prezzi. Durante gli ultimi sei mesi le banche italiane hanno annunciato un volume di affari notevolmente superiore a quello raggiunto nel massimo periodo di attività durante la guerra, i depositi a risparmio e quelli in conto corrente sono aumentati rapidamente. Il mercato dei titoli è stato attivo e i prezzi ben sostenuti (14). Secondo i dati pubblicati dal ministero del Tesoro i depositi ordinari sono aumentati da lire 1.491.170.560 al 30 giugno 1914, a lire 3.567.462.189 al 30 giugno 1919; e i depositi di risparmio da lire 6.000.548.747 a lire 13.586.086.947. La moneta depositata nelle banche non sarebbe stata impiegata in quel modo se i depositanti avessero avuto debiti su cui pagare interessi, poiché questi interessi sarebbero certamente più alti di quelli ricevuti sui depositi. I monti di pietà sono quasi vuoti. (...) Da diversi anni si registrano in Italia pochissimi casi di fallimenti e nessuno di qualche importanza (15) Il totale degli investimenti netti bancari, nei primi sei mesi del 1920, è assai maggiore che per le altre industrie e raggiunge una quota che sinora non era mai stata sfiorata. Gli investimenti nelle industrie tessili, nei primi sei mesi del 1920, hanno raggiunto una cifra quasi dieci volte superiore a quella del periodo corrispondente nel 1919» (16). Dal 1919 al 1922, nella zona lungo la frontiera austriaca devastata dalla guerra, case private, chiese, ospedali, scuole, strade, canali, ponti, acquedotti, ferrovie, tutto fu costruito o riparato, e il macchinario agricolo e il bestiame ricostituito, con una spesa totale di otto miliardi di lire (17). Aviatori italiani, su apparecchi fabbricati in Italia, vinsero la coppa Schneider nelle gare internazionali del 1920 e 1922. Nel 1920 il municipio di Milano mise Arturo Toscanini a capo del teatro della Scala, che ebbe proprio in quegli anni una fra le più gloriose stagioni della sua storia. La "Enciclopedia Italiana" venne progettata nel 1920-21. Alla fine del 1920, i sintomi di una crisi industriale e commerciale, che si erano già manifestati sul mercato mondiale, cominciarono ad apparire anche in Italia. Riccardo Bachi scrisse: «La presente crisi (...) si è venuta delineando ben decisa sul mercato mondiale lungo la seconda metà dell'anno 1920 e annuncia per il tempo prossimo vicende dolorose e gravi difficoltà economiche. (...). La crisi si è iniziata nella primavera scorsa nel
Giappone e si è propagata via via in tutto il mondo. (...) Il tempo prossimo si annuncia assai difficile» (18). Fortunatamente il raccolto del 1921 fu buono e bilanciò la recessione industriale. La vita economica italiana, alla fine del 1921, mostrava molti sintomi di convalescenza. Giorgio Mortara scrisse nel dicembre del 1921: «L'Italia ha sensibilmente migliorato le sue condizioni nel corso del 1921. (...) Che l'Italia stia in un letto di rose sarebbe temerario sostenere; tuttavia, ricordando gli ostacoli superati ieri, si possono guardare senza soverchio timore le difficoltà di oggi. L'industria agricola, fondamento della nostra economia, appare nettamente avviata verso le condizioni normali (...); quella profonda depressione che è stata conseguenza della guerra è superata. Non meno confortanti, forse anche migliori, sono le condizioni dell'industria zootecnica. L'industria mineraria si risente della depressione industriale esterna ed interna: alcuni suoi rami tuttavia si mantengono attivi. Varie sono le sorti delle industrie trasformatrici di materie prime. Pochissime sono veramente floride; parecchie attraversano, con varia resistenza, un periodo di rallentata attività; alcune sono in profonda crisi. Meglio resistono alla riduzione della domanda le tessili, che nel loro complesso costituiscono il ramo più poderoso e più vitale delle industrie trasformatrici italiane. Agili nella ricerca dei nuovi sbocchi e pronte nell'adattamento della produzione ai gusti dei mercati, come hanno attraversato senza eccessiva espansione il periodo bellico, così superano senza eccessiva restrizione questi anni di laborioso assestamento. Reggono bene anche le industrie alimentari. (...) A molte di esse il mercato nazionale consente largo smercio di prodotti: (...) L'industria elettrica è in via di espansione. (...) La produzione di energia è inferiore alla domanda; sotto l'impulso del bisogno si riprendono più attivamente le opere per il migliore sfruttamento delle acque d'Italia. L'industria edilizia e quelle che la provvedono di materiali da costruzione vegetano ancora fiaccamente, non essendo del tutto rimosse, benché siano attenuate, le difficoltà che le hanno paralizzate negli scorsi anni. Alcuni rami dell'industria meccanica si mantengono vivacemente attivi, o per energia propria, come l'industria dell'automobile, o col sussidio di commesse governative, come quelle che provvedono alla costruzione ed ai restauri del materiale ferroviario. Le industrie che più languono sono quelle che, nate o cresciute durante la guerra, avevano assunto (...) una fittizia apparenza di rigoglio. (...) Col ritorno a condizioni meno anormali, organi che furono utili o necessari divengono parassitari o superflui, o sproporzionati al bisogno. (...) Le eliminazioni e le restrizioni di siffatti organi (...) corrispondono ad una necessità ineluttabile e (...) apparivano già fatali dal giorno dell'armistizio. (...) In complesso, la depressione delle industrie trasformatrici di materie prime appare grave e diffusa anche in Italia, ma è ben lontana dal raggiungere l'intensità e l'estensione che ha toccato nei maggiori paesi industriali, come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Le condizioni dei mezzi di comunicazione terrestri sono sensibilmente migliorate. (...) La flotta mercantile si è accresciuta. (...) Nei porti le cose, senza andar bene, vanno un po' meno peggio. Il disagio di parecchie industrie nazionali ha determinato una estesa disoccupazione. (...) A questo fenomeno sconfortante fa riscontro, nel campo del lavoro, il fatto confortante della maggior continuità e del maggior rendimento delle opere manuali. (...) Una buona fonte di speranze per l'avvenire economico dell'Italia sta nell'andamento degli scambi economici con l'estero. Ancora nel 1920 il valore delle merci importate aveva superato di 10-12 miliardi di lire quello delle merci esportate. (...) Nel 1921, mentre l'eccedenza del valore delle importazioni su quello delle esportazioni è scesa a 5 o 6 miliardi, le spese dei forestieri in Italia sono fortemente aumentate, tanto da compensare largamente la riduzione avvenuta nel risparmio degli emigrati. (...) I nostri debiti verso l'estero sono forse ancora aumentati nel
1921, ma certamente in misura molto minore che nel 1920. Il 1922 si inizia, per quanto riguarda gli scambi con l'estero, con buone promesse. Occorrerà forse nei primi mesi dell'anno accrescere alquanto le importazioni di combustibili per supplire al difetto di energia idroelettrica (...); ma il propizio andamento delle industrie agrarie e zootecniche nel 1921 dispensa da larghe importazioni di cereali e di altre derrate alimentari. (...) Le esportazioni di frutta e d'ortaggi: attraverso molte difficoltà di collocamento, raggiungono una discreta mole. L'afflusso dei forestieri non accenna a diminuire, anzi sembra aumentare» (19). Il 1922 cominciò sotto auspici poco propizi: il fallimento della grande impresa metallurgica dei fratelli Ansaldo e quello della Banca Italiana di Sconto, allora uno dei quattro più potenti organismi bancari italiani, inghiottirono molti risparmi. Inoltre un lungo periodo di siccità nell'autunno del 1921 e la scarsità di pioggia nell'inverno del 1922 causarono una deficienza nelle riserve dei bacini idroelettrici, sicché nell'estate del 1922 non si poté soddisfare tutte le domande industriali di energia. Anche i raccolti furono eccezionalmente poveri in quell'anno. Il governo dovette fronteggiare la crisi di energia elettrica importandone dalla Svizzera. (20) Già nell'ottobre del 1922 nelle relazioni degli addetti commerciali americani si legge: «Il carattere più evidente nella situazione economica italiana durante il settembre passato fu il miglioramento nelle previsioni per le industrie tessili, metallurgiche e automobilistiche. Moneta e credito sono più facili. I prezzi dei titoli sul mercato risalgono di nuovo. Negli ultimi sei mesi la tendenza generale è stata per il meglio.» Alla fine del 1922 la situazione economica del paese, secondo Mortara, era la seguente: «L'attività economica del paese si è andata intensificando nel corso dell'anno. Si lavora con maggior fede nell'avvenire e in modo continuo e regolare. L'industria agricola, ad onta della povertà dei raccolti, è riuscita a tener vive alcune notevoli correnti d'esportazione, a rianimarne altre; l'industria zootecnica, insidiata dalla siccità estiva, è rimasta in discrete condizioni. (...) L'industria elettrica (...) è tornata in efficienza. (...) Le industrie trasformatrici delle materie prime sono quasi tutte in progresso. (...) Continuano a prosperare le industrie trasformatrici dei prodotti agricoli e pastorali. (...) Possono dirsi buone le condizioni dell'industria cotoniera, soddisfacenti quelle della laniera e della serica, discrete le sorti delle minori industrie tessili. L'industria siderurgica è tuttora depressa. (...) Fra le industrie meccaniche (...) rifioriscono quei rami che sono in grado di recare più copiosi frutti; altri vegetano fiaccamente (...); altri minacciano di appassire. Fra le industrie chimiche si vanno fatalmente eliminando quelle cui l'Italia non offre ambiente propizio (...); altre ritornano alla pristina attività. Il ribasso dei prezzi del materiale per costruzioni ha agevolato la ripresa dell'industria edilizia. (...) I trasporti terrestri si sono andati lentamente riorganizzando: sono meno vivi i lamenti per ritardi e per irregolarità nelle consegne. Le migliorate condizioni dei porti hanno recato sollievo al traffico marittimo, che per il disordine ivi regnante aveva grandemente sofferto. (...) Da due anni, ormai, l'economia italiana si è emancipata dal sussidio del credito estero, che era stato ancora necessario a sostenerla nel 1919 e nel 1920. (...) L'aumento della circolazione monetaria è ormai frenato» (21). Riccardo Bachi scrisse alla fine del 1922: «Il meccanismo dell'economia italiana si è in complesso rivelato assai più solido e consistente di quanto si potesse presumere. (...) Ad un anno di distanza dal punto più
acuto della crisi, appaiono all'orizzonte dei lembi di azzurro, che possono ispirare un giudizio più ottimistico» (22)» La ripresa italiana negli anni del dopoguerra sembra quasi miracolosa. Per spiegarla si devono prendere in considerazione tre fatti: a) La guerra mondiale, sconvolgendo la struttura economica del paese la rafforzò sotto molti aspetti. Molte industrie ampliarono i loro impianti e adottarono metodi più efficienti per fornire prodotti che non potevano più essere importati dall'estero. Una legge, che esentava i profitti di guerra dalla soprattassa di guerra se erano investiti nell'ampliare le fabbriche o migliorare il macchinario, consigliò molte aziende a investire vasti capitali nel perfezionare gli impianti (23). Non appena cessò la guerra, le rimesse degli emigrati, il movimento dei forestieri e i guadagni della marina mercantile ritornarono a funzionare. Nel 1921 e 1922 il governo italiano non fece più debiti all'estero, sebbene l'eccedenza delle importazioni sulle esportazioni ammontasse a 8 miliardi di lire all'anno. Questo prova che la bilancia dei pagamenti internazionali nel 1922 era in equilibrio (24). b) I 610,8 milioni di sterline e i 1648 milioni di dollari ottenuti come prestiti di guerra dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti erano avvenuti sotto forma di importazioni. Le armi, le munizioni, i cibi e gli abiti per i soldati furono consumati senza lasciar traccia. Ma molta parte consisté in macchinario e materie prime per l'industria e l'agricoltura. Alla fine della guerra vaste quantità di queste ricchezze erano accumulate nei depositi governativi. Il governo le vendette al pubblico sotto costo, e da tutto ciò ricavò oltre tre miliardi di lire (25). Se il debito estero avesse mai dovuto essere pagato, avrebbe rovinato l'economia del paese. Ma nessun pagamento per questo titolo fu mai fatto fino al 1925. Quando arrivò il momento di pagare il conto, le riparazioni ricevute dalla Germania coprirono i pagamenti che occorreva fare all'Inghilterra e all'America. In tal modo i debiti di guerra aiutarono in larga misura l'economia italiana a rafforzarsi. La guerra costò al "governo" italiano il cresciuto debito interno, mentre costò al "popolo" italiano la ricchezza interna distrutta durante la guerra "meno" quella parte del debito estero che rappresentò ricchezza non distrutta e che non fu pagata. La guerra produsse grandi spostamenti di ricchezza da individuo a individuo, non diminuì la ricchezza del paese nel suo insieme. Né l'aumento del debito interno del governo fu così disastroso come a prima vista potrebbe sembrare. Dal 1915 al 1922, esso salì da 15 a 93 miliardi di lire. Ma mentre le lire del 1915 erano lire-oro, le lire del 1922 erano lire-carta, cioè erano meno che 20 miliardi di lire-oro. Questo vuol dire che la guerra costò al governo italiano non più di cinque miliardi di lire-oro. La unificazione politica, fra il 1859 e il 1870, aveva prodotto un aumento nel debito pubblico di 6 miliardi di lire-oro. Nel 1922 i 39 milioni di italiani potevano sopportare i cinque miliardi spesi nella guerra mondiale assai meglio che i 27 milioni di italiani del 1871 potessero sopportare i 6 miliardi della unificazione. Finalmente - e certamente non fu questo il fattore meno importante - vi fu il lavoro del popolo italiano, sempre pronto a fare la sua parte. Non fa meraviglia quindi che, finita la guerra, abbia avuto luogo un processo di ripresa. Già nel 1920 i sintomi della ripresa erano così appariscenti che il Credito Italiano notò 'il crescere di vecchie industrie, nuove vaste installazioni, un più razionale sistema di lavoro, una grande trasformazione nei metodi tecnici.' «La struttura economica del paese si è molto migliorata in questi ultimi anni. Le industrie si sono meglio specializzate, così che il ciclo di produzione, nel quale prima vi erano delle lacune, è oggi più completo» (26). Ecco altre testimonianze di questo fatto:
«La guerra stimolò quasi ogni ramo dell'industria, e l'introduzione dei turni di lavoro condusse alla espansione degli impianti e a nuovi processi produttivi nei quali prodotti secondari, una volta negletti, erano utilizzati. La estrazione del minerale di ferro e la produzione del ferro di prima lavorazione e dell'acciaio aumentarono grandemente. L'esercito ebbe bisogno non solo di armi e munizioni, ma anche di altri prodotti in grande quantità, dalle stoffe di lana a quelle di canapa, dalle scarpe alle automobili, dalla gomma alla carta, dai prodotti chimici ai cantieri navali (27). Durante la guerra, l'entrata in attività di nuove centrali, l'estensione di quelle già esistenti e l'intensificato sfruttamento degli impianti consentirono un rapido sviluppo della produzione e del consumo di energia elettrica, ottenuta quasi esclusivamente da impianti idrici, specialmente nell'ultimo biennio bellico (28). L'industria laniera italiana, intorno al 1913, disponeva di 800 mila fusi, di 16 mila telai meccanici e di forse 20 mila telai a mano. (...) Erano installati, alla fine del 1918, (...) circa 470 mila fusi di cardato, (...) 420 mila fusi di pettinato, (...) 145 mila fusi di ritorcitura, 17 mila telai meccanici. (...) Negli anni di guerra è grandemente aumentato il bisogno di manufatti di lana, specialmente per l'esercito; al maggiore bisogno si è supplito in parte con importazione di indumenti finiti, ma in parte molto maggiore con un forte sviluppo della produzione interna» (29). Nella nostra flotta è avvenuto (...) un efficace svecchiamento: nel 1914 meno d'un quarto del tonnellaggio totale era costituito da piroscafi d'età inferiore a 10 anni; oggi la proporzione si accosta alla metà. Le navi d'oltre venti anni d'età formavano allora più di due quinti del tonnellaggio complessivo; ora ne formano poco più di un quinto. (...) Il numero dei piroscafi da 501 a 4000 tonnellate di portata è diminuito da 321 nel dicembre 1914 a 287 nell'ottobre 1921; ma è aumentato da 202 a 251 il numero di quelli da 4001 a 8000 tonnellate, e da 13 a 122 il numero di quelli di portata superiore alle 8000 tonnellate. Queste ultime navi di grande portata costituivano un ventesimo del tonnellaggio totale alla vigilia della guerra; ne costituiscono oggi sei ventesimi» (30). Non si vuol dire con ciò che l'Italia abbia goduto negli anni del dopoguerra di un beato periodo di prosperità. L'Italia era come un paziente in convalescenza dopo una brutta malattia, la malattia della guerra mondiale. Essa ebbe a subire una grave crisi, ma fu una crisi di riassestamento e non di disorganizzazione. E' vero che alla Conferenza della Pace i delegati italiani commisero una serie di madornali errori. Ma dopo tutto né questi errori, né la malafede di Lloyd George e Clemenceau, né la mancanza di comprensione da parte di Wilson inflissero realmente ferite mortali agli interessi essenziali dell'Italia. In conseguenza della guerra, l'Impero austro-ungarico era stato smembrato; l'Italia quindi non aveva più niente da temere dalla parte della sua frontiera orientale e sul mare Adriatico, una volta scomparsa questa potenza ostile che contava 51 milioni di sudditi. Ora l'Italia confinava ad est con la Repubblica austriaca e con il nuovo stato yugoslavo. La prima aveva non più di 10 milioni di abitanti ed era disarmata e neutralizzata. Il secondo aveva una popolazione di 12 milioni di abitanti, ed aveva assai maggiore interesse a coltivare l'amicizia italiana contro il pericolo tedesco, bulgaro e ungherese, che non ad alienarsi l'Italia con una preconcetta politica ostile. Se si paragona la situazione della Francia del dopoguerra con quella dell'Italia, si deve concludere che il successo riportato dall'Italia con la guerra mondiale superava quello riportato dalla Francia. Eliminando l'Impero austro-ungarico dalla carta geografica dell'Europa l'Italia aveva di fatto risolto il problema essenziale della sua sicurezza nei confronti dell'Europa centrale. Al contrario la Francia si trovava ancora di fronte la massa compatta della Germania: il problema della sua sicurezza rimaneva aperto. Una volta che la Germania si fosse riorganizzata, l'amicizia italiana avrebbe assunto
un valore anche maggiore sia nei confronti della Francia che della stessa Germania e dei paesi danubiani. L'Italia, che settanta anni prima era stata una pura 'espressione geografica,' adesso era diventata, non solo a parole ma a fatti, una delle grandi potenze europee. La mancata annessione della Dalmazia non era cosa di cui ci si doveva dolere: la Dalmazia non avrebbe significato per l'Italia né un aumento di ricchezza né di sicurezza; essa è una regione povera e sassosa abitata da poco più di mezzo milione di slavi nazionalisti arrabbiati. Solo nella città di Zara c'era una maggioranza italiana, e altrove si possono contare non più di 20 mila italiani disseminati tra una maggioranza assolutamente slava. Le minoranze razziali annesse con la forza difficilmente costituiscono per un paese un guadagno. Se l'Italia avesse conquistato la Dalmazia, una parte considerevole dell'esercito italiano avrebbe dovuto esser mantenuto in permanenza in assetto di guerra per reprimere la popolazione slava. Nel caso di una guerra europea con l'intervento dell'Italia, essa sarebbe stata costretta a immobilizzare in quella regione importanti forze militari a protezione dei 500 chilometri di frontiera lungo i quali dall'"hinterland" slavo può provenire un'aggressione. Un tale esercito di occupazione può essere adoperato con maggiore vantaggio a protezione delle più vitali frontiere italiane, in direzione della Francia o dell'Europa centrale. Né la Dalmazia avrebbe dato all'Italia la supremazia nell'Adriatico. La supremazia sul mare è garantita dalle più potenti forze navali mobili, quando queste possano appoggiarsi su di una sola base navale ben attrezzata. Un grande numero di basi navali non serve a niente; esse non sono mobili né combattono. L'esperienza della guerra del 1915-18 ha dimostrato che le magnifiche basi navali dell'Adriatico orientale, sebbene sotto il controllo della marina austriaca, non permisero agli austriaci di svolgere nessuna importante azione navale, perché le loro forze navali erano inferiori a quelle dell'Intesa. Anche se l'Italia avesse annesso la Dalmazia, la base navale di Cattaro sulla costa adriatica orientale sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare poco esteso quale quello Adriatico, la sola Cattaro - ammesso che avesse avuto ad appoggiarla una potente flotta propria sarebbe stata sufficiente per tenere a bada la flotta italiana, a meno che l'Italia non avesse occupato tutta la costa orientale sino alla frontiera albanese. Ciò avrebbe costretto l'esercito italiano a proteggere una linea malfida della estensione di oltre 500 chilometri. Inoltre sarebbe stata necessaria una grossa marina mercantile per trasportare dall'Italia alla Dalmazia i rifornimenti indispensabili all'esercito stanziato in questo paese arido ed ostile, e una forte marina militare avrebbe dovuto proteggere le linee di comunicazione tra l'esercito di occupazione e le sue basi in Italia. Tutte queste forze avrebbero dovuto essere distratte dalle linee di importanza vitale per l'Italia nei mari Tirreno ed Ionio. Insomma anche da un punto di vista strategico, e si potrebbe dire specialmente da un punto di vista strategico, la conquista della Dalmazia sarebbe stato un madornale errore. E' anche vero che alla Conferenza della Pace Clemenceau, Lloyd George e Wilson strapparono dalle mani di Orlando e di Sonnino Smirne per darla alla Grecia. Ma se qualche volta un brutto tiro si può risolvere in un colpo di fortuna, questo fu proprio il caso. I diplomatici inglesi e francesi si erano assegnati tutti i territori del Medio Oriente occupati da popolazioni non turche, verso le quali si presentavano come i liberatori dal giogo turco; ma per l'Italia avevan messo da parte il gradito dono di Smirne e dintorni, proprio nel cuore della potenza turca. L'Italia avrebbe dovuto sostenere una guerra lunga e difficile contro i turchi e sul loro territorio. Tirandosi contro le forze turche in una guerra lunga e difficile, l'esercito italiano in Asia Minore avrebbe assunto a proprio rischio e pericolo e a spese del popolo italiano il peso di garantire la sicurezza dei 'mandati' francesi ed inglesi nel Medio Oriente. I greci si sarebbero dimostrati molto più saggi rifiutandosi di prender la parte degli italiani dicendo a inglesi e a francesi di tenersi per sé il dono di Smirne. Avrebbero evitato il
disastro del 1922. Il triste destino dei greci fece ringraziare Dio a tutti gli italiani di buon senso per avere dotato Lloyd George, Clemenceau e Wilson di cattive disposizioni verso di noi. Infine, è vero che, quando gli ex-possedimenti coloniali tedeschi in Africa furono divisi tra i vincitori, i diplomatici italiani vennero esclusi dalla divisione della torta e non riuscirono ad ottenere il diritto di espandersi verso l'Etiopia. Le colonie sono simboli di superiorità e un paese che voglia essere considerato potente deve possederne qualcuna, come ogni buon milionario deve avere la sua Rolls Royce e rivestire di gioielli la moglie e l'amante. Inoltre i possedimenti coloniali esercitano un fascino irresistibile sull'immaginazione di un popolo come l'italiano, affollato in una terra insufficiente ai propri bisogni. Senza dubbio la politica miope dei governi già alleati seminò un risentimento che doveva dare i suoi frutti. Anche quegli italiani che erano stati i più severi critici degli errori madornali di Sonnino e consideravano inutili le sue pretese territoriali, furono disgustati della malafede dei diplomatici inglesi e francesi. Ma una volta che si è detto tutto questo, rimane il fatto che il non ottenimento della mano libera contro l'Etiopia non rappresentava per l'Italia una vera perdita. Chiunque abbia una conoscenza anche rudimentale delle condizioni climatiche di quel territorio sa che esso è inadatto ad assorbire mano d'opera bianca, e quindi non può essere di nessun aiuto a risolvere il problema italiano della sovrabbondanza di popolazione. Se il governo italiano avesse ottenuto da Francia e Inghilterra mano libera sull'Etiopia, la guerra insensata che scoppiò nel 1935 sarebbe scoppiata parecchi anni prima. Invece di perdere tempo e fatica chiedendo colonie africane, i diplomatici italiani avrebbero dovuto darsi da fare per ottenere accordi migratori, libero accesso alle fonti di materie prime e un equo accomodamento dei debiti di guerra. Il problema che Sonnino e Orlando avevano complicato o ignorato durante la Conferenza della Pace cominciò a essere districato non appena lasciarono il potere (luglio 1919). Nel settembre 1919 il presidente del Consiglio Nitti concluse con il governo di Parigi un trattato di lavoro che garantiva agli emigranti italiani in Francia un trattamento analogo a quello dei lavoratori francesi. Questo trattato era assai più utile al popolo italiano di qualsiasi conquista coloniale in Africa. L'immigrazione italiana in Francia assunse una maggiore importanza e la Francia divenne il più grande sbocco per il lavoro italiano dopo che gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia avevano chiuso le porte. Quanto ai compensi coloniali che il governo francese ci doveva per le colonie tedesche ottenute in Africa, esso offrì soltanto poche misere miglia di deserto a sud della Tunisia e a est del Fezzan, compresa la strada carovaniera da Ghadames a Ghat. I diplomatici italiani chiesero dell'altro deserto verso il lago Tchad. Ma il controllo effettivo esercitato dall'Italia in Tripolitania non andava allora molto al di là della linea costiera. Per il momento gli italiani accettarono la rettifica di frontiera offerta dalla Francia, ma dichiararono che questi pochi ossi spolpati non erano sufficienti. La questione fu lasciata aperta. Nello stesso tempo, nel settembre 1919, il governo britannico accettò di cedere all'Italia l'oasi di Giarabub in Cirenaica e il territorio del Giuba sulle coste dell'oceano Indiano. Nell'aprile 1920 i confini di quest'ultimo territorio furono più definitivamente stabiliti dall'accordo Milner-Scialoja. Dopo aver fatto queste promesse, il governo inglese ritardò l'attuazione del passaggio con il pretesto che tutte le questioni di cui si era occupata la Conferenza della Pace dovevano prima essere definite, e tra tali questioni c'era la sistemazione definitiva delle isole greche del Dodecaneso, che l'Italia occupava sin dal tempo della guerra italo-turca del 1911-12. Quanto all'oasi di Giarabub, l'Italia non era allora in condizioni di poterla occupare, perché il suo controllo in Cirenaica non andava oltre la linea costiera. Inoltre l'Egitto reclamava Giarabub come parte del suo territorio e nel 1922 Londra aveva accordato all'Egitto la sua indipendenza; quindi gli italiani dovevano discutere la questione di Giarabub non
più con l'Inghilterra ma con l'Egitto: E, naturalmente, il governo inglese avrebbe religiosamente rispettato l''autodeterminazione' egiziana, a meno che non fosse stato nel suo interesse di fare pressione sopra l'Egitto. Nell'estate del 1920 l'Italia si adoperò per trovare una via di uscita da una situazione pericolosa, che in quel momento avrebbe potuto avere serie conseguenze sulla politica interna. Durante la guerra l'Italia aveva insediato in Albania una specie di protettorato. Per far sì che tale protettorato divenisse effettivo ci sarebbero voluti molti uomini e molti denari da impiegare contro le indisciplinate tribù che vivevano sui monti. Nel giugno del 1920 scoppiò una rivolta, e il governo decise di inviare delle truppe. Un reggimento che doveva partire per l'Albania si ammutinò ad Ancona. Il governo ebbe il buon senso di capire che non era possibile imbarcarsi in una nuova guerra - anche se si trattava soltanto di una guerra 'coloniale' - mentre era ancora vivo il ricordo del sangue versato nella guerra mondiale. Era una dimostrazione di quello che sarebbe successo se in quel momento ci si fosse accinti ad una conquista in Asia Minore o in Etiopia. Il 3 agosto 1920, in un accordo a Tirana con i capi albanesi, venne riconosciuto il governo che era stato formato a Lushnjë. Tale accordo fu seguito, il 2 settembre 1920, dal ritiro delle truppe italiane dal territorio albanese. Il 17 dicembre 1920 l'Albania venne ammessa alla Società delle Nazioni. Ma l'Italia rimase in possesso dell'isola di Saseno all'entrata del golfo di Vallona in modo da annullarne il valore militare: esso non poteva essere utilizzato né come base militare a favore dell'Italia né contro. Inoltre nel 1921 le grandi potenze stabilirono che 'la violazione delle sue frontiere e qualsiasi attentato contro l'indipendenza dell'Albania avrebbe costituito un pericolo per la sicurezza italiana.' Nel caso che tale pericolo si manifestasse, la restaurazione delle frontiere sarebbe stata affidata all'Italia. Si trattava di un artificio per lasciare 'mano libera' al governo italiano nei confronti dell'Albania. La Società delle Nazioni non avrebbe mai dovuto permettere che uno dei suoi membri fosse considerato come incluso nella sfera d'influenza di un altro membro. Essa avrebbe dovuto rifiutare la registrazione di tale accordo. Non lo fece, 'capitolando' di fronte ai malfattori. Una soluzione ragionevole al più acuto dei problemi di politica estera, quello dei rapporti italo-yugoslavi, fu data dal ministro degli Esteri Sforza con il Trattato di Rapallo (novembre 1920). Con questo trattato il governo di Belgrado riconosceva l'annessione all'Italia delle città di Gorizia e Trieste, e del loro "hinterland" quale era segnato dalla frontiera yugoslava del 1920, e l'annessione di tutta l'Istria sino alle porte di Fiume. Il governo italiano lasciava alla Yugoslavia tutta la Dalmazia, esclusa la città di Zara, che veniva annessa all'Italia. Fiume rimaneva una città libera, e si doveva costituire un consorzio misto di fiumani, italiani e yugoslavi per provvedere ai suoi interessi marittimi. Nel dicembre questo trattato veniva approvato dalla stragrande maggioranza sia alla Camera che al Senato. D'Annunzio da Fiume proclamò che piuttosto che arrendersi sarebbe morto. Ma quando si rese conto che il governo faceva sul serio, dichiarò che l'Italia non era degna che lui si sacrificasse per essa, e si ritirò. Nessun disordine serio ebbe luogo in Italia per causa sua. Nel gennaio del 1921 venne firmato un trattato con il quale Yugoslavia, Cecoslovacchia, Rumania e Italia si impegnavano a non permettere una restaurazione degli Asburgo né in Austria né in Ungheria. Si apriva per l'Italia la possibilità di fare da mediatrice tra i governi nati dallo smembramento dell'Impero austro-ungarico e quelli di Austria, Ungheria e Bulgaria, per correggere poco alla volta le decisioni troppo drastiche del Trattato di Trianon. In tal modo l'Italia si trovava nella posizione di poter esercitare una notevole influenza morale e politica nella penisola balcanica e nel bacino danubiano, senza venir sospettata di 'machiavellismo' o di 'imperialismo.' Quanto alle mire territoriali italiane in Asia Minore, Sforza fu il primo degli uomini di stato occidentali a riconoscere che la Turchia non era più la stessa di prima della guerra, costretta a disperdere le proprie forze per tenere soggetti i popoli cristiani
nella penisola balcanica, e i popoli arabi nel Medio Oriente. Essa aveva acquistato una solida unità nazionale con la quale quindi si dovevano fare i conti. Perciò Sforza rinunciò a tutte le pretese territoriali in Asia Minore, ottenne dai turchi un trattato commerciale vantaggiosissimo, e lasciò che inglesi, francesi e greci combattessero contro i turchi sino in fondo. Le altre questioni coloniali per il momento vennero accantonate. Fintanto che il paese non aveva superato la crisi del dopoguerra non doveva disperdere le proprie forze in inutili imprese oltremare. Malgrado il Trattato di Rapallo, lo status di Fiume rimase indefinito. Non appena la città fu lasciata a se stessa durante la prima metà del 1921, divenne teatro di violente lotte non soltanto tra italiani e slavi, ma tra italiani che accettavano lo status di città libera e coloro che volevano la immediata annessione all'Italia. Nell'estate del 1921, il governo italiano inviò le proprie truppe ad occupare la città. Il governo di Belgrado non protestò. In tal modo, sebbene lo status della città rimanesse indefinito, il problema aveva perduto quell'animosità artificiale ed assurda che lo aveva caratterizzato nel 1919 e nel 1920. Poiché il governo italiano si mostrava pronto a identificare gli interessi del paese con quelli della pace, alla Conferenza di Washington del 1921 si ottenne senza difficoltà la parità navale con la Francia per le navi da battaglia; e quando nell'aprile 1922 si riunì la prima conferenza internazionale nella quale si sarebbero incontrati i rappresentanti dei paesi dell'Intesa con quelli russi e tedeschi, fu scelta come sede della conferenza la città di Genova. L'Italia era il paese che più di ogni altro aveva cancellato i rancori della guerra. Sembrava dunque l''ospite' più indicata sia per i vincitori che per i vinti. Nell'Europa quale appariva dopo la guerra, l'Italia confinava sul continente con Francia e Svizzera che non avevano da avanzare nessuna rivendicazione, con un'Austria neutralizzata e con una Yugoslavia alleata e amica. Nel Mediterraneo, né la Francia né l'Inghilterra avevano interesse a crearle fastidi, ammesso che non fosse lei la prima a volerne creare. A differenza della Francia e dell'Inghilterra, l'Italia non era impegnata in conflitti costosi nel Medio Oriente, e si era sempre astenuta dall'intervenire in Russia a sostegno dei generali bianchi. L'Italia era uscita dalla prima guerra mondiale con i suoi organismi vitali affaticati ma integri. Nella sua struttura economica era come una persona malata che stava riprendendosi rapidamente dopo una malattia seria ma non mortale, mentre nella sua posizione internazionale era come il malato immaginario di Molière. Si tormentava per una malattia che non aveva. Ciò di cui aveva bisogno era una cura di riposo. Invece della cura di riposo le capitò di esser curata con la stricnina fascista che le procurò venti anni di convulsioni.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO TERZO. Per dare credito alla versione secondo la quale il regime fascista avrebbe riportato l'ordine dopo il caos, tutti i giornalisti legati alla propaganda fascista hanno descritto la crisi del dopoguerra con le tinte più fosche. Uno dei libri che subito fece propria la versione fascista fu quello di Villari, "The Awakening of Italy". A Villari non occorreva preoccuparsi e perder tempo in faticose ricerche e meticolose documentazioni, gli occorreva soltanto di sfornare il prima possibile un libro che potesse divenire una fonte di informazioni alla portata di tutti coloro che volevano farsi un'idea delle cose italiane, e "The Awakening of Italy", pubblicato al principio del 1924, veniva incontro a tale richiesta e costituiva quella che si potrebbe dire la 'vulgata' fascista. In seguito gli editori della "Encyclopaedia Britannica" si misero al servizio di Mussolini, e Villari riadattò la sua 'vulgata' nel supplemento del 1926 (II, pagine 558-571) e nelle edizioni del 1929 e del 1938. In tal modo la versione fascista raggiungeva in tutti i paesi un pubblico immenso e diveniva pane quotidiano per ogni insegnante
universitario, che, senza farsi venire il mal di testa, volesse diventare un 'esperto' di storia italiana contemporanea. Pretendere di elencare tutte le affermazioni errate che hanno circolato sulla storia d'Italia dal 1919 in poi, sarebbe come voler vuotar l'oceano con un cucchiaio. Ci limiteremo a raccogliere qua e là alcune perle, per mettere in grado il lettore di rendersi conto del tutto da alcune delle sue parti. E' stato detto e ripetuto che nell'ottobre del 1922 Mussolini trovò un deficit di 15 miliardi e lo ridusse a 3 miliardi nel primo anno della sua amministrazione. Ed è vero che se confrontiamo i disavanzi degli anni 1919-1922 con quello del primo bilancio fascista, noi siamo colpiti da un grande contrasto (1): TABELLA. [Nell'ordine: Anno -Deficit]. 1918-1919 - 23345 milioni. 1919-1920 - 11494 milioni. 1920-1921 - 20955 milioni. 1921-1922 - 17169 milioni. 'Marcia su Roma' 1922-1923 - 3.260 milioni. Però queste cifre non danno la storia intera. La storia intera è che il disavanzo, a cui la dittatura dovette far fronte nel suo primo anno fiscale, 1922-1923, non fu il deficit che i suoi predecessori dovettero affrontare dal 1 luglio 1921 al 30 giugno 1922. In un anno fiscale ci può essere un grave deficit e al tempo stesso possono essere state prese quelle misure che nell'anno seguente produrranno un avanzo. Un gabinetto eredita dal suo predecessore non il deficit dell'anno precedente, ma le entrate e le spese dell'anno in corso. Gli enormi disavanzi negli anni immediatamente successivi alla guerra furono dovuti alla liquidazione delle spese straordinarie dipendenti dalla guerra. Nel maggio 1923, De Stefani, ministro delle Finanze nel gabinetto Mussolini dall'ottobre 1922 al luglio 1925, accennò a questo fatto: «A costituire gli avanzi e i disavanzi finanziari dei singoli esercizi, in un bilancio di competenza, concorrono, come si è detto, non soltanto le entrate riscosse e le spese pagate, ma anche le entrate rimaste da riscuotere e le spese rimaste da pagare negli esercizi stessi. Sennonché durante il periodo bellico le complesse esigenze, cui occorse provvedere, impedirono che il bilancio rispecchiasse tutti i fatti amministrativi, propri di ogni anno finanziario. (...) Per tali cause i disavanzi degli esercizi di questo ultimo triennio, quali appariscono dai rendiconti consuntivi, non rappresentano le risultanze reali delle gestioni inerenti agli esercizi medesimi, ma bensì la somma degli avanzi o disavanzi dipendenti dalla gestione delle entrate e delle spese di competenza di detti esercizi con l'aggiunta dell'importo delle regolazioni anzidette, importo che avrebbe dovuto far carico ai precedenti anni finanziari, nei quali le corrispondenti spese ebbero realmente a verificarsi. Scendendo ora all'esame dei risultati degli ultimi esercizi, si ha che il 1920-21 si è chiuso con un disavanzo reale di 14 miliardi e 634 milioni (...); ma ove le entrate e le spese vengano depurate di tutte le partite direttamente dipendenti da cause determinate dalla guerra, ne risulterebbe che la gestione dell'esercizio medesimo, nella parte che può considerarsi di carattere normale, si è, in realtà, conclusa con un disavanzo notevolmente inferiore. (...) Per l'esercizio 1921-22 (...) il deficit, (...) come quello del precedente esercizio, risulta anch'esso di non poco attenuato» (2). De Stefani ebbe cura di non dare cifre precise. Ma le ricerche dei documenti ufficiali in cui le cifre sono sepolte, danno i risultati seguenti (3):
TABELLA. [Nell'ordine: anno - deficit - spese per la guerra]. 1918-1919 - 23345 milioni - 25683 milioni. 1919-1920 - 11494 milioni - 12424 milioni. 1920-1921 - 20955 milioni - 22329 milioni. 1921-1922 - 17169 milioni -18264 milioni. 'Marcia su Roma' 1922-1923 - 3.260 milioni - 4837 milioni. E' chiaro che i disavanzi risultarono solamente dalle spese eccezionali dovute alla guerra. Il peso maggiore si fece sentire nei primi quattro anni dopo la guerra. Quando la pressione cominciò a rallentarsi nel 1922-1923, anche il disavanzo cominciò a sparire. Sarebbe fatica sprecata cercare una esposizione obiettiva di questi fatti nei panegirici sulla finanza fascista con cui la 'propaganda' ha riempito il mondo intero. Nel maggio del 1923, De Stefani, pur ammettendo che il deficit ereditato dal nuovo regime era 'considerevolmente minore' di quello che era apparso nei bilanci del 1920-21 e 192122, ebbe il coraggio di dire: «In coloro che tennero il governo o il controllo parlamentare della pubblica finanza nell'ultimo periodo che precedette la Marcia su Roma, era diffuso il senso della stabilizzazione del disavanzo, e pubblici documenti del tempo riflettono il travaglio di quelle anime per la coscienza che esse avevano della gravità del momento e della sproporzione delle forze riparatrici. Queste forze furono create dagli umili (sic) volontari del nuovo stato» (4). I 'documenti ufficiali' citati a prova di questa asserzione erano la relazione del sottocomitato parlamentare sul bilancio preventivo per il 1923 (presentata alla Camera il 28 giugno 1922), e il rapporto sulla situazione finanziaria fatto dal ministro del Tesoro, Peano, alla Camera nel luglio del 1922. Chi esamina questi documenti non trova in essi il minimo cenno di disperazione, e nemmeno 'la coscienza della sproporzione delle forze riparatrici,' sebbene non ci si nascondano le difficoltà che ancora rimanevano da superare. Ecco alcune opinioni di ministri ed esperti finanziari, negli anni che precedettero la marcia su Roma. Meda, ministro del Tesoro, disse alla Camera il 19 dicembre 19110: «L'ottimismo sta (...) nella volontà di riparare, e nel convincimento che questa riparazione, oltreché doverosa, è possibile; perché la nostra situazione finanziaria risente gli effetti di una situazione economica normale, che non è italiana soltanto, ma quasi direi mondiale, e che dovrebbe presumersi destinata a miglioramenti non troppo lontani; perché è giusto avvertire come (...) l'esercizio 1920-21 (...) segni un primo gradino di circa tre miliardi nella scala discendente del deficit. (...) Nessuna illusione dunque (...) ma nessuna depressione di spiriti e di attività.» De Nava, successore di Meda al ministero del Tesoro, disse alla Camera il 26 luglio 1921: «Non v'è dubbio che se questa cifra (il deficit) la paragoniamo a quelle molto più paurose indicate negli esercizi precedenti, (...) vi è ragione a legittimo compiacimento perché, con uno sforzo notevole, si è potuto profondamente modificare una situazione, che era sotto tutti gli aspetti allarmante e pericolosa. (...) Ma se
consideriamo in se stessa la cifra (...) e la accompagnamo alla visione non lieta della crisi che (...) colpisce le nostre industrie e i nostri commerci (...) allora noi dobbiamo riconoscere che l'ora dei gravi disagi non è superata, e che per alcuni esercizi dobbiamo temere un deficit di bilancio, che dovrà coprirsi mediante il ricavato di debiti.» Ma l'8 dicembre 1921, calcolò che nel bilancio del 1923 il disavanzo sarebbe stato ridotto a non più di 3 miliardi, come infatti avvenne. Il 12 luglio 1922, alla vigilia della marcia su Roma, Peano, successore di De Nava, correggendo le previsioni del suo predecessore, calcolò per il prossimo esercizio un disavanzo di 3 miliardi e 998 milioni. E aggiunse: «Che nei maggiori centri finanziari del mondo non si considerino con preoccupazione le condizioni finanziarie ed economiche nostre, apparisce dal fatto stesso che numerose offerte di prestiti ci sono pervenute da gruppi bancari di primissimo ordine così di Inghilterra come di America. E se, per far fronte ai bisogni dello stato, il governo non ha creduto di accettare le offerte, per non aggravare con debiti verso l'estero la nostra bilancia commerciale, e per il nostro principio "aes alienum aeterna servitus", ha però accolto favorevolmente tali iniziative, in quanto offrono nuovi capitali all'attività privata.» I governanti ai quali De Stefani, nel maggio 1923, attribuì una pusillanimità che era destinata a far risaltare l'eroismo fascista, riapparvero tre anni dopo come 'parliamentary experts' in "The Fascist Experiment" di Luigi Villari: «I tecnici parlamentari erano persuasi che il deficit fosse destinato a riapparire permanentemente nei bilanci futuri, e sembrava non vi fosse modo di eliminarlo» (5). Anche il conte Volpi, parlando al Senato il 9 dicembre 1926, ricordò come fosse 'spaventosa e drammatica' la situazione dell'Italia alla vigilia della marcia su Roma: 'La rivoluzione fascista dell'ottobre 1922 ha ereditato dai cessati governi un bilancio (1921-1922) con 15 miliardi e 760 milioni di disavanzo.' Nessuna notizia delle spese straordinarie prodotte dalla guerra è dato trovare nel libro di C. E. McGuire "Italy's International Economic Position". Non fa meraviglia quindi che l'autore concluda che 'si deve all'amministrazione fascista tutto il credito per il miglioramento decisivo' delle finanze italiane. 86) Nel 1927 i 'parliamentary experts' inventati da Villan, diventarono nelle mani del signor T. W. Lamont, socio della banca Morgan, 'i leaders del partito al potere': 'Uno dei leaders del partito al potere dichiarò allora che il disavanzo era inevitabile per un indefinito numero di anni' (6). Il caso del signor Lamont merita una particolare attenzione, data l'autorità dell'uomo, come socio di una delle maggiori banche del mondo. Nell'aprile 1925 egli aveva fatto la seguente affermazione del tutto veritiera: «Immediatamente dopo la firma del trattato di pace, l'Italia intraprese con gran coraggio la restaurazione delle sue finanze. Il sistema tributario fu riorganizzato secondo i bisogni del dopoguerra, e, senza contare sugli incerti pagamenti per le riparazioni, il ministro italiano delle Finanze si dedicò a coprire tutte le spese ordinarie per mezzo delle entrate ordinarie. In conseguenza di questa politica, i disavanzi furono ridotti da circa 15 miliardi nel 1919 a circa 3 miliardi nel 1922» (8). Nel 1927 il signor Lamont dette una versione del tutto diversa:
«Quando il regime fascista venne al potere, verso la fine del 1922, l'Italia sembrava barcollare sull'orlo del comunismo e del bolscevismo.( ...) Le finanze del governo centrale erano malsane; i debiti si accumulavano. (...) I disavanzi del bilancio avevano raggiunto proporzioni allarmanti, sebbene i precedenti governi li avessero già largamente ridotti. Nell'anno fiscale 1920-21, due anni prima che l'attuale governo entrasse in carica, il deficit aveva superato i 17 miliardi. Grazie ad un rigido controllo delle spese e ad un coraggioso programma di tassazione, tale situazione venne posta sotto controllo. Il deficit del 1922-23, anno in cui entrò in carica l'attuale governo, venne ridotto a circa tre miliardi di lire» (9). In altre parole, il signor Lamont ignorò le spese straordinarie prodotte dalla guerra del 1915-18 e che si erano dovute pagare, e decise che prima della marcia su Roma il debito pubblico si andava accumulando per il fatto che le finanze italiane erano malsane. Nel 1927, Mademoiselle Lion scrisse: «Il deficit di bilancio che era di circa 160 milioni di lire nell'anno fiscale 1914 era salito a circa 23 miliardi nel 1918-19. Le previsioni erano così tetre che De Nava, ministro del Tesoro, il 26 luglio 1921 annunciò un "ulteriore" deficit per circa 5 miliardi. I vuoti spaventosi, che le amministrazioni avevano prodotto nell'apparato finanziario, erano dovuti alla pressione dei bolscevichi, intenti alla distruzione del capitale» (10). Mademoiselle Lion fu la prima a scoprire che il deficit del 1918-19 era arrivato a quasi 23 miliardi, e che la 'pressione bolscevica' si era fatta sentire sul governo italiano proprio nell'anno fiscale in cui era al potere un gabinetto conservatore, che aveva Sonnino per ministro degli Esteri. Dall'articolo del signor Lamont, nel 1928 il 'leader del partito al potere' passò nella pseudo-autobiografia di Mussolini. «Osserviamo ora la incredibile e drammatica situazione finanziaria. Un leader del partito liberale al Parlamento, Peano, sei mesi prima della marcia su Roma, calcolò il disavanzo del nostro bilancio a oltre sei miliardi! La situazione finanziaria era allora, anche secondo le dichiarazioni dei nostri avversari, disperatamente grave. Io so quale difficile eredità ricevetti; mi era toccata in sorte per gli errori e la debolezza di chi mi aveva preceduto» (11). Il "London Times" del 22 dicembre 1927 ammise che lo sforzo per eliminare il deficit risultante dalla guerra aveva già avuto molto successo prima che i fascisti andassero al potere: "'Non appena la guerra finì', il governo italiano si dedicò al difficile compito di mettere la casa in ordine, e quando Mussolini andò al potere, l'eccesso delle spese sulle entrate era stato ridotto 'a una somma relativamente modesta'. Con ammirevole coraggio, il signor De Stefani e il suo successore, conte Volpi, 'continuarono l'opera dei loro predecessori' e ottennero un equilibrio che è stato costantemente mantenuto." Ammirando il coraggio di coloro che 'continuarono' l'opera dei loro predecessori, il "Times" si risparmiò di ammirare il coraggio di coloro che avevano ridotto il deficit a una somma relativamente modesta. La stampa italiana fece ancora un passo avanti. Ecco come venne data notizia dell'articolo del "Times": "'Il Times' rintraccia la storia delle fasi della restaurazione finanziaria italiana: innanzitutto il pareggio del bilancio iniziato 'con mirabile coraggio dell'on. De Stefani' e continuato dal suo successore Volpi" (12). Se la storia finanziaria fu maltrattata così spietatamente nonostante che essa potesse essere ricostruita con l'aiuto di dati facilmente accessibili e controllabili, ci si può immaginare che cosa avvenne con la storia economica, assai più complessa e difficile
da interpretare. Strada facendo avremo occasione di vedere le falsificazioni più grossolane e prive di ogni scrupolo accumulate in proposito. Ci basti intanto dare qui alcuni esempi. 1) Passando in rassegna la storia economica dell'Italia, il conte Volpi avvolse gli eventi monetari del 1919-1922 nella seguente nuvola di fumo: «La lira ebbe gravi agitazioni nel suo cambio (nel 1919-1920): e il fenomeno durò fino alla fine del 1922. (...) I cambi, che avevano mostrato un miglioramento nel primo semestre 1922, in confronto allo stesso periodo dell'anno precedente, ripresero a peggiorare, fino a che il governo nazionale (...) non poté con salda mano segnare la nuova giusta rotta alla sistemazione economica del paese» (13). McGuire non fece che ripetere docilmente quanto aveva scritto Volpi, scrivendo: 'Dopo essere caduta precipitosamente nel 1919-20, la lira oscillò nervosamente fino all'inverno del 1921-22' (14). 2) C. E. McGuire, pur ammettendo che nel 1922 il debito estero dell'Italia non subì aumenti, affermò che nel 1921 si erano contratti debiti all'estero per circa 3 miliardi e 800 milioni di lire, senza confortare la sua affermazione con la più pallida prova. Afferma semplicemente che il deficit nella bilancia commerciale del 1921 fu compensato solo in parte dalle esportazioni invisibili, e conclude che per pagare i debiti del 1921, l'Italia "deve" essere ricorsa a un prestito all'estero per non meno di 3 miliardi e 800 milioni di lire. Così McGuire soddisfa la sua volontà di credere che la convalescenza economica dell'Italia cominci soltanto con Mussolini (14 bis). Persino il merito della "Enciclopedia Italiana" è stato sottratto al regime prefascista e attribuito a Mussolini. Nel "New York Times" del 18 e 27 agosto 1939, essa veniva salutata come 'il più monumentale prodotto letterario e scientifico del regime fascista.' Certamente i suoi trentasei volumi furono pubblicati dal 1929 al 1939 sotto Mussolini; ma non furono scritti da bambini nati e cresciuti dopo il 1922 sotto l'influenza di Mussolini. L'"Enciclopedia" fu l'opera di studiosi italiani che erano stati educati nei cinquant'anni precedenti nelle scuole di un'Italia libera. La presenza del fascismo nell'"Enciclopedia" si fece sentire soltanto in alcuni campi, quali storia contemporanea, scienze politiche, storia delle religioni, storia della Chiesa cattolica, e in tutti questi casi la sua influenza fu deleteria. Dal 1919 al 1921, tra gli addetti commerciali americani in Italia vi fu un certo signor A. P. Dennis, che spedì a Washington molti rapporti più tardi pubblicati nei "Commercial Reports". In nessuno di questi rapporti l'Italia è descritta come un paese in preda al caos economico e alla miseria. Lo stesso signor Dennis, nell'agosto del 1929, descriveva le condizioni dell'Italia dal 1919 al 1922 nei seguenti termini: «La prima impressione generale degli anni neri, 1919, 1920 e 1921 era un'impressione di fiacchezza, una fiacchezza tormentosa, agghiacciante e senza fine. Diecine di migliaia di soldati ancora in uniforme, che non facevano niente di buono. Cinque operai fannulloni impiegati dalle ferrovie dello stato per fare il lavoro di due persone. Il paese pullulava di mendicanti. Il caos, il disordine e la miseria regnavano sovrani. Mancanza di carbone, mancanza di disciplina. (...) Ognuno si sentiva in diritto non solo di esercitare la massima libertà di parola, ma anche quella di azione. Una sequela di scioperi scoraggiava e demoralizzava tutte le iniziative» (15). Quando è che il signor Dennis è insincero? negli anni dal 1919 al 1921, o nel 1929? Nell'aprile del 1927, il Dottor Nicholas Murray Butler, presidente della Columbia University, descrisse nei termini seguenti l'abisso dal quale Mussolini aveva tratto l'Italia:
«Sei milioni di italiani un giorno si trovarono senza acqua da bere o da lavarsi. Le ferrovie si erano sfasciate, il servizio postale era ridotto a un rudere, le strade non venivano riparate; brigantaggio, anarchia e delitto regnavano ovunque» (16). George Bernard Shaw, nel "Manchester Guardian" del 28 ottobre 1927, affermò con ottusità che l'Italia durante quegli anni aveva sofferto la mancanza di quanto occorre ai 'bisogni quotidiani materiali' e che Mussolini, non appena era andato al potere, aveva riportato 'l'ordine dopo il caos e obbligato l'Italia a lavorare e a non più morir di fame.' Shaw non aveva bisogno di dare nessuna prova di quanto affermava, egli crede che 'tutte le verità antiche e moderne sono divinamente ispirate,' e che lui stesso non è altro che uno strumento della rivelazione. Veramente aggiunge con modestia: 'So dall'osservazione e dall'introspezione che lo strumento su cui giuoca la forza ispiratrice può essere assai falloso tanto da ridurre il suo messaggio alla più ridicola scempiaggine.' A buona ragione osserva anche: 'Sono spesso esterefatto dalla avidità e dalla credulità con cui le nuove idee vengono afferrate e adottate senza un minimo di prove concrete. La gente finirà per credere tutto quanto la diverta, la soddisfi o le prometta un qualche vantaggio' (17). A illustrare la verità di queste osservazioni non si potrebbe trovare esempio migliore di quanto lo stesso Shaw afferma a proposito delle condizioni italiane prima della marcia su Roma, se al posto delle 'idee' poniamo i 'fatti'; una sostituzione che renderà ancora più sbalorditiva la credulità di chi fa certe affermazioni senza un minimo di prove concrete. Dato che uno degli argomenti più insistentemente addotti da chi descrive l'Italia nella più nera miseria negli anni dal 1919 al 1922 è il grande numero di scioperi, sarà bene tener presente che negli anni del dopoguerra gli scioperi furono comuni a tutti i paesi. In Francia ferrovieri e addetti alle poste non aspettarono neppure la fine della guerra per scioperare, mentre in Italia ferrovie e servizi postali non scioperarono prima del 1920. In Italia la smobilitazione non provocò nessuno di quei movimenti sediziosi che scoppiarono nell'esercito inglese subito dopo l'armistizio, e neppure ci fu, come avvenne in Inghilterra nel settembre del 1919, uno sciopero ferroviario, che paralizzò tutta la vita economica del paese per nove giorni. Nel 1919 e 1920, in Belgio ci furono tanti scioperi che la "Revue du Travail", che era una pubblicazione governativa ufficiale, dovette dedicare ventuno colonne dell'indice dei suoi volumi per il 1920 a enumerare gli scioperi dei due anni precedenti. Negli Stati Uniti nel corso del 1919 vi furono 2665 scioperi con 4.160.000 scioperanti. Uno sciopero delle forze di polizia, come avvenne a Boston, in Italia non si ebbe mai.
CAPITOLO QUARTO. L'ARRETRATEZZA DELL'ITALIA E IL 'VOLKSGEIST'. Non si vede per quale ragione gli italiani abbiano sentito il bisogno di disfarsi delle loro libere istituzioni, proprio al momento in cui avrebbero dovuto andare orgogliosi dei risultati raggiunti attraverso di esse. Ci si sarebbe piuttosto aspettati un passo avanti verso forme più avanzate di democrazia. Come fu che proprio in un momento simile gli italiani aprirono le porte alla dittatura? Secondo i marxisti di stretta osservanza, una discussione del genere non ha ragione di essere. Secondo loro una democrazia politica non è una 'vera,' 'sostanziale' democrazia, dato che le istituzioni di democrazia politica o 'formale' diventano 'veramente' democratiche soltanto quando ad esse si aggiungano le istituzioni di una democrazia economica. Solo la Russia sovietica è una 'vera' democrazia, nonostante che abbia abbandonato le istituzioni della democrazia politica, ma dato che essa dichiara di essere in possesso delle istituzioni della democrazia economica. In conseguenza Hitler e Roosevelt, Churchill e Mussolini, tutti i governanti dei popoli passati, presenti e futuri, sono o saranno dittatori qualora non adottino la dottrina e la pratica comunista. In conseguenza non vi fu in Italia nessun collasso delle istituzioni democratiche, poiché non vi erano istituzioni democratiche. Quindi non vi è nessun problema da risolvere. Non vogliamo accapigliarci sulle parole; ma nemmeno vogliamo che le nostre idee vengano del tutto confuse per l'uso arbitrario delle parole. La parola 'democrazia' ha sempre significato una costituzione politica che garantisca a tutti i cittadini, senza discriminazione di classe sociale, fede religiosa, razza o appartenenza politica, tutti i diritti personali ("habeas corpus", libertà di pensiero, di religione, il diritto di seguire la propria vocazione eccetera) e tutti i diritti politici (libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione, di rappresentanza nei governi locali e nazionali eccetera). Secondo il significato tradizionale del termine, una costituzione politica è democratica anche se le classi inferiori non sono in grado di servirsi dei loro diritti politici e dei loro privilegi, per strappare alle classi superiori il loro potere politico ed economico, e passare in tal modo da una democrazia politica ad una democrazia economica. E secondo il significato tradizionale del termine, una costituzione dittatoriale o totalitaria si ha quando vengono rigettati i diritti personali e politici dei sudditi. Se ci si vuole distaccare dal significato tradizionale dei termini e definire come dittatura quella che tradizionalmente si definisce democrazia politica, e in tal modo mettere nello stesso mazzo Roosevelt e Hitler, Churchill e Mussolini, si finisce poi per non capire più niente nelle vicende umane, a meno che non ci si rifaccia da capo mettendo in due mazzi diversi la dittatura n. 1, ad esempio gli Stati Uniti, che hanno una democrazia politica ma non economica, e la dittatura n. 2, la Germania nazista, che non ha una democrazia né politica né economica. Su questa linea, per quanto riguarda l'Italia, il problema è di vedere se il suo regime prefascista si deve considerare una dittatura n. 1, o una dittatura n. 2. Noi continuiamo a definire come democrazia quella che i marxisti di stretta osservanza chiamerebbero dittatura n. 1. E questo è tutto. Guglielmo Ferrero è dell'opinione che l'Italia non aveva una democrazia, ma un sistema politico intermedio tra le vecchie forme di governo assolutistico e le democrazie di Francia e Svizzera. «Il Parlamento, pur compiendo varî uffici e tutti di importanza, non era un "organo dirigente". Controllava, in una certa misura, il Governo; era il portavoce, se non del popolo intero, di larghe e diffuse opinioni e di grandi interessi; serviva agli uomini di Stato come palestra, per esercitarsi al Governo. Ma la direzione della cosa pubblica
era altrove e discendeva dall'alto, dalla penombra mezzo aulica mezzo burocratica, in cui si nascondeva quella che si potrebbe forse chiamare la 'oligarchia degli anziani': un piccolo gruppo di alti funzionari e di parlamentari autorevoli tutti attempati (per farne parte bisognava - e incomincio a credere non fosse male - avere i capelli grigi) i quali, appoggiati non al Parlamento soltanto, sempre un po' oscillante con l'opinione del paese, ma anche e più alle due ossature dello Stato - Monarchia e Burocrazia reggevano invisibili lo Stato e decidevano tutti gli affari capitali, sembrando di dipendere e cercando di andar d'accordo con il Parlamento, in modo da farlo partecipe della responsabilità, ma sapendo contrariarne e piegarne la volontà, quando era necessario.» Insomma, il regime politico italiano era una 'paterna democrazia,' in cui 'trenta milioni di persone [erano] governate da trenta persone, a beneficio di trecentomila famiglie' (1). Anche questa teoria ci porterebbe a concludere che in Italia non si abbatté una democrazia, e che perciò non c'è motivo di dolersene. Il quadro che Ferrero dà dell'Italia prefascista è giusto. Il suo errore sta nel credere che in Francia (nel 1925, al momento in cui scriveva), o in Svizzera, o in qualsiasi altro paese per il quale era disposto ad ammettere l'esistenza di istituti democratici, le cose andassero in modo sostanzialmente diverso da quello dell'Italia prefascista. Sta di fatto che in Francia le elezioni generali del 1936 furono condotte con lo slogan: 'Combatti contro le duecento famiglie,' che si diceva avessero il controllo della struttura economica, politica e finanziaria del paese. Secondo G. K. Chesterton e molti altri osservatori, l'Inghilterra è governata dalla sua "week-end aristocracy". Nel 1938, in Inghilterra molti lamentavano che la politica estera britannica fosse diretta da un piccolo circolo di magnati filotedeschi, il 'Cliveden set,' dal nome della casa di campagna di Lady Astor dove i leaders del partito conservatore si riunivano durante i loro "week-ends". Simon Haxey, in un libro pubblicato nel 1939, (2) ha raccolto prove convincenti a dimostrazione del fatto che i rappresentanti parlamentari del partito "Tory" appartengono a una catena di interessi capitalistici che non ha niente a che fare con la massa del popolo britannico; in un altro libro pubblicato nel 1941, (3) H. E. Dale mostra che gli uomini che dirigono i 120000 impiegati statali in Gran Bretagna non sono più di seicento, e agiscono da ponte tra la macchina amministrativa e i ministri del gabinetto, alle cui spalle stanno i parlamentari Tory. Quindi in effetti gli uomini che governano la Gran Bretagna non sono più di un migliaio. Un quadro della democrazia americana tracciato nel 1938 sorprende per la similarità con quello dato da Ferrero nel 1925 sull'Italia prefascista: «Gli Stati Uniti sono posseduti e dominati da una gerarchia delle sessanta famiglie più ricche, sostenute da non più di novanta famiglie un po' meno ricche. Fuori di questo circolo plutocratico vi sono forse altre 350 famiglie, di ricchezza e di origini più incerte, con un reddito per lo più di 100000 dollari ed oltre che non ha legami con i membri del più ristretto circolo. Queste famiglie sono il centro vitate della moderna oligarchia industriale che domina gli Stati Uniti, operando con discrezione sotto una forma di regime democratica "de jure", dietro la quale a partire dalla Guerra Civile si è formato un governo "de facto", che nelle sue linee è assolutista e plutocratico. Questo governo "de facto" è il governo effettivo degli Stati Uniti, non ufficiale, invisibile e misterioso. E' il governo del denaro in una democrazia del dollaro» (4). In questo quadro ci deve essere molto di vero, se anche altri scrittori sono arrivati alle stesse conclusioni, (5) e se, secondo il segretario di stato Ickes, l'America è testimone di una lotta all'ultimo sangue tra plutocrazia e democrazia, che durerà 'sintanto che riescano vincitori i 120 milioni di americani o le sessanta famiglie' (6).
In nessun regime democratico il potere è nelle mani di tutta la popolazione o della sua maggioranza. Il potere è nelle mani di quel partito che per il momento è sostenuto dai voti della maggioranza degli elettori, e questa maggioranza non è la maggioranza di tutta la popolazione, ma solo di quella parte della popolazione che si interessa di politica almeno quel tanto da partecipare alle elezioni. Tutti i partiti sono minoranze organizzate, che cercano di ottenere l'appoggio della maggioranza elettorale, e a sua volta questa maggioranza elettorale non è che una minoranza dell'intera popolazione. All'interno della minoranza al potere poi ci sono dei gruppi più o meno clandestini che tirano i fili dietro la scena. Nei regimi totalitari le cose non vanno diversamente. Ma c'è, tuttavia, una differenza sostanziale tra un regime oligarchico o totalitario e un regime democratico. Sotto un regime oligarchico o totalitario i diritti politici (libertà di parola: di stampa, di associazione e di riunione) sono legalmente il privilegio di una minoranza che possiede "per diritto proprio" il monopolio del potere. Una costituzione democratica garantisce gli stessi diritti politici a tutti i cittadini, senza distinzione di classe, religione, razza o appartenenza politica. Conseguentemente una democrazia è un regime di libera concorrenza tra libere minoranze, anche in quei paesi dove le masse sono politicamente educate ed organizzate. Ma questa non è una buona ragione per considerare un regime democratico come identico a un regime oligarchico o totalitario. Sotto un regime democratico l'elettorato può congedare il partito al potere, e mediante l'uso di questo diritto politico il corpo elettorale può esercitare il proprio peso sulle decisioni della minoranza che governa. Sotto un regime oligarchico o totalitario, quella parte della popolazione che non è emancipata, o tutta la popolazione, non ha questo potere. Il regime di libertà fu creato in Italia tra il 1848 e il 1870 da una oligarchia delle classi superiori. Durante i cinquant'anni che seguirono il Risorgimento, le classi inferiori raggiunsero gradualmente un livello morale, economico ed intellettuale più alto. Di conseguenza chiesero ed ottennero una parte di influenza politica ed economica sempre maggiore. Lo stesso Ferrero scrive che all'inizio di questo secolo 'quelle tali trenta persone e quelle tali trecentomila famiglie' videro le classi medie e le classi popolari destarsi lentamente e cominciare ad esercitare la propria sovranità. «Questo risveglio che, facendo irrequieto lo spirito pubblico, indeboliva la oligarchia dominante, mise capo alla legge del suffragio universale. (...) La guerra fu una rivoluzione, perché, scuotendo le classi medie e le masse popolari, affrettò l'emancipazione del suffragio universale. Tutti ricordano le elezioni del 1919 e del 1921: in cui quelle tali trenta persone e quelle tali trecentomila famiglie videro per la prima volta - e il sangue gelò loro nelle vene - milioni di elettori votare secondo il proprio pensiero o capriccio. (...) Questa emancipazione del suffragio universale era un frutto che prima o poi doveva maturare» (7). Certamente la struttura politica italiana aveva dei punti deboli, e di questi si deve tener conto per spiegare il crollo delle istituzioni democratiche in Italia. Come vedremo, l'opera del Parlamento era divenuta sempre più deficiente. Ma il Parlamento è soltanto uno degli istituti della democrazia. Durante i cinquant'anni di regime libero, libertà di stampa, di parola e di associazione avevano insegnato ad una larga parte dell'elettorato a superare gli interessi personali e i pregiudizi locali. Il popolo si andava interessando in misura sempre maggiore alla vita pubblica. Nel 1880 il giornale più diffuso d'Italia vendeva soltanto 25000 copie al giorno; nel 1914 se ne vendevano 600000. Tra il 1860 e il 1880 il numero degli elettori non superava i 250000; alle elezioni generali del 1913 si recarono alle urne cinque milioni di votanti. Nel Mezzogiorno le elezioni erano viziate dalle pressioni e dalle violenze governative; ma al Nord la vita pubblica, si svolgeva in modo onesto e decente.
Durante la guerra mondiale in Italia non si ebbe nessun caso di selvaggia persecuzione contro gli avversari della guerra, come avvenne invece in America; non si ebbero soppressioni di giornali, né condanne a trenta anni di carcere per il reato di pacifismo, né licenziamento di insegnanti, sospensione dell'insegnamento del tedesco, o altre forme di metodi illiberali. Chi scrive criticò apertamente durante quegli anni la politica estera del governo e si oppose tenacemente al progetto di annessione all'Italia della Dalmazia, ma non ci fu mai la minima idea che egli potesse per questo essere congedato dal suo posto di insegnante universitario. Se questa non è democrazia democrazia imperfetta, certamente, democrazia in cammino - nessuno saprà mai che cosa in realtà è la democrazia. E' vero che il suffragio universale, l'elemento più caratteristico di una costituzione democratica, fu concesso in Italia solo nel 1912. Sino al 1881 il diritto elettorale apparteneva a quei soli cittadini maschi che avevano raggiunto l'età di 25 anni, e pagavano non meno di 40 lire all'anno di imposte dirette, e che sapevano leggere e scrivere. In quell'anno il numero degli elettori ammontava a 662000, cioè al 2,2 per cento della popolazione, mentre con il suffragio universale limitato alla popolazione maschile circa il 30 per cento della popolazione avrebbe avuto il diritto di voto. Nel 1882 il diritto elettorale fu esteso a tutti i maschi che avevano raggiunto il ventunesimo anno di età e sapevano leggere e scrivere, pagassero o non pagassero imposte dirette; ma se i cittadini non erano iscritti nel registro dei contribuenti dovevano dimostrare di avere almeno frequentato la terza elementare in una scuola comunale. In tal modo il numero degli elettori iscritti salì a 2.112.000 (7,39 per cento della popolazione) e tra il 1882 e il 1912 tale numero sali a 3.329.000 (9,28 per cento della popolazione). Nel 1912, una nuova riforma elettorale estese il diritto di voto a tutti i maschi che avessero raggiunto il trentesimo anno di età o avessero prestato il servizio militare, che sapessero o non sapessero leggere e scrivere. Si pensò che l'esperienza della vita è più importante del saper leggere e scrivere. Milioni di contadini erano ancora analfabeti, ma erano stati in America ed erano ritornati a casa con i loro risparmi e con una esperienza di vita maggiore di quella, ad esempio, di un giovin signore che leggiucchiava i romanzi francesi, ma non aveva mai avuto nella vita da superare altra difficoltà che quella di aggiustarsi la cravatta innanzi allo specchio. Il numero degli elettori salì a 8.672.000, cioè il 24,2 per cento della popolazione. Ma se il suffragio universale era lento ad arrivare, le altre istituzioni della democrazia politica erano vecchie di mezzo secolo. Anche osservatori liberi da pregiudizi hanno accettato e diffuso l'opinione che gl'italiani non erano interessati a fare uso dei loro diritti politici, e a prova di questa indifferenza indicavano la bassa percentuale di italiani votanti nel giorno di elezioni (8). E sta di fatto che la percentuale di cittadini in Italia che si recavano alle urne nella giornata elettorale variava dal 55 al 60 per cento degli elettori iscritti (9). Il significato di questo fatto appare chiaro tenendo presente che: 1) Non esiste in questo mondo nessun popolo che possieda una educazione tanto perfetta che tutti, nessuno escluso, si rechino alle urne il giorno delle elezioni. Negli Stati Uniti, nelle elezioni presidenziali del 1932, solo 40 milioni di votanti si recarono a votare, cioè il 57 per cento; nel 1936, 45,8 milioni, il 62 per cento; nel 1940, 49,6 milioni, il 65 per cento. 2) Negli Stati Uniti i cittadini vengono iscritti durante la campagna elettorale nel luogo di residenza, nel calore della lotta politica. In Italia i cittadini venivano iscritti dal sindaco nel luogo di nascita e in tale località dovevano recarsi a votare, a meno che entro il mese di dicembre, in previsione di una campagna elettorale, non avessero fatto una domanda per far trasferire la propria iscrizione al luogo di residenza. Quindi molti impiegati statali, uomini d'affari o lavoratori che non si trovavano nel loro luogo di nascita il giorno delle elezioni, avrebbero dovuto fare un lungo e costoso viaggio per esercitare il loro diritto. Tutto ciò era causa di molte astensioni. Inoltre coloro che
stavano prestando servizio militare, che durava tre anni, non potevano votare, e nelle statistiche figuravano come assenti. Quando ebbe luogo la prima elezione a suffragio universale nel 1913, molti milioni di lavoratori si guadagnavano da vivere come emigranti in Austria, Germania, Svizzera, Francia, paesi del bacino Mediterraneo, Nord e Sud America. Così nel 1913 non più del 60,4 per cento e nel 1919 il 56,6 per cento dei votanti iscritti si recarono alle urne. Se si tengono presenti queste circostanze, si deve concludere che la percentuale italiana di votanti non sfigura in confronto con la percentuale inglese, che di regola è di circa il 78-80 per cento. Nel 1903, nel settimanale "Minerva", uno scrittore politico, Federico Garlanda, fece le seguenti osservazioni: «Da noi tutti i cittadini discuton di politica. Ogni italiano che si rispetti passa ogni giorno un'ora o due al caffè a discuter di politica fin che ne ha fiato. Chi appoggia la sinistra e chi la destra; chi esprime opinioni repubblicane e chi socialiste. Ma se domandate a ciascuno di questi spiritati interlocutori: Scusi, di che partito è lei?, potete essere sicuri che novantanove volte su cento la risposta sarà: Io non appartengo a nessun partito» (10). Il discutere troppo di politica forse non è indice di saggezza, ma certamente non è indice di indifferenza; viceversa il non appartenere a nessun partito può essere considerato come saggezza. La sola cosa che non si può sinceramente dire è che gli italiani fossero indifferenti alla politica. Durante gli anni del terrore e della guerra civile, 1921-26, nella loro tenace resistenza all'assalto fascista, vi furono tra gli antifascisti in Italia 4000 vittime. E' un po' difficile sostenere che questa sia una prova dello scarso interessamento degli italiani a sostegno delle loro libertà politiche. Quando i locali di un giornale venivano bruciati dai fascisti, subito i suoi lettori inviavano offerte perché i danni potessero essere riparati. Ciò non si può dire che dimostri che essi non erano interessati a sostenere la libertà di stampa. Certamente la massa del popolo italiano non aveva raggiunto lo stesso livello di maturità politica che si poteva riscontrare in Svizzera, in Belgio, in Olanda, nei paesi scandinavi, in Inghilterra e anche in Francia; ma nessun popolo ha mai trovato una perfetta educazione democratica bell'e fatta nella culla. L'Inghilterra e la Francia erano politicamente assai indietro prima di diventare quello che erano all'inizio di questo secolo. Al tempo del Duca di Wellington il sistema parlamentare inglese era ancora un rozzo insieme di privilegi incoerenti e corruzione sistematica; se la spiegazione del fascismo riposa nell'arretratezza italiana, l'Inghilterra nel 1832 avrebbe dovuto produrre una dittatura fascista e non il "Reform Act". Dal 1871 al 1877, in Francia vi fu sempre pericolo che la repubblica democratica soccombesse e il paese facesse ritorno ad una forma di assolutismo; perché invece di ripiombare in un regime dispotico si ebbe in Francia un regime democratico? E perché quel regime democratico crollò disastrosamente nel 1940? Era più arretrata la Francia del 1940 di quella del 1877? Se la condizione di arretratezza fosse la spiegazione del fascismo, l'Italia avrebbe dovuto produrre il fascismo quando era assai più arretrata che non nel 1922; non avrebbe neppure sperimentato le libere istituzioni, sarebbe rimasta succube e sonnolenta sotto i vecchi governi dispotici. In ogni modo, perché l'Italia pose fine alle sue libere istituzioni non nel 1880, ad esempio, ma quarant'anni più tardi? Il movimento fascista non nacque nel Mezzogiorno, la parte più arretrata del paese, nacque nell'Italia settentrionale, che aveva raggiunto un livello di civiltà non molto inferiore a quello dei paesi dell'Europa centrale. Il retrogrado Mezzogiorno italiano cadde in mano al fascismo solo dopo che il fascismo del Nord era andato al potere. Prima del 1933 una delle spiegazioni della 'arretratezza' italiana e della sua incompatibilità con la democrazia era vista da taluni nel fatto che l'Italia era un paese
cattolico. Nei paesi protestanti una mentalità cattolico-romana è considerata come una mentalità 'retrograda.' Tuttavia, dopo il crollo in Germania della Repubblica di Weimar, nel 1933, non, fu più possibile ignorare il fatto che la Germania per più di metà era protestante, e che i protestanti tedeschi non fecero contro il nazismo figura migliore dei cattolici. Nessuno avrebbe mai detto che la Germania fosse un paese 'retrogrado.' Quando Hitler andò al potere, una rivista americana manifestò la propria fiducia nel movimento operaio tedesco, le cui basi erano troppo solide per essere scosse dalla brutalità del governo e perché il suo cammino fosse interrotto dalla intossicazione nazionalista. 'Hitler non riuscirà a calpestare socialdemocratici, comunisti e sindacati, come fece Benito Mussolini in un'Italia industrialmente assai meno sviluppata.' (11) L'esperienza ha dimostrato che i sindacati tedeschi furono 'pianificati' dopo una resistenza assai minore di quella opposta dai sindacati italiani in un paese industrialmente assai meno sviluppato. Gli italiani resistettero tenacemente per quattro anni all'assalto fascista, dopo che Mussolini era andato al potere. E per quanto riguarda la intossicazione nazionalista, i sindacati tedeschi nella Saar, la più industrializzata regione del mondo, nel plebiscito del 1934 - un libero plebiscito, si noti, un libero plebiscito - dettero a Hitler il 92 per cento dei loro voti. Non si richiamano questi fatti per dimostrare che la Germania era più 'arretrata' dell'Italia; si vuol solo chiarire il fatto che la vittoria del fascismo o del nazismo non si possono spiegare con la 'arretratezza' dell'Italia o della Germania. Dopo aver conquistato l'Italia e la Germania, il fascismo fece la sua comparsa in Francia, Belgio, Inghilterra, Stati Uniti e Canada, paesi che nessuno osa definire 'arretrati,' e nel 1940 sorse in Francia una dittatura fascista, il regime di Vichy. (Non prendiamo in considerazione Austria, Polonia, Yugoslavia, Rumania, Grecia, Ungheria, e altri paesi che furono benedetti da una forma più o meno coerente di dittatura, dato che questi paesi erano considerati 'arretrati' e quindi il loro esempio non avrebbe molto peso in questa discussione.) Dopo tali esperienze, sono pochi gli americani, gli inglesi o i francesi che ripetono ancora oggi quello che alcuni anni fa era uno slogan comune: "'It can't happen here,' 'Chez nous ça ne peut pas arriver.'" E' quasi estinta la razza di quegli uomini giusti che erano convinti di essere sotto la speciale protezione dell'Onnipotente, e che la grandinata fascista avrebbe devastato soltanto i campi dei loro vicini, e che la febbre nazista si sarebbe abbattuta solo sulle case di fronte alle loro. Piaccia o non piaccia, il fascismo non è un tratto caratteristico dei paesi 'arretrati,' ma un fenomeno universale, la cui spiegazione deve ricercarsi altrove che non nello stato di 'arretratezza.' Un inglese di grande intelligenza e una autorità per la storia del Risorgimento italiano notava che le città italiane del Medioevo non ebbero esperienza di governo rappresentativo, e in questo fatto ritrovava la chiave per comprendere perché l'Italia diventò fascista: «La città governava i luoghi circostanti in modo dispotico. Essa stessa era governata da una democrazia diretta, o da una propria oligarchia, o da un dittatore. Quando cambiava governo, non era in seguito a una elezione generale, ma in seguito a un moto di piazza: i cittadini si raccoglievano, bastonavano alcune persone divenute impopolari o devastavano le loro case. (...) E così, nell'autunno del 1922, mentre da noi andava al potere un governo conservatore in seguito alle elezioni generali, gli italiani raggiungevano uno scopo analogo mediante una serie di moti di piazza per tutta l'Italia, culminanti in un grande 'moto di piazza' nazionale: la marcia su Roma di Mussolini. (...) Qualche volta la gente mi chiede perché gli italiani non potevano ottenere il cambiamento di governo che volevano per mezzo delle elezioni generali. (...) Rispondo a chi mi ha posto la domanda indicando la storia sociale e politica degli italiani, che li ha resi inadatti ad esprimersi mediante elezioni generali. Ed è veramente molto difficile per trenta o quaranta milioni di persone ottenere il governo
che vogliono mediante una elezione generale, a meno che non ne abbiano il senso innato. Noi abbiamo questo oscuro istinto ereditario; gli italiani non l'hanno. (...) In che modo gli italiani esprimono naturalmente i loro desideri? L'ho già detto, mediante il concorso dei cittadini in ogni città. Quando l'anima, lo spirito o le passioni degli italiani hanno bisogno di sfogo, essi lo trovano in un moto di piazza» (12). Tutto ciò è assai brillante e ben scritto, ma non vengono presi in considerazione molti fatti pertinenti. Nel 1183, trentadue anni prima della data di nascita della Magna Charta, gli italiani strapparono all'imperatore Federico Barbarossa il Trattato di Costanza, che garantiva l'autogoverno a tutte le città dell'Italia settentrionale, mentre la Magna Charta inglese conteneva i diritti e i privilegi soltanto di un pugno di baroni feudali. Che cosa faceva questo 'oscuro istinto' inglese nel 1183? Perché si risvegliò soltanto nel 1215? Nel tredicesimo secolo, mentre l''istinto' dell'Inghilterra stava facendo il suo primo passo incerto verso la rappresentanza mercantile in Parlamento, nell'Italia centrale e settentrionale gli strati inferiori delle classi medie cercavano di ottenere il controllo del governo delle loro città e abolivano la servitù della gleba. Non riuscirono ad instaurare un regime parlamentare, e ovunque ci furono molti 'moti di piazza'; ma forse che la guerra delle Due Rose fu combattuta sulla luna e non per le strade d'Inghilterra? Le lotte sociali in Italia condussero a istituzioni dispotiche; ovunque in Italia sorsero tiranni. Ma Enrico Ottavo era un re costituzionale, di fronte al quale i tiranni italiani avrebbero avuto ragione di sentirsi umiliati? E la rivoluzione del 1648 che cosa fu se non un 'grande moto' per le strade d'Inghilterra? E forse che la rivoluzione del 1688 fu prodotta da una elezione parlamentare? L''oscuro istinto' inglese funzionava, piuttosto male anche in tempi più avanzati. Qualsiasi studente di liceo sarebbe da bocciare se non conoscesse a menadito che l'Inghilterra proibì il commercio legale degli schiavi solo nel 1807, e che la schiavitù nelle colonie britanniche non venne abolita sino al 1833; che il diritto di riunirsi in associazioni di mestiere fu concesso ai lavoratori solo nel 1824, e che solo in quell'anno i cattolici furono emancipati; che nei primi trent'anni del secolo diciannovesimo le corporazioni municipali, grazie a un sistema di voto anche più assurdo di quello in vigore nelle elezioni parlamentari, erano controllate da oligarchie meschine, ignoranti, inefficienti e spesso disoneste; che la riforma del 1832 concedeva il diritto di voto a non oltre metà delle classi medie; che per molti anni, anche dopo il 1832, le elezioni inglesi continuarono a essere caratterizzate dalle numerose forme di corruzione; che solo dopo il 1839 l'arruolamento forzato nella marina cadde in disuso; che ancora nel 1844 il ministro degli Interni violava la corrispondenza privata, e non esisteva nessuna legge a proibire tali pratiche; che solo nella seconda metà del diciannovesimo secolo la libertà di stampa venne garantita; che solo nel 1853 furono abolite quelle tasse sui giornali, che li rendevano costosi e quindi inaccessibili alle classi inferiori; che solo nel 1866 gli ebrei ottennero il diritto di far parte del Parlamento; che solo nel 1867 gli operai cittadini e il resto delle classi medie ottennero il diritto di voto; che i lavoratori agricoli dovettero attendere il diritto di voto sino al 1885; che sino al 1872 il voto era pubblico, e quindi gli agricoltori erano costretti a votare secondo i desideri dei proprietari; che il voto plurimo, il quale accordava un vantaggio sostanziale alla proprietà, fu abolito soltanto nel 1918; che ancora nel 1841 tra le classi lavoratrici neppure un ragazzo su dieci e un adulto su cinquanta sapevano leggere e scrivere; che solo nel 1833 il Parlamento concesse 20000 sterline per aiutare gli enti locali nella costruzione di edifici per scuole elementari, e che solo nel 1856 venne promosso un ministero dell'Educazione, e solo nel 1870 l'educazione popolare cominciò a diventare un sistema efficiente e ben organizzato. Non si sa se si deve spiegare con l''oscuro istinto' parlamentare il fatto che nel 1914 un esercito illegale di 'volontari' sorse tra gli inglesi dell'Irlanda del Nord
con il programma dichiarato di opporsi con la forza alla "Home Rule" se questa fosse stata approvata dal Parlamento, e che i leaders del partito conservatore inglese approvarono tale minaccia contro il Parlamento. Quando nel 1920 il governo britannico inviò i 'Black and Tans' a insegnare come comportarsi agli irlandesi, forse che il governo britannico - e non quello irlandese - era ispirato da quell''oscuro istinto' parlamentare, del cui monopolio l'Onnipotente ha investito il popolo inglese? Non sembra che i 'Black and Tans' abbiano dato prova del loro 'oscuro istinto' parlamentare sorseggiando tazze di tè nei salotti delle loro belle, e non partecipando a 'moti' per le strade d'Irlanda. Gli scontri che avvennero nell'autunno del 1936 tra fascisti e antifascisti a Leeds, Londra, Liverpool, e dove molti dei contendenti finirono all'ospedale, erano né più né meno che 'moti' di strada e non lotte elettorali. Le api, le formiche e i bambini neonati fanno immediatamente quei movimenti istintivi che si adattano perfettamente ai loro scopi; ma questo non è mai stato il caso dell''istinto' inglese. Il popolo inglese ha dovuto guadagnarsi le sue istituzioni democratiche durante secoli di coscienti sforzi morali e intellettuali, di tentativi e di errori, di successi e di fallimenti, di alti e bassi, di passi avanti e di passi indietro, conflitti e spesso perdite tremende. I filosofi tedeschi e gli storici della prima metà del diciannovesimo secolo fantasticavano sugli istinti profondi di cui ciascun popolo sarebbe stato dotato, e i quali ne controllano lo sviluppo e ne spiegano la storia. Tutti sanno che in Italia, durante il Medioevo, guelfi e ghibellini si uccidevano per le strade, ragion per cui Romeo e Giulietta non si poterono sposare e la cosa andò a finir male. Tutti sanno anche che durante il Rinascimento Cesare Borgia e molti altri tiranni avevano avuto il controllo di tutto il popolo italiano. Il caso dell'Inghilterra è esattamente il contrario, perché tutti sanno che essa ebbe la Magna Charta nel 1215. Quindi il 'Volksgeist' italiano è tirannico, mentre quello inglese è parlamentare. Gli storici liberali tedeschi che ammiravano le libere istituzioni inglesi, annunciarono che la sete di libertà era il tratto essenziale dell'istinto inglese-teutonico. Ma nessuno si è mai dato la pena di spiegare perché il liberale 'Volksgeist' teutonico fece meraviglie in un paese come l'Inghilterra, abitato da una popolazione mista di celti e teutonici, invece di svilupparsi in Germania dove la razza teutonica (come dicevano) era rimasta pura con il suo 'Volksgeist.' Ora che la Germania è diventata un paese totalitario, i professori tedeschi scopriranno che il puro 'Volksgeist' ariano non è parlamentare ma totalitario. Più la storia di un popolo è lunga e più numerose e molteplici sono le forme di 'Volksgeist' che vi si possono rintracciare. Chi impersona più fedelmente il 'carattere naturale' e l''scuro istinto' italiano, Giulio Cesare o Romolo Augustolo, San Francesco d'Assisi o Casanova, Dante o Machiavelli, Manzoni o D'Annunzio, Toscanini o Mussolini? Cosa c'è di comune tra gli istinti degli inglesi del tempo dei re sassoni e quelli del tempo di David Lloyd George? Il carattere nazionale inglese non era certo lo stesso, quando Enrico Ottavo sposava una dopo l'altra sei mogli, di quando Edoardo Ottavo era costretto ad abdicare perché voleva sposare una signora che aveva già avuto non più di due mariti. Se ci fosse un crollo della democrazia negli Stati Uniti, sarebbe facile trovare prove di 'Volksgeist' fascista nordamericano nel Ku-Klux-Klan, in Huey Long, nel Major Hague, nei Vigilantes, nella Black Legion, nelle company unions, in Father Coughlin, nel vescovo cattolico di Brooklyn; nei linciaggi di negri, eccetera eccetera. Non intendiamo affatto disconoscere che a dati momenti ciascun gruppo di uomini presenta delle date caratteristiche proprie, non solo fisiche ma anche psicologiche. Quello che si contesta è che uno sviluppo storico possa essere spiegato per mezzo dell'istinto' o 'Volksgeist' o 'carattere nazionale.' Ogni poltrone, non appena nella nostra conoscenza delle cause si incontra una lacuna, può colmare tale lacuna usando uno di questi termini. Ma non dobbiamo illuderci credendo di aver risolto un problema
storico riparando la nostra ignoranza con un sofisma tautologico, che spesso nasce da un compiacimento nazionalistico. Se si vuole comprendere perché le istituzioni democratiche cedettero in Italia o in Francia e sono in pericolo ovunque, si devono mettere da parte schemi aprioristici e slogans vuoti di senso, e si deve accertare come e perché il movimento fascista nacque in un dato paese, quali gruppi sociali contribuirono a formarlo, come e perché la lotta tra fascisti e antifascisti si è andata sviluppando, e in che modo i fascisti sopraffecero i loro avversari. Proponiamo un tale lavoro per l'Italia; è un problema che merita una attenta analisi. Una indagine sulle origini e lo sviluppo di quello che fu il primo scoppio di fascismo in Europa è essenziale per la comprensione di tale fenomeno non solo in Italia ma in tutti gli altri paesi.
CAPITOLO QUINTO. L'ASSETTO POLITICO DEL 1914. Per comprendere gli avvenimenti italiani negli anni in cui avvenne il crollo degli istituti democratici, è necessario farsi un'idea di quali erano i gruppi politici in campo prima della guerra, e che dovettero affrontare la guerra e la crisi del dopoguerra. Nel 1914, alla Camera c'era una maggioranza governativa di circa 370 deputati su un totale di 508; fuori della maggioranza c'erano 17 repubblicani, 28 socialisti riformisti, 6 nazionalisti e una trentina di conservatori. La tradizione repubblicana del Risorgimento era ancora viva in alcuni collegi elettorali, specialmente nell'Italia centrale, e produceva una rappresentanza repubblicana. Ma nessuno di questi repubblicani sarebbe stato pronto a versare una sola goccia di sangue in favore di una repubblica. I socialisti 'riformisti' corrispondevano a quei socialisti che in Francia erano capeggiati da Jaurès, in Inghilterra formavano il grosso del Labour Party, e in Germania venivano chiamati 'revisionisti.' Sostenevano un graduale e pacifico processo di trasformazioni sociali e, all'occorrenza, scendevano a compromessi con i partiti democratici 'borghesi.' Il loro leader era Leonida Bissolati. I socialisti 'ufficiali' si dividevano in una 'sinistra' e in una 'destra.' Alla destra appartenevano i capi più influenti del movimento sindacale, e quasi tutti i cinquanta deputati, il cui leader era Filippo Turati. Essi non erano meno 'riformisti' del precedente gruppo socialista, ma non erano pronti a rompere con il loro vecchio partito nel quale, a partire dal 1912, la sinistra aveva preso il sopravvento. Dichiaravano nel partito di sottostare alla volontà della maggioranza, sperando che il partito avrebbe cambiato mentalità tornando al punto di vista riformista. Gli uomini della sinistra si definivano socialisti 'rivoluzionari,' e erano in attesa del 'grande giorno,' quando il 'proletariato' avrebbe fatto piazza pulita del 'capitalismo'; di conseguenza, respingevano qualsiasi compromesso con i partiti 'borghesi.' Essi corrispondevano all'Independent Labour Party inglese, o alla maggioranza dei 'socialdemocratici' tedeschi, fedeli alla dottrina marxista quale l'aveva interpretata Kautsky. II leader dei socialisti rivoluzionari era Benito Mussolini. Nel 1912 era diventato il direttore dell'"Avanti!", ed era anche più a sinistra di tutta la stessa sinistra socialista italiana. Era in Italia quello che in quello stesso tempo era Lenin in Svizzera tra gli emigrati russi, Hervé in Francia e Karl Liebknecht in Germania. Più che un socialista era un anarchico. Nel luglio del 1910, un anarchico gettò una bomba nel teatro Colon di Buenos Aires. Nel settimanale "Lotta di Classe" di cui era il direttore, Mussolini così scrisse in data 9 luglio 1910: «Ammetto senza discussione che le bombe non possono costituire, in tempi normali, un mezzo d'azione socialista. Ma quando un governo - repubblicano o monarchico, imperiale o borbonico - vi imbavaglia e vi getta fuori della legge e dell'umanità, oh allora non bisogna imprecare alla violenza che risponde alla violenza, anche se fa qualche vittima innocente.» E nel numero del 16 luglio 1910, così insisteva «Nel teatro Colon, in quella famosa serata di gala, tutti erano gli esponenti della reazione governativa. Persona vile il lanciatore solo perché si è disperso tra la folla? Ma non tentò anche Felice Orsini di nascondersi? E i terroristi russi non cercano di
sfuggire, dopo fatto il colpo, all'arresto? Eroi-pazzi quelli che compiono un atto individuale? Eroi, quasi sempre, ma pazzi, quasi mai. Pazzo un Angiolillo? Pazzo un Bresci? Pazza una Sofia Perowskaja? Ah no. Il loro atteggiamento ha strappato righe d'ammirazione a giornalisti borghesi d'alta intelligenza. (...) Non mettiamoci giudicando questi uomini e gli atti da loro compiuti sullo stesso piano della mentalità borghese e poliziesca. E non gettiamo noi socialisti le pietre della nostra lapidazione. Riconosciamo invece che anche gli atti individuali hanno il loro valore e qualche volta segnano l'inizio di profonde trasformazioni sociali.» Angiolillo era l'anarchico che, nel 1897, uccise il ministro spagnolo Canovas del Castillo, e Bresci l'anarchico che uccise il Re Umberto nel luglio 1900. Dopo l'assassinio del ministro russo Stolypin, Mussolini scriveva nella "Lotta di Classe" del 23 settembre 1911: «La Nemesi giustiziera lo ha percosso a morte. Ben gli sta. Stolypin, bieco, sinistro, sanguinario, ha meritato il suo destino. La Russia dei proletari è in festa e attende che la dinamite frantumi le ossa del Piccolo Padre dalle mani rosse di sangue. La fine tragica del ministro di Niccolò Due è forse l'inizio di un nuovo periodo di azione rivoluzionaria? Lo speriamo. Intanto, sia gloria all'uomo che ha compiuto il sacro gesto del Vendicatore!» Nel marzo del 1912 l'anarchico Alba attentava alla vita dell'attuale Re d'Italia, ferendo un corazziere del seguito. Un gruppo di deputati socialisti riformisti, guidati da Bissolati, si recò dal Re per congratularsi dello scampato pericolo. Al congresso nazionale del partito socialista, che fece seguito nel luglio, Mussolini ne ottenne l'espulsione censurandoli severamente. «Il 14 marzo - egli disse - un muratore romano spara un colpo di revolver contro Vittorio Savoia. C'erano precedenti chiari: quelli di Bresci e di Elisabetta d'Austria. Si sperava che ora non vi fossero più camere del lavoro a metter fuori le bandiere. (...) Uomini di 60 anni, fini d'intelletto, non dovevano lasciarsi prendere dal sentimento. Gli attentati sono gli infortuni dei re, come le cadute dai ponti quelli dei muratori. Se noi dobbiamo piangere, dobbiamo piangere pei muratori. E invece avviene uno spettacolo funambolico! Giolitti dà l'annunzio alla Camera e tutti sono in piedi. Io non so se le banali parole attribuite al Bissolati sian vere; ma più o meno esatte, furon dette, e rimane il fatto dell'andata al Quirinale a rallegrarsi col Re» (1). In un discorso a Milano il 22 luglio 1913 affermava 'Questo proletariato ha bisogno di un bagno di sangue.' (2) Il 12 giugno 1914, dopo una settimana di gravi disordini nell'Italia centrale, scriveva sull'Avanti! di cui era allora direttore: Tutto ciò non turba nelle sue linee grandiose la bellezza del movimento. Noi lo constatiamo con un po' di quella gioia legittima colla quale l'artefice contempla la sua creazione. Se il proletariato d'Italia, oggi, va formandosi una nuova psicologia; se il proletariato d'Italia, oggi, si presenta sulla scena politica con una individualità, più libera e insofferente, (...) lo si deve (...) a questo nostro giornale.» Mussolini aveva e conserva ancora i segni di uno sviluppo intellettuale che si è andato formando disordinatamente tra le vicende turbolente di una gioventù passata in povertà, tra frettolose letture di giornali e opuscoli di propaganda, sotto lo sprone di un quotidiano problema da risolvere, giorno per giorno, non importa dove, come e quando, che non era il problema dello sviluppo intellettuale, ma quello dell'esistenza materiale. Ma incitando i lavoratori agli scioperi, promuovendo dimostrazioni e
tenendo comizi rivoluzionari, aveva imparato ad esercitare il controllo sulla emotività delle folle. La sua concezione politica e filosofica potrebbe ridursi a una sola parola: 'violenza.' Pur attraverso tutte le sue incongruenze, Mussolini è rimasto fedele a quella filosofia; movimento, azione, audacia, 'vivere pericolosamente': questi sono sempre stati e sono tuttora i suoi metodi e i suoi slogans. Nel giugno del 1914 un socialista riformista e futuro presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, tracciò di Mussolini il seguente profilo: «Per questo fiero romagnolo, il proletariato d'Italia è ancora un fanciullone sentimentale che dà in ismanie ma si piega, poi, alle sculacciate. Bisogna quindi curarlo con la striglia e cacciarlo avanti con le pedate. (...) Ci vuole un salasso per rifare il sangue al popolo d'Italia. E venga dunque la 'giornata storica,' la giornata di combattimento, nella quale il proletariato acquisti sulla barricata e nella lotta per le strade la coscienza della sua forza materiale. Non importa per ora vincere; ciò che importa è trionfare della timidità, della paura, della prudenza che inceppano e arrestano lo slancio rivoluzionario del proletariato» (3). Il partito nazionalista era stato formato nel 1910 da un gruppo di scrittori e uomini politici provenienti dalla piccola borghesia intellettuale: Luigi Federzoni, Alfredo Rocco, Enrico Corradini, Roberto Forges-Davanzati, Francesco Coppola, Maurizio Maraviglia, Paolo Orario, tutti destinati a diventare alti papaveri del regime fascista. Mentre Corradini aveva iniziato la sua carriera nel 1896 come un conservatore e un imperialista assoluto, i più degli altri avevano fatto il loro ingresso, nella vita pubblica un po' più tardi, tra il 1900 e il 1905, come seguaci del sindacalista rivoluzionario francese Georges Sorel. Il proletariato si deve organizzare nei sindacati al di fuori della politica e del meccanismo amministrativo creato dalla 'borghesia'; i proletari si devono barricare nelle loro organizzazioni come in fortilizi dai quali sferrare la loro guerra di classe; i sindacati devono essere i pilastri fondamentali della nuova società 'sindacalista' in opposizione alla vecchia struttura democratica e parlamentare, in modo da essere in grado di liberarsi di essa il giorno della rivoluzione sociale e mettere in opera la dittatura del proletariato; il proletariato si deve emancipare dalle illusioni elettorali, dai compromessi parlamentari, dalla tattica evoluzionista e legalitaria e dai leaders social-riformisti (4). Nei sindacati e nel partito socialista non si prestò molta attenzione al loro vangelo, ed essi si stancarono subito di predicare ai sordi, e dal sindacalismo passarono al nazionalismo, seguendo anche in questo l'esempio del loro maestro, Georges Sorel, che tra il 1907 e il 1910 era passato ai nazionalisti e ai monarchici della "Action Française". La nuova dottrina non era altro che una versione italiana del prussiano culto dello stato, uno 'stato' deificato come ente assoluto di fronte al quale i diritti individuali non contano nulla. A essere giusti si deve dire che nessuno di loro aveva mai letto né Hegel né Treitschke : la dottrina prussiana era giunta loro attraverso la Francia. I loro maestri diretti furono i nazionalisti francesi, Barrès, Daudet e Maurras. I nazionalisti francesi volevano una restaurazione monarchica antiparlamentare; rispetto alla religione cattolica non erano né credenti né praticanti, ma consideravano la organizzazione della Chiesa cattolica come una grande forza internazionale, e sostenevano un'alleanza tra Stato e Chiesa non solo per costituire un fronte comune contro il socialismo, ma anche per potenziare l'influenza della Francia nel mondo. I nazionalisti italiani non avevano bisogno di nessuna restaurazione monarchica, ma sostenevano anch'essi l'alleanza tra Stato e Chiesa contro il socialismo, in concorrenza con i nazionalisti francesi. La Repubblica francese aveva rotto i ponti con la Chiesa e abbandonato il posto di figlia maggiore della Chiesa che una volta la Francia aveva occupato; spettava all'Italia occupare quel posto e, appoggiata dalla
Chiesa cattolica, estendere nel mondo la sua influenza. Una appendice al sistema francese, caratteristicamente italiana, era la scoperta che a questo mondo ci sono nazioni 'capitaliste' e nazioni 'proletarie,' e che tra questi due tipi di nazioni esiste un eterno conflitto simile alla 'lotta di classe' che nelle società a base industriale divide i capitalisti dai proletari. L'Italia era povera e prolifica: quindi una nazione 'proletaria.' La lotta dell'Italia proletaria contro le nazioni capitaliste doveva prendere il posto della lotta di classe all'interno della nazione; se voleva sopravvivere, l'Italia doveva raccogliere tutte le sue forze, disciplinare il suo 'materiale umano' con mano di ferro, armarsi quanto era possibile, e al momento giusto attaccare una delle nazioni capitaliste spossata dall'opulenza e spogliarla delle sue colonie, delle sue miniere, dei suoi pozzi di petrolio. Parlavano con grande enfasi della 'più grande Italia' e delle aquile romane di nuovo in volo su tutto il bacino mediterraneo e oltre le Alpi. Annunciavano che nessuna forza umana avrebbe mai potuto contrastare il destino imperiale dell'Italia. Sollecitavano la creazione di uno spirito guerriero nelle giovani generazioni italiane. Insistevano perché si agisse subito, non importa come e dove, con eroica noncuranza del pericolo. In questo insieme di pensieri e di emozioni Gabriele D'Annunzio iniettò una vena di morbosa sensualità. I nazionalisti erano, prima di tutto, antisocialisti, perché i socialisti erano pacifisti, internazionalisti e contrari alle spese militari e alle avventure di guerra; erano anche contro le istituzioni parlamentari, perché non potevano sperare di condurre a termine i loro piani in un paese che era tutto men che guerriero, e con un Parlamento che non poteva sfidare i sentimenti del paese. Quando dalla estrema sinistra rivoluzionaria si volsero alla estrema destra conservatrice, non dovettero far altro che attaccare la democrazia dalla destra con le stesse armi che avevano imparato ad usare quando l'attaccavano dalla sinistra. Se il fascismo ha una dottrina coerente, si deve al fatto che i fascisti acquistarono all'ingrosso la dottrina nazionalista. Lo stesso Mussolini, durante i primi anni della sua carriera politica, condivise interamente la dottrina sindacalista: egli fu soltanto più lento nella sua evoluzione dal sindacalismo al fascismo. Mentre Federzoni, Maraviglia, Forges-Davanzati fecero il salto molto prima e nel 1910 si unirono a Corradini per formare il partito nazionalista, Mussolini non abbandonò il partito socialista prima dell'autunno del 1914, e solo nel 1921 passò apertamente dalla parte nazionalista della barricata. I nazionalisti incontravano favore tra gli ufficiali dell'esercito e della marina e tra i capi del ministero degli Esteri. Essi sostenevano anche l'autarchia economica, da raggiungersi mediante elevate tariffe doganali, come mezzo indispensabile per preparare la guerra; erano quindi sostenuti finanziariamente dai grossi industriali, i quali, grazie agli alti dazi protettivi e alle forniture governative, prosperavano a spese dei consumatori e dei contribuenti. La influenza del partito nazionalista nel paese era più larga e profonda di quanto non apparisse dalla sua rappresentanza parlamentare. I più dei suoi leaders erano uomini di eccezionale scaltrezza politica e dotati di ardore giovanile. Erano tutti spiantati, ma sostenuti finanziariamente da persone facoltose, e potevano quindi dedicare tutto il loro tempo libero all'attività politica. Infine, e certamente non fu questo il fattore meno importante, la alta e media borghesia intellettuale italiana aveva una mentalità 'nazionalista'; correnti di pensiero e stati d'animo 'nazionalisti' si potevano ritrovare persino tra i repubblicani di estrema sinistra. Ci dobbiamo ricordare che quella mentalità che oggi diciamo 'nazionalista' o 'imperialista,' nell'Europa continentale durante la prima metà del diciannovesimo secolo, non fu una dote peculiare dei partiti conservatori, ma dei partiti democratici, e solo nella seconda metà del secolo diciannovesimo e poi in questo secolo si è incorporata nelle dottrine dei partiti conservatori. Perciò i richiami degli uomini politici assolutamente nazionalisti incontravano un'eco più larga di quanto non abbia potuto credere chi si è fermato alla
superficie della vita politica italiana. In tutte le redazioni dei più importanti quotidiani, quali il "Corriere della Sera", la "Stampa", il "Giornale d'Italia", si trovavano giornalisti più o meno strettamente legati col movimento nazionalista. I trenta conservatori che formavano il gruppo di opposizione di destra alla Camera, e i cui leaders erano Antonio Salandra e Sidney Sonnino, in fondo al cuore eran tutti accesi nazionalisti, consideravano il partito nazionalista come la punta avanzata di quello che avrebbe dovuto essere un solido partito conservatore, e si unirono di fatto ufficialmente nel 1920 con il partito nazionalista. Tra i 370 deputati che formavano la coalizione governativa, c'erano 29 deputati cattolici. La forza dei cattolici nel paese era maggiore di quanto non appaia dal numero dei loro rappresentanti. Si calcolò che nelle elezioni generali del 1913 non meno di oltre 200 deputati avevano mendicato e ricevuto l'appoggio dei cattolici, e si erano impegnati con i vescovi a non votare quelle leggi che il Vaticano avrebbe potuto considerare offensive. Repubblicani, socialisti, nazionalisti e cattolici avevano organizzazioni nazionali, con direttori centrali e programmi ufficiali approvati dai congressi nazionali. Tutti gli altri deputati che formavano il grosso della coalizione governativa mancavano di una organizzazione nazionale. Essi dipendevano dalle organizzazioni locali dei loro collegi elettorali. Nelle loro file c'era una destra 'più conservatrice' e una sinistra 'più democratica.' Gli uomini politici della destra 'più conservatrice' si definivano 'liberali'; ma il termine 'liberale' in Italia non possedeva più il significato anticlericale che aveva avuto nella prima metà del diciannovesimo secolo nel continente europeo, né era sinonimo di 'democratico' come in Inghilterra. Il 'liberale' italiano del primo decennio di questo secolo era un uomo politico, i cui predecessori mezzo secolo prima erano stati 'liberali' e avevano combattuto contro i privilegi del clero cattolico, ma adesso erano diventati dei buoni 'conservatori,' che rifuggivano da controversie e attività che potessero creare dei contrasti con i cattolici. Il loro 'liberalismo' consisteva nel sostenere la libertà religiosa per la Chiesa cattolica contro tutti coloro che avrebbero voluto iniziare una nuova lotta anticlericale. Gli uomini politici della sinistra 'più democratica' si definivano 'democratici,' ma la loro democrazia era soddisfatta dello "status quo". Guardavano con sospetto i tentativi mediante i quali i conservatori potevano porre fine a quelle libertà che già erano state ottenute. Guardavano con sospetto il clero cattolico, e se si fosse concretizzato un pericolo clericale non si sarebbero opposti ad un movimento anticlericale con ardore pari ai 'liberali.' E guardavano con non minor sospetto i socialisti. La loro democrazia non era più 'progressista»: era divenuta statica. In questo gruppo vi erano 70 'radicali,' che si professavano gli eredi di quei radicali che nell'Ottocento avevano sostenuto un programma di riforme politiche e sociali più profonde di quelle che i 'liberali' furono pronti a mettere in opera. Sicuramente alcuni di questi uomini erano 'radicali' davvero, e allo stesso modo dei radicali inglesi, sostenevano una politica di liberi traffici, decentralizzazione, riduzione delle spese, e accordi internazionali; ma erano visti di malocchio dai loro colleghi, i quali si erano fatti saggi. Essi erano radicali come erano liberali i 'liberali'; continuavano a tenere la loro etichetta più per quella parte di tradizione che era ancora viva in larghi settori del corpo elettorale, che non per un vero disaccordo con la sinistra 'più democratica.' In realtà non erano che una parte della coalizione governativa e prestavano un certo numero di uomini a tutti i gabinetti. Negli anni dal 1910 al 1940 i 'radicali' francesi non furono più radicali di questi italiani. Tra la 'sinistra' e la 'destra' non c'era una linea di divisione netta: tra gli elementi assolutamente conservatori favorevoli a un'alleanza dichiarata con i cattolici, e gli elementi assolutamente anticlericali, che consideravano degno di anatema ogni proposito di alleanza coi cattolici, c'erano molte zone incerte, pensieri confusi e non espressi; senza contare quelli a cui non importava affatto di clericalismo o
anticlericalismo, ma erano preoccupati soltanto di venir rieletti in collegi in cui la maggioranza degli elettori non ne voleva sapere di litigi tra clericali e anticlericali. La figura dominante nella vita politica italiana era quella di Giovanni Giolitti. Giolitti proveniva da quell'ala sinistra 'più democratica' della coalizione governativa, era stato ministro del Tesoro nel 1887-89, presidente del Consiglio nel 1892-94, ministro degli Interni dal 1901 al 1903, e ancora presidente del Consiglio: quasi senza interruzione, dal 1904 al 1914. Egli era stato il primo statista italiano a considerare i sindacati come associazioni legali, lo sciopero un diritto dei lavoratori e non un delitto della lotta di classe, e il primo a sostenere che nei conflitti di lavoro il governo doveva rimanere neutrale. Giolitti amministrava con buon senso le pubbliche finanze: nessun aumento del debito pubblico, nessun aumento di spese senza un corrispondente aumento di entrate; e, come abbiamo visto, fino al tempo della guerra italo-turca del 1911-12, la quale seppur non gravemente, portò uno sconvolgimento nelle finanze italiane, sotto il governo Giolitti il bilancio fu sempre in avanzo. Il sogno della sua vita fu di introdurre tutti i socialisti riformisti, cioè non soltanto Bissolati ma anche Turati e i suoi seguaci, nella coalizione governativa, lasciando nelle peste i rivoluzionari. Ma al fondo egli era un tenace conservatore che voleva comprare l'appoggio riformista col minimo di concessioni possibili. Giolitti pensava che i riformisti avrebbero dovuto contentarsi delle libertà politiche che egli assicurava ai sindacati e ai partiti di opposizione, e del miglioramento del livello di vita delle classi lavoratrici quale si andava attuando in quegli anni. Dai suoi predecessori egli ereditò il costume di 'manipolare' le elezioni, ma egli adattò tale costume alle nuove condizioni del corpo elettorale. Nelle elezioni generali del 1900, erano stati eletti 40 socialisti, quasi tutti nel Nord. Giolitti si rese conto che nell'Italia settentrionale, specialmente nelle città, dove l'educazione era in continuo sviluppo, il governo non poteva più 'manipolare' le elezioni senza sollevare scandali troppo gravi. Quindi era meglio lasciare che gli elettori votassero chi volevano. Ma nel Mezzogiorno, dove venivano eletti circa 200 dei 508 deputati, era ancora possibile 'manipolare' le elezioni. Il metodo di Giolitti, quindi, fu di lasciare le elezioni libere nel Nord e 'manipolarle' nel Sud. Che cosa faceva per 'manipolare' le elezioni? In ciascuna delle 93 provincie in cui era divisa l'Italia, vi era un capo del potere esecutivo, il prefetto, il quale, a differenza dei governatori di stato americani, non era eletto dai cittadini ma nominato dal ministro degli Interni e responsabile verso il ministro degli Interni della amministrazione della provincia. I consigli comunali e i sindaci erano eletti dai cittadini, ma il prefetto era autorizzato a rimuovere i sindaci e sciogliere i consigli comunali, nominando al loro posto dei 'commissari,' ogni volta che a suo giudizio questi si fossero comportati in modo scorretto. Nella costituzione politica italiana questo era il suo lato peggiore. Il prefetto era sempre in grado di esercitare pressioni sul sindaco e sui consiglieri, specialmente nelle zone più arretrate del paese, e contro eventuali ingiustizie non vi era possibilità di riparazione. I sindaci e i consiglieri comunali che durante la campagna elettorale adoperavano la loro influenza a favore del candidato governativo rimanevano in carica anche se erano pubblicamente conosciuti come i peggiori mascalzoni; quelli invece che sostenevano i candidati di opposizione venivano sostituiti da commissari governativi, anche se erano i migliori amministratori possibili. Tale metodo, applicato senza scrupoli, bastava per mettere a disposizione del prefetto la maggioranza dei sindaci del collegio elettorale che doveva essere conquistato o mantenuto per il candidato governativo. Dove il corpo elettorale era refrattario alla pressione governativa e esprimeva sindaci, consiglieri comunali e deputati che rifiutavano di sottomettersi, Giolitti ricorreva ad altri metodi di lotta. Al tempo delle elezioni amministrative o politiche, la polizia, d'accordo con i sostenitori del governo, assoldava la feccia peggiore e, se necessario, anche la malavita delle provincie vicine. Nelle settimane precedenti le elezioni, gli
oppositori venivano minacciati, bastonati, costretti a starsene chiusi in casa; ai loro galoppini elettorali si impediva di tenere comizi, e si giungeva persino a metterli in prigione sino a che le elezioni non erano concluse; agli elettori sospettati di sostenere l'opposizione si rifiutavano i certificati elettorali, mentre coloro che votavano a favore dei candidati governativi, ricevevano non solo il loro certificato ma anche i certificati degli oppositori, degli emigrati, degli elettori morti, e si permetteva loro di votare tre, cinque, dieci e anche venti volte. I candidati governativi vincevano sempre. Un deputato meridionale che cercava di disobbedire a Giolitti poteva essere sicuro che alle prossime elezioni sarebbe stato sconfitto; coloro che gli erano fedeli erano sicuri di essere rieletti. Non era necessario applicare tali sistemi in tutti i collegi elettorali; di essi c'era bisogno soltanto dove c'era il pericolo che potesse venire eletto un candidato dell'opposizione. Ma anche in tali collegi elettorali non era necessario sottomettere tutti gli oppositori, bastava concentrare l'apparato bellico in alcuni dei centri del collegio elettorale, dove raccogliere i voti sufficienti alla vittoria. Se ad esempio in quattro paesi di un collegio elettorale si prevedeva che il governo potesse raccogliere 1000 voti e l'opposizione 1500 voti, il prefetto si prendeva cura soltanto di una città, in modo da sottrarre all'opposizione soltanto 500 voti da aggiungere a quelli del candidato protetto. In tutte le altre località si permetteva che le votazioni si svolgessero liberamente, purché l'opposizione si guardasse bene dal preparare dei trucchi. Se il partito che era stato in tal modo soffocato si appellava alla Camera, la commissione parlamentare per le elezioni, che nella grande maggioranza era formata da sostenitori del governo, sapeva bene in che modo ritardare ogni indagine. Il caso veniva portato davanti alla Camera uno, due, tre anni dopo che si erano svolte le elezioni, quando gli spiriti si erano calmati e nessuno aveva più interesse in eventi preistorici. Di solito la relazione respingeva le accuse di corruzione. Qualche protesta si levava dall'estrema sinistra. Il gabinetto annunciava solennemente che non avrebbe preso parte alcuna alla discussione del caso, lasciando la Camera libera di decidere, e una maggioranza schiacciante appoggiava la commissione per le elezioni. Qualche volta lo scandalo era stato tanto clamoroso e tanto manifesti i reati di cui si erano resi responsabili seguaci del governo e polizia, che doveva intervenire la magistratura e infliggere delle condanne. Ma prima o poi con una ben calcolata amnistia tutte le condanne venivano cancellate, e la volta dopo si ricominciava da capo. Giolitti non fu il primo ministro degli Interni a 'manipolare' le elezioni, ma nessuno aveva mai 'manipolato' una dopo l'altra tre elezioni generali (1904, 1909, 1913), ed egli sorpassò tutti nella chiarezza dei propositi e nella sistematica mancanza di scrupoli. In questo modo Giolitti otteneva dal Mezzogiorno circa 150 fedeli sostenitori, che dovevano a lui il loro posto e che se non si fossero mostrati docili sarebbero stati mandati a spasso. Sostenuto da questo blocco compatto, Giolitti poteva dettare le sue condizioni ai deputati eletti nell'Italia settentrionale e centrale, sia che fossero 'più conservatori' o 'più democratici.' Quando uno di questi due gruppi si faceva rumoroso e difficile da trattare, egli lo minacciava di rappresaglie e assicurava all'altro gruppo il suo favore. In tal modo Giolitti dava scacco ai suoi oppositori mettendoli gli uni contro gli altri, e nessuno osava abbandonare l'ovile ministeriale. La sua eloquenza era semplice, concisa, nemica degli artifici retorici, ravvivata di tanto in tanto da qualche discreto motto di spirito, pronta a servirsi di cavilli, più che a fare uso di argomenti solidi, attenta ad assopire le passioni piuttosto che ad eccitarle. Uno spettacolo teatrale che nel 1913 ebbe molto successo mostrava clericali e anticlericali, monarchici e repubblicani, conservatori e socialisti, ciascuno con il vestito del colore del suo gruppo, che bisticciavano, gridavano, si minacciavano a
vicenda; poi appariva sulla scena Giolitti, e immediatamente tutto si calmava e ognuno riappariva vestito dello stesso abito grigio. Giolitti sapeva di non poter restare al potere per sempre, se non altro perché di tanto in tanto aveva bisogno di un po' di riposo. Quando giudicava che fosse giunto il momento adatto per eclissarsi, aveva sempre a portata di mano qualche trucco infallibile; pur di dimettersi inventava qualsiasi pretesto, rifiutando una nuova investitura anche se era chiaro che la maggioranza era pronta a rispondere ad ogni suo cenno; allora consigliava il Re di chiamare a presidente del Consiglio uno dei leaders della opposizione conservatrice, e la Camera non mancava mai di dare al nuovo gabinetto un voto di fiducia. Ma dopo pochi mesi si risvegliava una certa irrequietezza, il gabinetto ad interim era costretto a dimettersi, e Giolitti se ne tornava trionfalmente in perfetta salute e più potente di prima. Il suffragio universale fu attuato in Italia in seguito a uno dei soliti trucchi parlamentari di Giolitti. Esso era sempre stato, sin dal tempo dell'apostolato di Mazzini, uno dei punti chiave del programma dei partiti democratici in Italia. Nel primo decennio di questo secolo, in Belgio e in Germania era stata condotta una energica campagna in favore del suffragio universale, che in Austria era stato concesso nel 1908; ma Giolitti era sempre stato contrario ad ogni cambiamento nel sistema elettorale del 1882 (5). Nel 1911 tuttavia egli stava preparando la conquista della Libia. Per superare, o almeno indebolire, l'opposizione socialista egli presentò una legge che estendeva il diritto di voto a tutti gli uomini al di sotto dei trent'anni, che avessero prestato servizio militare, e a tutti quelli che avessero superato i trent'anni; né per l'una né per l'altra di queste categorie fu più richiesto il saper leggere e scrivere, né il pagamento delle imposte dirette. I socialisti riformisti, guidati da Bissolati, si unirono alla coalizione governativa nel sostenere la riforma. Il partito rimase all'opposizione ed espulse Bissolati e i suoi seguaci. La maggioranza dei deputati socialisti, sebbene in fondo fossero riformisti, non se la sentirono di rompere i ponti con il partito. Così Giolitti non riuscì nel suo sforzo di tagliar fuori Turati insieme con Bissolati. Ma quando nell'autunno del 1911 scoppiò la guerra, il partito socialista fu paralizzato da questa scissione e incapace di sollevare una opposizione efficace. Mediante un atto di strategia parlamentare, il paese passava da un regime in cui predominavano le classi medie e le classi inferiori cittadine, a un regime in cui predominava numericamente la popolazione rurale. Giolitti era un parlamentare straordinariamente accorto, che afferrava con estrema perspicacia e con fulminea rapidità le più lievi correnti di opinione tra i cinquecento politicanti che formavano la Camera dei deputati. Ma aveva poca sensibilità per quello che avveniva su un piano più vasto nel paese. Qui un senso di scontentezza per il 'maneggio' delle elezioni andò costantemente crescendo non solo fra i cittadini che appartenevano ai partiti di opposizione, ma anche fra quelli che non appartenevano a nessun partito. Giolitti attuò il suffragio universale senza rendersi conto della potenzialità che esso conteneva, e illudendosi che sarebbe riuscito a dominare il nuovo corpo elettorale con la stessa facilità di prima. Non si era reso mai conto che i contadini dell'Italia meridionale non erano più la massa supina di vent'anni prima. Nel 1913 si trovò a dover 'manipolare' collegi non più di due o tremila, ma di diecimila o anche ventimila votanti. Fu perciò costretto ad aumentare la dose delle violenze per assicurarsi il successo. Ottenne un'altra delle sue schiaccianti vittorie elettorali. Ma gli scandali del Mezzogiorno provocarono ovunque viva indignazione. Durante il secolo diciannovesimo, le istituzioni parlamentari in Italia erano state attaccate dai residui dei vecchi regimi assolutisti e clericali e dagli anarchici della scuola di Bakunin. Né gli uni né gli altri potevano recare alcun danno. Conservatori e socialisti non avrebbero potuto concepire una vita politica senza le istituzioni parlamentari. Le elezioni generali del 1900 furono combattute dai democratici, i radicali, i repubblicani e i socialisti per sostenere i diritti e i privilegi del Parlamento
contro i conservatori, che vennero sconfitti. Nel primo decennio di questo secolo due correnti antiparlamentari fresche e ben più pericolose cominciarono una campagna serrata contro le istituzioni parlamentari: i nazionalisti dalla destra, e i socialisti rivoluzionari dalla sinistra. E proprio nello stesso momento, per un periodo di dieci anni, Giolitti indeboliva le istituzioni dall'interno, portando involontariamente acqua al mulino antiparlamentare dei nazionalisti e dei socialisti rivoluzionari. Gli altri istituti democratici - libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione politica e sindacale, amministrazioni locali elettive, elezioni parlamentari funzionavano abbastanza bene nel Nord. Ma a cosa servivano le elezioni, anche se basate sul suffragio universale, quando queste producevano necessariamente una maggioranza schiacciante di deputati che dicevano sempre 'sì'? A cosa serviva una Camera dei deputati che rappresentava soltanto la volontà dell'uomo che era stato responsabile dell'elezione della sua maggioranza? Mentre non soltanto nel Nord, ma anche nel Sud l'educazione politica progrediva rapidamente, e mentre partiti chiaramente differenziati con organizzazioni permanenti cominciavano a emergere dalla massa amorfa, la maggioranza parlamentare, invece di adattarsi alle nuove condizioni, se ne vendicava chiudendosi in un gruppo serrato che, con le buone o con le cattive, si manteneva in piedi. Alla vigilia della guerra del 1914-18, Giolitti, come leader di questo gruppo, era l'uomo più potente in Parlamento, ma era l'uomo più impopolare nel paese. Se si vuole comprendere la cattiva riuscita di Giolitti e della sua maggioranza parlamentare quando, nel maggio del 1915, si trovarono di fronte al dilemma pace o guerra, si deve tener presente questa situazione.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO QUINTO. 1. Nelle sue "Memorie della mia vita", (1) Giolitti ci dice che nel 1892, quando fu presidente del Consiglio per la prima volta, le elezioni generali dettero una 'notevole vittoria della sinistra,' ma parecchi dei candidati sconfitti 'ne fecero un chiasso indiavolato' come se avesse avuto 'il dovere di sostenere elementi che non erano perfettamente nell'ambito della costituzione.' (2) Sta di fatto che nel 1892 nessuno pretendeva che Giolitti 'sostenesse' i suoi oppositori; l'accusa che gli venne mossa fu di aver combattuto 'con mezzi violenti e disonesti.' Le sue parole offrono un esempio dei trucchi usati da Giolitti in Parlamento per sviare la discussione. Quel 'chiasso indiavolato' era tanto poco infondato che diciannove elezioni furono annullate, dato che non aveva ancora avuto il tempo di perfezionare il suo metodo, come gli fu possibile nel primo decennio di questo secolo. Dalle sue "Memorie" (3) apprendiamo che nel 1895 il suo successore, e nemico personale, Crispi, cercò di impedire senza successo la sua elezione; ma non si trova neppure un accenno alle accuse che furono sollevate contro di lui per le elezioni locali e generali dal 1902 al 1913. Anche Croce, che è un ammiratore di Giolitti, ignora questo punto nella sua Storia d'Italia. Nella "Storia parlamentare politica e diplomatica d'Italia" del Cilibrizzi, (4) si trovano ampi particolari delle elezioni del 1892, (5) niente sulle elezioni del 1904, e per quelle del 1909 accenna soltanto alle 'innumerevoli pressioni e violenze governative' (6); sulle elezioni del 1913 ci dà un'idea precisa dicendo: 'Giolitti, già esperto manipolatore di elezioni, raggiunse il colmo dell'abilità nel 1913.' (7) I metodi elettorali di Giolitti furono ripetutamente descritti da G. Salvemini nella rivista quindicinale "Critica Sociale" del 16 dicembre 1902 e 15 ottobre 1908; e inoltre in alcuni libri e memorie (8). King e Okey, (8 bis) nel descrivere la situazione italiana del 1900, deplorano l'interferenza dei prefetti nelle elezioni, e l'uso che fanno di elementi della malavita
come arma per vincere. Questo fenomeno è stato osservato anche dal Finer, (9) ma uno studio sistematico manca. E' nostra opinione che una tale indagine porterebbe a concludere che anche prima della riforma elettorale del 1882, normalmente, le elezioni in Italia venivano condotte con metodi non peggiori di quelli allora in uso negli altri paesi europei, dove il regime parlamentare funzionava in modo soddisfacente. Quando in Italia un collegio elettorale aveva una media di circa 1000 elettori iscritti, di cui neppure 600 si recavano alle urne, per ottenere la vittoria un candidato bastava che raccattasse poche centinaia di voti, e il ministro degli Interni che voleva spostare i voti necessari per vincere bastava che facesse sapere ai 'notabili' del collegio elettorale chi era il candidato prescelto dal governo. Tutto avveniva amichevolmente e senza nessun chiasso. Ciò tuttavia non impediva il fatto che in molti collegi elettorali gli elettori eleggevano deputati di opposizione. Nelle elezioni generali del 1867, il partito al governo evitò a malapena la sconfitta. La riforma elettorale del 1882, aumentando in ogni collegio elettorale il numero degli elettori a una media di circa 4800, rese più difficile il compito di un ministro degli Interni che avesse voluto esercitare delle pressioni su un tale corpo elettorale; più spesso successe che doveva minacciare di destituire i sindaci e sciogliere i consigli comunali, e minacciare o porre in atto atti di violenza e di corruzione. Ciò rese lo scandalo anche più manifesto. Nelle elezioni generali del 1892, e in quelle del 1904 e del 1909, Giolitti perfezionò i metodi dei suoi predecessori. Quando nel 1913 venne concesso il suffragio universale, e un collegio elettorale aveva 17000 elettori iscritti, Giolitti si trovò ad avere a che fare con una media di 10000 intenzionati a recarsi alle urne in ciascun collegio, e per sottometterli dovette sollevare scandali ancor più clamorosi. 2. In Italia la vita parlamentare fu considerata cagionevole da tutti gli osservatori indipendenti e onesti; e lo era veramente. Come regola generale la radice del male fu indicata nel fatto che in Italia non esisteva il sistema bipartitico dei paesi anglosassoni. Sulla esattezza di questa diagnosi abbiamo molti dubbi. Nel secolo diciannovesimo in Inghilterra, la Camera dei comuni si trovò con tre partiti, tutte le volte che il partito irlandese si distaccava dal partito liberale; e quando alla fine del secolo diciannovesimo venne sulla scena il partito laburista, vi furono quattro partiti, e neppure il secolo ventesimo conobbe mai un sistema bipartitico. Infatti: quando con la creazione di una Irlanda indipendente il partito irlandese scomparve dalla Camera dei comuni, i quattro partiti si ridussero di nuovo a tre, ma si raggiunsero addirittura cinque partiti quando il partito laburista indipendente e il partito comunista formarono dei gruppi propri. Negli Stati Uniti il governo si trova continuamente di fronte un partito repubblicano e uno democratico ambedue divisi in una maggioranza e una minoranza, sicché in questo paese, se si accettano i termini tradizionali dei due partiti, non prevale un sistema bipartitico, bensì un sistema di quattro partiti. Né in Francia, né in Germania, né in Austria il sistema bipartitico ha mai funzionato. In Belgio venne a cessare quando il partito socialista si presentò sulla scena in concorrenza con i cattolici e i liberali. I gruppi che formano una società moderna sono tanto numerosi e fluttuanti che è difficile possano disporsi sotto non più di due etichette. Ciò che conta per il sano funzionamento di un regime parlamentare non è l'esistenza di non più di due partiti, ma l'esistenza di un partito di maggioranza che governa e di una opposizione che controlla le attività del partito al potere. Il fatto che l'opposizione sia formata di un solo partito o di diversi partiti non impedisce di per sé il funzionamento soddisfacente del sistema. In Italia, dal 1903 al 1914, ci fu una coalizione che appoggiava il gabinetto, e fuori di quella coalizione dei gruppi di opposizione che controllavano le attività del gabinetto. Sino al 1931, la Camera dei comuni inglese fu formata da un
enorme partito conservatore, e da una opposizione composta di liberali e laburisti, senza contare i pochi laburisti indipendenti e un deputato comunista. Anche il pregiudizio che in Italia non esistono partiti ben definiti come quelli che si trovano in Inghilterra è da accettarsi con molte riserve per i quindici anni anteriori alla guerra mondiale. A quella data c'erano in Italia un partito socialista, un partito cattolico e un partito nazionalista; erano partiti di minoranza, ma erano partiti, e anche la maggioranza che sosteneva Giolitti era un partito, certamente composto di gruppi eterogenei. Ma in quale paese è mai esistita una maggioranza parlamentare omogenea? La cosiddetta maggioranza conservatrice che ha governato l'Inghilterra sino al 1931 era formata da gruppi eterogenei, che andavano dai più rigidi conservatori sino a parlamentari che si sarebbero trovati meglio nel partito laburista. I due partiti che si contendono il predominio politico negli Stati Uniti non sono altro che due mosaici composti da gruppi locali eterogenei e in continuo movimento. Nemmeno i regimi totalitari sono sostenuti da forze omogenee, e i compromessi tra interessi contrastanti sono anche qui una necessità quotidiana; la sola differenza è che i compromessi si possono tenere segreti più di quanto non sia possibile in regimi liberi. Di conseguenza, nei regimi liberi il pericolo di scandali rende più difficile, se non impossibile, le forme peggiori di dare e avere. In altre parole ci sembra che molte delle critiche che vengono rivolte al regime parlamentare italiano, quale era alla vigilia della prima guerra mondiale, provengano dal fatto che quel regime non corrispondeva alla superstizione creata dai 'socialisti scientifici' del perfetto regime parlamentare, quale essi hanno situato in Inghilterra, dove è un fatto che in quella forma perfetta non è mai esistito. Il male di cui soffriva il regime parlamentare italiano - un male la cui gravità deve essere attenuata - consisteva nella falsificazione della volontà del corpo elettorale che il governo operava tutte le volte che era necessario. Giolitti non fu il primo in Italia a rendersi responsabile di queste pratiche corrotte, ma Giolitti se ne servì con meno scrupoli di tutti, e soprattutto egli poté servirsene in tre successive elezioni generali. 3. La biografia di Mussolini prima del 1913 è stata ricostruita da Gaudens Megaro in un libro (10) che è un modello di coscienziosa diligenza e di metodo critico. Sono anche da vedersi le pagine in cui Sforza e Borgese tracciano il carattere di Mussolini (11). Il libro del Megaro andrebbe messo a confronto con quello di Margherita Sarfatti, con la pseudo autobiografia di Mussolini, e con l'opera di De Begnac (12) Dal confronto del libro del Megaro con quello della Sarfatti si può imparare la differenza tra vero e falso, storia e propaganda, assai meglio che da ogni astratta lezione di metodologia storica. Se si chiede alla Sarfatti che cosa Mussolini pensasse della religione prima di diventare Duce del fascismo, ci risponde che il suo eroe 'manifestò dapprima delle tendenze antireligiose, ma senza mai cadere nella banalità dell'ateismo.' Questo è tutto. Ma leggendo il libro di Megaro troviamo che il carattere di Mussolini fu un po' più colorito di quanto non lo renda la Sarfatti. Nel 1904, a ventun anni, in nome della ragione, della scienza e del materialismo ateo sostenne che 'Dio non esiste,' e che 'quanto ai pochi precetti di morale, che vorrebbero costituire un'etica cristiana, essi non sono che consigli di soggezione, di rassegnazione, di viltà.' (13) Nell'ottobre del 1909, a Forlì, dopo avere ascoltato un discorso di Mussolini, la folla frantumò le finestre del palazzo arcivescovile, diede fuoco allo steccato di legno che recingeva la colonna con sopra una statua della Madonna, e ne demolì il basamento marmoreo (14). Nel 1910, Mussolini affermò che i socialisti avevano il dovere di 'evitare il matrimonio religioso, il battesimo dei figli e tutte le altre cerimonie culturali,' e scoprì che Cristo aveva dimostrato, 'amando Maria Maddalena e la moglie del buon Ponzio Pilato,' che era possibile 'anche attraverso a un utero di donna di raggiungere la gloria dei cieli' (15).
Se oltre alle opinioni di Mussolini sulla religione cerchiamo nel libro della Sarfatti la storia delle sue convinzioni politiche, sapremo che Mussolini sin dalla prima adolescenza fu affascinato dalla storia di Roma, dai suoi miti e dalle sue leggende, e che Roma fu una parola che scriveva 'nei libri di testo e in margine ai quaderni' e 'incise nella corteccia degli alberi e sui banchi della scuola'; 'a consolarlo ormai di tutto, la dura faccia dell'adolescente aveva imparato a reclinarsi sui libri dei padri: il latino (...) le memorie di Cesare, la sapienza di Tacito, il poema di Enea.' (15 bis) Cos'altro poteva essere una volta cresciuto se non un grande patriotta un uomo che nella sua prima adolescenza leggeva Tacito? Quando visse in Svizzera, quella vita gli insegnò, 'innanzi tutto, ad amare l'Italia come la si ama solo di fuori' (16); quando si recò a Trento, che allora faceva parte dell'Impero austriaco, incontrò là un gruppo di socialisti, il gruppo dell'"Avvenire", 'giornaletto socialista austriacante, che prendeva a Vienna l'imbeccata e forse il becchime' (17); perciò si distaccò da loro e si unì a quel gruppo di socialisti che alla loro idea politica associavano sentimenti italiani. A causa della sua attività nazionalista a Trento Mussolini venne arrestato ed espulso dall'Austria. 'E' chiaro che il suo soggiorno nel Trentino fu decisivo per lo sviluppo delle tendenze nazionaliste che culminarono nel fascismo' (18). La storia ricostruita dal Megaro con l'aiuto dei documenti è molto diversa. Nell'autunno del 1903 Mussolini, che per poco più di un anno aveva vissuto in Svizzera come agitatore socialista, fece ritorno per poche settimane al suo paese natale; ma poiché si approssimava la data in cui avrebbe dovuto prestare il servizio militare, nel gennaio del 1904 riparò di nuovo in Svizzera. Nel febbraio scriveva che 'vi è bene un mezzo infallibile per abbattere dalle sue basi l'infame coartazione militarista: disertare!' (19) Nell'aprile del 1904, le autorità militari italiane lo dichiararono 'renitente di leva'; in quello stesso mese, Mussolini fu espulso dal Cantone di Ginevra, ma per l'intervento dei socialisti svizzeri poté evitare di essere consegnato alla frontiera italiana. Gli fu permesso di rimanere nel Canton Ticino, perché come renitente italiano non poteva, secondo il diritto internazionale, essere consegnato al proprio paese. Nel dicembre del 1904, Mussolini rinunciò ai progetti di abbattere la infame coartazione militarista con la diserzione, approfittò di una amnistia concessa dal governo italiano ai renitenti, tornò in Italia, e nel 1905 e 1906 fece regolarmente il suo servizio militare. Terminato il periodo di leva, si immerse di nuovo nel movimento socialista. Nel 1909 fu a Trento per otto mesi come agitatore socialista. 'Il proletariato,' proclamava, 'è antipatriottico per definizione e per necessità' (19 bis); sosteneva il diritto degli italiani del Trentino di mantenere la loro lingua ed ottenere leggi proprie contro il pangermanesimo del Tirolo. Ma socialisti ed anarchici avevano sempre sostenuto che le minoranze razziali avevano il diritto di conservare la propria lingua e la propria cultura e di godere di leggi proprie. Mussolini non sostenne la separazione del Trentino dall'Austria e la sua annessione all'Italia; questa era una aspirazione, per quanto segreta e remota, dei socialisti italiani del Trentino, ma non di Mussolini. Ciò che a Mussolini stava a cuore era la rivoluzione sociale; l'affermazione della Sarfatti che Mussolini abbia trovato a Trento due gruppi, uno favorevole all'Austria e uno all'Italia, e che si sia unito al gruppo filoitaliano contro quello filoaustriaco, è pura invenzione. Quando nel settembre del 1909 il governo austriaco ordinò l'espulsione di Mussolini, lo fece perché lo considerava un insolente agitatore rivoluzionario, e non un nazionalista. Molti "social scientists" sono andati in cerca delle fonti del pensiero politico di Mussolini, come di tanto in tanto un qualche esploratore se ne parte alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Ma questi ricercatori sono completamente ignoranti della storia del movimento socialista italiano e del pensiero politico italiano, e non si curano di fare attenzione alla cronologia registrando le manifestazioni del pensiero mussoliniano. Di conseguenza non scoprono un bel niente e ammucchiano un sacco di sciocchezze.
Al padre di Mussolini, che prima era un anarchico attivo seguace di Bakunin e poi un attivo socialista della prima ora, Megaro ha dedicato uno dei capitoli più interessanti del suo libro. Tra gli scritti del padre e quelli del figlio - naturalmente del periodo in cui era ancora un socialista estremista - c'era una sorprendente continuità. 'Quegli apologisti ed anti-apologisti,' scrive assai a proposito Megaro, 'che si sono indugiati a tratteggiare la paternità intellettuale di Benito Mussolini, prima di sballottarla tra Nietzsche, Pareto, Sorel e vari altri pensatori, avrebbero fatto bene a ponderare l'influenza esercitata su di lui dal suo vero padre.' (20) E' assurdo far risalire a Sorel le idee di Mussolini sulla necessità della violenza; Mussolini era un figlio rivoluzionario di quella Romagna 'da tempo così famosa per la violenza delle passioni politiche' e 'focolaio e insieme campo di battaglia di dottrine radicali estremiste, e roccaforte di giacobinismo, carbonarismo, insurrezionalismo e repubblicanesimo mazziniano, anarchismo e socialismo rivoluzionario.' (21) Quando Sorel si distaccò dal movimento sindacalista rivoluzionario per unirsi ai clerico-realisti della "Action Française", anticipando un cambiamento che Mussolini doveva compiere quattordici anni dopo, Mussolini gli scagliò contro un torrente di insulti, dei quali Megaro fornisce alcuni campioni. Questa è una delle molte rivelazioni che si trovano nel libro. Megaro inoltre riduce alle sue giuste proporzioni, cioè a nulla, l'influenza che Pareto avrebbe avuto su Mussolini; se Mussolini abbia mai frequentato le lezioni di Pareto all'Università di Losanna si dimostra qui essere una questione aperta, e in caso affermativo ciò può esser stato solo per poche settimane nella primavera del 1904. Senza dubbio la concezione di Mussolini di una minoranza rivoluzionaria, che si impadronisce del potere e rovescia la borghesia con la violenza, era affine alla teoria paretiana dell''élite'; ma la élite proletaria, di cui Mussolini senza quattrini com'era si considerava egli stesso un membro, avrebbe soppiantato la élite borghese, mentre Pareto, che aveva ereditato da uno zio un sacco di quattrini, aveva una adorazione profonda per la professione del capitalista, e si arrabbiava contro quei borghesi che non si curavano di proteggere tale professione. Pareto voleva che la borghesia opponesse una spietata resistenza al socialismo sino a soffocarlo; ma poiché né i borghesi né i socialisti erano disposti a seguire i suoi consigli, egli li unì nella stessa condanna. E neppure Mussolini aveva bisogno di conoscere gli scritti e le lezioni di Pareto, per accarezzare il sogno di un socialismo spietato che distruggesse la borghesia decadente; gli bastava il "Manifesto comunista", e la dottrina della minoranza organizzata che mediante un colpo di mano rovescia la borghesia risaliva tra i socialisti almeno a Blanqui. Quando nacque Mussolini la tradizione cospiratrice era ancora viva in Romagna, e coincideva perfettamente con le dottrine di Blanqui; Mussolini non doveva niente a Pareto. Del resto la dottrina della élite in una forma che suonasse gradita ai partiti antidemocratici non fu Pareto a inventarla; lui l'aveva appresa da Gaetano Mosca; un brillante studioso che nel 1896 aveva elaborato sistematicamente una dottrina delle minoranze organizzate definendole 'classi dirigenti,' con termine assai più rapido che non quello paretiano di 'élite.' A partire dal 1921, Pareto vide nel movimento fascista lo spietato assalto borghese antisocialista, di cui venti anni prima aveva auspicato l'avvento. Non fu Pareto a insegnar niente a Mussolini, fu Mussolini che esaudì i desideri di Pareto. Quando Mussolini divenne Duce del fascismo, i suoi agiografi inventarono per lui un albero genealogico che risaliva sino al primo Medioevo, e una genealogia intellettuale in cui Sorel, Pareto, Nietzsche, e molti altri personaggi altolocati vennero reclutati per preparare la strada al redentore. Anche William James ebbe il suo posticino in quel pedigré. La genealogia intellettuale era falsa quanto quella familiare; per esempio, Mussolini non aveva mai letto una pagina di James, sapeva solo che James era un 'pragmatista,' e pensava che tale parola significasse un uomo che si infischia dei principi e guarda soltanto ai risultati pratici; e quindi si vantò di essere un discepolo di
William James, il quale sarebbe inorridito al conoscere una tale definizione del pragmatismo. La più strabiliante menzogna che si deve alla signora Sarfatti è quella che Mussolini fosse un buon patriotta anche quando, durante la guerra italo-turca del 1911-12, come socialista estremista faceva propaganda antimilitarista e a favore del sabotaggio. Nel settembre del 1911, quando la guerra sembrava imminente, Mussolini invitò il 'proletariato' italiano a fare uno sciopero generale. 'Noi aspettiamo fiduciosi gli eventi. Quasi sempre la guerra prelude alla rivoluzione.' (22) Le dimostrazioni socialiste contro la guerra assunsero forme violente a Forlì, dove Mussolini pubblicava il settimanale "Lotta di Classe". In quei giorni Mussolini scrisse e parlò esaltando la 'nuova mentalità rivoluzionaria che va scrostando e spezzando il pacifismo riformista e calcolatore.' 'Noi siamo stati i primi a famigliarizzare gli operai coll'arma del sabotaggio.' 'Ancora qualche anno di buona propaganda e questa folla sarà capace di grandi eroismi.' (23) Mussolini fu arrestato, processato e condannato a un anno di prigione per 'incitamento al delitto'; al processo egli sostenne che lo sciopero generale non era stato proposto da lui, che egli non era un operaio ma un giornalista, e non intendeva esercitare nessuna influenza sul proletariato; lo sciopero generale era stato 'merito del proletariato forlivese' (24); nell'opporsi alla spedizione di Libia egli si era posto 'sul terreno dell'amor patrio,' (25) dato che la conquista della Libia non sarebbe stata di nessuna utilità per il popolo italiano, il suo sabotaggio non era quello 'dei vandali o dei teppisti,' ma quello che rispetta 'la incolumità dei cittadini.' (26) 'Le sue conclusioni, al pari della maggior parte delle sue affermazioni, furono, senza dubbio, dettate dalla dominante volontà di convincere il Tribunale della sua innocenza: per la qual cosa bisognava necessariamente minimizzare l'importanza della sua propaganda e della sua attività contro la guerra, e prospettarla come ispirata ad alti sensi patriottici. Il comportamento di Mussolini al processo ci rivela soprattutto una spiccata capacità e facilità di destreggiarsi con astuti mezzi termini' (27). Una volta arrivato al potere, il processo di Forlì divenne una prova del fatto che Mussolini era sempre stato un patriotta; inoltre venne attribuito a Mussolini un discorso che avrebbe tenuto in sua difesa al processo di Forlì, e che si trova riportato nel libro della Sarfatti (28). Il primo a dare nel 1923 un falso riassunto di quel discorso fu Beltramelli; poi, nel 1924, Bonavita ne fornì due versioni, ma imprecise e sciatte; da ultimo la Sarfatti raffazzonò un testo che comprendeva delle parti dei falsi resoconti sia di Beltramelli che di Bonavita, con una aggiunta di alcune varianti personali. Non occorre dire che il testo della Sarfatti non corrisponde affatto con il testo autentico del discorso di Mussolini quale lo riferì nel novembre del 1911 lo stesso giornale di Mussolini "Lotta di Classe" (29). Dalla pseudo autobiografia di Mussolini, si apprende soltanto che Mussolini, ancor giovinetto, 'si buttò a capofitto nella politica,' la politica 'di quelli che cercano soluzioni' (30); 'prese parte a comizi politici,' 'tenne dei discorsi,' 'alcune (!) intemperanze (!) verbali lo resero indesiderabile alle autorità svizzere,' (31) ed altre simili formulette vuote; soltanto una volta ci vien detto che egli era 'il portavoce del gruppo socialista dei rivoluzionari intransigenti' (32); ma sulle opinioni e le attività antipatriottiche e antimilitariste del nostro eroe non si trova nemmeno una parola. Nel terzo volume dell'opera del De Begnac, (33) l''innato patriottismo' di Mussolini è messo in luce da una caterva di parole prive di senso, in cui il suo antipatriottismo e il suo antimilitarismo si dissolvono sino a non essere più riconoscibili. Per quanto riguarda il processo di Forlì, veniamo informati che la sola accusa che egli 'ribatté con tutta la forza del suo cuore' fu quella di antipatriottismo. Mussolini si era opposto alla spedizione di Libia perché voleva 'dare un'anima a questa sua Italia che non la possiede'; 'c'era da compiere nella penisola una missione storica, prima di andare in Affrica.' Al lettore non viene detto che nel settembre del 1911 l'anima dell'Italia di Mussolini sarebbe stata un'anima antipatriottica, antimilitarista e sabotatrice. Al
lettore non viene detto che la missione storica che, secondo il Mussolini del settembre 1911, doveva ancora essere compiuta in Italia, era la rivoluzione sociale come l'avevano tracciata Hervé e Lenin. Eppure, una volta dissolta la cortina di fumo delle mistificazioni ufficiali grazie alla impeccabile ricerca di Megaro, ci si trova di fronte a una figura di Mussolini straordinariamente consistente dalla infanzia alla maturità piena. L'uomo che nell'ottobre del 1922 conquistò il potere non è altro che quell'inquieto e caparbio discolo che più di una volta faceva ritorno a casa con la testa sanguinante per una sassata, che rubava gli uccelli da richiamo, che, bisticciandosi con un compagno, gli sferrò un pugno colpendo il muro invece di colpire lui, sicché si fece male alle nocche e dovette farsi fasciare la mano, e un'altra volta colpì con un temperino un compagno di scuola che lo aveva insultato (34). Megaro riproduce un ritratto di Mussolini all'età di quattordici anni (35); quel giovane a braccia incrociate, con le labbra serrate, la mascella sporgente e una espressione di sfida negli occhi è già il Duce del fascismo quale apparirà in Italia davanti alle folle, e all'estero sarà la delizia dei caricaturisti.
CAPITOLO SESTO. IL COLPO DI STATO DEL MAGGIO 1915. Quattro mesi dopo le elezioni generali politiche del novembre 1913, nel marzo 1914, Giolitti giudicò che fosse arrivato per lui il momento di cedere per breve tempo il governo all'opposizione 'conservatrice.' Il suo successore fu Salandra, che, se avesse dovuto appoggiarsi alle sue sole forze, non avrebbe potuto contare che sui trenta voti conservatori e i sei voti nazionalisti. Era inteso che Salandra avrebbe ceduto nuovamente il posto a Giolitti non appena questi avesse finito di riposarsi; ma un fatto imprevedibile sconvolse tutti i calcoli del grande parlamentare: la guerra del 1914-18. Non da meno di Giolitti, Salandra era sempre stato un deciso sostenitore dell'alleanza dell'Italia con la Germania e con l'Austria; ma il trattato della Triplice Alleanza prevedeva una guerra puramente difensiva, e non contemplava tra i suoi scopi nessuna guerra di aggressione. (1) Nel 1902 il governo italiano si era impegnato col governo francese a non partecipare mai a nessuna guerra di aggressione contro la Francia, impegno che era in perfetto accordo col trattato della Triplice Alleanza, e che era stato reso pubblico senza che venissero sollevate obiezioni da parte dei gabinetti di Berlino e di Vienna (2). Inoltre, i governi firmatari della Triplice Alleanza erano impegnati a non prendere nessuna iniziativa nelle principali questioni internazionali, senza prima essersi consultati tra loro. Infine, e non è cosa di poca importanza, i gabinetti di Vienna e di Roma erano impegnati ad astenersi da qualsiasi iniziativa che avesse come scopo un mutamento nello "status quo" della penisola balcanica. Se tale "status quo" veniva infranto in conseguenza di eventi imprevedibili, i due gabinetti dovevano consultarsi reciprocamente prima di fare qualsiasi passo. Il loro accordo doveva basarsi sul principio che nessuno dei due avrebbe ottenuto vantaggi territoriali o di altro genere che mutassero lo "status quo" senza concedere all'altro un vantaggio corrispondente (3). L'ultimatum, che il gabinetto di Vienna aveva inviato alla Serbia nel luglio 1914, non era stato preceduto da nessuna consultazione reciproca. La guerra che aveva fatto seguito a tale ultimatum si proponeva un mutamento dello "status quo" balcanico, e si trattava di una guerra di aggressione e non di una guerra difensiva. Il governo italiano avrebbe avuto il diritto di protestare contro la violazione del trattato di alleanza da parte del governo austriaco. Viceversa fu scelta una strada diversa. Il governo italiano affermò che il trattato non lo impegnava ad affiancarsi con le potenze centrali nell'approssimarsi di una guerra non difensiva, e quindi, il 2 agosto 1914, scoppiato il conflitto europeo, venne annunciato che si sarebbe rimasti neutrali. Nello stesso tempo, il governo italiano insistette sul fatto che il trattato di alleanza impegnava il governo austriaco a concedere all'Italia compensi corrispondenti a tutti i vantaggi che l'Austria avrebbe ottenuto nei Balcani in seguito alla guerra. In Italia, all'annuncio dell'ultimatum austriaco alla Serbia nel luglio del 1914, il partito nazionalista si dichiarò favorevole all'intervento immediato in guerra a fianco delle potenze centrali; ma i nazionalisti si trovarono paralizzati da una vasta ondata di avversione morale che si fece subito manifesta in tutti i ceti del popolo italiano non appena venne resa nota la brutalità dell'ultimatum austriaco. Fu allora che il governo annunciò che si sarebbe rimasti neutrali. Giolitti annunciò pubblicamente che la dichiarazione di neutralità era legittima e che essa aveva il suo consenso pieno. La schiacciante maggioranza del popolo italiano e degli uomini politici accolsero la neutralità con un profondo senso di sollievo, e d'improvviso Salandra divenne popolare. In un momento come quello, Giolitti non avrebbe potuto rovesciare il gabinetto senza sollevare in tutto il paese ondate di indignazione.
Tuttavia, sotto quella unanimità, circolavano delle correnti contrastanti. Gli italiani si divisero subito in due gruppi: coloro che volevano che la neutralità fosse mantenuta sino alla fine della guerra, e che perciò si dicevano 'neutralisti,' e coloro che chiedevano l'intervento a fianco dell'Intesa antigermanica, e che perciò si dicevano 'interventisti.' Un certo numero di conservatori; che si raccoglievano intorno al più importante quotidiano italiano, "Il Corriere della Sera", si dichiararono a favore dell'intervento contro l'Austria e la Germania, dato che non vi era nessuna speranza di raggiungere un accordo con l'Austria sui problemi balcanici, e dato che una vittoria tedesca avrebbe significato la fine della indipendenza nazionale italiana in una Europa dominata dalla Germania. La grande maggioranza dei deputati, senatori e giornalisti influenti prese un atteggiamento di prudente attesa. Pensavano che il governo italiano, dopo aver dichiarato la neutralità, avrebbe dovuto negoziare con le potenze centrali per ottenere dei compensi. Tanto meglio sarebbero andate le cose quanto più si sarebbe potuto ottenere da tali negoziati. Dopo che fosse stata raggiunta una sistemazione tra le potenze della Triplice su tale questione interna, avrebbero aspettato di vedere come andavano le cose prima di prendere una decisione finale in merito al da farsi. Era questa l'opinione di Salandra, ed era anche l'opinione di Giolitti. Salandra riassunse tale punto di vista in una formula che è rimasta famosa: 'sacro egoismo.' Non appena il governo ebbe dichiarato la neutralità, i nazionalisti si spogliarono di ogni entusiasmo per la Triplice assumendo un atteggiamento di riserva; ma quando, nel settembre del 1914, l'Austria subì le prime sconfitte in Galizia e l'avanzata tedesca venne fermata sulla Marna, cominciarono ad invocare la guerra contro l'Austria e la Germania. Uno di loro, il filosofo Giovanni Gentile, ha scritto: 'L'essenziale era fare la guerra: con la Germania o contro la Germania.' (4) Furono essi che formularono e condussero durante la guerra una campagna di propaganda per il programma massimo di ingrandimento territoriale. Il loro capobanda era Gabriele D'Annunzio. Questo dilettante di sadiche emozioni stava invecchiando, e la sua arte perdeva il vigore della giovinezza. I suoi scritti di quegli anni fanno pensare ai sogni di gloria, di ricchezza, di sangue e di concupiscenza di un cameriere. Il popolo italiano, con il suo buon senso e l'innata umanità non capì mai niente di questo caso di teratologia morale. Tutti coloro che dovettero spiegare agli italiani la necessità di affiancarsi all'Intesa antitedesca mai si servirono dei messaggi che D'Annunzio metteva fuori. Si doveva ricordar loro i doveri di giustizia verso gli italiani soggetti all'Austria e verso il Belgio invaso a tradimento, e si doveva presentare la guerra come il solo mezzo perché questo mondo tormentato ottenesse una giusta pace. Ma fuori d'Italia l'opera di questi uomini oscuri non fu mai conosciuta né apprezzata. Fuori d'Italia D'Annunzio era conosciuto come il più grande poeta italiano vivente, e sapeva ben lui come promuovere la pubblicità intorno al suo nome. Nessun altro paese ebbe, come l'Italia, la mala sorte di essere rappresentato negli ambienti intellettuali, durante e dopo la guerra, da un uomo che era caduto tanto in basso quanto a perversione morale e mediocrità letteraria. Nella loro grande maggioranza, i cattolici si dichiararono a favore della neutralità. L'Impero austro-ungarico era la sola grande potenza europea la cui dinastia fosse fedele alla Chiesa cattolica e in cui il clero cattolico godesse di una situazione di privilegio. La vittoria della Intesa antitedesca avrebbe portato come conseguenza al distacco dall'Impero austro-ungarico di vasti territori abitati da popolazioni cattoliche, a vantaggio della Russia, della Serbia e della Rumania, cioè di paesi in cui era dominante la religione greco-ortodossa. Durante la guerra del 1914-18, il Vaticano volle sempre - e lo sperò sino all'ultimo minuto - che l'Impero austro-ungarico uscisse dalla crisi senza diminuzioni territoriali. Perciò le organizzazioni cattoliche italiane si adoperarono per mantenere l'Italia entro i confini della neutralità, sebbene, come è
loro abitudine in tutti i paesi, agissero con cautela, senza mai compromettersi completamente, e guardandosi sempre le spalle per una eventuale ritirata. Come già sappiamo, i deputati cattolici alla Camera non erano su 508 più di 29, ma molti altri deputati, più di 200, erano stati eletti nel novembre del 1913 con l'appoggio delle organizzazioni cattoliche; questi perciò erano più o meno sotto l'influenza cattolica. D'altra parte, i cattolici speravano che Salandra avrebbe agguantato qualche sostanziale compenso territoriale da parte del governo austriaco, obbligandosi in tal modo a mantenere la neutralità. Essi perciò approvavano tutti i tentativi di mercanteggiare sui compensi. Tra i radicali e i socialisti riformisti si andava mostrando un vivo spirito interventista. Il più autorevole uomo politico di questa sinistra interventista era Leonida Bissolati. Quando venne annunciato l'ultimatum alla Serbia, Bissolati affermò che per nessuna ragione l'Italia si sarebbe unita alle potenze centrali. Se il governo italiano non avesse proclamato la neutralità, egli si sarebbe messo a capo di un movimento rivoluzionario. Ma era stata appena dichiarata la neutralità, che Bissolati affermò che l'Italia non poteva rimanere fuori da un conflitto da cui dipendeva il destino di tutta l'Europa. Egli non avrebbe mai preso, per nessuna ragione, l'iniziativa di una guerra; ma ora la guerra c'era, provocata da altri. La vittoria delle potenze centrali avrebbe segnato la fine della indipendenza di tutte le nazioni che circondavano il blocco austro-tedesco. L'Italia era minacciata da una vittoria tedesca né più e né meno di tutte le altre nazioni europee. D'altra parte, la dichiarazione di neutralità aveva provocato una frattura fra l'Italia e le potenze centrali. Bisognava che l'Italia stesse in guardia contro la rivincita che i suoi vecchi alleati si sarebbero presi a causa della sua neutralità. Essa quindi doveva contribuire alla vittoria della Intesa antitedesca. Infine, e non è il punto di minore importanza, i partiti democratici dei paesi dell'Intesa non avrebbero permesso che i partiti nazionalisti e militaristi avessero mano libera nel fare la guerra come nel fare la pace. Dopo aver dato il loro aiuto per la sconfitta della Germania, essi avrebbero resistito contro i gruppi imperialisti quando si fosse negoziata la pace. Il governo italiano doveva intervenire nel conflitto generale con un programma di giustizia per tutti i popoli. Seguendo questa linea di condotta, esso avrebbe rinforzato le correnti democratiche e anti-imperialiste nei paesi della Intesa antitedesca, e avrebbe contribuito a preparare una pace che non contenesse i semi di una nuova guerra. La guerra poteva essere accettata, come si accetta con fermezza un sacrificio necessario, solo su questa base. Altrimenti la guerra sarebbe stata un imperdonabile delitto. Le idee di Bissolati erano viziate da una debolezza intrinseca. Né in Italia, né fuori d'Italia i partiti socialisti e democratici erano preparati ad intenderle. Ovunque socialisti e democratici si divisero in due correnti, ambedue contrarie al pensiero di Bissolati. Essi o rimasero legati agli slogans pacifisti e rivoluzionari, senza interessarsi affatto a tutto ciò che la guerra poneva in giuoco, o si lasciarono trasportare dalla esaltazione guerriera, e divennero facili prede della propaganda nazionalista. Bissolati trovò soltanto pochi seguaci fedeli, sparsi qua e là in tutti i gruppi conservatori e democratici e tra quei democratici cristiani che non erano sotto il controllo del Vaticano, e che avevano in comune con Bissolati aspirazioni morali che non si urtavano col disaccordo dogmatico. I deputati del partito socialista ufficiale e i leaders del movimento sindacale erano pacifisti. Il pacifismo ha un grande vantaggio: che il pacifista non deve studiare nessun problema internazionale nei suoi elementi spesso terribilmente complessi. E' sufficiente per lui coltivare nella testa e nel cuore una sola idea e un solo sentimento: l'opposizione alla guerra. Egli ha fatto voto di non capire niente, e per mantenere il suo voto non ha bisogno di affaticarsi il cervello. I deputati socialisti e i leaders sindacali non fecero mai un passo fuori della loro posizione pacifista; essi sostennero con fermezza una neutralità inerte e lamentosa.
I leaders minori delle sezioni politiche locali del partito mostrarono risolutamente la loro avversione alle potenze centrali, ma si rifiutarono non meno risolutamente di farsi trascinare nel campo della Intesa antitedesca; si mantennero ostinatamente legati alla dottrina marxista, che i socialisti tedeschi avevano impoverito e ridotto ad un catechismo. La sola guerra a cui il proletariato si sarebbe dedicato era la guerra contro la società capitalistica. Il proletariato doveva lasciare che i capitalisti combattessero la loro guerra per la difesa della loro patria, e intanto si sarebbero dovuti tener pronti per scatenare la rivoluzione sociale, approfittando di quella 'crisi della società capitalista' vaticinata da Marx, e che finalmente era arrivata. Durante i mesi di luglio, agosto e settembre del 1914, il leader di questi uomini fu Mussolini. Fintanto che vi fu il pericolo che il governo decidesse di intervenire a fianco delle potenze centrali, Mussolini minacciò la rivoluzione. Nell'estate del 1914, come già nel 1911, affermava, sulle orme della dottrina marxista, che la rivoluzione sociale doveva scoppiare per impedire la guerra. Per sollevare il proletariato contro la guerra, nel 1914 egli si servì del generale sentimento di ostilità per l'Austria e la Germania, proprio come nel 1911 si era servito del fatto che la conquista della Libia era economicamente sconsigliabile. Ma il punto a cui miravano i suoi attacchi, nel 1914 come nel 1911, era sempre la società capitalista che affrontava la sua ultima ora. Dopo che il governo ebbe dichiarato la neutralità, Mussolini per due mesi riempì il quotidiano socialista di grida, proteste, accuse e minacce contro il governo italiano e contro le 'orde teutoniche,' (5) contro l'imperialismo inglese e francese, contro il Belgio, contro tutto il mondo. Quanto al Belgio, il 4 settembre 1914 scriveva: «Ci si invita a piangere sul Belgio martire. Siamo in presenza d'una farsa sentimentale inscenata dalla Francia e dal Belgio. Queste due comari vorrebbero sfruttare la credulità universale. Per noi il Belgio non è che una potenza in guerra, come le altre, e noi non crediamo d'adottare pel nostro giudizio il metodo dei due pesi e delle due misure. Tutte le potenze in guerra sono tutte allo stesso modo colpevoli e allo stesso grado, e noi abbiamo il diritto, il dovere di sollevare la classe operaia contro questi fatti» (5 bis). Il 13 agosto, scriveva: «La guerra fra le nazioni è collaborazione di classe nella sua forma più acuta, più grandiosa, più sanguinosa. La borghesia tripudia - e lo si vede dai giornali - quando può stroncare sull'altare della 'sua' patria il proletariato e l'autonomia di classe del proletariato. Il grido che echeggia in questi giorni e domina: 'Non ci sono più Partiti!' si presta alle più gravi riflessioni ed è una conferma della nostra tesi. Colla guerra la borghesia pone il proletariato dinnanzi a questo tragico dilemma: o l'insurrezione facilmente repressa nel sangue, o la partecipazione - solidale - al macello. Si capisce che quest'ultimo termine del dilemma è mascherato di parole più o meno solenni, come patria, dovere, integrità territoriale, eccetera, ma la sostanza non muta. Ecco la ragione profonda che ci fa detestare la guerra» (6). E il 16 agosto: 'Noi vogliamo rimanere - fino all'ultimo - fedeli alle nostre idee di socialisti e di internazionalisti: il turbine potrà travolgere le nostre persone, ma non travolgerà la nostra fede.' (7) La conclusione era sempre la stessa: l'Italia non deve abbandonare la neutralità, e se il governo tenta di passare dalla neutralità alla guerra, sia contro le potenze centrali o contro la Triplice Intesa, il proletariato deve scatenare la rivoluzione sociale. Ben presto tuttavia, in queste espressioni antipatriottiche, cominciarono ad insinuarsi alcune incertezze. Già il 5 agosto 1914, aveva ammesso che ove la patria fosse vittima di un'aggressione, il proletariato avrebbe dovuto combattere per legittima
difesa; ancora il 1 settembre, Mussolini affermava che una guerra 'per respingere una eventuale invasione' sarebbe stata considerata legittima anche per i socialisti rivoluzionari (8). Questa era la dottrina ufficiale del partito canonizzata dai congressi internazionali, e nessun socialista, neppure quelli di più stretta osservanza, poteva aver niente da obiettare. Ma ai primi di settembre, Massimo Rocca, (9) già anarchico e che nel 1911 e nel 1914 si era unito ai nazionalisti nella campagna interventista contro le potenze centrali, rivelò che Mussolini, mentre nel suo giornale sosteneva la neutralità assoluta, nelle conversazioni coi suoi amici era favorevole all'intervento contro le potenze centrali. Secondo la sua abitudine, Mussolini reagì vomitando un torrente di insulti contro Rocca (10). L'8 ottobre, scriveva: «Non mi vergogno di confessare che, nel corso di questi due mesi tragici, il mio pensiero ha avuto oscillazioni, incertezze, trepidazioni. E chi dunque fra gli uomini intelligenti d'Italia e di fuori non ha subito - più o meno profondamente - il duro travaglio di questa crisi interiore?» (11). Aveva ragione. Molti altri pacifisti, socialisti e anarchici, e non soltanto in Italia, attraversarono angosciose sofferenze morali e ne vennero fuori uomini nuovi. Il caso più famoso è quello dell'anarchico Kropotkin, un uomo di eccezionale cultura ed intelligenza e di indiscussa integrità morale, il quale nell'estate del 1914 si unì in Inghilterra a coloro che sostenevano la guerra contro la Germania. Anche Bissolati, in Italia, era stato un pacifista e un antimilitarista. Per quanto riguarda Mussolini, l'ipotesi più plausibile è che, trovatosi improvvisamente di fronte al non previsto scoppio della guerra, egli, senza darsi troppo pensiero, abbia adottato quell'atteggiamento che ci si poteva aspettare da lui, data la sua mentalità rivoluzionaria, antipatriottica e antimilitaristica. Un giornalista deve avere al momento buono un'opinione pronta per qualsiasi avvenimento, e deve esprimere tale opinione anche prima di averci pensato su. Dopo aver seguito il primo spontaneo impulso, Mussolini passò un periodo di inquietudine e di dubbio interno di cui nessuno sapeva niente, e poco a poco mutò opinione, mentre sul suo giornale continuava a battere i vecchi motivi, secondo quanto si aspettava il suo pubblico, che non avrebbe consentito oscillazioni, incertezze, o timori nella sua incondizionata avversione alla guerra. La disgrazia di Mussolini derivò dal fatto che la sua natura egocentrica e violenta non gli permise di mostrare al pubblico quei dubbi che si andavano insinuando nel suo animo folle. Continuò a brandire la sua penna come si usa una spada, senza accettare di venir mai contraddetto su quanto scriveva, mentre in cuor suo non era affatto sicuro di quello che avrebbe pensato il giorno dopo. Improvvisamente, nell'ottobre del 1914, si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia in guerra contro la Germania e l'Austria, e immediatamente cominciò a trattare come 'incoerenti, apostati, disertori' (12) quei socialisti che non accettavano il suo nuovo punto di vista. Come era naturale, tutto il partito, che sino a quel momento aveva visto in lui il sostenitore della neutralità assoluta, gli si rivoltò contro. Mussolini si dimise dalla carica di direttore del quotidiano socialista, e alla metà di novembre inaugurò un nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia". Dato che non aveva mai avuto denari, non poteva aver fondato il suo giornale con le sue risorse finanziarie. Quindi istantaneamente ognuno cominciò a chiedersi di dove venivano i nuovi fondi a sostegno di quella avventura giornalistica. Naturalmente, i più rumorosi nel domandarsi 'chi paga?,' erano i vecchi compagni, e la risposta la conoscevano già: 'la borghesia'; Mussolini si era venduto alla borghesia, e Mussolini reagiva definendoli 'imbecilli, stupidi, deficienti.' Un giorno si rifiutava di assoggettarsi all'assurda richiesta di rendere noti i retroscena dei suoi affari (13); un altro giorno si dichiarava pronto ad 'aprire le porte della sua casa, spalancare i suoi cassetti,
squadernare i suoi registri, mettere a disposizione tutte le pezze giustificative dell'azienda,' ma a condizione che l'amministratore del giornale socialista facesse altrettanto (14). Minacciava di rivelare fatti che i suoi avversari avrebbero preferito tenere all'oscuro. Era venuto a conoscenza di questi fatti nella sua qualità di direttore del giornale socialista, ma finché era andato d'accordo con i suoi 'compagni' era stato ben disposto ad ingollarli. Il 18 novembre, il quotidiano svizzero "Neue Zürcherzeitung" e il "Wolff Bureau" pubblicavano un telegramma da Milano dove si diceva che sembrava che Mussolini 'privo di mezzi personali' avesse a sua disposizione circa 500000 lire e ricevesse informazioni dalla Francia 'tramite Monsieur Cambon,' che già era stato ambasciatore francese a Costantinopoli e a Berlino. Di fronte a tali voci, Mussolini si schermì : 'Lasciamo dire, per quanto la cosa sia buffa. Io so di essere a posto con la mia coscienza e ciò mi basta.' (15) 'Vogliono farmi passare per un venduto? Ebbene, provino.' (16). La 'insinuazione' del "Wolff Bureau" era 'essenzialmente e soprattutto ridicola.' (17) Quando gli venne chiesto di spiegare come mai pochi giorni prima che uscisse il primo numero del suo giornale egli era andato a Ginevra rispose: 'Quando ne avrò voglia (...) descriverò il mio viaggio a Ginevra. Viaggio noto, del resto, niente affatto 'misterioso'.' (18) E certamente il viaggio non era stato misterioso, ma rimaneva misterioso il suo scopo. Il punto cruciale era questo, e Mussolini non dette mai in proposito nessuna spiegazione. Mussolini aveva a suo vantaggio il fatto che Cambon non ebbe mai niente a che fare con lui; ma tra Parigi e l'Italia, oltre Cambon, c'erano molti altri canali possibili. Il 1 dicembre, il corrispondente del "Neue Zürcherzeitung" affermò che egli 'sinceramente' credeva che 'i fondi venissero dal partito socialista francese,' il che, considerato il passato politico di Mussolini, 'non avrebbe [sic] tornato affatto in suo disonore.' (19) Mussolini chiedeva al giornalista di mostrare 'quali prove o documenti egli possedeva per telegrafare siffatta ridicola fantasia al suo giornale e alla stampa tedesca.' 'Piaccia o no l'oro francese non c'entra affatto. La stampa italiana è più indipendente di quanto non creda il signor Kerbs. Questo giornale, poi, è indipendentissimo, tanto all'interno come all'estero. Lo ho dimostrato e lo dimostrerò. (20) Nessuno era in grado di pubblicare le ricevute del denaro che Mussolini riceveva dalla Francia. Soltanto lui, o coloro che gli fornivano il denaro o che glielo portavano, avrebbero potuto fornire documenti e prove. La prova venne fuori molti anni più tardi. Quindi Mussolini, sfidando i suoi avversari a produrre 'prove o documenti,' si muoveva su un terreno sicuro. D'altra parte non sarebbe giusto affermare che l'animo di Mussolini cambiò non prima, ma dopo che il denaro gli era stato dato o promesso. E' più probabile che il cambiamento sia avvenuto prima, in seguito a una crisi che si trovò ad attraversare insieme a molte altre degne persone in Europa, e che solo dopo che il suo stato d'animo era mutato egli sia stato condotto dal demone del suo egocentrismo a volere un giornale tutto suo. Si dette daffare per trovare il denaro, e lo prese dove lo poteva trovare. Fino a un certo punto non era insincero neppure quando affermava che il suo giornale non dipendeva da nessuno né in Italia né all'estero. Nel suo quotidiano faceva la sua politica, anche se era mantenuto dal denaro francese. In tal modo, Mussolini si poteva sentire indipendente, anche se avrebbe potuto chiedersi che cosa sarebbe stato del suo giornale se il suo animo fosse mutato di nuovo, e se avrebbe veramente osato cambiar di nuovo animo sapendo che un nuovo cambiamento avrebbe fatto morire il suo giornale. Queste, tuttavia, sono distinzioni troppo sottili. Il codice penale fascista, emanato da Mussolini nel 1930, non fa distinzione tra il denaro ricevuto prima e il denaro ricevuto dopo una conversione, e conseguentemente l'articolo 245 punisce con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque 'tiene intelligenza con lo straniero per impegnare o per compiere atti diretti a impegnare lo Stato italiano alla dichiarazione o al mantenimento della neutralità, ovvero alla
dichiarazione di guerra,' e la pena è aumentata sino a venti anni 'se le intelligenze hanno per oggetto una propaganda col mezzo della stampa.' Così il movimento interventista italiano dovette sopportare non soltanto la umiliazione morale di vedersi rappresentato da D'Annunzio, ma anche il sospetto di essere sussidiato da un governo straniero. I giornali austriaci e tedeschi approfittarono di questo fatto. Anche il cancelliere tedesco, Bethmann Hollweg, nel maggio del 1915 affermò che il Consiglio dei ministri italiano era entrato in guerra perché era stato comprato con l'oro francese, sebbene egli sapesse perfettamente che in Italia c'erano giornalisti che erano stati comprati non dal solo oro francese ma anche dall'oro tedesco, che i giornalisti mercenari in Italia potevano essere contati sulle dita delle due mani, e che essi non erano il Consiglio dei ministri. Questo era altrettanto onesto e rispettabile dello stesso cancelliere tedesco, anche se i suoi componenti non prendevano la strada che sarebbe piaciuta a lui. Il giornale di Mussolini portava il sottotitolo di 'quotidiano socialista,' ed egli ostentava di essere in Italia l'unica autentica salvaguardia della dottrina socialista rivoluzionaria. Era un socialista rivoluzionario che dissentiva dai suoi antichi compagni, i quali avevano sfuggito il loro dovere rivoluzionario. Guai al Re e alla borghesia italiana se si fossero mantenuti fuori dalla guerra contro l'imperialismo tedesco! Una rivoluzione socialista e repubblicana avrebbe punito la loro vigliaccheria. Durante i mesi di luglio, agosto e settembre del 1914, il Re e la borghesia avrebbero dovuto fare i conti con una rivoluzione se fossero entrati in guerra. A partire dal novembre del 1914, il loro destino era già segnato se non fossero entrati in guerra. Al tempo stesso Mussolini vedeva nella guerra contro il militarismo tedesco il modo più opportuno per rovesciare la società capitalista. 'Oggi è la guerra, sarà la rivoluzione domani.' (21) La rivoluzione sociale sarebbe stata portata tra i ceti benestanti. D'altra parte, nel partito socialista italiano molte persone sincere erano tormentate nella loro coscienza da un penoso dilemma: se accettare l'intervento, o se rimanere legati alle dottrine pacifiste o rivoluzionarie del socialismo. Se Mussolini fosse rimasto nel partito e avesse svolto un'opera fraterna e amichevole di persuasione, avrebbe ottenuto molte conversioni al suo nuovo punto di vista. Ma la sua natura egoista e violenta non conobbe mai la via della persuasione. Egli cominciò ad accusare come traditori del proletariato, vigliacchi, buoni a nulla, quelli stessi socialisti che erano rimasti fedeli al suo precedente insegnamento. Con questi attacchi selvaggi ai suoi compagni della vigilia, Mussolini li bloccò nella loro posizione neutralista. Quei socialisti che, convertendosi all'interventismo, avrebbero potuto portare con sé, se non tutto il partito, una buona parte di esso, furono ridotti alla impotenza e al silenzio oppure dovettero abbandonare il partito. Mussolini scavò tra l'interventismo democratico e il partito socialista un solco che non si sarebbe mai più potuto colmare. In un certo senso, fu maggiore il danno che non l'aiuto che egli dette al movimento interventista. Sia tra i gruppi che volevano l'intervento dell'Italia nella guerra europea che tra quelli che volevano la neutralità non esisteva nessuna omogeneità. Tutti i partiti politici italiani erano divisi e si trovavano in uno stato di grande confusione. La maggioranza dei conservatori, dei cattolici e dei socialisti, e una minoranza di radicali con alcuni nazionalisti facevano pressioni per la neutralità. La campagna per l'intervento era sostenuta dai socialisti riformisti, dai repubblicani, dalla maggioranza dei nazionalisti, dalla maggioranza dei radicali, e da quelle minoranze che avevano abbandonato i partiti favorevoli alla neutralità. Ciascuno dei due gruppi era una specie di crogiuolo in cui si trovavano uomini di origini e di convinzioni divergenti. Oltre agli interventisti e ai neutralisti, c'era una massa stolida di uomini politici, opportunisti, pronti a seguire Giolitti qualsiasi strada avesse imboccato. La grande maggioranza dei ceti più elevati era favorevole alle potenze centrali, che venivano considerate come un solido sostegno dell'ordine sociale. Le più importanti banche e le maggiori industrie erano favorevoli alla neutralità, non solo per quella
simpatia verso i regimi di autocrazia comune a tutte le persone ricche, ma anche perché gli uomini d'affari pensavano che la neutralità, pur evitando i rischi della guerra, avrebbe permesso loro di far quattrini a spese sia delle potenze centrali che della Intesa antitedesca. L'intervento dell'Italia nella guerra mondiale ebbe luogo contro la volontà di quasi tutti i capitalisti italiani. I gruppi sociali favorevoli all'intervento si devono ricercare specialmente tra le classi intellettuali; ma anche queste erano profondamente divise. Tra i professori universitari, molti si mantennero estranei ad ogni controversia, e non si sarebbero lasciati distrarre dai loro studi neppure da un diluvio universale. Gli altri si divisero tra interventisti e neutralisti, e tra gli interventisti prevalevano i nazionalisti, e tra i neutralisti erano abbastanza numerosi coloro che accettavano la neutralità come un primo passo verso l'intervento a fianco delle potenze centrali. Gli insegnanti delle scuole medie si dividevano in tutte le correnti possibili, ma prevalevano quelli in favore dell'intervento; alcuni erano nazionalisti, altri seguaci di Mussolini, altri ancora seguaci di Bissolati. Gli insegnanti elementari erano divisi all'incirca come quelli delle scuole medie, ma tra loro erano in maggioranza i socialisti neutralisti, sia riformisti che rivoluzionari. Tra gli intellettuali indipendenti, Benedetto Croce era un neutralista con tendenze filotedesche; D'Annunzio, come abbiamo visto, era un interventista con tendenze nazionaliste; Guglielmo Ferrero era un interventista di tendenze bissolatiane. I capi dell'esercito e della marina erano favorevoli all'intervento, e altrettanto la più parte dei giovani ufficiali. In queste condizioni, le masse del popolo italiano non capirono mai perché c'erano persone che volevano che si andasse in guerra, e persone che volevano che si rimanesse neutrali; perché c'erano interventisti nazionalisti, e interventisti democratici; perché la maggior parte degli interventisti democratici si comportavano come i nazionalisti, mentre altri seguivano Bissolati; perché, tra i neutralisti, c'erano conservatori che rimanevano fedeli alla Germania, cattolici che rimanevano fedeli all'Austria, e socialisti che si infischiavano sia dell'Austria che della Germania; e perché c'erano socialisti che sostenevano una neutralità pacifista, e socialisti che chiedevano fragorosamente una neutralità rivoluzionaria. In una tale torre di Babele, la sola cosa che poteva fare il popolo italiano era di giungere alla conclusione che l'intervento in guerra non era altro che il risultato di una capricciosa perversità da parte degli uomini politici. I gruppi favorevoli all'intervento trascinarono nella loro scia solo una piccola parte della popolazione. Nelle città e nelle campagne le masse dei lavoratori appoggiavano o i socialisti o i cattolici ed erano in favore della neutralità. Chi, nell'autunno del 1914, avesse cercato di spingere lo sguardo nel futuro, ne avrebbe tratto le previsioni che l'Italia sarebbe rimasta neutrale, poiché la grande maggioranza di deputati e di senatori, il partito socialista, il Vaticano, le organizzazioni cattoliche, i ceti più elevati, una parte notevole dei ceti medi, e l'enorme maggioranza delle classi lavoratrici nelle città come nelle campagne erano favorevoli alla neutralità. Il governo di Vienna nei suoi rapporti con il governo italiano basò la sua condotta su questa assunzione. Si sentì al sicuro dal pericolo di una guerra sulla frontiera italiana, e quindi pensò che non c'era bisogno di fare nessuna concessione. Mentre gli italiani si scindevano in neutralisti e interventisti, il presidente del Consiglio, Salandra, e il ministro degli Esteri, Sonnino, non si preoccuparono mai di portare un po' di ordine in questo caos spirituale. Appartenevano a quella vecchia tradizione conservatrice, secondo la quale il diritto di pensare e di comandare apparteneva ad una minoranza di 'notabili,' mentre i 'sudditi' dovevano obbedire e, se necessario, morire senza pensare, o tutt'al più pensare quello che i 'notabili' volevano che pensassero. Se Salandra e Sonnino fossero vissuti in Francia prima della rivoluzione del 1848, sarebbero stati dei fedeli sostenitori di Guizot, e con la loro ostinata arroganza avrebbero aiutato Guizot a rendere inevitabile la rivoluzione del
1848. Questi due uomini entrarono in guerra senza neppure sognarsi che la guerra sarebbe stata fatta da milioni di uomini, i quali non potevano essere mandati a morire senza che si dicesse loro perché. Essi non riuscirono mai ad afferrare la gravità di una crisi che stava mettendo sottosopra non solo l'equilibrio politico internazionale, ma le stesse basi dell'ordine sociale europeo. Negoziavano con i governi di Berlino e di Vienna così come con quelli dell'Intesa antitedesca, come se non esistesse nessun popolo italiano. Ai loro amici non dettero mai nessuna istruzione precisa su quanto era da farsi, e neppure cercarono di guadagnare alla loro causa dei possibili oppositori. Il popolo italiano nel 1915 e il popolo degli Stati Uniti nel 1917 entrarono in guerra senza dover affrontare nessun pericolo immediato. Nessuno potrebbe affermare che l'Italia nel 1915 o gli Stati Uniti nel 1917 combattevano una guerra difensiva. Non vi fu nessuna Pearl Harbor per l'Italia nel 1915. Ma il popolo americano trovò nel presidente Wilson un leader che dette alla guerra una impronta idealistica. Salandra e Sonnino erano dei 'realisti.' Davanti al popolo italiano sventolarono soltanto la bandiera del 'sacro egoismo.' Si dovette ancora al loro 'realismo' se gli italiani ne conclusero che la guerra era un delitto commesso contro di loro dalla cattiva volontà del loro governo. Fu solo nei primi giorni di maggio del 1915 che tutti in Italia compresero che il governo si era alleato con la Triplice Intesa contro le potenze centrali. Giolitti non era mai stato un partigiano della neutralità assoluta; aveva approvato nell'agosto la dichiarazione di neutralità; aveva approvato la decisione di Sonnino, nel dicembre, di iniziare i negoziati a proposito dei compensi col gabinetto di Vienna. Pubblicamente espresse l'opinione che l'Italia avrebbe potuto ottenere 'parecchio' senza ricorrere alla guerra, ma non è possibile credere che egli pensasse che il governo italiano avrebbe dovuto negoziare col proposito di mantenere la pace ad ogni costo e contentarsi di qualsiasi concessione gli venisse fatta dal gabinetto di Vienna. D'altra parte, non sembra che Giolitti si sia mai reso conto che iniziare dei negoziati significa entrare in guerra nel caso che questi negoziati non approdino a nulla. Tale fu effettivamente il caso. Nelle sue "Memorie", pubblicate nel 1922, Giolitti ammette che le concessioni offerte dal gabinetto di Vienna non erano soddisfacenti; di qui la deduzione che Salandra e Sonnino non avevano altra alternativa che la guerra. Nel maggio del 1915, Giolitti poteva dissentire da Salandra e da Sonnino sulla scelta del momento per la dichiarazione di guerra; poteva condannare i fini territoriali su cui si basavano Salandra e Sonnino. Invece di far ciò, Giolitti si pose contro il gabinetto senza fornire nessuna ragione. Che cosa avrebbe fatto Giolitti se fosse ritornato al potere? Si sarebbe contentato di quelle concessioni che il governo di Vienna era disposto a fare, e che egli stesso nel 1922 doveva affermare che erano insufficienti? Oppure avrebbe dichiarato guerra alle potenze centrali né più e né meno di quanto fecero Salandra e Sonnino? La cosa più probabile è che egli stesso non sapeva che cosa avrebbe fatto. Voleva soltanto riprendere il potere. Poi avrebbe agito giorno per giorno secondo le circostanze. Trecento deputati offersero a Giolitti una dimostrazione extra-parlamentare in suo favore: si recarono alla sua abitazione dove lasciarono i loro biglietti da visita. Salandra presentò le sue dimissioni. A questo punto i piani di Giolitti furono di nuovo sconvolti da un altro fatto inaspettato. Tutta la sfiducia, tutta l'ostilità, tutto l'odio che si era andato accumulando contro di lui nel corso degli anni precedenti si concentrò e scoppiò furiosamente. Nelle città più importanti, e a Roma specialmente, gli interventisti dettero inizio a dimostrazioni nelle strade lanciando vituperi contro Giolitti e contro la sua maggioranza parlamentare, e minacciando di ucciderlo. Salandra, che si era impegnato a dichiarare la guerra entro il 25 maggio, fece ridurre al silenzio dalla polizia tutte le manifestazioni dei neutralisti, lasciando via libera a quelle degli interventisti.
Gli interventisti non erano che una minoranza della popolazione; ma la maggioranza era divisa tra gruppi slegati e incapaci di una azione comune. I socialisti pacifisti avrebbero potuto esercitare una grande influenza tra i ceti medi, e agire come punto focale di tutte le correnti neutraliste. Ma all'interno del loro partito erano sommersi dalla rumorosa maggioranza rivoluzionaria, che dava alla campagna neutralista una impronta rivoluzionaria. In tal modo i ceti più elevati e i ceti medi dovevano scegliere, tra una rivolta contro il governo che avrebbe potuto avere come conseguenza la rivoluzione minacciata dai socialisti, o la guerra. Decisero che la guerra era il male minore. Anche i cattolici temevano la rivoluzione più della guerra. D'altra parte, quel proletariato rivoluzionario, di cui i marxisti di stretta osservanza pretendevano di essere i rappresentanti, non esisteva. La grande maggioranza degli operai e degli agricoltori non voleva la guerra, ma non si curava neppure della rivoluzione sociale. Si sottomisero alla guerra poiché un potente organismo amministrativo li afferrava e li gettava nella fornace, ma non si rivoltarono in modo attivo. Il partito socialista non proclamò neppure uno sciopero generale. In quel momento la maggioranza parlamentare era in accordo con la maggioranza del paese che non voleva la guerra. Ma essa non osò resistere alle minacce della folla nelle strade. Essendo stata manipolata dal governo durante tre successive elezioni, essa non aveva il prestigio per resistere al governo e a quelle forze extraparlamentari che sostenevano il governo. Non poteva agire ora come rappresentanza del paese dopo che per dieci anni non si era curata di rappresentarlo. Nessun uomo politico osò prendere il posto di Salandra. Lo stesso Giolitti, dopo avere provocato la crisi, si rese conto che in quel momento non era possibile per lui diventare presidente del Consiglio. Salandra e Sonnino rimasero al potere. Quando il 20 maggio il gabinetto presentò alla Camera la proposta della dichiarazione di guerra, non più di 76 deputati, di cui 41 erano socialisti, furono abbastanza decisi da votare contro. Votarono a favore 407 deputati, ma tra questi non più di un centinaio accettavano risolutamente la guerra come una necessità che si doveva affrontare con fortezza. Tutti gli altri si sottomisero vilmente alla volontà del potere esecutivo. Nel maggio del 1915, per la prima volta nella vita pubblica italiana, si vide la 'anomalia' di una manifestazione pseudo-rivoluzionaria favorita e persino provocata dagli uomini che erano al potere per forzare la mano al Parlamento. Nel maggio del 1915, Salandra e Sonnino insieme ai gruppi 'interventisti' fecero un vero e proprio colpo di stato contro la maggioranza parlamentare. L'Italia faceva la prova per quell'altro colpo di stato dell'ottobre 1922 che doveva essere la marcia su Roma. I governi di Francia e d'Inghilterra erano entrati in guerra col consenso unanime, o quasi unanime, dei loro popoli. L'Italia non fece mai l'esperienza di una 'union sacrée.' La divisione tra 'neutralisti' e 'interventisti' era inevitabile al termine di nove mesi di discussioni a proposito di una guerra che non poteva essere presentata al popolo come una guerra difensiva. Salandra e Sonnino peggiorarono le cose tenendo per tutti quei mesi il paese in uno stato febbrile e tormentoso di ignoranza e di incertezza. Agli errori di Salandra e di Sonnino, Giolitti aggiunse l'ulteriore sbaglio madornale di rifiutare il suo consenso ad una guerra che lui stesso si era adoperato a rendere inevitabile, approvando i negoziati con l'Austria. Tutti questi errori condussero al colpo di stato, che infettò l'atmosfera italiana con il veleno della guerra civile.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO SESTO. 1 (1). Sulla origine dei fondi, che permisero a Mussolini di iniziare e di tirare avanti la pubblicazione del suo quotidiano, abbiamo due gruppi di testimonianze: a) testimonianze desunte da fonti francesi, e b) testimonianze desunte da fonti italiane.
a) Fonti francesi. 1) In un libro di ricordi di un diplomatico italiano fedele a Mussolini, Daniele Varé, alla data del 19 novembre 1922, si legge quanto segue: «Mantoux mi raccontò una storia che aveva udita su Mussolini ieri da Julien Louchaire, già ministro per la Pubblica Istruzione nel gabinetto Ribot e direttore dell'Istituto francese di Firenze. (...) Eccola quale fu raccontata da Louchaire a Mantoux: Sui primi del 1915, il giornale di Mussolini di recente fondazione, "Il Popolo d'Italia", faceva pressione perché l'Italia abbandonasse la neutralità, e predicava la necessità dell'intervento a fianco degli Alleati. In quel tempo il governo francese mandò in Italia una missione a scopo di propaganda. (...) Dato che il "Popolo d'Italia" faceva già la migliore propaganda possibile a favore degli Alleati, i membri della missione francese, avendo appreso che il giornale aveva bisogno di fondi per tirare avanti, andarono dal direttore-proprietario e gli offrirono di contribuire. Mussolini accettò l'offerta, e gli fu consegnata una somma per sostenere la nuova impresa giornalistica. Non ricordo l'entità della somma. Vogliamo dire centomila lire, o forse di più? Questi fondi furono debitamente usati per lo scopo, per il quale erano stati offerti, e nessuno in Francia pensò più a quella faccenda. Ma un anno più tardi, molto tempo dopo che l'Italia era entrata in guerra, un assegno di centomila lire (o quale che fosse la somma) con firma di Mussolini, fu restituito ai donatori con molte espressioni di gratitudine per il 'temporaneo prestito.' La cosa fu raccontata al presidente del Consiglio Ribot, il quale non riusciva a crederlo. Chi mai "presta" denaro ad un giornale? In tutta la storia del giornalismo non è mai accaduto che una somma, spontaneamente offerta per uno scopo specifico e adoperata con successo per quello scopo, sia stata restituita a chi l'aveva data. A quel tempo Mussolini era sconosciuto fuori d'Italia, e non era ancora diventato quello che fu più tardi. E' segno di grande indipendenza di carattere in lui non essere rimasto obbligato verso un governo straniero e non dover ammettere che si dicesse che era 'finanziato' da stranieri. Mantoux mi disse che questa storia gli aveva fatto una grande impressione» (2). Monsieur Julien Luchaire (non Louchaire) non fu mai ministro in alcun gabinetto francese. Monsieur Mantoux, il noto storico che fece da interprete alla Conferenza della Pace nel 1919, non può aver detto che Luchaire è mai stato ministro per la Pubblica Istruzione in un gabinetto francese. Molto probabilmente Varé non ricordava esattamente le parole di Mantoux. Nel 1914-15, Luchaire era direttore dell'Istituto francese a Milano. Egli può aver agito solamente come intermediario tra la missione francese e Mussolini. Quanto alla restituzione del denaro ai 'donatori,' la cosa sembra improbabile, almeno nel 1916. A quel tempo Mussolini non era in grado di dare diciamo pure centomila franchi. Sia come sia, rimane il fatto che nel novembre del 19222 Varé non aveva nessuna ragione di inventare la sua conversazione con Mantoux, né Mantoux aveva nessuna ragione di inventare la storia raccontatagli da Luchaire, né Luchaire aveva nessuna ragione per inventare la storia del denaro francese accettato da Mussolini nel 1915. Nel novembre del 1922, in vista della occupazione della Ruhr, il ministero degli Esteri francese aveva estremo bisogno dell'aiuto di Mussolini contro il Foreign Office inglese. I francesi volevano fare cosa gradita a Mussolini. Molto probabilmente questo spiega perché, proprio in quel momento, Luchaire accreditò a Mussolini questo atto di eroismo finanziario, che non ha precedenti né possibili paralleli tra i giornalisti francesi. In tal modo l'affermazione di Luchaire circa il denaro accettato da Mussolini nel 1915 deve essere accettata come una prova fornita da un testimone che era in
una posizione tale da essere bene al corrente, e non aveva nessuna ragione di ingannare Mantoux. Stabilito questo fatto fondamentale, altre testimonianze che altrimenti rimarrebbero ambigue acquistano un altro significato. 2) Nel marzo 1925, nel corso di un processo politico davanti alle Assise di Parigi, il pubblico ministero esortò i giurati a non dimenticare che l'Italia era entrata in guerra a fianco della Francia grazie agli 'sforzi disinteressati' di Mussolini. Maître Torrès, avvocato della parte antifascista, 'solennemente' ribatté che Mussolini si era commosso per le sorti della Francia solo dopo avere intascato le somme destinate a comprarlo. Né il pubblico ministero né l'avvocato della parte fascista osarono soffermarsi più su questo punto. Fuori della corte, Maître Torrès dette maggiori particolari: «Ci fu un momento, proprio al principio della guerra, quando il partito socialista italiano era unanime contro l'intervento dell'Italia. Il governo francese era preoccupato, e prese in considerazione la cosa in una seduta del gabinetto. Fu esaminata la questione se fosse possibile convertire qualche socialista alla causa della guerra: una possibilità finanziaria. Fu fatto il nome di Mussolini. Il primo pagamento fu di 15000 franchi, e dopo gli furono accordati 10000 franchi al mese. Chi dava il denaro era il segretario di Guèsde, Dumas. Fu allora che nacque "Il Popolo d'Italia", per sostenere l'intervento immediato. Questa è la storia esatta, che nessuno oserà smentire per paura di documenti più schiaccianti» (3). 3) Il 9 novembre 1926, il deputato francese Renaudel scrisse nel "Quotidien": 'Molti di noi ricordano che i primi numeri del "Popolo d'Italia" furono pubblicati con l'aiuto del denaro francese. Marcel Cachin sa tutto ciò, ma non gli piace che se ne parli.' Marcel Cachin, che nel 1926 era un deputato comunista, era stato membro socialista della 'union sacrée' durante la guerra 1914-18, e si era recato diverse volte in Italia in missioni semi-ufficiali. 4) Il 9 gennaio 1928, il deputato francese Paul Faure scrisse nel Populaire: 'Un giorno Jules Guèsde, allora ministro di stato, mi confidò che avevamo laggiù un uomo che era dei nostri: Mussolini. Gli avevamo mandato un primo pagamento di centomila franchi per lanciare il suo giornale. Non posso dire esattamente chi abbia portato il denaro; ma Cachin, se vuole, può informarne i lettori dell'"Humanité"; egli era allora in Italia per incontrarsi con Mussolini per conto del governo francese.' Le cifre date da Maître Torrès non corrispondono con quelle date da Faure; ma dopo diciotto anni un errore di memoria da parte di Faure è del tutto possibile, mentre le affermazioni di Maître Torrès si basavano su documenti. In ogni modo, Cachin mantenne un ostinato silenzio. A differenza di Luchaire, Torrès, Renaudel e Faure non erano testimoni di prima mano. Essi appartenevano a gruppi francesi antifascisti di sinistra, e ripetevano ciò che si diceva tra gli uomini politici francesi. Se non esistesse l'affermazione di Luchaire, si potrebbe sospettare che i francesi calunniassero Mussolini. Rimane tuttavia il fatto che Cachin non aprì mai bocca, mentre come deputato comunista sarebbe stato ben contento di essere in grado di protestare smentendo di essere mai stato intermediario tra il governo francese 'borghese' e Mussolini. Il silenzio di Cachin ha maggior valore delle parole di Torrès, Renaudel e Faure. b) Fonti italiane. 1) Il 3 maggio 1919, un settimanale milanese, "L'Italia del Popolo", affermò che Mussolini aveva "riscosso 'chêques" patriottici dal governo francese,' e lo sfidò a dar querela per diffamazione: 'abbiamo le prove di quanto fu scritto e detto.' Mussolini ignorò la sfida. Questo fatto è altrettanto significativo del silenzio di Cachin.
2) Nel 1926, Massimo Rocca, (4) allora profugo a Parigi, pubblicò quanto segue nel numero di giugno della rivista "Nuovo Paese": «Allora (ai primi di settembre del 1914) Mussolini si abboccò con Filippo Naldi, direttore del quotidiano bolognese "Il Resto del Carlino", e gli promise di voltare gabbana se Naldi gli avesse procurato un altro giornale. Ottenutane la promessa, scrisse sull'"Avanti!" un articolo in cui affermava che la neutralità non avrebbe dovuto essere assoluta, ma solo un primo passo verso l'intervento. Naturalmente i suoi compagni di redazione lo sconfessarono. Tuttavia, egli rimase ancora direttore dell'"Avanti!" per due settimane, e nel frattempo preparava con Naldi, mediante un primo sussidio francese, il finanziamento del "Popolo d'Italia", stabilendo che egli, Mussolini, ne sarebbe stato direttore e proprietario. Raggiunto lo scopo, egli si dimetteva da direttore dell'"Avanti!" (...) Poi si recava a Ginevra a riscuotere i primi fondi» (5). Nel 1926, anche Naldi viveva in esilio a Parigi, e non contraddisse la versione di Rocca. Ma tanto Rocca che Naldi appartenevano al gruppo di quei fascisti dissidenti che avevano lasciato l'Italia nel' 1924, il "Nuovo Paese" era pubblicato allo scopo di ricattare Mussolini, e prima o poi i suoi direttori finirono col far la pace con lui e agire in Francia come spie fasciste. Naldi, che nel 1926 non aveva contraddetto la versione di Rocca, era persona poco accreditata, implicato in affari non chiari. Nel novembre del 1914 aveva dichiarato: 'Per quel che so io l'oro francese è introvabile nella amministrazione mussoliniana.' (6) Quindi, la testimonianza di Rocca deve essere tenuta in sospeso, finché non sia convalidata da prove più attendibili. 3) Nel 1928, alle pagine 38-39 della sua "Pseudo-Autobiography" Mussolini così spiegò l'origine del "Popolo d'Italia": «Avevo bisogno di un quotidiano. (...) Dove si tratta soltanto di denaro, io sono tutt'altro che un mago. Quando mi trovo di fronte al problema di procurarmi i mezzi, un capitale per eseguire un progetto, o il modo di finanziare un giornale, afferro soltanto il lato più astratto, il valore politico, l'essenza spirituale della cosa. Per me il denaro è detestabile. Ciò che esso può fare è qualche volta bello, e qualche, volta nobile.» Si tratta di una ammissione, o almeno di una mezza ammissione. 4) Nel 1930, Alceste De Ambris, un sindacalista rivoluzionario che nel 1914-15 aveva combattuto accanto a Mussolini, mentre si trovava profugo in Francia scrisse quanto segue: «La maggior parte della gente trova Mussolini abominevole perché accettò denaro dal governo francese per fondare il "Popolo d'Italia". Ma il lato abominevole della cosa non è questo. Se Mussolini fosse stato interventista sin dal principio, o se fosse diventato interventista più tardi senza calcolo personale, noi non lo qualificheremmo colpevole per aver accettato in seguito quel denaro. Quando uno segue la strada che la sua coscienza gli detta, può anche accettare un aiuto offertogli e che lo aiuti a perseguire e a raggiungere il suo scopo. La profonda, radicale e imperdonabile immoralità di Mussolini consiste nel fatto che egli deviò dalla sua strada incamminandosi nel senso opposto per ottenere un vantaggio personale» (7). De Ambris si basa sulla versione di Rocca. Poiché là testimonianza di Rocca non può essere accettata, anche le affermazioni di De Ambris diventano prive di autorità. 5) Nel 1938, un altro profugo antifascista, Roberto Marvasi, raccontò (8) che nel marzo del 1915 due amici e collaboratori di Mussolini, uno dei quali era Alceste de
Ambris, si recarono a Parigi. Luigi Campolonghi, un giornalista italiano in stretto contatto con gli ambienti francesi e che conosceva molti retroscena, confidò loro che due fra i capi del movimento italiano in favore dell'intervento contro le potenze centrali erano pagati dal governo francese. In una conversazione con le due persone in questione, De Ambris poté accertare che la cosa era vera. De Ambris, Campolonghi e il terzo amico decisero di presentare una protesta al ministro Guèsde. Guèsde ascoltò la protesta, dopo di che chiamò il suo capo di gabinetto, Dumas, si fece portare un pacco di biglietti da mille, e lo consegnò a De Ambris perché lo portasse a Mussolini: 'Questa,' disse, 'è una rimessa personale da parte dei compagni francesi. Non è il caso di preoccuparsene.' II denaro non venne rifiutato. Leggendo questo resoconto, chi scrive mandò una lettera a Campolonghi, per chiedere se potesse o no dare una conferma. Campolonghi rispose in data 8 agosto 1938, che 'l'episodio riferito da Marvasi era vero.' L'altro amico di Mussolini che si era recato a Parigi dall'Italia era un repubblicano, Dino Roberto. «De Ambris e Roberto furono colti talmente di sorpresa che non ebbero il tempo di rifiutare l'incarico proposto da Guèsde. Forse, avendo scoperto l'origine dei fondi che alimentavano il "Popolo d'Italia", non avrebbero dovuto più collaborare a quel giornale. Io non lo feci, e mi rifiutai fermamente di pubblicarvi anche una sola riga» (8 bis). Nella sua lettera Campolonghi non aggiunse, forse perché è cosa ovvia, che il fatto fu tenuto segreto per non provocare uno scandalo che avrebbe screditato il movimento interventista. Nel 1938, Roberto era stato mandato al confino in un'isola, e De Ambris era morto. Quindi non c'era modo di controllare con la loro testimonianza il resoconto di Marvasi e di Campolonghi. Non c'è nessuna ragione di sospettare che Campolonghi o Marvasi si siano inventati i fatti; tuttavia essi furono resi noti da Marvasi solo dopo la morte di De Ambris. Sarebbe quindi prudente non tenere in troppo conto questa fonte, se non altro per il fatto che dopo tanti anni è probabile che alcuni particolari siano stati falsati e non siano sicuri. In conclusione, il silenzio di Mussolini nel 1919, la dichiarazione di Luchaire nel 1922, il silenzio di Cachin nel 1926 e nel 1928, la mezza ammissione del fratello di Mussolini nella "PseudoAntobiography", forniscono motivi sicuri per confermare le affermazioni di Torrès, Renaudel e Faure. La signora Sarfatti, scrivendo "Dux", sapeva che Mussolini era sospettato di avere ricevuto 'oro francese.' Ma essa allontanò ogni sospetto con la motivazione che il giornale fu fondato grazie ad un accordo di pubblicità, e quattromila lire a prestito su cambiale, e che la redazione del giornale consisteva in due bugigattoli con quattro sedie. Su tali basi essa, nel 1914, si era formata la sua 'convinzione sicura come un istinto.' (9) La Sarfatti non si rende conto che quattromila lire non sarebbero bastate neppure a pagare la carta necessaria per il primo numero del giornale, che nessuna agenzia di pubblicità avrebbe rischiato il suo denaro in un giornale che doveva ancora uscire, e che il giornale di Mussolini non poteva avere una base lussuosa, se si voleva evitare che aumentasse il numero di coloro, i quali chiedevano: 'Chi paga?' L'unico elemento rilevante nella 'convinzione' della signora Sarfatti è che nel febbraio del 1915 una commissione d'inchiesta sulla origine dei fondi di Mussolini arrivò alla conclusione che il giornale di Mussolini era stato reso possibile da un contratto con una agenzia di pubblicità, e che quando l'agenzia non fu più disposta a sostenere il giornale, arrivarono in aiuto alcuni 'parenti ed amici,' tutti favorevoli all'intervento dell'Italia in guerra (10). La commissione sarebbe arrivata a conclusioni diverse se avesse avuto sott'occhio le notizie venute alla luce più tardi dalle parole di Luchaire e dal silenzio di Cachin.
De Begnac non ha dubbi sul fatto che l'origine finanziaria del giornale di Mussolini sia stata 'purissima,' (11) e mentre dedica un centinaio di pagine a descrivere le glorie del suo eroe durante l'estate e l'autunno del 1914, si libera elegantemente di questa faccenda dando in appendice la relazione della commissione del febbraio 1915. La sola tattica che De Begnac poteva seguire con qualche decenza in questo tentativo disperato era di passar sopra alla questione con la maggior fretta possibile. 2. Per farsi un'idea delle falsificazioni che sono state elaborate e messe in circolazione sulla carriera politica di Mussolini, si ricorderanno alcuni esempi. 1) Luigi Villari, parlando nel 1924 della vita di Mussolini prima dell'intervento italiano nella grande guerra, si guarda bene dal dire che sino al 1914 Mussolini era stato un furioso sostenitore di quella teoria per la quale la difesa nazionale non è cosa che riguardi il proletariato. Villari si contentò di dire che 'dal momento dello scoppio della guerra, Mussolini comprese istintivamente la necessità dell'intervento italiano, e in questa sua convinzione non ebbe mai incertezze' (12). La verità è che Mussolini predicò la neutralità durante l'agosto e il settembre del 1914. Fu solo con il 18 ottobre che cominciò a predicare l'intervento. 2) Nell'agosto del 1914, il leader socialista del Trentino, annesso all'Impero austriaco, fuggì in Italia, e si unì alla campagna per l'intervento dell'Italia in guerra contro le potenze centrali. (Quando venne dichiarata la guerra si arruolò volontario, e nel 1916 venne fatto prigioniero dagli austriaci e impiccato.) Il quotidiano socialista "Avanti!", di cui Mussolini era il direttore, in una corrispondenza da Roma mise in burletta una eventuale guerra 'per liberare coloro che non hanno assolutamente alcun desiderio di staccarsi dall'Austria.' (13) Battisti inviò a Mussolini una lettera di protesta contro tale affermazione. Nel 1909, Mussolini per un certo tempo aveva lavorato a Trento sotto Battisti ed era rimasto con lui in rapporti di amicizia; non poteva quindi rifiutarsi di pubblicare la sua protesta, che apparve nel numero dell'"Avanti!" del 14 settembre. Ma mentre Battisti aveva intitolato la sua lettera 'Non bestemmiare,' Mussolini scelse il titolo neutrale di 'Trentini e Trentino,' e privò inoltre la lettera del suo ultimo periodo, che diceva: «Se l'Italia non può ricordarsi di noi, irredenti, sia! Se l'operare per la nostra redenzione dovesse recarle rovina, noi subiremo ancora il servaggio. Sia tutto questo! Dimenticateci, se volete, ma non dite che noi non vogliamo staccarci dall'Austria. E' un'offesa. E' una bestemmia!» (14). La lettera di Battisti, così mutilata, veniva presentata con le seguenti parole: «Non possiamo negar ospitalità a questa lettera che un compagno ed amico carissimo di Trento, attualmente profugo in Italia, ci ha mandato per rettificare una affermazione contenuta in una delle nostre note da Roma» (14 bis). Nel De Begnac si legge soltanto: 'I neutralisti (...) combattono ogni sorta d'irredentismo. Arrivano a dire che nel Trentino si desidera il mantenimento del dominio absburgico.' (15) Non si dice che i neutralisti sono il corrispondente da Roma dell'"Avanti!" e lo stesso Mussolini. Poi si trova il periodo finale della lettera di Battisti, ma non viene detto che Mussolini lo aveva soppresso. 3) In un articolo di Umberto Morelli, 'Mussolini: a patriotic socialist,' pubblicato nella "English Review", (16) si legge: «Al principio della guerra, tutti gli sforzi di Mussolini si concentrarono contro i nazionalisti, inclini a favorire un conflitto con la Francia, paralizzando le loro
macchinazioni; e dopo essere riuscito a costringere l'Italia a rimanere neutrale, si mise immediatamente all'opera in favore di una guerra di liberazione di Trento e Trieste.» Il fatto è che i nazionalisti, quando cercarono di sostenere l'intervento a fianco delle potenze centrali, non trovarono in Italia nessun seguito. Attribuire a Mussolini una influenza decisiva sugli avvenimenti di quei giorni, è un gettar la polvere negli occhi dei lettori. Mussolini non fu che un piccolo ingranaggio di una macchina enorme. Il governo italiano dichiarò la neutralità il 2 agosto, mentre Mussolini continuò a predicare non l'intervento, ma la neutralità sino all'ottobre del 1914. Non è vero, quindi, che egli si sia messo 'immediatamente all'opera in favore di una guerra di liberazione di Trento e Trieste.'
CAPITOLO SETTIMO. MUSSOLINI E I 'FASCISTI DELLA PRIMA ORA'. Sia in Italia che all'estero era opinione generale che l'intervento italiano in guerra avrebbe portato in breve alla sconfitta delle potenze centrali e alla fine della guerra. Ciò sarebbe forse successo se gli eserciti italiano e rumeno fossero entrati in guerra nei primi mesi del 1915, quando l'esercito austriaco stava subendo dei rovesci sul fronte russo e su quello serbo. Ai primi di marzo, l'idea che l'Italia e la Rumania attaccassero l'Austria in quel preciso momento sollevò ondate di panico tra gli uomini al potere a Vienna e a Budapest. Alla fine di maggio, quando l'Italia entrò in guerra senza che la Rumania si muovesse, le armate russe erano già state messe fuori combattimento nella cosiddetta battaglia di Gorlice. Di conseguenza l'alto comando austriaco poteva disporre adesso di larghe forze sui fronti italiano e serbo; inoltre l'alto comando italiano mostrò nelle operazioni militari una completa mancanza di immaginazione e di capacità. Invece di durare pochi mesi, la guerra si trascinò per tre anni e mezzo. La maggioranza parlamentare, che nel maggio 1915 aveva votato la guerra con riluttanza, rimase passiva e come in letargo durante i primi mesi; ma via via che le difficoltà si moltiplicarono, questi uomini presero coraggio e cominciarono a ripetere: 'Ve lo avevamo detto'; contemporaneamente i deputati 'socialisti ufficiali' divennero con le loro critiche sempre più aggressivi. E le buone ragioni per criticare non mancavano di certo, per il modo inetto con cui la guerra veniva condotta e per l'opera inefficiente e priva di tatto della amministrazione civile. Per sostenere i gabinetti di guerra contro i violenti attacchi dei socialisti, tutti quei deputati che erano stati favorevoli all'intervento o che lo avevano sinceramente accettato dopo che questo era diventato inevitabile, si raccolsero in un 'Fascio di Difesa Nazionale,' che andava dai nazionalisti della estrema destra ai socialisti riformisti della estrema sinistra; il gruppo non comprendeva più di 150 deputati, rivolti contro i socialisti ufficiali e contro i loro più o meno prudenti sostenitori. La Camera rimase sempre divisa tra una minoranza ostinata favorevole alla guerra sino in fondo, un'altra minoranza ostinata che voleva la immediata cessazione della guerra mediante 'una pace qualunque,' e una maggioranza folle i cui membri non sapevano se desiderare la vittoria, la quale avrebbe significato il loro fallimento politico, o un nulla di fatto che avrebbe mitigato i loro rancori. Votavano contro i socialisti ufficiali, o abbandonavano le sedute quando i socialisti ufficiali chiedevano la cessazione immediata della guerra, ma nelle anticamere ripetevano il ben noto ritornello: 'Ve lo avevamo detto.' Nel paese, via via che la guerra andava avanti, i sacrifici che al fronte si richiedevano ai soldati, e a casa alla popolazione civile, crescevano, e lo scontento diventava più diffuso e profondo. In Europa tale fenomeno era comune a tutti i paesi in guerra. In Germania, in Austria, in Francia, in Inghilterra, così come in Italia, il numero degli scioperi era in aumento. In Germania i deputati socialisti, che si opponevano alla continuazione della guerra e per un anno avevano combattuto contro la maggioranza dei loro colleghi, si distaccarono nella primavera del 1917 formando un partito socialista indipendente. In Italia il partito socialista non aveva bisogno di scindersi, perché sia la destra riformista che la sinistra rivoluzionaria erano state unite contro l'intervento ed erano unite contro la continuazione della guerra. Finita la guerra, quando i soldati cominciarono a essere smobilitati, essi se ne tornavano a casa pieni di amarezza per i maltrattamenti subiti dalle loro famiglie durante i tre anni e mezzo di guerra; e detestavano tutti gli alti papaveri gallonati e tutti quei politicanti che
avevano voluto la guerra o l'avevano votata nel maggio 1915 e avevano poi continuato a votare per la sua continuazione, anche se non l'avevano voluta. Durante la guerra gli uomini politici si erano abbandonati a promesse eccessive di riforme sociali, economiche e politiche; un rinnovamento nel tronco e nelle radici di tutta la vita nazionale avrebbe dovuto testimoniare della gratitudine che il paese sentiva per coloro che per esso avevano versato il loro sangue. Il 20 novembre 1918, lo stesso Salandra che aveva condotto l'Italia a dichiarare guerra all'Austria ebbe a dire: 'Oggi ancora autorevolmente è stato detto che la guerra è rivoluzione. Si, grande, santissima rivoluzione. (...) Nessuno pensi che passata la tempesta, sia possibile un pacifico ritorno all'antico. (...) Nessuno pensi che possano più giovare le antiche consuetudini di vita pacifica.' (1) Quello stesso giorno, il presidente del Consiglio, Orlando, che era stato a capo del paese nell'ultimo anno di guerra, in un discorso alla Camera esclamò con veemenza: 'Io ebbi già a dire in questa Camera che questa grande guerra era nel tempo stesso la più grande rivoluzione politica e sociale che la storia ricordi, superando la stessa rivoluzione francese.' (2) Naturalmente nessuno di loro con la parola 'rivoluzione' intendeva una rivolta armata dei partiti sovversivi contro il governo in carica; intendevano soltanto un riassestamento di tutta la struttura sociale e politica mediante riforme basilari ma ottenute per vie legali; quali dovessero essere queste riforme rivoluzionarie non lo avevano mai lasciato capire e forse non lo sapevano neppure loro. Dopo aver fatto i loro discorsi 'rivoluzionari,' furono svelti a scordarseli. Le sole riforme di cui ebbero conoscenza i soldati che venivano smobilitati furono un taglio di stoffa con cui farsi una volta a casa un abito civile, un buono di 250 lire, e niente altro. Ma i soldati non dimenticavano: i 'signori,' dicevano, hanno ottenuto la sostanza dei profitti di guerra, e ai soldati soltanto l'ombra di vuote promesse. Nel 1919 in Italia c'erano tutte le condizioni per una riforma completa della struttura sociale ed economica, verso quella che oggi viene definita democrazia economica. I tre anni e mezzo di guerra avevano creato nel popolo italiano una mentalità nuova, che neppure mezzo secolo di propaganda socialista sarebbe stata capace di creare: una viva intolleranza delle condizioni attuali, l'aspettativa certa di grandi cambiamenti e un desiderio bruciante di avere parte attiva nella costruzione di un mondo migliore. L'idea che il passato era morto e che non sarebbe risorto era accettata anche dai conservatori. Uomini come Salandra e Orlando si sentivano incapaci di arginare la corrente. Le riforme politiche e sociali si presentavano a portata di mano per chiunque avesse voluto farle proprie. Sarebbe stato possibile applicarle nei confronti di quelle industrie che durante la guerra si erano largamente ampliate ottenendo profitti eccessivi e spesso disonesti, e adesso avevano bisogno dell'aiuto del governo per sopravvivere alla crisi di trapasso dalla guerra alla pace. Sarebbe stato possibile trasferire il possesso della terra da quei proprietari assenti a quegli affittuari o mezzadri che la coltivavano con il loro lavoro e con quello delle loro famiglie. Sarebbe stato possibile disporre un gigantesco piano di opere pubbliche per riparare le distruzioni della guerra, riorganizzare le ferrovie, modernizzare le strade di grande comunicazione, riprendere ed allargare le opere di bonifica e mettere in atto un programma di costruzioni edilizie nei quartieri più miseri delle grandi città. Sarebbe stato possibile attuare le otto ore di lavoro, le pensioni per limite di età, l'assicurazione contro la disoccupazione e le malattie. Sarebbe stato possibile organizzare una lotta più intensa contro l'analfabetismo nel Mezzogiorno e applicare ovunque un nuovo sistema di istruzione per i figli dei lavoratori. Sarebbe stato possibile mettere in pratica una politica estera basata sul buon senso, che, messi da parte i sogni di Orlando, di Sonnino e dei nazionalisti, appoggiasse con sincerità il presidente Wilson contro le manovre di Lloyd George e Clemenceau alla Conferenza della Pace, rendendo in tal modo possibile una riduzione radicale delle spese militari
in un mondo pacificato. Qualsiasi partito o coalizione di partiti che avesse adottato un simile programma non avrebbe trovato resistenza nel corso del suo cammino. L'Italia era nata tra il 1859 e il 1870 sotto un regime oligarchico. Nel 1882 era passata a un regime elettorale in cui prevalevano le classi medie e la parte più bassa delle classi medie. Nel 1912 le era stato fatto dono di un regime in cui, grazie al suffragio quasi universale, legalmente predominavano le classi lavoratrici. Nel 1919 il diritto di voto divenne universale senza limite alcuno, perché la legge del 1912 concedeva il diritto elettorale a chiunque avesse fatto il servizio militare, e dal 1915 al 1918 tutti in Italia avevano fatto il servizio militare. Nelle mani delle classi lavoratrici il suffragio universale avrebbe potuto servire come strumento per dei cambiamenti immediati di vasta portata, che cinque anni prima non si sarebbero potuti considerare tra le cose possibili. Chi avrebbe potuto capeggiare un tale movimento 'rivoluzionario,' non nel senso di un rovesciamento violento del regime esistente, ma nel senso di una sua completa trasformazione? Alla fine del 1918, quando la vittoria aveva coronato le speranze di quei gruppi politici che avevano voluto la guerra e l'avevano sostenuta con decisione sino alla fine, i nazionalisti non videro più limite alcuno alle loro ambizioni. Nel dicembre 1918, due di essi, Alfredo Rocco e Francesco Coppola, annunciando la pubblicazione di una nuova rivista, "Politica", definivano le linee della futura politica estera italiana nei seguenti termini orgiastici: «Tutto chiama l'Italia all'adempimento della sua missione imperiale: la tradizione di Roma, di Venezia, di Genova; il genio politico della stirpe, che l'ha fatta sempre maestra nell'arte di governare i popoli; la posizione geografica, che mentre la ricongiunge per terra all'Europa continentale, le consente di dominare, dal centro, tutto il bacino del Mediterraneo, dove torna oggi a pulsare il cuore di tre continenti. Qui è il dovere, qui è la missione dell'Italia. Come dimostra la storia, tutte le volte che in questa penisola fatale è ritornata la vita, e si è costituita una unità etnica e politica, una potenza forte e organizzata, la ferrea necessità delle cose l'ha trascinata oltre i confini, verso quel mare dei tre continenti e verso le sponde che esso bagna, a cui la chiama una vocazione naturale e storica superiore ad ogni forza e ad ogni volontà contrastante» (3). I nazionalisti operavano d'accordo con il presidente del Consiglio Orlando, col ministro degli Esteri Sonnino, e con i capi dell'esercito e della marina. Non appena la guerra fu finita, l'alleanza che era sorta durante la guerra tra costoro e i seguaci di Bissolati sparì per sempre. Durante la guerra, Bissolati - che era un uomo di cinquantotto anni, ma un valoroso alpinista - si era arruolato volontario, era stato gravemente ferito, aveva fatto ritorno in linea dopo la guarigione, e si era meritato due medaglie al valore. Nel giugno del 1916, dopo le dimissioni di Salandra dalla presidenza del Consiglio, egli aveva accettato di far parte con Sonnino di un gabinetto di unità nazionale, ma non aveva mai sottoscritto i progetti di pace di Sonnino. Finita la guerra, Bissolati riprese la sua libertà di azione, chiedendo che gli obbiettivi della guerra italiana fossero definiti da tutto il gabinetto, prima che gli inviati italiani si recassero alla Conferenza della Pace. Egli era contrario alla annessione del Sud-Tirolo, abitato da popolazione tedesca, e alla annessione della Dalmazia, abitata da popolazione slava. Tali annessioni erano ingiuste e avrebbero condotto inevitabilmente a nuove guerre. Bissolati era convinto che il piano del presidente del Consiglio Orlando e del ministro degli Esteri Sonnino, cioè la richiesta della Dalmazia secondo i termini del Patto di Londra, fosse assurdo. Gli inviati italiani dovevano rinunciare alla Dalmazia e chiedere invece Fiume. Inoltre ai combattenti era stata promessa una pace giusta e durevole; gli inviati italiani dovevano unirsi al presidente Wilson nella sua lotta contro Clemenceau e Lloyd George per una pace troppo
ingiustamente severa contro la Germania; essi avrebbero dovuto aiutare Wilson per creare la Società delle Nazioni, 'forma superiore della vita internazionale,' per far sì che la guerra raggiungesse lo scopo sacrosanto di liberare l'uomo dalla schiavitù della guerra (4) Il presidente del Consiglio Orlando era dalla parte di Sonnino. Nel dicembre del 1918, Bissolati si dimise dalla sua carica ministeriale e annunciò che avrebbe resi noti quali erano secondo lui gli obbiettivi di pace per l'Italia, in un discorso politico al teatro della Scala. Non appena Bissolati cominciò a parlare, una marmaglia capeggiata da Mussolini sollevò nel teatro un tale tumulto che Bissolati non poté farsi sentire e dovette rinunciare al discorso. Durante la guerra Mussolini era andato sotto le armi quando la sua classe era stata chiamata (31 agosto 1915). Dal suo diario di guerra, (5) sappiamo che rimase sotto le armi dal 1 settembre 1915 al 23 febbraio 1917; durante questi diciotto mesi, Mussolini non rimase in prima linea più di quattro mesi; di questi quattro mesi, rimase un mese e mezzo in una zona che, ebbe a scrivere, 'è la più tranquilla - forse dell'intera fronte.' (6) Insomma, Mussolini partecipò alle vere e proprie operazioni militari per non più di due mesi e mezzo, e senza mai partecipare ad una battaglia. Il 23 febbraio 1917 rimase ferito, non durante una azione, ma in seguito allo scoppio di una granata di un mortaio italiano; il 24 febbraio 1917 il "Popolo d'Italia" dichiarava che le ferite non erano pericolose; una volta guarito di queste ferite chiese ed ottenne l'esonero dal servizio militare, non perché non fosse più abile, ma essendo indispensabile per la direzione del "Popolo d'Italia". Nel 1915 era stato contrario ad ogni forma di imperialismo e si era opposto al progetto italiano di annessione della Dalmazia (7). Adesso era tra coloro che levavan grida per Fiume, la Dalmazia, l'Asia Minore e le colonie in Africa, e che impedivano a Bissolati di tenere il suo discorso al pubblico della Scala. Borgese, che in quell'occasione era presente, racconta che Bissolati quando riconobbe Mussolini nel gruppo di coloro che facevan baccano, si voltò verso gli amici che gli erano più vicini e disse: 'Quell'uomo no!' (8). In quella sera del gennaio 1919, nel teatro alla Scala accanto ai teppisti di Mussolini si trovavano i futuristi. Dalla voce 'futurismo' nella "Enciclopedia Italiana", apprendiamo che il futurismo era un 'movimento artistico-politico svecchiatone, novatore, velocizzatone, creato da F. T. Marinetti a Milano nel 1909.' L'articolo come il programma del nuovo movimento si battevano per una 'arte-viva' esplosiva, una italianità 'parossista,' l'abolizione della cultura e della logica, dei musei e delle università, della monarchia e del papato, la 'modernolatria,' un tipo di pittura astratta di 'suoni, rumori, odori, pesi e forze misteriose,' 'eroismo e pagliaccismo nell'arte e nella vita,' ed altre idiozie simili. Avendo ereditato dal padre una notevole fortuna, Marinetti era in grado di organizzare intorno a se stesso e al suo movimento una rumorosa pubblicità a base di bollettini, volantini, conferenze, spettacoli drammatici, riviste. Nessuno mai lo prese sul serio; la gente accorreva nei teatri agli spettacoli futuristi solo per tirar pomodori e altri proiettili da ridere contro attori e musicisti. La scuola futurista non produsse una sola opera d'arte che non destasse derisione; tutto quanto di buono venne prodotto dai membri di tale scuola fu fatto dopo che questi avevano smesso di fare i pagliacci al seguito di Marinetti. Nei mesi della neutralità italiana nel 1914-15, i futuristi levarono alte grida in favore dell'intervento. Erano ferocemente antisocialisti e anticattolici, e in più ferocemente antitedeschi. Una delle loro imprese più gloriose durante la guerra fu una dimostrazione contro Toscanini, perché Toscanini suonava in Italia musica tedesca mentre era in corso una guerra antitedesca. Toscanini gettò via la bacchetta e si rifiutò di suonare qualsiasi musica. Dopo la guerra Marinetti divenne ferocemente 'antibolscevico,' ma il suo antibolscevismo era sempre anticattolico e ultrarivoluzionario. Mussolini non si unì mai ufficialmente ai futuristi, perché essi
avevano già il loro leader in Marinetti e tra loro non c'era posto per due leaders ; ma futuristi e seguaci di Mussolini agirono sempre di pari passo. Nella campagna di calunnie contro Bissolati, i nazionalisti marciarono accanto a Mussolini e a Marinetti: dietro questi tre gruppi di avanguardia stavano tutti i politicanti e tutti i giornali che sostenevano la politica di Orlando e di Sonnino. Tra questi c'erano gli stessi uomini e gli stessi giornali che nel 1915 avevano seguito Giolitti, e che pur di evitare che l'Italia entrasse in guerra avrebbero rinunciato non soltanto a Fiume e alla Dalmazia, ma anche a Trieste e all'Istria; adesso unanimemente tutti reclamavano con gran fragore non solo Trieste e l'Istria, ma anche Fiume e la Dalmazia sino all'ultimo sasso. Più territori esigevano e maggiore sarebbe stato il successo dei loro attacchi contro i responsabili della guerra, se ora erano incapaci di soddisfare tutte le aspettative. I socialisti si curavan poco della Dalmazia, di Fiume, dell'Asia Minore, dell'Africa; ostentavano una indifferenza olimpica per i problemi che si dovevano discutere alla Conferenza della Pace. Solo la 'coscienza di classe del proletariato' era capace di dare al mondo pace e giustizia. Essi erano troppo occupati a formare la coscienza di classe del proletariato. Così in tutta Italia non più di una mezza dozzina di quotidiani, tra cui spiccava il "Corriere della Sera", sostenevano Bissolati. Persino due di quegli uomini politici che erano sempre stati considerati come amici intimi di Bissolati e che, insieme con lui, avevano partecipato al gabinetto Orlando, lo abbandonarono e restarono nel gabinetto. Bissolati rimase solo con un pugno di amici. I nazionalisti li odiavano perché essi si opponevano all'annessione della Dalmazia; i socialisti e i neutralisti li odiavano perché essi erano stati favorevoli all'entrata dell'Italia in guerra. Nessuno dava ascolto alle loro ragioni. Adesso Orlando e Sonnino potevano andare alla Conferenza della Pace con pieni poteri per insistere nella loro richiesta del Patto di Londra più Fiume. Dopo il suo trionfo su Bissolati nel gennaio 1919, Mussolini nel marzo si mise a capo del 'Fascio di combattimento' fondato a Milano. La parola 'fascio' significa 'insieme di bastoni'; nell'Italia prefascista essa veniva adoperata per ogni tipo di gruppo o associazione politica. Nel marzo del 1919 i fascisti di Mussolini non erano più di un centinaio. Nei primi tempi del movimento la parola fascio fu associata solo con l'idea di 'insieme' e non con quella di 'fasces' dei littori romani; tuttavia molto presto la parola 'fasci' suggerì il trucco di adottare i 'fasces' romani come simboli del movimento fascista. Il programma dei primi gruppi fascisti conteneva i seguenti punti: proclamazione della repubblica; suffragio universale per i due sessi; decentralizzazione del potere esecutivo; abolizione del Senato e della polizia politica; abolizione di tutti i titoli nobiliari; abolizione del servizio militare obbligatorio e della diplomazia segreta; sequestro dei beni delle mense vescovili; scioglimento delle società per azioni e soppressione delle banche e del mercato azionario; censimento della ricchezza personale e confisca dei capitali improduttivi; la terra a cooperative contadine; la gestione delle industrie e dei servizi pubblici a sindacati di tecnici e di lavoratori. 'Tutti i luoghi comuni del dopo guerra, tutte le aspirazioni più estremiste ed assurde di quel periodo di sovraeccitazione morbosa vennero accolti tra i postulati del nascente partito' (9). Il motto di Mussolini era: combattere per i frutti rivoluzionari di una guerra rivoluzionaria. «Una volta per tutte l'ora della rivoluzione sociale è arrivata. Se adesso la rivoluzione sociale è diventata possibile, ciò non si deve ai socialisti, rivoluzionari soltanto a parole, ma a noi, rivoluzionari veri, che abbiamo dato la nostra opera a favore della guerra, spianando in tal modo la via alla rivoluzione» (10).
Era contro i socialisti non perché questi fossero rivoluzionari, ma perché si rivelavano incapaci e non disposti a fare una rivoluzione sociale. Attribuiva ai socialisti il titolo di 'bolscevichi' e si diceva un 'antibolscevico,' ma non dette mai la cooperazione né ai moderati contro i socialisti estremisti, né ai partiti conservatori contro i socialisti. Rimase solo nell'atteggiamento del profeta ultrarivoluzionario, che spinge le masse a rivoltarsi contro tutto e contro tutti e a credere soltanto in lui. E' del tutto inutile nel calderone intellettuale di Mussolini in questo periodo isterico cercar di trovare una qualche coerenza. Nel 1932, volgendosi indietro a considerare i primi giorni del fascismo, fece lui stesso la seguente ammissione: 'Non c'era nessun specifico piano dottrinale nel mio spirito. (...) Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione.' (11) Come ultrarivoluzionario insultava tutti i vecchi partiti costituzionali; ma come patriotta che aveva voluto la guerra e inveito più di ogni altro contro i neutralisti andava di perfetto accordo con i nazionalisti, il gruppo più conservatore di tutti; e come ultrarivoluzionario e ultranazionalista allo stesso tempo, metteva in stato di accusa i partiti democratici e le forme democratiche di governo, ma insieme chiedeva una repubblica con suffragio universale per uomini e donne, giudici eletti dal popolo, decentralizzazione del potere esecutivo, ogni sorta di restrizioni alle funzioni dello stato; cioè sosteneva una forma di governo ultrademocratica. Pure sotto questo miscuglio caotico di frammenti tratti dalle filosofie politiche più diverse e contraddittorie, c'erano degli stati d'animo fondamentali, assai radicati, che controllavano il suo comportamento e gli davano una direzione concreta. In primo luogo, Mussolini odiava i socialisti, di cui era stato il leader sino all'autunno del 1914, e che adesso lo ricoprivan di fango come un rinnegato e un traditore, accusandolo di essere un complice della 'classe capitalista' nella carneficina della guerra mondiale. In secondo luogo aveva preso a prestito dal sindacalismo rivoluzionario, dall'anarchismo e dal comunismo leninista il disprezzo per le istituzioni parlamentari, e il culto della violenza come arma politica. In terzo luogo, aveva preso a prestito dai nazionalisti il loro appellarsi alla esaltazione patriottica. Tali erano nel 1919, e tali ancora nel 1942, le molle principali della sua azione. Tuttavia, nel 1919, egli era convinto che la rivoluzione sociale in Italia si stesse approssimando, cercava di dare vento alle sue vele allineandosi con l'estrema sinistra del movimento rivoluzionario e superando in fervore gli altri rivoluzionari italiani. Se la rivoluzione sociale di cui tutti parlavano si fosse concretizzata, sarebbe stato possibile ai rivoluzionari più estremisti approfittare della confusione inevitabile in una crisi del genere e sopraffare i socialisti più moderati. In Russia, Lenin e Trotsky avevano dimostrato che in un momento di disintegrazione sociale un gruppo di uomini rigidamente organizzati, armati e pronti a tutto, poteva diventare il centro di raccolta di una larga massa di disperati. Mussolini non aveva più nessuna speranza di essere accolto nelle schiere dei socialisti; quanto gli rimaneva da fare era di raccogliere intorno a sé come compagni di avventura uomini capaci di rispondere al tempo stesso agli slogans ultrarivoluzionari e a quelli ultranazionalisti. Tali uomini esistevano. La smobilitazione stava gettando sul mercato del lavoro circa 160000 ufficiali congedati. Tra questi, i migliori se ne tornarono tranquillamente alle loro case cercandosi un lavoro, tal quale le masse anonime di operai e contadini smobilitati. Ma per molti di loro non era facile guadagnarsi la vita; provenivano dalla piccola borghesia semi-intellettuale; prima della guerra erano stati impiegati, piccoli professionisti, o commessi di negozio, ottenendo i gradi di ufficiale durante la guerra; oppure erano stati richiamati sotto le armi a diciannove o vent'anni, e non avevano imparato altro mestiere che quello di comandare degli uomini. Si erano abituati a disporre di una discreta quantità di soldi da spendere, e avevano acquistato il gusto del comando e della vita di avventura. Se non avessero trovato altri uomini da
inquadrare, sarebbero stati costretti a tornarsene ad un misero impiego o ad un lavoro manuale. Di fare ciò non avevano la minima intenzione. Respinta dalla borghesia intellettuale, e non disposta tuttavia ad abbassarsi al livello dei lavoratori manuali, la piccola borghesia semi-intellettuale fornisce in tutti i paesi la base di reclutamento del professionismo politico. Quando non trovano un posto in un partito conservatore, trovan sempre da vivere in un movimento rivoluzionario. I meno intelligenti, i meno fortunati, o quelli più scrupolosi, rimangono per tutta la vita, non importa in che partito militino, nei gradini più bassi della scala politica; la loro classe è quella che fornisce i galoppini pagati a tuttofare. I più intelligenti, i più fortunati, o i meno scrupolosi possono raggiungere posizioni elevate, quali quelle di un primo ministro in un regime monarchico o di un cancelliere del Reich. Facendo ritorno alla vita civile, questi uomini non si adattarono al lavoro vuoto e monotono di un postino, di un commesso, o di un impiegato; un osservatore intelligente li chiamò 'il quinto stato.' (12) Alcuni di essi si buttarono con i socialisti e i comunisti e furono scherzosamente chiamati 'socialisti di guerra'; ma per la maggior parte andarono a ingrossare le file dei primi 'Fasci.' In quegli anni socialisti di guerra e fascisti si ritrovarono a capo di tutti i peggiori disordini (13). Questi 'fascisti della prima ora,' come più tardi vennero definiti, erano convinti che il paese, che doveva ad essi la sua vittoria, avesse il dovere adesso di provvedere a loro, non in proporzione alla loro capacità di lavoro ma in proporzione alla loro gloria. La guerra era l'unica base dei loro reclami; gli atti di valore militare che avevano compiuto - o che si vantavano di aver compiuto - erano i loro titoli di nobiltà. Odiavano i socialisti e tutti coloro che erano stati contrari alla guerra, come avrebbero odiato un nemico personale che avesse cercato di privarli dei loro onori e dei loro diritti: inoltre i socialisti erano i leaders degli operai, che guadagnavano salari elevati, mentre essi - i 'salvatori della patria' - non potevano trovare un impiego. Eppure il loro odio per i socialisti non significava affatto che essi fossero conservatori. A nessuno di essi passava neppur per la testa che un giorno sarebbero diventati i missionari della gerarchia, disciplina e obbedienza. Affamati, scontenti di sé e del loro prossimo e del mondo in generale, si immaginavano di essere dei rivoluzionari. Per loro il 'capitalista' che passava in automobile, come l'operaio specializzato che guadagnava un buon salario, erano 'pescicani' che sfruttavano il paese. Bighellonavano per le città consumandosi nell'ozio e smaniosi di azione non importa verso quale direzione, capaci al tempo stesso di azioni eroiche e di spaventosi delitti. Si trovavano naturalmente attratti verso quei rivoluzionari di vecchia data, che formavano la prima guardia del corpo di Mussolini. Tra essi i più violenti erano quelli che durante la guerra erano stati nei reparti di 'arditi.' Di questi 'arditi' non pochi prima della guerra avevano avuto delle condanne per reati comuni; durante la guerra avevano usufruito di condoni e erano stati mandati al fronte per riabilitarsi con l'ammazzare quanti più nemici potevano. E di fatto si erano riabilitati, ma sotto le loro uniformi di truppe d'assalto avevano mantenuto la loro primitiva mentalità di criminali. Il 10 novembre 1918, durante una dimostrazione patriottica per le vie di Milano in loro compagnia, Mussolini si era rivolto ad un gruppo di 'arditi' nei seguenti termini: «Arditi! Commilitoni! Io vi ho difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava. (...). Il balenio dei vostri pugnali o lo scrosciare delle vostre bombe, farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia! Essa è vostra! Voi la difenderete! La difenderemo insieme!» (14). Durante la guerra, nel maggio 1918, quei sindacalisti rivoluzionari, repubblicani e anarchici che appoggiavano la guerra sino in fondo avevano fondato la 'Unione Italiana del Lavoro,' il cui leader era Edmondo Rossoni; come Mussolini, Rossoni
prima della guerra era stato un sindacalista rivoluzionario di estrema sinistra, e in America aveva fatto parte della 'Industrial Workers of the World.' L'11 giugno del 1911, un gruppo di italiani 'eminenti' deponeva una corona al monumento di Garibaldi a New York. In seguito a questa dimostrazione 'patriottica,' gli italiani di sentimenti rivoluzionari ne organizzarono una per conto loro. L'oratore che parlò al pubblico presso il monumento non era altri che Rossoni. Leggiamo nel "Proletario": «Prende la parola Rossoni, il quale con voce sonora che vibra sulle teste come la corda d'un arco teso, flagella tutta l'immonda ciurma dell'affarismo coloniale, dei fraudolenti, degli sfruttatori, dei falsari, degli adulteratori che han bisogno del mantello del patriottismo per nascondere la refurtiva. (...) Dopo aver dichiarato che assume tutta la responsabilità del suo atto, fra un delirio d'applausi, sputa a piena bocca sul tricolore del re e la corona di Barsotti (uno degli eminenti cittadini). (...) La nostra protesta è stata compiuta e noi siamo soddisfatti. Non lo è invece Rossoni, il quale slanciatosi ancora sul basalto propone (...) che ciascuno dei presenti passi in pellegrinaggio davanti alla corona maramalda e la decori con un coscienzioso sputo, il che tutti fanno applaudendo» (15). Quando scoppiò la guerra, Rossoni, come Mussolini, scoprì improvvisamente di essere nazionalista. Tornò in Italia e nel maggio 1918, insieme al altri socialisti non meno rivoluzionari e non meno patriottici di lui, fondò la Unione italiana del lavoro, che aveva come programma la guerra contro il sistema capitalistico e contro tutte le istituzioni che sostenevano tale sistema' (16). La tattica di Rossoni nel 1919 era di essere più esigente dei socialisti, chiedendo più di quello di cui i socialisti si sarebbero contentati, e sperando in tal modo di conquistare le masse lavoratrici al suo movimento ultrarivoluzionario-nazionalista. Nel novembre del 1918 la Federazione italiana operai metallurgici, condotta dai socialisti, aveva raggiunto un concordato con i datori di lavoro; Rossoni, che era a capo di un piccolo gruppo di lavoratori della stessa industria, respinse l'accordo socialista, chiedendo le 44 ore settimanali, il minimo di paga, e il riposo nel pomeriggio di sabato ('sabato inglese'), bollando i sindacalisti socialisti che avevano accettato le 48 ore settimanali di traditori del proletariato. In un comizio tenuto a Milano nel marzo 1919, uno dei seguaci di Rossoni affermò che 'gli operai devono avere il diritto di ubriacarsi la domenica e stare a casa il lunedì senza incorrere in punizioni ' (17). Mussolini appoggiava Rossoni con tutto il cuore: non c'era dubbio che le 48 ore settimanali costituivano un tradimento del proletariato, e gli scioperi erano sempre ingiusti quando erano promossi dai socialisti, e sempre giusti purché venissero proclamati contro o senza il benestare dei capi socialisti. Nel marzo del 1919 a Dalmine, cittadina vicino a Bergamo, 2000 operai impegnati in una vertenza salariale con i loro datori di lavoro occuparono la fabbrica. Fu questo in Italia il primo caso di occupazione di fabbrica, e fu promosso dai seguaci di Mussolini. Lo stesso Mussolini si recò a Dalmine e tenne un discorso agli operai lodando la loro iniziativa, e il "Popolo d'Italia" scrisse: 'L'esperimento di Dalmine ha un valore altissimo come indice della potenziale capacità del proletariato di gestire direttamente la fabbrica' (18). Queste manovre demagogiche caddero nel vuoto. Mussolini, Rossoni e l'Unione italiana del lavoro erano stati favorevoli alla guerra. Gli uomini che facevan ritorno dal fronte nella loro stragrande maggioranza erano nemici di chiunque avesse sostenuto la guerra, sia che si chiamasse Bissolati o Mussolini. Rossoni non riuscì mai ad ottenere una larga influenza: era un generale senza soldati. Da quali fonti nazionalisti, futuristi e fascisti ottenevano i denari per mantenere i loro uomini e sostenere i loro giornali e le altre pubblicazioni minori? I futuristi non avevano un quotidiano, e Marinetti era in grado di mantenere quei pochi amici che non avevan di che vivere. Ma l'"Idea Nazionale", il quotidiano dei nazionalisti, e il
"Popolo d'Italia", il quotidiano di Mussolini, che avevano una tiratura limitata, non avrebbero potuto esistere senza un notevole aiuto finanziario. Quanto ai nazionalisti lo sanno anche le pietre che essi erano appoggiati dalle acciaierie, gli zuccherifici, gli stabilimenti chimici e da altre industrie che dovevano la loro fortuna agli armamenti, ai dazi protettivi e alle commesse governative. Per quanto riguarda Mussolini, sembra che gli aiuti del governo francese siano venuti a mancare subito dopo la guerra, quando il ministero degli Esteri francese non aveva più bisogno del sangue italiano. Nel 1919, nel 1920 e nel 1921, Mussolini fu violentemente antifrancese. Si erano aperte altre fonti di entrata. Nel gennaio del 1919, in quella tumultuosa serata milanese, nella quale si impedì a Bissolati di parlare, gli avversari di Mussolini gli gridaron contro la parola 'Ansaldo.' La Società Ansaldo era allora in Italia il più importante complesso per la fabbricazione di armi. Per le imprese di produzione di munizioni e per i capi militari la fine della guerra era arrivata all'improvviso e proprio al momento in cui si trovavano al vertice della loro efficienza. Era stata una sorpresa spiacevole. Tutto ciò che servisse a mantenere la gente in agitazione e potesse portare a delle complicazioni internazionali serviva ai loro interessi. Mussolini e i suoi fascisti, così come i nazionalisti, erano i gruppi su cui i fabbricanti di armi e i capi militari potevano fare il più sicuro affidamento per tenere il paese in uno stato di agitazione. Nel 1919 il quotidiano socialista "Avanti!" affermò che i capi militari acquistavano il "Popolo d'Italia" a migliaia di copie e lo facevano distribuire tra i soldati. Mussolini non negò il fatto, e si limitò a dire che i capi militari eran liberi di fare quel che volevano. I capi militari speravano che i soldati, leggendo il giornale di Mussolini, assorbissero le idee nazionaliste respingendo quelle rivoluzionarie; invece i soldati assorbirono le idee rivoluzionarie e respinsero quelle nazionaliste. Più tardi i capi militari rigettarono sul 'bolscevismo' la colpa dello stato d'animo della truppa, invece di incolpare se stessi per la propria stupidità. Era convincimento generale in Italia che oltre dalla Società Ansaldo, il quotidiano di Mussolini ricevesse aiuti da parte di altri industriali. Infatti, non appena la guerra fu finita, gli industriali cominciarono a chiedere che il governo, in accordo con la dottrina del "laissez-faire", abolisse tutte le restrizioni imposte alle attività private durante la guerra, e abbandonasse tutte le sue funzioni che non erano strettamente politiche; contemporaneamente chiesero che il governo proteggesse le industrie mediante tariffe doganali, sussidiasse la marina mercantile, favorisse l'uso del combustibile nazionale cessando l'importazione di carbone dall'estero, e così via. Tali richieste facevano a pugni con la politica del "laissez-faire"; ma gli industriali non ci vedevano niente di contrastante: il "laissez-faire" e l'intervento statale si contraddicevano nei libri degli economisti, non nelle tasche degli industriali. Mussolini appoggiava tale campagna, i suoi servigi meritavano un premio. Se non avesse potuto approfittare di questa entrata, non sarebbe stato in grado di annunciare il 23 dicembre 1919 che nel prossimo anno il "Popolo d'Italia" avrebbe avuto 'i mezzi tipografici indispensabili ad un giornale di grande tiratura.' Certamente i ruggiti ultrarivoluzionari di Mussolini non avevano come scopo di far contenti i grossi industriali. Tuttavia il metodo di appoggiare elementi ultrarivoluzionari, numericamente scarsi, i quali dall'interno e dall'esterno indeboliscano le organizzazioni radicali numericamente più forti, più moderate, meglio organizzate e quindi più efficienti, è una vecchia tattica dei partiti conservatori. Aristofane, l'autore comico greco del quinto secolo avanti Cristo, nella sua commedia "I Cavalieri" ci mostra il partito aristocratico di Atene che, per insidiare il potere del demagogo Cleone, assume un venditore di salsicce che era capace di urlare più forte dello stesso Cleone : 'Se lo superi,' essi dicono, 'la torta è nostra.' Questo spiega perché non soltanto Mussolini ma anche gruppi locali fascisti sparsi furono foraggiati dagli industriali (19).
Nonostante il baccano che Mussolini andava facendo sul suo giornale, la sua influenza in Italia nel 1919 era di poco o di nessun conto; nelle elezioni generali del novembre 1919 i candidati fascisti e futuristi raccolsero in Lombardia soltanto 5000 voti su di un totale di 350000, di cui 90000 andarono a Turati, leader dei socialisti.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO SETTIMO. 1. Le ferite di Mussolini sono diventate il soggetto di una eroica saga. Margherita Sarfatti scrisse: «'E' moribondo,' dissero subito a Milano. 'Forse, già morto a quest'ora.' Poi, vennero raccapriccianti particolari: quarantadue ferite, per più di ottanta centimetri complessivi, il corpo tutto piagato e bruciacchiato, una moltitudine di schegge conficcate nella carne, come le freccie di un San Sebastiano» (1). Il "Morning Post" di Londra del 4 ottobre 1926: scrisse: 'Mussolini cadde, sul fronte italiano, pieno di ferite come Cesare, e mentre giaceva avvolto di fasce ebbe senza dubbio tutto il tempo di considerare la vera filosofia della pace.' La verità è che, secondo il racconto che Mussolini fa nel suo "Diario", la lunghezza lineare di tutte le quarantadue ferite raggiungeva complessivamente gli 80 centimetri, il che significa che ciascuna era in media inferiore a due centimetri; se due di esse erano tanto ampie che potevano accogliere il pugno di un uomo, è ovvio che queste due da sole prendevano quasi tutta la lunghezza, e le altre quaranta ferite devono essere state superficiali e quasi invisibili. Non c'è proprio ragione quindi per il chiasso della Sarfatti per delle ferite che non erano niente di grave in una guerra dove mezzo milione di soldati italiani hanno perduto la vita. Si deve aggiungere che le ferite di Mussolini sarebbero guarite assai più in fretta, se il suo sangue non fosse stato infettato dalla sifilide. Nel tempo in cui Mussolini era all'ospedale, il Re si recò a visitarlo. Secondo il resoconto pubblicato nel "Diario" di Mussolini, il Re gli disse: 'Ed oggi, dopo tante prove di valore, è rimasto ferito' (2) Così a Mussolini furono ufficialmente accreditate 'tante prove di valore' che non c'erano mai state; di conseguenza, la Sarfatti non si lasciò sfuggire l'occasione per esaltare il suo eroe; essa ci racconta che anche al di fuori del suo battaglione si era diffusa la voce che Mussolini 'aveva tanto fegato': la sua specialità 'era il rilancio delle bombe prima che esplodessero, un gioco pericoloso'; ma malgrado il suo impareggiabile ardimento, Mussolini 'a tempo e luogo sa essere prudente.' (3) La Sarfatti non si chiede mai perché tanto impareggiabile ardimento nel rilanciare le bombe prima che esplodessero non venne mai riconosciuto dai superiori di Mussolini, e perché nessuno pensò mai di concedere ad un guerriero così eroico e conosciuto una medaglia d'oro, o d'argento, o anche di bronzo. Pochi giorni dopo la visita del Re, degli aeroplani austriaci bombardarono l'ospedale (4). La signora Sarfatti è positivamente sicura che gli austriaci abbiano bombardato l'ospedale per liberarsi di Mussolini e vincere la guerra: 'Subito apparve dal cielo un aeroplano, che avanzò per bombardare l'ospedale esattamente individuato, dove giaceva questo nemico che tanto profondamente era odiato e temuto' (5). Il 23 febbraio 1932, il segretario del Guf di Torino, mentre si celebrava il quindicesimo anniversario del giorno in cui Mussolini era stato ferito, rendendo così la sua 'offerta di sangue alla patria,' dette il seguente resoconto di quanto era successo durante il bombardamento dell'ospedale:
«Gli austriaci, saputo che il loro più fiero avversario giaceva sanguinante nella scuola di Ronchi, giubilanti di gioia feroce, inviarono gli aeroplani a finirlo. Rombo di esplosioni, schianto di bombe, fragore di macerie ruinanti, urla di feriti inchiodati da nuove piaghe ai letti: ma il nemico mancò all'auspicatissimo colpo. Ancora una volta sul capo del Romagnolo era scesa protettrice la mano trafitta di Gesù. Nessuna forza umana poteva ormai arrestare i prodigi che già per lui maturava il destino» (6). Queste sono davvero delle volgarità; ma servono a mostrare come è che si manipolano le saghe e come finiscono per essere accettate come storia. 2. Nel marzo del 1919, parlando ad un primo nucleo di suoi seguaci a Milano, Mussolini annunciò che entro due mesi in tutta Italia sarebbero sorti un migliaio di Fasci; ai primi di luglio il livello delle sue aspettative era sceso da 1000 a 300, ma anche queste 300 sezioni sarebbero nate 'quanto prima,' e solo nelle principali città: 'Il fascismo non si può diffondere fuori delle città.' Nell'ottobre del 1919, al primo congresso nazionale dei Fasci a Firenze, i fascisti dichiararono che esistevano già 137 Fasci, e che 62 erano in via di costituzione, e il totale degli iscritti si disse che ammontava a 40000; ma secondo la relazione presentata al congresso fascista del novembre del 1921, nell'ottobre del 1919 i Fasci erano soltanto 20 e gli iscritti 17000 (7). Questa ultima cifra è certamente inventata; se fosse stato vero, ogni Fascio avrebbe avuto una media di 850 iscritti, cosa inaudita nell'Italia del 1919. In un discorso tenuto il 9 marzo 1924, Mussolini affermò che alla fine del 1919 i fascisti di tutta Italia 'non arrivavano a 10000' (8). Nel "Popolo d'Italia" del 23 mazzo 1929, il segretario amministrativo del partito affermò che al 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti. Quest'ultima cifra sembra essere quella esatta; le altre indicano probabilmente non i membri effettivi dei Fasci ma i simpatizzanti fascisti, secondo un calcolo approssimato.
CAPITOLO OTTAVO. IL PARTITO POPOLARE. Una nuova organizzazione politica si offrì al popolo italiano come la sola capace di svolgere un programma di radicali riforme politiche e sociali senza scosse violente: il partito popolare italiano. Nel decennio precedente alla guerra, solo in casi eccezionali i cattolici avevano votato per candidati propri, di regola avevano votato per i candidati conservatori contro i socialisti o altri ben noti anticlericali. Durante la guerra, crescendo nel paese lo scontento contro di essa, si resero conto che non gli conveniva di continuare a comportarsi come una appendice della vecchia coalizione parlamentare giolittiana. Tra i soldati vi era grande eccitazione per le aspettative immense; i giovani preti, che durante la guerra avevano prestato servizio nelle trincee come cappellani, si sarebbero rifiutati in modo reciso di fare da galoppini elettorali ai vecchi politicanti. Le organizzazioni cattoliche del periodo prebellico tendenzialmente conservatrici non potevano smuovere sul piano dell'azione politica le agitate masse italiane. Perciò, nel gennaio del 1919, nacque il partito popolare italiano come una formazione del tutto nuova. Le organizzazioni cattoliche del periodo prebellico erano state in ogni diocesi sotto il controllo del vescovo, e in conclusione del Vaticano. Il nuovo partito si asteneva dal definirsi 'cattolico,' e negava persino di essere un partito 'religioso,' proclamandosi partito 'politico,' che tuttavia intendeva uniformare la sua condotta 'ai saldi principi del cristianesimo.' Essendo un partito politico e non religioso, era autonomo nei confronti delle autorità ecclesiastiche. Delle vecchie organizzazioni cattoliche, la 'Unione elettorale cattolica,' che prima della guerra aveva sostenuto i candidati della coalizione parlamentare giolittiana nei casi in cui non aveva presentato candidati propri, scomparve senza che nessuno si chiedesse che cosa ne era successo; la 'Unione economico-sociale,' che prima della guerra raggruppava i sindacati, le società cooperative, le banche e in genere tutte le organizzazioni economiche controllate dai cattolici, fu ufficialmente sciolta dal Vaticano, e i sindacati formarono una 'Confederazione italiana dei lavoratori,' mentre le società cooperative si raccolsero in tre diverse federazioni nazionali, la prima dei consumatori, la seconda dei produttori, e la terza delle banche. La confederazione e le tre federazioni si allearono al partito popolare. Rimanevano fuori del partito popolare alcune organizzazioni minori del periodo prebellico, come la 'Società della gioventù cattolica italiana,' la 'Unione delle donne cattoliche italiane,' che erano sotto il controllo di una 'Giunta centrale dell'Azione cattolica' e in conclusione del Vaticano (1). In tal modo venne chiaramente posta in luce la differenza tra le organizzazioni legate al partito popolare e autonome nei confronti delle autorità ecclesiastiche, e le organizzazioni cattoliche dipendenti dalle autorità ecclesiastiche. Il partito popolare condannava l'imperialismo e sosteneva la Società delle Nazioni, il disarmo, l'abolizione del segreto dei trattati; in politica interna voleva il suffragio universale anche per le donne, la proporzionale, una legislazione sociale che avesse come scopo l'ammissione dei lavoratori al possesso dei mezzi di produzione e l'aumento del numero di piccoli proprietari, una lotta più attiva contro l'analfabetismo, e libertà per individui, associazioni e enti locali dalla burocrazia statale oppressiva e centralizzata. A coloro che condannavano la guerra e i responsabili di essa, questi cattolici che erano stati contrari all'intervento dell'Italia in guerra ricordavano il proprio passato e salutavano Papa Benedetto Quindicesimo, che nel 1917 aveva inutilmente cercato di fermare la 'inutile strage' (secondo le parole usate dal papa in
persona); a coloro che erano stati favorevoli alla guerra ed erano fieri della vittoria, i cappellani militari e i giovani reduci mostravano le loro medaglie al valore e le loro ferite e mutilazioni; a quanti non volevano ritrovarsi ad un'altra guerra, il programma del nuovo partito prometteva una politica di pace sotto le ali della Società delle Nazioni. Ciò tuttavia non vietava ai cattolici di tendenza nazionalista di chiedere la Dalmazia, l'Asia Minore, l'Etiopia e quanto più si potesse. Molti organizzatori provenivano dal clero secolare e regolare, insieme a giovani che da poco avevan lasciato l'esercito. Nel marzo del 1919 a Napoli, 350 tra canonici, parroci e preti tennero una riunione in cui decisero di iscriversi in massa al partito popolare (2). La stessa cosa accadde un po' dovunque. Ma dato che il partito non era cattolico e neppure religioso, tutti i non-cattolici che accettavano i saldi principi del cristianesimo potevano entrarvi. Vi furono degli ebrei che ne chiesero l'iscrizione e che candidamente cercarono di esserne candidati nelle elezioni generali. Il nuovo partito fece fortuna con una sorprendente rapidità. Nel 1914 in Italia i cattolici controllavano coi loro sindacati non più di 42000 lavoratori nelle industrie e 65000 nell'agricoltura (3). Alla fine di ottobre del 1918, gli iscritti ai sindacati cattolici erano 162000; nel marzo 1919, la Confederazione italiana dei lavoratori contava 200000 iscritti (4); nell'autunno del 1920 gli iscritti erano saliti a 1.189.000 (5); nel giugno del 1919, al primo congresso nazionale del partito, erano rappresentate 850 sezioni con 55895 iscritti; alla fine del 1919 le sezioni ammontavano a 2700 con 100000 iscritti (6). Dapprima il nuovo partito fu accolto con favore dai vecchi gruppi dirigenti, che speravano di servirsene come 'massa di manovra' contro i socialisti, come avevan fatto con le organizzazioni elettorali cattoliche del periodo prebellico (7). Ma ben presto i 'liberali' furono delusi (8). Nell'estate del 1919 questi 'liberali' insieme con i conservatori cattolici cominciarono a lamentarsi di un 'bolscevismo nero'. (9) Non avevano del tutto torto. Ben presto nel movimento popolare si fecero avanti qua e là uomini che dettero inizio a una vivace concorrenza coi socialisti sotto la bandiera di Cristo invece che quella di Lenin. Nell'agosto del 1919, nel villaggio di Calusco (prov. di Bergamo) i contadini si riunirono al suono delle campane e assediarono i figli di un proprietario cattolico, il conte Medolago Albano, per dodici ore, finché questi da Bergamo mandò a dire che accettava incondizionatamente le condizioni richieste dai contadini (10). Non furono pochi i casi di questo genere nel corso del 1919 e 1920. Tuttavia, se si vogliono esaminare i fatti obiettivamente, si deve tener presente che in Italia, ,come ovunque, negli anni immediati del dopoguerra gli stessi conservatori erano spesso più accesi nei loro modi di esprimersi di molti rivoluzionari di professione (11). Ognuno prometteva tutto a tutti, e chi si provava a suggerire calma e pazienza veniva tagliato fuori da coloro che strepitavano a favore dei provvedimenti più estremi. Il solo mezzo per mantenersi in contatto con le masse e sollevarle dal loro stato di amarezza era quello di indulgere sino a un certo grado alle loro convulsioni. Un partito come il partito popolare che traeva le sue reclute tra larghe masse di popolo di tutte le condizioni sociali era costretto a mostrare una certa tendenza o verso la estrema sinistra o verso la estrema destra. Non è giusto, giudicando l'operato del partito popolare, considerare soltanto la sua estrema sinistra, ignorando il fatto che il direttorio del partito cercò di tenerla a freno, e quando si dimostrò necessario sconfessò completamente le sue azioni (12) La vera colpa del partito popolare - colpa imperdonabile agli occhi dei conservatori, sia di quelli 'liberali' che di quelli cattolici fu di non essersi unito con le classi ricche contro le organizzazioni dei lavoratori. Agli occhi dei conservatori ogni sciopero era 'bolscevico,' sia che fosse promosso dai 'bianchi,' cioè dai democratici-cristiani, che dai 'rossi,' cioè dai sindacalisti, e anche se a tali scioperi non si accompagnava nessun atto di violenza, del genere di quelli di cui avevan fatto esperienza i figli del conte Medolago Albano. La bandiera non faceva una gran differenza, quando sia gli uni che gli altri chiedevano gli stessi aumenti di salari e
le stesse riduzioni di orari di lavoro. Se Gesù Cristo si rifiutava di fare il carceriere di coloro che si dovevano guadagnare il pane quotidiano col sudore della fronte, anche Gesù Cristo diventava un 'bolscevico.' Quelli che vogliono affogare il cane dicono sempre che il cane è rabbioso. Sta di fatto che il partito popolare impedì che il partito socialista raggiungesse un dominio incontrastato sulle masse contadine. Di 1.189.000 iscritti nel 1920 alla Confederazione dei lavoratori controllata dai popolari, 945000 erano mezzadri, piccoli affittuari e piccoli proprietari. Di 2.150.000 iscritti nel 1920 ai sindacati socialisti, quelli appartenenti alle classi agricole erano non più di 750000. Se non ci fosse stato il partito popolare, il controllo dei socialisti sui contadini sarebbe stato schiacciante, come lo era sui lavoratori urbani. I grandi proprietari terrieri, i banchieri e i nuovi ricchi, che nel 1919 e 1920 appoggiarono il partito popolare, fecero un buon affare ed un calcolo intelligente: impiegarono i loro denari e la loro fede cattolica ad un tasso di interesse molto alto. Pur svolgendo un tale compito, certamente di grande importanza ma negativo, il partito popolare non aveva forza sufficiente per una azione positiva indipendente. Nelle città esso non ebbe mai una influenza preponderante: i suoi seguaci erano quasi esclusivamente agricoltori dell'Italia settentrionale e centrale. In queste regioni le popolazioni agricole sono sparse per la campagna; il parroco vive in contatto con esse, conosce la loro mentalità e i loro bisogni, e se è un uomo buono ed attivo nel campo dei servizi sociali, può facilmente diventare il leader della comunità rurale oltre che il ministro dei sacramenti. Nel Mezzogiorno le condizioni sono del tutto diverse; qui generalmente i contadini vivono in paesi discretamente grandi; i braccianti escono dal paese al mattino per recarsi a lavorare nei campi, e fanno ritorno alla sera, o alla fine della settimana, o dopo diverse settimane di assenza. Il parroco non può raggiungere su di essi quel controllo che viene da un contatto personale continuo; egli non è in grado di conoscere uno per uno più di una modesta parte della sua sovrappopolata parrocchia. Inoltre il clero del Mezzogiorno è meno educato, meno austero e più preoccupato degli interessi propri e di quelli della propria famiglia del clero del Nord. Anche in questo campo si dimostra l'arretratezza del Mezzogiorno. Di conseguenza, così come nei grossi centri urbani di tutta Italia, il Mezzogiorno era un terreno sterile per il clero cattolico, a parte i casi di alcuni preti di eccezionale intelligenza e forza morale che qua e là svolgevano tra il popolo una funzione di leaders sociali. In tali condizioni il partito popolare non raccolse mai sotto le sue bandiere più di un quinto della popolazione politicamente attiva. Avrebbe dovuto allearsi con altri partiti per svolgere il suo programma, o alcuni punti del suo programma. Qui le difficoltà serie gli venivano dall'interno e dall'esterno. La massa dei suoi seguaci era formata prevalentemente da quella classe che in Italia si dice 'popolo minuto,' e che nella sua maggioranza era nata e cresciuta democratica. Il segretario nazionale del partito, un prete siciliano, Don Luigi Sturzo, condivideva sinceramente i sentimenti dei suoi seguaci e godeva tra loro di grande prestigio. Ma il partito era appesantito anche da tutti quei conservatori che nel periodo prebellico avevano controllato il movimento politico cattolico. Questi formavano soltanto una piccola minoranza a confronto con il 'popolo minuto' e con il basso clero; ma essi godevano della fiducia della maggioranza di cardinali, vescovi e alti funzionari del Vaticano. Erano aristocratici, grossi proprietari terrieri e altri personaggi solenni, ben noti per le cariche pubbliche che una volta avevano ricoperto. Essi potevano sostenere le spese delle campagne elettorali, avevano tempo da dedicare alla politica, conoscevano tutte le strade e tutti i mezzi attraverso i quali un uomo politico al momento buono compare nella posizione strategica, ogni volta che si deve scegliere un candidato per la Camera, un ente locale, o l'esecutivo nazionale del partito. Amministravano le banche legate al partito, e attraverso di esse controllavano molte società cooperative. La più importante di
queste banche e la più corrotta era il Banco di Roma, che foraggiava i due più importanti giornali del partito: il "Corriere d'Italia" di Roma, e l'"Avvenire d'Italia" di Bologna. Nei circoli non-cattolici si diceva che il partito popolare era nato portandosi addosso il cancro del Banco di Roma. Anche gli altri quotidiani, il "Momento" di Torino, l'"Italia" di Milano, e il "Messaggero Toscano" di Pisa, erano tenuti in vita dai conservatori cattolici a spese delle banche locali. Come un deputato cattolico ebbe a dire più tardi, 'sotto la bandiera del partito popolare italiano non c'era un partito solo, ma due: due partiti cattolici che, in un memorabile momento storico, si fusero' (13). Questa duplice natura del partito fu una causa permanente di conflitto interno e, in ultima analisi, di azione incerta e inefficace. Il partito era una macchina in cui un gran numero di piccoli ingranaggi giravano in una direzione, mentre alcuni grossi ingranaggi giravano nella direzione opposta, disturbando o paralizzando del tutto il lavoro dei piccoli. Il partito non riuscì mai a scendere dalle nuvole di astrazioni filosofiche e morali alla terra ferma di un programma definito di ampie riforme che costringesse gli altri partiti a prendere posizione e a combattere pro o contro. Posto che il partito doveva allearsi con altri partiti se voleva svolgere un'opera efficiente, l'ala conservatrice del partito era pronta a venire a patti con la destra della coalizione parlamentare giolittiana, continuando la politica cattolica di prima della guerra. Nel maggio del 1919 un congresso cattolico che si tenne nel Mezzogiorno, e al quale parteciparono tre arcivescovi e quattordici vescovi, chiese che alle prossime elezioni generali i cattolici non mettessero avanti dei candidati propri, ma sostenessero i gruppi 'nazionali,' cioè i conservatori e i nazionalisti (14). Se i leaders del partito avessero seguito questa strada, avrebbero perduto il loro esercito. La vecchia coalizione giolittiana era screditata e impopolare. Il nuovo partito era sorto proprio perché era diventato necessario rompere con la tattica delle vecchie organizzazioni cattoliche. Rimanevano i partiti che erano, o dichiaravano di essere, democratici: la sinistra della coalizione giolittiana, i socialisti riformisti, i repubblicani, i socialisti ufficiali. Qui sorgevano difficoltà insormontabili. In Italia l'unità nazionale e le libere istituzioni erano state create e mantenute durante tutto il diciannovesimo secolo attraverso una dura lotta con il Vaticano, l'alto clero, e quella parte del basso clero e della popolazione che formavano il partito 'clericale,' un partito non solo conservatore, ma assolutamente reazionario. Nell'ultimo decennio del diciannovesimo secolo, sotto il pontificato di Leone Tredicesimo, c'era stato un promettente inizio di 'democrazia cristiana'; ma Pio Decimo, al principio del secolo, aveva soffocato il movimento e aggregato le organizzazioni cattoliche ai gruppi conservatori in tutte le elezioni sia nazionali che locali. Perciò, le correnti anticlericali che risalivano all'epoca del Risorgimento erano sempre vive ed attive all'interno dei partiti democratici, e spesso prendevano la forma di un odio cieco e settario. Per quanto il partito popolare insistesse nel chiamarsi democratico, non poteva far sì che il popolo dimenticasse il recente passato del movimento cattolico, dato specialmente che molti dei suoi vecchi leaders erano bene in vista nelle posizioni strategiche del nuovo partito. C'era anche un'altra ragione che rendeva difficile, per non dire impossibile, una intesa tra il partito popolare e i partiti democratici anticlericali. Era la questione romana. Prima del 1859, il papa era stato al tempo stesso capo della Chiesa cattolica, una organizzazione religiosa internazionale, e sovrano dei territori dell'Italia centrale. Secondo la dottrina cattolica, la sovranità territoriale era necessaria al papa per garantire della sua libertà spirituale come capo della Chiesa cattolica internazionale. Tra il 1859 e il 1870, tutti i territori del Papato furono annessi al regno d'Italia, e quando Roma, capitale dello Stato pontificio, il 20 settembre 1870, venne occupata dalle truppe italiane, il papa insieme alla sua corte si ritirò nel cosiddetto Vaticano, un
complesso di edifici, giardini e altri terreni, che coprono un'area di circa 44 ettari sulla riva destra del Tevere. Nel marzo del 1871 il Parlamento italiano approvò una legge, la 'legge delle guarentigie,' secondo la quale la persona del papa, come quella del Re, era sacra e inviolabile. Il papa era autorizzato a 'godere dei palazzi apostolici Vaticano e Lateranense' e di Castel Gandolfo, nei dintorni di Roma; aveva il potere di mantenere una guardia per la sua persona, e agli inviati accreditati presso di lui erano concesse le immunità diplomatiche; il governo italiano si asteneva da qualsiasi giurisdizione sopra il Vaticano e dall'interferire con l'amministrazione della Chiesa cattolica nel mondo. La legge prevedeva inoltre che al papa fosse concessa la dotazione annua di lire 3.225.000 per il mantenimento della sua corte e del servizio diplomatico. In tal modo il papa rimaneva capo della Chiesa, ma era privato della sovranità territoriale che era considerata come una garanzia necessaria alla sua libertà. Era un sovrano spodestato, che viveva con la sua corte nel cuore del suo antico stato, circondato da coloro che lo avevano privato dei suoi beni. Continuava a godere tutti i privilegi di un sovrano indipendente, ma non poteva reclamare come sua proprietà legale neppure il palazzo in cui viveva. Il governo italiano gliene garantiva soltanto l'uso ma si riservava per esso il possesso della proprietà. Al posto delle sue garanzie territoriali gli era stata offerta una legge con la quale il governo italiano si impegnava al rispetto della sua libertà. Ma lo stesso Parlamento che aveva approvato la 'legge delle guarentigie' avrebbe potuto abolirla e assoggettare il papa ad una nuova legislazione che interferisse con la sua libertà. Papa Pio Nono si rifiutò di riconoscere come legittimo questo atto legislativo decretato senza il suo consenso, e non si lasciò sfuggire occasione per reclamare i territori sui quali una volta aveva esercitato la propria sovranità. Rifiutò la dotazione annua offertagli dal governo italiano e fece appello ai cattolici di tutto il mondo perché provvedessero ai bisogni della Santa Sede mediante l'obolo di S. Pietro. Quando Pio Nono morì, nel febbraio del 1878, il suo successore, Leone Tredicesimo, rifiutò di dare la benedizione tradizionale del nuovo pontefice al popolo in attesa in piazza San Pietro. Dichiarò che si considerava un prigioniero in terra straniera. Proibì ai fedeli in Italia di recarsi a votare o di presentarsi come candidati al Parlamento. Ai sovrani dei paesi cattolici era proibito di recarsi a Roma ufficialmente per render visita alla corte italiana. Fuori d'Italia, i cattolici conducevano una sistematica campagna di propaganda contro l'Italia, usurpatrice dei diritti della Santa Sede. Sino a che in qualche modo non fosse stato restaurato il potere temporale del papa, l'Italia doveva essere considerata una potenza illegittima, senza uno stato legale nella comunità internazionale. Con questi sistemi il Vaticano mirava a mantenere viva la questione romana. Malgrado tutte queste difficoltà, l'Italia riuscì a vivere e a rafforzarsi. D'altra parte, tutti i governi italiani, indipendentemente dal partito al potere, ebbero cura di rispettare scrupolosamente la libertà del papa come capo della Chiesa; nessun vescovo fuori d'Italia poté mai lamentare che il governo italiano avesse ostacolato le sue comunicazioni col papa; nessun ambasciatore dei governi stranieri presso la Santa Sede poté mai asserire che le sue relazioni col papa erano state ostacolate, o le sue immunità diplomatiche violate dal governo italiano. Poco a poco divenne chiaro che la condizione del papa era più comoda dopo il 1870 di quanto non lo fosse prima. Il papa non aveva più la responsabilità di governo su un territorio popolato da sudditi, una parte dei quali non intendeva assolutamente obbedirgli; d'altra parte egli godeva di fatto di una completa libertà, anche se questa non era garantita da una sovranità territoriale. E mentre era immune da tutte le responsabilità che gravano le spalle dei governi civili e godeva veramente di una libertà completa, poteva al tempo stesso lamentarsi, adducendo che la sua libertà essenziale non era garantita, poteva presentarsi al mondo con l'alone romantico di un prigioniero, che era stato vittima di
un atto di violenza ma non si inchinava alla violenza, e al contrario continuava a levare proteste per il rispetto dei suoi diritti. Il papa non avrebbe potuto trovare per la questione romana soluzione più comoda della situazione in cui si trovava. Tali circostanze spiegano perché Pio Decimo (1903-1914), il successore di Leone Tredicesimo, cominciò lentamente ad abbandonare la posizione di protesta intransigente che per trenta anni era stata mantenuta da Pio Nono e da Leone Tredicesimo. Nel 1904, sotto forma di eccezione, permise che i cattolici italiani partecipassero in alcuni collegi elettorali alle elezioni generali. Nel 1909 e nel 1913 le eccezioni si moltiplicarono; i cattolici furono eletti deputati e giurarono fedeltà allo Statuto. Allo scoppio della guerra mondiale gli imperi centrali, da una parte e le potenze dell'Intesa, dall'altra, erano desiderosi che l'Italia fosse loro alleata. Da nessuna delle due parti i cattolici si fecero scrupolo di prendere in considerazione per il loro tornaconto la carne da cannone italiana, anche se questa non aveva la benedizione papale. L'Italia si unì all'Intesa. Di conseguenza i cattolici tedeschi ed austriaci cominciarono a mostrare molto interesse per la questione romana. I cattolici francesi ed inglesi trovarono più opportuno ignorarla. Dato che la Germania e l'Austria persero la guerra, durante i negoziati di pace nessuno sollevò la questione romana. Perdute tutte le speranze di mantenere viva la questione romana sia in Italia che all'estero, Benedetto Quindicesimo e il cardinal Gasparri, suo segretario di stato, decisero di negoziare un accordo con il governo italiano. Le trattative furono aperte nella primavera del 1919. Il papa si sarebbe contentato del solo riconoscimento esplicito della sua sovranità sul Vaticano (15); dato che il governo italiano non aveva mai pensato di avere una qualche autorità sul Vaticano, Orlando accettò la richiesta del papa. Le trattative, interrotte nel giugno del 1919 dalla caduta del gabinetto Orlando, furono riprese dal gabinetto che gli succedette. La strada per una definizione finale della questione era così aperta. Tuttavia le trattative rimasero assolutamente segrete; esse furono rese note solamente nel 1929. Nel 1919, sebbene avesse perduto completamente ogni tensione, la questione romana era sempre aperta. Certamente i leaders del partito popolare più di ogni altro desideravano che tra la Santa Sede e il governo italiano fosse raggiunta la pace; ma essi non sapevano che il papa era pronto a rinunciare in modo esplicito alla sua sovranità sopra i suoi vecchi territori, eccettuata l'area del Vaticano; anche se lo avessero saputo, non sarebbero stati autorizzati a rivelare la esistenza delle trattative, che dovevano rimanere segrete. D'altra parte, se avessero posto sulla loro bandiera la questione romana senza proporre per essa una soluzione definitiva, avrebbero sollevato il sospetto che il Vaticano si stesse preparando, per riportare di nuovo a galla tutte le sue tradizionali pretese. Ne sarebbero derivate delle reazioni violente, nella tumultuosa atmosfera del dopoguerra, non solo da parte dei partiti anticlericali, ma anche di quei 'liberali' che avevano sempre sostenuto una intesa con i cattolici. I leaders del partito popolare risolsero il problema ignorandolo; si limitarono a chiedere che le relazioni tra Stato e Chiesa fossero riesaminate, e meglio garantita la libertà della Chiesa nell'esercizio della sua missione spirituale in tutto il mondo: parole che dicono tutto e non dicono niente. La "Civiltà Cattolica", rivista ufficiale del Vaticano, nel suo numero del 15 febbraio 1919, lamentava che nel programma del nuovo partito 'non vi è cenno esplicito (...) della piena libertà, sovranità e indipendenza del Papa, nel suo altissimo ministero.' Gli autori di un opuscolo pubblicato poche settimane dopo scrivevano: «V'è una grave lacuna (nel programma del P.P.I.). Manca in esso un accenno esplicito della piena libertà, sovranità ed indipendenza del Papa nel suo, altissimo ministero. Manca una coraggiosa e doverosa affermazione della necessità di risolvere la questione romana. (...) Come cattolici noi non possiamo prescindere dal Papa né ignorare la sua condizione attuale. Ed un partito che si ispira ai principi cristiani non
può trascurare il fatto doloroso che oggi l'indipendenza e la libertà spirituale del Pontefice non è a sufficienza guarentita. (...) In nome stesso della grandezza d'Italia il Partito nostro deve tendere alla soluzione della questione romana» (16). Al primo congresso nazionale del partito, nel giugno del 1919 due congressisti, il conte Vincenzo Reggio d'Aci e il conte Filippo Sassoli de' Bianchi cercarono di portare sul tappeto l'argomento del 'grave dissidio esistente tra Stato e Chiesa in Italia.' «Se il partito popolare - disse il conte d'Aci - vuole lo stato cristiano, deve volere che questo dissidio cessi. Non sta a lui dire come: vi e per questo la Suprema Autorità; ma bisogna portare fra le masse la coscienza della necessità di sciogliere questo conflitto. Nell'ordine del giorno dovrebbe essere inserita l'esistenza della questione romana e il desiderio che sia risolta» (17). A questo punto della cronaca, l'"Osservatore Romano" del 17 giugno 1919 dice: 'rumori e interruzioni.' I due conti capirono, e ritirarono la proposta. Questo silenzio su una questione che realmente esisteva e realmente avrebbe dovuto preoccupare il partito, sollevò sospetti anche tra i partiti anticlericali. A che cosa miravano i leaders del partito popolare? Tacevano oggi aspettando il momento buono per mostrare i loro artigli, o consideravano davvero la questione romana così sorpassata da non meritare la loro attenzione? La situazione politica avrebbe potuto diventare più favorevole al Vaticano in seguito all'influenza che il partito popolare aveva acquistato nel governo e nelle amministrazioni attraverso la sua attività elettorale e parlamentare. Che cosa avrebbe fatto allora il Vaticano? Era del tutto naturale che i partiti anticlericali fossero sospettosi di un movimento che, anche a proposito della questione romana, seguiva un linea di condotta oscura. Il partito popolare adottò come grido di guerra la parola 'libertà.' Chiedeva le 'libertà religiose contro ogni oppressione di setta'; libertà alla Chiesa 'per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo'; libertà per le scuole private mantenute dai cattolici che non potevano reggere la concorrenza delle scuole di stato; libertà per i sindacati controllati dai cattolici, che non potevano essere in grado di svilupparsi se il governo favoriva soltanto i sindacati socialisti. Non c'è dubbio quindi che il partito popolare chiedeva la libertà per i cattolici. Ma cosa ne pensava della libertà per i noncattolici? Don Sturzo sosteneva che il partito popolare chiedeva 'libertà per tutti'; tuttavia la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica non aveva mai accettato la 'libertà per tutti,' la Chiesa cattolica ammette soltanto la 'libertà per il bene,' cioè per quello che le autorità della Chiesa definiscono come 'bene.' Libertà di coscienza per tutti, libertà di culto per tutti, libertà di parola per tutti, libertà di stampa per tutti, libertà di insegnamento per tutti: queste 'libertà per tutti' sono sempre state condannate da tutti i papi come libertà di male, di errore, di disordine, di anarchia, di immoralità (18). Nei paesi in cui i cattolici non sono in grado di controllare i governi, la Chiesa 'tollera' la libertà per tutti; ma i cattolici devono servirsi di queste libertà concesse a tutti per raggiungere quel controllo del governo che è loro dovuto, e una volta ottenuto tale controllo devono servirsene per limitare, e quando è possibile sopprimere del tutto, la libertà del male (19). Il partito popolare si proclamava autonomo dalle autorità ecclesiastiche e dal Vaticano; ma il suo segretario generale era un prete cattolico, che non avrebbe preso l'iniziativa di creare il nuovo partito, e non ne sarebbe divenuto il segretario generale, se avesse previsto che i suoi superiori ecclesiastici avrebbero potuto condannarlo. Molti degli elementi più attivi del movimento popolare appartenevano al clero secolare o regolare, cioè erano uomini che, come Don Sturzo, erano legati ai loro superiori ecclesiastici non solo da quel dovere di obbedienza comune a tutti i cattolici, ma anche da quella particolare forma di disciplina che è peculiare al clero. La massa del
partito era formata da cattolici praticanti. La dottrina cattolica ufficiale insegna che il cattolico deve obbedienza alle autorità ecclesiastiche in tutte le questioni dogmatiche e morali, e non nelle questioni politiche. Ma dove finisce la morale e dove comincia la politica? Il papa è infallibile quando parla "ex cathedra" su questioni di dogma e di morale. Ma: egli non parla "ex cathedra". Al contrario, parla tutti i giorni per mezzo di encicliche, allocuzioni, lettere. Con maggiore frequenza del papa parlano i vescovi. La disobbedienza al papa o ai vescovi è come minimo un peccato di orgoglio, in quanto implica sfiducia verso le legittime autorità della Chiesa. Un non-cattolico può chieder consiglio alle autorità della sua chiesa, ma in "ultima istanza" è la sua coscienza individuale che detta la sua azione esclusivamente secondo la sua responsabilità. I doveri di un cattolico sono del tutto diversi; se vuole non cadere in peccato, deve obbedire all''insegnamento dottrinario' del papa e dei vescovi; tutt'al più gli è consentito di conservare il silenzio. Papa Benedetto Quindicesimo e il suo segretario di stato cardinal Gasparri né approvarono né proibirono la nascita del nuovo partito politico: lo ignorarono. Ma ignorandolo lo permettevano, o almeno lo tolleravano. Che cosa sarebbe successo il giorno che questa tolleranza fosse stata negata? Un prete giornalista riassumeva la situazione nei termini seguenti: «Trattandosi di materia molto delicata, bisognerà evitare di oltrepassare i debiti limiti. L'aconfessionalità del partito popolare non toglie che il nerbo principale delle forze popolari venga dal cattolicesimo; se quindi in base all'aconfessionalità vera o presunta, i dirigenti venissero a trovarsi in contrasto coll'autorità religiosa, non pochi credenti, posti nella situazione di dover scegliere tra la coscienza religiosa e la coscienza di partito, opterebbero per la prima. (...) Ecco perché praticamente conviene procedere coi piedi di piombo in materia dove l'autorità religiosa può, deve forse, dire la sua parola. Sotto questo riguardo l'aconfessionalismo del partito popolare dev'essere preso "cum grano salis." (...) Il partito popolare e un fatto inconcepibile senza la volontà permissiva della Santa Sede» (20). In altre parole, il partito rimaneva autonomo finché non faceva niente che fosse sgradito alle autorità ecclesiastiche, ma il giorno in cui queste dichiaravano che non potevano più approvare il suo operato, il partito si sarebbe trovato ad un bivio: o rinunciare alla propria autonomia e obbedire alle autorità ecclesiastiche, o affermare la propria autonomia e affrontare una condanna da parte delle autorità ecclesiastiche. Don Sturzo era convinto che in un regime di libertà per tutti, la Chiesa cattolica, non più protetta ma neppure screditata da privilegi legali, fidando sul vigore delle proprie idee e contando soltanto sulla forza di persuasione e di esempio, avrebbe conquistato lo spirito del popolo italiano. Quando venne la cattiva sorte, Don Sturzo dette prova della sua sincerità. Ma nel 1919 una prova del genere non era ancora stata offerta, e era legittimo chiedersi se la sua fede nella democrazia e nella 'libertà per tutti' non fosse destinata a scomparire non appena la situazione politica fosse mutata. Molti altri preti cattolici che, dopo la guerra 1914-18, furono in altri paesi europei leaders dei movimenti democratici cristiani (Seipel in Austria, Goos in Germania, Korosech in Yugoslavia, Tiso in Slovacchia) dovevano rivelarsi più tardi degli amici infedeli o dei veri traditori della democrazia. Anche in Italia, non appena cambiò il vento, si vide quanto fosse vacillante la fede democratica di molti leaders del partito popolare, che passarono armi e bagagli al partito fascista. Anche coloro che credevano alla integrità morale di Don Sturzo dovevano tener presente che Don Sturzo poteva scomparire ma che dietro a lui e al suo partito restava in piedi tutta l'organizzazione della Chiesa cattolica, pronta a tornare all'assalto con le sue tradizioni dottrinarie del tutto intatte. Perciò, i partiti che rimanevano fedeli alla tradizione anticlericale del Risorgimento italiano non avevano torto se rifiutavano di entrare in relazioni di buon vicinato con il
nuovo partito. Certamente ci fu in essi qualcosa di più che una calma visione dei pericoli reali; ci fu anche un odio irragionevole. Ma il partito popolare sollevava un sospetto insuperabile anche tra coloro che consideravano sorpassato l'odio anticlericale, e avrebbero accolto con favore un movimento democratico non più legato alla meschina e settaria mentalità anticattolica.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO OTTAVO. Un errore da cui deve liberarsi chi voglia capire qualcosa delle difficoltà che il partito popolare si trovò di fronte, e tutta la storia d'Italia, è quello che la popolazione italiana sia compattamente cattolica, e come tale obbediente al papa e al clero. Se si considerano come cattolici tutti coloro che al momento della nascita furono battezzati nella Chiesa cattolica, senza dubbio l'Italia è un paese cattolico; ma se come cattolici si intendono soltanto coloro che effettivamente fanno del loro meglio per dare alla società in cui vivono una impronta cattolica, allora è molto dubbio che la maggioranza del popolo italiano possa essere di fatto definita cattolica. Dal punto di vista religioso, gli italiani si possono dividere in cinque gruppi: 1) Non cattolici; 2) Indifferenti; 3) Idolatri; 4) Cattolici veri e propri; 5) Mistici. Al primo gruppo appartengono non soltanto i 10000 ebrei e i 125000 protestanti delle statistiche ufficiali, ma anche un gran numero di persone che sono state battezzate nella Chiesa cattolica, ma hanno perso qualsiasi fede religiosa, e professano principi anticlericali o addirittura l'ateismo. Nel 1911 fu fatto in Italia un censimento in cui veniva chiesta la religione. In tale censimento 870000 persone dichiararono di non avere 'nessuna religione,' mentre altre 653000 non si dettero la pena di rispondere. In tutta onestà, tale silenzio deve interpretarsi come un equivalente della risposta 'nessuna religione.' Di queste persone che esplicitamente o implicitamente dichiararono di non essere cattoliche, 900000 erano uomini, e 600000 donne. Degli 870000 italiani che dichiararono esplicitamente di non avere nessuna religione, circa 200000, cioè poco meno di un quarto, appartenevano alle regioni che avevan fatto parte dello Stato pontificio, sebbene tali regioni non contenessero che un dodicesimo della popolazione totale. Fu da questo gruppo di popolazione che, durante il secolo diciannovesimo e ventesimo, vennero gli anticlericali militanti. Tipico rappresentante di questi fu Mussolini, che sino al 1921 aveva fatto professione di ateismo, e con tutti i mezzi aveva sostenuto che si doveva distruggere la Chiesa cattolica. Il gruppo degli 'indifferenti' è formato da persone battezzate nella Chiesa cattolica e che professano alcune pratiche religiose esteriori: si sposano in chiesa, battezzano i figli, si dichiarano cattolici, e quando arrivano in punto di morte domandano i funerali religiosi per avere il biglietto d'ingresso per il paradiso. I nove decimi degli intellettuali italiani appartengono a questa categoria di 'battezzati indifferenti.' Una delle caratteristiche di questo gruppo è il loro 'anticlericalismo,' 'cioè la loro opposizione a tutti i tentativi della Chiesa e del clero di esercitare una influenza sulla vita politica e sociale del paese, e sulle scuole e gli istituti di educazione. Essi rifiutano di farsi comandare dal clero, e diventano fieramente anticlericali non appena si sentano infastiditi dalla Chiesa. La letteratura italiana dell'Ottocento è piena di spirito anticlericale; da Alfieri a Carducci, Roma papale è stata bersaglio di attacchi taglienti e di denigrazioni. Quando non sono del tutto anticattolici, questi intellettuali indifferenti sono cattolici, ma in un senso negativo, cioè non aderiscono a nessun gruppo cristiano non-cattolico. Non fanno professione di ateismo, perché nei loro cuori e nel loro spirito c'è un attaccamento a certe forme di religiosità che, con una certa frequenza, in età avanzata o in punto di morte, viene alla luce dalla profondità delle loro coscienze. Ma durante la loro vita, o almeno finché godono buona salute, non sono una forza attiva, ma piuttosto un passivo per la Chiesa cattolica italiana.
Giolitti fu un tipico rappresentante di questo gruppo. Il 30 maggio 1904, in un discorso alla Camera diceva: «Credo che il guardare con grande indifferenza un fenomeno di questo genere (l'immigrazione in Italia delle corporazioni religiose espulse dalla Francia) non sia indizio di debolezza. (...) Il principio nostro à questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno che volesse invadere i poteri dello Stato! Libertà per tutti entro i limiti della legge: questo è il nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori della Costituzione da un estremo, l'applichiamo a quelli che sono fuori dall'altra parte» (1). Quando fu sul punto di morte, nel 1928, dichiarò che voleva morire in seno alla Chiesa cattolica, così come era sempre vissuto, e chiese che gli venissero fatti i funerali religiosi. Molti lavoratori nelle città, quando non sono completamente irreligiosi, hanno di regola questa mentalità indifferente. Non sarà mai possibile, per un italiano di questo tipo, capire come mai un uomo di buon senso possa farsi cattivo sangue per gli affari del papa, invece d'andare a prendere una boccata d'aria buona o a giuocare una partita a carte nelle ore di riposo. Il folklore italiano è pieno di racconti in cui preti, frati e monache sono oggetto di riso. La poesia dialettale italiana prende spesso a bersaglio della sua satira in modo dilettevole preti, cardinali e papi. Il popolino di Roma è uno degli esempi più caratteristici di questo cattolicesimo indifferente e motteggiatore, e c'è un vecchio modo di dire: 'A Roma si fa la fede, ed altrove ci si crede.' Il gruppo degli 'idolatri' forma la massa della popolazione tra i ceti più bassi del Mezzogiorno, in quasi tutti gli antichi territori pontifici, e in buona parte della Toscana. I popolani che a Napoli insultano l'immagine del loro santo patrono chiamandolo 'vigliacco' quando tarda a compiere il miracolo dello scioglimento del sangue; i contadini che adorano la loro Madonna, ma considerano inferiore la Madonna dei paesi vicini, o credono e praticano la stregoneria, o compiono tutto il percorso all'interno di un santuario per recarsi a venerare l'idolo miracoloso leccando con la lingua il pavimento; la prostituta che nella sua 'stanza di lavoro' tiene una lampada perpetua davanti alla sacra immagine... Tutti questi idolatri si devono considerare cattolici? Non oserei rispondere in senso affermativo, non solo perché la fede e gli ideali della Chiesa cattolica non meritano questa offesa, ma anche perché le dottrine della Chiesa e l'insegnamento del clero non hanno nessuna vera influenza su questa parte idolatra della popolazione. Per essi i sacramenti non sono altro che riti magici, e il prete, dopo aver compiuto questi riti, è per essi un uomo come tutti gli altri, se è abbastanza fortunato da non essere considerato persona di dubbia moralità; e il papa è una specie di essere mitico, con il quale non hanno niente in comune; e mentre si comportano con generosità, tenuto conto della loro miseria, nei confronti dei santuari locali, al papa mandano poco o niente. Non bisogna però credere che gli idolatri siano degli esseri moralmente inferiori; di regola essi amano la loro famiglia, sono lavoratori, rifuggono dagli eccessi, e sono profondamente onesti. In mezzo a loro si trovano individui più o meno morali nella stessa proporzione che in ogni altro gruppo di popolazione. L'ignoranza e la superstizione sono malattie dell'intelletto, non del cuore. Ed eccoci finalmente ai cattolici effettivi, che accettano nella morale i canoni della Chiesa, e ad essi conformano la loro condotta, per quanto glielo consente la fragilità umana. Quanti sono in Italia i cattolici 'veri e propri?' Sarebbe assurdo dare dei dati definiti, ma ce ne possiamo fare un'idea se si guardano i risultati delle elezioni generali del 1919. Queste elezioni ebbero luogo con il suffragio universale e secondo il sistema
proporzionale, che permise a ciascun partito di raccogliere sotto la propria bandiera tutte le forze disponibili del paese. Il governo non esercitò nessuna pressione sull'elettorato, tanto che queste furono le sole elezioni italiane per le quali la Camera non dovette esaminare nessuna denuncia di interferenza governativa. Il partito popolare ebbe candidati propri in tutti i collegi, e fu appoggiato dal clero e da tutte le organizzazioni cattoliche: per quanto professasse di non essere un 'partito cattolico,' esso era il partito dei cattolici. Quindi questi ebbero la possibilità di esprimere tramite un plebiscito la loro volontà, di avere un'influenza sulla politica nazionale per mezzo di un partito che rappresentava le loro convinzioni politiche, sociali e morali. Esso raccolse 1.170.000 voti su 5.682.000 votanti, cioè circa un quinto del totale. I socialisti raccolsero 2.400.000 voti, cioè due quinti del totale, e il loro programma era fondamentalmente anticlericale, e i candidati tutte persone note per la loro ostilità alla Chiesa. Gli altri due quinti dei voti, 2.100.000, andarono agli altri partiti, tra cui i repubblicani, i socialisti riformisti, i più dei 'radicali,' e, ultimi per ordine ma non per importanza, i fascisti, tutti appartenenti alla tradizione anticlericale. Tutti gli altri erano per lo più indifferenti o idolatri. Insomma, non più di un quinto di tutta la popolazione italiana può essere considerata cattolica in senso 'vero e proprio.' Quattro regioni dell'Italia settentrionale, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, che nel 1919 contavano un terzo di tutta la popolazione italiana, dettero da sole al partito popolare 613000 voti, cioè la metà dei voti raccolti in tutta Italia. A questi 613000 voti le città più importanti contribuirono con appena 70000 voti, mentre i centri minori e le campagne dettero 540000 voti, ossia i sei settimi. Nelle quattro regioni più caratteristiche del Mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), che contavano un quinto di tutta la popolazione, il partito popolare raccolse solo 115000 voti, cioè un decimo del totale nazionale, e un nono del totale dei voti di quelle regioni. Anche qui i centri principali dettero appena 13000 voti, e gli altri nove decimi dei voti vennero raccolti nei centri meno popolati. In conclusione, questi dati mostrano che i cattolici 'veri e propri' si trovano specialmente nelle zone rurali, e in particolare nell'Italia settentrionale. Non pochi di questi cattolici effettivi appartengono a quel tipo che si potrebbe dire 'mistico'; se ne trovano specialmente tra le donne, di tutte le classi e condizioni sociali. Il basso clero italiano produce non di rado eroi sconosciuti, che vivono una vita di povertà e di sacrificio, esposti in molte zone all'ostilità di ambienti irreligiosi. I missionari italiani in terre non cristiane hanno fatto più della loro parte nell'opera di evangelizzazione. Gli osservatori superficiali non rilevano l'esistenza di questa 'Italia mistica.' Gli stranieri che si recano a Roma e vengono a contatto con i prelati intriganti del Vaticano o con gli intellettuali indifferenti del mondo laico ne concludono che tutti gli italiani sono cinici e irreligiosi. E un grosso sbaglio. Non tutti gli italiani sono a Roma. L'Italia mistica, l'Italia di S. Francesco, di S. Caterina da Siena, e di Savonarola, è ancora viva: nell'Ottocento produsse Don Bosco. I mistici italiani accettano il dogma senza discuterlo, ma non se ne interessano, e non amano che altri ne discutano neanche per difenderlo. Le controversie dogmatiche non servono alla salute dell'anima; ciò che conta per loro è ricevere i sacramenti, pregare la Vergine e i Santi che abbiano pietà di questa umanità infelice e peccatrice, e fare per quanto è possibile opere di bene. In Italia c'è un numero infinito di opere di carità tenute in vita dai mistici, che fioriscono col contributo quotidiano volontario del pubblico. Capita abbastanza spesso di trovare persone indifferenti o anticattoliche che danno il loro contributo a queste opere di bene, per l'ammirazione che hanno per gli uomini e le donne che dedicano ad esse in silenzio tesori di abnegazione e di gentilezza. Per la persona del papa i mistici hanno una vera e propria adorazione, e non oserebbero mai opporglisi. I protestanti inglesi possono farsi un'idea di questa devozione paragonandola al sentimento delle folle inglesi per il loro re. Ma per loro non è il papa come potenza terrena che conta; per loro il papa ideale sarebbe S.
Pietro che possedeva solo una barca e una rete da pesca. Quando il 25 luglio 1929 Pio Undicesimo apparve in Piazza San Pietro con la pompa di un sovrano orientale, uno di questi italiani mistici disse: 'Avrebbe fatto meglio a portare il viatico a un ammalato.' Appena mezz'ora prima aveva parlato del papa con emozione, come dell'essere in cui 'il corpo mistico della Chiesa prende forma reale e vivente.' L'Italia mistica non vuol sentir parlare di quanto accade a Roma; pensa che a Roma è bene non andare per non correre il rischio di perdere la fede. Di solito l'Italia mistica non si interessa di politica, che per la salvezza dell'anima è anche meno importante delle controversie dogmatiche. Queste persone sono di una grande bellezza morale, ma politicamente sono inerti. Tipi di questo genere si trovano spesso nei romanzi russi, per esempio Platone Karaiev di "Guerra e Pace". Ma talvolta accade che i mistici si interessino di politica; in questi casi, pur senza sfidare mai gli insegnamenti dogmatici della Chiesa, agiscono con una libertà che sconcerta e spaventa l'alto clero. Dante condannò severamente l'attentato di Nogaret e Sciarra Colonna contro la vita di Bonifacio Ottavo, in quanto Bonifacio era il Vicario di Cristo; ma riservò nel suo inferno un posto allo stesso Bonifacio Ottavo, in quanto lo considerava un papa simoniaco. Girolamo Savonarola è un altro esempio tipico di questo misticismo italiano. Nello spirito di questa grande razza di mistici è sempre esistita una netta separazione tra problemi religiosi, in cui l'autorità della Chiesa e del papa è indiscutibile, e problemi politici, in cui il cittadino deve prender consiglio solo dalla propria coscienza. Quando fu sul punto di morte, Cavour, che era stato scomunicato, mandò a chiamare il suo parroco, Padre Giacomo, e chiese di confessarsi. Padre Giacomo gli dette l'assoluzione, e venne per ciò chiamato a Roma per rendere conto del suo operato. Pio Nono gli intimò di riconoscere per scritto di aver mancato ai suoi doveri ecclesiastici. Padre Giacomo rispose che aveva agito secondo coscienza, e si rifiutò di fare la dichiarazione che gli veniva richiesta (2). Non era né un teologo né un politico di professione, era un mistico; nel dare l'assoluzione al suo penitente seguiva la sua coscienza e il buon senso, e non il diritto canonico. Forse un caso del genere, in Irlanda, in Polonia, nel Canada francese o anche negli Stati Uniti, sarebbe impossibile. Don Bosco, che fondò l'ordine dei salesiani ed è stato santificato, non si interessò mai del potere temporale del papa, per quanto tale potere venisse annientato proprio sotto i suoi occhi. I tre maggiori scrittori cattolici italiani dell'Ottocento furono Manzoni, Rosmini e Fogazzaro. Manzoni fu senatore del Regno, e votò in favore della soppressione del potere temporale in Roma, nonostante che il papa scomunicasse tutti coloro che favorivano e incoraggiavano tale 'usurpazione'; le opere di Rosmini furono messe all'Indice; Fogazzaro fu accusato di modernismo, e uno dei suoi romanzi messo all'Indice. Se fosse vero che l'Italia è un paese effettivamente cattolico, tutta la storia d'Italia nel secolo diciannovesimo sarebbe un enigma insolubile. Tra il 1848 e il 1880, le scuole furono sottratte al controllo del clero cattolico, il matrimonio religioso perse la sua validità civile, il clero venne privato di tutti i privilegi che reclamava secondo il diritto canonico, e la maggior parte delle sue proprietà furono confiscate, venne concessa la più ampia libertà di propagazione a tutte le fedi e le organizzazioni religiose, e finalmente - e non fu certo il fatto meno importante - il papa fu spogliato della sua sovranità sopra l'Italia centrale. Il papa scomunicò tutti coloro che ebbero parte in questa legislazione anticlericale, ma alle sue scomuniche nessuno prestò particolare attenzione. Durante il Risorgimento il movimento cattolico italiano reclutò le sue forze, o piuttosto le sue debolezze, soprattutto tra i seguaci delle vecchie dinastie, nell'alto clero mummificato, e fra quei politicanti litigiosi che si professavano fedeli alle concezioni assolutistiche di De Maistre. Tutta questa gente non dette un solo martire alla causa del papa. A Roma, nel settembre 1870, fu organizzata una dimostrazione di affetto per Pio Nono alla vigilia dell'entrata delle truppe italiane; una nuova dimostrazione si
ebbe dopo che le truppe italiane avevano occupato la città. Dato che a quel tempo Roma aveva 220000 abitanti, non era difficile ai militanti cattolici mettere insieme alcune migliaia di persone per dimostrare a favore di Pio Nono, e agli anticlericali militanti di raccoglierne altrettante per dimostrare a favore delle truppe italiane. In tutti e due i casi, probabilmente la maggior parte dei dimostranti era composta sempre dagli stessi curiosi, che non mancano mai quando si tratta di far baccano. Ma nessuno dei due partiti si credette in dovere di provocare un conflitto disturbando la dimostrazione del partito avversario. I volontari che combatterono sotto la bandiera pontificia tra il 1860 e il 1870, furono nella grandissima maggioranza svizzeri, francesi, irlandesi, spagnoli, austriaci, ma pochi italiani, e ancor meno abitanti degli Stati pontifici. Senza dubbio il 20 settembre 1870, giorno in cui le truppe italiane occuparono Roma, fu giorno di lutto per molti cattolici italiani effettivi. Ma nessuno di loro versò una goccia di sangue per vendicare i diritti del papa. I più si consolarono abbastanza facilmente, come quel parroco di Masserano, un paesino del Piemonte, che mise il vino migliore della sua vigna in due bottiglie, le sigillò, e decise che le avrebbe tenute nella cantina della parrocchia per farne dono a quel papa che avesse fatto la pace con l'Italia. Le due bottiglie furono consegnate a Pio Undicesimo il 4 settembre 1929, secondo quanto pubblicarono i giornali italiani del giorno dopo. Nel 1874 la Santa Sede 'consigliò' i cattolici italiani a non occuparsi della politica nazionale, e il 'consiglio' divenne proibizione categorica nel 1886. Dato che generalmente il quaranta per cento dell'elettorato italiano si asteneva dal voto, il Vaticano poteva vantarsi che questa fosse la conseguenza del veto papale. Ma quando il veto venne abolito, il numero dei votanti che si recarono alle urne non aumentò in una proporzione sensibile. I cattolici si erano recati alle urne anche durante il periodo della proibizione papale. Nei primi vent'anni di questo secolo, mentre la Santa Sede continuava a lamentarsi per l'usurpazione di quelli che erano stati i suoi territori, e i cattolici di tutto il mondo facevano coro al Santo Padre, i deputati cattolici non dissero mai una parola riguardo alla questione romana, né durante le campagne elettorali né alla Camera. Nel 1929 c'erano in Italia oltre 1200 preti spretati, di cui più di ottocento insegnavano nelle scuole pubbliche. La gente non faceva caso alle censure ecclesiastiche e li trattava come buoni cittadini e buoni insegnanti. La Santa Sede pretese dal governo italiano, nel Concordato del 1929, uno speciale articolo contro di loro, col quale venivano esclusi da ogni impiego statale. Questa misura era in aperta violazione con lo Statuto del Regno, che garantiva uguali diritti a tutti i cittadini di ogni fede e denominazione. Dopo la firma del Concordato le proteste contro tale provvedimento furono così numerose che il governo lasciò indisturbati quasi tutti i preti spretati, col pretesto che la legge non era retroattiva. Vi sono due Chiese in Italia: la Chiesa locale popolare costituita dalle parrocchie, e il Vaticano, istituto internazionale con sede a Roma. Il fatto che la maggioranza dei funzionari di ogni grado della curia sia costituita da italiani, non basta a fare del Vaticano un istituto italiano. I non-italiani vedono nel Vaticano un istituto 'romano'; gli italiani vedono nel Vaticano un istituto 'cosmopolita.' Mentre i prelati vaticani sono imbevuti di 'spirito romano,' i parroci sono attaccati alla loro parrocchia e ai loro parrocchiani. Gli artefici del Risorgimento italiano videro con chiarezza la distanza che divideva il Vaticano cosmopolita e la Chiesa popolare italiana: attaccarono il Vaticano, ma non toccarono le parrocchie. Questa tattica spiega la loro vittoria. La Santa Sede gode di un prestigio assai maggiore in Inghilterra e negli Stati Uniti che non in Italia: "maior e longiquo reverentia".
CAPITOLO NONO. IL PARTITO SOCIALISTA. I radicali, i repubblicani e i socialisti riformisti avevano voluto la guerra, e quindi non godevano di popolarità. Soltanto il partito socialista ufficiale si era opposto alla guerra rifiutando ogni compromesso, e perciò nell'Italia settentrionale e centrale gli operai e gli artigiani dei centri urbani, via via che venivano smobilitati, si iscrivevano a quei sindacati che erano sotto il controllo socialista, o direttamente alle sezioni locali del partito. I sindacati legati al partito socialista formavano delle federazioni nazionali, che a loro volta si raccoglievano nella 'Confederazione Generale del Lavoro.' Questa era nata nel 1904 e aveva una direzione nazionale permanente analoga a quella del Trade Union Council inglese o della A.F.L. americana. Nelle città più importanti, tutti i sindacati della città e della campagna, associazioni di impiegati privati, insegnanti elementari, dipendenti statali dei gradi inferiori, e le società cooperative socialiste, formavano una confederazione locale con una propria sede e degli impiegati stabili. Questa era la Camera del lavoro, un istituto sconosciuto nei paesi anglosassoni, ma che in Italia aveva una grande importanza. La Camera del lavoro era il centro di una intensa attività economica, politica e sociale; i segretari dei sindacati e delle associazioni si riunivano in una assemblea generale e sbrigavano le questioni locali che erano di comune interesse per tutta la classe lavoratrice. La Camera del lavoro era il nuovo organismo municipale della classe lavoratrice, mentre il vecchio municipio doveva rappresentare tutte le classi; i sindacati e le società cooperative dei centri minori facevano capo per consiglio ed aiuto alla Camera del lavoro del capoluogo di provincia; a loro volta le Camere del lavoro facevano parte della Confederazione generale del lavoro. Nel 1913, gli iscritti alla Confederazione generale del lavoro erano stati 327302; durante la guerra, nel 1916, scesero a 201291; nel 1917 si cominciò a notare una tendenza a un aumento di attività, e gli iscritti salirono a 237560 nel 1917, a 249039 nel 1918; arrivarono a 1.159.062 nel 1919, e 2.150.000 nel 1920 (1). Come abbiamo già detto, di questi solo 750000 erano lavoratori agricoli, e per lo più occupati nei lavori di bonifica, cioè lavori pubblici più che agricoltura. In Italia il movimento socialista, come negli altri paesi europei, attirava soprattutto i lavoratori delle città. La grande maggioranza degli iscritti alla C.G.L. proveniva dall'Italia settentrionale e centrale. Erano le regioni in cui, nei precedenti cinquant'anni, l'industria aveva fatto i passi più lunghi, e l'agricoltura con le bonifiche e l'uso delle macchine e dei fertilizzanti chimici aveva raggiunto il livello più alto. Nel Mezzogiorno, dove l'educazione politica era più arretrata, né il partito socialista né il partito popolare avevano un numero sufficiente di uomini per organizzare i reduci. Questi, che nella maggior parte erano braccianti, si riunivano nelle associazioni di ex-combattenti, che in tutta Italia godevano le simpatie delle autorità militari, dei nazionalisti e dei conservatori; essi speravano che i reduci, formando delle associazioni proprie, si sarebbero mantenuti estranei ai partiti socialista e popolare, agendo così da base elettorale per un nuovo movimento conservatore di cui i nazionalisti sarebbero stati l'anima. Sfortunatamente per loro, neppure nel Mezzogiorno i reduci ne volevano sapere di berretti gallonati, nazionalisti e conservatori; dalle loro sofferenze e da quelle delle loro famiglie volevano che nascesse un nuovo mondo; non sapevano che forma avrebbe preso; aspettavano che si facesse avanti qualcuno a guidarli; se il partito socialista avesse saputo come prenderli, avrebbe potuto facilmente averli dalla sua parte. Per tutta l'Italia c'erano larghe masse desiderose di spazzar via tutti coloro che erano stati responsabili della guerra; erano pronte a seguire il partito socialista in una
politica di riforme, ma non mostravano interesse per una rivoluzione del tipo di quella russa del 1917; le condizioni dell'Italia erano assai diverse da quelle della Russia. Nel 1917 i soldati-contadini russi avevano disertato i loro reggimenti in via di sfacelo e facendo ritorno ai loro villaggi avevano espropriato i grandi proprietari terrieri. I soldati-contadini italiani alla fine della guerra furono formalmente smobilitati; non fecero ritorno a casa in seguito a una disgregazione militare e amministrativa. Inoltre in Russia c'erano pochissimi proprietari terrieri in proporzione alla disponibilità di terra. In Italia c'erano grossi proprietari terrieri soltanto nella parte centrale e occidentale della Sicilia, in alcune zone d'eccezione del Mezzogiorno, e nel Lazio, e quella che in Italia era considerata una grande proprietà era ridicolmente modesta paragonata alle proprietà che esistevano in Russia e che ancora si possono trovare nella Prussia orientale, in Ungheria, in Inghilterra o in Spagna. La terra alla quale facevano ritorno i soldati-contadini italiani per secoli era stata suddivisa tra milioni di piccoli proprietari, affittuari e mezzadri; i piccoli proprietari avrebbero opposto una tenace resistenza contro tutto ciò che avesse minacciato il loro possesso; gli affittuari e i mezzadri volevano diventare proprietari della terra che coltivavano, e non che questa venisse 'socializzata.' Quanto ai lavoratori industriali, sapevano bene che il popolo italiano non poteva andare avanti senza le importazioni dall'estero di carbone, ferro, cotone, petrolio, gomma, carne, frumento, e che una rivoluzione comunista avrebbe privato il paese del credito estero, senza contare il pericolo di un intervento straniero armato. Queste circostanze furono sottolineate da uno dei leaders della destra socialista, Filippo Turati, al congresso nazionale del partito nel settembre del 1919: «In Italia soprattutto, che non ha le sterminate risorse della Russia, (...) noi avremmo una più sicura e triplice fame con un governo socialista, che sarebbe immediatamente boicottato dagli stati nostri creditori. Onde avremmo la rivolta immediata delle masse affamate nei primi giorni della stessa rivoluzione. Questi sono fatti di plateale evidenza» (2). Lenin non discordava da Turati. Nell'estate del 1920, consigliava Serrati, leader della sinistra socialista, di non tentare una rivoluzione comunista in Italia: 'Noi non vogliamo una seconda Ungheria,' (2 bis) dichiarava; e discutendo con Angelica Balabanoff sulle prospettive di una rivoluzione sociale in Italia, Lenin le chiese: 'Compagna, ti ha mai colpito il fatto che l'Italia non ha carbone?' (3) Il pencolo di rimanere senza materie prime e senza generi alimentari, che l'Italia avrebbe corso in caso di una rivoluzione comunista, fu soggetto di vivaci discussioni. Nel 1920, un anarchico avvertì che era necessario dimostrare che 'tutta la stampa borghese, dalla gialla alla rossa, tutti gli economisti da Einaudi a Cabiati, tutti i socialisti da Prampolini a Turati' mentivano quando mettevano in guardia contro un possibile disastro economico e il rischio di soffrir la fame, per scoraggiare una rivoluzione sociale. Ammetteva che se i rivoluzionari non avessero saputo organizzare subito la produzione e la razionale distribuzione, la rivoluzione avrebbe dovuto fatalmente soccombere 'per opera della stessa grande massa proletaria meno cosciente.' Quindi, per un anno o due, l'Italia avrebbe dovuto trovare all'interno tutte le risorse necessarie. Ciò era possibile. I due milioni di tonnellate di carbon fossile, 'che certamente si troveranno nei magazzini,' la lignite prodotta nel paese, il carbone di legna e l'energia elettrica avrebbero sostituito i sei milioni di tonnellate di carbon fossile che l'Italia aveva dovuto importare nel 1919. Il problema più grave era quello del pane. L'Italia consumava annualmente sei milioni di tonnellate di grano, di cui se ne importava un milione e mezzo. Per coprire questo deficit sarebbe stato necessario vietare l'esportazione di patate, noci, frutta, verdure, conserva di pomodoro, aranci e limoni. Sarebbe anche stato necessario fare a meno di 8,5 milioni di tonnellate di
carne, grassi e pesce che venivano importati dall'estero. Il popolo italiano avrebbe risolto questo problema consumando le riserve di bestiame esistenti in Italia (3 bis). Sarebbe inutile seguire lo scrittore in tutti i suoi calcoli; basti osservare che i due milioni di tonnellate che avrebbero dovuto esistere nei magazzini non esistevano affatto; che di regola la lignite italiana ha il 75 per cento di acqua; che le centrali idroelettriche esistenti nei 1920 erano sfruttate al massimo della loro capacità, e che per far sì che esse producessero maggiore energia sarebbe stato necessario importare macchinari dall'estero, e che nuovi impianti non potevano venir creati da un giorno all'altro; che anche distruggendo tutti gli alberi esistenti in Italia, il carbone di legna sarebbe stato inutile per molte industrie, a cominciare da quella del ferro; che 1,5 milioni di tonnellate di aranci, limoni e conserva di pomodoro non avrebbero avuto lo stesso potere nutritivo di 1,5 milioni di tonnellate di grano; che le riserve italiane di bestiame erano state durante la guerra gravemente colpite, e nel 1920 cominciavano appena a ritornare al livello normale, e se si fossero usate come cibo, l'industria agricola non avrebbe potuto produrre latte, formaggio, vegetali, salsa di pomodoro, patate, e tutti quegli altri prodotti che avrebbero dovuto sostituire il grano estero, e in più non si sarebbe prodotto neppure il grano nostro. Il quadro che stiamo discutendo, nella sua candida innocenza, ci porta un'eco delle discussioni che ebbero luogo tra i lavoratori, su un argomento che tutti sentivano come il problema principale della vita italiana in pace e in guerra, in tempi di rivoluzione e in tempi normali. Nell'autunno del 1920 l'ansietà per il pericolo di un blocco contro l'Italia nell'eventualità di una rivoluzione sociale divenne tanto diffusa che Lenin sentì il bisogno di entrare nella discussione. Egli ammise che 'il blocco dell'Italia da parte dell'Inghilterra, della Francia, dell'America in caso di vittoria del proletariato è possibile e probabile'; il problema era 'gravissimo.' La Russia aveva potuto resistere al blocco grazie alla vastità del suo territorio e alla scarsità di popolazione; in Italia le condizioni erano del tutto diverse; perciò la rivoluzione italiana 'non potrebbe resistere a lungo se non fosse coordinata a quella di un altro paese dell'Europa centrale'; 'questa coordinazione è difficile,' ma poiché tutta l'Europa continentale attraversa un periodo rivoluzionario, 'non impossibile' (4). 'Una certa coordinazione quantunque ancora insufficiente, quantunque incompleta - è assicurata all'Italia, e si dovrà lottare per una coordinazione completa' (5). «I rivoluzionari, i comunisti devono riconoscere i pericoli e le difficoltà della lotta per ispirare alla massa una fermezza maggiore, per liberare il partito dai deboli, dagli esitanti, dai tentennanti, per infondere a tutto il movimento un maggior entusiasmo, un maggior spirito di internazionalismo, una maggior prontezza al sacrificio per un grande fine: affrettare la rivoluzione in Inghilterra, in Francia, in America, se questi paesi si decideranno a bloccare la repubblica proletaria e sovietica italiana» (6). Il popolo italiano aveva sempre abbastanza buon senso da rendersi conto che non era possibile aspettarsi una rivoluzione in Inghilterra, Francia e America per la salvezza dell'Italia sovietica, e che in Italia entusiasmo, internazionalismo e buona volontà di fronte al sacrificio non sarebbero serviti a lungo come surrogato per il pane, il carbone e il petrolio. Se la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti avessero gettato alle ortiche i loro sistemi capitalistici per abbracciare il comunismo, i lavoratori italiani si sarebbero affrettati a fare altrettanto diventando bolscevichi, anche contro la loro volontà, per non morire di fame; ma l'Italia era l'ultimo paese in cui si poteva dare il via a una rivoluzione comunista. I lavoratori italiani volevano farla pagare cara ai 'ricchi che avevan voluto la guerra'; scioperavano con estrema frequenza, tiravano i sassi contro le automobili, e alle elezioni votavano per i candidati socialisti; ma anche nei momenti di maggiore furia si astennero sempre dal commettere assurdità irreparabili.
Non solo le condizioni materiali in Italia erano profondamente diverse da quelle della Russia, ma la mentalità dei socialisti italiani, anche quando si dicevano rivoluzionari, era molto diversa da quella dei socialisti russi. «Nei grandi paesi a regime costituzionale e democratico, lo stato non appariva, alla maggioranza dei socialisti, come una fortezza nemica ma, dimenticate le ecatombe del passato, piuttosto come una grande casa confortevole ove c'è posto per tutti. Casa nazionale, alla cui proprietà nessuno può aspirare, ma che ogni società solvibile ha il diritto e la possibilità di prendere in locazione. Lo stato, la cui struttura minacciosa e tetra appare a Lenin, fin dalla sua prima maturità politica, è la fortezza di San Pietro e Paolo, è il Palazzo d'Inverno, rifugio dell'aristocrazia sanguinaria, che Pietro il Grande e Caterina Seconda, messe da parte le armi di parata, avevano modernizzato con cannoni di piccolo e di medio calibro. E attorno, non corazzieri di gala con giustacuori di latta dorata, ma barbuti cosacchi con scudiscio e carabina. Non vie d'accesso al popolo. Di qui la spontanea formazione della psicologia rivoluzionaria di Lenin, che differisce dalla mentalità legalitaria dei suoi compagni socialisti europei od europeizzati, esattamente come la fortezza di San Pietro e Paolo o il Palazzo d'Inverno differivano dal Buckingham Palace o anche dall'Eliseo. (...) Mentre tutta la socialdemocrazia si occupa per trent'anni di cooperative, di sindacati e conquiste parlamentari, Lenin si occupa sì di organizzazioni operaie, (...) ma se ne occupa con lo stesso spirito con cui un capo di stato maggiore organizza l'esercito in previsione di una guerra » (7). Così, quando il regime zarista crollò e la sua rovina lasciò la Russia in uno stato di generale anarchia, Lenin e Trotsky si gettarono a capofitto nella tempesta spinti dall'odio e da un desiderio selvaggio di vendetta e di distruzione. Messisi a capo di poche migliaia di uomini, schiacciarono chiunque era legato al passato, distrussero ogni traccia del vecchio regime, e sotto lo stimolo delle necessità quotidiane costruirono una nuova macchina militare e amministrativa. Le classi operaie tedesca e italiana e i loro capi appartenevano a un mondo del tutto diverso. Il proletariato tedesco non era la moltitudine disperata, che non aveva niente da perdere se non le catene che Marx ed Engels avevano descritto nel "Manifesto" comunista; godevano di pensioni di vecchiaia, assicurazione contro la disoccupazione e contro le malattie, scuole per i loro figli, una organizzazione sindacale e cooperativistica, e di molti altri vantaggi che avrebbero potuto perdere. I capi di quel proletariato - segretari sindacali, deputati, giornalisti, gestori di cooperative - negli ultimi trent'anni, protetti dall'Impero bismarckiano, avevano raggiunto una posizione agiata. Nel gennaio 1919 il 'proletariato' tedesco lasciò che Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht venissero brutalmente assassinati dagli ufficiali dell'esercito regolare, e votò per il partito di Ebert e Noske, i quali erano strettamente legati con i capi dell'esercito regolare. Fondamentalmente la situazione in Italia era la stessa. I molti scioperi, spesso capricciosi, che avvennero in quegli anni, sono prova di irrequietudine e non di sentimenti rivoluzionari. Astenersi dal lavoro o indulgere in scioperi senza preavviso, e andare a divertirsi in campagna con la moglie sottobraccio e il figliolo per mano, è cosa assai diversa da quel sentimento d'ira, odio e ferma decisione di combattere, che fa una rivoluzione. Tra i socialisti italiani, coloro che appartenevano a quella che abbiamo chiamato l'ala destra del partito e che consideravano Filippo Turati loro leader, non considerarono mai possibile una rivoluzione comunista e non dettero mai per essa la loro opera; anche costoro fecero un certo sfoggio di slogans rivoluzionari, perché facevano parte del rituale marxista; ma la loro rivoluzione significava soltanto quel rinnovamento radicale della struttura politica e sociale, che è il risultato dello sviluppo dei mezzi di
produzione. La loro rivoluzione era una specie di fenomeno naturale, come la rivoluzione della terra intorno al sole, alla quale la razza umana si deve adattare per le semine e per i raccolti. Il compito rivoluzionario dei socialisti era di educare e organizzare il proletariato, e prepararlo ad assumere il potere politico quando lo sviluppo fosse arrivato al suo stadio finale; ma lo stadio finale non era mai a portata di mano; la rivoluzione avvenuta in Russia non corrispondeva affatto al modello di rivoluzione marxista che avevano sempre immaginato; in fondo ai loro cuori, avrebbero desiderato una politica di compromesso e di cooperazione con quei gruppi non socialisti di tendenze democratiche, per rendere possibili delle riforme politiche e ottenere gradualmente il controllo dell'amministrazione centrale e di quelle locali attraverso la via normale delle elezioni democratiche, per trasformare, non appena ciò fosse possibile, la democrazia politica in una democrazia economica. E' impossibile dire come sarebbero andate le cose se avessero preso una diversa piega; non si può quindi sostenere con certezza che se il partito socialista avesse seguito questa strada il movimento fascista non avrebbe avuto possibilità di vittoria in Italia; la sola cosa che si può affermare è che il metodo della destra socialista non fu sperimentato mai, perché la maggioranza del partito non permise mai che tale esperimento fosse compiuto. Quando nell'autunno del 1922, l'ala destra del partito si distaccò dalla maggioranza, tutte le occasioni per un'opera utile erano già sfumate. Inoltre, nel 1919 neppure la destra socialista era disposta ad unirsi con gli altri partiti per affrontare la crisi del dopoguerra: anche questi uomini erano pieni di amarezza per i quattro anni di lotta contro coloro che avevan voluto la guerra, ed annunciavano che 'la liquidazione della guerra deve esser fatta da coloro che l'hanno voluta'; 'noi saremmo il più malaccorto dei partiti (...) se ci disponessimo a sostituirci ad essi in questo momento, liberandoli dalle loro responsabilità (8). E tuttavia il modo migliore per far sì che i responsabili della guerra pagassero per le loro responsabilità sarebbe stato proprio quello di cacciarli dal governo e prendere il loro posto, anche se ciò avrebbe significato l'assunzione di una pesante eredità. Ma pare che i socialisti di destra aspettassero, per accettare la responsabilità del governo che il bilancio fosse in pareggio, e tutti in Italia fossero felici e contenti. Lenin e Trotsky non ebbero mai esitazioni nell'accettare l'eredità del regime zarista e della disfatta militare. Nessuno tra i socialisti italiani di destra ebbe la tempra di Lenin o di Trotsky. I socialisti rivoluzionari, che erano in maggioranza nelle organizzazioni politiche e nell'esecutivo nazionale del partito, cominciarono nel 1918 a chiamarsi 'massimalisti.' La parola italiana 'massimalista' corrisponde alla parola russa 'bolscevico': la Russia di Lenin era il loro paradiso. Al congresso nazionale del partito tenuto a Roma nel settembre 1918, fu approvata a grande maggioranza come programma del partito 'l'istituzione della repubblica socialista e la dittatura del proletariato' (9). Secondo il loro misurato parere, si stava avvicinando l'ora della rivoluzione sociale; chi doveva decidere quand'è che l'ora fosse suonata, era 'il proletariato rivoluzionario,' che era stato educato nel culto del "Manifesto" comunista del 1848. Il proletariato doveva prendere l'iniziativa, e i socialisti lo dovevano seguire; non appena scoppiò una crisi di inquietudine più diffusa ed acuta del solito, i socialisti si aspettarono che dal 'proletariato rivoluzionario' scaturisse la apocalisse, ma non fecero niente con un atto di propria volontà per far sì che gli eventi precipitassero; e la crisi non era finita di passare che ricominciarono ad annunciare che l'ora dell'apocalisse era vicina. Per essi qualsiasi idea di un'alleanza tra socialisti e non socialisti era tabù; tutti i non socialisti erano borghesi: tra i fedeli e gli infedeli, tra gli eletti e i peccatori, tra le forze del bene e quelle del male, nessun compromesso era ammissibile; la lotta tra 'capitalismo' e 'proletariato' doveva essere una lotta all'ultimo sangue. Quando nel gennaio del 1919 Mussolini e Marinetti impedirono a Bissolati di tenere il suo discorso alla Scala, i massimalisti ripeterono che Bissolati aveva avuto quanto meritava; non
aveva voluto la guerra? come si poteva aspettare una giusta pace? poteva mai esserci una giusta pace senza che il comunismo dalla Russia dilagasse nel resto del mondo? Gli scioperi politici ed economici, sia locali che generali, erano salutati dai massimalisti quasi senza eccezioni come manifestazioni di spirito rivoluzionario; non si rendevano conto che in questi scioperi troppo ripetuti la classe operaia non rafforzava le proprie forze, ma al contrario le esauriva, e che da ultimo se ne sarebbe stancata, respingendoli come futili e dannosi. I massimalisti facevano chiasso perché fossero adottati in Italia i soviet russi; non si resero mai conto che la parola russa 'soviet' significa in italiano 'unione,' e che le Camere del lavoro, sorte in Italia per esperienza propria e spontanea, erano i soviet italiani; non c'era nessun bisogno di importare in Italia dalla Russia istituti che in Russia erano nati dal crollo di un regime dispotico, che aveva sempre negato ai lavoratori il diritto di organizzazione sindacale e le libertà municipali. I massimalisti italiani facevano come quel tale che cercava il cavallo, mentre gli stava in groppa; nelle loro mani, il partito socialista diventò in quegli anni un gigante mentecatto. La scissione all'interno del partito socialista ebbe i suoi effetti all'interno della Confederazione del lavoro. I socialisti di destra controllavano la maggioranza dei sindacati e la direzione centrale della Confederazione, ma molti sindacati locali erano sotto il controllo dei massimalisti; questi seguivano la propria politica, proclamando scioperi di propria iniziativa ed ordinandone la cessazione, senza mai chiedere il consiglio o il benestare del direttorio nazionale della Confederazione. Nei momenti critici, i leaders della Confederazione si adoprarono sempre per tenere a freno le teste calde e rimandare le decisioni pericolose; uno di questi leaders, Ludovico D'Aragona, in un discorso tenuto a Milano nel settembre del 1922, fece le seguenti affermazioni: «Noi siamo forse responsabili d'aver troppo concesso nel periodo della follia bolscevica; ma abbiamo la coscienza di aver fatto tutto ciò che si poteva per infrenare gli impazienti. (...) Resta tuttavia onore e vanto nostro l'aver impedito lo scoppio di quella rivoluzione, che dagli estremisti si meditava. Dopo, quando noi già avevamo avuto l'onore d'impedire la catastrofe della rivoluzione è venuto il fascismo» (10). Tuttavia, D'Aragona prese per sé e per i suoi amici più onori di quanti non ne meritassero: più dei socialisti di destra, furono i massimalisti che impedirono la catastrofe rivoluzionaria, perché furono essi che parlarono senza tregua di una incombente rivoluzione senza fare altro che delle chiacchiere. Turati colpì nel segno quando nel marzo del 1920, in una intervista al "Manchester Guardian", affermò che in Italia non c'era ragione di temere una crisi rivoluzionaria, ma che i massimalisti 'giocano col fuoco delle teorie sovietiche soltanto per mantenere le masse in uno stato di tensione e di fermento'; 'queste teorie sono concezioni puramente leggendarie, programmi immaturi, che non servono per uso pratico' (11). Dato che la rivoluzione che avevano sempre annunciato come imminente non si faceva mai vedere, i massimalisti dovettero spiegare come mai le cose andavano a questo modo. La spiegazione era a portata di mano; i socialisti di destra che controllavano il direttorio nazionale della Confederazione del lavoro non erano disposti a cominciare la rivoluzione e il loro 'tradimento' era la chiave di tutto. Anche in Russia c'erano stati dei 'socialisti traditori' nel 1917, se si accetta quanto hanno detto Lenin e Trotsky; ma quando essi ritennero che fosse giunto il momento di agire, non domandarono certo né il parere né il permesso dei 'socialisti traditori'; agirono per conto proprio sia contro i 'capitalisti' che contro i 'socialisti traditori.' Ai massimalisti italiani non passò mai per la testa che anche loro avrebbero potuto agire per conto proprio; dovevano sempre essere gli altri a iniziare e portare avanti la rivoluzione. Tra essi c'era un gruppo di estremisti, del genere degli spartachisti tedeschi del 1919, e che infatti si chiamavano con orgoglio 'spartachisti.' Essi erano destinati a rompere
con il partito socialista e formare nel 1921 il partito comunista. Non sapevano neppure loro che cosa fare se non rigettare sugli altri compagni, cioè non soltanto sui socialisti di destra ma anche sui massimalisti, la responsabilità di aver tradito quella rivoluzione che non arrivava mai. Neppure loro furono in grado di produrre un Lenin o un Trotsky, che andasse avanti senza chiedere il permesso a nessuno; se avessero capito che nelle masse italiane non esisteva uno stato d'animo rivoluzionario, sarebbero stati meno feroci nei loro attacchi contro gli altri compagni; ma nelle loro caterve di opuscoli avevano imparato che il 'proletariato' era rivoluzionario per definizione, e quindi ricercavano altrove e non nel proletariato stesso la ragione della immobilità del proletariato, che ritrovavano nel tradimento dei capi. Al di fuori del partito socialista, gli anarchici facevano anche più baccano dei massimalisti e degli spartachisti. Se avessero avuto mano libera, avrebbero potuto provocare delle gravi rivolte rivoluzionarie. La loro azione si svolgeva in perfetto accordo con i sindacalisti rivoluzionari, che non avevano seguito Mussolini e Rossoni ed erano stati contro la guerra; questi controllavano la 'Unione sindacale italiana,' ma non avevano molto seguito; inoltre la loro rivoluzione non era la rivoluzione dei massimalisti o dei comunisti; doveva essere una rivoluzione che la facesse finita con tutte le forme di governo, a cominciare da quella comunista. Anche gli anarchici persero molto tempo e molte energie accusando i socialisti di destra, i massimalisti e gli spartachisti di 'tradire il proletariato': ogni rivoluzionario odiava i rivoluzionari suoi vicini più del 'capitalismo.' Tra i diversi gruppi rivoluzionari non ci fu mai nessun accordo per un'azione comune; scioperi e disordini non si svilupparono mai secondo un piano congegnato; spesso uno sciopero proclamato da un gruppo non veniva appoggiato dagli altri gruppi; quando scoppiava uno sciopero di una qualche importanza in un'industria privata o quando i disordini politici si estendevano in buona parte del paese, i servizi pubblici non scioperavano; quando scioperava un servizio pubblico le industrie private rimanevano tranquille. Lo sciopero dei servizi postali smise quando cominciò quello dei ferrovieri; scioperavano le città mentre le campagne erano tranquille, e nelle campagne dilagavano gli scioperi quando nelle città era già tornata la calma; nel Mezzogiorno vi furono pochi scioperi su larga scala, che furono invece cosa quotidiana nell'Italia settentrionale e centrale. Tutti parlavano della rivoluzione incombente, ma nessuno cercò seriamente di farla. Mussolini aveva buon giuoco, quindi, quando scherniva questi pseudorivoluzionari chiamandoli dei buoni a nulla.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO NONO. Luigi Villari è molto severo con i socialisti di destra, che 'seguivano la corrente' (1). «Turati sosteneva che bisognava penetrare lentamente nelle istituzioni borghesi per trasformarle in organi che operassero nell'interesse della comunità, e non cercare di costruire uno stato socialista con mezzi rivoluzionari. Anche i socialisti più moderati che non volevano una rivoluzione o che non credevano che una rivoluzione fosse possibile, come Turati e Treves, avevano troppo paura di perdere popolarità nelle masse per parlare con franchezza» (2). Dell'atteggiamento ultrarivoluzionario di Mussolini e dei suoi amici in quegli anni in cui la marea era al suo massimo, Villari non fa parola; scrive soltanto: "Il numero di aderenti ai Fasci era ancora troppo scarso perché il movimento potesse avere quella importanza nazionale che doveva assumere più tardi, 'né i Fasci avevano ancora sviluppato quella politica sociale di riconciliazione tra capitale e lavoro': per il momento la loro principale funzione era di opporsi con la forza al bolscevismo" (3).
Mettendo un velo così modesto sopra tutto quanto Mussolini fece per ingrossare quella marea, Villari può permettersi di far ricadere tutto il peso della sua onorevole condanna sui socialisti moderati, che non arginarono la corrente con sufficiente energia. Nello stesso libro egli afferma che il programma socialista era di 'promuovere gli scioperi dei servizi pubblici, allo scopo di disorganizzare la vita economica del paese, nella speranza che la fame avrebbe spinto le masse verso la rivoluzione' (4). Villari ha sempre avuto cura di mischiare insieme anarchici, spartachisti, massimalisti e socialisti di destra; se i 'socialisti' avessero avuto un 'programma rivoluzionario,' del tipo di quello supposto dal Villari, se ne sarebbe vista qualche traccia in alcuni dei tentativi di coordinare gli scioperi, che si sarebbero sviluppati secondo un piano organizzato; in realtà questi avvennero in modo sporadico, e senza nessuna coordinazione. Le accuse degli anarchici contro i socialisti sono contenute nel volume intitolato "Sempre!", Almanacco n. 2 (1923) di 'Guerra di classe,' 2a ed., Berlino, gennaio 1923; in Luigi Fabbri, "La controrivoluzione preventiva", nella collezione 'Il Fascismo e i partiti politici italiani,' Bologna, Cappelli, 1924, pagine 11-19; e in Armando Borghi, "L'Italia tra due Crispi", Parigi, Libreria Internazionale, 1924, pagine 125-296. Le accuse contro i socialisti di destra e contro i massimalisti furono formulate da Zinoviev e da Lenin nel 1920, "Le Parti Socialiste Italien et l'Internationale Communiste; recueil de documents", Petrograd, Editions de l'Internationale Communiste, 1921. Dopo Zinoviev e Lenin tutti i comunisti hanno ripetuto la loro versione (5). La versione degli anarchici, dei comunisti e dei massimalisti ha in comune con la versione fascista la controversa affermazione che in Italia nel 1919-20 fosse incombente una rivoluzione sociale; tuttavia, secondo i fascisti, questa rivoluzione sociale sarebbe stata soffocata da Mussolini, mentre secondo i comunisti e gli anarchici essa fu tradita dai socialisti di destra e dai massimalisti, e secondo questi ultimi dai soli socialisti di destra. La prima versione è contraddetta dal fatto che durante il 1919 e il 1920, cioè per il tempo in cui credette alla possibilità di una rivoluzione, Mussolini fu sempre in prima linea nell'incitare i movimenti rivoluzionari. La seconda versione è fondata solo sulla romantica illusione che esistesse in Italia un 'proletariato rivoluzionario,' mentre un tale proletariato non è mai esistito né in Germania, né in Italia e in nessun altro paese del mondo.
CAPITOLO DECIMO. LO SCIOPERO GENERALE DELL'APRILE 1919. I primi mesi dopo l'armistizio furono in Italia molto meno agitati che in Francia e in Inghilterra, per non parlare della Germania. A Parigi, nel gennaio del 1919, la vita della città fu completamente sconvolta da uno sciopero di tutti i trasporti pubblici; in Inghilterra, nel febbraio e nel marzo 1919, vi furono scioperi nelle ferrovie sotterranee di Londra, nelle industrie metallurgiche in Scozia, nelle industrie elettriche, nelle ferrovie, nelle miniere e nei porti. Al confronto, l'Italia era tranquilla. I datori di lavoro erano disposti a concessioni generose nei confronti dei loro dipendenti, sia che si sentissero moralmente obbligati a dare prova di buona volontà, o che avessero paura di provocare con la resistenza pericolose rivolte. Il 3 febbraio, gli industriali e i rappresentanti sindacali delle industrie metallurgiche stipularono un accordo per le otto ore di lavoro, che per la prima volta erano state chieste nel 1889 da un congresso internazionale socialista, e contro le quali tutti gli economisti della scuola del "laissez-faire" avevano sollevato una serie infinita di obiezioni economiche, tecniche e morali. Il movimento in favore delle otto ore si diffuse rapidamente e vittoriosamente tra i tipografi, i lavoratori edilizi, i tessili, e tutte le altre categorie industriali e agricole. Contemporaneamente i socialisti di destra ripudiavano apertamente le idee filorivoluzionarie dei massimalisti e degli spartachisti; uno dei socialisti della vecchia generazione che godeva di maggior prestigio, Camillo Prampolini, parlando a Reggio Emilia ad un comizio delle organizzazioni socialiste, deplorò che molti con leggerezza e faciloneria si riempissero la bocca di parole rivoluzionarie. «[Il governo borghese sta elaborando dei preparativi per sopprimere qualsiasi mossa rivoluzionaria. La libertà stessa che ci lasciano, di parlare e di scrivere, ci dovrebbe rendere sospettosi. La leggerezza con cui molti gridano 'Viva la Rivoluzione' è spaventosa. Il popolo crede che la rivoluzione porrebbe fine ai loro guai; questa fede nella violenza come mezzo per mutare la storia è una superstizione che non considera gli orrori connessi sia ad una guerra che ad una rivoluzione.] Noi abbiamo ribrezzo dei diplomatici che, freddamente seduti intorno ad un tavolo, deliberano la guerra, cioè il massacro di milioni di uomini. Ma i nostri circoli, ma i dirigenti non somigliano un po' a costoro quando, o per leggerezza o per freddezza di sentimento, deliberano o aderiscono alle azioni rivoluzionarie, e poi vanno all'osteria a berne un litro? [Questa orribile indifferenza morale, questo disprezzo delle nostre vite e delle vite degli altri è profondamente borghese. La tradizione militarista classica ci ha educato a giuocare con la pelle del nostro prossimo. Fu per questa ragione che Liebknecht e Rosa Luxemburg furono uccisi dai loro compagni di ieri, come loro stessi avrebbero ucciso se ne avessero avuto il modo]» (1). Prampolini concludeva affermando che non era vero che la borghesia fosse una minoranza; isolata era una minoranza, ma aveva un largo seguito. I leaders della Confederazione del lavoro non osavano opporsi risolutamente ai massimalisti che ricoprivano le cariche nell'esecutivo nazionale del partito; volevano evitare crisi all'unità del partito, e adottavano come proprio il programma massimalista. Ma al tempo stesso dicevano chiaro che non intendevano 'alimentare illusioni perniciose sulla possibilità di improvvisi rivolgimenti sociali ed immediati capovolgimenti economici'; le innovazioni rivoluzionarie sostenute dall'esecutivo nazionale del partito socialista implicavano 'da parte della classe operaia (...) una
severa e ponderata preparazione (...) che non si può ottenere se non attraverso tutta un'opera metodica, costante, sistematica di organizzazione sindacale e di educazione politica'; perciò le organizzazioni confederate venivano invitate 'ad adoperarsi con la maggiore alacrità, a diffondere fra le masse la comprensione dell'alta responsabilità che la propugnazione e l'effettuazione dei postulati politici del programma confederale richiedono da parte di tutti i lavoratori (2). In altre parole il programma massimalista era accettato, ma si rimandava il giorno dell'attuazione ad un vago ed indefinito futuro, quando la severa e ponderata preparazione fosse arrivata al giusto grado di ebollizione. Mentre scansavano con tanta accortezza la rivoluzione massimalista, i leaders della Confederazione trattavano con disprezzo Rossoni e gli altri mestatori della Unione italiana del lavoro; rifiutavano di unirsi a loro per trattare con gli industriali, e non facevano caso alle richieste esagerate che gli altri avanzavano per poter dire che la Confederazione era d'accordo con la borghesia per tradire i lavoratori. Dopo che le otto ore erano divenute una regola per tutti i contratti di lavoro, il più autorevole leader della Confederazione, Rigola, rallegrandosi che nelle città e nelle campagne i lavoratori adesso avessero maggiore possibilità di 'godere la vita,' li avvertiva che per questo ci sono diversi modi: «Ci sono i gusti bassi e i gusti elevati. I gusti bassi sono anch'essi causa di sperpero di forze e contribuiscono ad accrescere la miseria delle classi lavoratrici. Pare a noi, quindi, che la riduzione dell'orario imponga alla massa operaia in genere ed all'organizzazione in ispecie, il dovere di fare ogni sforzo per correggere, in ciò che hanno di difettoso, le abitudini dei lavoratori. (...) C'è ancora molto da fare in Italia dal punto di vista dell'istruzione, dell'educazione fisica e dell'affinamento del gusto delle masse. Bisognerà moltiplicare le scuole, le palestre, le biblioteche; bisognerà organizzare divertimenti sani, giuochi sportivi, viaggi d'istruzione, passeggiate igieniche; bisognerà far sorgere tutte le istituzioni che concorrono a rinvigorire il corpo e ad allargare il campo delle cognizioni delle cassi operaie» (3). I massimalisti avevano altro in testa; aspettavano il 'gran giorno' e tentavano di affrettarlo incoraggiando con ogni pretesto qualsiasi specie di sciopero, e trasformando scioperi economici in scioperi politici, e scioperi di gruppi singoli in scioperi generali. Poiché la Conferenza della Pace a Parigi ritardava la soluzione dei problemi che riguardavano l'Italia, la Camera del lavoro di Roma, controllata dai massimalisti, senza nessun accordo precedente né con la Confederazione del lavoro né col partito socialista, proclamò il 9 aprile uno sciopero generale per il giorno seguente, unendo alla protesta contro la Conferenza della Pace, che non dava 'una pronta e giusta pace,' la richiesta per le 'immediate rivendicazioni proletarie' (4). Lo sciopero generale cessò dopo ventiquattro ore, cioè fu una semplice parata di forze 'rivoluzionarie' e non l'inizio di un movimento rivoluzionario da parte di queste stesse forze. L'ordine di sciopero fu osservato dai lavoratori delle principali fabbriche e dai tranvieri; fintanto che rimanevano chiuse le fabbriche, era cosa che riguardava solo i datori di lavoro e gli operai; ma quando scioperavano i tranvieri tutta la vita cittadina era scombussolata. La paralisi dei mezzi di trasporto dava noia specialmente agli impiegati dei ministeri, che per recarsi dalla periferia ai luoghi di lavoro erano costretti ad usare il tram. Nel pomeriggio, mentre la maggior parte degli scioperanti era a casa a riposare, o in campagna a prendere una boccata d'aria, alcune centinaia di massimalisti tennero un comizio per ascoltare i soliti slogans urlati da un qualche oratore improvvisato; finito il comizio, cercarono di raggiungere il centro della città, gridando al seguito di una bandiera rossa. Un cordone di soldati li fermò, la polizia li sciolse, e diverse persone furono arrestate e subito rilasciate. Immediatamente,
l'associazione combattenti, che a Roma era controllata dai nazionalisti, organizzò una dimostrazione nel centro della città in onore dell'esercito che aveva mantenuto l'ordine. Scelsero proprio l'ora in cui gli impiegati dei ministeri uscivano dagli uffici e non trovavano tram per andare a casa. Una grande folla si raccolse al grido di 'Viva l'Italia! Abbasso Lenin!'; 'ufficiali e soldati, mutilati e combattenti venivano sollevati a braccia e portati in trionfo' (5). 'Lo stesso accadde ad un valoroso generale brigadiere con due promozioni per merito di guerra e quattro medaglie al valore, il quale, vinto dall'emozione, impugnò una bandiera tricolore baciandola ripetutamente fra salve di applausi' (6). Si formò un corteo, al quale parteciparono molti ufficiali in uniforme; esso si diresse verso il ministero della Guerra; qui 'tutte le finestre erano gremite di ufficiali e di soldati plaudenti.' Una commissione capeggiata dal deputato nazionalista di Roma fu ricevuta dal ministro della Guerra, al quale rivolse 'l'omaggio del popolo di Roma.' La dimostrazione si sciolse davanti al Palazzo Reale. Durante tutta la dimostrazione il 'proletariato rivoluzionario' non dette segno di vita. Lo sciopero, nella misura in cui aveva preteso di essere una parata di forza rivoluzionaria, era stato un completo fallimento (7). Tre giorni dopo, il 13 aprile 1919 a Milano, i massimalisti organizzarono un comizio all'aperto; vi prese parte una gran folla; un anarchico si levò a parlare, attaccando la società borghese e 'la debolezza e le esitazioni del partito socialista ufficiale' (8). A questo punto, dimostrando poco buon senso, la polizia si accinse a sciogliere il comizio; cominciarono a volare le prime pietre; la polizia rispose sparando dei colpi di rivoltella. Ci furono morti e feriti da tutte e due le parti; finalmente la folla venne dispersa. Per protesta contro il comportamento della polizia, la federazione milanese del partito socialista e la Camera del lavoro proclamarono uno sciopero generale per il 15 aprile. Doveva durare non più di ventiquattr'ore e svolgersi 'con calma ordinata, lontana dà qualunque violenza e da qualsiasi eccesso' (9). Il 15 aprile tutti i servizi pubblici furono arrestati, tutte le fabbriche rimasero ferme; la mattinata procedette calma. Nel pomeriggio, all'arena, fuori del centro, si tenne un comizio al quale parteciparono circa 50000 persone; tutti gli oratori, sia i socialisti di destra che i massimalisti, lodarono la calma e la compattezza con cui si svolgeva la protesta, e raccomandarono che il lavoro venisse ripreso il giorno dopo. Un anarchico, che propose di prolungare lo sciopero, venne fatto tacere. Mentre si svolgeva questa manifestazione, gruppi di ufficiali in divisa, 'arditi' in divisa, futuristi e fascisti armati di rivoltelle, si raccoglievano nel centro della città, agitando bandiere nazionali e i gagliardetti che gli 'arditi' portavano con sé negli assalti; trecento studenti del Politecnico, che erano ufficiali dell'esercito, si riunirono per unirsi alla dimostrazione patriottica. Dopo che il comizio socialista si era sciolto, una parte della folla che ostentava bandiere rosse e nere e ritratti di Lenin e dell'anarchico Malatesta, si mise in marcia verso il centro della città. E' chiaro che gli spartachisti e gli anarchici si erano messi d'accordo per organizzare una dimostrazione senza il concorso dei socialisti di destra e dei massimalisti. La polizia sapeva che nel centro della città si era ormai formata l'altra dimostrazione. Ai socialisti era sempre stato proibito di tenere comizi o dimostrazioni nel centro; questa volta si permise che la folla avanzasse verso i suoi nemici. Le due dimostrazioni si incontrarono; vi furono spari e vennero uccise tre persone che non c'entravano niente; finalmente i pompieri con potenti getti d'acqua dispersero i combattenti di ambo le parti. A questo punto, un gruppo capeggiato da Marinetti e dall''ardito' Ferruccio Vecchi si recò nella strada dove erano gli uffici di redazione e la tipografia del quotidiano socialista "Avanti!"; la polizia e i soldati che vi prestavano servizio lasciarono mano libera agli attaccanti; il personale del giornale, colto di sorpresa, tentò di resistere; un soldato venne ucciso; sopraffatti, scapparono da una porta sul retro; i locali furono incendiati. Persone che sapevano bene quello che
dovevano fare distrussero metodicamente gli indirizzi degli abbonati e misero fuori uso le linotypes e le macchine per la stampa. "La colonna, ormai padrona di Milano riconquistata, ritorna in piazza del Duomo, ritmando la sua marcia col grido 'L'Avanti' non è più!' e portando in testa l'insegna di legno del giornale incendiato, che fu donata a Mussolini, nella redazione del 'Popolo d'Italia'" (10). Nella serata, quando le notizie dei fatti di Milano arrivarono a Roma, il gabinetto credette opportuno per calmare le acque di tutte le proteste che indubbiamente si sarebbero levate da tutta Italia, di mandare a Milano due ministri 'per compiere una esauriente inchiesta'; uno di questi era il ministro della Guerra, generale Caviglia, che era accompagnato dal suo segretario particolare Rotigliano, un nazionalista legato con l'industria siderurgica e che più tardi sarebbe diventato un pezzo grosso del movimento fascista; l'altro era il ministro dei Lavori Pubblici Bonomi, uno dei due socialisti riformisti che nel gennaio era rimasto nel gabinetto, appoggiando Orlando e Sonnino contro Bissolati; nel 1920 e 1921, come ministro della Guerra, fu lui che fornì al movimento fascista ufficiali, armi e munizioni. Il 16 aprile a Milano, convocò ad una riunione al municipio dirigenti sindacali e deputati socialisti; i socialisti accusarono la polizia di essere responsabile dei fatti del giorno prima, e alcuni furono tanto stupidi da lamentare che i fascisti di Mussolini conducessero una campagna di 'violenza e di odio,' chiedendo che venissero dichiarati fuori della legge. A una richiesta tanto 'illiberale' Bonomi fu profondamente scandalizzato; il governo non avrebbe mai preso 'altre misure restrittive della libertà di propaganda e di azione'; 'mettendosi su questo terreno i socialisti venivano a smentire i loro stessi principi' (11). Caviglia ricevette Mussolini, Marinetti e Ferruccio Vecchi, e disse a Marinetti: 'La vostra battaglia di ieri (...) fu, secondo me, decisiva' (12). Poi tutti e due i ministri ricevettero i deputati conservatori e i rappresentanti delle 'associazioni patriottiche,' che dettero 'una esposizione dei fatti e delle responsabilità perfettamente opposta a quella raccolta al Municipio dai rappresentanti socialisti' (13). Naturalmente, le parole di congratulazione di Caviglia a Marinetti non vennero pubblicate; ma l''esauriente inchiesta' di Caviglia e Bonomi ebbe l'effetto desiderato. I lavoratori milanesi avevano continuato lo sciopero anche il giorno 16; a Torino, Bologna e un'altra dozzina di città dell'Italia settentrionale, erano stati proclamati scioperi di solidarietà; il 17 aprile il sindaco di Milano, un socialista di destra, diffuse un manifesto dove invitava i cittadini e i lavoratori 'a lavorare ed attendere calmi' in attesa dei 'provvedimenti che il governo avrebbe preso' (14); lo stesso giorno, l'esecutivo nazionale del partito socialista, che come già sappiamo era composto di massimalisti, invitò tutte le organizzazioni a raccogliere fondi per ricostruire gli uffici del loro giornale, e decisero che gli scioperi di protesta dovevano aver fine ovunque. Il 18 aprile il lavoro venne ripreso. Fu raccolta una grossa somma, e fu costruito per l'"Avanti!" uno splendido edificio nuovo. Se un deficiente avventato fosse entrato in una chiesa, si fosse arrampicato su un altare e avesse fatto a pezzi una immagine della Madonna, le donne, di cui aveva offeso i sentimenti religiosi, lo avrebbero ridotto a mal partito; queste donne avrebbero agito all'istante, senza chieder il da farsi al parroco. L'"Avanti!" era la bandiera e il simbolo del socialismo italiano; devastarne i locali equivaleva a sfidare in modo brutale la fede, l'orgoglio e le speranze di milioni di uomini e di donne. Se il 'proletariato' italiano fosse stato davvero animato da spirito rivoluzionario, avrebbe risposto alla inascoltata sfida di Marinetti con una rivoluzione generale immediata, o almeno massacrando gli autori dell'assalto che sfoggiavano vantandosene i loro trofei. Pochi giorni più tardi, chi scrive così commentava questi fatti: «Un movimento rivoluzionario a tipo più o meno massimalista non può riuscire in Italia. L'organo centrale del movimento rivoluzionario, il faro a cui i fedeli guardavano
con fervore religioso, l'"Avanti!" ha potuto essere saccheggiato brutalmente senza che scoppiasse immediata, spontanea, irrefrenabile, la rivoluzione» (15). Un anno dopo, Mussolini scriveva: «Nella giornata del 5 aprile 1919 (...) i socialisti massimalisti milanesi rivelarono in piena luce solare la loro anima filistea e pusillanime. Non un gesto di rivincita fu delineato o tentato. (...) Né denari per il 'baslott' di Bertini, (16) né schede per i quindicimila del pus bastano a cancellare la significazione storica e la portata morale del giorno in cui il fantoccio massimalista, smontato e stroncato, rotolò nelle acque limacciose del vecchio Naviglio» (17). Senza dubbio i massimalisti milanesi erano filistei, nel senso che non erano dei rivoluzionari sul serio, ed erano pusillanimi, nel senso che non erano dei banditi. La storia vera di quegli anni si può riassumere con le parole di uno studioso inglese: 'Vinsero i più crudeli' (18). Ma di fatto non aveva torto Marinetti, quando più tardi scrisse: 'Milano mutò completamente da quel giorno. La tracotanza bolscevica non era morta, ma colpita mortalmente' (19). Per la prima volta gli 'antibolscevichi' sentirono, dai fatti di quei giorni, che dietro il 'bolscevismo' italiano non c'era nessun vero slancio rivoluzionario. Nei fatti di Roma e di Milano dell'aprile 1919 si trovano condensati i tratti fondamentali di tutti i disordini 'rivoluzionari' che ebbero luogo in Italia dal 1919 al 1922. Secondo la dottrina marxista, quale prima della guerra era stata elaborata in Germania, lo sciopero generale doveva erompere in modo spontaneo dal 'proletariato rivoluzionario' nel giorno dell'apocalisse; si doveva diffondere come il fuoco sulla polvere da sparo per libera iniziativa delle masse, giunte al massimo grado di saturazione rivoluzionaria, e doveva trasformarsi in rivoluzione sociale. Anche secondo Lenin, lo sciopero generale doveva essere il preludio immediato della rivoluzione sociale, ma questo preludio doveva essere provocato e controllato da un gruppo di rivoluzionari rigidamente organizzato, 'avanguardia del proletariato.' In Italia, gli scioperi generali negli anni del dopoguerra non furono altro che uno sfoggio di inutili petardi rivoluzionari, o delle proteste a cui i lavoratori ricorrevano quando, a torto o a ragione, si credevano vittime di una ingiustizia. Ma petardi e proteste diventarono roba da ridere, non appena tutti si resero conto che dietro non c'era né la volontà né il potere di fare sul serio: ripetuti troppo spesso, finirono per non fare più effetto neppure sulle classi lavoratrici. Contemporaneamente questi scioperi provocavano l'ira e le rappresaglie delle altre categorie di persone; e dato che tali rappresaglie erano seguite tutt'al più da altri inutili scioperi di protesta e da altre rappresaglie, il risultato ultimo di tutta la faccenda era il fallimento morale degli scioperanti. Un'altra caratteristica dei fatti di Milano e di Roma, nell'aprile del 1919, fu la partecipazione di ufficiali dell'esercito alle dimostrazioni di piazza 'antibolsceviche.' Anche a Novara, il 18 aprile, un colonnello in divisa tenne un discorso durante una dimostrazione patriottica, e il 22 aprile gruppi di studenti, 'arditi' e ufficiali in divisa invasero il municipio, la cui amministrazione era socialista (20). Il regolamento militare punisce il soldato che partecipa a dimostrazioni politiche di qualsiasi specie, tanto che un generale che era presente alla manifestazione alla Scala del gennaio, in cui doveva parlare Bissolati, e si era rivolto al pubblico per chiedere che Bissolati avesse la libertà di parlare, fu incluso nella lista degli esonerati (21); a Bologna, un soldato in divisa che prendeva parte a una manifestazione socialista venne arrestato (22); il ministro della Guerra emanò disposizioni contro ufficiali e soldati che si univano a dimostrazioni pubbliche (23); un ufficiale in congedo di sentimenti
socialisti, che aveva rivolto un pubblico manifesto agli altri ufficiali in congedo, venne arrestato (24); a Lovere (prov. di Bergamo) il segretario della locale sezione socialista, che era soggetto alla disciplina militare, venne arrestato sotto l'accusa di 'avere spiegato propaganda incompatibile con la sua qualità di militare esonerato' (25). Ma nessun ufficiale venne mai ripreso o punito per aver partecipato a dimostrazioni 'patriottiche' o 'antibolsceviche,' e per di più, il ministro della Guerra non pensava vi fosse alcun motivo di scoraggiare 'battaglie decisive' quali quella del 15 aprile. Un'altra caratteristica dei fatti che stiamo considerando fu anche la partecipazione alle dimostrazioni 'antibolsceviche' di giovani delle classi medie. Questi giovani erano cresciuti in mezzo ai tragici avvenimenti bellici, e a scuola erano stati nutriti di letteratura patriottica di tipo eroico. La maggior parte di loro era sincera e di sentimenti generosi; non avevano interessi personali da difendere. I comunisti, gli anarchici, e non pochi socialisti ebbero il torto di non comprendere e di non rispettare i sentimenti di questa gioventù; insistettero a considerare questi sentimenti con disprezzo, come se sentimento nazionale sincero e brutalità nazionalista fossero la stessa cosa; non era concepibile per essi che potesse esistere un sacrificio onorevole, se questo non era compiuto per il 'proletariato'; bollarono come criminali gli eroi della guerra, e lodarono come eroi i disertori; in certe zone, chi aveva fatto con onore il proprio dovere durante la guerra, o era tornato a casa invalido, veniva considerato come una vergogna da tenersi nascosta. Questo atteggiamento fece più danno ai partiti rivoluzionari di qualsiasi altra cosa. Nazionalisti, fascisti e futuristi approfittarono con grande scaltrezza di questo errore: uno dei principali richiami della loro 'offensiva antibolscevica' fu proprio la rivendicazione dei diritti e dell'onore degli invalidi e dei decorati di guerra, e fu questo richiamo che fece sì che molti giovani intellettuali si raccogliessero intorno a loro. Infine non va sottovalutato il fatto che tra le classi intellettuali si andava lentamente diffondendo un vivo sentimento di invidia e di odio per le classi lavoratrici. Le classi lavoratrici, con gli scioperi, riuscivano ad ottenere aumenti di salari con cui far fronte al crescente costo della vita; ma i maestri elementari e gli insegnanti delle scuole medie e universitarie, i magistrati, i questurini e tutti gli altri funzionari, militari e civili, che dovevano vivere con un reddito fisso, non avevano nessun mezzo per ristabilire l'equilibrio tra entrate e uscite. Se, si fossero messi in sciopero, nessuno avrebbe avuto paura di loro; che forse avrebbe dato noia agli scolari se i loro insegnanti avessero scioperato? D'altra parte il governo rimandava più che poteva qualsiasi aumento negli stipendi dei suoi dipendenti, per non aumentare il deficit che era già spaventoso. Così vasti settori delle classi intellettuali erano scontenti del governo. Ma erano anche invidiosi degli operai; e questa invidia diveniva odio ogni volta che uno sciopero dei trasporti pubblici, o della luce, o dei servizi di distribuzione dei generi alimentari, peggiorava la loro situazione. Proprio nei giorni dei disordini di Roma e di Milano, i giornali conservatori cominciarono a fare il confronto tra le pietose condizioni economiche dei pubblici funzionari e quelle degli operai. Nel numerò dell'8 aprile 1919, il "Corriere della Sera" scriveva: «Oggi sono molti gli ingegneri professionisti od anche dirigenti di officine, moltissimi i professionisti, i funzionari pubblici, gli alti magistrati, presidenti di tribunali e di corti, professori ordinari di università, consiglieri di stato, i quali non sanno credere ai loro occhi. Vedono dei capi tecnici chiedere paghe, le quali (...) sono di 1000, 1250, 1625 e 2000 lire il mese (...). Che cosa dovremmo chiedere noi, si domandano tutti quegli alti magistrati, quei professori universitari, i quali hanno passato nello studio i più begli anni della vita per giungere sì e no verso i 35-40 anni a 600 lire di stipendio al mese ed i più anziani alle 1000 lire? La mortificazione nei ceti intellettuali è generale.
I padri di famiglia si domandano se essi non hanno torto di far seguire ai loro figli corsi di studio lunghi 12 o 14 anni, dopo le scuole elementari; e se non sarebbe meglio di mandarli senz'altro in una officina.» La dottrina marxista dei socialisti tedeschi aveva insegnato che, per un progresso costante nella tecnica di produzione, nella società capitalista le ricchezze si sarebbero andate concentrando nelle mani di un numero di persone sempre minore, e quindi si sarebbe andati verso una crescente proletarizzazione delle classi medie. Quando tale processo, in un grado estremo di perfezione tecnica e di concentrazione delle ricchezze, avesse raggiunto il suo apice, il proletariato, ingrossato di numero dagli elementi decaduti delle classi medie, avrebbe tolto dalle mani dei capitalisti i mezzi di produzione e di distribuzione, e avrebbe fondato una società senza classi basata sulla eguaglianza economica. L'esperienza ci mostra che non esiste uno sviluppo rettilineo della società capitalistica verso la concentrazione di ricchezza; la concentrazione di un settore è bilanciata dalla dispersione in altri. L'organizzazione su larga scala dell'industria automobilistica ha portato alla scomparsa di una quantità di piccoli industriali, ma ha fatto sorgere un numero enorme di piccole imprese per servizi di rimessa e di riparazione, e per provvedere alle necessità degli automobilisti lungo le strade. La proprietà terriera non dà segno di indirizzarsi verso una concentrazione; al contrario c'è una forte tendenza a dividere le grandi tenute in piccole proprietà, ogni volta che sia conveniente un metodo di coltivazione intensiva. In Europa il dopoguerra ha portato alle classi medie povertà e sofferenza, ma le classi medie, per quanto declassate dalla crisi economica, non intendono identificarsi con il proletariato. All'inizio il fascismo italiano e il nazismo tedesco furono essenzialmente movimenti composti di elementi impoveriti delle classi medie, decisi a non affondare sino al livello del proletariato, e che si dettero a strappare dalle mani delle classi inferiori quella parte della ricchezza nazionale che esse avevano vinto. Né in Germania né in Italia i marxisti di stretta osservanza arrivarono mai a rendersi conto della gravità di questo fenomeno e delle sue implicazioni. I fatti di Roma e di Milano dell'aprile non scossero i massimalisti dal loro torpore marxista. Il 29 aprile, la direzione nazionale del partito socialista pubblicò un manifesto, in cui si invitava il proletariato italiano ad uno sciopero generale per il 1 maggio, che così veniva annunciato: «La classe lavoratrice dovrà infine affermare che è ormai animata da chiara coscienza della propria forza e dei propri destini; che è pronta a raccogliere e seguire gli insegnamenti della Russia, dell'Ungheria, della Baviera dove il potere politico ed economico è raccolto soltanto nelle mani di chi produce, di chi lavora. (...) Ed ognuno sia pronto per la grande ora decisiva» (26). Proprio in quei giorni in Baviera, la Repubblica comunista, proclamata il 4 aprile, veniva abbattuta in una reazione sanguinosa, e si apriva la strada ad un feroce regime 'totalitario.'
CAPITOLO UNDICESIMO. L'ITALIA NEL GIUGNO DEL 1919. Tra il 14 e il 23 aprile, l'urto tra Wilson e la delegazione italiana alla Conferenza della Pace di Parigi raggiunse il suo punto critico. Orlando abbandonò la Conferenza e partì per l'Italia la sera del 24 aprile; Sonnino lo seguì due giorni dopo. Lungo il percorso dal confine a Roma, i due uomini politici furono salutati da dimostrazioni trionfali, mentre in tutta Italia si avevano innumerevoli dimostrazioni violente contro Wilson. Perfino la Confederazione del lavoro, che pur si dichiarava ostile alle 'richieste esorbitanti di annessioni territoriali' avanzate da Orlando e Sonnino, protestò contro Wilson, che 'applicava i suoi ideali in modo partigiano,' dato che permetteva l'imperialismo francese ed inglese e deprecava soltanto gli eccessi italiani (1). Il 29 aprile alla Camera, spiegando le ragioni per cui i deputati socialisti avrebbero negato il voto di fiducia al gabinetto, Turati non mancava di affermare che 'a Fiume non è chi non parli italiano' - cosa abbastanza difficile da sostenere, dato che a Fiume, mescolati ai 24000 italiani, c'erano 15000 slavi - ed ebbe parole di biasimo per i laburisti inglesi e i socialisti francesi i quali, indifferenti quando si tratta delle ambizioni territoriali dei loro governi, 'pretendono oggi di rifarsi una verginità democratico-socialista restando accanto al Wilson dell'ultima maniera, proprio e soltanto per Fiume, la Dalmazia e l'Istria orientale!' (2) La Camera accordò la fiducia al gabinetto con 382 voti; solo 40 socialisti votarono contro. Il Senato accordò unanime al gabinetto 191 voti. Ma nessuno sapeva che cosa volevano Orlando, Sonnino, la maggioranza della Camera, e il Senato unanime. In un suo discorso, Turati giustamente denunciò la situazione assurda in cui il ministero poneva se stesso e il paese. «O voi sapete, con matematica certezza, che un componimento è possibile (...). A che pro, allora, questa enorme montatura dell'opinione del paese? (...) Oppure voi non siete certi del risultato. E allora la montatura, che avete provocata, vi fa prigionieri di sé, vi taglia ogni via di ritorno, che non sia di umiliazione profonda. (...) Potevate dirci: 'Al nostro buon volere fallì la fortuna. Siamo vincolati da troppi precedenti. Non possiamo con dignità ritornare a Parigi. Lasciamo il posto a chi avrà le mani più libere e potrà ripigliare con miglior fortuna le trattative, per noi rotte o interrotte.' (...) Un profondo rispetto avrebbe accolto le parole ed il gesto. Ma voi vi fate piedistallo del vostro insuccesso. Voi legate ad esso la vita del paese voi provocate la solidarietà del paese con voi, fino alle estreme conseguenze, fino - il cielo avverta! - alla guerra. A una nuova guerra. Oggi! Ci pensate, o signori?» (3). Mentre in Italia Orlando e Sonnino facevano collezione di dimostrazioni e di voti di fiducia, a Parigi Wilson, Lloyd George e Clemenceau stavano sistemando tutte le questioni ancora in sospeso. Sonnino si era sempre opposto ostinatamente e stupidamente al riconoscimento del nuovo Regno serbo-croato-sloveno; in sua assenza, gli altri decisero per il suo riconoscimento, in più fissarono le date in cui le condizioni di pace dovevano essere consegnate alle delegazioni tedesca e austroungarica, e affermarono che, se gli italiani non fossero stati presenti a questa cerimonia, il Patto di Londra sarebbe divenuto privo di validità. Il 4 maggio, si tenne a Roma un grande comizio, in cui il sindaco di Roma chiese la Dalmazia più Fiume, e D'Annunzio attaccò grossolanamente Wilson e la moglie, proclamando che 'un ritorno a Parigi avrebbe significato il disonore d'Italia' (4). La sera di quello stesso giorno Sonnino e Orlando partivano per Parigi, senza aver chiesto né ottenuto nessuna condizione, ma semplicemente allo scopo di evitare le
rappresaglie che la loro assenza avrebbe provocato. Erano appena tornati a Parigi che Wilson, Lloyd George e Clemenceau, senza consultarli, assegnarono alla Grecia la provincia di Smirne, in Asia Minore, la quale secondo il Trattato di Saint Jean de Maurienne (19 aprile 1917) era stata assegnata all'Italia, e Lloyd George e Clemenceau si divisero tra loro le colonie tedesche in Africa, rimandando al futuro i negoziati con l'Italia per le compensazioni che le erano state promesse dal Patto di Londra. L'influenza dell'Italia in campo internazionale non dipende tanto dalla sua forza militare, che di fronte alle altre grandi potenze non è molto rilevante, quanto dalla sua abilità di barcamenarsi tra queste grandi potenze quando vi siano dei contrasti tra loro. Mentre in tempo di guerra la importanza dell'Italia è notevole, non appena una delle potenze europee o una coalizione di potenze abbiano raggiunto un grado di superiorità decisiva, questa importanza dell'Italia scompare del tutto. A questo punto le promesse che le sono state fatte nel momento del bisogno possono esser lasciate cadere impunemente, e l'Italia venir gettata via come un limone spremuto. Nel 1915 l'Italia aveva goduto del suo massimo di influenza; Sonnino aveva abusato di questa influenza e per l'intervento italiano a fianco della Intesa antigermanica aveva strappato un prezzo che questa era riluttante a pagare. Nel 1919 la guerra era finita, la Germania priva di forza e Sonnino non più in una posizione tale da potersi mantenere in equilibrio tra la Germania e i suoi nemici, e neppure era in grado di minacciare di guerra Wilson, Lloyd George e Clemenceau; poteva soltanto minacciare una rivincita per quando la Germania avrebbe riacquistato le proprie forze. E' quanto fecero i giornali italiani. Tali minacce, invece di migliorare la situazione dei diplomatici italiani, la peggiorarono. Intanto in Italia le condizioni diventavano sempre più precarie. Le zone di frontiera che erano state teatro delle operazioni belliche e gli ex-territori austriaci che erano adesso sotto il controllo delle truppe italiane erano in uno stato economico, politico e sociale caotico. Le popolazioni che durante la guerra erano state costrette a scappare vi avevano fatto ritorno, trovando ovunque distruzioni tremende. Ogni commercio con l'Europa centrale era paralizzato. I rapporti tra italiani e slavi, nei territori di popolazioni miste, erano resi più difficili dal fatto che era ancora in discussione il confine tra l'Italia e la Yugoslavia. In maggio e giugno vi fu un brusco aumento del costo della vita e specialmente nei generi alimentari; di conseguenza salì il numero degli scioperi per ottenere salari più alti. Il numero degli scioperanti nelle industrie e nell'agricoltura, che erano stati 22280 nel gennaio 1919, 40103 nel febbraio, 68820 nel marzo, salì a 87449 nell'aprile, e 309026 nel maggio (5). Negli scioperi, oltre agli aumenti salariali, si chiedeva che venisse introdotto un nuovo 'regime costituzionale del lavoro' invece del tradizionale regime del datore di lavoro 'padrone in casa propria.' La resistenza dei datori di lavoro si fece più salda al momento in cui la pressione delle organizzazioni operaie si intensificò su questo secondo punto. Alcuni di questi scioperi causarono molto fastidio al pubblico; ad esempio lo sciopero dei camerieri di ristoranti, a Roma (5-13 giugno) e a Milano (6-22), che misero a molto dura prova tutti coloro che, non avendo famiglia o essendo in giro per affari, non sapevano dove andare a mangiare. Oltre questi scioperi altri ve ne furono ai quali ricorsero, per gli stessi motivi economici, i dipendenti statali. L'11 giugno, 50000 maestri elementari, organizzati in una associazione nazionale diretta da democratici e da socialisti, si misero in sciopero in tutta Italia; ad essi si unirono, il 14 giugno, anche i maestri cattolici, organizzati in una associazione separata. Lo sciopero cessò il 20 giugno. Gli scioperi economici di una categoria provocavano gli scioperi di solidarietà di altri gruppi, con i quali le organizzazioni operaie cercavano di costringere i datori di lavoro ad accettare le richieste dei lavoratori che avevano iniziato lo sciopero. A Biella, uno sciopero di 30000 operai delle industrie laniere, cominciato il 6 maggio, provocò ai
primi di giugno uno sciopero di solidarietà di due giorni di molte altre categorie di lavoratori, e lo sciopero originario non fu composto sino all'11 giugno. A Napoli, l'8 giugno, i comunisti riuscirono a far proclamare in tutta la provincia uno sciopero generale di solidarietà con i lavoratori dell'industria metallurgica; i giornali non uscirono; ventun paesi della provincia rimasero completamente senza luce; si assalirono quei tram il cui personale si era rifiutato di prender parte allo sciopero. Lo sciopero di solidarietà terminò l'11 giugno, e lo sciopero particolare dell'industria metallurgica, che si era iniziato l'8 maggio, fu composto il 13 giugno. Vi furono inoltre disordini per il caro-viveri. L'11 giugno, a La Spezia, i negozi di frutta e verdura chiusero per protesta contro il municipio che aveva bloccato i prezzi di tali generi; i lavoratori reagirono proclamando uno sciopero contro i commercianti, e dandosi poi a saccheggiare ristoranti, negozi di generi di abbigliamento, e rivendite di vino, olio e formaggio; intervenne la polizia, e vi furono due morti e sette feriti tra cui un poliziotto: 'Le donne si dimostrarono le più furenti ed ardite. (...) Il corso Cavour e le vie adiacenti dove più aspra si è svolta la lotta danno l'impressione di un campo di battaglia: rottami e frammenti di specchi, di vetri, di scansie, di cartonaggi, di stoffe, di generi commestibili sono seminati sul terreno' (6). Il 12 giugno, i disordini dilagarono verso la periferia, dove si saccheggiarono molti negozi, 'senza che la forza pubblica e le truppe stazionanti ai crocicchi intervenissero' (7). La Camera del lavoro 'a qualche commerciante che ne ha fatto richiesta ha dato delle guardie a scopo di protezione, che ottimamente hanno fatto il loro dovere' (8). Il 13 giugno a Massa e a Carrara, venne proclamato uno sciopero generale per protestare contro il costo della vita e contro la polizia che il giorno 11, a La Spezia, aveva ucciso due persone. Gli scioperi cessarono quando i negozianti annunciarono riduzioni di prezzi per i generi alimentari e le scarpe. Il 14 giugno il saccheggio dei negozi si estese ad altre tre città. Il 15 giugno a Pisa la Camera del lavoro, diretta dai sindacalisti, proclamò uno sciopero generale di 24 ore per protestare contro il contegno tenuto dalla polizia a La Spezia e contro il costo della vita. Frattanto a La Spezia, in un imponente comizio, i socialisti e il segretario della Camera del lavoro proposero la cessazione dello sciopero, a condizione che il governo, in attesa del pubblico processo, rilasciasse le persone arrestate durante i disordini dei giorni precedenti, e ordinasse una riduzione generale del 30 per cento sui prezzi. Gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari volevano una riduzione del 50 per cento, e il rilascio degli arrestati senza nessun seguito, neppure a carico di coloro che erano stati presi mentre portavan via la roba dai negozi. Gli anarchici e i sindacalisti ebbero partita vinta; ma la popolazione era stanca. Il 16 giugno la Camera del lavoro ordinava per il giorno seguente la cessazione dello sciopero; gli anarchici e i sindacalisti, per distinguersi dai socialisti, ordinarono che lo sciopero fosse continuato per altre 24 ore. Non solo gli anarchici, i comunisti e i sindacalisti, ma anche persone che in condizioni normali erano di sentimenti conservatori, sembravano impazzite. L'11 giugno, a Genova, l'associazione industriali e commercianti proclamò una serrata di cinque giorni per protestare contro il governo, che non aboliva tutte quelle restrizioni alle quali era stata soggetta durante la guerra l'iniziativa privata, progettando invece di imporne delle altre. Dato che scioperavano persone rispettabili, come gli industriali e i commercianti, la Camera del lavoro decise per il 12 giugno uno sciopero generale di protesta 'contro il crescente costo della vita, contro il governo e contro gli affamatori del popolo' (9). Allo sciopero parteciparono tutti i partiti democratici e l'associazione combattenti. Durante un comizio nei pressi della Camera del lavoro, un gruppo di 'arditi' si scontrò con i dimostranti, e se ne ebbe un morto e sei feriti tra i civili, e quattro feriti tra la polizia. Molti negozi furono saccheggiati, e parecchie finestre rotte; un industriale che si recava in città in macchina fu fatto scendere e la macchina distrutta; un deputato conservatore venne malmenato. Altri comizi di protesta e dimostrazioni contro l'alto costo della vita si ebbero in diverse località vicino a
Genova. Il giorno dopo, 13 giugno, i disordini continuarono a Genova, da parte di gruppi isolati, che nel pomeriggio imposero la cessazione del servizio tranviario e la chiusura dei negozi. L'ordine fu ristabilito il 14 giugno, ma la serrata degli industriali e dei commercianti continuò, con la puntualità che si addice quando si tratta di affari, sino allo scadere del quinto giorno. A Milano e a Torino, nel pomeriggio del 13 giugno, quando giunse la notizia che il cadavere di Rosa Luxemburg era stato ritrovato a Berlino in un canale, 'persone ignote' (probabilmente teste calde comuniste) andarono in giro annunciando che la Camera del lavoro aveva proclamato uno sciopero generale di protesta. Scioperi improvvisi si ebbero in molte fabbriche, e a Milano il servizio tranviario venne interrotto. Qui la Camera del lavoro ordinò agli scioperanti di riprendere il lavoro il giorno dopo, e venne obbedita; a Torino, dove la Camera del lavoro e la federazione socialista erano controllate dai comunisti, i disordini furono molto più gravi. La sera del 13, 20000 persone si riunirono nel centro della città cantando una canzone che finiva con le parole 'Morte al Re'; vi furono numerosi scontri tra polizia e dimostranti; la polizia invase la Camera del lavoro, inseguendo i rivoltosi di piano in piano; vi furono cinque feriti, tra i quali, grave, un poliziotto; in seguito a questi fatti, in città vi fu il giorno dopo uno sciopero generale di protesta. A Bologna, la mattina del 15 giugno, mentre un grande corteo socialista attraversava la città, un gruppo di estremisti che si erano uniti ad esso chiese che venissero ritirate da lungo le strade le bandiere tricolori; ne nacquero dei conflitti; un ufficiale venne aggredito e, facendo uso della rivoltella, ferì una donna. Nel pomeriggio, un gruppo di nazionalisti e di 'arditi' organizzò una contro-dimostrazione. Ecco come il quotidiano "Idea Nazionale" del 17 giugno descrive i fatti: «Verso le 18 una dimostrazione popolare, con alla testa i nazionalisti, si formò in via Indipendenza. A loro si unirono soldati e ufficiali. (...) Alla piazza avvengono tafferugli violenti fra nazionalisti e socialisti ed è necessario che intervenga la forza per sciogliere i dimostranti. (...) I nazionalisti si portano quasi di corsa in via Cavaliera, dove ha sede la Camera del Lavoro "senza che l'autorità cercasse di fermarli" (10). Dalla Camera del Lavoro erano già usciti quasi tutti gli organizzatori. (...) I dimostranti giunti all'ingresso si fermarono e un giovanotto, rivolgendosi ai compagni, gridò: Avanti! Avanti! [Un ardito si precipitò dentro, non si sa a che scopo. (!!!) Venne subito circondato dai presenti che gli strapparono di dosso un gagliardetto e lo cacciarono via a calci e spinte. Altri 'arditi' si fecero avanti per difendere il loro compagno e vendicare l'insulto che aveva subito.] Fu tentata una irruzione nella Camera del lavoro e poco dopo si udirono alcuni colpi di rivoltella che si susseguirono per una decina di minuti fra le due parti. (...) Due colpi andarono a ferire gli studenti. (...) Condotti dai pompieri al posto di soccorso, dichiararono di essere stati colpiti dai loro amici per disgrazia» (10 bis). Il giorno seguente, la Camera del lavoro, controllata dai socialisti di destra, si rifiutò di proclamare lo sciopero generale; ma un'altra Camera del lavoro, da poco creata dai sindacalisti rivoluzionari e dai comunisti, proclamò lo sciopero; e il giorno dopo i tram non andarono e molte fabbriche rimasero ferme. Nelle campagne intorno a Padova, gli affittuari scioperavano sotto la guida dei socialisti. Il 21 giugno un proprietario terriero venne aggredito a casa sua, e si difese a fucilate ferendo tre persone, di cui una in modo mortale. In provincia di Bergamo i braccianti erano controllati dai popolari. Mentre i socialisti chiedevano 'la terra ai contadini,' i popolari chiedevano 'che la terra fosse affittata ai contadini'; i loro seguaci si riunivano al suono delle campane. Il 24 giugno a Genova, la federazione dei lavoratori del mare, che aveva una controversia in corso con le società di navigazione, proibì la partenza di un piroscafo,
e il personale del piroscafo eseguì l'ordine. Il 30 giugno, tale divieto fu esteso ad altri due piroscafi. A Sampierdarena, il 25 giugno, l'associazione combattenti, d'accordo con i fascisti locali, si oppose alla vendita all'asta dei mobili di tre famiglie di excombattenti che non avevano pagato l'affitto mentre i loro uomini erano al fronte. Durante la dimostrazione si minacciarono di morte 'i barbari sfruttatori dei difensori della patria,' e si minacciò di far vendetta contro 'magistrati, giudici, questurini, avvocati, complici dei barbari proprietari di case,' impedendo che si tenesse l'asta, invitando gli altri affittuari a pagare solo metà del prezzo di affitto, invadendo l'aula della corte al canto di 'Fratelli d'Italia, l'Italia si è desta.' A Napoli, il 28 giugno, i contadini si rifiutarono di portare i loro prodotti in città, non intendendo accettare i prezzi stabiliti dal municipio. Perfino i preti scioperarono; a Loreto, il 1 maggio, sei preti si rifiutarono di celebrare la Messa, non avendo ricevuto l'aumento di salario richiesto, e furono congedati, ma fecero 'immediata sottomissione': quindi vi fu un esempio di sciopero, serrata e vittoria dei datori di lavoro (11). Uno sciopero di preti ebbe luogo anche a Prato, senza che i giornali che ne davano la notizia ne spiegassero il motivo (12). A Napoli, il 1 luglio, 200 preti inviarono una lettera ai giornali minacciando uno sciopero, perché con lo stipendio di 200 lire mensili non potevano più vivere; la lettera diceva: 'Ne abbiamo abbastanza. La fame fa uscire il lupo del bosco' (13). Chi voglia rendersi completamente conto della situazione, deve tener presente che, mentre i dati relativi agli scioperi economici nelle industrie e nell'agricoltura si possono considerare completi, gli scioperi di solidarietà e gli scioperi parziali o generali promossi per ragioni politiche non erano presi in considerazione dalle statistiche ufficiali. I due quotidiani milanesi dai quali abbiamo tratto le notizie relative agli scioperi politici e di solidarietà forniscono una cronaca abbastanza diligente per l'Italia settentrionale, ma non si occupano dei fatti dell'Italia centrale e meridionale, a meno che questi non siano di particolare gravità. Perciò l'agitazione nel paese era anche maggiore di quanto non ci portino a credere i dati che abbiamo raccolto. In questi fatti del giugno 1919, anche più che in quelli dell'aprile precedente, vengono chiaramente alla luce molti dei tratti caratteristici destinati a ripetersi continuamente negli anni seguenti. 1) Ogni volta che i nazionalisti, i fascisti, i futuristi e gli 'arditi' attaccavano i centri di comando delle istituzioni socialiste, la polizia concedeva loro via libera. Tale pratica era illegale e immorale; ma durante i comizi socialisti e nelle dimostrazioni di piazza c'era sempre qualcuno che attaccava la polizia a colpi di pietra o a revolverate, e la polizia era lieta di vedersi vendicata da dei volontari. 2) Massimalisti, spartachisti e anarchici non potevan chiedere la protezione della polizia, dopo che nelle loro dimostrazioni la insultavano, la prendevano a sassate e la ferivano. Avrebbero dovuto difendersi da sé, armati contro coloro che li attaccavano armati; ma a questo non pensarono mai, più che non avrebbero pensato di fare un viaggio nella luna. Persuasi che nel 'grande giorno' il 'proletariato rivoluzionario' sarebbe stato invincibile, aspettavano che arrivasse questo 'grande giorno.' Nel frattempo rispondevano agli assalti armati con dei futili scioperi di protesta, che secondo loro avrebbero dovuto servire al proletariato come 'ginnastica rivoluzionaria.' 3) Nazionalisti, fascisti, futuristi e 'arditi' si erano resi conto di quanto fosse puerile la tattica rivoluzionaria dei loro avversari, e sicuri della connivenza della polizia, non si lasciarono mai spaventare dai conflitti, anzi avevano piuttosto l'interesse massimo a provocarli. Il giornale nazionalista così commentava gli incidenti di Bologna del 15 giugno: «Non deploriamo affatto questi incidenti. I nazionalisti, e con loro i veri e forti cittadini italiani di Bologna, hanno reagito contro la provocazione e la violenza socialiste, come hanno reagito due mesi fa a Roma e a Milano, difendendo contro la imposizione
bolscevica il nome e la volontà popolare. (...) Quando un gruppo di persone (...) si getta a violentare una città, straccia le bandiere nazionali, insulta gli ufficiali, e dichiara apertamente lo stato di guerra civile - tutte cose concretamente e precisamente avvenute a Bologna - sia anche concreto e preciso dovere dei cittadini reagire. Anche se questa reazione sia una battaglia di piazza - del resto in proporzioni minime - a colpi di rivoltella» (14). 4) Il fatto più importante era che dietro i nazionalisti, i futuristi, i fascisti e gli 'arditi' manovrava un gruppo di generali. Nel 1915 allo scoppio della guerra italo-austriaca, l'esercito italiano aveva 142 generali. Alla fine della guerra portavano questo grado 1246 ufficiali. Nel 1914 in Francia c'erano 360 generali; alla fine della guerra ce ne erano 769. Quindi l'Italia aveva 477 generali più della Francia. Il numero di colonnelli e di ufficiali di grado inferiore era cresciuto in proporzione. Ma gli ufficiali di grado più basso erano dei civili che erano stati mobilitati per il tempo di guerra ed erano ansiosi di far ritorno alla vita civile; i colonnelli e i generali non avevano una condizione civile a cui tornare, e non volevano venir messi in congedo. Il 4 marzo alla Camera un deputato richiamò l'attenzione del ministro della Guerra su questa situazione: «L'on. Caviglia (...) potrebbe forse fare i nomi di quei capitani addetti al Comando Supremo che non hanno mai combattuto un giorno, che non hanno mai comandato un'unità, che non hanno visto se non col binocolo le fiamme di una battaglia, e che oggi sono generali! (...) Se si dicesse al Parlamento o al paese di aumentare i Corpi di armata da 12 a 15 o a 18, Parlamento e paese si ribellerebbero. Ed allora si abbandona la via maestra e si cercano quelle oblique. (...) Per esempio, prima della guerra il capo di stato maggiore presso il corpo di armata era un colonnello: oggi è un genera e brigadiere, e il capo dello stato maggiore della divisione, che era un tenente colonnello, oggi in tutte le divisioni territoriali d'Italia è un colonnello, e così via in tutti i gradi. (...) Si va ventilando che ogni brigata, oltre i due reggimenti che porterebbero ciascuno due colonnelli e il brigadiere, dovrebbe avere nei quadri un terzo reggimento, di guisa che si farebbe il posto ad atri due colonnelli e ad un altro brigadiere» (15). Il ministro della Guerra, quello stesso generale Caviglia che nell'aprile doveva condurre la 'esauriente inchiesta' per l'incendio dell'"Avanti!" a Milano, non negò nessuno di questi fatti, ma si limitò a dire che anche lui 'seguiva con molta attenzione tutti questi problemi.' Le pensioni agli invalidi e alle famiglie dei caduti, e le visite mediche a coloro che accusavano infermità, venivano concesse solo dopo ritardi esasperanti. Questo in parte era dovuto allo stato di disordine in cui si trovavano le carte personali, ma per lo più la ragione era che gli addetti ai comandi tiravano le cose il più a lungo possibile per evitare di essere smobilitati. Un funzionario addetto alle pensioni che in un giorno sbrigò più di dodici pratiche venne considerato dai suoi colleghi un crumiro, e la loro ostilità fu tale che gli resero la vita impossibile. Eppure, lavorando sul serio, un solo funzionario avrebbe potuto sbrigare almeno quindici pratiche al giorno. I reduci e le famiglie dei caduti si sentivano defraudati dei loro diritti, da un 'governo' che dava prova di cattiva volontà e da una 'borghesia' malvagia. Per molti generali e colonnelli, il modo più sicuro per rendersi indispensabili era una nuova guerra. Nel 1919 il comando supremo dell'esercito e della marina aveva allo studio piani per non meno di altre quattro guerre: una guerra in Georgia contro i bolscevichi russi; una guerra in Asia Minore contro i turchi; una guerra in Albania contro gli albanesi, la Grecia e la Yugoslavia; e una guerra in Dalmazia e in Slovenia contro la Yugoslavia.
Nel giugno del 1919 cominciarono a circolare voci di un complotto per un colpo di stato militare; si sarebbe dovuto sciogliere la Camera dei deputati, e arrestare 'i responsabili dei disastri del paese,' dichiarare illegali le organizzazioni operaie e iniziare una guerra contro la Yugoslavia. Il Duca d'Aosta (cugino del Re), il generale Giardino, D'Annunzio, Federzoni e Mussolini avrebbero fatto parte del complotto; gli 'arditi' e gli ufficiali avrebbero costituito le forze di combattimento. Giardino, Federzoni, D'Annunzio e Mussolini smentirono quella 'stupida chiacchiera,' quella 'favola idiota'; ma, intervistato dal "Corriere della Sera", Giardino ammise che in conversazioni private al Senato coi suoi colleghi, egli aveva sostenuto la necessità di 'sentire libera e genuina la voce del popolo,' per 'prevenire qualunque moto inconsulto,' e dare 'a questo popolo affidamenti precisi che avrà facoltà e modo di esprimere il suo volere mediante la nomina legale della sua rappresentanza politica.' 'E' chiaro? E non ho altro da dire' (16). Non era chiaro affatto, dato che non aveva spiegato se tutte queste misure dovevano venir prese da un gabinetto di normale nomina regia secondo le regole costituzionali, o da un gabinetto creato da quel colpo di stato militare, di cui era stato fatto il nome di Giardino come di uno dei capi. Il suo silenzio su questo punto invece di allontanare il sospetto lo confermò. D'Annunzio annunciava di non intessere complotti, ma 'nel nome del popolo vero' era pronto ad osare qualsiasi impresa e 'con la sola forza del popolo vero, l'Italia avrà la sua quindicesima vittoria' (17); nella guerra italo-austriaca aveva contato quattordici vittorie. Dove e contro chi doveva esser vinta la quindicesima vittoria? A Roma e contro il Parlamento, o fuori d'Italia e contro la Yugoslavia? Chiunque si sollevi contro un governo legittimo parla sempre nel nome del 'popolo vero.' Mussolini fece la seguente dichiarazione: 'Accadrà quello che deve accadere' (18). Il conservatore "Corriere della Sera" non poteva accusare in modo esplicito un principe della casa reale e un ufficiale di un alto grado dell'esercito; quindi sostenne che le voci di una congiura militare erano infondate; ma si dimostrava lieto 'che un temporale di ridicolo sommerga ed affoghi queste panzane'; 'dipingere il diavolo sul muro serve talvolta a qualche cosa'; poi si prendeva la pena di spiegare perché il paese avrebbe reagito con 'lo sdegno e la rivolta' contro qualsiasi tentativo di un colpo di stato militare. «La velleità di crear fatti compiuti e di ricominciare in un modo o nell'altro la guerra, è stata troppe volte espressa nei comizi e nei giornali. (...) Da un lato è naturale che, essendo mobilitato senza la guerra un grande esercito glorioso, vi sia qualcuno che, in accademiche conversazioni, pensi di dare una funzione (interna o esterna) a quest'organo pletorico. Dall'altro lato è naturale che le popolazioni soffrano di una situazione anormale e precaria (...). Né possono non soffrire dell'immenso gravame di cui le carica il mantenimento di uno stato di guerra senza guerra. (...) E non v'è che un solo programma di cura che non sia ciarlatanesco: la pace, la smobilitazione, l'apertura delle frontiere, la ripresa degli scambi, la restaurazione della fiducia e del lavoro. E' proprio il programma diametralmente opposto a quello che viene attribuito al fantastico complotto militarista, dittatoriale e perpetratore della guerra» (19). Le attività politiche degli 'arditi' devono esser messe in relazione alle manovre politiche della mano nera militare. L'amministrazione militare, ritardando di quanto era possibile la smobilitazione, col pretesto che il problema della frontiera italoyugoslava era ancora da risolvere, mandava in licenza migliaia di 'arditi,' i quali partecipavano in divisa alle dimostrazioni politiche, col pugnale sul fianco, levando il loro grido di guerra, 'A noi!,' senza che le autorità militari facessero niente per scoraggiare queste azioni illegali. Gli 'arditi' non si limitavano alle dimostrazioni politiche; ogni giorno l'"Avanti!" pubblicava intere colonne di reati commessi in tutta
Italia dagli 'arditi.' Il giornale nazionalista levava energiche proteste, sostenendo che l'"Avanti!" si serviva di singoli atti di violenza come pretesto per diffamare gli 'arditi.' «L'"Avanti!" tenta di diffamare negli 'arditi,' attraverso questo o quel caso individuale di delinquenza, lo spirito della vittoria che negli 'arditi' assume una forma più evidente e più plastica. (...) Ma (...) gli 'arditi,' convenientemente epurati d'ogni tristo avanzo di bassofondo cittadino (...) e convenientemente organizzati, rimarranno a perpetuare nell'Italia di domani proprio quello spirito di educazione nazionale e militare che ci è valso, in guerra, il sovrumano impeto vittorioso dell'assalto e, in pace, l'attiva e fattiva resistenza alle mene criminose dei nemici della patria. (...) L'Italia non permetterà che i suoi figli migliori siano iniquamente offesi» (20). Il modo migliore per porre fine alla campagna dell'"Avanti!" era quello di sciogliere i battaglioni di 'arditi,' ora che la guerra era finita, vietare l'uso della divisa militare a tutti coloro che non erano più sotto le armi, e lasciare che se la sbrigasse la polizia con tutti i delinquenti comuni. Invece, il 17 giugno, i giornali pubblicarono la notizia che un generale era stato nominato ispettore degli 'arditi,' col compito di riorganizzarli e disciplinarli. L'"Idea Nazionale" era stata ben informata: nel maggio aveva affermato che gli 'arditi' non sarebbero stati sciolti. Le autorità militari italiane avevano davanti agli occhi quei 'Frei Korps,' che in Germania, a partire dal dicembre 1918, conducevano la guerra civile sotto la guida di ufficiali dell'ex-esercito imperiale. In Italia, gli 'arditi' dovevano essere il corrispondente dei 'Frei Korps' tedeschi.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO UNDICESIMO. 1. Nelle descrizioni dei disordini del dopoguerra in Italia non viene mai detto che la situazione era ugualmente grave in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti d'America, nel Belgio, in Svizzera, e si è perciò portati a credere che, negli anni del dopoguerra, il solo popolo italiano abbia attraversato una crisi di follia a causa della propria 'arretratezza' o della sua 'natura emotiva,' tanto diversa da quella di popoli più civilizzati e più equilibrati. Sta di fatto che ai primi di giugno, i poliziotti di Londra, Liverpool, Birmingham, Manchester e di altre importanti città, minacciarono uno sciopero per ottenere non soltanto un aumento di stipendio, ma anche il diritto di formare un sindacato e di aderire a scioperi di solidarietà con tutti gli altri sindacati. A Londra 20000 poliziotti marciarono su Hyde Park, e alla dimostrazione si unirono 100000 persone; gli oratori attaccarono il ministero e dichiararono che le votazioni ufficiali sulla questione dello sciopero avevano dato come risultato 44539 voti a favore e 4324 contrari, ma lo sciopero fu rinviato a dopo la firma della pace. A Plymouth l'8 giugno, 1500 soldati si rifiutarono di salire sul treno che doveva portarli ad un campo di isolamento, e le autorità dovettero sottomettersi. A Liverpool, Cardiff e in altre città il 12 e 13 giugno si ebbero violenti combattimenti tra i lavoratori negri e la popolazione; vi furono morti e feriti; alcune case vennero prese a sassate, incendiate e saccheggiate. Il 16 giugno, alcuni soldati rivoltosi devastarono un campo militare, saccheggiarono la mensa ufficiali e i negozi, portaron via le casseforti e altri valori, tentaron di dar fuoco a una banca e a due altri edifici, e distrussero un teatro della capacità di 2000 posti. In luglio, in seguito a uno sciopero nello Yorkshire, 200000 minatori si astennero dal lavoro, e vi furono sei miniere inondate e diciassette che corsero il rischio di un disastro analogo. In agosto, i poliziotti di Londra e di Liverpool tentarono uno sciopero, che però fallì. A Liverpool, circa 150 negozi furono saccheggiati, i soldati che
prestavano servizio d'ordine furono presi a sassate, e si ebbero molti feriti; a Londra scioperarono gli addetti alla ferrovia sotterranea e gli spazzini; molte città corsero il rischio di rimanere senza pane a causa di uno sciopero dei fornai. In Svizzera, a Basilea e a Zurigo, in agosto vi fu uno sciopero generale contro l'alto costo della vita, al quale parteciparono anche i dipendenti pubblici; a Basilea durante i disordini vi furono cinque morti. In Francia, ai primi di giugno, erano in sciopero 500000 lavoratori, di cui 200000 metallurgici della regione di Parigi. Il 2 giugno scioperarono gli addetti alla ferrovia sotterranea, gli autisti di taxi e i conducenti di autobus. Il 17 giugno, a Brest, 200 marinai, sventolando una bandiera rossa, tentarono di irrompere nella prigione della marina per liberare i marinai che vi si trovavano. Negli Stati Uniti gli scioperi si svolsero su scala gigantesca. In giugno scioperarono autisti, sorveglianti, facchini, impiegati postali, operatori telegrafici e telefonici, elettricisti. Furono esplose delle bombe a Washington, Boston e New York. In luglio, uno sciopero dei lavoratori del porto tenne fermi 500 piroscafi a New York, e 700 negli altri porti. A Chicago scioperarono 30000 lavoratori edili, Boston fu paralizzata da uno sciopero della ferrovia sotterranea e dei tram. In agosto venne bloccato tutto il traffico ferroviario tra New York e Boston. In Italia, uno sciopero delle forze di polizia non fu mai né minacciato né tentato. Ai primi di agosto, il presidente del Consiglio, Nitti, ricevette 'una notifica a mano di usciere, in cui era contenuto l'invito da parte delle guardie carcerarie di provvedere ai miglioramenti richiesti dalla classe' (1); ciò fu considerato uno scandalo intollerabile. La differenza fondamentale tra i disordini che ebbero luogo in Italia e quelli degli altri paesi nasce dal fatto che negli altri paesi, e in Inghilterra specialmente, la stampa attenuava le cose o non ne parlava affatto, mentre la stampa italiana dedicava a questi fatti uno spazio enorme, creando con ciò maggiore eccitazione e maggiori preoccupazioni. In politica quello che conta specialmente non è quello che realmente accade, ma quello che la gente crede che accada. La stampa italiana fu sempre più chiassosa della stampa degli altri paesi, dando in tal modo l'impressione di una eccitazione maggiore, e creando veramente uno stato di eccitazione, anche quando ciò si sarebbe potuto evitare facendo uso delle notizie con maggiore cautela. 2. Dal libro del generale Giardino, "Piccole faci nella bufera" (2), apprende che il complotto di cui si parlò nel giugno del 1919, e le altre 'famose congiure,' furono 'inventate' per 'diffamare capi militari, non esclusi principi del sangue,' e che egli fu 'sottoposto in varii periodi a sorveglianza e a pedinamento' da parte della polizia. Ma Giardino nel suo libro non si diffonde 'su queste porcherie,' e afferma soltanto che si sente 'di tutto questo sommamente onorato,' e che 'cambiato l'indirizzo politico, risultò in inchieste ufficiali (...) come si inventassero e quale sudicio arnese di polizia ne fosse il principale inventore.' Apprendiamo in ogni modo che 'in varii periodi' venne sorvegliato. Se non ci fossero state gravi ragioni di sospetto contro un uomo che era un capo dell'esercito, già ministro della Guerra, e senatore, perché mai la polizia avrebbe perso il suo tempo con lui? E se questi sospetti erano fondati, era naturale che le indagini venissero affidate agli agenti di polizia. Quindi è difficile comprendere il disprezzo di Giardino verso uomini che facevano soltanto il loro dovere, e senza l'opera dei quali nessun governo può andare avanti. I 'principi del sangue,' di cui parla Giardino, erano 'un principe del sangue,' il Duca d'Aosta, cugino del Re. Vedremo come veramente egli abbia avuto una parte nella congiura militare che doveva condurre al colpo di stato dell'ottobre 1922.
CAPITOLO DODICESIMO. DA ORLANDO A NITTI. Il fallimento di Orlando alla Conferenza della Pace suggellò la condanna del suo gabinetto. Coloro che erano stati contrari alla guerra avversavano Orlando, perché apparteneva al partito di guerra; coloro che sostenevano una politica più intelligente alla Conferenza della Pace lo avversavano per la sua inettitudine; coloro che da lui si aspettavano che da Parigi riportasse in tasca la Dalmazia più Fiume lo avversavano, dato che Orlando non aveva osato annettere all'Italia Fiume e la Dalmazia in barba a Wilson, Clemenceau e Lloyd George. Non si domandavano che cosa sarebbe accaduto dell'Italia se l'Inghilterra avesse cessato le spedizioni di carbone e gli Stati Uniti quelle di grano; per essi la Politica non era l'arte del possibile, ma il sogno del desiderabile. Di ritorno alla Camera per esporre gli avvenimenti recenti, Orlando ricevette soltanto 78 voti di fiducia; gli votarono contro 259 deputati, mentre 171 non parteciparono alla seduta (1). Il successore di Orlando alla presidenza del Consiglio fu Francesco Saverio Nitti. Nessun presidente del Consiglio in Italia si era mai trovato di fronte una eredità più difficile. Ai disordini avvenuti sinora in Italia a causa dei rivolgimenti economici e morali del dopoguerra, comuni a tutto il mondo, si veniva ad aggiungere adesso l'isterismo prodotto dal fallimento alla Conferenza della Pace. Da ogni parte si levavano grida contro la Conferenza della Pace e contro il Trattato di Versailles. Massimalisti, comunisti e anarchici strepitavano, perché gli strepiti avvicinavano il 'grande giorno'; socialisti di destra, che durante la guerra chiedevano 'una pace qualunque,' ora che la pace c'era non erano contenti di quel genere di pace; quei democratici che avevano voluto la guerra nella speranza di ottenere una giusta pace, strepitavano che quella non era la giusta pace da essi invocata; i nazionalisti strepitavano perché erano rimasti a mani vuote; coloro che si erano opposti alla guerra strepitavano, perché così potevano anche strepitare contro coloro che la guerra avevano voluto. I più rumorosi erano i nazionalisti, avevano sostenuto sino in fondo Orlando e Sonnino, e ora che in quel disastro totale i loro uomini di fiducia erano naufragati, non erano abbastanza onesti da ammettere i loro errori. Nessun uomo politico che si rispetti lo fa mai. Cercavano un capro espiatorio su cui scaricare le loro rampogne per la 'umiliazione' sofferta dall'Italia, e trovarlo non fu difficile. Non Orlando e Sonnino, né tanto meno coloro che li avevano appoggiati, erano stati i responsabili, ma invece quegli italiani che per mancanza di disciplina e di patriottismo non avevano appoggiato Orlando e Sonnino contro 'lo straniero.' Se tutti gli italiani fossero rimasti compatti dietro i loro rappresentanti durante le trattative di pace, Wilson e gli alleati non avrebbero mai osato negare all'Italia il compimento delle sue 'aspirazioni nazionali.' I 'traditori' della 'democrazia parlamentare' avevano 'pugnalato l'Italia alle spalle.' Mussolini, come suo solito, fu il più violento di tutti. Accusò di vigliaccheria gli uomini del governo e incitò il popolo italiano a schiacciare tutti i 'traditori' - cattolici, democratici e 'bolscevichi' soprattutto - e offrì il proprio aiuto a Russia, Germania, Ungheria e Bulgaria, che chiamava le 'nazioni proletarie,' in una nuova 'guerra rivoluzionaria' contro le 'nazioni capitaliste.' L'Italia non avrebbe mai trovato pietà presso americani, inglesi e francesi, 'lupi, volpi e sciacalli,' fintanto che fosse rimasta di fronte a loro con aria umile e servile; per disarmare i suoi terribili alleati avrebbe dovuto mostrar loro i denti, e non piagnucolare quando questi la tenevano in poco conto (2).
Tutta questa levata di scudi per la 'vittoria mutilata' colpì in primo luogo i giovani e i ceti medi. L'idea che l'Italia, dopo tante sofferenze, fosse vittima di una ingiustizia e di una ingratitudine criminale, creò in loro il desiderio di un'azione violenta contro coloro che in Italia e fuori d'Italia erano i responsabili di tale disastro. Arrivarono a convincersi che i vecchi uomini politici avrebbero dovuto essere estromessi dal potere anche a costo di una rivoluzione, e che l'affronto patito dal paese alla Conferenza della Pace avrebbe dovuto essere vendicato anche a costo di una nuova guerra. Contro l'accusa di essere degli antirivoluzionari, avrebbero protestato indignati; non avrebbero mai dato il loro appoggio ad un movimento politico al servizio degli interessi e degli ideali conservatori. Mussolini soddisfece la loro confusa agitazione presentandosi a loro come il solo rivoluzionario autentico che esistesse allora in Italia. Uno scrittore fascista ha osservato che tra i seguaci di Mussolini si ritrova 'la mentalità repubblicano-anarchica, la mentalità sindacal-rivoluzionaria, la mentalità goliardica e quella futuristica, potenziate da tutte le dinamiche dell'arditismo (...); fortunato incontro di valori e forze fino allora disperse, solidarietà imprevista di cui la guerra era stata la prima scuola' (3). In altre parole, tra i seguaci di Mussolini si potevano ritrovare tutte le mentalità, tranne quella conservatrice. Il movimento fascista non fu un movimento di difesa contro i frutti rivoluzionari della guerra, ma fu esso stesso un frutto rivoluzionario; senza dubbio Mussolini combatté contro i socialisti e i comunisti, ma anche gli anarchici combatterono contro di loro, e persino i comunisti furono continuamente in conflitto con i socialisti, per quanto sino alla fine del 1920 siano stati nello stesso partito. Queste non erano lotte tra conservatori e rivoluzionari, ma tra uomini che sostenevano di essere uno più rivoluzionario dell'altro. Il solo gruppo politico che in quegli anni ebbe il coraggio di dichiararsi completamente conservatore e antirivoluzionario, sostenendo apertamente la repressione, fu il partito nazionalista. Gli intellettuali delle classi abbienti e gli ufficiali dell'esercito regolare che si occupavan di politica, non aderirono al movimento fascista ma al movimento nazionalista; allora nessuno avrebbe sospettato che un giorno Mussolini sarebbe diventato il capo di un partito le cui idee erano prese quasi tutte dal nazionalismo. Che cosa ci poteva essere in comune tra la grave e pedante dottrina autoritaria dei nazionalisti e gli sbrigliati clamori di Mussolini? A quel tempo l'abisso che si apriva tra i nazionalisti e i fascisti sembrava incolmabile. Nazionalisti, fascisti e futuristi attaccarono Nitti con estrema violenza. Era stato ministro del Tesoro con Orlando dal novembre 1917 (dopo la sconfitta di Caporetto) sino alla fine della guerra, e fintanto che era stato nel gabinetto Orlando i nazionalisti lo avevano visto assolutamente di buon occhio (4). Ma nel gennaio del 1919, Nitti si era dimesso perché Orlando e Sonnino avevano respinto il suo piano per una rapida smobilitazione; da quel momento egli fu uno dei traditori che avevan pugnalato l'Italia alle spalle (5). Quando la sconfitta di Orlando cominciò ad apparire possibile e il nome di Nitti a esser dato come il probabile successore, i nazionalisti mobilitarono contro di lui D'Annunzio. Nei giornali del 26 maggio, D'Annunzio denunciava una 'congiura' capeggiata da Giolitti e da Nitti, e invocava contro di loro 'un castigo diritto come il getto del lanciafiamme maneggiato dall'Ardito' (6). Secondo D'Annunzio, Nitti 'di là dall'Atlantico' era stato già 'covato dall'alta banca.' Avevan ben altro da fare che covare Nitti; ma chiunque accusi un uomo politico di essere al servizio dei banchieri, ha buone probabilità di essere creduto. Non appena alla Camera Orlando venne sconfitto, a Roma, Torino e Milano vennero organizzate dimostrazioni, al grido di 'Abbasso Giolitti, abbasso Nitti; viva l'Italia, viva l'esercito.' Nitti si dette premura di annunciare che non intendeva 'consentire alla supremazia di Giolitti,' ricordando che aveva servito il paese come ministro del Tesoro dalle rovine di Caporetto sino alla fine vittoriosa della guerra, e che uno dei suoi figli abile al servizio militare era stato in guerra volontario. Ma erano parole al vento.
Al momento in cui Nitti andò al governo, era pronta per la partenza una spedizione militare in Georgia. Wilson, Lloyd George e Clemenceau, se da una parte rendevano vani tutti gli sforzi di Orlando e di Sonnino, li avevano però incoraggiati a correre in aiuto di quei generali zaristi che stavano attaccando la Russia sovietica. Orlando e Sonnino eran cascati nella trappola, con la speranza di trovare in Georgia quegli acquisti territoriali che erano mancati in Africa e in Asia Minore, e i capi militari italiani erano ansiosi di 'servire la patria' in Georgia. Nitti pose il veto ai loro piani, e ordinò che la smobilitazione venisse compiuta il più rapidamente possibile. Se non si tiene conto dell'odio dei capi militari per Nitti, non si riesce a capire la incessante asprezza con cui quest'uomo venne attaccato. Il 22 giugno, cioè proprio il giorno in cui Nitti presentava il suo nuovo ministero, l'associazione combattenti tenne a Roma il suo primo congresso nazionale. Vi erano rappresentati 600000 iscritti. Un nazionalista, Giunta, invocò 'un grande movimento di opposizione,' contro la politica 'che l'Italia stava seguendo allora'; fu fatto tacere. Il giorno dopo, l''ardito' Ferruccio Vecchi fu sollevato di peso e buttato fuori. Giunta cercò ancora una volta di portare il congresso a fare una dimostrazione contro il Parlamento, e invocò una assemblea costituente, 'il solo modo per dare al popolo il diritto di governarsi.' L'assemblea costituente era stata, dal 1831 al 1870, uno dei gridi di guerra di Mazzini nel Risorgimento: il popolo avrebbe dovuto proclamare una repubblica in tutta Italia, e una assemblea costituente eletta col suffragio universale avrebbe tracciato la costituzione della nuova repubblica. I repubblicani avevano sempre chiesto l'assemblea costituente, che avrebbe spazzato le istituzioni monarchiche e instaurato una repubblica. Nel 1919 i repubblicani continuavano a battere sul loro vecchio chiodo. Giunta, appropriandosi adesso del loro grido di guerra, esprimeva lo scontento dei suoi amici verso il Re, che aveva chiamato Nitti alla presidenza del Consiglio. Il congresso dei combattenti non dette ascolto a Giunta. Qualcuno propose che venissero invitati Mussolini e D'Annunzio, che erano a Roma, per tenere un discorso. Tale proposta non venne approvata. Era chiaro che i combattenti non volevano aver niente a che fare con nazionalisti, fascisti, o 'arditi.' Non per questo i nazionalisti e i fascisti abbandonarono la lotta. Per la sera del 28 giugno indissero a Roma un comizio di protesta contro Nitti. Il ministro della Guerra proibì agli ufficiali di intervenire, ma molti ufficiali in divisa vi si recarono lo stesso. Uno dei leaders nazionalisti, Corradini, parlò violentemente contro 'la casta politica parlamentare,' la quale dominava 'la nazione e tutte le sue istituzioni, dalle più umili alle più alte, a quelle invano altissime' (7). Era un'allusione al Re che aveva affidato il governo a Nitti. Un altro oratore disse: 'Stringiamoci in una unità sola intorno ad un uomo che fu il più grande soldato: Gabriele D'Annunzio. (...) Combattenti, siamo uniti, siamo pronti ad ascoltare la voce di D'Annunzio, del nostro condottiero altissimo, quando egli ci chiamerà per la salvezza d'Italia!' (8) E ancora un altro oratore: 'Lasciamo stare gli applausi e i fischi. Fatti vogliono essere e non balle' (9). A questo punto una voce annunciò: 'Il comizio è sospeso! Si riprenderà a piazza Barberini,' e la folla si dette a gridare: 'A piazza Barberini!' che era dove viveva Nitti. Al comizio doveva partecipare D'Annunzio, che all'ultimo momento non si fece vedere. Ma l'"Idea Nazionale" del 1 luglio pubblicò il testo del discorso che avrebbe pronunciato se non avesse ritenuto più prudente astenersene. In quel discorso D'Annunzio rimproverava la folla che permetteva che i suoi comizi fossero controllati dai poliziotti. «Ma voi che avete fatto intanto, mentre io preparavo in silenzio, senza perdere un'ora, qualcosa di cui avrete notizia, spero: fra non molto? Quali armi voi mi date? (...) Sono venuto qui (...) per misurare la vostra pazienza, che sembra incommensurabile. (...) Se seguissi il mio istinto, io stasera, con le latte di benzina che avanzarono nella corsa di Buccari, andrei a bruciare il Palazzo Braschi (10), (...)
con una delle mazze ferrate a spunzone (...) andrei a sgonfiare il ciccioso dirimpettaio del Tritone (11), (...) con le mie vecchie ali carsiche (...) mollerei su Montecitorio tutto il carico di bombe che risparmiai a Schoenbrunn. (...) Voi pensate che per ora sia meglio andare a coricarsi. (...) Tornate a casa, mettete la testa fra due guanciali. E mandatemi una buona volta al diavolo.» E' chiaro che il comizio era stato organizzato con l'idea che dovesse finire con un attacco contro Nitti a piazza Barberini, e che polizia e carabinieri avrebbero lasciato passare gli ufficiali in divisa, perché la disciplina militare li obbligava al rispetto verso gli ufficiali come loro superiori. Tuttavia, polizia e carabinieri ebbero ordine di interpretare in modo diverso i loro doveri militari, e impedirono l'aggressione alla residenza di Nitti, colpendo senza riguardo sia i civili che gli ufficiali in uniforme. Non ci furono né morti né feriti, il che dimostra che, date le circostanze, la polizia agì con cautela, mentre gli ufficiali non erano spinti da nessun impulso eroico. I metodi usati dalla polizia per sciogliere la dimostrazione, pugni, bastonate, e anche colpi di pistola e di moschetto, non avevano mai sollevato obiezioni da parte dei nazionalisti, fintanto che erano stati usati contro i 'sovversivi'; questa volta erano nazionalisti, fascisti e ufficiali in divisa che erano stati malmenati. Questo era un delitto imperdonabile di cui Nitti era il responsabile. Egli aveva aggredito, insultato, violentato, e colpito per le strade non un certo numero di ufficiali sediziosi, ma 'i combattenti'; i combattenti non erano coloro che non avevan permesso a D'Annunzio e a Mussolini di parlare al loro congresso, ma quelli che volevano aggredire Nitti. Nel suo numero del 30 giugno, l'"Idea Nazionale" scrisse: «Noi parliamo a nome dei combattenti. E diciamo che siamo decisi alle estreme violenze, ma non tollereremo mai e poi mai che tanta infamia sia consumata contro i combattenti da un tristanzuolo di origini equivoche e di fama screditata che, per difendere se stesso, scatena la guerra civile. Francesco Saverio Nitti dev'essere espulso dal corpo della nazione come un cancro maligno che minaccia l'estrema putrefazione.» Il deputato nazionalista di Roma, Federzoni, presentò una interrogazione contro la polizia, che con 'inaudita violenza' aveva osato senza ragione malmenare 'ufficiali in divisa, con gravissima offesa della disciplina militare' (12). Non erano gli ufficiali che avevan violato la disciplina militare partecipando ad una manifestazione illegale, ma era la polizia che aveva impedito loro di aggredire l'abitazione del presidente del Consiglio. D'Annunzio proclamò che la sera del 28 giugno i caduti in guerra erano stati uccisi una seconda volta: 'Essi furono finiti a colpi di bastone italiano, come quelli che boccheggiarono sotto le atroci mazze austriache' (13). Nel suo numero del 2 luglio, l'"Idea Nazionale" pubblicava una lettera, firmata 'tantissimi ufficiali,' in cui si leggeva: «Il Ministero, il Parlamento vogliono fare la guerra civile? E sia. Siamo pronti, siamo decisi a tutto. (...) Vogliamo solo dei capi che ci guidino, vogliamo un movimento organizzato. (...) Abbiamo le armi, abbiamo l'esercito con noi. Al momento stabilito tutte le truppe ci seguiranno.» Sempre l'"Idea Nazionale", nel suo numero del 3 luglio, pubblicava una lettera a firma 'un ufficiale combattente,' che diceva: «Impugnamo le rivoltelle e difendiamo il nostro onore, la nostra dignità. (...) Se un ufficiale ha il dovere di uccidere un soldato che lo aggredisce, tanto maggiormente
l'avrà di fronte a un carabiniere. (...) Se all'onore nostro non viene data soddisfazione, se i nostri maggiori non la pretendono, abbiamo il diritto a ribellarci a loro.» Secondo il regolamento militare queste lettere sediziose, pubblicate senza le firme dei singoli, erano proibite. E' molto probabile che esse fossero preparate dalla redazione del giornale. Ma il figlio di Salandra, che faceva l'avvocato, si assunse il compito di spiegare in una lettera firmata i diritti e i privilegi degli ufficiali in divisa; certamente non era loro permesso di partecipare a dimostrazioni politiche, ma il compito di far rispettare la legge spettava ai loro superiori e non alla polizia o ai carabinieri; un ufficiale poteva essere arrestato soltanto da un ufficiale di grado superiore o come minimo dello stesso grado; perciò un carabiniere o un poliziotto che colpivano un ufficiale commettevano un 'grave atto di insubordinazione.' Da parte sua, il figlio di Salandra diceva: 'Mi crederei in diritto di reagire con qualunque mezzo, nessuno escluso, contro un mio inferiore, carabiniere o no, che attentasse alla dignità del mio grado,' e non dubitava che tutti i suoi colleghi ufficiali fossero della sua stessa opinione (14). In altre parole, gli ufficiali in divisa avevano il diritto di partecipare a movimenti sediziosi di qualsiasi genere; la polizia poteva soltanto prendere i loro nomi, se gli riusciva, e denunciarli ai loro superiori in modo che questi potessero decidere se era o no il caso di punirli, dopo che il movimento sedizioso era stato condotto a termine. Secondo queste nuove teorie di diritto costituzionale, i nazionalisti tennero un comizio di protesta il 4 luglio, al quale parteciparono 'molte centinaia di ufficiali, di reduci e di cittadini,' sotto la presidenza del combattente Giuriati, che più tardi fu segretario generale del partito fascista e ministro dei Lavori Pubblici con Mussolini. Nitti non fu il solo bersaglio di quel giorno; votarono anche 'un monito solenne nell'ora grave che volge in Italia, alla Corona, al Governo e al Parlamento' (15). Tanto per i nazionalisti e i fascisti, quanto per i massimalisti, gli spartachisti e gli anarchici, le leggi non esistevano più. I primi lavoravano per un colpo di stato militare destinato da ultimo a riuscire; i secondi sognavano una rivoluzione proletaria che non si realizzò mai. Questo turbinio di parole aveva appena cominciato a placarsi, quando una ondata senza precedenti di moti per il caro-viveri sconvolse gran parte d'Italia. I disordini cominciarono a Forlì la mattina del 30 giugno, quando la folla, che era esasperata per i crescenti prezzi delle verdure, uova, frutta, pesce, distrusse nella piazza del mercato tutto quanto vi era in vendita: un metodo certamente non tra i più idonei per ridurre il costo della vita. Anche le organizzazioni operaie vollero fare qualcosa perché diminuisse il costo della vita, e proclamarono per il giorno seguente uno sciopero generale di protesta contro gli speculatori e contro il governo che non faceva niente per fermare la 'speculazione.' Persino il sindaco della città volle fare la sua parte, e ordinò che tutti i prezzi venissero ridotti della metà. Il giorno dopo, durante lo sciopero, un negoziante sparò contro un gruppo di persone che si erano radunate davanti al suo negozio. Questo negozio fu saccheggiato, e quando la notizia del fatto si diffuse, altri negozi di stoffe, generi alimentari e scarpe vennero saccheggiati. I negozianti che volevano evitare di farsi devastare le botteghe, attaccarono dei cartelli dove si diceva: 'Le chiavi sono state consegnate ai rappresentati del popolo,' oppure: 'Le merci sono state messe a disposizione della Camera del lavoro,' o anche: 'Le chiavi sono state consegnate al sindaco.' Qualcosa dello stesso genere era avvenuto a La Spezia due settimane prima (16), e le notizie dei fatti di La Spezia servirono come modello per gli scioperanti, per il sindaco e per i negozianti di Forlì. Qui tuttavia gli scioperanti non arraffavano per sé quelle merci che non venivano distrutte, ma le 'requisivano,' le ammassavano su automobili e camions, anche questi 'requisiti,' e le portavano alla Camera del lavoro; in tal modo la ricchezza non veniva 'privatamente appropriata,' ma 'socializzata.'
Il 2 luglio, alla notizia dei fatti di Forlì, in tre località vicine e a nord di Forlì - Faenza, Meldola, e Imola - scoppiarono scioperi generali contro gli 'speculatori,' e contro il governo che non legava gli 'speculatori' mani e piedi. A Imola, come a Forlì, la folla saccheggiò i negozi; la polizia fece ricorso alle armi e uccise quattro persone. Il 3 luglio, scioperi generali si diffusero anche nelle città a sud di Forlì: Cesena, Senigallia, Ancona, Falconara, Iesi. Di città in città, automobili 'requisite' dalle 'guardie rosse' portavano la notizia che il 'gran giorno' era arrivato. Il 4 luglio, tutta la Romagna e la parte confinante delle Marche era teatro di scioperi generali, forzate riduzioni di prezzi e 'requisizioni.' Contemporaneamente, il 3 luglio, le notizie dei fatti di Forlì e di Imola, riportate dai giornali, provocarono a Firenze la devastazione dei negozi, che si ripeté il 4 a Prato, Torino e Voghera, e il 5 a Brescia, Alessandria, Pinerolo, Novi Ligure, Pisa, Livorno, Piombino, Siena, Taranto e Palermo; il 6 e il 7 luglio, vi furono saccheggi a Milano, Sesto San Giovanni, Vicenza, Genova, Roma, Napoli e Catania; a Grottaglie la folla appiccò il fuoco al municipio; contemporaneamente, scioperi generali e scontri con la polizia avvenivano in molte altre località. E' assai probabile che i giornali non abbian dato notizia dei disordini e degli scioperi generali che avvennero nei centri minori; ma anche se i disordini avessero coinvolto parecchi altri paesi e città oltre quelle enumerate, si deve tener presente che ci sono in Italia circa 7500 paesi e città. Ciò significa che nella sua stragrande maggioranza il paese rimase tranquillo. Solo in Romagna e nelle vicine Marche la rivolta si estese in un'area vasta e compatta. L'Italia del luglio del 1919 non era la Russia del 1917, quando milioni di soldati, che conservavano i loro fucili, disertarono dal fronte e misero a soqquadro tutta la struttura politica e amministrativa del paese. Tuttavia, tra le città che ai primi del luglio 1919 soffrivano di convulsioni, erano alcuni dei centri più importanti, come Milano, Torino, Livorno, Firenze, Ancona, Roma, Palermo, e qui erano i centri vitali del paese; se i moti per il caroviveri si fossero trasformati, in queste grandi città, in movimenti rivoluzionari, certamente anche i centri minori avrebbero seguito il loro esempio. In quei giorni, sembrò che una rivoluzione di tipo russo si stesse avanzando, e che niente potesse fermarla. Non successe niente di simile. La Confederazione generale del lavoro si mantenne estranea al movimento e non fece niente per dargli un fine politico o rivoluzionario. Le ferrovie, i servizi postale, telegrafico e telefonico non scioperarono. Poco alla volta l'uragano si placò da sé, e il 13 luglio le condizioni erano ritornate normali in tutta Italia, cioè gli scioperi e gli altri incidenti non erano più numerosi che in tempi normali. Durante tutto il periodo critico, polizia e carabinieri, ovviamente per ordine di Nitti, si astennero ovunque da azioni di repressione violenta. Ricorsero alla tattica difensiva; proteggevano dagli assalti le banche, le zone più importanti delle città grandi e tutti i centri vitali per l'attività di governo, abbandonando a se stesse le periferie delle città grandi, la campagna, e i centri minori. Sarebbe stato difficile fare altrimenti. I carabinieri, ai quali in tempi normali era affidato il compito di mantenere l'ordine, a causa delle perdite subite in guerra, erano ridotti a non più di 28000 uomini. D'altra parte, i soldati dell'esercito regolare simpatizzavano con i rivoltosi, e non potevano essere utilizzati in azioni di repressione senza correre il rischio di insubordinazioni da parte loro. In tali condizioni, se Nitti avesse ordinato una repressione con spargimento di sangue su larga scala, non sarebbe stato sicuro di portarla in fondo con successo, e al tempo stesso avrebbe costretto la Confederazione generale del lavoro ad uscire dalla propria inazione per una protesta sul piano nazionale, cioè per un sollevamento di maggiori proporzioni. Forse questa sarebbe stata la spinta finale per quel salto nel buio tanto atteso dagli estremisti. La prudenza fu il merito maggiore di Nitti. Si ebbero qua e là conflitti tra polizia e rivoltosi, e ci furono delle vittime: quattro morti a Imola; uno a Firenze; due a Brescia; due a Genova; uno a Catanzaro; cinque
a Taranto; due a Roma; quattro a Spilimbergo; otto a Lucera. Ma date le proporzioni e la violenza della rivolta, la polizia e i carabinieri, tutto sommato, controllarono la situazione con molta prudenza.
CAPITOLO TREDICESIMO. CONSERVATORI E RIVOLUZIONARI. I moti per il caro-viveri del luglio 1919 ci aiutano, più di ogni altro fatto, a capire la mentalità del popolo italiano e i fini dei diversi partiti nei primi anni del dopoguerra. I disordini di Firenze furono i più gravi e i più significativi. A Firenze, la federazione socialista, il giornale ufficiale del partito, "La Difesa", e la Camera del lavoro erano sotto il controllo dei massimalisti. Il 21 giugno 1919, "La Difesa" annunciò che 'l'azione era imminente': «Sentiamo che è venuta l'ora, tanto per il partito quanto per i lavoratori, di tener fede agli impegni presi, di passare dalle parole ai fatti. (...) Oggi è l'ora in cui si raccolgono le fila di una immensa rete di incitamenti alla lotta e al sacrificio. (...) Guai a chi credesse di poter dare sfogo all'ira popolare (...) con uno sciopero generale contenuto in prestabiliti limiti di tempo. (...) Il generoso popolo nostro (...) non vede nulla che non sia l'azione nella quale è stato educato; non spera in nulla che non sia l'azione nella quale gli si è fatto riporre ogni speranza. Ma che sia azione, azione vera e risolutiva. Compagni, sorgiamo! La grande ora sta per scoccare!» Pure, quando la notizia dei moti di Forlì apparve sui giornali del 2 luglio, non furono i massimalisti ad incitare la folla alla 'azione vera e risolutiva'; fu quello stesso nazionalista, Giunta, che a Roma pochi giorni prima aveva cercato di sollevare i combattenti contro il governo. La sera del 2 luglio, in una adunanza di combattenti, agitando un paio di scarpe gridò di averle pagate 48 lire, eccitando i suoi compagni a saccheggiare i negozi. La mattina del 3 luglio, il quotidiano ultraconservatore di Firenze, "La Nazione", dedicò due colonne a descrivere la rivolta 'disciplinata' di Forlì, Faenza, Imola ed altre località, e mezza colonna ad attaccare violentemente i profittatori di guerra. «In verità, è amaro di dover scrivere parole di sdegno contro gente che, bene o male, fa pure parte della famiglia italiana. Ma il disgusto e l'ira ci salgono alla gola. E' mai possibile di dover trovare anche oggi, dopo la tremenda lezione della guerra, uomini così testardi e perseveranti nel male? Ma non sentono nulla, questi sciagurati, di quel che accade intorno a loro? Non pensano che la pazienza del popolo ha un limite terribile, oltre il quale le più crudeli incognite sono schierate? Hanno cervello, hanno sangue, hanno nervi, questi malvagi cittadini? (...) Noi non aggiungiamo di più. Abbiamo ancora la vaga speranza che alcuni esempi di ieri possano far rinsavire questi pervertiti. Che se anche queste speranze dovessero fallire... e, allora, non saremmo noi certamente a lamentare lo scoppio di una indignazione collettiva che si sarebbe fatto di tutto per provocare.» Quando un giornale ultraconservatore scrive in questo modo, che altro può fare la folla se non seguire gli 'esempi' indicati? Effettivamente il saccheggio dei negozi cominciò proprio nel pomeriggio del 3 luglio. Per tutto quel pomeriggio, e la notte e il mattino successivo, i quartieri periferici della città e la campagna circostante furono teatro di 'requisizioni' incontrastate eseguite da autorità che si eran nominate da sé. Non si seppe mai quanti furono i negozi saccheggiati, ma certo nell'ordine delle centinaia. A quel tempo, chi scrive viveva a Firenze, e durante quei giorni di disordini andò in giro per le strade per imparare 'come si fa una rivoluzione.' Quando la crisi fu passata, pubblicò il seguente resoconto:
«Chiunque ha camminato per le vie di Firenze durante i giorni della rivolta, cercando di rendersi conto di quel che la massa del popolo pensava e voleva, non ha trovato in nessun luogo un programma di riorganizzazione comunista della società, e meno che mai la voglia di lasciarsi prendere nella 'immensa rete di incitamenti alla lotta e al sacrifizio.' Noi non abbiamo mai visto nel mondo tanta gente armata di... fiaschi di vino, quanta ne abbiamo vista per le strade di Firenze nei giorni 4 e 5 luglio 1919. Uomini, donne, bambini, bambine, vecchi, giovani, tutti andavano in giro con uno, due, quattro fiaschi di vino. Firenze non aveva fame: aveva sete: non è stata saccheggiata, è stata sfiascheggiata. Era gente bonaria, gioconda, lieta, di potersi godere finalmente un fiasco a due lire o addirittura gratis, che si avviava pacificamente verso casa, pregustando la baldoria della famigliola, provvista finalmente di un po' di ben di Dio; quando era più giudiziosa della media, depositava in casa la prima merce, e ritornava a comprarne a metà prezzo o a 'requisirne' dell'altra. Dopo i fiaschi di vino, la merce più ricercata erano le scarpe. Ma una vera e propria esaltazione eroica e rivoluzionaria non c'era in nessuno. Una nuova organizzazione di pensieri e di volontà, capace di prendere il posto delle vecchie autorità politiche e amministrative, non c'era. (...) Esistono sempre folle pronte alla rivolta; non esiste in nessun luogo una classe capace di una rivoluzione. Né si dica che la rivoluzione repubblicana o comunista non è stata iniziata, perché non era ancora preparato un movimento d'insieme. I movimenti d'insieme non si preparano a data fissa: scoppiano, quando tutto è preparato negli animi: un incidente locale dà la spinta al movimento generale» (1). Tale era lo stato d'animo della folla. E cosa pensavano i suoi capi? Alle ore 15 del 3 luglio, migliaia di lavoratori si diressero istintivamente alla Camera del lavoro; era questo il loro comando supremo, e qui venivano a chiedere che cosa dovevan fare. Il direttore del giornale massimalista brillò per la sua assenza; non fu presente per ripetere alle 'masse' che 'la grande ora era scoccata.' Il compito di guidare il 'proletariato' ricadde sulle spalle del segretario della Camera del lavoro. Il pover'uomo, dovendo dire qualcosa a quella folla, disse che 'per l'ingordigia degli speculatori e degli strozzini la classe operaia è costretta a mettersi alla testa di un movimento energico e risoluto,' e propose ai lavoratori di proclamare uno sciopero generale (2). Così, lo sciopero generale che si era già iniziato prima che venisse proclamato, adesso fu proclamato. Nel frattempo eran cominciate le 'requisizioni' nei negozi, e le merci che non erano andate distrutte o non eran finite nelle case dei 'requisitori' venivano portate alla Camera del lavoro, che si trovò improvvisamente carica di formaggio, pezze di stoffa, scarpe, fiaschi di vino, prosciutti, e un ammasso confuso di ogni ben di Dio. Alle 18, il segretario della Camera del lavoro si recò dal prefetto, non per dirgli che si considerasse dimesso dalla carica e che era cominciata 'la dittatura del proletariato,' ma per consultarsi con lui circa la nomina 'di una commissione che studierà il mezzo migliore (...) per disciplinare il movimento' (3). Il giorno seguente, 4 luglio, il giornale massimalista pubblicò un articolo trionfale: «E' giunta l'ora non delle mezze misure ma delle energiche e radicali decisioni. Intenda dunque chi deve... La dittatura del proletariato dimostra alla prova dei fatti quale e quanta sia la sua efficacia. (...) L'azione diretta ha trionfato. (...)"Avanti! Avanti! Per il Comunismo!» (4). Il giornale conservatore uscì con sei colonne dedicate ai fatti del giorno prima, sotto un enorme titolo di testa che diceva: 'Ieri, a Firenze, è accaduto l'inevitabile (5). Erano già due anni che il giornale aveva previsto questo 'inevitabile'; la colpa era della 'organizzazione affaristica' che spremeva il sangue al popolo italiano; il giornale
esprimeva la propria soddisfazione per il movimento che, si diceva, 'si è svolto con una certa disciplina e serietà, salvo, naturalmente, alcuni casi isolati che sono del resto inevitabili nelle sommosse di carattere popolare per l'intromissione di torbidi elementi'; ma quello che contava era che la Camera del lavoro si fosse assunta la responsabilità delle 'requisizioni,' 'la Camera del lavoro non deve dimenticare che avendo essa presa la responsabilità di un movimento di requisizione, il suo dovere è di provvedere che esso non diventi un saccheggio' (6). La Camera del lavoro faceva tutto il possibile per mettere un po' d'ordine in quel caos. Alle ore nove, la commissione nominata il giorno prima d'accordo col prefetto e composta dai rappresentanti di tutte le organizzazioni di lavoratori, da quelle del partito socialista a quelle dirette dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici, si riunì alla Camera del lavoro. Dato che lo sciopero procedeva senza il permesso di nessuno, la commissione decise che lo sciopero venisse continuato, ma non vi partecipassero gli operai della luce, del gas, degli altri servizi pubblici nonché gli infermieri; inoltre i negozianti avrebbero ricevuto degli avvisi a cura della Camera del lavoro e da attaccarsi alle porte dei negozi, dove si informava il pubblico che i negozi erano 'a disposizione della Camera del lavoro' (7); nessuno avrebbe potuto operare requisizioni nei negozi protetti da questi talismani. La proprietà privata veniva posta sotto la protezione della Camera del lavoro massimalista: in questo modo la commissione cominciò a 'disciplinare il movimento.' Il 5 luglio, il giornale massimalista gridava ancora gli slogans più vuoti: «La lotta non è finita. E' appena incominciata. Dovrà estendersi, dovrà intensificarsi. Perché tutte le aspirazioni dei lavoratori han da essere conseguite, perché il comunismo che è ancora una speranza ha da essere realtà, (...) chi non sente che si mira sempre più lontano, sempre più in alto?» (8). Mentre gli scrittori del giornale massimalista si ubriacavano di parole, gli scrittori del giornale conservatore, il 5 luglio, cessavano di esprimere la loro soddisfazione per 'la disciplina e serietà' del movimento, e insistevano in maniera più decisa sul fatto che la responsabilità per quanto stava avvenendo ricadeva sulla Camera del lavoro; era suo dovere adesso 'sbrogliare il pasticcio giuridico creato dalle requisizioni' (9); la responsabilità dei suoi dirigenti sarebbe stata al tempo stesso civile e penale; attualmente c'era anche una responsabilità verso il genere umano, dato che era diventato loro dovere provvedere all'approvvigionamento della città. Così, se si fosse rimasti a corto di merci, ne sarebbe stata responsabile la Camera del lavoro. La commissione della Camera del lavoro aveva altro da fare che badare a queste insinuazioni; la popolazione si stava stancando di disordini che provocavano sprechi di beni e non avevano nessuno scopo; perciò venne diramato un ordine che invitava a cessare lo sciopero a partire dalla mezzanotte seguente. Tale ordine fu pubblicato nello stesso numero del giornale massimalista che annunciava che la lotta non era finita, ma appena cominciata. Dato che il 5 luglio era un sabato, lo sciopero veniva a cessare di domenica; la commissione era sicura che tutti l'avrebbero obbedita, perché sciopero o non sciopero di domenica tutte le fabbriche erano chiuse; nel frattempo, un altro giorno di riflessione avrebbe aiutato la gente a ritrovare la via del buon senso. E difatti, il lunedì 7 luglio, il lavoro venne ripreso ovunque. Ora, proprio il 7 luglio, il giornale conservatore scoprì che il popolo che desiderava una rivoluzione politica spingeva il paese verso la miseria e la fame; non erano riusciti nel loro sforzo durante i moti per il caro-viveri, ma avrebbero provato di nuovo. Tutti coloro che amavano la patria dovevano stringersi insieme per difenderla contro i nemici interni; così sorse a Firenze un'alleanza antibolscevica (10), e Giunta, quello stesso nazionalista che la sera del 2 luglio aveva agitato il paio di scarpe a 48 lire, ne
fu uno dei primi fondatori. Naturalmente i negozianti e i contadini che si erano visti 'requisire' i prodotti, furono entusiasti di questa nuova alleanza. In tutta Italia, quei giornali che avevano agito in pieno accordo con la cricca nazionalista, si comportarono come a Firenze. A Roma il "Giornale d'Italia", che era l'organo di Salandra, Sonnino, e dei capi dell'esercito e della marina, pubblicò violenti articoli contro gli speculatori alimentari. Calmatesi le acque, lo stesso giornale attaccò i 'bolscevichi' per aver provocato i disordini, e invocò una coalizione di tutti i buoni cittadini contro i nemici della patria, primo fra i quali Nitti. L'"Idea Nazionale", nel suo numero del 3 luglio, dette le notizie dei moti di Forlì senza una sola parola di condanna; il 4 luglio condannò gli speculatori alimentari per tutto ciò che stava accadendo; il 5 luglio, protestò contro il prezzo proibitivo del vino incitando i combattenti a non volgere il proprio rancore contro i carabinieri, ma a ribellarsi contro Nitti, e pubblicando un proclama in cui D'Annunzio affermava che il nemico d'Italia era a Roma: 'lo cacceremo' (11). Il 6 luglio, l'"Idea Nazionale" spiegava che al 'carovivere' si veniva ad aggiungere un 'ultra caro-vivere,' ed era colpa dello stato liberale la mancata repressione di questo secondo male. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio, verso le due, un gruppo di circa trenta persone si presentarono ad una caserma, cercando di indurre un battaglione di 'arditi,' che era là stanziato, a partecipare ad un colpo di mano volto ad impadronirsi dei punti strategici della città; il tentativo fallì, e alcune delle persone vennero arrestate, ma il loro capo, un certo Argo Secondari, riuscì a fuggire; gli autori di questo tentativo erano tutti 'arditi' (12). Finalmente, il 7 luglio, anche a Roma scoppiarono disordini per il caro-viveri, e continuarono per tre giorni. Subito, il giornale nazionalista cominciò ad attaccare violentemente Nitti per non avere mantenuto l'ordine. Il 9 luglio, mentre ancora continuavano i disordini per il caro-viveri, un gruppo di fascisti, futuristi e 'arditi' guidati da Marinetti, cercò di provocare nel cuore di Roma una dimostrazione contro Nitti. A Bologna, dove la Camera del lavoro e le autorità comunali erano riuscite a evitare disordini, le stesse autorità militari si affrettarono a mettere a disposizione della Camera del lavoro quaranta camions, da usarsi eventualmente per andare a requisire i prodotti presso i contadini (13). Se la Camera del lavoro si fosse servita di questi camions, si sarebbe creato un abisso di odio tra i lavoratori urbani da una parte, e dall'altra gli affittuari e i piccoli proprietari nelle campagne intorno alla città. Come c'era da aspettarsi, Mussolini si mostrò il più violento di tutti nell'attaccare gli speculatori alimentari. Ecco quanto scrisse il "Popolo d'Italia" del 4 luglio: «Il caro viveri ha appassionato e agitato tutta la Romagna. (...) Il popolo è insorto energicamente contro la venalità degli speculatori e ha già ottenuto un forte ribasso sul prezzo di vendita dei generi alimentari. (...) Le requisizioni e i calmieri hanno ottenuto gli sperati risultati e non si farà comunque macchina indietro.» E in un commento redazionale si diceva: «Anche in altri punti dell'Italia centrale si delinea l'insurrezione delle classi operaie contro i primi e diretti responsabili della insostenibile situazione alimentare del nostro paese. (...) Non è il partito socialista ufficiale quello che ha provocato e retto queste dimostrazioni (...) manca ad esso la volontà di capeggiare un moto che oltre ad essere saturo di responsabilità può frustrare le vecchie e nuove speculazioni parlamentari e ministeriali preordinate magari a base di minacce rivoluzionarie. (...) Per nostro conto affermiamo esplicitamente la giustizia fondamentale della protesta popolare.» Sul numero del 5 luglio si leggeva:
«Io spero anzi che, nell'esercizio di questo sacrosanto diritto, la folla non si limiti a colpire i criminali nei beni, ma cominci anche a colpirli nelle persone. Qualche incettatore penzolante dal lampione vicino al covo dei suoi misfatti (...) servirebbe di esempio» (14). E nello stesso numero, un comunicato dei Fasci di combattimento diceva: «Il comitato centrale dei Fasci di combattimento, proclama la sua illimitata solidarietà con il popolo delle varie provincie d'Italia insorto contro gli affamatori; plaude all'iniziativa della requisizione popolare, ed impegna i fascisti ad indire e fiancheggiare risolutamente le manifestazioni di energica protesta.» A Milano i moti per il caro-viveri cominciarono il 6 luglio e continuarono per due giorni, ma senza raggiungere la gravità di Firenze, perché a Milano la polizia aveva raccolto forze sufficienti per controllare l'uragano, e operò 2200 arresti tra i bassifondi cittadini. Anche a Milano, finiti i tumulti, si moltiplicarono le iniziative 'antibolsceviche,' promosse dalle stesse persone e dagli stessi gruppi che pochi giorni prima erano stati in testa a tutti nell'incitare la folla contro gli speculatori alimentari; in questa ondata 'antibolscevica,' Mussolini fu di nuovo in prima fila. Tutti questi fatti ci portano a concludere che i moti per il caro-viveri del luglio cominciarono in modo spontaneo in Romagna, come era successo alla metà di giugno a La Spezia e nelle città vicine; ma a questo punto i gruppi che operavano contro Nitti si misero a soffiare sul fuoco, nella speranza che Nitti, sopraffatto dai disordini, fosse costretto a cedere il governo ad un ministero di generali, o che, per ristabilire l'ordine, ricorresse a una politica di repressione violenta, che avrebbe creato una barriera di odio tra lui e i socialisti. Nitti evitò tutte e due le alternative, dando al paese l'impressione che non intendeva approfittare dei moti per il caro-viveri, per inaugurare una politica reazionaria; in tal modo i conflitti, anche se ci furono morti e feriti, rimasero degli sciagurati incidenti locali, inevitabili in una rivolta di tale ampiezza. La Camera dei deputati tornò ad aprirsi il 9 luglio, cioè quando il peggio era passato. I deputati socialisti mantennero il loro atteggiamento di opposizione senza possibilità di compromessi verso qualsiasi governo 'borghese,' però si astennero dall'attaccare con critiche troppo violente il nuovo presidente del Consiglio, che il 14 luglio 1919 ricevette dalla Camera 257 voti di fiducia; dei 111 voti contrari, non più di 25 appartenevano ai socialisti, dato che quindici di loro non parteciparono alla votazione proprio per rendere meno difficile la posizione del governo; per il resto, i voti di opposizione appartenevano a deputati che avevano appoggiato sino all'ultimo Orlando e Sonnino, e pur tuttavia, anche tra questi, circa una quarantina si unirono alla maggioranza per votare la fiducia. Mentre durante i moti per il caro-viveri i conservatori si adoprarono ovunque per esasperare le agitazioni, i socialisti, sia di destra che massimalisti, fecero tutto il possibile per porre fine ai disordini e agli scioperi, non solo a Firenze ma in tutta Italia. Anche a Torino, dove il partito socialista e i sindacati erano controllati dagli estremisti, i sindacati richiamarono gli operai al lavoro e non riconobbero nessuno dei tentativi di sciopero non autorizzati (15). Sfortunatamente per loro, i massimalisti non riuscirono a conciliare i desideri con i fatti; il 5 luglio, la commissione della Camera del lavoro di Firenze, annunciando la cessazione dello sciopero, si dichiarava certa 'che nessuno avrebbe mancato di rispondere all'appello che sarebbe stato lanciato al momento buono per la conquista finale' (16). Sciocchezze del genere furono ripetute ovunque. Chi scrive, come già aveva osservato e descritto i moti per il caro-viveri a Firenze, notò il fatto che in Italia i gruppi reazionari erano intenzionati a ricorrere alla brutale
violenza, ma ciò non era possibile se prima il paese non si era stancato di disordini privi di scopo che fossero venuti a sconvolgere la vita nazionale. «Tutto ciò che accumula odio contro gli operai delle città nelle altre classi della popolazione prepara il terreno alla reazione. E che cosa meglio delle 'requisizioni' contro bottegai e contadini può favorire questo piano? Ecco perché i tumulti annonari sono eccitati o almeno accolti con simpatia (...) per uno o due giorni da certi giornali. Quando la stanchezza sarà divenuta universale contro uno stato di cose, di cui non si vedrà la fine, allora i prefetti non saranno più indulgenti come in questi giorni: allora funzioneranno per le strade le mitragliatrici» (17). Insistendo nel far uso di retorica rivoluzionaria senza condividere né i fini né la mentalità rivoluzionaria i massimalisti esasperarono la nevrastenia del dopoguerra, facendo il giuoco dei gruppi reazionari. «Da siffatta vicenda illogica e sconclusionata di eccitamenti e di tumulti e di ritorni all'antico, che altro può nascere se non una stanchezza irritata nelle classi danneggiate o disturbate, una delusione apatica nelle zone meno esacerbate delle classi proletarie, un nervosismo crescente nei gruppi sociali meno soggetti al controllo delle organizzazioni, e alla fine una mostruosa reazione a base di stati d'assedio e di tribunali militari?» (18). Una nuova prova del fatto che nel paese non esisteva una situazione rivoluzionaria si ebbe il 21 luglio. In quel giorno doveva aver luogo in Inghilterra, in Francia e in Italia una manifestazione 'dimostrativa' contro l'intervento militare in Russia e in Ungheria da parte delle potenze occidentali. Questa manifestazione dimostrativa era stata decisa il 27 giugno da una conferenza internazionale dei rappresentanti dei partiti socialisti e dei sindacati di questi paesi, tenuta a Southport in Inghilterra. Ciascun paese doveva svolgere la propria manifestazione 'seguendo le forme che saranno più adatte alle circostanze e ai metodi di lotta di ciascun paese' (19); ciò significava che i lavoratori inglesi sarebbero rimasti come sempre nei limiti della legge; i francesi, ammesso che Clemenceau glielo permettesse, avrebbero tenuto dei comizi con dei discorsi tuonanti; e gli italiani erano liberi di provare 'il grande giorno.' I più zelanti nella preparazione della manifestazione furono proprio i massimalisti italiani, cioè i cittadini di un paese, il cui governo non aveva nessuna intenzione di intervenire né in Russia né in Ungheria, mentre sia la Gran Bretagna che la Francia erano effettivamente intervenute in Russia. Quando nei giorni dei tumulti annonari i massimalisti annunciarono che il 'gran giorno' non era ancora arrivato ma che era imminente, pensarono subito alla manifestazione decisa a Southport. In una nuova riunione che si tenne a Parigi il 4 luglio, i leaders della Confederazione del lavoro italiana e francese decisero che la manifestazione si svolgesse sotto forma di sciopero generale il lunedì 21 luglio; ma i massimalisti, che controllavano il partito socialista italiano, non furono d'accordo per un giorno solo, e decisero che in Italia lo sciopero generale durasse almeno due giorni, cioè dalla domenica 20 luglio al lunedì 21, come se la gente non si rendesse conto che uno sciopero generale di domenica era una fanfaronata puerile. I capi della Confederazione generale del lavoro non ebbero il coraggio di opporsi a questo nuovo eccesso di follia; non solo accora sentirono a proclamare che lo sciopero doveva essere 'una prima e solenne mobilitazione delle forze proletarie internazionali' (20), ma anche che i francesi avrebbero partecipato allo sciopero, che gli inglesi non avrebbero scioperato ma 'manifesteranno del pari il proposito di ricorrere all'uso della loro potente azione diretta sindacale,' se se ne fosse presentata la necessità, e che svizzeri, olandesi, svedesi e danesi 'si uniranno al generale movimento'; in tal modo 'si inizia nel mondo l'azione internazionale del
proletariato contro gli interessi del capitalismo' (21). L'organizzazione nazionale dei ferrovieri e quella dei postelegrafonici promisero che avrebbero aderito allo sciopero. Era questo un dato del tutto nuovo di cui non era possibile prevedere le conseguenze. Era davvero imminente lo scadere della 'grande ora'? Ma la 'grande ora' non scoppiò neppure questa volta. I leaders della Confederazione del lavoro, dopo essersi uniti ai massimalisti nell'organizzare il "bluff" di uno sciopero di due giorni che in realtà era solo di un giorno, rammentarono ai loro iscritti che lo sciopero doveva essere 'calmo e tranquillo,' che doveva avere 'soltanto valore di affermazione e nulla più' e quindi 'nessun carattere rivoluzionario e nessun trionfo di idee massimaliste, la cui realizzazione è follia sperare ora in Italia' e che non si sarebbe permesso agli 'elementi più estremi' di prolungare lo sciopero (22). La stessa direzione nazionale del partito socialista esortò tutti i compagni a 'non accettare provocazioni di sorta,' 'infrenare le generose impazienze che, in questa ora, non potrebbero avere che infeconde e tragiche conseguenze,' e contentarsi al pensiero che lo sciopero sarebbe servito a difendere 'le possibilità rivoluzionarie in tutta Europa e specialmente in Italia...' (23). Una nuova doccia fredda cadde sulla testa degli estremisti quando l'esecutivo nazionale del sindacato ferrovieri revocò la decisione di partecipare allo sciopero, senza dare di questo inaspettato cambiamento nessuna ragione precisa; e il colpo finale giunse dalla Confederazione generale del lavoro francese, che il 19 luglio 'sospese' lo sciopero. La 'manifestazione generale' del 20 e 21 luglio si ridusse così a una serie di scioperi slegati e inconcludenti, e qua e là ad alcuni atti di violenza. Lo sciopero fallì specialmente tra i ferrovieri e tra i postelegrafonici. Tutto questo non impedì al comunista Bombacci (che più tardi si mise al servizio del governo fascista) di annunciare 'la vittoria imminente del proletariato' (24). Chi trasse profitto dalla 'manifestazione generale' fu Nitti. Avendo fronteggiato saldamente anche questo temporale, il 22 luglio alla Camera fu salutato con applausi, e inoltre al Senato, che era composto nella sua grande maggioranza di vecchi conservatori, ricevette un voto di fiducia da tutti i 102 senatori presenti, il 26 luglio, tra applausi continui ed entusiastici. I moti per il caro-viveri dei primi dieci giorni di luglio, e lo sfortunato sciopero generale del 20 e del 21 lasciarono la classe lavoratrice con un senso di delusione e di stanchezza; in quel mese svanirono molte speranze e molti entusiasmi. Avendo sprecato la loro forza in questi movimenti, i lavoratori si trovarono nella posizione di non poter fare nessuna protesta quando sarebbe stato il momento buono. La domenica 3 agosto 1919, a Trieste, 1600 ragazzi e ragazze i cui genitori erano iscritti ai sindacati socialisti, fecero una gita in campagna. La sera, facendo ritorno in città, il corteo fu fermato da un gruppo di poliziotti che volevano impedir loro di proseguire; ne nacque una confusione. Uomini e donne protestavano, gridavano, lanciavano insulti; i bambini piangevano. Per intimidire la folla, la polizia cominciò a sparare in aria. Non vi fu nessun ferito. La mattina dopo scoppiò uno sciopero generale di protesta. Nel pomeriggio, in una riunione alla Camera del lavoro, i capi dei sindacati decisero di far cessare lo sciopero il giorno dopo. All'uscita dalla riunione vennero tutti arrestati: erano 430. Subito dopo la Camera del lavoro venne invasa da nazionalisti, 'arditi' e ufficiali in divisa, e saccheggiata. La stessa sorte toccò ai magazzini e alle biblioteche delle cooperative e agli edifici delle scuole e delle organizzazioni slave. Se fosse realmente esistito un 'proletariato rivoluzionario,' questi atti di violenza avrebbero provocato immediatamente una rivoluzione a Trieste e in Italia; invece i leaders massimalisti del socialismo triestino, che erano stati rilasciati, si sforzarono per cercar di persuadere i lavoratori a cessare lo sciopero, dato che la sua continuazione avrebbe provocato ogni genere di rappresaglia. Sebbene a malincuore e con lentezza, i lavoratori obbedirono (25). Nel resto d'Italia non si levò nessuna protesta.
Alcune settimane più tardi, nel settembre, al congresso nazionale del partito socialista, Filippo Turati rivolgeva ai suoi compagni il seguente avvertimento: «Quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi (...). Parlare poi di violenza continuamente per rinviarla sempre a l'indomani è (...) la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza avversaria, mille volte più forte della nostra» (26). I massimalisti e gli spartachisti italiani non ebbero l'intelligenza necessaria per comprendere questi avvertimenti. Niente riuscì a scuoterli dalla loro certezza che il 'proletariato' fosse là, pronto a sorgere, e che quando sarebbe scoccata la 'grande ora' niente avrebbe potuto resistere lungo la via del suo trionfo.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO TREDICESIMO. Vale la pena di riportare le accuse che Luigi Villari muove contro Nitti, a proposito dei tumulti annonari del luglio 1919, perché esse danno una perfetta idea del punto di vista nazionalista. «Il governo non fece assolutamente niente per fermare i disordini; e infatti le autorità ricevettero istruzioni di non prendere nessun provvedimento energico. (...) I nemici di Nitti dichiararono che in realtà questi moti erano promossi dal governo, il quale, incapace di ridurre il costo della vita e di impedirne un ulteriore aumento con i mezzi legali, nella sua ignoranza delle leggi economiche giudicò opportuno affidarne il compito all'azione della piazza. Fu anche detto e fermamente creduto che Nitti guardò i disordini con soddisfazione, sperando che essi terrorizzassero la borghesia e la spingessero ad appoggiare il suo governo, come l'unico baluardo contro la vera rivoluzione. Questo punto di vista probabilmente (!) è una esagerazione, ma non c'è dubbio (!) che Nitti incoraggiò e fino a un certo punto giustificò (?) i disordini, dopo che questi ebbero inizio. (...) Anche se questa convinzione fosse (!) infondata, il solo fatto che essa era largamente diffusa costituisce una grave (!) accusa contro la politica di Nitti» (1). Villari dà 'largamente diffusa' la convinzione che i suoi amici politici cercavano di diffondere; inoltre si dà cura di ignorare i seguenti fatti: 1) Nel luglio 1919, Nitti non fece né più né meno quello che aveva fatto Orlando poche settimane prima, quando i tumulti annonari erano avvenuti a La Spezia e nelle città vicine. 2) I disordini non furono incoraggiati da Nitti, ma dai nazionalisti, dai fascisti e dai seguaci di Orlando e di Sonnino. 3) Nel luglio 1919, il Senato, ultraconservatore, dette a Nitti un voto di fiducia unanime, malgrado il chiasso che stavano facendo i nazionalisti, i fascisti e i seguaci di Orlando e di Sonnino.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO. 'LA TERRA AI CONTADINI' E D'ANNUNZIO A FIUME. Si parlò molto della necessità di una nuova costituzione politica al posto dello Statuto, che risaliva a 1848; ma nessun progetto raccolse mai l'appoggio concorde di un movimento di importanza nazionale. I massimalisti e gli spartachisti si erano incaricati di introdurre in Italia l'istituto russo del soviet. L'esecutivo nazionale del partito socialista affidò al compagno Bombacci, un maestro elementare che più tardi doveva passare al fascismo, il compito di tracciare un piano, che servisse come base di discussione per il partito e al quale lo stesso esecutivo nazionale avrebbe poi dato forma definitiva. Il compagno Bombacci presentò il suo piano nel gennaio del 1920. In ogni città, paese e villaggio si sarebbero dovuti creare immediatamente soviet locali, o 'Consigli dei lavoratori: operai contadini.' Una: 'istituzione nazionale' formata dai consigli centrali degli operai e dei contadini doveva guidare i soviet locali nella loro lotta 'contro il regime borghese e la sua falsa illusione democratica: il parlamentarismo.' I soviet centrali, così come i soviet locali, dovevano agire sotto la 'stretta vigilanza' della 'avanguardia proletaria' cioè di commissari nominati dal partito socialista, i quali dovevano aver cura che 'uomini effettivamente legati con la classe lavoratrice' diventassero membri dei consigli, e impedissero che 'la borghesia potesse insidiare la libera espressione della volontà delle classi lavoratrici.' I soviet locali e centrali dovevano prepararsi ad assumere la direzione suprema 'per la regolarizzazione di tutto il complesso dei rapporti economici, sociali e politici interni ed esterni,' e per instaurare la dittatura del proletariato e compiere la rivoluzione sociale. Questo capolavoro di idiozia fu pubblicato nell'"Avanti!" del 23 gennaio 1920, e fu il principio e la fine dei soviet italiani locali e centrali. Il piano non fu discusso da nessuno, né l'esecutivo nazionale trovò il tempo di dargli forma definitiva, e il regime borghese tirò avanti meglio che poteva. Coscienziosamente, i repubblicani continuarono a ripetere il loro vecchio grido di battaglia dell'assemblea costituente, e con lo stesso grido di battaglia i fascisti fecero il maggior chiasso possibile, e vi furono dei momenti in cui persino i nazionalisti sperarono di spaventare il Re unendosi ai repubblicani e ai fascisti nel chiedere l'assemblea costituente (1). Ma era facile rispondere che la Camera dei deputati poteva sempre riformare lo Statuto, nei suoi punti non essenziali col Senato e col Re, e ogni volta che le riforme fossero sostenute nel paese da un movimento di opinione abbastanza vasto, tale accordo non sarebbe mai mancato. Se invece i repubblicani intendevano abolire le istituzioni monarchiche e proclamare la repubblica, non potevano aspettarsi che il Re e i suoi seguaci si arrendessero senza combattere; prima avrebbe dovuto trionfare una rivoluzione repubblicana, e poi sarebbe sorta la necessità di una assemblea costituente. Senza dubbio massimalisti e spartachisti erano favorevoli alla repubblica, ma non avrebbero mai cooperato, neppure per amore della rivoluzione, con i repubblicani, che avevano commesso la colpa incancellabile di sostenere la guerra. Inoltre, essi volevano qualcosa di più che una semplice rivoluzione politica per la repubblica; volevano una rivoluzione sociale e la dittatura del proletariato; questa dittatura comprendeva la repubblica, come il tutto comprende le sue parti; ma non erano preparati a preoccuparsi delle parti, quando il tutto era per loro a portata di mano. Solo gli anarchici erano pronti a partecipare ad una rivoluzione repubblicana; loro intenzione era di unirsi a qualsiasi movimento rivoluzionario di ogni tipo, propagarlo, eliminare al momento buono i loro alleati, e infine arrivare al totale rovesciamento di tutte le forme di governo di qualsiasi specie. Ma dato che non accettavano nessuna costituzione, non avevano interesse in nessuna
riforma costituzionale, e in ogni modo la loro influenza era sensibile solo in alcune zone limitate dell'Italia centrale. Così, i repubblicani e i fascisti non poterono mai instaurare la repubblica; proprio il fatto che essi non abbiano mai osato sostenere apertamente la repubblica, ma abbiano preso la strada traversa dell'assemblea costituente, dimostra che il loro grido di battaglia non sollevava larghi consensi. Un abbozzo di schema di riforma costituzionale fu tracciato dalla Confederazione generale del lavoro. Il consiglio nazionale del lavoro, che sino allora era stato formato da membri di nomina governativa, e aveva solo poteri consultori, avrebbe dovuto venire eletto dai datori di lavoro e dai lavoratori e dotato di poteri legislativi (2). Questo avrebbe potuto essere un primo passo verso una più intelligente divisione del lavoro tra diversi organi legislativi, in sostituzione di un solo parlamento nel governo centrale; ma i massimalisti, che controllavano il partito socialista, non si occuparono mai di queste sciocchezze, e gli stessi leaders della Confederazione, oberati com'erano da una continua marea di grossi scioperi, non ebbero il tempo di insistere per le riforme costituzionali. Tutto il parlare che si fece in favore di riforme costituzionali si ridusse alla sostituzione, nelle prossime elezioni, del sistema di rappresentanza proporzionale in luogo del sistema uninominale. La proporzione era sempre stata uno dei punti fermi dei programmi socialisti in tutti i paesi d'Europa, e da molti anni esisteva in Italia una associazione estranea ai partiti in favore della proporzionale. Le nuove repubbliche tedesca e austriaca avevano adottato nelle loro elezioni la proporzionale e nel 1919 la proporzionale fu accettata in Italia assai alla svelta da uomini politici di tutte le tinte. Nel marzo si era tenuta a Roma una riunione di democratici, popolari, nazionalisti e riformisti per chiedere la proporzionale. Alcuni dei più autorevoli 'liberali,' cioè conservatori, come i senatori Tittoni e Ponti, si dichiararono in favore della proporzionale (3); l'associazione liberale, cioè conservatrice, di Milano presentò la stessa richiesta, e altrettanto fece il congresso nazionale del partito nazionalista (4), il congresso nazionale del partito popolare (5), una riunione di quei deputati che avevano sostenuto sino all'ultimo Orlando e Sonnino (6), e il congresso nazionale dei combattenti. I fascisti, secondo il loro solito, fecero più baccano di tutti, su questo come su ogni altro argomento, e minacciarono di 'impedire con ogni mezzo, anche violento' che le elezioni generali politiche fossero fatte col vecchio sistema (7). Ognuno sosteneva la proporzionale per ragioni diverse da quelle degli altri; i democratici e i socialisti di destra rimanevano fedeli ai loro principi tradizionali; i conservatori e i nazionalisti si sentivano minacciati dallo scontento delle masse, temevano che col sistema uninominale non gli sarebbe riuscito di essere eletti, e pensavano che almeno la proporzionale avrebbe garantito loro la minoranza dei seggi; i popolari non volevano avere legami elettorali né con i conservatori né con i democratici, e la proporzionale permetteva loro di seguire la propria strada senza compromettersi con nessuno; coloro che non avevano scopi particolari e volevano soltanto porre fine a elezioni 'manipolate' dal governo, speravano che la proporzionale avrebbe reso questo scandalo più difficile, se non impossibile; i massimalisti e gli spartachisti non si rendevano conto che la proporzionale non era compatibile con la 'dittatura del proletariato,' dato che il proletariato non deve concedere a nessuna minoranza 'borghese' di godere i vantaggi di una proporzionale e bloccare in tal modo l'opera della dittatura. In Russia, Lenin non aveva mai pensato alla proporzionale, ma i suoi ammiratori italiani non avevano l'abitudine di pensare, e non impedirono ai loro compagni di destra alla Camera di 'cooperare' con gli altri partiti nel chiedere la proporzionale. Al momento in cui andò al governo, Nitti vide che non era possibile arginare la corrente; quindi la riforma elettorale venne approvata in agosto dal Parlamento. Col nuovo sistema, l'Italia non era più divisa in collegi elettorali, ma in provincie, ciascuna delle quali eleggeva da cinque a venti deputati; l'elettore poteva scegliere
una delle liste, tra quelle presentate da gruppi di non meno di trecento cittadini, e non si trattava più di scegliere un singolo nome tra i candidati in lizza; inoltre l'elettore poteva, all'interno della lista prescelta, dare un voto di preferenza. A ciascuna lista veniva assegnato un numero di seggi proporzionato al numero dei voti ricevuti, e all'interno di ogni lista tali seggi venivano distribuiti ai candidati che avevano ottenuto il maggior numero di voti preferenziali. La legge elettorale del 1912 concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avevano fatto il servizio militare; dato che tutti gli italiani erano stati sotto le armi durante la guerra del 1915-18 il suffragio quasi universale del 1912 diventava adesso un suffragio universale. Nel 1919, il diritto di voto venne esteso a coloro che avevano prestato servizio in guerra anche se non avevano raggiunto l'età di 21 anni, in tal modo 700000 giovani furono aggiunti alle liste elettorali. Il corpo elettorale che da 3.329.000 (9,28 per cento della popolazione) era salito nel 1912 a 8.672.000 (24,2 per cento della popolazione), passò adesso a 11.915.000 (29,3 per cento della popolazione). La estensione del diritto di voto a quei minorenni che avevan prestato servizio in guerra fu sostenuta da Salandra. Salandra si era sempre opposto al suffragio universale, ma adesso sperava che i giovani che tornavano dal fronte dessero voti ai nazionalisti e ai conservatori. Questa fu la sola riforma di cui prese l'iniziativa, dopo che nel novembre del 1918 aveva predetto niente meno che una rivoluzione (8). Verso la metà di agosto, mentre i partiti si preparavano per le prossime elezioni, in molte parti della Puglia i braccianti disoccupati, o che erano in sciopero per ottenere più alti salari, cominciarono a invadere le terre (9). Prima della fine del mese, i contadini di parecchie località del Lazio, dove si trovavano i latifondi delle famiglie dell'aristocrazia romana, seguirono il loro esempio; e ben presto i contadini siciliani fecero altrettanto. La promessa della 'terra ai contadini' fatta e ripetuta durante la guerra stava dando i suoi frutti. Il movimento interessò principalmente quei vasti fondi che erano coltivati a grano o tenuti a pascolo. C'era l'idea che le terre incolte o malamente coltivate dovessero essere consegnate ai lavoratori, i quali migliorandone il lavoro avrebbero incrementato la produzione. Tuttavia, in non pochi casi, i lavoratori trovarono di maggior gradimento terre già intensamente coltivate (10). I combattenti erano alla testa del movimento. Dove erano guidati dai popolari o dai dirigenti delle sezioni locali della loro associazione nazionale, marciavano al seguito del tricolore e al canto degli inni patriottici, dichiarandosi pronti a pagare un fitto annuo; dove erano guidati dai socialisti sventolavano bandiere rosse, suonavano canti proletari e non si preoccupavano di fitti. Ma di regola, i socialisti si astenevano dal sostenere questo genere di iniziative; ne sarebbe risultata la creazione di una classe più numerosa di piccoli affittuari e di piccoli proprietari, mentre i socialisti avevano come scopo la 'socializzazione di tutti i mezzi di produzione.' I soldati simpatizzavano con le occupazioni delle terre dei combattenti, e in alcune località si rifiutarono di andargli contro. Se il governo avesse tentato di reprimere queste iniziative, ne sarebbero potuti sorgere gravi disordini. Di nuovo, anche qui, Nitti ricorse alla strategia dell'esaurimento di forze. Il 2 settembre pubblicò un regio decreto che dava ai prefetti delle provincie la potestà di autorizzare la temporanea occupazione di terre incolte o malamente coltivate da parte di associazioni contadine; nei prossimi quattro anni una commissione di esperti e di arbitri avrebbe deciso se l'occupazione doveva rimanere permanente e quale indennità doveva essere corrisposta al vecchio proprietario. In tal modo le occupazioni di terre si svolsero quasi ovunque in modo pacifico e in allegria. Solo a Corneto Tarquinia, nel Lazio, la folla uccise un commissario di polizia e ferì gravemente cinque carabinieri che cercavano di resistere al movimento (11); e in Sicilia, la polizia uccise sette persone a Riesi e due a Terranova (12).
Un anno dopo, il ministro dell'Agricoltura affermò che sino al maggio del 1920 erano occupati con l'autorizzazione dei prefetti 30000 ettari di terra senza il consenso dei proprietari, di cui 14000 ettari nel Lazio, e che calcolando i numerosi casi di bonario accordo il totale della terra occupata si poteva fare ascendere a 10000 ettari (12 bis). Anche ammettendo che difficilmente questi accordi 'bonari' erano accordi 'liberi,' rimane il fatto che 100000 ettari rappresentavano non più dello 0,3 per cento in un paese con una superficie coltivabile di 26.397.600 ettari. Anche prendendo come base per il nostro confronto solo due regioni d'Italia in cui il fenomeno si presentò su scala maggiore che non nelle altre, cioè il Lazio e la Sicilia, troviamo che 100000 ettari rappresentano il 2,3 per cento dei 42640 chilometri quadrati di superficie totale di queste due regioni. L'Italia non era la Russia. Tuttavia il diritto di proprietà era stato violato senza che il governo fosse ricorso a spargimenti di sangue per sostenerlo; perciò Nitti era accusato di essere un complice del 'bolscevismo agrario.' Questa non fu la peggiore delle sue prove. Il 12 settembre, per impedire che la città di Fiume fosse lasciata alle truppe inglesi e francesi, D'Annunzio, alla testa di un reggimento dell'esercito regolare e di un gruppo di 'arditi' che si erano impadroniti di fucili e autoblinde, occupò la città. Dietro di lui si precipitarono a Fiume molti giovani generosi, intossicati dalle frenesie della 'vittoria mutilata,' che non cercavano nessun profitto personale e avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di servire il loro ideale patriottico. Ma vi si precipitarono anche una folla variopinta di avventurieri, che all'umile ed onesto lavoro quotidiano preferivano la spensierata vita parassitaria del servizio militare, senza il rischio di una guerra vera; rivoluzionari pazzoidi, che pensavano D'Annunzio fosse un Lenin occidentale; uomini d'affari dal passato torbido; cocainomani e prostitute. In pochi giorni D'Annunzio ebbe sotto il suo comando 15000 uomini, muniti di artiglieria, aeroplani e quattro navi da guerra. Tre generali, Maggiotto, Ceccherini e Tamajo, passarono apertamente dalla sua parte. Si trattava a prima vista di una 'guerra privata' contro Inghilterra, Francia e Stati Uniti, capitanata da un poeta privo sia di buon senso che di senso morale: una rievocazione medievale, che non si concluse in tragedia solo perché nessuno fuori d'Italia la prese sul serio. Ma dietro a D'Annunzio c'erano i capi dell'esercito e della marina. Per raggiungere Fiume, D'Annunzio aveva dovuto attraversare l'Istria, che era sotto il controllo delle autorità militari italiane; queste sapevano in anticipo quanto D'Annunzio stava preparando, ma lasciarono che proseguisse indisturbato, pretendendo di non averlo potuto fermare. Lo storico fascista Gioacchino Volpe rivolge molte lodi al regime italiano prefascista, per aver saputo creare un esercito che era 'ordinato, fedelissimo strumento della nazione.' 'Politica e fazioni, pronunciamenti e velleità dittatoriali furono fin dagli inizi cosa remotissima dell'esercito italiano' (13). Nel 1919, questa tradizione venne a finire. Ufficiali dell'esercito e della marina, legati dal loro giuramento di fedeltà al Re, disertarono i loro posti, si unirono a D'Annunzio a Fiume, e prestarono pubblicamente un giuramento che li vincolava a disobbedire al loro Re. A Fiume i 'legionari' di D'Annunzio cantavano un inno 'ufficiale' in cui si minacciava di andare da Fiume 'a Roma,' a 'gettar le bombe sul nuovo Parlamento,' a fare pulizia 'entro a Palazzo Braschi' e a far la festa a 'Cagoja' (14). Il ben noto storico Guglielmo Ferrero, in un articolo del 27 settembre 1919, mettendo in rilievo che a Fiume D'Annunzio era circondato da 'frammenti dell'esercito, che hanno cessato di obbedire alla legge,' sottolineava i pericoli impliciti nella situazione: «Sinora l'Europa pareva minacciata dalla rivoluzione russa. L'Italia è il primo dei paesi vittoriosi che, da una settimana, si trova tra due fuochi: la rivoluzione rossa e la rivoluzione bianca. C'è chi lavora a fare dell'esercito un ariete da guerre civili. (...) Io credo che (...) l'Italia sia tra i paesi d'Europa quello che ha meno da temere la
rivoluzione rossa. (...) Ma se l'esempio di spezzare le tavole della legge viene dall'alto! Da quei ceti e da quei partiti che hanno maggior dovere di rispettarle?» (15). Il significato di questi presagi doveva venire alla luce nei tre anni seguenti. La stessa cricca di ufficiali superiori e uomini politici che nel 1919 favorì D'Annunzio, doveva favorire Mussolini nel 1921 e nel 1922: la 'marcia su Fiume' del 1919 fu il precedente della 'marcia su Roma' del 1922. A Fiume le scorte che erano state una volta di proprietà del governo austriaco e che alla fine della guerra erano ammassate nei magazzini militari, caddero nelle mani dei 'cortigiani' di D'Annunzio. In una città di 39000 abitanti, di cui 15000 slavi, tremila cittadini italiani di Fiume divennero impiegati del 'governo'; questi tremila 'impiegati governativi' reclamavano a gran voce l'annessione della città all'Italia, dato che con le sue sole risorse la città non sarebbe stata in grado di mantenerli, mentre l'annessione avrebbe caricato i loro stipendi sulle spalle dei contribuenti italiani. Durante i quindici mesi in cui Fiume rimase sotto il controllo di D'Annunzio, questi tremila impiegati e tutti coloro che piombavano a Fiume da ogni parte d'Italia formarono il così detto 'Partito italiano' di Fiume. Da parte sua D'Annunzio aveva fondato uno stato totalitario, e un solo partito aveva diritto di esistenza, quello di D'Annunzio. Nell'ottobre vi fu un 'plebiscito' talmente truccato, che in una città dove si trovavano 15000 slavi ostili a D'Annunzio egli raccolse la 'unanimità' dei voti. Quando nel dicembre ci mancò poco che un altro 'plebiscito' rivelasse a D'Annunzio che la popolazione era stanca di lui, gli 'arditi' si impossessarono delle urne e impedirono il conto dei voti. Nella città fu decretata la pena di morte immediata per tutti coloro 'che professavano sentimenti ostili a Fiume.' La pratica di costringere chi portava nel cuore sentimenti impuri a bere l'olio di ricino, fu inventata dai 'legionari' di D'Annunzio a Fiume. Il fez, la camicia nera, il pugnale, e la mazza ferrata, erano stati durante la guerra l'armamento distintivo degli 'arditi,' e dagli 'arditi' furono importati a Fiume; sostituirono soltanto la crudele mazza ferrata con un più gentile manganello. La canzone 'Giovinezza' e il cosiddetto saluto romano, fatto sollevando per aria la mano destra (16), erano durante la guerra la canzone e il saluto degli 'arditi' e furono adottati a Fiume. Le adunate all'aria aperta, nelle quali il capo pone delle domande e la folla, alzando la mano destra, grida 'Sì' o quanto altro è stato prefabbricato, furono usate da D'Annunzio a Fiume. La città anticipò sino al più piccolo particolare tutto quanto doveva accadere in Italia dopo la conquista fascista. Coloro che maggiormente trassero profitto dal colpo di mano di D'Annunzio furono i socialisti. Essi poterono affermare che era imminente un'altra guerra, una guerra di cui D'Annunzio aveva dato il segnale con l'occupazione di Fiume. Molti che cominciavano a essere stanchi dei disordini inconcludenti provocati dai socialisti, furono adesso costretti a scegliere tra questi disordini e una nuova guerra, da cui certamente sarebbe scaturita una dittatura militare. Pensarono che i socialisti eran meno pericolosi dei capi dell'esercito. D'Annunzio, non soltanto alimentò lo spirito di sedizione nell'esercito e rese impossibile al governo civile di servirsi delle forze militari per il mantenimento dell'ordine, ma incrementò anche nella popolazione civile la inquietudine del sospetto, dello scontento e dell'isterismo. Pochi giorni dopo la spedizione di D'Annunzio a Fiume, ai primi di ottobre, si tenne a Bologna il congresso nazionale del partito socialista. L'ala destra, guidata da Turati, sostenne che si doveva rimaner fedeli alla tradizione del partito, e partecipare sia alla prossima campagna elettorale che ai lavori della futura Camera, avendo di mira di strappare al governo il maggior numero possibile di riforme immediate, che servissero alle classi lavoratrici. I massimalisti sostennero che la rivoluzione sociale doveva farla finita col Parlamento e con tutti gli altri istituti borghesi, ma che il partito socialista doveva partecipare alla campagna elettorale per aumentare la inquietudine rivoluzionaria; i deputati socialisti dovevano andare al Parlamento per sabotare
dall'interno questo 'istituto borghese,' e affrettare in tal modo quell'ora in cui il 'proletariato rivoluzionario' avrebbe costruito la repubblica dei soviet. Gli spartachisti sostennero che un 'proletariato rivoluzionario' si doveva astenere dalle elezioni e provocare senza ritardo la rivoluzione sociale secondo il modello della Russia sovietica. La destra socialista raccolse 14880 voti, i massimalisti 48411, e gli spartachisti 3417. Durante la campagna elettorale, gli spartachisti non presentarono nessun candidato, ma si unirono con i massimalisti per disturbare i comizi degli altri candidati, e dare una idea, con le loro grida, di quello che pensavano dovesse essere la dittatura del proletariato. Mussolini non si limitò a gridare. A Milano e nelle città vicine, durante la campagna elettorale comparvero gruppi di uomini armati, pagati trenta lire al giorno, e pronti a combattere i socialisti non solo con gli urli ma con le revolverate (17). Mussolini prese i fondi necessari per mantenere questi uomini dalla somma di un milione di lire, che era stata raccolta tra gli italiani negli Stati Uniti, perché tramite Mussolini venisse inviata a D'Annunzio. Mussolini trattenne per sé 480000 lire, e mandò il resto a D'Annunzio. Questi in vita sua non aveva mai avuto troppi scrupoli in fatto di soldi, ma in questa occasione si mostrò scandalizzatissimo della operazione finanziaria condotta da Mussolini senza il suo permesso (18). Il 13 novembre 1919, a Lodi, gli uomini di Mussolini per rappresaglia contro i massimalisti che avevano interrotto un precedente comizio, spararono dei colpi di rivoltella durante un comizio che si stava tenendo in un teatro, uccidendo tre persone e ferendone otto. I massimalisti non reagirono neppure con uno sciopero generale; si stavano abituando a vedere uccidere i proletari, intanto che la 'dittatura del proletariato' era in cammino. Le elezioni furono tenute il 16 novembre. Nitti si astenne da qualsiasi interferenza. Fu questo il primo e unico caso in Italia in cui non venne presentata nessuna denunzia contro il governo per 'manipolazioni' elettorali. I massimalisti e gli estremisti che avevano disturbato i comizi degli altri partiti non fecero niente nel giorno delle elezioni per impedire la libertà di voto; i risultati quindi rappresentarono esattamente lo stato d'animo del popolo italiano in quel momento. Di conseguenza esse furono disastrose per quei gruppi politici, 'liberali' (cioè conservatori) e democratici, che dal 1913 al 1919 avevano formato alla Camera la maggioranza. Quegli elettori che avevano promosso o accettato la guerra, votarono contro i deputati uscenti, perché questi erano stati neutralisti o sostenitori della guerra a malincuore; e coloro che erano stati contro la guerra avevano segnato nelle liste nere i deputati uscenti, perché questi non avevano mai osato votare contro la guerra e, volenti o nolenti, ne avevano assunto la responsabilità. Confrontando i risultati delle elezioni del 1913 con quelli del 1919 ci si rende conto della gravità del disastro: TABELLA. [nell'ordine: coalizione : voti 1913 / 1919 ; seggi 1913 / 1919]. 1. Coalizione Giolittiana: a) 'Liberali' e Nazionalisti b) Democratici c) Radicali d) Riformisti : 3.392.000 / 1.779.000 ; a) + b) 310, c) 73, d) 27; a) 23, b) 91, c) 57, d) 22. 2. 3. 4. 5. 7.
Combattenti: - / 320000; - / 33. Cattolici: 302000 / -; 29 / -. Popolari: - / 1.167.000; - / 100. Repubblicani + 6. Indipendenti: 437000 / 581000; 17 / 17 (solo indipend.) Socialisti: 883000 / 1.835.000; 52 / 156.
Totale 5.014.000 / 5.682.000; 508 / 508 (19). 'Liberali,' nazionalisti e democratici, da 310 seggi scesero a 114, perdendone 196. Sonnino non venne eletto. Fu eletto Salandra, e i nazionalisti ottennero a malapena mezza dozzina di seggi, e li salvò dalla distruzione totale la proporzionale, che fece sì che le minoranze non venissero schiacciate sotto il peso dei partiti più forti. Bissolati fu eletto solo grazie alla proporzionale. Con il sistema uninominale i socialisti nell'Italia settentrionale e centrale avrebbero conquistato molti più seggi (20); gli altri gruppi sarebbero sopravvissuti specialmente nel Mezzogiorno, e si sarebbe così creata una pericolosa lacuna tra l'Italia del Nord e quella del Sud, che fu impedita dalla proporzionale (21). Senza dubbio nei mesi di settembre, ottobre e novembre del 1919 il suffragio universale contribuì notevolmente ad evitare più gravi disordini. Il diritto di voto non è la fonte della sovranità, come ripetono gli uomini imbevuti di ideologie democratiche, e che invece si danno gran pena di negare gli uomini imbevuti di ideologie oligarchiche. Il diritto di voto è un mezzo, piuttosto crudo ma assai accomodante, dato ai cittadini perché una volta ogni tanto dicano se sono o non sono soddisfatti degli uomini che sono al governo. Se sono soddisfatti, votano per i candidati filogovernativi; se non sono soddisfatti, votano per l'opposizione. Attribuire alle elezioni un compito maggiore è un assurdo, ma questo compito è molto utile e importante. Gli istituti elettorali costringono gli uomini che sono al potere a badare allo scontento che la loro azione può provocare nel corpo elettorale. Il suffragio universale obbliga le classi dirigenti a stare all'erta e prendere atto di ogni sintomo di scontento. Al tempo stesso fa sì che i cittadini esprimano il loro scontento senza violenza: il voto sostituisce i proiettili. Il suffragio universale è il miglior preventivo contro le crisi rivoluzionarie; nei periodi di crisi, una elezione a suffragio universale è una rivoluzione abortita. Per il governo italiano sarebbe stato molto difficile superare la guerra se nel 1912 l'Italia non fosse diventata un paese a suffragio universale, cioè se i propagandisti della pace ad ogni costo avessero potuto dire al popolo che gli operai e i contadini tedeschi ed austriaci godevano del diritto di voto, mentre gli operai e i contadini italiani, che versavano in guerra il loro sangue, erano privi di tale diritto. Anche la crisi del 1919 sarebbe stata assai più grave, se lo scontento generale non fosse stato mitigato dalla prospettiva di fare una rivoluzione a buon mercato nel giorno delle elezioni; molto probabilmente, se non ci fosse stata la valvola di sicurezza del suffragio universale, le masse di operai e contadini avrebbero fatto ricorso all'azione diretta. Nel 1919 aspettarono le elezioni generali, e dopo le elezioni, aspettarono per tutto il 1920, di vedere che cosa avrebbero fatto i nuovi deputati. In questo modo furono superati i due anni più pericolosi della crisi del dopoguerra. Gli anarchici non avevano torto quando sostenevano che le elezioni acquietavano lo spirito rivoluzionario, e che quindi i rivoluzionari autentici dovevano astenersi dal parteciparvi. La proporzionale, aggiungendosi nel 1919 al suffragio universale, diminuiva l'amarezza delle competizioni elettorali. Con il sistema uninominale, il corpo elettorale è costretto in ciascun collegio a dividersi in non più di due fazioni, una delle quali deve mettere l'altra fuori combattimento. La proporzionale permette a ciascun partito di mostrare la sua forza elettorale senza venir tolto dal giuoco solo perché minoranza. Ciascun partito si preoccupa più di aumentare i propri voti che di distruggere quelli dei suoi oppositori. Anche con la proporzionale la lotta elettorale qua e là assunse forme di intimidazioni incivili a causa dei massimalisti e degli spartachisti; ma col sistema uninominale avrebbe degenerato in una guerra civile. Nessuno si aspettava un tale trionfo dei socialisti. I massimalisti videro in esso la prova che la 'grande ora' si stava avvicinando. Se avessero avuto più cervello,
avrebbero trovato di che riflettere quando a Milano due degli uomini di Mussolini e Volpi gettarono una bomba contro un corteo socialista che festeggiava la vittoria elettorale, ferendo gravemente nove persone (22). I socialisti proclamarono per il giorno dopo lo sciopero generale di rito, e la polizia manifestò una commendevole sollecitudine arrestando Mussolini, Marinetti, Vecchi, e un'altra diecina di persone che col delitto non c'entravan niente. I giudici trovarono che contro gli imputati non c'erano prove, e con sollecitudine altrettanto lodevole li rilasciarono. I socialisti se ne rimasero con i loro nove feriti, il loro sciopero generale, e la seguente sfida, lanciata loro da Mussolini: 'Un conto è gettare una scheda nell'urna e un altro conto è gettare delle bombe a mano agli angoli delle strade, o, peggio riceverle sul grugno' (23).
CAPITOLO QUINDICESIMO. LA PARALISI PARLAMENTARE. Al momento in cui una nuova Camera entrava in funzione, la tradizione voleva che la cerimonia di inaugurazione, con l'intervento dei deputati e dei senatori, fosse presenziata dal Re. I deputati costituzionali prestavano giuramento di fedeltà al Re e allo Statuto, e dopo aver ricevuto questo giuramento, il Re leggeva un breve messaggio in cui non diceva niente e col quale si chiudeva lo spettacolo. I deputati socialisti e repubblicani non avevano mai preso parte a questa cerimonia; prestavano giuramento nei giorni seguenti, col sottinteso che non vi annettevano nessuna importanza, perché la consideravano una pratica imposta da una legge illegittima. Nel 1919, i deputati massimalisti trovarono che questo procedimento non era abbastanza rivoluzionario, e quindi decisero di intervenire in massa alla seduta e abbandonare in massa l'aula all'ingresso del Re. Da quando il Re era salito al trono, nel 1900, non aveva mai dato segno di essere un reazionario. Gli anni ancora da venire dovevano mostrare che non era né un reazionario né un democratico; era semplicemente un uomo senza nessuna forza di volontà, che desiderava una cosa sola: qualsiasi cosa accadesse, lasciare ogni responsabilità al Parlamento e al presidente del Consiglio designato da qualsiasi maggioranza. Sceglieva per presidente del Consiglio l'uomo che era sostenuto per quella carica dalla maggioranza degli uomini politici di maggior rilievo, con i quali, secondo le regole del protocollo, si era consultato. Se il nuovo presidente riceveva dalla Camera un voto di fiducia, da quel momento in avanti il Re firmava sottomesso tutte le carte che il presidente gli sottometteva, sino a quando la maggioranza della Camera costringeva il presidente alle dimissioni. Allora il Re sceglieva un nuovo presidente secondo la stessa procedura, e ricominciava la firma delle carte. Vale la pena di leggere il ritratto che di lui ha dato Borgese: «Fin dalla prima adolescenza, il suo sviluppo psicologico era stato influenzato dalla sua statura più piccola del normale; essa gli infondeva un senso di amarezza e di disagio che, provocando in lui un complesso di inferiorità fisica, sempre presente alla sua coscienza e agli occhi degli altri, gli aveva dato, benché egli non fosse affatto cattivo o stupido, una diffidenza e una timidezza che non poteva mai dimenticare. (...) Sarebbe bastato questo inconveniente fisico, aggiunto ai tempi difficili, per rendere il suo compito ingrato. Ma per di più egli era figlio unico di un re insignificante (...) e di una regina molto intelligente la cui popolarità nel mondo giornalistico e la cui vanità letteraria non potevano piacere al figlio, avendo egli un'indole fatta per tutto tranne che per la letteratura e per la retorica. In questo ambiente, o meglio in questa solitudine, la sua freddezza si era fatta ancora più fredda; aveva avuto un'educazione rigidissima e il precettore, che aveva il compito particolare di formare la sua mente, non dimenticò un sol giorno di ripetergli il concetto che un monarca costituzionale non ha da fare altro che obbedire al desiderio del popolo e del Parlamento, ovverosia che non deve far nulla. Suo padre, dopo un debole tentativo reazionario nel quale era stato trascinato quasi senza accorgersene, era morto per mano di un anarchico: questa per il giovane Vittorio Emanuele fu una lezione più efficace di tutte le ore passate con l'insegnante di diritto costituzionale. La corona non gli piaceva. Egli la subì. (...) I suoi ozi erano riempiti dal più innocuo dei passatempi, cioè la numismatica o collezione sistematica di monete antiche. (...) Benché fosse sostanzialmente scettico, la sua condotta, nella vita di tutti i giorni, era impeccabile. Buon marito, padre affettuoso e attento, burocrate coscienzioso, egli rappresentava l'ideale - specialmente per l'ordine, la frugalità e la modestia - del borghese italiano
della sua generazione, anche se il trono era troppo alto per le sue gambe. (...) Al re non importava né la gloria né la potenza; nulla era più lontano dalla sua mente del sanguinario clamore dei poemi e dei discorsi di D'Annunzio. (...) Alla fine della guerra, con i capelli e i baffi completamente grigi benché non avesse ancora cinquant'anni, poteva pensare di riprendere la solita vita (...) dedicando le giornate alla firma degli affari costituzionali e ai sapienti svaghi della numismatica. Ciò che veramente gli piaceva e che lo assorbiva completamente non era lo sparare ad antilopi predestinate, né il pavoneggiarsi, su trampoli ideali, davanti a eserciti risonanti o folle plaudenti, vanità delle vanità che egli con lo spirito dell'Ecclesiaste in cuor suo disprezzava. Il compito che veramente lo interessava era quello del padre di famiglia, il cui patrimonio ereditario era andato aumentando attraverso guerre pericolose e fortunate quanto inaspettate e temute!» (1). A partire dal giugno 1919, il Re era stato bersagliato dagli attacchi dei fascisti e dalle più o meno velate minacce dei nazionalisti, perché con la sua stolida inerzia si era opposto a tutti i progetti di colpo di stato militare. I capi militari parlavano apertamente della necessità di sostituirlo con il Duca d'Aosta. Il "New York Times" del 7 dicembre 1919 pubblicava 'una fotografia di Sua Altezza Reale la Duchessa d'Aosta, che dovrebbe diventare Regina d'Italia in caso di abdicazione di Re Vittorio Emanuele Terzo e della Regina.' Se il Re fosse stato uomo capace di un colpo di stato avrebbe risposto alla sfida dei deputati massimalisti facendoli arrestare tutti la notte prima dell'apertura della Camera, e procedendo senza di loro all'inaugurazione della nuova Camera. I massimalisti, a loro volta avrebbero dovuto o fare appello al loro 'proletariato rivoluzionario' per iniziare la loro rivoluzione nel giorno della seduta reale recandovisi e rimanendo in aula e proclamando la loro 'repubblica dei soviet,' oppure non partecipare alla cerimonia risparmiandosi un atto volgare di scortesia. Né il Re né Nitti erano uomini capaci di un colpo di stato, e quanto ai massimalisti erano persuasi che non spettasse a loro provocare la 'grande ora' ma al 'proletariato rivoluzionario'; loro unico compito era di far baccano in attesa della 'grande ora.' E neppure pensarono di rifiutarsi nei giorni seguenti di prestar giuramento; presentarono alla Camera un disegno di legge per l'abolizione del giuramento, ma poi se ne scordarono del tutto tanto che non arrivò mai a essere discusso. La mattina del 1 dicembre, lasciando il Quirinale con il suo seguito per recarsi a, Montecitorio, il Re fu applaudito da 2000 ufficiali in divisa, compresi otto generali, che sia all'andata che al ritorno accompagnarono il corteo reale. Chi scrive era presente alla seduta reale. Il Re entrò nell'aula zoppicando, circondato dai principi del sangue, compreso il Duca d'Aosta, tutti molto più alti di lui e facendolo quindi sembrare più piccino che mai. I socialisti, in gruppo compatto, coprivano tre settori dell'estrema sinistra. I socialisti di destra, legati dalla disciplina di partito, erano insieme ai massimalisti; i pochi repubblicani occupavano i seggi vicino ai socialisti. Il Re aveva appena raggiunto il trono che i socialisti e repubblicani si alzarono tutti insieme uscendo da una porta laterale, i massimalisti gridando 'Viva il socialismo,' mentre repubblicani e socialisti di destra si astennero da qualsiasi grido. Poco a poco, via via che uscivano, deputati e senatori degli altri partiti occuparono i loro posti. Il Re, in piedi su uno sgabello preparato davanti al suo seggio perché sembrasse meno piccolo, le mani incrociate sull'impugnatura della spada, cercava, senza riuscirci, di assumere un'aria maestosa; i suoi occhi incerti e sbigottiti sembravan quelli di un cane uscito allora dall'acqua dopo aver corso rischio di annegare. Cessati i clamori dei deputati uscenti e gli applausi dei deputati e senatori rimasti, la cerimonia poté cominciare e si concluse senza altri incidenti. Dopo che il Re ebbe fatto ritorno al Quirinale, si cominciarono a verificare scontri tra ufficiali e socialisti. Come il solito, i socialisti, disarmati e pronti solo per gli scioperi e
per le elezioni, ebbero ovunque la peggio. Un deputato socialista venne ferito gravemente, e altri quattro in modo leggero. In seguito a ciò, la direzione nazionale del partito socialista proclamò uno sciopero generale di protesta del proletariato in tutta Italia 'contro l'offesa arrecata ai suoi rappresentanti (2). I leaders della Confederazione del lavoro sottoscrissero la decisione, non perché la considerassero ragionevole, ma perché la loro tattica consisteva nel farsi trascinare dai massimalisti, e al tempo stesso frenarli nel loro impeto. La durata di questo sciopero non venne fissata, mentre per quello del luglio 1919 si erano annunciati due giorni; questo significava che lo sciopero doveva durare quanto tempo voleva il 'proletariato rivoluzionario,' e questo proletariato era autorizzato, a propria discrezione, ad affrettare nel corso dello sciopero la 'grande ora.' Questo era quanto avevan voluto i massimalisti, e i leaders della Confederazione si eran lasciati rimorchiare. Nei giorni 2 e 3 dicembre, lo sciopero colpì tutte le più importanti città italiane. Solo i ferrovieri fecero eccezione e si recarono al lavoro. Come il solito, gli anarchici intervennero ovunque, provocando scontri con la polizia. Vi furono in Italia otto morti, di cui due tra la polizia, e molti feriti. Gli incidenti più seri si ebbero a Mantova. Qui, il 3 dicembre, qualche centinaio di estremisti e di anarchici, sventolando una bandiera sulla quale era scritto il nome di Spartaco, appiccarono il fuoco alla stazione ferroviaria, forzarono la porta delle carceri liberando i prigionieri e impossessandosi dei fucili delle guardie, saccheggiarono un negozio di armi e varie botteghe. Alla fine della giornata si contavano cinque morti, tra i quali un soldato e una donna. Ma la 'grande ora' non scoccò neppure in questa occasione. Il pomeriggio del 3 dicembre, la Confederazione del lavoro ebbe il sopravvento sulla direzione del partito socialista, e insieme invitarono partito e sindacati in tutta Italia a riprendere il lavoro per il giorno dopo, tenendosi però pronti 'a rintuzzare efficacemente dovunque ogni velleità reazionaria dei militaristi professionali' (3). Il 4 dicembre, la Camera del lavoro di Mantova condannava 'i criminali e ladri' autori degli incidenti del giorno prima, ma in un nuovo scontro con la polizia gli insorti ebbero due morti. Il 5 dicembre l'agitazione era cessata ovunque; ancora una volta lo sciopero generale, che non si sviluppava mai in un decisivo movimento rivoluzionario, si lasciò dietro un certo numero di morti e un immenso ed inutile spreco di energia. Dopo queste giornate, 'liberali,' nazionalisti e fascisti poterono fare uso di un formidabile motivo di propaganda contro i 'bolscevichi.' Sin dall'aprile del 1919 ufficiali in uniforme, violando i doveri imposti dalla disciplina militare, avevano partecipato a molte dimostrazioni politiche, e qua e là socialisti ed anarchici erano stati malmenati da ufficiali in divisa. Ma erano fatti sporadici, ai quali non veniva data importanza alcuna. Il 1 dicembre, duemila ufficiali in uniforme parteciparono alla dimostrazione monarchica di Roma, e durante lo sciopero generale dei giorni seguenti, in ogni parte d'Italia molti ufficiali furono aggrediti. A Torino, un colonnello fu ferito tanto gravemente che in seguito morì. 'Liberali,' nazionalisti e fascisti non avevano mai levato la voce contro lo scandalo degli ufficiali che partecipavano alle dimostrazioni politiche di piazza, anzi di fatto era uno scandalo che incoraggiavano; ma adesso cominciarono a protestare rumorosamente tutte le volte che qualche ufficiale si trovava coinvolto in disgraziati incidenti, e la loro propaganda cadde su di un terreno fertile, grazie alla cecità di estremisti ed anarchici, che aggredivano e maltrattavano gli ufficiali anche nei casi in cui questi se ne andavano pacificamente per gli affari loro. Inutilmente continuarono a sognare ad occhi aperti. L'"Avanti!" del 5 dicembre scriveva: «La trasformazione psicologica delle masse, alla vigilia degli inevitabili avvenimenti che la guerra ha accelerati, si compie con rapidità tale che noi potremmo anche
essere travolti dallo improvviso erompere dei fatti, imprevisti ed imprevedibili, dipendenti da elementi assolutamente imponderabili.» Il giorno seguente lo stesso giornale pubblicava una lettera di Lenin, che non aveva nessuna esperienza diretta di vita italiana, e dalla Russia era privo di notizie su quanto accadeva in Italia; e pure considerava sicure due cose: 1) che i socialisti che non aderivano alla Internazionale comunista 'ingannano le masse,' e sono 'uno stato maggiore senza esercito,' che i comunisti ovunque dovranno considerare nemici; e 2) che 'la dittatura del proletariato e il sistema sovietico hanno già vinto moralmente in tutto il mondo' una vittoria vera e definitiva, 'la quale, nonostante tutte le difficoltà, i fiumi di sangue, nonostante il terrore bianco della borghesia, eccetera, si affermerà in tutti paesi del mondo' (4). Il 29 ottobre, dopo che i massimalisti avevano ottenuto vittoria al congresso di Bologna (5), Lenin scriveva a Serrati per congratularsi con i comunisti italiani, e approvare la loro decisione di partecipare alle prossime elezioni. Certamente 'gli opportunisti aperti o mascherati, ed essi sono molti nel gruppo parlamentare socialista italiano,' tenteranno di far deflettere il partito dalla linea comunista accettata dal congresso di Bologna: 'la lotta contro queste tendenze non è ancora finita.' Tuttavia, Lenin aggiungeva: «Data la situazione internazionale dell'Italia, al proletariato internazionale spettano ancora compiti molto difficili. Può darsi che l'Inghilterra e la Francia, aiutate dalla borghesia italiana, tenteranno di provocare il proletariato italiano ad una insurrezione prematura onde soffocarlo più facilmente. Ma esse non riusciranno nel loro intento. Il meraviglioso lavoro dei comunisti italiani serve di garanzia ch'essi riusciranno a conquistare alla causa del comunismo tutto il proletariato industriale ed agricolo, nonché i piccoli proprietari, ed allora - previa la scelta di un momento favorevole dal punto di vista della situazione internazionale - la vittoria della dittatura del proletariato italiano sarà definitiva» (6). Questa lettera era stata scritta il 29 ottobre, prima delle elezioni italiane del 16 novembre. Molto probabilmente, dopo queste elezioni, Lenin non avrebbe dato consigli di prudenza, ma piuttosto avrebbe incoraggiato i comunisti italiani ad osare di più. In ogni modo, la lettera, pubblicata in Italia il 6 dicembre, venne considerata da tutti come una doccia fredda che Lenin faceva cadere sul capo degli estremisti italiani, in quanto li consigliava di astenersi da tentativi rivoluzionari prematuri, e di conquistare prima non solo il proletariato industriale e agricolo, ma anche i piccoli proprietari, ed aspettare 'il momento favorevole dal punto di vista della situazione internazionale.' Serrati aveva pubblicato la lettera di Lenin il 6 dicembre perché non gli era pervenuta prima, e ogni giornalista avrebbe pubblicato una lettera di Lenin qualsiasi ne fosse stato il contenuto; ma i nazionalisti sostennero che questa lettera era un falso, che Lenin non poteva aver dato un simile consiglio, e che Serrati cercava di mettere un freno alle esaltazioni rivoluzionarie dei suoi seguaci. 'L'"Avanti!" si serve di questa letterina del compagno Lenin perché in essa il bollente comunista ammonisce, (...) che non è venuto ancora il momento della rivoluzione internazionale! Proprio il contrario di quello che, in nome di Lenin, ha scritto l'"Avanti!", hanno detto i propagandisti elettorali, e di cui non vorrebbero con sconcia ipocrisia riconoscere i naturali effetti nella rivolta teppistica dei giorni scorsi' (7). Anche se la lettera fosse stata falsa e creata allo scopo di calmare le masse, i nazionalisti avrebbero dovuto gioire di questa inaspettata prova di saggezza; invece se ne dispiacquero. Avendo perduto tutte le speranze di controllare la nuova Camera per vie legali, non avevano altra strada per conseguire i loro fini che un colpo di stato militare, e questo non poteva venire attuato se il paese non raggiungeva un tale stato di disordine da non lasciare al Re altra scelta: o una rivoluzione comunista, o una dittatura militare; se adesso Lenin consigliava la prudenza tutte le loro speranze sarebbero andate in fumo.
Per resistere contemporaneamente contro gli estremisti socialisti e quelli reazionari, Nitti avrebbe avuto bisogno alla Camera di una solida maggioranza; ma la nuova Camera era divisa in tre gruppi: 100 popolari, 156 socialisti, e 252 deputati che non erano né socialisti né popolari. Di quest'ultimo gruppo facevano parte 33 rappresentanti dei combattenti e 17 indipendenti. Questi non avevano una base comune: vi erano riformisti e nazionalisti, democratici e conservatori, e alcuni non eran niente; ciascuno andava per la sua strada senza avere nessun peso. I nove repubblicani avrebbero votato volentieri a favore del governo, se questo fosse stato il governo di una repubblica, ed erano comunque sperduti in mezzo agli altri 508 deputati. I 23 'liberali' e i nazionalisti formavano un gruppo compatto, ma non erano popolari e non avevano gran peso. Una volta eliminate queste piccole fazioni, eterogenee ed incapaci di fondersi, dal numero dei gruppi influenti, rimanevano soltanto 100 popolari, 156 socialisti, e 170 tra democratici, radicali e riformisti. I popolari occupavano una posizione analoga a quella del centro cattolico in Germania. Questo centro prima della guerra era stato alleato con i conservatori, dai quali si era distaccato durante la guerra, e formava adesso insieme ai democratici e ai socialdemocratici (che erano analoghi ai socialisti di destra italiani) la coalizione parlamentare che era alla base della nuova Repubblica di Weimar. Nel 1919, in Italia, né Don Sturzo né il grosso degli elettori popolari avrebbero permesso un'alleanza con 'liberali' e nazionalisti, e anche ammesso che ciò fosse stato possibile, questa alleanza non avrebbe fornito una base sufficiente per un nuovo gabinetto. Alleandosi con radicali, democratici e riformisti, i popolari avrebbero potuto contribuire alla formazione di un gruppo di 270 membri, cioè poco più di metà della Camera, e resistere alla opposizione dei 156 socialisti e dei 23 'liberali' e nazionalisti. Ma una coalizione parlamentare del genere avrebbe dovuto essere compatta, e pronta ad affrontare i socialisti in modo risoluto. Invece quei democratici sopravvissuti al disastro delle elezioni erano divisi tra seguaci di Nitti e seguaci di Giolitti. Una parte di essi si rendeva conto della necessità di raggiungere con la Yugoslavia un compromesso sulla questione adriatica, ma un'altra parte rimaneva ciecamente ancorata alle idee di Orlando e di Sonnino, e reclamava l'annessione della Dalmazia e di Fiume. Gli uni sospettavano gli altri, e nessuno di loro si fidava dei popolari (8). In tali condizioni, nessuna coalizione di governo efficiente era possibile sino a che i 156 socialisti non fossero stati disposti a cooperare. Tra questi, 50 provenivano dalla Camera precedente, ed erano stati rieletti perché avevano sempre votato contro la guerra. Erano quasi tutti socialisti di destra, che si sarebbero uniti in appoggio a Nitti con democratici, radicali e riformisti. Ma oltre 100 dei deputati nuovi eletti erano massimalisti; la rivoluzione russa di cui tutti parlavano ma di cui nessuno sapeva niente, ebbe su di loro uno straordinario fascino. Ai loro occhi l'attività parlamentare aveva perduto qualsiasi prestigio; la presenza alla Camera di 156 deputati socialisti non avrebbe avuto comunque importanza alcuna, se essi non 'facevano la rivoluzione.' Che cosa intendessero per 'fare la rivoluzione' non lo sapeva nessuno, ma erano tutti d'accordo che partecipare ad un governo 'borghese' invece di 'fare la rivoluzione' avrebbe significato tradire il proletariato; erano venuti alla Camera con il solo scopo di sabotare dall'interno questo istituto 'borghese' schiamazzando e provocando disordini. I due settori della Camera che essi occupavano all'estrema sinistra erano sempre una specie di gabbia di scimmie urlanti, violente e volgari. I socialisti di destra avevano partecipato alla lotta elettorale accanto a loro ed erano stati eletti con loro nella stessa lista, sulla base di una opposizione intransigente verso tutti i partiti 'borghesi,' e i loro colleghi oltre alla direzione nazionale del partito non lasciavano loro nessuna libertà di movimento. Per trent'anni il partito socialista aveva propugnato e sostenuto la 'conquista del potere politico' attraverso una tattica elettorale e parlamentare; e adesso, proprio nel momento in cui erano diventati abbastanza forti da controllare qualsiasi governo, il partito si chiudeva nella torre
d'avorio dell'intransigenza rivoluzionaria, rinunciando ad ogni forma d'influenza sul governo. Un regime democratico può funzionare soltanto fino a che i cittadini sono disposti ad accettare come definitivo il verdetto della maggioranza, ad unirsi per eleggere i rappresentanti la cui maggioranza formerà il governo, e ad agire secondo la legge anche quando questa venga imposta mediante sanzioni penali. Quando non esiste una maggioranza definita tra i rappresentanti, i diversi gruppi devono essere pronti a raggiungere un compromesso e formare una coalizione in grado di funzionare. L'unanimità non è necessaria e neppure possibile; ci sarà sempre chi si rifiuta di cooperare e di rispettare la legge. Ma finché ci sono soltanto delle piccole minoranze il regime democratico sta in piedi. La crisi sopravviene quando queste minoranze non sono più piccole, e quando esse si rifiutano di prestare la loro collaborazione al momento in cui questa è divenuta indispensabile. Tale fu il caso dell'Italia nel 19191920. I massimalisti affermarono che il proletariato è una classe compatta impegnata in una lotta all'ultimo sangue con la classe capitalista. In attesa dell'era nuova, essi non potevano venire a un compromesso di nessuna specie con i rappresentanti politici della classe 'capitalista.' Fintanto che il numero dei deputati socialisti era stato scarso, la loro mentalità marxista non aveva dato nessuna noia al funzionamento delle istituzioni parlamentari. Essi esprimevano le sofferenze delle masse lavoratrici e agivano utilmente come un campanello d'allarme a impedire che i partiti conservatori si addormentassero compiaciuti di sé e della propria opera. Ma adesso i socialisti formavano quasi un terzo di una Camera in cui senza la loro collaborazione non era possibile formare nessuna coalizione governativa; essi non erano abbastanza numerosi per formare da soli un gabinetto, e tuttavia il loro pregiudizio marxista, contrario al compromesso, proibiva loro di allearsi con i partiti 'borghesi' e aiutarli nella formazione di un gabinetto. Il sistema non poteva far altro che incepparsi. La crisi si verificò al momento in cui l'atteggiamento sedizioso dei capi militari rendeva più che mai necessario un governo saldo. Quelli che non avevano ancora capito la serietà della congiura militare dovevano capirlo il 23 novembre, quando il governo permise che i giornali pubblicassero la notizia che il 14 D'Annunzio aveva lasciato Fiume dirigendosi su una nave da guerra a Zara, capitale della Dalmazia, senza che la flotta italiana facesse niente per fermarlo, e che a Zara il vice ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia inviato dal governo italiano, lo aveva ricevuto con solenni onori, dandogli pubblicamente la sua parola d'onore che non avrebbe mai abbandonato la Dalmazia. La censura aveva tenuto la notizia segreta sino a dopo le elezioni del 19 novembre; come osservava l'"Osservatore Romano" del 23 novembre, se il governo avesse permesso la pubblicazione della notizia prima delle elezioni, i cosiddetti partiti patriottici sarebbero stati sconfitti in modo anche più disastroso. Alla nuova Camera, nella seduta del 21 dicembre, un deputato sollevò la questione dei rapporti tra il governo civile e le più alte autorità militari. Domandò se era vero che il pericolo di atti di indisciplina nelle truppe nell'Istria fu segnalato in tempo dal governo al generale Diaz, e nel caso che questo fatto fosse vero, perché il governo non aveva punito il generale Diaz, che non aveva impedito l'impresa di Fiume; domandò anche perché non si erano prese delle misure disciplinari contro quei capi militari responsabili della disciplina di quei reggimenti ai quali appartenevano i soldati che avevano accompagnato D'Annunzio a Fiume; e perché il vice ammiraglio Millo, dopo aver dato a D'Annunzio la sua parola d'onore, era rimasto governatore della Dalmazia invece di venire destituito da tale carica e punito. «Non si tratta di un soldato o di un ufficiale, che si assuma la responsabilità di abbandonare il posto per passare in altro campo; non si tratta di un generale, a cui si possa addebitare un errore o una colpa di imprevidenza o di omissione, ma che, formalmente almeno, rimane nei cancelli della disciplina, conservando il suo posto
nella subordinazione e nella gerarchia; non si tratta di un pubblico funzionario, che sentendo insorgere nella propria coscienza un contrasto irriducibile tra i suoi doveri gerarchici e la sua coscienza, si dimette, cede l'ufficio a un nuovo funzionario e, acquistata la qualità di libero cittadino, segue quella condotta che dalla sua coscienza è dettata. Si tratta di un altissimo funzionario militare che, continuando ad essere capo della gerarchia, il cui comando gli è stato affidato dal governo responsabile, assume l'obbligo di disubbidire eventualmente agli ordini di questo governo. E' un caso di patente insubordinazione. Orbene, dopo questa tipica insubordinazione, il vice ammiraglio Millo rimane tuttora in carica... Ed allora abbiamo il diritto e il dovere di domandare al presidente del Consiglio ed ai ministri della Marina e della Guerra, se in Italia la sovranità sulla politica estera ed interna è esercitata intera dagli organi del potere civile, cioè dal Parlamento e dal governo che abbia la fiducia del Parlamento, oppure se siamo in regime di diarchia civile e militare, nel quale regime, contro le deliberazioni della Camera e del governo esiste un diritto di veto da parte degli alti gradi della marina e dell'esercito. (...) Tutta questa discussione temo che non servirebbe a nulla, se noi continuassimo a fare come don Rodrigo, che, preso dalla pestilenza, non osava guardarsi là dove aveva il dolore, per la paura di riconoscervi i segni del male» (9). Ma fu come parlare a un sordo. I massimalisti videro la minaccia della dittatura militare, e la denunciarono nei loro discorsi e nei loro giornali; ma nella loro mentalità infantile erano convinti che tutto ciò che veniva ad indebolire il Parlamento, istituto del mondo capitalistico, affrettava il crollo totale di quel mondo. Se i capi militari attaccavano quell'istituto 'borghese' dall'esterno, mentre i massimalisti lo sabotavano dall'interno, era tanto di guadagnato per la preparazione del 'grande giorno.' Il 'proletariato rivoluzionario' avrebbe fatto piazza pulita sia dei capi militari che del Parlamento. I massimalisti segavano il ramo dell'albero su cui stavano seduti. Nitti non poté mai disporre di una maggioranza parlamentare stabile; dovette sempre affidarsi ai resti di quella maggioranza che, prima della guerra al tempo di Giolitti, era sembrata incrollabile, e che ora alla Camera era soltanto una minoranza, e sull'appoggio datogli di malavoglia dai deputati popolari, i quali votavano per lui solo perché non c'era nessun altro che potesse raccogliere intorno al suo nome una qualsiasi maggioranza. La sua tattica era di guadagnar tempo, vivendo alla giornata, e trarre profitto da quella divisione tra socialisti e popolari che paralizzava entrambi, facendo a ciascuno un minimo di concessioni. Avrebbe dovuto costringere i deputati ad affrontare le loro responsabilità, presentando loro un piano di decise riforme finanziarie, amministrative e sociali, e obbligarli a discuterle, emendandole, se necessario, o respingendole se ne avevano il coraggio. I massimalisti avrebbero sollevato l'indignazione in larghi settori delle classi lavoratrici se, ad esempio, avessero ostacolato la discussione di un progetto di legge che stabiliva le otto ore di lavoro, le pensioni per la vecchiaia, l'assicurazione contro la disoccupazione, oppure che regolava un vasto piano di riforma agraria. I socialisti di destra e la Confederazione del lavoro avrebbero potuto distaccarsi dai massimalisti, rivendicando il loro diritto e il loro dovere di servire la causa delle classi lavoratrici mediante un'azione costruttiva e non vuoti clamori. Almeno cinquanta deputati socialisti si sarebbero uniti ad un movimento di opera legislativa costruttiva. Invece di rimanersene al suo posto a Roma e affrontare la Camera presentando delle proposte precise da discutere, accettare o respingere, Nitti era quasi sempre a Parigi per sistemare l'eterna questione adriatica e l'eterna questione dei compensi coloniali. Egli si serviva di questi viaggi come pretesto per chiedere alla Camera di sospendere le sedute per tutto il tempo che doveva rimanere assente. I deputati, che non avevano niente da discutere perché il governo non dava loro niente da discutere, e che non osavano provocare una crisi perché non sapevano quale altro gabinetto
avrebbe potuto sostituire quello di Nitti, sospendevano volentieri i lavori parlamentari; ma, quando tornavano a riunirsi, si trovavano sempre col non aver niente da fare, se non ascoltare le violente recriminazioni dei socialisti contro le responsabilità per gli ultimi scioperi e gli ultimi sanguinosi conflitti tra polizia e dimostranti, o ascoltare i resoconti degli ultimi insuccessi nelle trattative sull'eterna questione di Fiume. La paralisi parlamentare era peggiorata dal fatto che Nitti aveva scelto come presidente della Camera Orlando, che durante la Confederazione della Pace aveva perso ogni prestigio, e che non aveva assolutamente l'energia che sarebbe occorsa per disciplinare le discussioni di queste cinquecento persone, tra le quali circa un centinaio parevano evasi da un manicomio. Le trattative col Vaticano sulla questione romana erano giunte a un punto tale che Nitti avrebbe potuto presentare al Parlamento un patto di conciliazione tra la Santa Sede e l'Italia, dimostrando che la Santa Sede era contenta che l'Italia riconoscesse la sovranità del papa sulla basilica di S. Pietro e sul Vaticano, cioè quella parte di territorio in cui, sin dal 1871, il governo italiano non aveva mai pensato di esercitare la propria giurisdizione. In tal modo Nitti avrebbe cancellato i sospetti di coloro che consideravano il Vaticano un nemico irriconciliabile dell'unità d'Italia, si sarebbe assicurato la fedeltà dei cento deputati popolari, e avrebbe messo gli altri deputati faccia a faccia con un problema di interesse nazionale; oltre a ciò avrebbe fornito una prova evidente che la guerra non era stata vinta invano, se aveva servito a porre fine a una disputa che mezzo secolo prima sembrava insolubile. Nitti non osò prendere nessuna iniziativa coraggiosa né in questo né in nessun altro campo. Quando D'Annunzio si impadronì di Fiume, Nitti ebbe uno scoppio di rabbia, e denunciò tale impresa davanti alla Camera come un tiro criminale che era stato progettato dal 'militarismo.' Aveva ragione; ma non avrebbe dovuto fermarsi qui. Dopo aver provato il metodo della persuasione per indurre quei seguaci di D'Annunzio, mossi da un impulso di generosità, a ritornare all'obbedienza, avrebbe dovuto reprimere con fermezza quel reato di sedizione militare e punire coloro che continuavano nella disobbedienza. Sarebbe bastato bloccare Fiume, e costringere D'Annunzio ad arrendersi per fame. Prima di prendere tale misura, Nitti avrebbe dovuto porre fine all'eterna questione adriatica con l'annessione immediata all'Italia di Gorizia, Trieste, l'Istria e Fiume, annunciando al tempo stesso che era pronto a consegnare la Dalmazia alla Yugoslavia non appena questa avesse smesso di litigare con l'Italia per gli altri territori. E', assai poco probabile che Lloyd George, che aveva tante difficoltà da affrontare, si sarebbe assunto in aggiunta il peso di un conflitto con l'Italia per una piccola città di nessuna importanza. Il presidente Wilson era stato colpito da paralisi nel settembre del 1919, e non avrebbe certamente dichiarato guerra all'Italia per Fiume; tutt'al più avrebbe chiuso questo sfortunato capitolo con una protesta platonica. Clemenceau aveva lasciato il potere nel gennaio del 1920, e non era più in grado di fare sfoggio della sua brutale arroganza né su questo né su alcun altro punto. Quanto alla Yugoslavia, essa si trovava nella prima e più difficile fase della sua organizzazione interna, e poteva pensare a tutto meno che ad attaccare l'Italia. Un anno dopo il governo di Belgrado abbandonò Fiume, perché finalmente si trovò di fronte una volontà italiana chiara e risoluta, e non perché non avrebbe preferito una diversa soluzione. Nitti avrebbe dovuto sottoporre il suo piano al Parlamento, di modo che tutti i gruppi si sarebbero trovati di fronte alla responsabilità di scegliere tra un compromesso con la Yugoslavia, o una nuova guerra per la questione adriatica. Egli sapeva che i capi dell'esercito e della marina erano d'accordo con D'Annunzio e non avrebbero obbedito a nessun governo che rinunciasse alla Dalmazia. Dato che non si poteva contare sulla fedeltà dei capi militari, Nitti avrebbe dovuto sfidarli o ad obbedire, o ad affrontare apertamente le loro responsabilità assumendo il potere. Ma ciò avrebbe significato precipitare il paese nell'abisso di una dittatura militare. D'altra
parte, dopo il primo momento di irritazione provato alla notizia della marcia su Fiume, Nitti pensò che in fondo D'Annunzio installato a Fiume era un pegno utile nei tentativi di trovare un compromesso favorevole nella questione fiumana. Così, anche su questo terreno, egli scelse di giuocare una partita di attesa. Lasciò che i generi necessari alla popolazione della città transitassero liberamente dall'Italia a Fiume; contemporaneamente si sforzò di corrompere i capi militari riconoscendo che l'esercito in tempo di pace doveva essere composto di quindici corpi di armata, e non più di dodici come prima della guerra, mantenendo così molti generali, ispettori e alti papaveri gallonati che non servivano a niente (10). L'animo di Nitti era quello di un paciere, non di un lottatore; egli era un uomo di buon senso, ma non fece mai sentire che al timone c'era qualcuno, che con mano ferma guidava il paese in mezzo alla bufera. A questo punto ci potremmo chiedere come fu possibile che venisse intrapresa (11) una azione decisa per il risanamento finanziario ed economico se il Parlamento era paralizzato e incapace di funzionare. La risposta a questa domanda si trova nel fatto che il Parlamento non ha il compito della amministrazione quotidiana. Le sue funzioni sono legislative e politiche; approva i provvedimenti legislativi e, in paesi come l'Inghilterra e l'Italia prefascista, indica il presidente del Consiglio che deve formare il gabinetto. Il peso dell'amministrazione quotidiana è sulle spalle di funzionari permanenti, alti e bassi, che fanno funzionare il meccanismo. Sia che un gabinetto abbia vita lunga o breve, che il controllo parlamentare funzioni o no, i funzionari dell'amministrazione rimangono ai loro posti. Durante la guerra e negli anni seguenti, in virtù dei poteri straordinari concessi dal Parlamento al governo, i bilanci preventivi e le leggi che non erano state discusse o approvate dalla Camera, venivano emanate mediante decreti-legge. Il governo, sia nell'azione legislativa che amministrativa, non incontrava nessun ostacolo da parte del Parlamento. Mai prima di allora, nel corso della storia d'Italia, il potere esecutivo godette di tanta libertà in materia finanziaria, in bene come in male, come durante questi anni di paralisi parlamentare (12). Supponiamo che un qualsiasi Guy Fawkes americano (13) riesca a far saltare in aria il Campidoglio a Washington mentre si svolge una seduta di tutte e due le Camere, sicché all'improvviso tutti e deputati e senatori vengano fatti fuori. In conseguenza, il Congresso degli Stati Uniti verrebbe ad essere paralizzato, e di fatto distrutto; ma ciò nonostante si continuerebbero a pagare le tasse, ferrovie e miniere non cesserebbero per ciò di funzionare, i traffici marittimi non verrebbero sospesi, e gli sportelli delle banche non verrebbero chiusi se non per lutto. Il Parlamento non è tutto il paese; esso è la voce del paese. Si può avere un disturbo alla gola, al naso o alla bocca, che dà noia quando si deve parlare, mentre tutto il resto del corpo è sano. La salute dell'Italia non era compromessa, anche se il Parlamento non funzionava. Uno studioso intelligente di pubblica amministrazione, Ubaldo Formentini, così scriveva nel 1922: «Se non governa il Gabinetto, governano gli uffici i quali non muoiono e non mutano. (...) Perciò non è vero che lo Stato sia debole: è fortissimo e diventa sempre più forte; la verità è che certi poteri dello Stato sono straordinariamente indeboliti di fronte a certi altri» (14). Per decreto-legge si stanziarono 3,3 miliardi di lire per opere pubbliche onde evitare la disoccupazione (17 novembre 1918), e si istituì l'assicurazione contro la vecchiaia (5 gennaio 1919) e contro la disoccupazione (14 ottobre 1919). Il sistema fiscale fu radicalmente riformato per mezzo di decreti-legge. Gli effetti non si potevano vedere subito, perché per porre in atto i nuovi provvedimenti doveva esser creata la macchina amministrativa (15). Le entrate, che per il bilancio del 1918-19 erano state di 9,6 miliardi di lire, salirono a 15,2 miliardi nel 1919-20, e 18,8 miliardi nel 1920-21 (16). Il prestito nazionale del gennaio 1920, che rese 18 miliardi di lire - somma
enorme per l'Italia - fu lanciato con un decreto-legge. La riorganizzazione delle forze per il mantenimento dell'ordine pubblico venne effettuata per mezzo di decreti-legge. Come si è visto, alla fine della guerra, i carabinieri erano ridotti a 28000 uomini; nel giugno del 1920 il loro numero era salito a 60000; inoltre, era stato creato un nuovo corpo ausiliario di polizia, la 'Guardia Regia,' che nel giugno del 1920, contava 25000 uomini (17). Un deputato socialista, che di mestiere faceva il carrettiere, si conquistò grande popolarità interrompendo i discorsi dei ministri, a proposito e a sproposito, gridando: 'Sciogliete la Guardia Regia.' La Guardia Regia continuò ad aumentare il suo organico. Ma una volta che si è detto tutto questo, rimane il fatto che, in seguito alle elezioni del novembre 1919, il Parlamento era diventato un organismo paralizzato. Esso rappresentava perfettamente il paese, perché era stato eletto liberamente mediante un sistema che lo faceva specchio esatto del paese; ma era stato eletto in un periodo anormale, e quindi funzionava in modo anormale. Una situazione di questo genere non poteva continuare in eterno. O il Parlamento svolgeva i suoi doveri legislativi, o sarebbe stato eliminato dal sistema politico italiano come un organo inutile, se non nocivo.
CAPITOLO SEDICESIMO. IL 'BOLSCEVISMO' ITALIANO NEL 1920. Durante la prima metà del 1920, il numero di scioperanti per cause economiche, tra le quali soprattutto era il crescente costo della vita, salì da 877000 nella seconda metà del 1919 a 1.769.000 (1). Non si possiedono dati relativi agli scioperi di solidarietà, agli scioperi generali, sia locali che nazionali, e ai morti e feriti in seguito a disordini. Da uno spoglio accurato della stampa quotidiana, si trae la conclusione certa che anche questi dati furono in aumento nella stessa proporzione, se non in misura maggiore, degli scioperi economici. Gli scioperi agricoli dettero luogo a occupazioni di terre, non soltanto nel Mezzogiorno ma anche nell'Italia settentrionale, e all'abbandono del bestiame nelle stalle, privo di cibo e senza che se ne effettuasse la mungitura, a incendi dolosi di stalle e fienili, taglio di piante, scontri tra scioperanti da una parte e polizia e 'crumiri' dall'altra. Le elezioni del novembre 1919 avevano mostrato che tra i contadini il partito popolare era l'unico baluardo efficiente contro i socialisti. Gli attacchi dei socialisti contro i capi dei sindacati popolari e i loro iscritti divennero sempre più accaniti; i popolari a loro volta li ripagavano con la stessa moneta, sicché erano frequenti scontri e conflitti. Gli altri partiti si rallegravano di questa divisione tra popolari e socialisti, ma essa non contribuiva certo a placare l'irrequietezza generale. D'altra parte, in alcune zone della Lombardia e del Veneto i contadini popolari facevano concorrenza a quelli socialisti nel fare scioperi, affamare il bestiame e aggredire proprietari terrieri e coltivatori. Col passare del tempo alcuni degli agitatori popolari del 1920 passarono al partito comunista. Ferrovieri e postelegrafonici durante tutto il 1919 non avevano mai scioperato, e il governo aveva grandemente lodato il loro buon senso per non aver partecipato allo sciopero generale del 20-21 luglio. Ma non potevano più andare avanti col buon senso, gli elogi e i vecchi stipendi. Nitti a sua volta si preoccupava dell'enorme spesa che sarebbe stata necessaria per concedere loro gli aumenti salariali e le otto ore di lavoro, e cercava di dominare questo problema, come del resto tutti gli altri problemi, ritardandone il più possibile la soluzione. Di conseguenza questi impiegati cominciarono a tenere comizi di protesta, poi a ritardare i servizi, e finalmente, nel gennaio 1920, i postelegrafonici scesero in sciopero. Solo a questo punto il governo fece quelle concessioni, che se fossero state fatte prima avrebbero evitato lo sciopero. Fu subito la volta dei ferrovieri, e dopo due settimane di sciopero (6-20 gennaio) anche loro ottennero quanto chiedevano, cioè aumento dei salari, otto ore di lavoro e misure protettive contro gli arbitrî dei loro superiori. Ma durante questa crisi, i sindacalisti rivoluzionari e gli anarchici conquistarono il controllo della organizzazione nazionale dei ferrovieri, e da questo momento in poi la disciplina andò a farsi benedire. Il primo maggio, il traffico praticamente venne sospeso in tutto il paese; sino al giugno del 1920 si ebbero circa una cinquantina di scioperi più o meno estesi; alcuni di questi scioperi erano fatti per bloccare treni che trasportavano soldati, carabinieri e guardie regie. Il 15 aprile venne fermato alla stazione di Livorno un treno di guardie regie diretto a Torino. Il 22 aprile, alle stazioni di Pavia, Domodossola e Novara, i ferrovieri si rifiutarono di trasportare le truppe inviate a Torino per ristabilirvi l'ordine; e alla stazione di Firenze ci fu uno sciopero bianco. L'8 giugno, i ferrovieri della stazione di Cremona rifiutarono di condurre un treno di munizioni belliche, che pensavano fosse destinato alla Polonia contro la Russia sovietica. Un funzionario della stazione si adoprò per far partire il treno; gli scioperanti chiesero il suo trasferimento, e siccome questo venne rifiutato, lo sciopero si allargò a Milano e
alla parte orientale della Lombardia. Lo sciopero terminò il 24 giugno, senza che il trasferimento fosse stato ottenuto. In Italia gli scioperi ferroviari non furono mai così gravi come quelli che nello stesso periodo di tempo ebbero luogo in Inghilterra. Nel settembre del 1919, mezzo milione di ferrovieri inglesi scioperarono per nove giorni consecutivi paralizzando completamente il traffico in tutto il paese. In Italia, nel gennaio del 1920, non più di 72000 ferrovieri, su 198000, scioperarono; nel Mezzogiorno, il 90 per cento del personale si astenne dallo sciopero. Quasi tutti gli altri scioperi furono di durata limitata. Ma uno sciopero in un nodo ferroviario, quali Verona, Milano, Torino, Genova, Bologna, anche se era puramente locale, disorganizzava i servizi di tutte le linee che dipendevano da esso. Il disagio tra il pubblico era grande, e quando sopraggiunse la reazione i ferrovieri dovettero pagar cari i loro capricci. I casi di arresto di treni militari non furono più di una dozzina in tutto l'anno; ma divennero un luogo comune della propaganda 'antibolscevica,' e la gente, sentendone parlare di continuo, fini per credere che questo intollerabile scandalo avvenisse tutti i giorni e ovunque, e che si dovesse porvi fine a qualunque costo. Nel dicembre del 1919 fece ritorno dall'Inghilterra l'anarchico Errico Malatesta. Aveva 67 anni, e dietro di sé mezzo secolo di attività rivoluzionarie. Nella primavera del 1914 era stato implicato in una rivolta piuttosto grave scoppiata nell'Italia centrale, la cosiddetta 'settimana rossa,' e per sfuggire all'arresto si era rifugiato in Inghilterra. Una amnistia generale gli aveva riaperto le porte dell'Italia, ma non gli era stato concesso di attraversare la Francia, e quando aveva cercato di effettuare il viaggio per mare, il governo inglese aveva proibito a tutti i piroscafi, inglesi o non inglesi, di prenderlo a bordo. Riuscì a filarsela su di una nave italiana; e quando si diffuse la notizia che era a Genova, tutta la popolazione lavoratrice sospese il lavoro in segno di gioia, ricevendolo come un eroe conquistatore. Nel febbraio del 1920, ebbe inizio a Milano la pubblicazione di un quotidiano anarchico, "Umanità Nuova", sotto la direzione di Malatesta. A somiglianza di Lenin, Malatesta era un rivoluzionario assolutamente onesto, e il suo lungo, attivo e coraggioso passato, il suo disinteresse, il suo fascino personale e la sua giovanile energia gli conferivano un prestigio immenso. Ma era cresciuto nel Mezzogiorno tra il 1860 e il 1880; nel 1884 era stato costretto ad andare in esilio per sfuggire il carcere, e da quel momento in poi aveva vissuto all'estero sino al 1913, salvo parecchie visite clandestine della durata di pochi mesi tra il 1896 e il 1897, quando era in contatto soltanto con pochi amici. Appena poté fare ritorno liberamente, passò dieci mesi - dall'agosto 1913 al giugno 1914 - tra elementi anarchici delle Marche e della Romagna. Non aveva una conoscenza profonda dell'Italia settentrionale, dove negli ultimi quarant'anni l'industria aveva avuto un grande sviluppo e dove il partito socialista controllava i lavoratori urbani. Altri che non erano mai stati costretti a vivere in esilio e erano sempre rimasti in Italia avrebbero dovuto conoscere le cose meglio di Malatesta; ma gli anarchici continuavano a vivere nella atmosfera idealistica di Bakunin, allo stesso modo che i socialisti vivevano in quella di Marx e i repubblicani in quella di Mazzini. Il 'popolo' o il 'proletariato' del secolo ventesimo non era più quello che i rivoluzionari romantici del secolo diciannovesimo avevano immaginato, amato e glorificato. Uomini e donne accorrevano a frotte ad ascoltare Malatesta e leggere il suo giornale, con la speranza di trovare in lui il salvatore, il liberatore, il leader, un nuovo Garibaldi, il Lenin italiano. Ma egli non era Lenin, comunista; era Malatesta, anarchico. Secondo la sua dottrina anarchico-individualista, chiunque si proclamava leader invece di rimanere umilmente in mezzo agli altri era colpevole del reato di dittatura. Egli era pronto a partecipare a qualsiasi tentativo rivoluzionario, ma mai come leader dei suoi compagni. Tutti gli uomini dovevano essere liberi e uguali, ed egli non si sentiva autorizzato a renderli schiavi dando loro degli ordini, neppure se erano per una
rivoluzione. Più che lusingarsi egli si rattristava quando la gente mostrava di attendere da lui la sua guida, deplorevole residuo di quel rispetto per l'autorità che la diseducazione borghese aveva seminato nell'animo popolare. Nettlau, che condivideva la fede politica di Malatesta, scrive: «Era disposto ad affrontare qualsiasi genere di sacrificio, ma non a prendere il potere politico. Anche se avessero messo ai suoi piedi una dittatura, egli non l'avrebbe accettata. (...) Questa incomprensione, il frutto del culto dell'autorità comune a tutti i partiti avanzati salvo che a quello anarchico, è veramente tragica. (...) Il popolo aspettava un segnale, un ordine; ma il segnale e l'ordine non vennero mai, né avrebbero potuto venire. (...) La gente applaudiva e poi se ne faceva ritorno a casa. La minima iniziativa polare avrebbe dato il via alla valanga, e probabilmente sarebbe cominciato un nuovo capitolo di storia. Ma ciò non doveva essere» (2). Secondo Nettlau e gli anarchici, 'ciò non doveva essere' perché i 'leaders' socialisti, sia quelli di destra che i massimalisti e gli estremisti, non solo non dettero né segnali né ordini, - e nel fare ciò rimasero nei limiti del loro dovere perché non avevano nessun diritto di darne - ma soffocarono le iniziative rivoluzionarie non appena queste si presentavano, invece di favorirle, diffonderle e potenziarle sempre ed ovunque (3). La stessa accusa fu sollevata dagli estremisti contro i massimalisti, e sia da questi che da quelli contro i socialisti di destra. Le radici dell'accusa erano le stesse per tutto: il concetto che esistesse un 'proletariato rivoluzionario,' desideroso di ribellarsi e capace di trionfare, se a un certo punto non vi fosse stato qualcuno a tradire e paralizzare i suoi impulsi naturali. La 'minima iniziativa popolare' che Malatesta auspicava e attendeva non si realizzò mai, non perché i 'leaders' tradissero il proletariato, ma perché il 'proletariato rivoluzionario' era una finzione della loro fantasia. Anche se Malatesta non credeva di avere il diritto di dare degli ordini e si recava disarmato ai comizi popolari, molti dei suoi seguaci vi partecipavano ben muniti di pietre, bastoni e rivoltelle, incitando alla lotta immediata e provocando scontri con la polizia. Se il 'proletariato' fosse stato quella massa rivoluzionaria che aveva soltanto bisogno del segnale, un ordine per 'dare il via alla valanga,' come scrive Nettlau, esso avrebbe avuto segnali e ordini in quantità, anche troppi. Ma a questi ordini si fece sempre orecchi da mercanti. Il 'proletariato,' cioè coloro che partecipavano a comizi e dimostrazioni, poteva scegliere tra gli anarchici che lo incitavano a sollevarsi, Malatesta che non dava ordini, e i massimalisti che consigliavano di aspettare la 'grande ora.' Il proletariato applaudiva i discorsi più altisonanti, dava sfogo con gli applausi alle vaghe speranze di un mondo migliore, e poi tutti tornavano a casa aspettando che questo mondo migliore piovesse dal cielo. Solo una piccolissima minoranza si dava da fare per un'azione diretta immediata, attaccando la polizia e lasciando sul campo un certo numero di morti, spesso persone che si trovavano sul posto per caso e rimanevano uccise senza sapere perché. A questo punto il 'proletariato' proclamava uno sciopero generale di protesta ed era tutto finito, pronti però a ricominciare da capo alla prossima occasione. Anche in Germania, nel gennaio del 1919, il 'proletariato,' costretto a scegliere tra Ebert e Noske da un lato, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht dall'altro, scelse i primi; ma allora in Germania le condizioni obiettive per una rivoluzione sociale erano infinitamente meno favorevoli che in Italia, se la dottrina marxista fosse stata giusta. Spogliate delle loro illusioni ideologiche, queste erano le amare realtà! Socialisti e anarchici di tutte le scuole non se ne accorgevano e continuavano a pestare l'acqua in un mortaio. Data la situazione italiana, e data la sua mentalità individualistica e antidittatoriale, Malatesta era destinato a versare olio sul fuoco delle inquietudini italiane, senza accrescere minimamente le probabilità di una rivoluzione sociale. Il movimento anarchico divenne più aggressivo, ma non più efficace. Più spesso di prima i comizi si
concludevano in un conflitto tra folla e polizia, con morti e feriti. Nel settembre del 1919, a Milano, gli anarchici commisero alcuni atti di violenza con delle bombe. Nel 1920 l'uso di servirsi delle bombe per compiere attentati si moltiplicò. Chiunque voleva munirsi di bombe non aveva da fare altro che raggiungere la più prossima linea dove era stato il fronte, e raccogliervi gli ordigni inesplosi che le autorità militari con criminale negligenza vi avevano lasciato al momento della smobilitazione. Quando avvenivano scontri con la polizia o attentati dinamitardi, i massimalisti si affrettavano a deplorare la 'irresponsabilità' degli anarchici, ciò che era causa di scoraggiamento tra le file dell'esercito rivoluzionario. Il 5 aprile, in uno scontro provocato dagli anarchici a Decima di Persiceto, vicino a Bologna, vi furono nove morti, e durante gli scioperi di protesta dei giorni seguenti, a cui in molte provincie parteciparono anche i ferrovieri, si ebbero sei morti a Modena, ed oltre trenta feriti ad Andria. La direzione nazionale del partito socialista si rifiutò di proclamare uno sciopero di protesta nazionale. Gli anarchici accusarono i massimalisti di tradire il proletariato. Nel numero del 10 aprile 1920, l'"Avanti!" ebbe uno sprazzo di buon senso: «Bando alle parole. Chi le fa le parole? Ci vogliono armi. Le avete? Dove sono? Perché non le usate? Perché voi, che non siete parolai, non avete un fatto solo nella storia di questi ultimi anni? Parole?... Oh i sì, sì, parole.» I massimalisti vedevano la trave negli occhi degli anarchici, ma non nei propri. Nel tempo che 'governava' Fiume, D'Annunzio cercava di provocare disordini o di approfittare di quei disordini spontanei che si verificavano ovunque. Malatesta poté raggiungere l'Italia grazie all'aiuto ricevuto dal segretario generale del sindacato lavoratori del mare, Giulietti, che operava di pieno accordo con D'Annunzio. Il 26 ottobre 1920, l'"Avanti!" usciva con la seguente affermazione di oscuro significato: «Chi non ricorda che vi fu un tempo in cui D'Annunzio, giovandosi anche della romantica dabbenaggine di qualche organizzatore, tentò di presentarsi alle classi operaie come il campione dell'antimperialismo e della repubblica sociale, tenne dei discorsi di sapore bolscevico, e si interessò perfino... di scioperi ferroviari in Italia?» Siamo in grado di fare un po' di luce su queste parole. Ai primi del 1920, si tenne a Firenze una riunione segreta. Giulietti annunciò che tutti i comandanti militari che avevano il comando dei reggimenti posti tra Fiume e Roma, erano fedeli a D'Annunzio e pronti a marciare su Roma; i deputati repubblicani e alcuni deputati socialisti erano d'accordo; la organizzazione segreta che doveva organizzare la marcia su Roma si chiamava 'Sagra Lampa.' Gli altri partecipanti sostennero che il momento non poteva riuscire senza l'appoggio della Confederazione generale del lavoro. Giulietti si incaricò di tastare il terreno. Uno dei leaders della Confederazione era d'accordo, ma gli altri rifiutarono. In tal modo la 'Sagra Lampa' fu spenta (4). Ma D'Annunzio non si scoraggiò per questo. Tra il 26 e il 29 giugno 1920, ad Ancona i soldati si rifiutarono di partire per l'Albania. Il 28 giugno, un emissario di D'Annunzio, il tenente Claudio Mariani, si recò ad Ancona latore di messaggi di D'Annunzio, del generale Ceccherini e del maggiore Santini, con cui D'Annunzio metteva a disposizione dei soldati rivoltosi 'tutte le forze comuniste (sic) di Fiume' (5). A Firenze nel 1920, un ufficiale del settantesimo reggimento fanteria, che si diceva anarchico e agente segreto dell'Inghilterra, offrì dei fondi agli anarchici per il loro giornale "Il Grido della Rivolta". Gli anarchici lo sorvegliarono, e scoprirono che era una spia del governo. Sempre a Firenze, poco tempo dopo, un ufficiale superiore della divisione di Firenze offrì la propria collaborazione per attuare un colpo di mano contro alcune caserme. Gli anarchici, sospettando un tranello, non ne fecero di nulla (6).
In quegli anni si parlò molto di una formidabile azione di propaganda svolta in tutta Italia da agenti del bolscevismo russo. Fantasie eccitate videro ovunque sinistri agenti bolscevichi. Senza dubbio in Italia come altrove il governo russo inviò un certo numero di agenti; ma è difficile valutare la estensione precisa delle ramificazioni russe. In ogni modo, uno dei più attivi agenti bolscevichi, tale Ferrari, che parlava diverse lingue, aveva a disposizione fondi enormi, ed era in intimi rapporti con Serrati, formò l'oggetto di una interrogazione alla Camera del deputato nazionalista Federzoni. Perché il governo lasciava in circolazione questo pericoloso bolscevico? Il governo non dette nessuna risposta; ma un bel giorno i socialisti scoprirono che questo pericolosissimo bolscevico era un agente segreto della polizia italiana. Quale che sia stata l'autentica propaganda bolscevica in Italia, ci fu anche un 'bolscevismo' strombazzato, sia perché fabbricato apposta dalla polizia per spiare il 'bolscevismo' autentico, sia perché uomini come D'Annunzio provocavano pretesti per la reazione militare. Mussolini, che doveva attribuire a se stesso e ai suoi fascisti il merito di aver soffocato il 'bolscevismo' in Italia, proprio negli ultimi mesi del 1919 e nei primi sei mesi del 1920, si abbandonò alle più sfrenate manifestazioni rivoluzionarie. Quando D'Annunzio occupò Fiume, Mussolini glorificò tale impresa come 'il gesto intrepido' che scioglieva 'il nodo gordiano dei plutocrati occidentali' (7), come 'il primo gesto di rivolta' contro la coalizione plutocratica che si è formata a Versaglia (8). La rivoluzione era in marcia, 'cominciata a Fiume, può conchiudersi a Roma' (9). Alla vigilia delle elezioni del 16 novembre, Mussolini cercò di riconciliarsi con gli elettori dichiarando di opporsi a qualsiasi forma di dittatura: «Noi diciamo che se domani i nostri più feroci avversari fossero vittime in tempi normali di un regime d'eccezione, noi insorgeremmo perché siamo per tutte le libertà, contro tutte le tirannie... Gli italiani sono individualistici e non sopportano l'autorità di uno solo. (...) Nessuno vuole essere governato da un suo simile che si eriga a Messia, Czar, e Padreterno. (...) Vogliamo la libertà per tutti. Vogliamo che governi la libertà universale, non la volontà di un gruppo o di un uomo» (10). Dato che non era stato eletto, Mussolini si dette immediatamente a sostenere l'abolizione del Parlamento. Quando Malatesta tornò in Italia, Mussolini così salutava il vecchio rivoluzionario: «Noi non sappiamo se il fatto di essere stati interventisti e di aver coraggio di vantarsene, sia tale da provocare le scomuniche del vecchio agitatore anarchico. Forse egli è molto meno intransigente dei tesserati idioti e nefandi del pus. Noi siamo lontani dalle sue idee, perché non crediamo più a nessuna verità rivelata, perché non crediamo più alla possibilità dei paradisi terrestri ad opera di leggi o di mitragliatrici, perché non crediamo più alle mutuazioni taumaturgiche, perché abbiamo un altro concetto - nettamente individualistico - della vita e della lotta, ma tutto ciò non impedisce a noi sempre pronti ad ammirare gli uomini che professano con disinteresse una fede e per quella sono pronti a morire, di mandare a Malatesta il nostro saluto cordiale. Lo facciamo colla speranza che la sua vasta esperienza di vita vissuta giovi a smascherare i mercanti della rivoluzione, i venditori di fumo bolscevico, i preparatori di una nuova tirannia che, dopo un breve periodo, lascerebbe il posto a una spaventevole reazione» (11). Il suo disprezzo per qualsiasi fede religiosa si accompagnava ancora ai suoi petardi ultrarivoluzionari. Nel "Popolo d'Italia" del 12 dicembre 1919, scriveva:
«Noi che detestiamo dal profondo tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello di Marx (!), guardiamo con simpatia straordinaria a questo 'riprendere' della vita moderna, nelle forme pagane del culto della forza e dell'audacia. (...) Basta, teologi rossi e neri di tutte le chiese, colla promessa astuta e falsa di un paradiso che non verrà mai! (...) Basta, ridicoli salvatori del genere umano che se ne infischia dei vostri 'ritrovati' infallibili per regalargli la felicità. Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari degli individui, perché altra realtà umana, all'infuori dell'individuo, non esiste!» Il 1 gennaio 1920, egli scriveva: «"Ritorniamo all'individuo". (...) Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono, oggi, le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni'» (12). Nello stesso giorno così si commentava il minacciato sciopero dei dipendenti postelegrafonici: «Noi vogliamo la lotta ad oltranza per la perequazione stipendi, l'aumento indennità notturna e straordinaria, il raddoppiamento e indennità caro-viveri, la connessione indennità di resistenza e il riconoscimento dei diritti di carriera. (...) Noi gridiamo oggi il nostro diritto alla vita contro i falsi monetari del patriottismo e i pescicani di guerra» (13). Poche settimane dopo la Confederazione generale del lavoro si rifiutava di appoggiare lo sciopero dei ferrovieri. Il fascista Agostino Lanzillo, che più tardi doveva diventare un personaggio illustre del regime fascista, così scriveva nel "Popolo d'Italia" del 24 gennaio 1920: «Lo sciopero fu fatto da una formidabile massa di personale, con innegabile fede e convinzione di loro buon diritto. (...) Nella dura questione ferroviaria, apparve evidente lo sforzo del partito (socialista) e della Confederazione di lasciare i ferrovieri in loro balia fino a quando siano prossimi alla sconfitta. (...) Parmi che questi due scioperi siano i primi che possano indicarsi, dopo tanto tempo di preponderanza politica socialista, come concepiti ed attuati al di fuori e contro la tirannica volontà del partito socialista. (...) Le giornate della violenza operaia hanno un valore rinnovatore che supera di mille cubiti la miseria degli arruffapopoli». Nell'aprile del 1920, il governo applicava l'ora legale. I comunisti scoprirono che questo nuovo sistema di contare le ore era stato inventato dai 'borghesi' per rendere ancora più duro il lavoro del proletariato. In alcune fabbriche di Torino si ebbero degli scioperi di protesta, e Mussolini plaudì a questi scioperi. Secondo lui, lo stato italiano com'era allora, questo povero stato democratico in cui si scioperava persino contro l'ora legale, era troppo attivo, troppo opprimente, insopportabile. «Anch'io sono contro l'ora legale perché rappresenta un'altra forma d'invertimento e coercizione statale. (...) Lo Stato, colla sua enorme macchina burocratica, dà il senso dell'asfissia. Lo Stato era sopportabile, dall'individuo, sino a quando si limitava a fare il soldato e il poliziotto; ma oggi lo Stato fa tutto: fa il banchiere, fa l'usuraio, il biscazziere, il navigatore, il ruffiano, l'assicuratore, il postino, il ferroviere, l'impresario industriale, il maestro, il professore, il tabaccaio, e innumerevoli altre cose, oltre a fare come sempre, il poliziotto, il giudice, il carceriere e l'agente delle
imposte. Lo Stato, Moloch dalle sembianze spaventevoli, oggi vede tutto, fa tutto, controlla tutto e manda tutto alla malora: ogni funzione dello Stato è un disastro. Disastro l'arte di Stato, la scuola di Stato, le poste di Stato, la navigazione di Stato, i rifornimenti - ahimè - di Stato e la litania potrebbe durare all'infinito. Ora le prospettive del domani sono raccapriccianti. Il socialismo non è che l'ampliamento, il moltiplicamento, il perfezionamento dello Stato. Lo Stato borghese controlla i nove decimi della vostra vita e della vostra attività; domani lo Stato socialista vi controllerà in ogni minuto, in ogni funzione o movimento; oggi siete obbligati. a denunciare il numero dei vostri figli, ma domani vi si costringerà a denunciare anche il numero esatto dei vostri capricci amorosi. Anche l'amore sarà - in regime di Stato socialista standardizzato, tesaurizzato diagrammizzato a uso e consumo e diletto dei centomila Alessandro Schiavi che sbocceranno in regime di socialismo di Stato. Se gli uomini avessero soltanto una vaga sensazione dell'abisso che li attende, il numero dei suicidi sarebbe in aumento: "si va verso l'annientamento totale dell'individualità umana". Lo Stato è la macchina tremenda che ingoia gli uomini vivi e li rivomita cifre morte. La vita umana non ha più nulla di segreto, di intimo, di ordine materiale o spirituale che sia: tutti gli angoli sono esplorati, tutti i movimenti cronometrati, ognuno è incastellato nel suo 'raggio' e numerato come in una galera. Questa, questa è la grande maledizione che colpì la razza umana, negli incerti cominciamenti della sua storia: creare, nei secoli, lo Stato, per rimanervi sotto, annientata! (...) Io parto dall'individuo e punto contro lo Stato. (...) Abbasso lo Stato sotto tutte le sue specie e incarnazioni. Lo Stato di ieri, di oggi, di domani. Lo Stato borghese e quello socialista. A noi che siamo i morituri dell'individualismo non resta, per il buio presente e per il tenebroso domani, che la religione, assurda oramai, ma sempre consolatrice, dell'"Anarchia!"» (14). Verso i contadini che qua e là occupavano le terre, Mussolini mostrava piena simpatia. Il 25 maggio 1920, scriveva: «I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi, ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini, che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini» (15). Se allora l'ondata rivoluzionaria non ruppe gli argini neppure nella prima metà del 1920, la ragione non va ricercata nell'azione di Mussolini, e non soltanto perché egli fece tutto il possibile perché quell'ondata rompesse gli argini, ma anche perché in quel tempo la sua influenza era irrilevante. Nell'ottobre del 1919, i fascisti dichiararono che gli iscritti in tutta Italia al loro movimento politico erano 40000, e 160000 gli iscritti ai loro sindacati (16). Ma questi dati erano una fantasia. Abbiamo visto che nelle elezioni del novembre 1919, in tutta la Lombardia Mussolini non raccolse neppure 6000 voti, mentre i socialisti ne ebbero 138000 e i popolari 61000. A quel tempo, secondo un resoconto presentato al congresso nazionale fascista del novembre 1921, c'erano in tutta Italia soltanto 17000 fascisti (17); ma secondo quanto disse Mussolini in un discorso del 24 marzo 1924, per tutto il 1919 i fascisti d'Italia non arrivarono alla cifra di diecimila (18), e secondo un comunicato ufficiale pubblicato nel Popolo d'Italia del 23 marzo 1929, i fascisti erano appena 870. Quest'ultima sembra essere la cifra più probabile. La influenza che aveva Mussolini servì soltanto a rendere più acuto il diffuso stato di agitazione. La 'nevrastenia' italiana del dopoguerra fu detta 'bolscevica' non solo perché la rivoluzione russa aveva reso il 'bolscevismo' di moda, e gli agitatori cercavano effettivamente di servirsi della crisi per provocare una rivoluzione bolscevica, ma anche perché gli uomini politici, che avevano condotto male la guerra e anche peggio
la pace, i nuovi ricchi che con i loro lussi sfrenati sollevavano l'indignazione generale, i capi militari e i nazionalisti che avevano creato il mito velenoso della 'vittoria mutilata' e con l'impresa di Fiume avevano sparso i semi della sedizione nell'esercito, tutti costoro trovarono comodo far ricadere la responsabilità della inquietudine popolare sulla propaganda 'bolscevica.' In politica, come in ogni altro genere di cose, non piace a nessuno ricercare le cause del male nelle proprie colpe: è sempre più comodo attribuirne ad altri la responsabilità. Se ogni sciopero, ogni conflitto, ogni disordine, deve essere onorato della qualifica di 'bolscevico,' in tal caso non c'è dubbio che nel 1919 e 1920 l'Italia era in preda al 'bolscevismo.' Gli italiani sono un popolo rumoroso: non riescono a far niente senza fare un gran chiasso, e spesso fanno un gran chiasso senza fare niente. Ma se il termine 'bolscevismo' si deve usare solamente nel caso di una rivoluzione sociale che rovesci le classi abbienti privandole del potere politico, allora l'Italia durante quegli anni non è stata mai in preda al 'bolscevismo.' E se per 'bolscevismo' si intende il collasso economico in seguito ad una agitazione politica, tale collasso economico non si ebbe mai. Non occorre sminuire il disagio provocato dagli scioperi, specialmente di quelli che riguardavano le ferrovie e gli altri servizi pubblici, o minimizzare la responsabilità di quegli elementi aggressivi e radicali che si abbandonavano al giuoco assai costoso di creare i guai nella speranza che i guai alimentassero la rivoluzione. E' chiaro che nella prima metà del 1920 vi era tra le masse un vero stato di attesa per una incombente rivoluzione sociale. Ma anche quando si sia tenuto presente tutto questo, rimane il fatto che vi furono sì molti disordini, scioperi, conflitti e molto chiasso e molta confusione, ma non si arrivò mai alla crisi fatale. Per lo più le persone che, col fiato sospeso e gli occhi fuori delle orbite, parlano del 'bolscevismo' di quegli anni, non sono insincere. Nel 1919 e 1920, furono terrorizzate dalla tragedia russa, ed erano in uno stato di timor panico, in attesa della rivoluzione sociale come le pecore davanti al macello. Se la paura, lo smarrimento e la vigliaccheria dei ceti abbienti fossero sufficienti a provocare una rivoluzione comunista, nel 1919 e 1920 il popolo italiano avrebbe potuto fare quante rivoluzioni comuniste voleva. Se non si prende in considerazione tale stato di panico non si riuscirà a comprendere la ferocia della reazione fascista che venne dopo. Inoltre si deve ricordare l'amarezza patriottica e il profondo desiderio di rivincita che realmente esisteva in larghi settori dei ceti medi italiani contro inglesi, francesi e americani che 'avevano mutilato la vittoria italiana,' contro quegli uomini politici italiani della vecchia scuola che 'avevano vinto la guerra ma perduto la pace,' e contro tutti quegli italiani che si erano rifiutati di sostenere Sonnino e si erano opposti a nuove avventure belliche internazionali. I socialisti formavano la parte più potente di questo gruppo contrario alla guerra, e quindi era contro di loro che nazionalisti e fascisti indirizzavano maggiormente il loro odio. Venivano chiamati 'bolscevichi' anche quando professavano la forma più mite del socialismo; e fu così che nacque lo slogan che i fascisti combattevano contro il 'bolscevismo.' Ma allo stesso modo che non è prudente credere alla parola di chi sia in preda ai fumi del vino, così non è prudente credere alla parola di chi sia in preda al panico o all'ira. Se si controllano i riflessi psicologici della crisi post-bellica con gli indici oggettivi della vita economica e sociale, ciascun ricercatore spregiudicato dovrà pervenire alla conclusione che il cosiddetto 'bolscevismo' italiano del 1919-20 non era niente di peggio di un insorgere di agitazione incomposta in larghi settori del popolo italiano, alla quale i peggiori elementi della classe dirigente risposero dando prova di una vigliaccheria e di uno stato di scoraggiamento del tutto sproporzionato alla reale entità del pericolo (19). Al contrario un documento lampante della frenesia italiana 'antibolscevica' è il libro di Pantaleoni, "Bolscevismo italiano" (20). Agli occhi del Pantaleoni chiunque non era un sostenitore incondizionato della dottrina economica del "laissez-faire" era o un 'bolscevico' o un 'cripto-bolscevico'; anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani
mazziniani, e aderenti al partito popolare, erano tutti 'bolscevichi.' Quei democratici che non combattevano il socialismo con impeto sufficiente non erano 'bolscevichi' ma 'bolscevisti sornioni.' Mescolando insieme in una sola entità chiamata 'bolscevismo' tutti i gruppi in contrasto tra loro, e attribuendo a questa unica entità tutte le azioni e le responsabilità dei diversi gruppi, Pantaleoni fa credere ai suoi lettori all'esistenza di un movimento bolscevico compatto, intelligente, coordinato, la cui forza è spaventosa. Nel 1919 e 1920, l'Inghilterra si trovò in condizioni di assai maggior disagio dell'Italia, ma non capitò mai che gli inglesi cadessero in preda alle convulsioni, per la paura che l'Inghilterra stesse diventando 'bolscevica.'
CAPITOLO DICIASSETTESIMO. L'OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE. Nel giugno del 1920, Nitti si dimise, perché i deputati del partito popolare lo avevano abbandonato. Orlando aveva perso ogni prestigio nel corso della Conferenza della Pace. Non vi era nessun altro uomo politico disponibile per la presidenza all'infuori di Giolitti, il leader di quei deputati che nel 1915 si erano opposti all'entrata dell'Italia in guerra. Questo fatto contribuì grandemente a diffondere il senso che la guerra fosse stata un fallimento. Giolitti si trovò subito a dover affrontare non soltanto la solita ondata di scioperi e disordini, ma anche un ammutinamento dei soldati di Ancona. Questi dovevano partire per l'Albania per reprimere una rivolta contro gli italiani. I soldati si rifiutavano di partire. Molti ufficiali dell'esercito regolare nel settembre del 1919 avevano disobbedito al governo civile, schierandosi dalla parte di D'Annunzio nella questione di Fiume; questa volta erano i soldati che disobbedivano ai loro ufficiali rifiutandosi di andare a combattere in Albania. I semi della sedizione militare seminati l'anno prima dai nazionalisti stavano dando i loro frutti. Gli anarchici e i repubblicani, forti ad Ancona, cercarono di approfittare di questo movimento, ma i soldati non li seguirono; si sottomisero ai loro ufficiali, e parteciparono persino alla repressione di un tentativo rivoluzionario in città in cui persero la vita venticinque persone (26-27 giugno). Seguì poi il solito scoppio disordinato di scioperi generali. La direzione del partito socialista si riunì per decidere se era il caso di allargare il movimento e iniziare la tanto a lungo annunciata rivoluzione sociale. I membri della direzione, che erano tutti massimalisti o estremisti, si divisero tre per parte. Per raggiungere una maggioranza chiesero che partecipasse alla votazione il rappresentante dei deputati, che secondo lo statuto del partito partecipava alle riunioni senza diritto di voto. Tutti sapevano che egli avrebbe dato il suo voto contro l'allargamento del movimento, e così fece. In tal modo la 'grande ora' fu ancora una volta rinviata. Ma adesso gli estremisti erano in posizione tale da poter sostenere che essa non era scoccata perché il proletariato era stato tradito da quelle quattro persone che non avevano votato in favore della rivoluzione (1). Pochi giorni dopo nascevano difficoltà da un'altra parte. Giolitti aveva scelto come suo ministro degli Esteri il conte Sforza, che aveva sempre condannato i progetti di annessione all'Italia della Dalmazia ed era intenzionato a raggiungere un compromesso italo-yugoslavo sulla questione adriatica. A Trieste, il 13 luglio, un gruppo di nazionalisti e di fascisti appiccò il fuoco, distruggendolo, al quartier generale di tutte le organizzazioni politiche, economiche e culturali degli slavi in città, il 'Narodni dom,' un atto di violenza che produsse un danno di circa due milioni e mezzo di lire. Gli incendiari si procurarono in una caserma vicina la benzina necessaria per la loro opera. In tal modo essi avevano sperato di far fallire i negoziati tra Sforza e il governo di Belgrado. A capo di questa impresa ritroviamo quello stesso Giunta che abbiamo incontrato a Roma e a Firenze nel giugno e luglio del 1919 come fomentatore di disordini. Nel frattempo, tra i ceti medi ed abbienti si andava lentamente maturando un nuovo stato d'animo. Gli industriali, che durante la guerra avevano fabbricato munizioni o panno militare, sinora non avevano veramente sofferto le conseguenze dei disordini e degli scioperi. Il timore dei disordini che avrebbero potuto sorgere dalla disoccupazione tratteneva il governo dal porre termine alla produzione di materiale bellico. Gli industriali poi protestavano, affermando che non potevano continuare a pagare i salari richiesti dagli operai se il governo non aumentava i prezzi delle merci; e il governo allora, allo scopo di far fronte ai propri impegni, aumentava la
circolazione della carta moneta. Di conseguenza vi fu un rincaro dei prezzi, nuovi scioperi, un rinnovato timore di disordini, e nuove ordinazioni di materiale bellico. Ma il governo non poteva continuare a ordinare all'infinito del materiale bellico inutile, e a loro volta gli industriali non potevano passare dai prezzi antieconomici ai prezzi economici senza o rinunciare ai profitti o abbassare i salari, e non potevano abbassare i salari senza una dura lotta contro l'organizzazione economica e l'influenza politica delle classi lavoratrici. Nella bassa Lombardia, in Emilia, Toscana e Puglia, dove la pressione dei sindacati socialisti e popolari era al suo massimo, i datori di lavoro agricolo vivevano in uno stato di continuo timore per sé e per le proprie famiglie, spesso isolati com'erano in aperta campagna e senza mezzi di difesa. Durante il primo anno dopo la fine della guerra, essi avevano sopportato questo stato di cose, sperando che presto tutto sarebbe tornato come prima; i contadini erano quasi tutti reduci, e si doveva portar pazienza per i colpi di testa dei 'salvatori della patria.' Ma col passar del tempo questa tenerezza verso i 'salvatori della patria' cominciò ad affievolirsi, mentre cresceva uno stato d'irritazione. Con la batosta delle nuove imposte diventava sempre più difficile per i proprietari terrieri sopportare il peso di alti salari e in più l'obbligo di assumere, per alleviare la disoccupazione, un numero di opere non necessarie e talvolta perfino dannose. I più esasperati non erano i grandi proprietari terrieri, che non avevano contatti diretti con i braccianti e i mezzadri, ma gli affittuari, i fattori, i piccoli e medi proprietari. Più di tutti erano esacerbati quei piccoli proprietari che da poco eran venuti in possesso della terra con i risparmi accumulati durante la guerra, e che adesso si vedevano costretti a difendere la loro proprietà. Insieme all''antibolscevismo' degli industriali e dei proprietari terrieri, vi era quello dei bottegai e dei commercianti. Molti di costoro avevano avversato la guerra, e nel 1919 avevano simpatizzato con le proteste dei 'bolscevichi' contro i responsabili della guerra. Ma non appena questo 'bolscevismo' cominciò ad imporre calmieri, saccheggiare negozi, rompere le vetrine, anch'essi divennero accesi 'antibolscevichi.' Inoltre le cooperative di vendita al minuto dei socialisti e dei popolari facevano concorrenza ai piccoli negozianti. Per costoro 'antibolscevismo' significava porre fine, a) ai disordini per le strade, b) ai calmieri per i generi alimentari, c) alla concorrenza delle cooperative socialiste e popolari. Anche i dipendenti statali avevano la loro forma di 'antibolscevismo.' Gli operai, i contadini non proprietari, quei dipendenti di pubblici servizi che potevano scioperare come i ferrovieri e i postelegrafonici - si erano sino allora difesi contro l'inflazione e il conseguente rialzo dei prezzi, esigendo salari e stipendi più alti. Al contrario, i magistrati, gli ufficiali, gli insegnanti, i pensionati, e quanti vivevano con un reddito fisso, si trovavano in grandi strettezze. Molti di questi nel 1919 erano stati 'bolscevichi.' Durante il 1920, mettendo a confronto la loro crescente miseria con i crescenti salari dei lavoratori manuali, divennero anch'essi 'antibolscevichi.' Invece di risalire alla causa prima del loro male, anche se meno ovvia, cioè all'inflazione, ne attribuivano tutta la colpa agli scioperi, fenomeno secondario ma certo più appariscente. Una sottospecie di questo 'antibolscevismo' burocratico era l'antibolscevismo' delle forze di polizia della Guardia Regia, dei carabinieri: costretti a correre da ogni parte per far cessare i disordini, insultati dai giornali e nei comizi rivoluzionari, esposti in continuazione al pericolo di essere feriti ed uccisi, esasperati per il frequente uso delle armi, al quale erano realmente costretti, contro le folle in tumulto. Estremisti come quelli che in un paese della Toscana, Abbadia San Salvadore, in provincia di Siena, assalirono una processione, si scontrarono con i carabinieri che cercavano di mantenere l'ordine, ne uccisero uno, ebbero a loro volta un morto, e per vendetta uccisero un frate e ferirono due preti, non contribuivano certo a far diminuire la forza di questo 'antibolscevismo' che era corrente nell'agosto del 1920. In quella
circostanza due altre persone e un bambino in fasce persero la vita. A Roma, il 20 luglio, i tranvieri volevano celebrare la loro vittoria in seguito a uno sciopero, adornando le vetture con delle bandierine rosse. Il pubblico reagì contro questa manifestazione e malmenò i tranvieri con tale violenza che alcuni di essi finirono all'ospedale. La Camera del lavoro proclamò uno sciopero generale di protesta. Si ebbero scontri tra socialisti e nazionalisti. Furono devastati i locali dove si pubblicava l'edizione romana dell'"Avanti!"; tre deputati socialisti furono feriti piuttosto gravemente. Dopo quattro giorni di sciopero e di conflitti le acque si placarono. Certamente l'aggressione contro i lavoratori fu condotta dai nazionalisti, ma senza dubbio una gran parte della popolazione era esasperata nei confronti dei tranvieri, e, che vi partecipasse o no, approvava la reazione (2). L'alto comando dell'esercito osservava attentamente questi sintomi di reazione. Nell'estate del 1920, il colonnello A. R., 'esperto militare per la guerra civile,' fu inviato dal ministero della Guerra per un giro di ispezione in tutta Italia. Il suo rapporto fu pubblicato un anno dopo dal giornale comunista "Ordine Nuovo", e la sua autenticità non venne mai smentita. Il colonnello A. R. non riteneva possibile per i rivoluzionari italiani concludere niente di serio. «Gli spiriti irrequieti e rivoluzionari non posseggono carattere organizzativo. Generalmente si tratta di gruppi incomposti, eterogenei e non affiatati, che agiscono impulsivamente per una ragione emotiva momentanea. Le armi in loro possesso non possono essere molte, né distribuite con ordine. Gruppi organici per il loro funzionamento non ve ne sono. Le munizioni non possono essere che scarse e inadeguate per una lunga resistenza. I gruppi politici che concorrono ad alimentare questi esaltati hanno uomini coraggiosi e abili, ma mescolati con fatui parolai, gli uni e gli altri dotati di limitatissimo spirito d'osservazione circa la tattica, le armi, le forze dell'ordine, il collegamento, la coordinazione necessaria, l'azione stessa. Per le condizioni e abitudini di vita, i mezzi a disposizione dei turbolenti sono limitatissimi; ogni tentativo di affiatamento e di preparazione resta locale, al massimo tenta di arrivare fino ai limiti della regione... La possibilità di una lunga ed oculata preparazione viene a mancare. Quindi spinti da emozioni momentanee, i rivoltosi si adunano generalmente in masse per eccitarsi a vicenda, per trovare i capi, gli indirizzi. I più restano incerti, senza iniziativa. Si suggestionano del chiasso e del numero, si ingannano a vicenda sulle armi e sugli avvenimenti. Ai primi insuccessi seguono la disillusione e lo scompiglio». Secondo il colonnello A. R., un esercito basato sul servizio militare obbligatorio per tutti non era idoneo per una repressione su larga scala, perché la truppa proveniva dal popolo e ne condivideva la mentalità; 'un saldo inquadramento di ufficiali e sottufficiali volontari, a ferma piuttosto lunga, ben pagati e selezionati con cura' avrebbe servito meglio allo scopo. Ma neppure questo esercito volontario sarebbe stato sufficiente. «Ai 300 mila soldati obbligati al servizio, ai 250 mila mercenari dei quali presto disporremo, bisogna aggiungere una milizia d'idealisti, fatta dei più esperti, dei più valorosi, dei più forti e aggressivi fra di noi. Bisogna che essa compia azione di resistenza e azione politica insieme, che riesca, in questi duri momenti, a infondere sangue, vita e omogeneità nelle forze nazionali per portarle alla vittoria». Questi uomini sarebbero stati inquadrati e comandati da ufficiali dell'esercito regolare. I gruppi locali avrebbero dovuto essere sotto il controllo ai un comando centrale, composto di esperti politici e militari.
«Parziali azioni destinate a fiaccare la tracotanza locale di alcuni centri più accesi nella furia sovvertitrice, mentre varranno a demoralizzare e spezzare il nemico, saranno un'ottima scuola per la nostra milizia. I n tal caso, però, avvertenza da usarsi sarà sempre quella d'avere una o più basi d'operazione a distanza sufficiente dal punto da colpire, nelle quali ammassare i mezzi, iniziare l'azione, e alle quali poter ritornare sicuri, senza dar sospetto, a riordinarsi, se eventualmente un momentaneo insuccesso avvenisse. Questo se da noi si iniziassero azioni punitive locali» (3). Questo piano doveva essere attuato completamente entro il prossimo anno, ma per fare sì che potesse essere accettato occorreva ancora qualche grosso spavento rivoluzionario, e fu quello che avvenne. Nel mese di luglio gli operai metallurgici avevano chiesto un ulteriore aumento salariale, minacciando lo sciopero. I datori di lavoro erano adesso decisi ad affrontare le organizzazioni operaie sino alla loro resa incondizionata. Quello stesso Rotigliano, che nell'aprile del 1919 era il segretario del generale Caviglia (4), era adesso il rappresentante dei datori di lavoro. In diverse fabbriche si ebbero casi sporadici di atti di sabotaggio. Il 30 agosto uno dei gruppi imprenditoriali decise la serrata. Per impedire che gli altri gruppi imprenditoriali chiudessero le officine, i leaders degli operai decisero di attuare lo 'sciopero bianco.' Il movimento dilagò anche nelle altre industrie. In tutta Italia mezzo milione di operai occuparono le fabbriche dove lavoravano, e sia il governo che i datori di lavoro non poterono opporre nessuna resistenza. Arturo Labriola, che un tempo era stato sindacalista rivoluzionario ma che era poi rinsavito e adesso era ministro del Lavoro nel gabinetto Giolitti, nel 1924 espresse l'opinione che nel settembre del 1920 i leaders del partito socialista avrebbero potuto impadronirsi del potere politico senza incontrare una seria opposizione (5). Sta di fatto che gli operai, chiudendosi nelle fabbriche, si erano messi in trappola. Se fossero stati davvero dei rivoluzionari, non avrebbero occupato le officine ma gli uffici governativi, i servizi telefonici e telegrafici, le ferrovie; fino a che rimanevano nelle fabbriche, il governo poteva permettersi di rimanersene fermo ad aspettare che si fossero stancati. I datori di lavoro lamentarono che gli operai violavano il diritto di proprietà privata, e chiesero che il governo impiegasse la forza per farli uscire dalle fabbriche. E' quello che Giolitti si rifiutò di fare. In quel momento, una repressione con spargimento di sangue avrebbe costretto tutti i gruppi dei partiti estremi a schierarsi dalla parte di chi occupava le fabbriche, creando quella coalizione di forze rivoluzionarie che gli stessi rivoluzionari non erano stati in grado di ottenere. Mentre gli operai erano in attesa non si sa di cosa, i socialisti litigavano tra di loro. A un consiglio nazionale della Confederazione del lavoro convocato d'accordo con la direzione del partito socialista, i comunisti e i più accesi massimalisti chiesero che 'la crisi venisse estesa' e che assumesse fini decisamente rivoluzionari. I socialisti di destra si dichiararono disposti a lasciare la direzione del movimento alla direzione nazionale del partito socialista; dopo di che gli estremisti avrebbero provocato una sollevazione rivoluzionaria, e la Confederazione del lavoro gli sarebbe andata dietro. I rappresentanti di Torino, del centro comunista più attivo che vi fosse in Italia, fecero un resoconto talmente scoraggiante delle condizioni generali di quella città da un punto di vista rivoluzionario, che gli estremisti, messi di fronte alle loro responsabilità, non osarono accettare le proposte della Confederazione (6). L'11 settembre, dopo un giorno e mezzo di discussioni accanite, i massimalisti si divisero in destra e estrema, e questa venne sconfitta con 591000 voti contro 409000 (7). Di nuovo gli estremisti potevano affermare che la rivoluzione sociale non era stata possibile perché gli altri compagni non l'avevano voluta. La rivoluzione sociale avrebbero dovuto farla i socialisti di destra, che non la ritenevano possibile, e non gli estremisti, che la promettevano tutti i giorni. Quello che questi volevano veramente era di trarre
profitto da questa crisi per gettare discredito sui socialisti di destra, e toglierli di mezzo prima che scoccasse la 'grande ora,' in cui il 'proletariato rivoluzionario' doveva aver cura di sé. Via via che passavano i giorni, gli uomini videro che senza l'assistenza tecnica, le materie prime, la fiducia dei mercati esteri, l'occupazione delle fabbriche era inutile. Chiudendosi nelle fabbriche, si erano chiusi in una trappola, e il governo non doveva far altro che aspettare che si fossero stancati. Quando la stanchezza si fece avvertire, venne fuori Giolitti e concluse un accordo tra datori di lavoro e operai, in seguito al quale gli operai fecero ritorno alle loro case ma 'i rappresentanti dei lavoratori venivano ad avere il diritto di investigare su ogni fase del processo industriale, comprese le finanze, per conoscere le condizioni effettive dell'industria in cui lavoravano, ed essere così in grado di chiedere aumenti salariali quando i guadagni ne giustificavano la richiesta; all'opposto essi non si sarebbero dovuti opporre ad una riduzione di salari quando i guadagni diminuivano' (8). Uno studioso francese, che fu un testimone oculare di questi fatti, Albert Dauzat della Sorbona, scrisse poche settimane più tardi: «Sono passate settimane e mesi, e la rivoluzione che taluni speravano e altri temevano non ha avuto luogo, e secondo tutte le apparenze non avrà luogo mai. L'ora è passata. Gli scioperi non hanno ottenuto quei risultati politici sperati dagli estremisti. La società capitalista ha dimostrato una eccezionale resistenza. L'occupazione delle fabbriche sembra essere stata il punto culminante della crisi. L'ordine sociale e politico ne è uscito felicemente. (...) La parola d'ordine è stata soprattutto evitare spargimenti di sangue, che avrebbero potuto provocare l'irreparabile. A loro volta, i socialisti e i dirigenti sindacali hanno sempre consigliato ai loro seguaci di mantenere la calma. Tale atteggiamento fa onore al popolo italiano e ai leaders politici. Il governo non ha tirato le redini, senza tuttavia abbandonarle completamente. Tale metodo, secondo i conservatori, è stato pericoloso. Certamente esso ha implicato dei rischi, ma non maggiori che col metodo opposto» (9). Giolitti si poteva congratulare con se stesso della buona riuscita di questa politica di attesa, che aveva superato tutte le aspettative (10). Il sistema dello sciopero bianco fu imitato in Francia da milioni di lavoratori nel giugno del 1936. Il governo francese non liberò le officine a cannonate, se non altro perché facendo così avrebbe danneggiato gli impianti. Naturalmente i datori di lavoro francesi lamentarono che gli scioperanti occupassero illegalmente i loro stabilimenti. Ciò nonostante nessuna persona di buon senso proclamò che nel 1936 la Francia era in balìa di una rivoluzione bolscevica. Al contrario, il "New York Times" del 6 gennaio 1937, faceva il seguente commento: 'Esso (il movimento di scioperi bianchi) è prova delle riserve di prudenza e autocontrollo del popolo francese, che nell'occupazione di fabbriche e officine ha dimostrato così scarsa violenza.' Il sistema dello sciopero bianco si estese negli Stati Uniti nel 1937. Il governatore del Michigan, Murphy, si rifiutò di fare uscire gli operai con la forza a Detroit, Flint e nelle altre città d'intorno. E' da sperare che dopo questa esperienza americana, l'occupazione delle fabbriche del 1920 in Italia cesserà di essere usata dalla propaganda come la più terribile manifestazione del 'bolscevismo italiano.' Una delle idee sbagliate diffuse nei paesi di lingua inglese in rapporto a questi fatti è dovuta soltanto ad una erronea traduzione della parola italiana 'controllo.' La parola 'controllo' in italiano non è l'equivalente del termine inglese 'control,' che significa possesso e direzione; essa significa 'riscontro dei conti.' Gli operai chiedevano salari più alti per fare fronte al crescente costo della vita. I datori di lavoro ribattevano che il livello di produzione non permetteva loro la concessione di salari più alti. I lavoratori sostenevano che gli affari andavano bene. L'industria automobilistica, ad esempio,
aveva esportato nel 1919 lo stesso numero di macchine che nel 1913, alla vigilia della guerra; e nel 1920, anno dell'occupazione delle fabbriche, l'esportazione di automobili aveva superato di otto volte quella dell'anno precedente. Mentre i datori di lavoro affermavano di trovarsi in brutte acque, gli operai sapevano che nell'industria metallurgica la disoccupazione era in diminuzione, il che significava che gli affari andavano bene (11). Gli operai quindi chiedevano che i bilanci delle aziende fossero verificati e resi pubblici; domandavano anche che in ogni fabbrica gli operai eleggessero una commissione, che li rappresentasse nelle vertenze disciplinari e nella stipulazione di accordi di lavoro. Per indurli ad abbandonare le fabbriche e ritornare a casa, Giolitti promise loro che avrebbe presentato al Parlamento un disegno di legge per il 'controllo delle fabbriche,' cioè, per dare il diritto ai rappresentanti sindacali di ottenere informazioni veritiere circa le condizioni finanziarie effettive delle aziende, e il diritto di avere voce in capitolo in tutte le fabbriche in materia di disciplina interna. Gli addetti commerciali dell'ambasciata di Gran Bretagna a Roma, E. C. Cure e J. H. Henderson, nel loro "General Report on the Commercial, Industrial and Economic Situation in Italy in December 1920", alla pagina 19 scrivono: «I dipendenti si rifiutano di lavorare perché hanno la convinzione di venire sfruttati, anche se molti accetterebbero un sistema dove si riconoscono i diritti del capitale, una volta assicurati che questo capitale viene amministrato equamente. E' da augurarsi che questa difficoltà venga almeno in parte rimossa con l'introduzione del sistema di controllo operaio avanzata nel corso della recente vertenza degli operai metallurgici, e il cui principio è stato accettato nell'accordo finale. A rigor di termini, il controllo operaio indica il diritto di verifica e di investigazione da parte degli operai e non la partecipazione alla direzione. (...) Le trattative sono state interrotte in seguito alla richiesta degli operai di ampliare il significato del termine, e in particolare comprendervi il diritto da parte loro di avere voce in capitolo nell'assunzione e licenziamento dei dipendenti.» Gli agenti fascisti e quegli 'studiosi' che hanno attinto dalla loro propaganda hanno tradotto la parola italiana 'controllo' con la parola inglese 'control,' e così è stata creata la leggenda che gli operai volevano la proprietà o almeno la direzione delle fabbriche. Durante il periodo della crisi, a Torino, gli scioperanti uccisero un giovane nazionalista e una guardia carceraria, e inoltre tre guardie regie e un carabiniere rimasero uccisi nel corso di conflitti (12). I due primi delitti furono particolarmente crudeli. Non si dà movimento sociale in cui sia possibile evitare l'infiltrazione di pazzi o di criminali. In tutte le altre parti d'Italia non si verificarono spargimenti di sangue. Un produttore americano, proprietario di un vasto stabilimento nell'Italia settentrionale, dette il seguente resoconto, che rispecchia la sua esperienza personale: «Gli operai furono abbastanza ingenui da credere che con l'occupazione delle fabbriche avrebbero dato il via a una rivoluzione mondiale. Una volta al nostro posto, non arrecarono nessun danno volontario al macchinario, al contrario cercarono di far funzionare la fabbrica. Durante le loro esibizioni, io me ne andai tutti i giorni a giuocare a golf. Per quanto transitassi in macchina nella zona dove si trova il mio stabilimento, non venni mai molestato» (13). Torino era considerata come la cittadella del comunismo italiano, e la Fiat come uno dei più fiorenti vivai del comunismo torinese. Il 20 settembre, il presidente della Fiat, Agnelli, si recò allo stabilimento della Fiat Centro, per prenderlo di nuovo in consegna dalla commissione interna che lo aveva diretto durante l'occupazione. Il "Corriere della Sera" del 1 ottobre 1920 scrive:
«Il loro arrivo (di Agnelli e dell'ing. Fornaca) fu salutato da una salve di applausi. (...) Sul tavolo dello studio del comm. Agnelli era stato deposto un grosso mazzo di garofani rossi (simbolo socialista). A una parete era l'emblema della falce e del martello.» Agnelli non ritenne che gli applausi fossero un compenso sufficiente per la falce e il martello comunisti, e annunciò sui giornali che si sarebbe dimesso dalla presidenza: Un mese dopo, gli morì la madre. Ecco quanto si legge nel "Corriere della Sera" del 31 ottobre 1920: «Agli imponenti funerali della signora Agnelli hanno preso parte (...) 3000 operai della 'Fiat.' Per deliberazione dei dirigenti delle organizzazioni operaie, durante le esequie in tutti i quattordici stabilimenti che compongono la 'Fiat' è stato sospeso il lavoro in segno di lutto. All'uscita della salma dalla chiesa parrocchiale (...) è avvenuto un significativo episodio: uno dei membri della commissione interna operaia della 'Fiat Centro,' consigliere provinciale socialista, si è avvicinato al comm. Agnelli e gli ha detto ad alta voce: 'Torni con noi...!' Un rappresentante degli impiegati, a nome di tutti i colleghi, ha espresso lo stesso desiderio. Il comm. Agnelli, sopraffatto dalla commozione, non ha pronunziato parole, ma ha stretto lungamente la mano ai due interpreti del personale dell'azienda.» Questo era il 'bolscevismo' italiano nel 1919-1920. Una puerile baraonda di applausi, garofani rossi, emblemi comunisti, scioperi, dimostrazioni, che durò più di ventiquattro mesi e si macchiò del sangue di circa 300 persone rimaste uccise durante i disordini. Mussolini approvò l'occupazione delle fabbriche, accusando tuttavia i leaders socialisti di non voler sferrare il colpo decisivo. Ecco quanto scrisse uno dei suoi camerati, Michele Bianchi: «Il nostro atteggiamento è stato fin dal primo momento improntato a simpatia per le masse. (...)Oggi diciamo che la presa di possesso è un errore formidabile, salvo che gli organizzatori non intendano di servirsene come pedina per un disegno smisuratamente più vasto. Deve servire per un movimento sociale? In tal caso sarebbe prova di squisito acume politico... avrebbe una logica. (...) Ma Buozzi, Colombino, Guarnieri hanno una mentalità troppo realista» (14). Nei giorni dell'occupazione delle fabbriche, Mussolini cercò Bruno Buozzi, capo del movimento, e i due si incontrarono in un albergo di Milano, alla presenza di Manlio Morgagni del "Popolo d'Italia" e del suo collega Guarnieri. Mussolini non fece 'offerte' di nessun genere, ma chiese di essere informato sugli scopi del movimento. Espresse l'opinione che non si sarebbe mai dovuto espellere gli operai dalle fabbriche con la forza. Se i fini dell'agitazione erano puramente economici, ai fascisti sarebbe importato ben poco che le fabbriche appartenessero ai datori di lavoro o agli operai, ma si sarebbero opposti con tutta la loro forza a qualsiasi esperimento di governo bolscevico (15). Il 28 settembre, tre giorni dopo che gli operai avevano abbandonato le fabbriche, Mussolini affermò che Giolitti era responsabile dell'occupazione; la vertenza si era trascinata per molte settimane senza che Giolitti fosse mai intervenuto a risolverla. 'Un intervento anticipato di Giolitti poteva evitare le balorde pregiudiziali in cui si sono irrigiditi gli industriali' (16). Così Giolitti avrebbe dovuto risolvere le cose contro gli industriali, e in più Giolitti avrebbe 'forse' potuto impedire l'occupazione. Mussolini non diceva come; molto probabilmente intendeva che le fabbriche fossero state fatte occupare dall'esercito.
«Ad invasione compiuta, nelle ventiquattr'ore successive tale compito si presentava già più difficile. Ogni giorno di occupazione rendeva sempre più ponderoso il compito di una espulsione degli operai - "manu militari" - dalle fabbriche. I guai provocati da questo atteggiamento governativo sono stati certamente gravissimi; ma chi può asseverare che la 'maniera forte' non avrebbe scatenato un incendio infinitamente più pericoloso da domare? Anche nella strategia, che chiameremo poliziesca, bisogna freddamente esaminare se il gioco vale la candela» (17). In ogni modo, in Italia era avvenuta una rivoluzione, e di chi era il merito? Di Mussolini. «Quella che si è svolta in Italia in questo settembre che muore è stata una rivoluzione, o, se si vuole essere più esatti, una fase della rivoluzione cominciata - "da noi" - nel maggio 1915. (...) Non c'è stata la lotta nelle strade, le barricate e tutto il resto della coreografia insurrezionista che ci ha commosso sulle pagine dei "Miserabili". Ciò nonostante una rivoluzione si è compiuta e si può aggiungere una grande rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato» (18). E' vero proprio l'opposto. L'occupazione delle fabbriche fu per gli operai italiani una grande lezione pratica di politica e di economia; essi furono posti di fronte al crudo dato di fatto che il loro lavoro manuale unito alle macchine non era sufficiente a produrre ricchezza; ci voleva direzione tecnica, credito e organizzazione commerciale (19). La occupazione delle fabbriche segna il punto più alto e l'inizio del declino del grado di eccitazione nell'Italia del dopoguerra. In guerra, un esercito comincia a vincere quando i suoi avversari smettono di credere alla possibilità di vittoria e cominciano a ritirarsi. E' a questo punto che coloro i quali, ove il nemico avesse resistito dieci minuti di più, avrebbero potuto non farcela, si sentono forti come leoni e si lanciano all'inseguimento. Fu questo il caso dei datori di lavoro italiani. Uno scrittore, che di tutte le disgrazie di quegli anni dà la responsabilità ai massimalisti, ma si dimentica delle responsabilità degli estremisti, scrive: «L'occupazione delle fabbriche denota il declino del movimento operaio, la fine senza gloria del 'massimalismo,' il cui cadavere continuerà ad ingombrare il campo di battaglia, fino a che i becchini fascisti lo spazzeranno. Un sensibile voltafaccia si produce ben presto nella psicologia operaia: 'l'inizio della saggezza,' secondo Mussolini. Gli avversari ne sono non disarmati, ma resi più aggressivi, più decisi alle rappresaglie. (...) La borghesia ha ricevuto, con l'occupazione delle fabbriche, uno "choc psicologico" che spiega il suo furore e che determina i suoi atteggiamenti successivi. Gli industriali si sono sentiti colpiti nei loro diritti di proprietà e di comando; si sono visti soppiantati nelle officine, dove il lavoro continuava, bene o male, in loro assenza. Hanno ricevuto la scossa di colui che è stato rasentato dalla morte, e che, tornando alla vita, si sente un 'uomo nuovo.' Dopo qualche giorno di amarezza e d'incertezza, in cui mostrano soprattutto un gran rancore contro Giolitti, che 'non li ha difesi,' e ha imposto loro per decreto il controllo delle industrie, la precipitazione avviene nel senso di una lotta a morte contro la classe operaia e contro lo 'Stato liberale' » (20). Giolitti sentì che adesso avrebbe potuto vibrare un grosso colpo. Il 17 ottobre, fece arrestare Malatesta a Milano. Non si ebbe nessuna grave reazione.
Il 20 ottobre, una circolare diramata dallo stato maggiore sollecitava i comandi divisionali a favorire i fascisti. Il piano tracciato dall''esperto militare per la guerra civile' era stato adottato dal ministero della Guerra (21).
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO DICIASSETTESIMO. La fantasia degli agenti fascisti si è sbizzarrita intorno all'occupazione delle fabbriche più che su ogni altro avvenimento. Sir Percival Phillips, inviato speciale del ben noto quotidiano inglese "Daily Mail", in un suo libro dice: 'La politica comunista consiste nel gettare degli uomini vivi negli altiforni, come avvenne a Torino da parte di un tribunale rosso composto di donne' (1). Non sappiamo se in Russia o in qualche altra parte la politica comunista ha mai gettato uomini vivi negli altiforni; ma quello che sappiamo è che a Torino cose del genere non sono mai successe. e' già abbastanza grave che durante l'occupazione delle fabbriche un tribunale rosso abbia pronunciato parole violente parlando di gettare i due disgraziati Scimula e Sonzini in un altoforno, prima che venissero condannati alla fucilazione (2). Perché esagerare fatti già di per sé terribili? Il giornale francese L'"Oeuvre" del 18 novembre 1926 riproduceva da un settimanale francese la descrizione seguente: «La marcia su Roma, che ha posto fine ad un terribile stato di cose, si deve al signor Fiat. Gli operai, non contenti di occupare la sua fabbrica, imbavagliarono il grande industriale italiano e violentarono la moglie e le figlie davanti ai suoi occhi. Indignato, il grande industriale mise a disposizione di Mussolini I fondi necessari per rovesciare il regime.» L'"Oeuvre" faceva notare che Fiat non significa altro che F(abbrica) I(taliana) A(utomobili) T(orino), e che questa società non aveva né moglie né figlie che potessero venir violentate. Il giornalista pagato per scrivere questo articolo di propaganda evidentemente non sapeva niente di questa fabbrica di automobili famosa in tutto il mondo. Quanto al signor Agnelli, presidente della Fiat, nessuno ha mai fatto irruzione in casa sua e tanto meno violentato moglie e figlie. Luigi Villari (3), facendo la descrizione della crisi, tralascia qualsiasi riferimento agli scritti e all'autorità di Mussolini e dei suoi amici in quei giorni. Egli poi non fa nessuna differenza tra l'atteggiamento dei socialisti moderati e degli altri: "I socialisti consideravano questa forma di azione diretta come 'l'inizio della tanto a lungo sospirata dittatura del proletariato'"; 'il partito socialista tentò di ottenere la direzione di tutto il movimento nella speranza di convertirlo in una vera e propria rivoluzione e instaurare una repubblica sovietica.' Egli afferma che l'occupazione delle fabbriche venne ordinata dal deputato comunista Bombacci, e dagli altri leaders della F.I.O.M (4); che la proposta di dare all'occupazione un carattere rivoluzionario venne sostenuta dal partito socialista, mentre vi si oppose la Confederazione generale del lavoro; che in seguito alla crisi 'il valore della lira nei confronti del franco svizzero scese a 25 centesimi, mentre all'inizio dell'anno era stato a 74.' L'affermazione che il deputato comunista Bombacci, insieme agli altri leaders della F.I.O.M., abbia ordinato l'occupazione delle fabbriche è una pura invenzione. Bombacci non era uno dei leaders della F.I.O.M. e non ebbe parte alcuna nella disgraziata decisione, non foss'altro perché nell'estate del 1920 si trovava in Russia. Villari presenta mezzo milione di operai come una massa di assassini, ubriaconi e ladri. Riccardo Bachi, che non era affatto l'avvocato difensore degli operai, scrive:
«L'organizzazione operaia procurò che fossero evitate violenze, danneggiamenti e indebite appropriazioni; i casi di violenza alle persone non furono numerosi, ma alcuni eccezionalmente gravi, e si dovette constatare poi che i danni materiali agli impianti e gli sciupii di materie prime e prodotti siano stati piuttosto estesi; l'indole stessa delle industrie implicate e le opportune cautele adottate hanno mantenuto in limiti relativamente ristretti i furti» (5). Quanto al rapporto tra lira e franco svizzero, se Villari fosse stato una persona onesta e non un propagandista, avrebbe confrontato il tasso di scambio della lira del settembre e ottobre 1920, non solo col gennaio del 1920, ma anche con i mesi seguenti da gennaio a settembre. Avrebbe visto allora che la lira aveva continuato a calare sin dal 1919, a causa della costante inflazione, e che nel settembre e ottobre del 1920 essa non subì un deprezzamento più rapido che non nei mesi precedenti e seguenti. Il prezzo di acquisto di 100 franchi svizzeri in lire italiane fu il seguente: 1919, marzo, lire 132,20; giugno, lire 151,32; settembre, lire 174,86; dicembre, lire 241,67; 1920, marzo, lire 321,24; aprile, lire 410,50; maggio, lire 352,78; giugno, lire 309,98; luglio, lire 305,53; agosto, lire 341,98; settembre, lire 373,74; ottobre, lire 408,33; novembre, lire 427,55; dicembre, lire 441,02; 1921, marzo, lire 446,86; giugno, lire 339,64 (6).
CAPITOLO DICIOTTESIMO. LA REAZIONE 'ANTIBOLSCEVICA'. Nell'agosto e settembre del 1920, una commissione di delegati del partito socialista, della Confederazione del lavoro e del movimento italiano cooperativo si recò in visita in Russia alla scoperta della terra promessa. «Anche nei particolari pratici, la delegazione italiana dimostrò la sua comprensione e solidarietà. Avevano portato con sé un centinaio di enormi casse piene di cibarie roba in scatola, riso, olio, zucchero, eccetera - medicine, sapone, aghi per le cooperative di sarti, e altri generi di cui c'era gran bisogno. Bisognava aver visto le sofferenze del popolo russo per capire quanto fossero apprezzati questi aiuti. Delle molte delegazioni che si recarono in Russia in questo e nei periodi seguenti, le sole che dimostrarono in questo modo la loro fraterna solidarietà furono la italiana e la svedese» (1). Quando vennero in discussione i modi e i mezzi per attuare una rivoluzione sociale in Italia, si manifestò un vivo dissenso tra Serrati, leader dei massimalisti e che come direttore dell'"Avanti!" era la persona più influente che ci fosse nel partito socialista, e Lenin e Zinoviev, presidente della Internazionale comunista. Lenin aveva già risolto il problema sin dall'autunno del 1919 con la lettera pubblicata allora dall'"Avanti!" (2): bisognava espellere dal partito socialista Turati e gli altri opportunisti del gruppo parlamentare. Nel maggio del 1920, sviluppò in modo più pieno questo concetto in un libretto "La malattia infantile del comunismo", in cui non soltanto si accusano i socialisti di destra di aver tradito il proletariato, ma si accusa il partito socialista italiano di 'incoerenza' per essersi rifiutato di espellere Turati e i suoi compagni (3). Naturalmente Zinoviev era d'accordo con Lenin. Sia l'uno che l'altro erano come quel dottore che curava gli ammalati rimanendo nella strada, facendoli venire alla finestra a mostrar la lingua, e prescrivendo a distanza la medicina. Serrati sapeva che era impossibile espellere Turati e i suoi compagni dal partito socialista senza creare una profonda frattura non soltanto all'interno del partito ma anche all'interno dei sindacati: la Confederazione del lavoro avrebbe perduto i suoi dirigenti più capaci e si sarebbe trovata in una crisi pericolosa, che sarebbe tornata a tutto vantaggio dei datori di lavoro e dei partiti antisocialisti. Serrati quindi si rifiutava di farsi trascinare su di una strada che considerava disastrosa.(4). Un comunista che si fosse opposto a Lenin in quel momento avrebbe dovuto essere un uomo di eccezionale caparbietà. Serrati non era uomo di grande intelligenza, ma era coraggioso ed onesto, e si mantenne sulle sue posizioni. Angelica Balabanoff, che si trovava allora in Russia tra i leaders della terza Internazionale e che era vissuta per molti anni in Italia, sostenne l'opinione di Serrati. Essa era molto scossa dai trucchi volgari con cui Lenin e Zinoviev si sforzavano di abusare dei sentimenti di devozione che Serrati nutriva per la Russia sovietica, per farne strumento di divisione all'interno del suo paese. Lenin e Zinoviev riuscirono a conquistare soltanto due degli italiani: Bombacci, una zucca vuota di maestro elementare che più tardi doveva passare al fascismo, e un professore universitario di economia, Graziadei, uomo ambizioso che era stato una volta un socialista di destra e che più tardi, con l'infuriare della reazione fascista, si ritirò nel suo guscio facendo in modo di salvare la pelle, e adesso se ne vive tranquillo in Italia. «Erano stati scelti questi due individui, a preferenza di altri, a causa della loro debolezza e vanità, e della loro incapacità all'adulazione e all'applauso. Erano stati
ricevuti e adulati al Cremlino, la ex-residenza degli zar, in un ambiente che testimoniava ricchezza e potere. Mentre Lenin considerava questi due individui degli strumenti di cui servirsi e poi sbarazzarsi, i due pellegrini si immaginavano di essere stati prescelti per le loro qualità positive a essere i leaders del movimento italiano sotto il patronato bolscevico. In nostra assenza, venivano presentati al pubblico russo come autentici rappresentanti della rivoluzione, in contrapposizione a Serrati che aveva 'tradita.' I loro discorsi venivano tradotti in modo da far dire loro quello che voleva Zinoviev. Perdevano completamente la testa per gli applausi delle folle e le adulazioni dei tirannelli di Zinoviev» (5). Quando i pellegrini di Mosca fecero ritorno in Italia, i delegati della Confederazione del lavoro e delle cooperative, tutti socialisti di destra, non si tennero per sé le notizie di quanto avevan visto. Sebbene, con grande orrore di Angelica Balabanoff e di Emma Goldman, fossero stati fatti viaggiare su treni e battelli ben funzionanti e perfettamente puliti, e nutriti del cibo migliore, tuttavia non si eran lasciati prendere in giro. Fecero dei racconti spaventosi sulle condizioni del popolo russo. Serrati di quanto aveva visto non disse niente, ma il suo silenzio fu sufficientemente significativo. Il mito bolscevico ricevette un duro colpo. La controversia tra Serrati e gli estremisti divenne più violenta. Serrati continuava ad insistere che la 'unità del proletariato italiano' non doveva esser messa in pericolo da provvedimenti sbagliati e imprevidenti. La occupazione delle fabbriche era stato un movimento grandioso, ma era stato diretto dai socialisti di destra, e aveva avuto fini economici e non politici, sviluppandosi ovunque in modo pacifico, ad eccezione di pochi incidenti di carattere locale. Certamente l'Italia si trovava in una situazione rivoluzionaria; ma 'la rivoluzione non può essere il risultato di un magico segnale dato da un capo, anche se l'influenza personale non è priva di effetto. La rivoluzione dipende da circostanze molto complesse e da numerosi fattori, che a un dato momento provocano la crisi.' Compito del partito socialista non era tanto quello di spingere le masse verso la lotta violenta, ma di 'preparare tutte le forze del futuro ordine socialista, per consolidare il nuovo regime e condurlo verso il suo trionfo finale.' Mirando a questo scopo, il partito non poteva fare a meno di quegli uomini che per tanti anni avevano diretto i sindacati, le cooperative, i comuni; essi erano gli unici capaci di dirigere le cose nella nuova società quando la vecchia fosse crollata. 'Figuratevi che cosa sarebbe Milano in mano ad un pugno di inetti arrivisti che hanno aspettato l'ultimo momento per professarsi comunisti ferventi' (6). Queste controversie non erano fatte per mantenere elevata in Italia la febbre rivoluzionaria. Nell'autunno del 1920, due fatti mostrarono che in Italia si era già creata una nuova "forma mentis" tra i partiti non socialisti. Nelle elezioni amministrative che si svolsero in tutto il paese nel settembre e ottobre, i socialisti conquistarono 2022 comuni (24,3 per cento); i popolari 1613 (19,4 per cento) ; e tutti gli altri partiti che avevano formato blocchi 'patriottici' o 'antibolscevichi' 4692 (56,3 per cento) (7). I socialisti si dimostrarono particolarmente forti in Lombardia e in Emilia, e i popolari nel Veneto; ma dappertutto e anche nell'Italia settentrionale, i socialisti furono sconfitti in quasi tutte le città più importanti: Venezia, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. A Torino furono sconfitti di stretta misura, 48899 voti contro 48792, grazie ai popolari che, facendo questa unica eccezione alla loro tattica indipendente, parteciparono al blocco 'antibolscevico' salvando la situazione. A Milano i socialisti vinsero con uno scarto di appena 3000 voti su un totale di 144000. Sia a Torino che a Milano i lavoratori formavano la netta maggioranza della popolazione; ovviamente, una parte di questi aveva votato 'antibolscevismo.' La sola schiacciante vittoria socialista in una grande città si ebbe a Bologna. Via via che dal nord si scendeva verso il centro e verso il meridione erano in testa gli 'antibolscevichi' e i 'blocchi patriottici.' Pochi giorni dopo che si erano concluse le elezioni amministrative, il 4
novembre del 1920 si celebrò solennemente in tutta Italia l'anniversario dell'armistizio. L'anno prima non era stata tenuta nessuna celebrazione; il paese era agitato per la campagna elettorale, e Nitti, non a torto, aveva paura che la celebrazione desse luogo a proteste contro la guerra e a pericolosi disordini. Nel 1920, né anarchici, né comunisti, né socialisti si sognarono di disturbare la cerimonia; l'ondata di antipatriottismo che per quasi due anni sembrava aver sommerso il paese, adesso era chiaramente cessata. Il 10 novembre, il "Popolo d'Italia" osservò che 'la situazione interna italiana migliora giorno per giorno'. Il momento era quindi maturo perché il governo riprendesse le sue funzioni: il mantenimento dell'ordine pubblico e il rispetto per la legge, contraria ad ogni forma di disordine. Una volta restaurato il rispetto per la legge e per l'ordine, si sarebbe dovuto attendere pazientemente che il processo di convalescenza seguisse la sua strada, e poco alla volta la gente avrebbe ritrovato la via del buon senso. Dato lo stato di scoraggiamento dei partiti di sinistra, il ristabilimento della pace pubblica era diventato un compito facile. E' vero che non si poteva pretendere di rimettere le cose a posto tutto d'un tratto; il solo farmaco per certi malanni è il tempo. E sarebbe stata per il nostro popolo una grande e preziosa lezione, se esso si fosse potuto liberare dei sogni comunisti e delle illusioni rivoluzionarie attraverso la libera esperienza e per convinzione spontanea. Questo popolo che dopo Caporetto aveva dimostrato tanta fermezza e spirito di sacrificio avrebbe meritato un certo credito; la pazienza e la calma erano un dovere naturale, tanto più per quegli uomini politici che non avevano saputo né fare la guerra né fare la pace, e che erano i diretti e principali responsabili di quella nevrastenia postbellica che affliggeva il popolo italiano. Fu la disgrazia dell'Italia che in un momento come quello fosse al potere un uomo come Giolitti. L'esperienza aveva mostrato che la Camera dei deputati, eletta nel novembre del 1919, non era in grado di funzionare. Se si voleva una Camera meno confusionaria occorrevano nuove elezioni generali. Prima della guerra mondiale, Giolitti aveva l'abitudine di 'manipolare' le elezioni parlamentari senza nessun scrupolo e con pieno successo; egli pensò adesso che i fascisti gli sarebbero stati di aiuto per ridurre alla Camera il numero di deputati del partito socialista. I fascisti erano ansiosi di 'dare una lezione ai bolscevichi': lasciamogliela dunque dare; una volta compiuta l'opera, ci si poteva facilmente disfare dei fascisti; dopo tutto, essi non erano nel paese che una piccola minoranza. Anche i capi militari erano desiderosi di dare una mano per schiacciare i 'bolscevichi,' e la loro cooperazione poteva essere utile per un fine comune, a condizione che smettessero di disobbedire al governo civile nella questione di Fiume. Tutto quanto occorreva era di lasciare che questi capi militari equipaggiassero i fascisti con fucili, mitragliatrici, bombe e autocarri, e li mettessero sotto il comando di ufficiali in congedo e in licenza. Per quanto riguarda la polizia e la magistratura, era sufficiente che questi chiudessero un occhio sui disordini promossi dai fascisti, e intervenissero soltanto quando si trattava di disarmare, processare e condannare chi cercava di opporre resistenza. Quanto alle nuove elezioni generali, queste non potevano essere 'manipolate' da un giorno all'altro; occorrevano per prepararle diversi mesi. Un primo risultato dell'intesa tra Giolitti e i fascisti si vide a Trieste il 14 ottobre. Qui nel partito socialista prevalsero gli estremisti, che annunciarono un comizio di protesta in favore della Russia. A nome dei fascisti, Giunta intimò che 'nessun comizio deve essere tenuto per la Russia né oggi né domani, perché sarebbe un comizio contro l'Italia,' 'noi sappiamo di bastare contro chicchessia, risoluti a sparare, se occorre, contro chiunque si opponga all'urto delle nostre file,' 'siamo fin da ora pronti ad uccidere e pronti a morire.' e La polizia vietò il comizio. Il quotidiano estremista "Il Lavoratore" invitò il proletariato a 'scendere nelle strade contro il nemico.' Gli operai abbandonarono le fabbriche, e qua e là si ebbero scontri per le strade. I fascisti
assalirono la sede del "Lavoratore" e la distrussero appiccandovi il fuoco. La polizia si distinse per la propria assenza, e come al solito lo sciopero generale fallì. Questa manovra era stata progettata da Giunta d'accordo con Giolitti, che lo aveva convocato a Roma per dargli istruzioni sul modo d'agire (9). A questo punto, l'orribile massacro che ebbe luogo a Bologna il 21 novembre 1920 scatenò la reazione 'antibolscevica.' Come si è detto, le elezioni comunali di Bologna, del 31 ottobre, avevano dato ai socialisti una vittoria assoluta. Esasperati da questa vittoria, un gruppo di fascisti, il 4 novembre, attaccò la Camera del lavoro. In questa circostanza il comunista Bucco, segretario della Camera del lavoro, che con la sua tracotanza aveva già provocato insofferenza ed irritazione, dimostrò di essere un vigliacco, incapace di organizzare qualsiasi forma di resistenza. Dopo avere maltrattato la polizia nel corso di due anni, adesso, di fronte all'assalto fascista ne chiedeva telefonicamente l'aiuto. La polizia arrivò, e confiscò un deposito di armi ed esplosivi, e mentre la polizia perquisiva i locali, i fascisti li saccheggiarono. Per riparare al grave danno morale, i socialisti decisero di celebrare la seduta di apertura del nuovo consiglio comunale con una grande dimostrazione, che doveva aver luogo il 21 novembre. Un giornale cittadino 'antibolscevico,' "Il Progresso", iniziò allora una campagna per impedire che i socialisti, durante la loro dimostrazione, sventolassero le bandiere rosse. La polizia riuscì a far sì che il 18 novembre si arrivasse a un compromesso tra socialisti e fascisti: i socialisti avrebbero rinunciato al loro corteo, limitandosi a tenere un comizio davanti al palazzo del municipio (Palazzo d'Accursio); le bandiere rosse sarebbero apparse sul balcone del municipio soltanto durante i discorsi del nuovo sindaco e degli altri oratori ufficiali; terminati i discorsi, le bandiere sarebbero state ritirate e il comizio sciolto. Nonostante questo accordo, la popolazione rimase sospettosa e in preda a uno stato di eccitazione. Circolavano voci ignote di attacchi da una parte e dall'altra. Nel pomeriggio del sabato 20 novembre, il direttorio del Fascio fece circolare il seguente manifestino dattiloscritto: «Cittadini, i massimalisti rossi sbaragliati e vinti per le piazze e per le strade della città chiamano a raccolta le masse del contado per tentare una rivincita, per tentare d'issare il loro cencio rosso sul Palazzo Comunale. Noi non tollereremo mai quest'insulto! Insulto per ogni cittadino italiano e per la Patria nostra che di Lenin e di bolscevismo non vuole saperne. Domenica le donne di tutti coloro che amano la pace e la tranquillità restino in casa e se vogliono meritare della Patria espongano dalle loro finestre il Tricolore Italico. Per le strade di Bologna, domenica, debbono trovarsi soli Fascisti e Bolscevichi. Sarà la prova! La grande prova in nome d'Italia.» Domenica, 21 novembre, alle tre del pomeriggio, i nuovi consiglieri comunali si riunirono per eleggere il nuovo sindaco. La sala era piena di gente, e nella piazza antistante erano riunite migliaia di persone. Cordoni di truppe a piedi e a cavallo, carabinieri e guardie regie chiudevano tutte le strade di accesso alla piazza, per impedire che i fascisti e i nazionalisti potessero entrare e venire a contatto con la gente qui raccolta. Alle tre e mezzo, un gruppo di circa 500 fascisti, nazionalisti e ufficiali dell'esercito in divisa si gettarono contro uno sbarramento di soldati riuscendo a fare breccia. Raggiunta l'entrata della piazza, cercarono di fare breccia anche attraverso il secondo sbarramento, proprio mentre il nuovo sindaco si faceva alla finestra, accompagnato dalle bandiere rosse, per parlare alla folla. Dal gruppo dei fascisti partirono tre colpi di rivoltella, e nel nervosismo generale essi provocarono una ondata di panico. Alcuni carabinieri e guardie regie aprirono il fuoco contro il municipio. Nella piazza, la folla in cerca di riparo si precipitò verso il cortile interno del palazzo comunale; da una
finestra del municipio, su questa massa terrorizzata piovvero alcune bombe. Vi furono tra la folla dieci morti e cinquantotto feriti. Alcuni rimasero vittime del fuoco dei carabinieri e delle guardie regie, ma i più furono colpiti dalle schegge delle bombe. Nel frattempo, nella sala consiliare, era tutto un gridare e una confusione: chi si affannava verso le porte per scappare, chi si gettava per terra per non essere colpito dai proiettili che entravano dalle finestre. Improvvisamente due uomini armati di rivoltella (o forse soltanto uno, che cambiò di posto mentre sparava) si fecero verso i banchi occupati dai consiglieri della minoranza antisocialista, cominciando a sparar loro contro. Un consigliere della minoranza, che si era distinto come ufficiale in guerra, venne ucciso, due altri vennero feriti. Quando la polizia perquisì il municipio, scoprì che un comunista, tale Martelli, uno di quegli squilibrati che nei partiti rivoluzionari si trovano sempre in troppa abbondanza, aveva disposto una provvista di bombe nell'eventualità di un assalto al municipio. Egli era amico intimo di un agente provocatore, certo Galli, che poco tempo più tardi uccise la sua amante, ne bruciò il corpo, ma non venne mai processato per tale delitto. Fu esso a gettare le bombe sulla folla? Questi sono i fatti, quali oggi possono essere ricostruiti a sangue freddo, dai resoconti del pubblico processo, che si svolse a Milano dal 30 gennaio al 14 marzo 1923 (10). Nel novembre del 1920, sotto la impressione immediata della tragedia, non era possibile attribuire spassionatamente le responsabilità. Le simpatie politiche personali avevano il sopravvento. Giornali e partiti 'antibolscevichi' gettavano le responsabilità sul partito di appartenenza, preso nel suo insieme, degli autori materiali del delitto. I socialisti tutti, non importa se comunisti, massimalisti o riformisti, si trovarono senza distinzioni al centro di un'ondata di indignazione morale. Giolitti prese la palla al balzo e sciolse il consiglio comunale. La città fu governata adesso da un commissario che svolgeva la sua opera d'amore e d'accordo con nazionalisti e fascisti. La magistratura, emettendo mandati di arresto per centinaia di persone che a torto o a ragione erano accusate come responsabili del massacro, fece il resto. Nazionalisti e fascisti diventarono padroni della città, misero al bando tutti i capi del partito socialista, e mantennero la popolazione lavoratrice in un continuo stato di terrore. Poche settimane dopo, Ferrara fu testimone di una replica perfetta di quanto era accaduto a Bologna. Il 19 dicembre, due avvocati socialisti, deputati, erano stati malmenati a Bologna mentre uscivano dai locali del tribunale, dove stavano difendendo alcuni lavoratori. Non appena la notizia di questa aggressione arrivò a Ferrara, nella notte, i capi socialisti convocarono tutte le organizzazioni della città e delle località vicine per un comizio di protesta in massa da tenersi nel pomeriggio del giorno seguente. La polizia non proibì questa manifestazione. Ma la mattina del 20 dicembre un migliaio di fascisti arrivati su camions dai paesi più vicini e più lontani si raccolsero nella città. I camions erano stati forniti dai datori di lavoro e dalle autorità militari. La polizia permise loro l'ingresso in città. Essi attaccarono dei manifesti dove si diceva: 'Occhio per occhio, dente per dente, sangue per sangue.' Alle due del pomeriggio, quattromila persone si erano radunate nel teatro, e una gran folla, che non aveva potuto trovar posto all'interno del teatro, era fuori in attesa. I fascisti si misero in marcia verso di essa. La folla si aprì lasciando via libera ai fascisti, e siccome c'era una bandiera rossa i fascisti cercarono di impadronirsene. Intorno ad essa ebbe luogo uno scontro, e fu sparato un colpo di rivoltella. A questo punto, dal vicino palazzo comunale, un comunista cominciò a sparare alla cieca contro la folla. In seguito a ciò si ebbero tre morti e tre feriti tra i fascisti; due morti e sei feriti tra i socialisti. Sopraggiunse la polizia che arrestò 76 segretari di sindacati e sindaci socialisti della provincia di Ferrara. Tolti di mezzo i capi, i fascisti attaccarono una dopo l'altra tutte le località della provincia. Tutti i lunedì, giorno di mercato a Ferrara, venivano bastonati centinaia di contadini che erano venuti dalle campagne circostanti. La polizia forniva ai fascisti i nomi delle persone da aggredire.
In poche settimane nelle provincie di Bologna, Ferrara e Cremona, cioè delle zone agricole più ricche d'Italia, dove le leghe dei braccianti erano le più potenti e le più esigenti, la reazione ebbe il sopravvento. A partite da questo momento, i piccoli proprietari e gli affittuari si rifiutarono di acconsentire alle richieste delle leghe e si rimangiarono quelle concessioni già fatte durante i due anni precedenti; i loro interessi economici fomentavano il loro spirito di vendetta. Subito si unirono ad essi i grossi proprietari terrieri. Seguendo l'esempio dei proprietari e dei coltivatori diretti della Valle del Po, anche quelli della parte occidentale della Lombardia, della Toscana, delle Puglie e della Sicilia irrigidirono la loro resistenza contro i braccianti e i mezzadri. Anche gli industriali cominciarono non soltanto a rifiutare ogni ulteriore aumento salariale, ma a imporre riduzioni salariali e a mettere in atto nelle fabbriche un più rigido sistema di disciplina. Nessuno disse più niente a proposito del 'controllo' nelle fabbriche. Nel frattempo la questione di Fiume perdeva il suo mordente. Nel novembre del 1920, Sforza, d'accordo con i rappresentanti yugoslavi, aveva definito la questione adriatica con il Trattato di Rapallo (11). Con grande sorpresa di tutti, il 13 novembre 1920, Mussolini annunciò che nelle condizioni attuali era necessario accettare il Trattato di Rapallo; il problema avrebbe potuto essere risollevato nel futuro (12). Giolitti, a cui venne chiesto che cosa avrebbe fatto Mussolini al momento della crisi finale, sorrise e fece il gesto di sfregare il pollice contro l'indice, abbastanza significativo ad indicare 'quattrini.' Alla Camera dei deputati e al Senato una maggioranza schiacciante approvò nel 1920 il Trattato di Rapallo. Dal canto suo, D'Annunzio proclamò che piuttosto che arrendersi sarebbe morto; ma Giolitti sapeva come trattarlo. Ricordò al Re che egli, come monarca costituzionale e comandante supremo delle forze armate, aveva il dovere di richiamare i capi militari al giuramento di fedeltà prestato a lui e allo Statuto. Il Re fece il suo dovere. Millo dimenticò di aver dato a D'Annunzio la sua parola d'onore e si sottomise. Gli altri capi militari non osarono disubbidire. In uno scontro con le truppe italiane regolari, alcuni dei soldati di D'Annunzio persero la vita. Quando si rese conto che l'esercito regolare faceva sul serio, D'Annunzio annunciò che non valeva la pena di gettare la sua vita 'in servizio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia,' e abbandonò la scena. Nessun disordine grave avvenne in Italia. Questo scoglio era stato felicemente superato. Il 31 dicembre, con quel senso del momento psicologico che possedeva in grado eccezionale, Mussolini scrisse: «E' onesto aggiungere che da tre mesi a questa parte e precisamente dal "referendum" indetto per la occupazione delle fabbriche e dal ritorno dei Missionari andati in Russia, la psicologia della massa operaia italiana si è profondamente modificata. (...) La famosa ondata di svogliatezza e di pigrizia appare superata. Le masse operaie sembrano convincersi che il problema fondamentale del momento è un problema di produzione. Sintomo certissimo di questo stato d'animo è la relativa facilità con la quale in questi ultimi tempi sono stati raggiunti accordi dopo trattative pacifiche nella grande categoria dei tessili e dei chimici» (13). Il "Corriere della Sera" del 31 dicembre 1920 diceva: «In questi ultimi mesi, la reazione spontanea del popolo italiano è riuscita a diminuire sensibilmente la tirannia socialista. A l'alta marea del rivoluzionarismo, rappresentata dall'occupazione delle fabbriche, ha fatto seguito un rapido declino» (14. Nel gennaio, al congresso nazionale di Livorno del partito socialista, gli attacchi degli estremisti contro la destra e i massimalisti raggiunsero il loro culmine. La destra
ottenne 14625 voti, i massimalisti 98028, gli estremisti 58183. Se si confrontano i dati della situazione del congresso di Bologna nell'ottobre del 1919 con quelli del gennaio 1921, si vedrà che durante il periodo intermedio la forza dei socialisti di destra non è né aumentata né diminuita; erano 14880 nell'ottobre del 1919 ed erano ancora 14625 nel gennaio del 1921. Ma i massimalisti avevano ingrossato le loro file da 48411 a 98028, e gli estremisti erano dei convertiti dell'ultimo anno, 'socialisti di guerra' improvvisati; nei mesi seguenti si allontanarono con la stessa facilità con cui avevano aderito. Per lo più, coloro che affrontarono in modo più deciso la marea fascista furono gli uomini della 'vecchia guardia.' In seguito al congresso di Livorno, gli estremisti abbandonarono il partito socialista e formarono il 'Partito Comunista Italiano.' Questa scissione socialista che arrivava dopo l'occupazione delle fabbriche, le notizie dalla Russia riportate dai dirigenti sindacali e delle cooperative, le sconfitte morali di Bologna e di Ferrara, non servì certo ad alimentare tra le masse operaie cittadine fiduciose speranze. Si diffuse l'idea che una rivoluzione era divenuta impossibile. Ai primi del 1921, Mussolini cambiò la linea del fronte. Fintanto che una rivoluzione sociale era sembrata possibile, egli aveva attaccato socialisti e comunisti dalla sinistra, accusandoli di essere dei rivoluzionari inconcludenti. Non appena la rivoluzione sociale si dimostrò impossibile, cominciò ad attaccare socialisti e comunisti dalla destra, accusandoli di essere i responsabili degli scioperi e dei disordini politici. Aveva annusato la nuova direzione del vento e adattava la sua tattica alla mutata situazione. Ora che la 'rivoluzione' di Mussolini si dirigeva apertamente non contro la società capitalistica ma contro il movimento socialista, gli industriali italiani e i grossi proprietari terrieri generalizzarono il sistema di foraggiamento. Veramente i fascisti facevano ancora sfoggio di apparato rivoluzionario. Ma non vi era niente di più naturale della formazione di una "union sacrée" contro il comune nemico tra coloro che erano pronti ad attaccarlo dalla destra e coloro che per due anni lo avevano combattuto dalla sinistra. Fu così che le locali sezioni dei Fasci divennero i punti di raccolta di tutte le forze 'antibolsceviche' che si andavano organizzando. Gli arditi, che sino al dicembre 1920 erano stati a Fiume con D'Annunzio ed erano stati costretti ad abbandonare la città, erano adesso disoccupati. Una parte di essi trovò nelle file fasciste un nuovo impiego ben remunerato. Furono essi a introdurre nel movimento fascista la camicia nera, il pugnale, il manganello, la canzone 'Giovinezza,' il saluto romano, l'olio di ricino, la crudeltà, tutto il loro armamentario, gli slogans e le abitudini. Nell'azione fascista trovarono i mezzi per vivere non soltanto quegli ufficiali smobilitati mezzo morti di fame, ma anche operai disoccupati. In Italia, come dappertutto, si avvicinava una crisi industriale che portava la disoccupazione; e come sempre succede, la disoccupazione agiva come un tarlo nello spirito combattivo degli operai. Datori di lavoro e fascisti trassero profitto da questa situazione. Molti dei socialisti di guerra ritrovarono adesso la loro vera anima e aderirono al movimento fascista. All'amore dell'avventura e al fascino di una buona paga si aggiungeva la certezza dell'impunità (15). Al quadro della situazione che, tutto sommato, su scala maggiore, ripeteva i tratti comuni ai due anni precedenti, si aggiungeva adesso l'apporto di quegli elementi che provenivano dai ceti dei proprietari terrieri, dei negozianti e degli artigiani. Così scrisse un attento osservatore nell'estate del 1921: «Dopo qualche mese ovunque la maggior parte dei Fasci nell'Emilia, nel Veneto, nelle Puglie, furono nelle campagne costituiti da creature dell'Agraria. La composizione del fascismo era già notevolmente mutata, da quel ch'era prima dell'ottobre; e gli elementi studenteschi non vi rappresentavano più la forza predominante. Anche le funzioni dirigenti dei fascisti passarono qua e là in mani diverse. Nelle città gli
aderenti non erano più neppur loro i medesimi di un tempo. Questi, nella loro miglior parte più disinteressata, (...) eran tutti mossi da quello spirito patriottico che la guerra aveva sovreccitato ed esasperato: un patriottismo indubbiamente male inteso quanto impreciso, ma sincero. Questi però col tempo eran diventati minoranza, al sopraggiungere dei nuovi elementi» (16). Questo rapido afflusso su larga scala di gente danarosa e di spirito conservatore in una organizzazione di giovani squattrinati che si credevano rivoluzionari, scandalizzò e creò uno stato di disagio tra molti 'fascisti della prima ora.' Si vedano nelle "Memorie di un fascista", di Umberto Banchelli (17), le proteste contro 'i figli ed i clienti dei barbogi,' che si recavano numerosi alle riunioni fasciste, ma non partecipavano mai a pericolose spedizioni: «Erano entrati nel Fascio con i loro scopi particolari, uno fra tanti, quello di esercitare la giustizia di classe, cioè punire non come fascisti, ma come figli dell'avvocato, del dottore, del fornitore, eccetera. Ne derivò che per molto tempo bastava che uno stuolo di questi incontrassero gente vestita da operaio, perché i giustizieri picchiassero di santa ragione. Avevano anch'essi una concezione eguale a quella dei comunisti che avevano picchiato e assassinato gente decentemente vestita. (...) Si vedevano giungere alla sede del Fascio note facce torve e rapaci di ex-fornitori, dimessamente calzati e vestiti, ma con l'immancabile brillante di gran prezzo in dito; e noi costretti ad accettare per il bisogno di avere i mezzi necessari per soffocare un male peggiore di loro» (18). La classe capitalista italiana era di formazione recente; essa doveva la sua ricchezza soprattutto ai dazi protettivi e alle commesse statali, e non aveva ancora acquisito quella coscienza della propria dignità sociale, dei propri diritti e dei propri obblighi, che è il frutto di una lunga esperienza politica ed economica. In particolare i 'nuovi ricchi' creati dalla guerra - i cosiddetti 'pescicani' - erano gente grossolana intellettualmente e moralmente. Avendo acquistato ricchezza e potere più per fortuna che per merito, essi erano incapaci di mantenere le loro posizioni all'interno di un sistema di libera concorrenza e di libertà politiche. Questi profittatori, che erano allora in Italia il grosso della classe capitalista, non appena il loro terrore del 'bolscevismo' si fu mutato in ira, non si contentarono di ricondurre gli operai alla ragionevolezza. Si proposero invece di sfruttare al massimo la loro vittoria e distruggere le organizzazioni operaie. Ancora più brutali degli industriali furono gli agrari, che per tradizione secolare erano abituati a considerarsi padroni assoluti delle loro terre e a trattare i contadini come bestie da soma, senza nessun diritto civile e nessun senso di dignità umana. Anch'essi, non contenti di difendere la loro libertà e la loro proprietà, volevano vendicarsi dei servi che avevan sognato di diventare padroni. 'Vi rimetteremo a tirare l'aratro insieme ai buoi!' dicevano gli agrari di Cremona ai loro braccianti, e correvano ad iscriversi ai Fasci. Se il pericolo di una rivoluzione non era mai stato grande, era stata grande la paura, e questa durò per molto tempo dopo il 1920. La paura è cattiva consigliera. I militari di professione, che armarono e inquadrarono le squadre fasciste, introdussero nel movimento fascista la loro mentalità, e con essa quella ferocia metodica che prima del 1921 era sconosciuta alla lotta politica italiana. Furono le autorità militari che dettero ai fascisti una organizzazione fortemente gerarchica. Senza tale aiuto non si sarebbe mai realizzata la organizzazione armata delle forze fasciste, e il meccanismo del partito fascista non sarebbe stato essenzialmente diverso da quello di ogni altro partito italiano.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO. IL DRAGO ROSSO E LA CAMICIA NERA. Ogni volta che si verificava un conflitto tra datori di lavoro e lavoratori, ecco che comparivano 'squadre' di camicie nere, che assalivano i dirigenti sindacali, li bastonavano, li uccidevano, saccheggiavano le loro abitazioni, li costringevano a fuggire o a nascondersi, spezzando in tal modo la spina dorsale delle organizzazioni operaie. Membri del Parlamento, direttori di giornali, allo stesso modo dei dirigenti sindacali si trovarono a dover affrontare la stessa sorte. Tutte le organizzazioni operaie venivano definite 'bolsceviche' e soggette quindi ad aggressioni indiscriminate. Nella primavera del 1921, quella offensiva che dapprima si era rivolta soltanto contro i sindacati socialisti cominciò ad investire anche quei sindacati che erano sotto il controllo dei popolari. Contemporaneamente l'offensiva si estese dai sindacati alle cooperative di consumo. I bottegai, avevano aderito al partito fascista, portavano in esso il loro odio contro istituzioni che facevano loro concorrenza. Fu una 'controrivoluzione spietata nei confronti di una rivoluzione fallita' (1). Fu 'la più, dura, la più inesorabile, la più scientifica delle violenze' (2). Luigi Fabbri, che viveva a Bologna, uno dei centri più attivi del movimento fascista, dava nell'estate del 1921 la seguente descrizione dell'offensiva fascista: «Dove, come a Reggio Emilia e Modena, prevalevano le organizzazioni riformiste, si sono assalite queste; a Bologna e a Ferrara le organizzazioni massimaliste unitarie; a Treviso le .organizzazioni repubblicane; nel Bergamasco le organizzazioni cattoliche; a Carrara e nel Valdarno le organizzazioni anarchiche; a Piacenza, a Sestri e a Parma le organizzazioni sindacaliste, non escluse quelle già partigiane della guerra e con tendenze dannunziane; a Torino le organizzazioni comuniste; ed in qualche luogo, come a Padova, perfino degli organismi cooperativi del tutto apolitici e amministrati da uomini dell'ordine. La furia distruttrice non ha fatto distinzione fra i vari istituti; bastava fossero operai: leghe o camere del lavoro, uffici di collocamento o federazioni, biblioteche o giornali, cooperative di consumo di produzione, società operaie di M.S. o circoli di divertimento, caffè ed osterie o case private. (...) I pretesti addotti dai fascisti non hanno importanza, poiché variano da luogo a luogo. A Bologna e nel Reggiano vi dicono che bisogna sgominare i socialisti che, vigliacchi, non han saputo o voluto fare la rivoluzione. Al contrario a Carrara e nel Valdarno proclamano che è ora di finirla con gli anarchici, che minacciano nuove convulsioni ed impediscono le graduali conquiste. A Torino e Firenze declameranno contro il mito comunista russo, e a Roma o Milano contro il riformismo nittiano. E così via, trascurando in ogni località le fazioni di minoranza che, appunto perché minoranza - siano essi socialisti, anarchici, repubblicani o cattolici - non hanno altro che le idee da difendere e non rappresentano alcun interesse proletario concreto e contingente da colpire» (3). Nel corso dei due anni della loro 'tirannia' i 'bolscevichi' non devastarono neppure una volta l'ufficio di una associazione degli industriali, degli agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti conservatori; non bruciarono neppure "una" tipografia di un giornale; non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali atti di 'eroismo' furono introdotti nella vita italiana dagli 'antibolscevichi.' Inoltre va notato che mentre i delitti commessi dai 'bolscevichi' negli anni 1919-20 furono quasi sempre compiuti da folle eccitate, le 'eroiche' imprese degli 'antibolscevichi' troppo spesso furono preparate e condotte a sangue freddo da appartenenti a quei ceti benestanti, che hanno la pretesa di essere i custodi della civiltà (4).
Nell'estate del 1922, Luigi Fabbri così scriveva: «L'odio che i fascisti van seminando con le quotidiane bastonature, con le distruzioni delle sedi di organizzazioni, con gli incendi, con le devastazioni delle cooperative, con la violazione di tutte le libertà di riunione, di parola e di stampa: col rendere difficile e impossibile lo svolgersi della vita di partito o d'associazione in certe zone, con l'impedire sin lo svago serale normale agli operai, assalendoli nei caffè o nelle osterie od obbligandoli a rincasare per tempo, con la violazione del domicilio privato, eccetera eccetera, quest'odio che aumenta ogni giorno non ha modo di sfogarsi con mezzi relativamente incruenti e palesi, alla luce del sole. Rendere pan per focaccia è impossibile agli operai, perché per certe forme di rappresaglia occorrerebbe quella relativa impunità, nella libertà di muoversi, difendersi e assalire che ai fascisti è garantita dalla complicità o dalla tolleranza della forza pubblica. Oltre a questo gli operai han compreso che per essi il rischio è identico tanto se usano il bastone quanto quanto la rivoltella. In ogni caso, gli altri van subito agli estremi, e il pericolo di morte è uguale, alla più piccola resistenza. Essi sanno inoltre che, difendendosi con la violenza, saranno inevitabilmente arrestati. Eppoi agli operai mancano i mezzi di comunicazione, di trasporto, di rapido raccoglimento: e per lo più son presi alla sprovvista, o quando se ne vanno isolati per via, oppure quando se ne stanno pacificamente riuniti per i motivi più vari. Gli operai che van tutti a lavorare, e ne han bisogno, non possono lasciare in paese squadre permanenti di difesa. Le distruzioni avvengono o di giorno, quando tutti gli operai son fuori al lavoro, o a notte inoltrata, quando tutti sono a dormire. (...) E costoro (gli operai), spinti dalla loro passione e disperazione, agiscono come possono, contro i primi che capitano loro a tiro in condizioni di parità o d'inferiorità, dove meno è probabile l'intervento partigiano della forza pubblica. (...) Poiché la lotta, la difesa aperta è inibita e quasi impossibile, l'odio popolare sprigiona le sue esplosioni anche attraverso quei cosidetti 'agguati' di cui i giornali parlan con tanto lusso di particolari attribuendoli a comunisti o anarchici o arditi del popolo, mentre sono tutti senza alcun carattere di partito. Si noti del resto che la stampa partigiana dà spessissimo il nome di agguati a 'scontri' veri e propri su terreno aperto, ad atti di legittima e improvvisa difesa da parte di operai aggrediti e posti nell'assoluta necessità di colpire per non essere colpiti. Si è parlato di 'agguato' perfino nel caso di qualche fascista che, invaso con la forza un domicilio privato, dopo sfondato la porta, ha trovato nell'interno la morte per mano degli abitanti che si sono disperatamente difesi!» (5). Fabbri è un anarchico, e quindi espone i fatti in modo da gettare tutto il biasimo sui fascisti e scusare gli antifascisti. Ma ecco quanto scriveva un testimone oculare americano, che non è un anarchico, nel 1921: «In Italia la gente del popolo è ignorante, ha spirito di sopportazione e facilmente si fa tiranneggiare, ma non è vigliacca. Passato il primo momento di sorpresa, gli italiani avrebbero resistito con le loro forze contro i fascisti, se questi ultimi non fossero stati aiutati dalla polizia. Fu solo di fronte ai carabinieri e alle guardie regie, una volta che si furon resi conto della situazione, che essi si mostrarono del tutto impotenti. Allora cominciarono a usare l'arma di tutti gli oppressi senza speranza, l'assassinio» (6). Alle pagine 113, 115 di "The Awakening of Italy", Villari così descrive le imprese fasciste: «Armati di manganello o di revolver, i fascisti fanno il loro ingresso in città e paesi dove sia stato compiuto un delitto, arrestano gli assassini quando riescono a trovarli, li uccidono se oppongono resistenza, ed altrimenti li consegnano ai carabinieri. Se i
veri autori del fatto non vengono scoperti, si prendono i capi socialisti e comunisti del posto e si bastonano di santa ragione, e talvolta si dà fuoco alla "Camera del Lavoro" o ad altre sedi di organizzazioni rosse, o perlomeno si gettano per la strada registri e arredi, e si bruciano» (7). Non soltanto coloro che opponevano resistenza venivano uccisi, ma anche persone che non c'entravano affatto nel conflitto che era all'origine; i fascisti seguivano il metodo degli ostaggi, come truppe di occupazione in un paese nemico. Le Camere del lavoro e le altre organizzazioni dei lavoratori non venivano bruciate "talvolta" ma "sempre": lo scopo reale dell'offensiva, fosse o no provocata da precedenti incidenti tra fascisti e antifascisti, non era altro che la distruzione delle organizzazioni operaie, bruciandone i registri, devastando i locali di vendita delle cooperative, uccidendo o mettendo al bando gli organizzatori. E le sedi delle organizzazioni non erano i soli luoghi saccheggiati; molto spesso le abitazioni private dei capi socialisti, comunisti e popolari venivano bruciate e i loro proprietari uccisi, anche quando 'i veri autori del fatto,' preso a pretesto per le rappresaglie, erano stati scoperti. Ovunque si manifestava la pressione fascista, le organizzazioni operaie crollavano come castelli di carte. Contemporaneamente si venivano creando nuovi sindacati fascisti a cui era dato il nome di 'sindacati economici.' Il loro principale organizzatore era Edmondo Rossoni. Il bilancio di questi sindacati così come gli stipendi pagati ai loro funzionari rimanevano avvolti nel mistero. Non è affermazione troppo ardita dire che tali sindacati ricavavano la maggior parte dei loro fondi dai sussidi degli industriali, dei proprietari terrieri, dei negozianti e dei banchieri. Il primo di questi 'sindacati' sorse nel febbraio del 1921 nel paese di San Bartolomeo in Bosco, in provincia di Ferrara. Questi primi esemplari di sindacalismo fascista furono umoristicamente qualificati 'prigionieri di guerra.' Parlando di essi il 6 maggio del 1928, Mussolini ammise che 'un'aliquota di costoro non capivano bene dove andavano' (8). Da questo momento il movimento fascista acquistò un nuovo carattere. Sino all'autunno del 1920 campo di azione dei fascisti erano state le città, e la loro lotta contro comunisti e socialisti si era sviluppata su di un terreno politico. Adesso dalle città il movimento si diffondeva nelle campagne, e non si trattava più di un semplice movimento politico 'antibolscevico'; divenne anche un movimento economico contro tutte le organizzazioni operaie di qualsiasi partito. Tali organizzazioni furono tutte indiscriminatamente definite 'bolsceviche.' I leaders nazionalisti dettero istruzioni ai loro seguaci perché entrassero in massa nei Fasci, senza tuttavia abbandonare la tessera del partito nazionalista. Ciò che allora i nazionalisti pensavano del fascismo, e quali fossero i loro propositi nell'associarsi ad esso, fu affermato in modo chiaro nel febbraio del 1922, da uno di essi, Balbino Giuliano, che più tardi doveva diventare ministro della Pubblica Istruzione nel gabinetto Mussolini: «Il fascismo è nazionalismo non ancora ben compreso. (...) Il fascismo deve la sua popolarità non solo alla verità che contiene, ma anche ai difetti che ne attenuano la luce. Senza il loro verbalismo repubblicano, senza quel po' di ribellione a vuoto, senza le frasi vane contro la borghesia e i gesti di ribellione romantica avrebbe avuto l'impopolarità, che il nazionalismo appena ora comincia a vincere. E ora più che mai noi dobbiamo mantenere pura e intatta la nostra concezione nazionalista. Possiamo scendere in campo accanto ai Fasci ogni volta che i nostri programmi vengano a coincidere, e sia necessario difendere i capisaldi comuni, ma dobbiamo restare distinti, e continuare la nostra opera di chiarificazione dei partiti nazionali e del partito fascista in specie, senza accettare la responsabilità né dei difetti che hanno dato al
fascismo la sua grande popolarità né dei difetti che potrebbero togliergliela domani» (9). I leaders nazionalisti miravano ad assicurarsi il controllo del movimento, senza assumersi alcuna responsabilità diretta per le azioni di violenza che le bande fasciste andavano compiendo. Ufficialmente essi non erano fascisti; ma in realtà tiravano i fili dietro le quinte d'accordo con i grossi uomini d'affari e con i capi dell'esercito. Non è facile calcolare quanti fascisti vi fossero in Italia alla fine del 1920. L'8 novembre del 1921 il giornale di Mussolini affermava che nel maggio del 1920 i fascisti erano 30000. Ma in un discorso del 9 marzo 1924, Mussolini affermò che in data 31 dicembre 1920 essi erano 20615. Nel 1932, i dati statistici ufficiali forniti dall'ufficio amministrativo del partito fascista davano la cifra di 60000 iscritti al dicembre 1920. Cercare di conoscere la verità in questo marasma di affermazioni contrastanti è una impresa disperata. Tuttavia una cosa è chiara: che anche se si accetta per vera la cifra di 60000, tale forza rappresenta una forza ridicola a confronto dei 2.150.000 iscritti ai sindacati controllati dai socialisti, e di 1.200.000 iscritti ai sindacati controllati dal partito popolare. Come era possibile che in pochi mesi 60000 uomini riducessero a un mucchio di rovine una organizzazione di oltre tre milioni di uomini? Gli storici fascisti trovano subito una risposta pronta: i fascisti, dicono, erano tutti eroi, i socialisti e i popolari tutti vigliacchi. Fu per merito di puro eroismo che le forze della civiltà fascista sopraffecero le potenze della tenebra 'bolscevica.' Un giornalista inglese descrisse le gesta fasciste allo stesso modo di come un poeta medievale avrebbe cantato in una "chanson de geste" le imprese dei cavalieri erranti: «Uno scrittore del Medioevo narrerebbe la storia di questo risveglio con delicate immagini, dato che essa contiene tutti gli elementi di una impresa epica. Abbiamo un prode cavaliere che da solo, deriso dai nemici e commiserato da pavidi amici, se ne parte per combattere un drago rosso la cui forza e la cui mole vanno sempre più aumentando. Tutto il paese è in pericolo. La lotta è lunga e dolorosa, e a momenti il drago sembra prossimo a vincere. Ma poco alla volta la schiera dei seguaci del cavaliere si ingrossa, e quando il popolo vede che la sua salvezza è possibile, tutti accorrono sotto le sue bandiere. E così il drago è ucciso, e il prode cavaliere - che non era se non il figlio di un fabbro di villaggio - diventa il primo ministro del re» (10). Non c'è niente che faccia tanta presa sulle facoltà immaginative della gente come una semplificazione della storia del genere di questa, e una personificazione di principî e forze in guerra tra di loro per contendersi il destino di una nazione e, forse, dell'intero genere umano. Si creano in tal modo dei miti che né le fatiche degli storici, né l'analisi di prove documentarie riusciranno mai a distruggere. Tuttavia, vediamo in che modo la Camicia Nera operò per condurre a morte il Drago Rosso. In un paesino due camicie nere entrarono nei locali dove sono riuniti cinquanta operai; spianano contro di essi le rivoltelle gridando 'mani in alto,' e quindi ordinano che si alzino in piedi e lascino i locali due alla volta. Mentre gli operai eseguiscono quanto è stato loro ordinato, i fascisti, che sono appostati all'ingresso, si buttano su di loro e li bastonano. I cinquanta operai non oppongono resistenza alcuna. Da una parte due eroi, dall'altra cinquanta vigliacchi. La faccenda non è affatto così semplice. I cinquanta vigliacchi, che obbediscono alle intimazioni dei due eroi, sono disarmati, e i due eroi lo sanno bene, dato che in precedenza gli operai hanno subito perquisizioni della polizia, e portare delle armi significherebbe esser passibili di arresto. Inoltre i cinquanta vigliacchi sanno bene che se essi fanno obiezioni e disobbediscono, i due eroi non esiteranno a sparare. I cinquanta vigliacchi sanno per aggiunta che il rumore di spari farebbe giungere sul luogo la polizia, la quale procederebbe all'arresto non
degli eroi armati, ma dei vigliacchi disarmati. E ciò che più di tutto conta, i cinquanta vigliacchi sanno che se per caso una camicia nera rimane uccisa in un conflitto, il direttorio fascista della zona ne sarà subito informato telefonicamente; poche ore più tardi centinaia di fascisti convocati per telefono, dalle località circostanti arriveranno in camion sul posto, saccheggeranno le loro case e quelle dei loro vicini, bruceranno i loro arredi, bastoneranno indiscriminatamente vecchi donne e bambini; e questa volta la polizia non si farà vedere sino a cose fatte, e anche allora arresterà sotto l'accusa di omicidio gli uomini che hanno agito per legittima difesa. Questa è la realtà delle cose. Davanti a tale quadro tutti dovranno riconoscere che tra i due uomini armati e i cinquanta uomini disarmati non ci sono né eroi né vigliacchi: ci sono soltanto due delinquenti. Non è assolutamente mia intenzione capovolgere la leggenda fascista in modo da far apparire i fascisti come tutti vigliacchi. Senza dubbio tra di loro vi furono uomini di coraggio, specialmente tra i più giovani, uomini pronti a dare la vita per il loro ideale. Nel 1919 e 1920, e nei primi del 1921, cioè prima che le organizzazioni socialiste e popolari venissero completamente devastate e smantellate, chi era fascista doveva possedere una non comune dose di coraggio. Doveva prepararsi a essere impopolare. Correva il rischio di venir ferito o ucciso; un rischio non così grave come vorrebbe farci credere la 'propaganda' fascista, ma un rischio abbastanza reale da raffreddare gli ardori di un uomo comune. L'anarchico Luigi Fabbri, che ho già citato, così scriveva nell'estate del 1921: «Né gli aiuti morali, materiali e finanziari del capitalismo industriale e terriero, né la complicità della forza pubblica, né l'adesione di tutti i supini adoratori del successo avrebbe bastato a far forte il fascismo; anzi tutti cotesti coefficienti sarebbero mancati, se non vi fosse stato all'inizio un nucleo di persone dotate di forza di volontà e di spirito di sacrificio che a proprio rischio avessero per primi spezzato il ghiaccio della indifferenza degli amici e della ostile noncuranza nemica; se - odio od amor che fosse - una forza morale interiore non li avesse scaraventati nella mischia noncuranti anche della vita. Ed alcuni vi hanno trovata la morte. Questi pochi, animatori dei molti, misero in movimento tutto l'insieme che ora appare così forte; e furono i più oscuri» (11). Siamo persino pronti ad ammettere ché la reazione 'antibolscevica' era naturale, e che avrebbe potuto essere utile agli stessi operai e contadini. Per due anni essi non si erano trovati di fronte altro che la paura e la vigliaccheria delle classi abbienti, e avevano perduto ogni senso della misura. Erano diventati come bambini viziati, e i loro stessi capi non erano spesso capaci di controllarli. Una resistenza virile da parte delle forze conservatrici li avrebbe costretti a considerare con maggiore equilibrio le loro capacità e le loro responsabilità. Foraggiando i fascisti, gli industriali, i proprietari terrieri e i banchieri non compivano nessuna azione che esorbitasse dai loro diritti. Il capitale, come il lavoro, è una forza sociale, ed era naturale che i capitalisti fornissero fondi alle loro 'guardie bianche,' così come gli operai e i contadini contribuivano a mantenere i loro propagandisti e i loro organizzatori. Persino gli atti di violenza commessi dai fascisti nei primissimi mesi della loro controffensiva possono considerarsi con una certa indulgenza. Dato che polizia e magistratura erano impotenti nella difesa dei privati cittadini contro la forza preponderante dei sindacati e del loro arbitrio, era ben giustificato che tali cittadini cercassero di difendersi per mezzo di metodi illegali. Ma quando si sia riconosciuto tutto questo rimane il fatto che, specialmente a partire dai primi del 1921, parlare di un fascista ucciso o ferito nel corso della guerra civile come di un 'eroe' o di un 'martire,' nella maggioranza dei casi è tanto assurdo quanto
usare questi termini per un bandito, che rimanga inaspettatamente ucciso da una delle sue supposte vittime. Senza dubbio per fare il bandito ci vuole del coraggio, ma tale coraggio non va confuso con l'eroismo. La verità è che sia da una parte che dall'altra vi furono aggressori e aggrediti, assassini e vittime, imboscate ed assalti su terreno aperto, atti di coraggio e di tradimento; ma i fascisti, sostenuti economicamente da industriali, proprietari terrieri e commercianti, e politicamente da polizia, magistratura e autorità militari, godettero di una forza schiacciante. Per chiarire questo punto, consideriamo un autentico episodio di questa terribile guerra civile, che, secondo le parole del Dr. Nicholas Murray Butler, presidente della Columbia University, è stata definita 'una rivoluzione silenziosa e senza spargimenti di sangue' (12). A Foiano della Chiana, come in molti altri comuni, le elezioni amministrative erano state vinte dai socialisti. Ai primi di aprile del 1921, il sindaco socialista ricevette una lettera dal marchese Perrone Compagni, segretario politico dei Fasci della Toscana, con la quale si invitava il sindaco e i consiglieri comunali a dimettersi entro la fine della settimana, se non volevano esporre se stessi e le loro famiglie alle rappresaglie fasciste (13). Il sindaco e i consiglieri non obbedirono. Il 12 aprile 1921, più di duecento fascisti, arrivati in camion da Arezzo, Firenze e altre località poste lungo la strada, si concentrarono per fare una 'spedizione di propaganda' nel paese; il che significa che saccheggiarono il municipio, la Camera del lavoro e i locali della lega contadini, gettando i mobili nella strada e appiccando loro il fuoco. Poi si impadronirono dei locali della cooperativa distribuendone le merci a chi capitava e bruciando quanto era rimasto. Il 17 aprile si preparò una seconda 'spedizione di propaganda.' Questa volta c'erano appena venti fascisti in un solo camion. Dopo avere sequestrato la bandiera rossa che i 'comunisti' di solito esponevano sul municipio al posto della bandiera nazionale, la bruciarono insieme ai registri del circolo socialista, e si apprestarono poi a raggiungere il vicino villaggio di Marciano per un altro 'giro di propaganda.' Sulla via del ritorno, diversi fascisti si fermarono a Foiano per formarvi il Fascio locale, mentre gli altri procedettero in camion verso Arezzo. Poco fuori di Foiano, un gruppo di circa cinquanta contadini, armati di fucili, falci, accette e pistole erano in attesa dietro una siepe. Il camion fu accolto con una scarica di proiettili. L'autista cadde ferito, e il camion sbandò e andò a sbattere contro un albero. Mentre i fascisti venivano scaraventati a terra, i contadini in agguato saltarono fuori andandogli contro. L'autista ebbe la testa staccata da un colpo di accetta. Due fascisti furono uccisi, e un terzo ebbe tre dita mozzate da un colpo di roncola. Gli altri riuscirono a fuggire. Al rumore degli spari, i carabinieri, che erano rimasti sino allora inattivi, si risvegliarono precipitandosi fuori del paese insieme a quei fascisti che erano rimasti. A loro volta i contadini, vedendo sopraggiungere i carabinieri, si dettero alla fuga. Da questo momento cominciarono le rappresaglie. Le case coloniche vicino al luogo dove era avvenuto l'agguato furono incendiate. Un contadino scoperto in una soffitta, tale Burri, fu ucciso con un colpo di pistola alla testa. Il giorno dopo le rappresaglie continuarono su più larga scala. Cinque camions carichi di fascisti lasciarono Firenze nelle prime ore del mattino. Altri camions da Arezzo e da altre città dei dintorni concentrarono i fascisti a Foiano. Come al solito, le autorità lasciarono ai fascisti mano libera. I 'comunisti' più in vista di Foiano avevano già abbandonato le loro case. I fascisti si dettero a saccheggiare, devastare e incendiare le abitazioni private. Un operaio, Cino Milani, che non aveva pensato a scappare, fu trascinato in mezzo alla piazza: gli fu chiesto di promettere che si sarebbe dimesso dal partito socialista; rifiutò. Gli fu chiesto di dichiarare che deplorava l'imboscata del giorno prima: rifiutò di nuovo. Gli spararono e rimase ucciso. Un contadino, tale
Gherardi, colpevole di essere il fratello di un 'comunista,' fu colpito da uno sparo e ucciso mentre cercava di fuggire. I fascisti di Arezzo avevano portato con loro a Foiano come prigioniero un socialista, ex-deputato, Bernardini, direttore del giornale socialista di Arezzo. Sotto minaccia di morte, il prigioniero fu obbligato a pronunciare dal balcone di una casa un discorso contro le 'violenze socialiste,' mentre nella strada di sotto una folla di fascisti schiamazzava e fischiava. Grazie a questo atto di vigliaccheria, che disonora i suoi carcerieri non meno di lui, gli fu risparmiata la vita. Quando si furono stancati di tormentare la popolazione di Foiano, i fascisti ritornarono sul luogo dell'agguato del giorno prima. Venne ferito gravemente il contadino Caciolli; due altri contadini, feriti mentre fuggivano, non furono ritrovati; probabilmente le loro ferite non erano gravi ed essi riuscirono a nascondersi. Ma tutto questo non bastava. Nella notte, verso la una, i fascisti ritornarono sul luogo; saccheggiarono una per una le case coloniche, terrorizzando donne, bambini e vecchi, e riducendo altre case a un mucchio di rovine fumanti. Una donna, Luisa Bracciali, che era accusata di aver ferito un fascista con un forcone durante l'agguato, fu trovata in casa e uccisa a revolverate. Il contadino Nocciolini fu ucciso mentre cercava di scappare. Un altro contadino, Alfredo Rampi, sentendo dire che i fascisti erano sulle sue tracce, si uccise. Le operazioni continuarono anche per tutto il giorno dopo, 19 aprile. La casa del sindaco Nucci, che era fuggito, fu invasa e incendiata. Il circolo comunista di Bettolle fu saccheggiato e bruciato. Da ultimo i fascisti riunirono in modo 'spontaneo' un gruppo di contadini, ne presero i nomi e dichiararono fondato il Fascio di Foiano. In tal modo, dopo avere convertito i 'comunisti' di Foiano alla 'fede nazionale,' i fascisti, gloriosi e trionfanti, abbandonarono il teatro della loro vittoria. Non occorre dire che le autorità civili e militari si fecero notare per la loro assenza. Esse erano occupate a 'scovare i comunisti' che si erano nascosti nella campagna intorno a Foiano. I colpevoli della 'imboscata,' che non furono uccisi durante le rappresaglie, furono condannati, quattro a trent'anni di carcere, tre a venticinque anni, due a vent'anni, sei a dieci anni, e tre a pene dai sette ai dieci anni (14). Nessuno dei fascisti che presero parte alle operazioni descritte ebbe a subire alcunché di nulla (15). Ci sono due fatti fondamentali che si devono tenere presenti se si vuole comprendere la vittoria fascista. Il primo è che il movimento fascista - non il movimento scarsamente organizzato, ultrarivoluzionario e poco efficiente del 1919-20, ma il movimento antisindacale, ben organizzato e del tutto efficiente del 1921 - cominciò a svilupparsi proprio mentre nel paese l'agitazione del dopoguerra cominciava a venire meno. Verso la fine del 1920 il peggio della crisi del dopoguerra era passato (16). Via via che gli effetti del contraccolpo della guerra si andavano attenuando, il popolo italiano si avviava a guarigione dopo la 'nevrastenia del dopoguerra.' Ma le autorità militari con l'armare i fascisti, la polizia e la magistratura assicurando loro l'impunità, impedirono al popolo italiano di ritrovare per processo spontaneo la via della salvezza. Esso non fu pacificato per mezzo della ragione; esso fu sottoposto al ferro e al fuoco. Il fascismo non significò affatto la medicina contro la malattia bolscevica; esso fu una nuova ed ancor più terrificante malattia - la guerra civile - che si sostituì alla esaltazione rivoluzionaria, quando questa volgeva già al tramonto; o era piuttosto una fase nuova ed ancor più terrificante di quella stessa malattia di cui, più o meno, soffrivano tutti i paesi: la nevrastenia del dopoguerra. Il secondo fatto è anche più essenziale per spiegare la vittoria fascista. Le autorità militari, la polizia e la magistratura non interferirono mai nelle attività fasciste, ma le aiutarono e le favorirono. Se non si considera tale circostanza, la vittoria fascista appare un tale mistero, degno di diventare oggetto di un racconto del mistero, più che di un libro di storia. Ogni volta che viene sollevata la questione se un movimento fascista sarebbe possibile o desiderabile in altri paesi, si continua a confondere il fascismo con un movimento conservatore. Perché un movimento conservatore diventi
un movimento fascista occorrono due condizioni. In primo luogo che i conservatori si mettano sulla via della illegalità e dello spargimento di sangue. In secondo luogo, dovrebbero poter trovare un numero sufficiente di alte autorità militari, di esponenti della polizia e della magistratura, che abbian del tutto perduto il senso del diritto e dell'onore, e siano disposti ad impiegare in favore delle classi agiate contro le classi lavoratrici quella potestà imparziale che la legge ha affidato loro. Sinché non esistano queste due condizioni, parlare di fascismo per qualsiasi movimento conservatore è cosa priva di senso. Quando ci si domanda che cosa avrebbero potuto fare, nella prima metà del 1921, socialisti di destra, massimalisti, comunisti e anarchici per resistere all'impeto fascista, bisogna tenere in conto il fatto che tutte le vie legali per ottenere giustizia erano bloccate dal comportamento proditorio della polizia, della magistratura e delle autorità militari. Mentre i massimalisti, i comunisti e gli anarchici rimanevano in attesa che il loro 'proletariato rivoluzionario' si prendesse la rivincita, i socialisti di destra esigevano che il governo imponesse di fronte a tutti il rispetto della legge. Ma, insieme ai massimalisti, essi appartenevano a un partito il cui esecutivo nazionale invocava, anche se soltanto a parole, la rivoluzione sociale, e considerava come nemico qualsiasi governo 'borghese,' anche se imponeva di fronte a tutti il rispetto della legge. Se un ministro degli Interni avesse fatto quanto chiedevano i socialisti di destra, si sarebbe trovato tra due fuochi: da una parte i reazionari, dall'altra i socialisti. Fintanto che non rompeva i ponti con i massimalisti, i socialisti di destra non contavano niente nel giuoco parlamentare di dare e avere. Non rimaneva nessun'altra strada che quella di opporsi con la forza alla forza. Gli anarchici seguivano tale linea di condotta e gettavano bombe. Tale metodo si dimostrò completamente rovinoso. Rimanevano uccise o ferite persone del pubblico che non c'entravano affatto, e qualche volta donne e bambini. Tali fatti sollevavano una generale indignazione. I fascisti, dal canto loro, applicavano feroci azioni di rappresaglia contro persone che non avevano la minima responsabilità degli attentati, e in tal modo diventava sempre più acuto il senso di terrore che paralizzava i lavoratori. Due esperienze avrebbero dovuto aprire gli occhi a tutti. A Firenze (17), la mattina della domenica 27 febbraio 1921, un gruppo di circa 100 studenti, maschi e femmine, dell'università e delle scuole medie, stava attraversando alcune strade cittadine, affiancato da circa sessanta carabinieri, cantando inni patriottici dopo aver preso parte alla cerimonia di inaugurazione di una bandiera. In cima a Via Tornabuoni, due uomini stavano aspettando il passaggio del corteo da una stradina laterale. Uno di essi sparò contro il corteo cinque o sei revolverate; l'altro gettò una bomba in mezzo al gruppo. Un carabiniere rimase ucciso sul colpo, e furono più o meno gravemente ferite sedici persone, una delle quali, uno studente universitario, morì alcuni giorni più tardi. La salma del carabiniere ucciso venne posta in una ambulanza, e condotta all'ospedale insieme agli altri feriti, e al passaggio del veicolo veniva chiesto ai passanti di togliersi il cappello. In Piazza del Duomo, un ferroviere, che del tutto all'oscuro di quanto era successo camminava leggendo un giornale e non si era quindi levato il cappello, fu ucciso con un colpo di moschetto da uno dei carabinieri di scorta alla salma del compagno, e che si trovava 'in uno stato di grande eccitazione' (18). Poco tempo dopo questi episodi imprevisti, entrarono in scena i fascisti, mentre autoblinde, carabinieri, guardie regie, soldati pattugliavano le strade e occupavano la Camera del lavoro per impedire ogni riunione di lavoratori. Nel pomeriggio, una squadra di fascisti si presentò alla sede della associazione comunista invalidi di guerra, dove si trovava soltanto il segretario dell'associazione, Spartaco Lavagnini, ferroviere comunista e consigliere comunale. I componenti della squadra rimasero in parte appostati nella strada, mentre quattro di loro entravano dentro, sparavano contro il Lavagnini e lo uccidevano. Quindi si davano al saccheggio dei locali stessi,
senza il minimo intervento da parte della polizia, la cui azione si limitava ad arrestare in massa i 'rivoluzionari.' Per protesta contro l'uccisione di Lavagnini e contro le autorità, che sistematicamente lasciavano impuniti delitti di questo genere, la sera stessa i ferrovieri proclamavano lo sciopero immediato in tutto il compartimento. Tranvieri, tipografi dei giornali cittadini e dipendenti della società elettrica seguirono il loro esempio. Al centro e alla periferia si ebbero numerosi conflitti tra fascisti e operai, e durante la notte furono tagliati i fili delle linee telefoniche e telegrafiche. Il lunedì 28 febbraio, lo sciopero si estese a tutte le categorie di lavoratori. Da parte loro, i fascisti emisero un proclama, in cui si invitava la popolazione a insorgere contro il terrore rosso. Il prefetto proibì tutte le riunioni e i cortei, e perfino la circolazione di autoveicoli; ma in realtà i fascisti ebbero la più assoluta mano libera per dare la caccia nelle strade agli operai, e specialmente ai ferrovieri. La loro prima offensiva contro il popolare quartiere di S. Frediano fu un fiasco. I lavoratori e le loro donne avevano messo a soqquadro il selciato delle strade ed eretto barricate per impedire l'ingresso degli autocarri armati. Contro chiunque tentava di entrare in quel dedalo di strade, si sparava, si gettavan tegoli e arredi dalle finestre delle case. Nel pomeriggio, i fascisti fecero ritorno accompagnati da un pattuglione di guardie regie, da un battaglione di fanteria, da numerosi carabinieri e da due autoblinde. Tutte le vie di uscita del quartiere furono bloccate. Le autoblinde si aprirono a forza un valico tra le barricate stradali, sparando contro le finestre e costringendo la popolazione a rinchiudersi nelle case. Vinta la resistenza strada per strada, i fascisti e la polizia invasero le case, e dettero sfogo alla loro furia. Centinaia di uomini e di donne a caso furono feriti. Il resoconto ufficiale parla di tre operai uccisi e di cinquanta feriti. Qua e là, in altre parti della città, si ebbero numerosi altri scontri isolati. «All'imboccatura di Via Lamarmora - scrive il corrispondente filofascista del "Corriere della Sera" il 1 marzo 1921 - (un gruppo di fascisti) furono fischiati da alcuni individui che, allorquando i fascisti fecero dietro front, si diedero alla fuga, verso Piazza Cavour. Parve ai fascisti che uno di essi si fosse rifugiato nella bottega di certo Angelico Bonini, detto Angiolino. Vi entrarono, e spararono colpi di rivoltella, ferendo gravemente il Bonini stesso. Certo Donatello Sanesi, di anni 33, (...) che atterrito dagli spari correva sotto il loggiato della piazza, fu colpito da un proiettile che l'uccise sull'istante.» Verso sera, un ragazzo di sedici anni, Giovanni Berta, figlio di un noto industriale, e che 'portava all'occhiello il distintivo dei fascisti' (19), cercò di passare in bicicletta in mezzo a un gruppo di operai riuniti in un ponte sull'Arno (20). Questi, infuriati di quanto accadeva in quei giorni, irritati dal distintivo fascista e credendo che il ragazzo fosse un ciclista in servizio per il Fascio, lo circondarono, e dopo averlo ferito a pugnalate lo gettarono nel fiume. In un quartiere periferico una guardia regia, durante la notte, fu brutalmente uccisa da un gruppo di persone. Lo sciopero continuò sino al giorno dopo, 1 marzo. Le operazioni di polizia, dal quartiere di S. Frediano, furono spostate ad un altro quartiere popolare, S. Croce. Nel pomeriggio, una squadra di fascisti devastò i locali della Camera del lavoro, lasciati alla loro mercé dalla polizia, che li aveva occupati nei due giorni precedenti. Un'altra squadra invadeva e saccheggiava la sede del sindacato metallurgici. Alla periferia, con il concorso dell'artiglieria, la polizia stroncava ogni segno di protesta e di rivolta, mentre ovunque i fascisti continuavano la loro opera di devastazione e di incendio contro le sedi delle organizzazioni operaie. Verso il pomeriggio una certa calma fu ristabilita a Firenze.
Secondo un resoconto ufficiale, i morti, durante quei giorni, furono sedici, i feriti 100. Tra i morti vi erano due fascisti e quattro appartenenti ai corpi di polizia. Il numero effettivo di morti e feriti di parte operaia, probabilmente, fu molto più alto di quanto non appaia nel resoconto ufficiale. Lo stesso pomeriggio del 1 marzo, a un'ora di treno da Firenze, avvenne uno spaventoso eccidio. Il governo aveva inviato da Livorno a Firenze due camions con 45 marinai e 14 carabinieri per sostituire gli scioperanti. Per non essere notati lungo la strada, i marinai non erano in divisa. Ma i camions furono notati da un tale, che credendo trasportassero fascisti e carabinieri, telefonò a Empoli, dicendo che era per la strada una 'spedizione punitiva.' Dato che i fascisti di Firenze, Livorno e Pisa avevano più di una volta minacciato una spedizione punitiva contro la Camera del lavoro di Empoli, questa notizia provocò un grande assembramento di folla già eccitata dalle notizie di Firenze (21). Appena i due camions giunsero nella piazza del mercato, furono circondati da tutte le parti: nove uomini furono uccisi e dieci feriti più o meno gravemente. Diverse salme furono gettate nel fiume. Nei giorni seguenti, sia la città che i dintorni di Empoli furono oggetto di atroci rappresaglie. I fascisti convennero a Empoli da tutta la provincia, devastarono la Camera del lavoro e molti negozi, mentre la polizia arrestava 218 persone. Tre camions di fascisti, seguiti da un'autoblinda, scorrazzarono per tutta la zona, devastando le sedi sindacali e le abitazioni dei socialisti conosciuti. Ogniqualvolta veniva incontrata resistenza, interveniva l'autoblinda. A Siena, fascisti e polizia attaccarono la Camera del lavoro. Per un'ora i lavoratori opposero resistenza, ma quando entrò in azione l'artiglieria sparando otto granate contro la porta d'ingresso, gli assediati si arresero. Tra essi, dieci avevano riportato ferite più o meno gravi, che in due casi furono mortali. La Camera del lavoro fu devastata e data alle fiamme. A Firenze, il 2 marzo, gli uomini cominciarono pian piano a far ritorno al lavoro. A Scandicci, un paesino dei dintorni, i contadini attaccarono un camion di carabinieri lanciando delle bombe, e barricarono il ponte all'ingresso del paese. Una colonna di artigliera con mezzi corazzati e pezzi da campagna soffocò la rivolta. Come al solito, dopo che l'ordine era stato ristabilito, fece il suo arrivo una spedizione punitiva di fascisti fiorentini, distruggendo le sedi delle organizzazioni operaie del paese. «Questa sera - scrive il corrispondente del "Corriere della Sera", la notte del 2 marzo 1921 - verso le 18 le vie principali di Firenze sono state attraversate da alcuni pezzi dell'artiglieria che aveva operato a Scandicci. Fra gli applausi della cittadinanza si è quindi formato un corteo importantissimo di cui facevano parte tre "camions" carichi di bersaglieri, soldati di fanteria e fascisti reduci da Scandicci. Tutti cantavano inni patriottici e sventolavano grandi bandiere tricolori, mentre dalle finestre si gettavano sul corteo fiori. I soldati e i fascisti portavano come trofei bandiere rosse e altri emblemi sovversivi asportati dalla sede della Società di mutuo soccorso di Scandicci. La dimostrazione, che non è stata turbata da alcun incidente, si è sciolta all'Associazione dei combattenti.» Coloro ritenuti colpevoli di aver gettato le bombe e di altre violenze ebbero condanne severissime; tre furono condannati a trent'anni, due a ventuno, uno a diciassette, sette a pene varianti da due a dodici anni. Due, che erano riusciti a scappare, furono condannati all'ergastolo (22). Gli uccisori di Berta furono condannati a pene detentive varianti da dieci a diciotto anni. Per i fatti di Empoli diciotto persone furono condannate a pene detentive dai venti ai trenta anni; trentadue a pene dai quattordici ai diciassette anni; trenta a pene da cinque a dodici anni. Condanne analoghe si ebbero per tutti gli altri reati. Ma nessun fascista fu mai condannato per l'assassinio di Lavagnini, di Bonini, di Sanesi, per le distruzioni, le rappresaglie,, gli altri innumerevoli atti di violenza commessi in quei giorni.
Poche settimane dopo un altro attentato dinamitardo ancor più vile recò conseguenze ancor più rovinose. Il 17 ottobre erano stati arrestati Malatesta ed altri anarchici, ma il giorno del processo non arrivava mai. Il governo voleva tenerli dentro il più a lungo possibile, e il pubblico ministero e il giudice istruttore facevano del loro meglio per soddisfare il governo. Per protesta contro questo ingiusto trattamento, Malatesta e i suoi amici iniziarono uno sciopero della fame. Che il modo come venivano trattati fosse ingiusto, era una cosa tanto ovvia che la stampa democratica iniziò una campagna in loro favore (23). Alla sera del 23 marzo tre anarchici gettavano una bomba al teatro Diana provocando la morte di venti persone e il ferimento di duecento, compresi donne e bambini (23 bis). Contemporaneamente, un gruppo di altri anarchici avvicinatosi all'edificio del quotidiano socialista "Avanti!" cercava di gettarvi contro alcune bombe, per protestare contro l'indifferenza manifestata dai socialisti verso il modo come venivano trattati Malatesta e gli altri anarchici che erano in prigione. Mezz'ora dopo i fascisti appiccavano il fuoco ai locali del giornale anarchico "Umanità Nuova" distruggendoli, devastavano la sede centrale della Unione sindacale italiana, che era retta da sindacalisti rivoluzionari e anarchici, la casa dell'anarchico Molinari, e un circolo socialista, che nulla aveva a che fare con gli anarchici, e cercavano inoltre di attaccare con bombe a mano i locali dell'"Avanti!", che per la seconda volta nella stessa notte correvano il rischio di essere devastati, prima dagli anarchici, poi dai fascisti. Ma questa volta la polizia protesse il giornale. L'indignazione per la bomba al teatro Diana fu enorme. Borghi, che era in prigione insieme a Malatesta, scrive: «In 24 ore tutta la situazione sembrò capovolta a nostro danno. Ognuno che avesse speso una parola per noi si sentiva in pericolo. Il terrore a Milano toccò lo zenit. La prudenza e la caccia all'anarchico obbligarono al largo tutti i migliori» (24). Malatesta e gli altri che erano in prigione si resero conto che il movimento di protesta era fallito, e desistettero dal proseguimento del loro sciopero della fame (25). Le bombe al teatro Diana vennero a partire da questo momento rinfacciate in continuazione a tutti i 'bolscevichi.' I massimalisti e i comunisti condannarono la pratica del gettare bombe, e reagirono contro la violenza fascista proclamando scioperi generali. Gli scioperi non erano affatto più efficaci delle bombe. Uno sciopero generale, se non significa l'inizio di una concreta insurrezione rivoluzionaria, è destinato a morir di morte naturale. Una insurrezione rivoluzionaria non c'era stata nel 1919 e 1920. Era pura follia pensare che avrebbe potuto aver luogo nel 1921. Quando si verificava uno sciopero generale, i fascisti, per rappresaglia, moltiplicavano le azioni di violenza contro i dirigenti politici e sindacali, e dopo uno, due o tre giorni, uno per uno i lavoratori riprendevano il lavoro, più scoraggiati che mai. Molte volte, abbandonati a se stessi, i lavoratori venivano a conflitto con i fascisti. Un certo numero di fascisti - circa 300 nel 1921 e 1922 - caddero in scontri aperti o vittime di imboscate. Ma il risultato di questi scontri erano nuove spedizioni punitive e nuove rappresaglie. Circa tremila persone persero la vita per mano fascista durante i due anni di guerra civile. Forse per mettere fine alla lotta vi sarebbe stato un solo sistema efficace: quello di opporre al terrorismo fascista una terrorismo metodico e intelligente. I fascisti concentravano la loro violenza specialmente contro i leaders degli organismi locali: segretari sindacali, dirigenti di cooperative, sindaci, consiglieri comunali, direttori di giornale, e altre persone che godevano di prestigio tra i lavoratori. 'Colpisci il pastore e il gregge verrà disperso.' Il delitto di tenere il paese in una terrificante condizione di guerra civile non trovava punizione, perché coloro che avrebbero avuto il dovere di punire ne erano i maggiori responsabili. Viceversa le violenze commesse da anarchici,
comunisti, socialisti o popolari venivano immediatamente soffocate senza pietà. I socialisti avrebbero potuto imitare i fascisti e fare delle rappresaglie non contro i pesci piccini, che componevano le squadre, ma contro i pezzi grossi e contro gli alti funzionari militari e civili, che erano i soli davvero responsabili dell'illegalismo fascista: Mussolini, poi il presidente del Consiglio Giolitti, poi il ministro della Giustizia, e ancora un paio di generali e un paio di magistrati. Se coloro che erano direttamente responsabili della guerra civile avessero pagato personalmente, è probabile che i rimanenti si sarebbero affrettati a dare gli ordini necessari alla polizia e alla magistratura perché venisse soppresso l'illegalismo fascista. Una dozzina di antifascisti che avessero intelligentemente dato la loro vita, avrebbero salvato molte centinaia di altre vite e avrebbero posto fine alla guerra civile. In quegli anni tale idea non venne a nessuno in Italia. Se fosse venuta in mente a qualcuno, con tutta probabilità sarebbe stata rigettata con orrore. La vittoria arrise a coloro che non erano ostacolati da scrupoli morali.
CAPITOLO VENTESIMO. LA CONGIURA MILITARE. Mentre l''illegalismo autorizzato' faceva sì che nel paese scorresse il sangue, Giolitti scioglieva la Camera, fissava le nuove elezioni per il 15 maggio 1921, e rimaneva in attesa che le squadre fasciste riducessero il numero dei deputati popolari, socialisti e comunisti. Le elezioni si svolsero in un clima di guerra civile. Soltanto nel giorno delle elezioni vi furono nelle diverse parti del paese quaranta morti e settanta feriti (1). Giolitti aveva fatto i conti senza l'oste. Aveva 82 anni, ed era sempre riuscito a manipolare le elezioni felicemente. Ma alla sua età non si poteva render conto che quei metodi che erano stati efficaci col sistema uninominale, erano inadeguati di fronte alla proporzionale. Con questo nuovo sistema egli doveva fare i conti con centinaia di migliaia di elettori, in centinaia di città, paesi e villaggi. Egli non sapeva dove battere per trasformare le minoranze in maggioranze e viceversa. Le squadre fasciste potevano sopprimere qualche migliaio di voti da una parte, e rubarne qualche migliaio da un'altra, ma il grosso della forza avversaria non poteva venir soppresso così facilmente come si era fatto ai tempi felici del sistema uninominale. Giolitti continuava a ripetere: 'Con questa maledetta proporzionale non so come fare.' D'altra parte, sotto l'imperversare della violenza fascista, comunisti e socialisti dimenticarono le loro dispute decisi soltanto a contenere la irruenza fascista. Il popolo italiano non aveva mai capito i motivi di diverbio tra socialisti e comunisti, e ovunque i voti vennero dati non alla lista di un partito, ma a quei candidati che più violentemente venivano attaccati dai fascisti o che mostravano il maggiore coraggio nell'opporsi ad essi. Molti cittadini estranei alla vita politica e che nel 1920 erano disgustati dai socialisti, questa volta votarono la lista socialista per protesta contro i fascisti, dando il loro voto di preferenza ai socialisti di destra. Anche i popolari furono favoriti dalla violenza fascista, di cui erano ugualmente vittime. Il corpo elettorale rimandò alla Camera 122 socialisti e 107 popolari. I comunisti, che si erano staccati dai socialisti, ottennero soltanto 16 seggi. E questa nel momento era tutta la loro forza, quando, secondo la 'romantica' storiografia fascista, c'era bisogno della Camicia Nera che uccidesse il Drago Rosso. In questa nuova Camera la proporzione tra i diversi gruppi rimase, rispetto alla precedente, quasi invariata. Ma la situazione psicologica era cambiata in peggio. I socialisti di destra, che avevano sempre caldeggiato l'abbandono della tattica di opposizione assoluta, e la partecipazione al governo con i democratici, adesso non potevano più allearsi con i 'democratici,' fintanto che questi avevano a loro capo Giolitti, che si era servito dei fascisti per 'fare le elezioni' con le rivoltelle e i manganelli. La intransigenza del 1919, che nel 1920 cominciava a temperarsi, fu esasperata nel 1921. Gli stessi popolari, che avrebbero seguito volentieri una politica di collaborazione, erano stati costretti dalla violenza fascista ad affrontare le elezioni come oppositori del governo. Ritornarono alla Camera inorgogliti dalla loro vittoria e irati contro Giolitti, che aveva fatto bastonare dai fascisti i loro elettori, dopo avere invitato i loro leaders a far parte del suo gabinetto. In quell'agglomerato di deputati, che il governo considerava come la sua maggioranza, che non erano né socialisti, né comunisti, né popolari, vi era un gruppo di 35 fascisti, giovani e violenti, che fuori della Camera avevano dietro di sé una organizzazione armata pronta a qualsiasi eccesso. Giolitti aveva dato fuoco a una foresta per cuocere un uomo. Quando nel giugno del 1921 si riunì la nuova Camera, i comunisti, i socialisti e i popolari, irati contro Giolitti per l'ondata di violenze a cui aveva dato via libera durante la campagna elettorale, e nazionalisti e fascisti, che non perdonavano la pace
che Sforza aveva concluso con la Yugoslavia e la espulsione di D'Annunzio da Fiume, si misero insieme per rovesciare il governo. In quel momento, di un pericolo 'bolscevico' in Italia non rimaneva neppure l'ombra. Il 2 luglio 1921, Mussolini scriveva: «Dire che un pericolo 'bolscevico' esiste ancora in Italia significa scambiare per realtà certe oblique paure. Il bolscevismo è vinto. Di più: è stato rinnegato dai capi e dalle masse. L'Italia del 1921 è fondamentalmente diversa da quella del 1919: lo si è detto e dimostrato mille volte» (2). A partire dall'estate del 1921, i cosiddetti 'bolscevichi' non erano altro che un esercito sconfitto, che si difendeva disordinatamente senza nessun piano preordinato e senza la minima probabilità di successo (3). Il successore di Giolitti, Bonomi, era stato prima della guerra uno dei più intimi amici di Bissolati. Durante la guerra si era staccato da Bissolati e aveva sostenutola politica di Sonnino. Nel dicembre del 1918, quando Bissolati si dimise dal gabinetto Orlando, Bonomi non lo seguì. Come ministro della Guerra nel gabinetto Giolitti egli aveva avuto una larga parte di responsabilità nell'attività filofascista delle autorità militari. Né lui né Giolitti avevano mai pensato di abbattere il regime parlamentare o spazzar via in Italia le libertà politiche. Inoltre anche lui aveva creduto che una volta scomparso il pericolo 'bolscevico' quelle forze che esercitavano metodi illegali di violenza avrebbero potuto esser rimesse sotto controllo. Le squadre fasciste avrebbero potuto essere sciolte facilmente, se più che sulla propria forza non avessero avuto a sostegno altri elementi. Il 21 luglio del 1921, a Sarzana, bastarono sei carabinieri per disperdere 500 fascisti che avevano tentato di far uscire di prigione alcuni dei loro camerati; tra i fascisti sbandati, venti vennero linciati in modo selvaggio da turbe di popolo, e molti altri vennero feriti (4). A differenza di Giolitti, il quale godendo di un grande prestigio personale avrebbe potuto servirsene sia in bene che in male (e se ne servì in male), Bonomi era un uomo privo di qualsiasi autorità personale, incapace sia di far bene che di far male. Inoltre egli doveva fare i conti con i capi militari, i quali, sino allora, avevano obbedito a Giolitti, fornendo ai fascisti ufficiali, armi, munizioni e camions. Ma via via che la organizzazione fascista si estendeva e si consolidava, i capi militari si resero conto che nelle loro mani tale organizzazione avrebbe potuto servire come arma formidabile per assicurare alla loro casta una sempre maggiore influenza. Sotto il governo Bonomi, essi cessarono di obbedire al governo civile e andarono avanti per conto proprio. Il cardine della congiura militare era il Duca d'Aosta, cugino del Re. Quest'uomo non era né molto intelligente né molto cosciente di sé, ma la moglie, Elena di Francia, era una donna molto sveglia. Si può sospettare che dietro tutti i movimenti di sedizione militare che hanno avuto luogo dopo la guerra vi sia stata la mano di questa donna. Essa sperava che il movimento fascista avrebbe condotto alla abdicazione del Re e ad un mutamento di dinastia, dal quale suo figlio avrebbe potuto essere favorito. Nelle sue vene scorreva il sangue traditore della casa di Orléans. Sarebbe certamente azzardato attribuire un eccesso di intelligenza al Duca d'Aosta, o a sua moglie, o anche ai generali Diaz, Gandolfo, De Bono e all'ammiraglio Thaon de Revel, come pure a quegli altri personaggi esaltati che, venendo meno al loro giuramento di fedeltà allo Statuto, presero parte alla congiura militare. Allo stesso modo degli uomini politici che autorizzando nel 1920 le autorità militari ad armare i fascisti non previdero che sei mesi più tardi le autorità militari avrebbero agito di loro propria iniziativa, così i generali che nella seconda metà del 1921 cominciarono ad agire per conto proprio non previdero gli sviluppi del 1922 e ancor meno quelli degli anni seguenti. Per compiere il primo passo in un certo genere di azioni delittuose non occorre una intelligenza superiore alla media; ciò che si richiede è soltanto una mancanza di scrupoli oltre il normale. Al momento di compiere il primo passo tutti gli
altri successivi non sono ancora previsti; ma chi comincia ad agire male continua ad agire male, per evitare le conseguenze del primo fallo. Solo quando la catena di cause ed effetti è arrivata alla sua conclusione, quegli uomini che quasi alla cieca hanno seguito le cose sino ai loro imprevisti risultati fanno la figura di avere condotto gli eventi verso la meta prestabilita. Inoltre non va dimenticato che a partire dal 1910 sullo sfondo della vita italiana ha sempre agito una cricca di uomini politici nazionalisti, di capitani di industrie belliche e di militari. Nel muovere i primi passi nel 1921 e 1922, il Duca d'Aosta e compagni non avevano bisogno di nessun eccesso di materia grigia: bastava che si lasciassero consigliare da uomini come Federzoni, Rocco, Forges-Davanzati, cioè dai leaders del movimento nazionalista, che non erano affatto stupidi (5). La congiura ordita dai capi militari ebbe effetti decisivi sullo sviluppo successivo del fascismo. Nel 1919 e 1920 il fascismo era stato un movimento politico antisocialista condotto da spostati che appartenevano ai ceti medi, imbevuto di sentimenti ultrarivoluzionari, e da studenti universitari che ribollivano di eccitazione nazionalista. Durante la prima metà del 1921 era diventato un movimento economico antisindacale foraggiato dai capitalisti, dai proprietari terrieri e dalle autorità militari. Nella seconda metà del 1921 divenne un movimento antiparlamentare al servizio della 'mano nera' militare. Bonomi si dovette rendere conto che non solo non poteva far conto sulle autorità militari, ma che anche la polizia non era più quello strumento obbediente di una volta. La polizia aveva le mani legate perché durante i mesi precedenti aveva aiutato e favorito troppi delitti fascisti. Ogni volta che Bonomi cercava di mettere in moto la polizia contro di loro, i fascisti minacciavano di pubblicare le prove che la polizia e lo stesso Bonomi avevano aiutato e favorito le loro azioni. Uno tra i più noti facinorosi fascisti, Giuseppe Farinacci, nell'estate del 1921 ricordò a Bonomi che egli nelle elezioni del maggio 1921 era stato il candidato dei fascisti: «Ricordiamo tra i molti un episodio che lo caratterizza e lo definisce. Eravamo una sera a Mantova, quando giunse la notizia delle violenze socialiste a Poggio Rusco; fu Bonomi - ministro scadente - che mise la automobile ministeriale a disposizione dei fascisti che nella notte stessa dovevano distruggere la cooperativa di quel paese! E nelle giornate meravigliose della lotta elettorale del 1921, lo vedemmo marciar sotto i nostri gagliardetti e assistemmo ai suoi comizi, ben protetto dalle balde nostre camicie nere» (6). Nell'estate del 1921 la nuova fase del movimento fascista fu caratterizzata da un nuovo tipo di operazioni. Seguendo un piano di 'mobilitazione' combinato in precedenza, migliaia di fascisti, talvolta provenienti da località molto distanti e che si spostavano o in camion o in treno, di cui non pagavano il biglietto, si concentravano in una città o in un paese. Qui la Camera del lavoro, le sedi delle cooperative, le biblioteche popolari, le abitazioni private dei 'bolscevichi,' cioè dei comunisti, dei socialisti di sinistra o di destra, e dei popolari, tutto veniva devastato. Sindaci e consiglieri comunali venivano costretti a dimettersi sotto minaccia di morte. Una volta dimessisi, sopraggiungeva il prefetto della provincia il quale nominava ad amministrare il municipio 'conquistato' un commissario fascista. Una delle prime operazioni di questo genere fu la 'conquista' di Roccastrada. Come Foiano della Chiana anche Roccastrada è un piccolo centro agricolo. Nelle elezioni municipali del novembre 1920, l'amministrazione era stata conquistata dai socialisti. Il 6 aprile del 1921, il sindaco ricevette la seguente lettera: «Fasci italiani di combattimento della Toscana. Il Segretario politico.
Firenze, 6 Aprile 1921. Al sindaco del Comune di Roccastrada, Prov. di Grosseto. Dato che l'Italia deve essere degli italiani e non può, quindi, essere amministrata da individui come voi, facendomi interprete dei vostri amministrati e dei cittadini di qua, vi consiglio a dare, entro domenica, 17 aprile, le dimissioni da Sindaco, assumendovi voi, in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone. E se ricorrete alle autorità per questo mio pio, gentile ed umano consiglio, il termine suddetto vi sarà ridotto a mercoledì 13, cifra che porta fortuna. Firmato: Dino Perrone Compagni» (7). Il sindaco non la prese in considerazione. Per un paio di mesi le minacce non ebbero nessun seguito. Ma il 1 luglio 1921, verso le quattro del pomeriggio arrivarono due camions di fascisti. Secondo il corrispondente del "Corriere della Sera", 26 luglio 1921, la spedizione punitiva 'si limitò ad alcune bastonature e al getto dalle finestre delle masserizie di qualche famiglia di contadini sovversivi.' Il quotidiano socialista "Avanti!" afferma che i fascisti, urlando e agitando per aria i loro revolvers per spaventare donne e bambini - gli uomini erano ancora al lavoro nei campi - dettero fuoco ai locali del circolo dei contadini, del sindacato boscaioli, e ai magazzini della cooperativa. Inoltre essi devastarono la casa del sindaco e quella del segretario di uno dei sindacati, ripartendosene prima che gli uomini facessero ritorno dai campi. Pochi giorni dopo il sindaco, mentre stava parlando con il prefetto a Grosseto, fu preso dai fascisti, condotto alla sede del Fascio e costretto a firmare una lettera di dimissioni, promettendo di non far mai più ritorno in paese. Il 24 luglio 1921, verso l'alba, una settantina di fascisti partirono in camion da Grosseto, passando indisturbati davanti alla questura. Arrivarono a Roccastrada alle 4,30. Il paese era ancora addormentato. Dopo aver sparato una fucilata, si misero a urlare che gli abitanti dovevano esporre la bandiera nazionale, fermando i contadini che uscivano dalle case e bastonandoli. Svegliati di soprassalto, gli abitanti non poterono opporre nessuna resistenza. Vi fu un fuggi fuggi generale. Diverse case furono devastate e date alle fiamme, e l'opera di vandalismo continuò per tre ore. Verso le otto, i fascisti risalirono sui loro camions dirigendosi a Sassofortino, dove avevano intenzione di continuare la loro 'propaganda nazionale.' Poco fuori il paese, tre contadini, nascosti dietro una siepe, spararono contro i camions dandosi poi alla fuga. Un fascista rimase ucciso sul colpo. Gli altri, non essendo riusciti a catturare i fuggiaschi, fecero ritorno al paese. «Lungo la via - scrive il corrispondente filofascista del "Secolo", 26 luglio 1921 incontrano Tommaso Bartaletti di 59 anni e suo figlio Guido di 27 e li uccidono a colpi di rivoltella. Entrano poscia in paese lanciando alte grida: 'Chi ha sparato? Chi ha sparato?' Penetrano in diverse case ed uccidono a colpi di rivoltella e pugnalate Vincenzo Tacconi di 27 anni, Francesco Monecheri di 39 anni, Luigi Nativi di 37 anni ed Antonio Fabbri di 68 anni che cade morto accanto alla propria figlia la quale assisteva, folle di terrore, alla terribile scena; Angelo Barni di 53 anni, Ezio Checcucci di 23 anni e Giuseppe Regoli di 62, che vengono colpiti a morte per. le vie del paese. Giovanni Gori, anch'egli vecchio di 62 anni, riporta una grave ferita; altri cinque sono feriti più leggermente. (...) Intanto mentre si compie l'eccidio il paese si illumina sinistramente delle fiamme appiccate dai fascisti a 17 case delle quali quattro sono ridotte ad un mucchio di macerie fumanti.» I nove uccisi non erano membri di nessuna organizzazione. Soltanto uno era noto come simpatizzante per gli anarchici. I tredici carabinieri di stanza nel paese se ne rimasero assolutamente inerti, serrati nella loro caserma: si limitarono a telefonare a
Grosseto per informare di quello che stava succedendo. Inutile dire che nessuno dei fascisti fu arrestato, per quanto il nome del loro capo, Castellani, segretario del Fascio per la provincia di Grosseto, fosse sulla bocca di tutti; mentre furono arrestati e condannati severamente tre uomini ritenuti colpevoli dell'imboscata. Molti altri abitanti del paese furono arrestati senza alcun motivo e trattenuti in prigione per non breve tempo. Roccastrada è un piccolo paese. Treviso è una città importante. La 'spedizione punitiva' contro Treviso, il 12 luglio 1921, non era diretta contro i comunisti o i socialisti, ma contro i popolari, che si erano schierati dalla parte di alcuni lavoratori contro due proprietari terrieri iscritti alla organizzazione fascista. «Millecinquecento uomini - scrive il giornalista americano Mowrer - condotti dalle località più lontane, quali la Toscana e Trieste, armati di fucili bombe a mano, mitragliatrici ed elmetti, forniti in parte dall'esercito regolare, arrivarono a Treviso la sera tardi su cento camions preceduti da una automobile bianca. Protetti dal buio, circondarono le mura della città e si inoltrarono nelle strade. Il loro piano era perfetto, e loro nemico 'chiunque non fosse fascista.' Per prima cosa i fascisti assaltarono e saccheggiarono gli uffici del quotidiano popolare "Il Piave", poi quelli del repubblicano "Riscossa", dove alcuni difensori furono sopraffatti dopo alcune ore di assedio. L'alba trovò i fascisti padroni della città, dato che la polizia e i soldati avevano assunto un atteggiamento di 'neutralità benevola.' E così per alcune ore i fascisti rimasero padroni del campo, devastando alcune case e negozi prima di ritirarsi» (8). Nel settembre del 1921 doveva celebrarsi a Ravenna il sesto centenario della morte di Dante, e in tale occasione la città sarebbe stata piena di stranieri venuti da ogni parte del mondo. Sarebbe stato per tutti i partiti il momento di mettere da parte le loro meschine rivalità e risparmiare ai visitatori poco edificanti esibizioni di violenza. Ma il deputato fasciata di Bologna, Dino Grandi, la pensava diversamente, e un mese prima che si tenessero le celebrazioni, propose che per quella data i fascisti effettuassero una 'marcia su Ravenna.' «Sembrava - scrisse il filofascista "Resto del Carlino", il 13 settembre 1921 - che l'idea fosse di inscenare una grande dimostrazione di tutte quelle forze fasciste che si erano opposte alla pacificazione coi socialisti. I capi avevano in mente una marcia spettacolare di formazioni inquadrate con le bandiere al vento, che iniziando da Bologna avrebbe proceduto lungo la Via Emilia sino a Imola, piegando poi verso Lugo prima di arrivare a Ravenna. Così le nuove forze dell'Italia, marciando incolonnate come era nelle intenzioni di coloro che prepararono il piano - avrebbero attraversato il territorio classico del comunismo e sarebbero state ricevute a braccia aperte nei paesi e villaggi già repubblicani.» Il deputato socialista riformista di Ravenna, Baldini, richiamò personalmente l'attenzione di Bonomi sugli inconvenienti che sarebbero sorti se si fosse permesso ai fascisti di concentrarsi su Ravenna. Bonomi dette la sua parola d'onore che la marcia dei fascisti sulla città sarebbe stata proibita a tutti i costi (9). Evidentemente nel fare questa promessa era sincero. Inoltre non poteva non vedere la necessità di evitare uno scandalo in una occasione come questa e alla presenza di tanti stranieri. Ma Bonomi non aveva fatto i conti con il generale Sani, comandante del corpo di armata di Bologna, che comprendeva nella sua giurisdizione anche Ravenna. Quest'uomo era colui che avrebbe dovuto impedire la 'marcia su Ravenna,' che generosamente era stata propagandata in anticipo (10). Ma il giorno della celebrazione, mentre i fascisti stavano avanzando sulla città, egli se ne andò invece a Ravenna a rendere omaggio a Dante. Sani fu notoriamente uno di quei generali che,
negli anni della guerra civile, dettero nella loro zona l'aiuto più attivo ai fascisti, consegnando loro armi e permettendo agli ufficiali dipendenti di partecipare alle spedizioni punitive. I fascisti avevano quindi via libera per questa inaudita dimostrazione. Il 9 settembre, squadre di camicie nere, bandiere al vento, cominciarono a raccogliersi indisturbate a Bologna, arrivando da Rovigo, Reggio, Modena, Carpi, Finale, eccetera. Alle sei del mattino del 10 settembre, una colonna di 450 fascisti con le trombe in testa, si mise in cammino (11). La colonna ebbe la delicatezza di evitare Imola, centro socialista, e passando per Medicina marciò direttamente su Lugo. Contemporaneamente, un'altra colonna di 500 fascisti partì da Ferrara, incamminandosi per Argenta. Le due colonne si incontrarono a Lugo nel pomeriggio dell'11 settembre (12). Strada facendo, naturalmente il loro numero aumentava. Quattro camions di guardie regie seguivano la marcia! (13) La mattina del 12 settembre, 3000 fascisti invasero Ravenna. I fatti di Ravenna del 12 settembre furono narrati dal corrispondente del "Giornale d'Italia" il 22 settembre 1921, nel modo seguente (14): «I fascisti giunsero a Ravenna sulle ore 11 del giorno 12 e percorsero le principali vie della città, cantando i loro inni, salutati da battimani e da evviva della folla che si assiepava al loro passaggio. [I fascisti costrinsero tutti a scoprirsi mettendo in opera i loro manganelli contro i sordi e i distratti. Tuttavia non ebbe luogo nessun incidente ("sic") degno di. nota.] Nel pomeriggio, mentre alcuni fascisti stavano seduti in un pubblico esercizio sito fuori Porta Saffi, furono loro rivolte parole poco corrette da un comunista. Costui ad un tratto esplose un colpo di rivoltella contro gli avversari, colpo che andò a vuoto. I fascisti rincorsero lo sparatore, ma un altro comunista si parò loro dinnanzi sparando un altro colpo di rivoltella contro di essi. Nella confusione che avvenne, i due comunisti riuscirono ad eclissarsi (15). [La notizia di questo scontro si sparse rapidamente tra la massa fascista.] I fascisti, divisi in forti gruppi, si recarono alle sedi dei circoli socialisti dei sobborghi (...) ed alla Camera del lavoro, e li devastarono. Sulla pubblica piazza furono ammucchiati quadri, carte, qualche panca ed il tutto fu dato alle fiamme. "L'autorità aveva preso lodevolissime misure, le truppe erano stazionate qua e là, forti gruppi di carabinieri e di militi della regia guardia guardavano i punti centrali della città, camions carichi di agenti della forza pubblica erano pronti nel cortile del palazzo prefettizio per accorrere ove vi fosse bisogno: nell'andito dello stesso palazzo stava un'automitragliatrice", ma l'assalto ai vari circoli socialisti fu così improvviso, così immediato (!) che non poté essere impedito.. Quattro o cinquemila formano un bel numero... La forza pubblica prudentemente si limitò a intervenire per evitare danni maggiori; se si fosse imposta sarebbe nato un macello. Si noti che tutte le vie della città e dei sobborghi rigurgitavano di una folla enorme mai vista a Ravenna. La residenza della Federazione delle cooperative, sita in via Mazzini, era guardata da un buon nerbo di agenti della forza pubblica. Un forte gruppo di fascisti si recò sotto di essa gridando: 'Fuori la bandiera, fuori i tre colori!' I funzionari di P. S. che colà si trovavano, assicurarono i dimostranti che la bandiera nazionale sarebbe stata esposta; ma mentre essi parlamentavano con la massa dei fascisti, alcuni di questi, arrampicatisi come scoiattoli su per le inferriate delle finestre - e poco dopo anche per mezzo di una scala - riuscirono a penetrare in quel palazzo e ad esporre la bandiera. [Registri e fasci di carte furono gettati dalle finestre e dati alle fiamme.] Alla sera mentre un camion carico di fascisti passava davanti al Caffè-Caffè (...) da un giovanotto che trovavasi seduto in quell'esercizio, fu lanciato contro il camion stesso, non si sa bene se un piattello o un bicchiere. Un fascista saltato a terra dal camion, diede un colpo di bastone all'imprudente giovanotto. Mentre ciò avveniva, dal CaffèCaffè partirono alcuni colpi di rivoltella a cui risposero i fascisti, i quali poi, entrati
nell'esercizio, lo devastarono completamente fracassando mobili, frantumando specchi, cristallerie, terraglie, bottiglie di liquore, eccetera [Il giorno dopo le autorità riuscirono a far ripartire i fascisti con dei treni speciali.]» E' evidente che vi fu la connivenza delle autorità militari con i fascisti, anche se si accetta la versione dei fatti che attribuisce ai cosiddetti 'comunisti' la responsabilità della prima provocazione. In casi come questi, prima o poi un colpo di revolver viene sparato sempre, e sempre una parte cerca di rigettare sull'altra la responsabilità. Ma la vera responsabilità è di coloro che hanno creato, o hanno permesso che altri creassero, una situazione tale in cui si arriva al colpo di revolver. Permettere che più di tremila persone armate si concentrino in una città, e quindi protestare che non è possibile intervenire senza dar luogo ad un macello - e questo in un paese in cui l'esperienza di tutto un anno aveva mostrato come comincino e come finiscano questi raduni - che altro era se non un deliberato incitamento alla violenza, sapendo perfettamente in anticipo quello che sarebbe accaduto? Pochi giorni dopo, il 25 settembre, il deputato Di Vagno venne ucciso a Mola di Bari da una banda di sedici fascisti che lo aggredirono a colpi di revolver poco fuori la città, mentre del tutto inerme stava passeggiando con un amico (16). Poco prima Di Vagno aveva tenuto un discorso ai contadini; non c'erano stati disordini e non si era verificato nessun atto di violenza che potesse giustificare una rappresaglia. L'imboscata fu premeditata e compiuta a sangue freddo. Gli assassini erano conosciuti da tutti, ma nessuno di loro venne arrestato: si limitarono ad andarsene a stare da un'altra parte. Italo Balbo, che nel settembre del 1921 guidò la colonna proveniente da Ferrara nella 'marcia su Ravenna,' in un discorso a Milano, il 23 aprile 1923, disse: «Fu nel settembre del 1921, che lo squadrismo fascista di difesa prese una regolarissima forma militare. (...) Il 12 settembre, anniversario della marcia di Ronchi, tremila fascisti in camicia nera entravano polverosi in Ravenna. (...) Era quello un piccolo esercito che aveva marciato per tre giorni sulle vie polverose. (...) A Ravenna il 12 settembre del '21 le prime camicie nere lanciarono lo stesso grido che s'alzò a Napoli il 24 ottobre dell'anno dopo: 'A Roma, a Roma!' (...) L'esperimento era riuscito completamente. Lo squadrismo poteva trasformarsi da fenomeno locale in fenomeno nazionale» (17). L'idea di una 'marcia su Roma' proveniva da D'Annunzio, e risaliva alla fine del 1919, quando era a Fiume. A quel tempo Mussolini non pensava che un'impresa del genere avrebbe avuto successo (18). Diciotto mesi più tardi, il 31 maggio del 1921, ecco quanto scriveva sul suo giornale: «Sin da questo momento i fascisti di tutto il Lazio, dell'Umbria, dell'Abruzzo, della Toscana, della Campania sono moralmente impegnati a concentrarsi a Roma al primo appello che sarà lanciato dagli organi direttivi del nostro movimento» (19). Quello che fu poi il colpo di stato dell'ottobre 1922, originariamente era stato fissato per il novembre del 1921. Con il pretesto di celebrare l'anniversario della vittoria italiana (4 novembre), un gran numero di fascisti doveva raccogliersi a Roma; sarebbe stato presente D'Annunzio, il quale avrebbe dovuto tenere un discorso memorabile e mettersi poi alla testa dei fascisti per congedare i ministri e proclamarsi dittatore. Ma all'ultimo momento il poeta non si fece vedere. Bonomi lo aveva corrotto con una forte somma di cui doveva servirsi per soccorrere i veterani fiumani. D'Annunzio che era il veterano più eminente si tenne per sé tutto il denaro. I fascisti si raccolsero in Roma senza il leader previsto, e commisero eccessi di ogni genere
finché non vennero cacciati dai quartieri popolari della città dopo violenti scontri per le strade. Il congresso nazionale fascista del novembre 1921 decise la trasformazione del 'movimento' in 'partito politico,' il partito nazionale fascista. Questo sarebbe stato 'una milizia volontaria al servizio della nazione,' e avrebbe basato la sua condotta su tre principi fondamentali: 'ordine, disciplina, gerarchia.' Le sezioni locali avevano diritto a eleggere i propri direttori, ma questi dovevano essere legati da una disciplina assoluta al direttorio nazionale del partito, di cui dovevano seguire le istruzioni senza discuterle. Ciascuna sezione doveva avere una 'squadra di combattimento' pronta a marciare al comando dell'esecutivo nazionale del partito. Non si sa quanti fossero i fascisti alla fine del 1921. In una intervista concessa al "Giornale d'Italia", il 22 maggio 1921, Mussolini aveva affermato che gli iscritti ai Fasci erano non meno di mezzo milione. Ma secondo una relazione presentata al congresso del novembre 1921, gli iscritti ai Fasci erano aumentati da 30000, nel maggio 1920, a 230000 nel novembre 1921 (20). Nel 1924, Mussolini affermò che i fascisti da 20615 alla fine del 1920 erano saliti a 248000 alla fine del 1921 (21). Nel 1929, il segretario amministrativo del partito forniva i seguenti dati: 20615 alla fine del 1920; 248936 al 31 dicembre 1921; 299867 alla fine del 1922 (22). Ma è possibile che in tutto il 1922, un anno straordinariamente fortunato da un punto di vista politico, i fascisti siano aumentati soltanto da 248000 a 300000? Le statistiche fasciste mostrano sempre molti dati controversi e poco probabili, come avviene quando nel fornire le cifre ci si abbandona alla fantasia. Quanto al numero di organizzati dei sindacati fascisti, fu detto che essi fossero 64000 al novembre 1921, e 250000 nel gennaio 1922 (23). Nel gennaio del 1922, sotto la direzione del generale Gandolfo, venne creata una organizzazione nazionale delle squadre locali. Si stabilirono delle zone di comando con una gerarchia centralizzata. Sotto gli occhi del governo civile si andava così formando un esercito illegale, pronto a muoversi contro il governo civile con la connivenza dei capi dell'esercito regolare. In Italia c'erano due governi: un governo ufficiale formato dal gabinetto dei ministri, e un governo clandestino formato da un gruppo di alte autorità militari, che controllavano i Fasci locali tramite i nazionalisti, ufficiali in congedo e ufficiali in licenza (24). La storiografia fascista dà il nome di 'bolscevismo' non solo agli avvenimenti del 1919 e del 1920, ma anche agli avvenimenti del 1921 e del 1922, come se dalla primavera del 1919 all'autunno del 1922 vi fosse stata una serie omogenea e continua di atti di violenza. La verità è che si deve fare una netta distinzione tra il periodo 1919-20, e il periodo 1921-22. Nel primo biennio i disordini quasi sempre venivano provocati dai cosiddetti 'bolscevichi'; nel secondo biennio presero l'offensiva i fascisti e schiacciarono i loro avversari. Se si dà il nome di 'bolscevismo' al primo periodo, si deve dare al secondo periodo una diversa denominazione: quella di 'reazione antibolscevica.' Ma i disordini che ebbero luogo in Italia nel 1919-20 non meritano né l'offesa né l'eccesso di onore di passare alla storia sotto il nome di 'bolscevismo'; e la reazione italiana del 1921-22 non dovette superare nessuna di quelle formidabili difficoltà che impedirono in Russia qualsiasi tentativo di reazione. Tra la Russia e l'Italia del 1919-22 c'è la stessa differenza che passa tra un ciclone che sconvolge un intero continente, e una burrasca che rompe qualche vetro e butta giù pochi alberi e qualche camino. Sarebbe più appropriato parlare di 'nevrastenia del dopoguerra,' per il 1919-20, e di 'guerra civile,' per il 1921-22. Inoltre, si devono distinguere due periodi secondari negli anni della guerra civile, 1921-22: la reazione antisindacale, tra l'autunno del 1920 e l'estate del 1921, e la congiura militare, tra l'estate del 1921 e l'autunno del 1922.
CAPITOLO VENTUNESIMO. 'UN CAPO CHE PRECEDE, NON UN CAPO CHE SEGUE' Durante la primavera e l'estate del 1921, la situazione quale si andava sviluppando sotto gli occhi di Mussolini rese la sua posizione assai difficile. Ciascun Fascio, controllato dai propri dirigenti locali, seguiva la sua politica secondo le circostanze locali e prestando poca o punta attenzione ai consigli o agli ordini del comitato centrale. Per quanto di nome Mussolini fosse il capo del movimento, di fatto la sua autorità era assai limitata. Vedeva che i nazionalisti, che si erano infiltrati tra le file fasciste, diventavano i veri padroni di quelli che egli considerava i suoi uomini. Definiva i nazionalisti 'i pescecani del fascismo,' o 'topi che si ingrassano rosicchiando il formaggio fascista' (1). Tra i fascisti molti che avevano preso sul serio le esplosioni rivoluzionarie di Mussolini erano sbalorditi dalla rapidità con cui benestanti e conservatori affluivano in grande quantità nelle loro organizzazioni. Nel febbraio del 1921, un giovane squattrinato, Dino Grandi, che doveva diventare più tardi ambasciatore italiano alla corte di Saint James, lamentava che il movimento fascista fosse 'un insieme caotico di elementi locali di reazione,' e esprimeva la speranza che dopo questo fenomeno 'transitorio' si affermasse un nuovo socialismo 'più potente di prima ma con altri uomini' (2). Può darsi che di tanto in tanto lo spirito incoerente, e mutevole di Mussolini riandasse al suo passato antiborghese. Non è possibile dopo tutto che egli fosse accecato dalla passione a tal punto da non dire mai a se stesso, almeno una volta tanto, che se c'era un uomo che non aveva nessun diritto di trattare col revolver e il manganello i lavoratori italiani, quest'uomo era Mussolini. Nessuno prima della guerra aveva più di lui contribuito a diffondere in Italia il socialismo rivoluzionario e antinazionale. Di fronte alla guerra mondiale egli aveva lanciato tra le masse lo slogan della neutralità rivoluzionaria. Durante la guerra nessuno aveva fatto promesse più larghe di controllo operaio e proprietà della terra ai contadini, come conseguenza della 'guerra rivoluzionaria.' Nel 1919-20 nessuno aveva contribuito in misura maggiore a diffondere quella frenesia rivoluzionaria che condusse alla occupazione delle fabbriche. D'altra parte egli sentiva che nel paese la gente cominciava sempre più ad essere stanca della guerra civile, e dopo avere condannato i socialisti minacciava adesso di rivoltarsi contro i fascisti. Ecco un fatto che mostra in modo evidente questo nuovo stato d'animo. Il 26 settembre 1921, a Modena alcuni fascisti rimasero uccisi in uno scontro con la polizia. I fascisti fiorentini cercarono di organizzare una pubblica dimostrazione di lutto. La città rimase indifferente. Il 30 settembre essi affissero un manifesto dove si lamentava la 'ostilità palese o nascosta della cittadinanza, in special modo della borghesia'; 'pochissimi cittadini hanno sentito il dovere di esporre il tricolore a lutto per i tragici fatti di Modena e nessun esercente ha chiuso in tale occasione il proprio negozio (3). Tale stato d'animo aveva cominciato a manifestarsi subito dopo le elezioni del maggio. Mussolini lo avvertiva; perciò, non appena fu eletto deputato, cercò di liberarsi dalla stretta dei nazionalisti. Pensò che era possibile risolvere il problema accentuando il carattere repubblicano del movimento fascista, offrendo la sua alleanza ai socialisti moderati e ai popolari, bruciando in tal modo i ponti fra fascisti e nazionalisti. In una intervista al "Giornale d'Italia" il 22 maggio, così dichiarava: «Il fascismo (...) è tendenzialmente repubblicano, in ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti che sono pregiudizialmente e sempiternamente monarchici. (...) Non è da escludersi una ipotesi che uno scrittore di un giornale bolognese (...) ha
prospettato in questi termini: 'Sul programma di lavoro e di redenzione dei lavoratori i socialisti possono trovare inattesi alleati in seno allo stesso fascismo. (...) La salvezza del paese deve essere assicurata non dalla soppressione materiale di questa antitesi (tra fascismo e socialismo) ma dalla loro conciliazione nel funzionamento stesso dell'organo parlamentare.' (...) E' evidente che la coabitazione fra i moscoviti (...) e quelli che di Mosca non voglion più saperne diventerà a lungo andare impossibile. Mussolini terminava pronunciandosi in favore di un ministero presieduto da un popolare: 'Insomma, se a un dato momento il gioco varrà la candela, noi appoggeremo e collaboreremo anche direttamente con il governo.' Questa intervista sollevò una ondata di proteste tra i giornali conservatori filofascisti e un largo moto di rivolta da parte di quei gruppi fascisti che erano sotto l'influenza dei nazionalisti (4). Mussolini credette dapprima di poter controllare il temporale. Nel "Popolo d'Italia" del 24 maggio 1921 scriveva: «Io non permetto che siano alterati i connotati di quel fascismo che io ho fondato, sino a renderli irriconoscibili, sino a farli diventare monarchici, anzi dinastici, da 'tendenzialmente repubblicani' che erano o dovevano essere. (...) Il nostro simbolo non e lo scudo dei Savoia; è il fascio littorio, romano anche, se non vi dispiace, repubblicano. (...) L'astensione fascista (dalla seduta di apertura della Camera) è un gesto di pura e semplice coerenza. (...) Non è permesso di predicare in un modo e praticare in un altro. Se per avventura queste mie idee non incontrassero l'approvazione del fascismo, non me ne importerebbe affatto. Io sono un capo che precede, non un capo che segue.» Il giorno dopo, di fronte alle crescenti proteste dei suoi seguaci, 'il capo che precede e non segue' cominciò a mettere acqua nel vino: «Il fascismo è (...) al di sopra della monarchia e della repubblica. (...) Se il fascismo è monarchico, non è più fascismo; se il fascismo è repubblicano, non è più fascismo. (...) Non intendiamo di sostituirci al partito repubblicano, ma non intendiamo nemmeno di genufletterci dinnanzi al trono (5). (...) Chi da questo atteggiamento fascista vuole arguire che il fascismo sposa la causa repubblicana e, anzi, la pregiudiziale repubblicana, rivela la più lamentevole incomprensione politica. Ma io, e qui parlo in prima persona, ho voluto intenzionalmente fare la nota affermazione, perché volevo gettare un sasso o iniziare addirittura una sassaiola contro parecchi ranocchi, più o meno verdi e gracidanti, che ho visto affiorare, laddove il magnifico fiume della giovinezza fascista minaccia di stagnare nel morto padule della conservazione e dell'egoismo. (...) Nel fascismo vi sono nascoste delle 'inclite viltà' di gente che aveva paura degli altri o paura di noi; si sono insinuati nel fascismo egoismi rapaci e refrattari ad ogni spirito di conciliazione nazionale e anche non mancano coloro che del prestigio della violenza fascista si sono serviti per i loro miserabili calcoli personali o che la violenza intesa come mezzo hanno tramutato in violenza fine a se stessa» (6). Mussolini si trovava a dover fronteggiare un violento moto di rivolta da parte dei nazionalisti, i quali erano decisi a distruggere sino all'ultima tutte le organizzazioni socialiste e popolari (7). Uno dei leaders di questa rivolta era lo stesso Grandi, che nel febbraio del 1921 si era soffermato con tanta attenzione sul pericolo che il movimento fascista diventasse un puro movimento di reazione. Come Mussolini, Grandi passava dalla destra alla sinistra e dalla sinistra alla destra con versatilità incredibile. Mussolini non si arrese. Il 13 luglio del 1921 scriveva:
«Fino ad ora le abbiamo curate (le masse dei lavoratori) con rimedi energici. Ma grande e sottile medico è colui che sa adattare le medicine al corso della malattia. Ognuno di noi può constatare che lo stato d'animo delle masse operaie è fondamentalmente diverso da quello di due anni fa. Penso che oggi si possa cambiare la medicina e sia da andare verso queste masse operaie per convincerle della fallacia di tutte le dottrine socialiste. (...) O noi abbiamo la convinzione che siamo i portatori di una verità, e allora dobbiamo essere anche pronti a scendere su altri terreni di lotta; o noi rimarremo sempre sul terreno della violenza, e allora sarà palese che in noi non c'è nessuna verità e che noi rappresentiamo un fenomeno puramente negativo. Ora io stesso, che, per ragioni nazionali e, soprattutto, umane, ero proclive ad accedere su questo terreno, oggi sono contrario» (8). Quando avvenne a Sarzana lo scontro tra fascisti e carabinieri, Mussolini deplorò la mancanza di disciplina tra i suoi seguaci: «Con lo sviluppo enorme preso dal nostro movimento sono confluiti nei fasci migliaia di individui che hanno interpretato il fascismo come una difesa di determinati interessi personali e come una organizzazione delle violenze per la violenza. Parecchie volte su queste colonne fu detto che la nostra violenza doveva essere cavalleresca, aristocratica, chirurgica, e quindi, in un certo senso umana. Ma fu detto invano. (...) Si tratta di ristabilire prontissimamente il senso della disciplina individuale e collettiva, ricordando che in un paese come l'Italia, anarcoide nelle tendenze e negli spiriti, il fascismo si annunziò come un movimento di restaurazione della disciplina. Ora non si può pretendere di imporre una disciplina alla nazione se non si è capaci dell'autodisciplina» (9). Il 3 agosto del 1921, rappresentanti del partito fascista e della Confederazione del lavoro firmarono un accordo, in cui si impegnavano 'a fare immediata opera, perché minacce, vie di fatto, rappresaglie, punizioni, vendette, pressioni e violenze personali di qualsiasi specie abbiano subito a cessare.' Le cose andarono di male in peggio. Sessanta segretari di sezioni dei Fasci in rappresentanza di 160000 iscritti si riunirono a Bologna e non riconobbero l'accordo (10). Mussolini si sentì offeso e si dimise dalla commissione esecutiva dei Fasci. Il 7 agosto 1921 scrisse: «Il fascismo non è più liberazione, ma tirannia; non più salvaguardia della nazione, ma difesa di interessi privati e delle caste più opache, sorde, miserabili che esistano in Italia» (11). Nel Popolo d'Italia del 18 agosto 1921, egli domandava: «Come realizzarla ora la pace? Pensate, forse, di poterla effettuare attraverso lo sterminio dei due milioni che hanno votato per il pus? O non correte il rischio di cronicizzare la guerra civile? O l'altro di vedervi rivoltare contro l'anima intera della nazione? O il terzo rischio di dover 'subire' domani una pace pussista, attraverso un altro non improbabile capovolgimento delle situazioni? E i segni di ciò non li vedete? Il fronte unico antifascista che il patto di Roma spezzava, non si riformerà quasi automaticamente domani? (...) Chi è sconfitto deve andarsene. Ed io me ne vado dai primi posti. Resto e spero di poter restare semplice gregario del Fascio milanese.» Cesare Rossi, collaboratore intimo di Mussolini, ne seguiva l'esempio il 20 agosto 1921, così scrivendo:
«Poiché io sono stato uno dei più caldi propugnatori del trattato di tregua, ed anche uno dei suoi firmatari non posso più seriamente ed onestamente rimanere fra i dirigenti l'organizzazione fascista, quando questa (...) in clamorosi voti di congressi regionali, e quel che Più conta, con gli atti di ogni giorno ha dimostrato la sua precisa ed assoluta ostilità al rispetto ed all'applicazione di detto trattato. (...) Il primitivo carattere interventista del fascismo è sparito dinnanzi alla folla degli ultimi venuti, venuti soprattutto quando il nemico batteva in ritirata; l'immissione nel fascismo (...) delle infinite vecchie cariatidi delle consorterie clerico-agrarie-conservatrici paesane erano destinate a cancellarne i maschi connotati. (...) La nostra balda minoranza del 1919 (...) è travolta dalle successive ondate impetuose che (...) rappresentavano solo o stati d'animo d'artificio o d'esaltazione o interessi di classe, di casta e di zona. Forte di questi nuovi elementi, il fascismo (...) è diventato un puro, autentico ed esclusivo movimento di conservazione e di reazione. Ma non la nostra affermata e giustamente affermata 'reazione' (...) reazione predicata e praticata quando l'Italia correva sul serio il rischio di cadere in balìa della dittatura della tessera del pus; (...) ma la reazione idiota, crudele ed inutile contro tutto ciò che puzza di conquista consapevole, ineluttabile, razionale, della vita contemporanea, contro tutto ciò che è ordine acquisito e pacifico. Già, perché i fascisti delle zone bellicose negano ormai (...) i fenomeni più normali della vita sociale. (...) Si vuole, per esempio, esiliare lo sciopero - manifestazione che possiamo, sì, augurarci di rendere meno frequente e meno dannosa, ma che è pur sempre una realtà economica che non si può sopprimere (...) non solo, ma di fatto si arriva a violentare la libertà di riunione, di stampa e di associazione degli avversari. E' insomma la mentalità codina, tirannica e sopraffattrice che noi abbiamo rimproverato al partito socialista negli anni aurei o tenebrosi della sua tracotanza che si trasferisce in pieno nel campo fascista. (...) Vi siete mai chiesti, per esempio, cosa rappresentino di sacro quelle case con tutto il loro carico di masserizie e di affetti, che in alcune zone della Val Padana i nostri gregari bruciano con tanta serietà sol perché abitate da avversari? (...) La mozione D'Aragona, votata durante l'occupazione delle fabbriche a Milano il 12 settembre 1920 contro l'estensione politica del movimento (confer cap. diciassettesimo, [pag. 278 del libro cartaceo]), (...) la scissione avvenuta al congresso. di Livorno (confer cap. diciottesimo, [pag. 298 del libro cartaceo]), la politica e la crociata antisocialista anticonfederale dei comunisti, lo smagamento del leninismo nella coscienza operaia (confer cap. diciottesimo, [pag. 290 del libro cartaceo]), la riscossa nazionale avvenuta nelle elezioni amministrative ultime (confer cap. diciottesimo, [pag. 291 del libro cartaceo]), la stessa offensiva (...) del fascismo, la nuova scissione socialista: sono tutti elementi che non esistono e che non valgono per i nostri superficialoni abituati a tutto livellare e tutto confondere. (...) Siamo andati avanti ancora un po' fra l'inaugurazione di un gagliardetto e l'investimento di una città, senza riuscire a fissare un'opera d'insieme, senza saperci dare una disciplina interna, incapaci a riflettere, incapaci ad affrontare e risolvere i problemi politici dell'ora. Osservo che i Fasci (...) si sono ben guardati dal fondare una biblioteca di cultura, al massimo si sono limitati a distruggere quelle degli avversari (...). (...) Gli avversari del partito di pacificazione non hanno capito che esso rispondeva ad una necessità e ad un dovere nazionale ed in particolare all'interesse immediato e futuro del fascismo» (12). Parole al vento! Gli industriali, gli agrari e la cricca militare non erano disposti ad ascoltarle; e i fascisti che eseguivano le spedizioni punitive, eccitati dal combattimento, contenti di dare la caccia ai contadini 'bolscevichi' come a bestie feroci, ben pagati e sicuri dell'impunità, erano disposti ad ascoltarle anche meno di coloro che a sangue freddo tiravano i fili. In questa situazione, che cosa fece allora il 'capo che precede e non segue'? Se avesse continuato a condannare 'la reazione idiota, crudele ed inutile,' Mussolini si
sarebbe ritrovato a capo di un esercito in disfacimento e senza gli aiuti dei grossi affaristi; il suo giornale sarebbe fallito. A qualsiasi costo egli era deciso a non permettere che le cose arrivassero a questo punto. Molti anni dopo disse a Briand che 'il Rubicone non si può passare due volte.' Mussolini cessò di andare contro corrente. Si dedicò alle meditazioni filosofiche e scoprì che il fascismo non possedeva una propria dottrina e che a tale inconveniente si doveva trovare al più presto un rimedio. 'Il fascismo italiano,' scriveva il 27 agosto 1921, 'pena la morte o, peggio, il suicidio, deve farsi un 'corpo' di dottrine. (...) Io vorrei che nei due mesi che ci separano dall'Adunata nazionale si creasse la filosofia del fascismo italiano. (13). Il fatto vero è che i nazionalisti non avevano nessun bisogno di crearsi una filosofia, dato che da dieci anni ne avevano una propria, e i fascisti avevano ben altro da fare che crearsi una filosofia. Dopo essersi abbandonato sino al novembre del 1921 alle meditazioni filosofiche, Mussolini si presentò al congresso di Roma come se non ci fosse stato proprio niente ad indurlo a dimettersi da capo del movimento. Della cosa non parlò nessuno. Mussolini e Grandi si abbracciarono, e il capo che precede continuò a seguire i suoi seguaci. I nazionalisti esultarono: 'Il fascismo (...) è del nostro sangue; e, quando avrà visto più chiaro dentro di sé e intorno a sé, quando sarà arrivato all'equilibrio intellettuale e d'azione di una maturità più consapevole, sarà contento di venire accanto a suo padre' (14). Mussolini aveva scelto bene il momento di seguire i suoi seguaci. Sino all'autunno del 1921, la parte di primo piano come eroe dei fascisti era stata ricoperta da D'Annunzio. Dopo che D'Annunzio aveva abbandonato il suo posto di condottiero delle camicie nere nel progettato colpo di mano del novembre 1921, il primo posto fu occupato da Mussolini. Da questo momento, egli divenne il solo ed indiscusso leader: 'il Duce.' I capi militari e i nazionalisti che dietro le quinte tiravano i fili avevano bisogno di qualcuno che si assumesse pubblicamente la responsabilità del movimento antiparlamentare. Essi erano legati al Re e allo Statuto da un giuramento di fedeltà che non osavano violare apertamente e brutalmente. Attaccando il Parlamento e minacciando il Re qualora si fosse rifiutato di compiere il colpo di stato contro il Parlamento, i fascisti permettevano ai generali di presentarsi come mediatori tra il Re, verso il quale fingevano di rimanere fedeli, e i fascisti, il cui movimento facevano credere che fosse tanto forte da essere invincibile. Perché questa manovra riuscisse bisognava che il movimento fascista fosse condotto pubblicamente da un uomo che, in forza del proprio passato, potesse minacciare e spaventare il Re. Il compito di Mussolini era tutt'altro che facile. Se si passano in rassegna i gruppi che si vennero a mescolare nel movimento fascista, si troverà che i primi Fasci del 191920 comprendevano elementi di tre diverse provenienze: 1) vecchi rivoluzionari, che nell'autunno del 1914 avevano mostrato in modo più o meno confuso una mentalità nazionalista, sebbene continuassero a chiamarsi rivoluzionari; 2) reduci appartenenti ai gradini più bassi dei ceti medi, di cui la guerra aveva fatto tanti spostati, e che in modo disordinato si rivoltavano contro le sofferenze materiali e le delusioni morali legate al periodo di transizione tra la guerra e la pace; e 3) giovani intellettuali, che volevano opporsi alla propaganda antinazionale e agli scioperi. Questi primi gruppi, lasciati a se stessi, non sarebbero mai stati in grado di formare un movimento politico permanente di importanza nazionale. Poco a poco, via via che la nevrastenia del dopoguerra si andava calmando, ciascuno sarebbe stato riassorbito dal proprio gruppo sociale e se ne sarebbe andato per la sua strada. Nel 1921, la grande maggioranza dei nuovi venuti che si unirono agli sparuti gruppi della prima ora continuava a provenire da quegli stessi gradini più bassi dei ceti medi che già formavano le file del movimento. Ma i vecchi rivoluzionari e gli studenti, che nei due anni precedenti avevano fornito quasi esclusivamente i dirigenti dei gruppi
locali, si trovarono presto ridotti in minoranza di fronte a un nuovo elemento sociale, gli ufficiali dell'esercito e gli agenti degli industriali e degli agrari. Il movimento fascista non era più un semplice movimento di reazione patriottica, più o meno agitato, contro l'azione politica dei socialisti e dei comunisti; esso divenne lo strumento di una sistematica reazione capitalistica, che aveva come fine la demolizione di tutte le istituzioni economiche che la classe lavoratrice italiana aveva costruito per la propria difesa e per il proprio miglioramento durante mezzo secolo di libertà. Oltre a ciò, nel 1921 le azioni locali, che prima avvenivano in modo disordinato, cominciarono a seguire direttive politiche superiori, e nel 1922 si fusero in un vero e proprio movimento di carattere nazionale. All'ingrossamento di questo movimento contribuirono tutte le classi sociali; e, d'altra parte, uomini provenienti da ogni classe sociale si trovavano presenti in tutti i gruppi antifascisti, allo stesso modo che gli uomini provenienti da ogni classe sociale si trovavano presenti in quella larga massa di indifferenti che vanno avanti occupandosi soltanto dei casi propri. La storia politica non è fatta dalle classi sociali ma dai partiti politici, i quali sono formati da uomini provenienti da strati sociali diversi, ma legati insieme da un fine comune: la conquista del potere politico. Anche nei casi in cui lo scopo proclamato di un partito politico è quello di curare gli interessi o i diritti di una classe contro le altre, il partito rimane sempre una organizzazione politica che non va confusa con quella classe sociale. Senza dubbio all'interno del movimento fascista si trovavano dei capitalisti. Se i capitalisti non avessero mantenuto il movimento col loro denaro, il movimento si sarebbe esaurito in clamori privi di effetto. D'altra parte, lasciati a se stessi, fascisti e capitalisti avrebbero potuto tutt'al più creare un nuovo partito politico - uno tra tanti e la loro rapida e schiacciante vittoria rimarrebbe un miracolo, un imperscrutabile mistero. Tale vittoria va spiegata col fatto che le autorità militari equipaggiarono il movimento di armi e capi, e una parte delle autorità governative italiane - cioè la polizia e la magistratura - concesse a tale movimento il privilegio della immunità. I grossi uomini d'affari - o, come dicono i marxisti, 'il capitalismo' - occupò, e ancora occupa, una posizione preminente all'interno della struttura fascista; ma se si ignorano gli altri fattori di tale struttura, cioè gli elementi dei ceti medi e dei gradini più bassi dei ceti medi, i quali fornirono il materiale umano, e le autorità militari, e i leaders nazionalisti, la polizia e la magistratura, non si capisce più il funzionamento di tutto il sistema. Questo movimento - intendo il movimento ben efficiente antisindacale e antiparlamentare del 1921-22, e non quello pseudo-rivoluzionario e inefficiente del 1919-20 - non fu affatto una creatura di Mussolini. Le sezioni dei Fasci nelle diverse città, paesi e villaggi, vennero fondate da ufficiali in congedo o in licenza, agenti di possidenti, e studenti. Il movimento comprendeva uomini della più diversa provenienza e mentalità: datori di lavoro, che fornivano i quattrini, e sindacalisti, che sino al giorno prima avevano guidato scioperi rivoluzionari contro quegli stessi datori di lavoro; ufficiali dell'esercito, educati negli ideali monarchici, e repubblicani, che con la monarchia non avevano niente a che fare; proprietari terrieri, che levavano le armi in difesa della loro proprietà, e proletari intellettuali mezzo morti di fame, che avevano tutto da guadagnare e niente da perdere; ragazzi di buona famiglia, che saltavano la scuola per unirsi alle spedizioni punitive nell'illusione di compiere un'azione patriottica, e criminali, che approfittavano di quelle stesse spedizioni per soddisfare la loro sete di violenza. Gioacchino Volpe, storico ufficiale del fascismo, così descrisse il movimento di Mussolini quale si presentava negli anni 1921-22: «Si trattava di naufraghi e transfughi e scontenti di altri partiti e gruppi, oppure di gente estranea ai partiti o addirittura nuova alla politica e tornata di fresco dalla
trincea, tornata da Fiume. (...) Animava tutti, essenzialmente e centralmente, il pensiero della guerra combattuta e vinta. (...) Fame e sete di ordine, di lavoro produttivo, di comando e di obbedienza. (...)Ed anche, se si vuole, desiderio di avventura, fascino delle rapide e perigliose spedizioni punitive in assetto di guerra, giovanile amore di parate e insegne e gagliardetti al vento. (...) Aggiungiamo interessi di classe; calcolo di arricchiti di guerra o di borghesi impauriti, disposti a dar denaro per sangue; solleciti, poiché incapaci a procurarsela da sé, ad invocare ed accettare la salvezza da altri, da chiunque. Né escludiamo basse passioni, spirito di violenza e di sopraffazione, vecchia e non mai morta faziosità, ressa di gente senza arte né parte, queste ed altre manifestazioni più o meno patologiche e fisiologiche. (:..) Ai seguaci il fascismo poco chiese da principio, in fatto di idee. Porte spalancate, attraverso cui entrò chi volle: non escluso, fior di comunisti. Si trattava di agire, battagliare, demolire, buttare a terra l'organizzazione dei bolscevizzanti italiani; e chiunque si sentiva chiamato ad una attività di tal genere, fu attirato e trovò accoglienza nel fascismo» (14 bis). Prudentemente, lo storico fascista evita di mettere in rilievo quale fosse la proporzione di questi elementi così diversi tra loro all'interno delle formazioni fasciste: la sete di ordine e il desiderio di avventura, la ressa di gente senza arte né parte e la sete di lavoro produttivo, il patriottismo disinteressato e le basse passioni. Su questo punto un altro scrittore fascista è stato più preciso: «Il primo squadrismo, ancora disordinatissimo e caotico, si compose di elementi umani assai curiosi e diversi: ex-arditi, legionari fiumani, ex-dinamitardi reduci dalla guerra, molti disoccupati di vario tipo, alcuni smarriti giovani intellettuali e idealisti, fior di canaglie... Sì, dico, canaglie; di quelle a cui la storia avvenire costruisce dei monumenti; banditi, come quelli che posero le prime pietre di Roma; pirati come quelli che iniziarono la Repubblica Veneta o la potenza Britannica; avventurieri, come i paladini dell'epopea cavalleresca, come certi nobili delle Crociate. Sublimi canaglie che si redimevano in un principio di passione etica, in una fiamma di spirito collettivo, in una disciplina anche interiore di obbedienza e di sacrificio» (15). Non solo ogni gruppo locale era formato da elementi sociali eterogenei, ma procedeva per conto proprio seguendo i propri impulsi secondo la situazione locale. Uno studioso americano, a cui si deve il miglior lavoro sin qui conosciuto sulle origini del movimento fascista, ha osservato che 'in Romagna i Fasci andavano contro il Re, a Cremona contro il Papa, nel Veneto contro gli slavi, nel Tirolo contro i tedeschi. Tutti erano contro i 'bolscevichi,' ma i `bolscevichi' potevano essere proletari da una parte, borghesi da un'altra' (16). Per tenere insieme elementi tanto diversi giustificando la loro opera e le ragioni della loro associazione ci voleva una dose di abilità superiore al normale. Una azione politica collettiva è possibile soltanto quando coloro che vi prendono parte possono tenere alta la bandiera di una qualche fede comune che, anche se la loro attività trae origine da interessi meschini, faccia appello ai loro sentimenti migliori. Poteva ragionevolmente sembrare impossibile trovare una fede comune per una folla tanto composita. Nel 1923 un nazionalista scrisse: «Bisognava (...) attuare un programma di schietto conservatorismo senza contrastare troppo apertamente i pregiudizi demagogici che inquinavano la coscienza politica della nazione, andare a destra coll'apparenza di andare a sinistra, assumere le pose esteticamente demagogiche per concludere con una tesi di realistico buon senso. Si trattava insomma di compiere un capolavoro di seduzione di un popolo» (17).
Mussolini compì questo capolavoro di seduzione. Figlio di un fabbro e di una insegnante elementare di un villaggio di Romagna, ed essendo stato egli stesso nella sua giovinezza maestro elementare, egli apparteneva ai gradini più bassi dei ceti medi. Possedeva quindi una esperienza di prima mano della mentalità di coloro che dovevano formare la massa dei suoi seguaci. Essendo stato operaio giornaliero disoccupato, aveva imparato a conoscere la mentalità dei lavoratori disoccupati vittime della fame. Ed essendo stato un giornalista, prima di estrema sinistra, poi di estrema destra, conosceva molto bene gli uomini più in vista dei diversi partiti politici italiani. Era dotato di una capacità di assimilazione eccezionalmente rapida, e di una viva capacità di intuizione che gli permetteva in ogni momento di seguire i sentimenti del suo pubblico. Possedeva una particolare abilità nell'improvvisare slogans e parole d'ordine, che erano in sé assolutamente prive di significato, ma che suonavano bene dando alla folla l'illusione di trovarsi improvvisamente chiarite le idee. A queste brillanti doti si accompagnava una assoluta indifferenza morale intorno alla scelta dei modi e dei mezzi per raggiungere i suoi fini. Possedeva soprattutto una forte e tenace volontà di affermare se stesso, il che pare sia un requisito essenziale per un uomo politico che voglia avere successo, sia che si tratti di un genio o di una figura di secondo piano, del più onesto degli uomini o dell'ultimo dei farabutti. Di questa massa multiforme che andava ingrossando il movimento fascista, egli era il giornalista, il propagandista e l'animatore multiforme. Mantenendosi sempre in luce, sollevava l'entusiasmo dei più giovani con i suoi articoli quotidiani, incitando a sempre nuove mosse offensive e vantandosi autore di tutto quello che ovunque succedeva o non succedeva. Da questo coacervo privo di ogni coerenza, di formule antibolsceviche, nazionaliste, sindacaliste, antiparlamentari, rivoluzionarie, contrastanti tra loro, e che formavano il bagaglio intellettuale suo e dei suoi seguaci, Mussolini sapeva rapidamente, di giorno in giorno, quella formula o quel frammento di formula, col quale contentare alcuni senza scontentare gli altri, incoraggiando alcuni senza scoraggiare i rimanenti. Egli contraddiceva oggi a quello che aveva detto ieri, si contraddiceva in uno stesso giorno sulle diverse pagine del suo stesso giornale, nei diversi periodi di uno stesso articolo. Tra le generazioni più giovani c'era una vera smania di affermare la propria personalità ad ogni costo contro tutti gli altri; una febbre violenta di quella che potrebbe chiamarsi 'abdicazione intellettuale,' una avversione profonda verso qualsiasi sforzo volto ad esplorare e a rischiarare tramite la riflessione e la logica quella zona oscura presente nel nostro spirito e dove sono custoditi gli istinti più bassi della nostra natura. Mussolini era orgoglioso di autodefinirsi antirazionale, istintivo, antiintellettuale, pragmatico. Disprezzava la ragione e la logica come sintomi di povertà Spirituale e ragioni prime dell'indebolimento della volontà. Nel novembre del 1921, Einstein venne in Italia per delle conferenze sulla sua teoria della relatività, e in tutti i salotti si discuteva della relatività di Einstein, senza nemmeno capire di che si trattava. Mussolini si impadronì immediatamente di quella parola incomprensibile, e proclamò che per parte sua aveva già scoperto e applicato nel campo della politica il principio della relatività prima che Einstein lo scoprisse e lo applicasse nel campo della scienza. «Il fascismo è stato un movimento super-relativista perché non ha mai cercato di dare una veste definitiva 'programmatica' ai suoi complessi e potenti stati d'animo, ma ha proceduto per intuizioni e frammenti. (...) L'aver tolto dagli altri partiti ciò che ci piace e ci giova e l'aver respinto quello che non ci garba e ci nuoce (.) costituiscono altrettante documentazioni della nostra mentalità relativistica» (18). I mercenari che formavano le file del movimento non avvertivano la necessità di una dottrina politica logicamente articolata: essi avevano di fronte a sé un compito
vantaggioso ed immediato: abbattere ogni forma di resistenza e riscuotere un salario per tale onorevole comportamento. Ai giovani intellettuali a cui stavano a cuore gli ideali, Mussoli offriva i fuochi d'artificio sindacalisti. Molta gente non lo avrebbe mai seguito se si fossero resi conto che essi agivano in favore di interessi egoistici e reazionari; ma Mussolini si faceva giuoco di loro, facendoli credere che quanto stavano realizzando era una nuova e più nobile forma di civiltà. Agli industriali, ai proprietari terrieri, ai banchieri e ai commercianti, che non percepivano salari ma piuttosto sborsavano loro stessi denaro, e che non si sarebbero contentati di fuochi d'artificio, egli offriva le spedizioni punitive, le devastazioni delle organizzazioni operaie, l'uccisione e la messa al bando degli organizzatori. Con i repubblicani, si dichiarava egli stesso repubblicano in potenza. Con gli ufficiali dell'esercito e con i generali sediziosi che davano credito al movimento, prometteva che sarebbe diventato monarchico non appena il Re fosse diventato più monarchico. Uno dei suoi giuochi verbali più riusciti - e che era destinato ad avere in Italia e fuori d'Italia un brillante futuro - fu quello di dare il nome magico di 'rivoluzione' al movimento di violenza illegale condotto dai suoi seguaci con la connivenza delle autorità militari, della magistratura e della polizia. Quando la violenza illegale è adoperata dalle forze del governo regolare contro individui od organizzazioni che sono fuori del governo, tale illegalismo non è 'rivoluzione,' è 'terrorismo.' Mussolini riuscì a meraviglia a capovolgere ogni nozione così bene che ci furono persone che non sospettarono mai che sotto una cortina di parole 'rivoluzionarie' si andava compiendo una impresa del capitalismo e del militarismo (19). Egli era solito dire: 'Più c'è confusione e meglio è (20) Definendo come una 'rivoluzione,' o una 'grande rivoluzione,' o meglio ancora la 'più grande rivoluzione della storia,' il movimento fascista, egli si andava creando la più abile delle giustificazioni a sua difesa contro l'accusa di incongruenza e opportunismo. Egli si metteva in grado di sostenere di essere sempre stato un rivoluzionario, senza soluzione di continuità, dalle sue giovanili scappate in Romagna e in Svizzera sino al vertice del potere. E se i suoi seguaci saccheggiavano, bruciavano, uccidevano, ciò accadeva perché essi andavano compiendo una 'rivoluzione.' Perfino un ammiratore di S. Francesco d'Assisi, quale G. K. Chesterton, condivise l'opinione che 'gli inscusabili atti di violenza' del fascismo dovessero essere giudicati da un diverso punto di vista che non quello di una normale moralità, e concluse affermando che 'è tanto giusto quanto facile e, in un certo senso, altrettanto giusto definire Michael Collins un assassino quanto definire Mussolini un assassino' (21), Mettere sullo stesso piano 'rivoluzionario' Michael Collins, che non ha mai ricevuto l'appoggio della polizia, della magistratura, o dell'esercito di Inghilterra, Scozia o Irlanda, e Mussolini che in Italia è stato sostenuto proprio da queste forze, richiede uno sforzo di buona volontà abbastanza eccezionale. Basandosi sul fatto che il fascismo non fu 'terrorismo' ma 'rivoluzione,' era facile arrivare a scoprire che tutte le azioni di violenza fasciste erano legittime. 'Di fatto - scrive un propagandista inglese - ci troviamo di fronte a una rivoluzione che per molti aspetti è di importanza non meno fondamentale della rivoluzione francese e di quella russa.( ...) Sfortunatamente, è inevitabile che gli eccessi si accompagnino a ciascuna di queste grandi rivoluzioni. Ogni persona ragionevole li considererà perciò per quello che sono' (22). I mistici cristiani risolvono tutte le incongruenze del loro pensiero in un atto di amore soprannaturale in cui spariscono tutte le contraddizioni. Mussolini risolse tutte le contraddizioni nella magica parola 'rivoluzione.' Coloro che credono nella 'rivoluzione' devono vivere pericolosamente, sfidare la vita, osare o morire. L'azione per la vittoria della 'rivoluzione' non ha bisogno di essere giustificata né da regole logiche né da principi morali. Ai giovani Mussolini offrì l'idea che soltanto lui e il suo partito operassero per la 'rivoluzione,' mentre tutti gli altri partiti tradivano la 'rivoluzione.' Per questi giovani egli fu il leader, il 'duce,' il 'salvatore,' l'inviato da Dio,' l'uomo del
destino.' Egli condusse una buona parte dei giovani italiani a uno stato di eccitazione frenetica. Lo storico futuro che cercherà di richiamare in vita nelle sue pagine gli uomini e gli eventi della 'rivoluzione fascista in Italia,' e che ne saprà più di quanto non ne sappiamo noi, perché un altro secolo di ricerche si sarà aggiunto alla nostra documentazione, arriverà probabilmente a concludere la sua narrazione sulle origini e sui primi sviluppi del fascismo affermando semplicemente: non fu Mussolini il creatore del movimento fascista, ma egli fu il vero e concreto creatore del mito e del misticismo fascista.
CAPITOLO VENTIDUESIMO. IL PARTITO POPOLARE E IL VATICANO. Nel corso del 1919 e del 1920, i popolari furono in modo compatto antifascisti e antisocialisti. Non avrebbe potuto essere altrimenti, dato l'atteggiamento antireligioso sia dei fascisti che dei socialisti. Inoltre, per quanto riguarda questi ultimi, c'era una viva concorrenza nelle attività sindacali, concorrenza che, come già sappiamo, assumeva spesso forme di estrema violenza. Questa concorrenza era bene accetta dai clerical-conservatori, in quanto impediva ai socialisti di ottenere un monopolio incontrastato delle organizzazioni operaie. Ma i sentimenti dei clerical-conservatori mutavano del tutto quando i sindacati popolari chiedevano più alti salari, scendevano in sciopero, e davano prova di una tale mancanza di rispetto per il diritto di proprietà, quale avrebbe fatto inorgoglire gli stessi socialisti. Al contrario, la massa dei popolari sarebbe stata ben disposta a collaborare con la destra socialista, non appena questa avesse ottenuto il sopravvento sopra i massimalisti e gli estremisti. I clericalconservatori erano assai preoccupati di questo pericolo. Essi sopportavano Don Sturzo e la sua democrazia come chi si inietta la rabbia o il tetano a piccole dosi, per prevenire forme più violente di rabbia o di tetano. Sino all'estate del 1920 Papa Benedetto Quindicesimo, il suo segretario di stato, cardinal Gasparri, e i vescovi, ignorarono le attività del partito popolare. La teoria ufficiale era che, essendo il partito popolare autonomo dalle autorità ecclesiastiche, quest'ultime gli lasciavano piena libertà e responsabilità. I primi sintomi di malumore da parte delle alte autorità ecclesiastiche si manifestarono nell'estate del 1920, cioè tra la rivolta militare di Ancona e l'occupazione delle fabbriche, quando sembrò veramente che l'Italia fosse sull'orlo di una rivoluzione sociale. Il 6 agosto del 1920, il cardinal Boggiani, arcivescovo di Genova, diramò una lettera pastorale al clero della sua diocesi, in cui proibiva alle associazioni riconosciute come cattoliche dalle autorità ecclesiastiche (confer cap. ottavo, [pag. 142 del libro cartaceo]) di unirsi al partito popolare. Questo partito non ha niente a che fare con l'Azione cattolica. I suoi deputati, non solo non hanno nessun mandato da parte dei cattolici, ma 'neppure hanno ancora dimostrato di possedere la capacità adeguata per poterlo legittimamente e fruttuosamente assolvere' (1). Lo scontento sollevato da questa lettera fu talmente forte tra i popolari di Genova, che Papa Benedetto quindicesimo, sebbene approvasse il modo di pensare del cardinal Boggiani, in una lettera che per il momento rimase confidenziale lo richiamò a Roma, nominando un successore meno imprudente. Doveva presto apparire chiaro che il cardinal Boggiani non era solo. Nel settembre del 1920, durante le settimane di occupazione delle fabbriche, cominciarono ad aver luogo in tutta Italia le elezioni amministrative. A differenza di quelle politiche, tali elezioni non si svolgevano col sistema proporzionale, ma la lista che riceveva il massimo dei voti otteneva i quattro quinti dei seggi; la lista che otteneva il secondo posto nelle votazioni otteneva un quinto dei seggi; le altre liste non ottenevano niente. Ovunque sorsero 'blocchi nazionali' o 'leghe antibolsceviche,' con l'intento di opporsi ai candidati socialisti, e ovunque tali coalizioni chiesero ai popolari di unirsi ad esse. Fedeli alla volontà della massa del partito, Don Sturzo e l'esecutivo nazionale decisero che il partito non si sarebbe in nessun luogo alleato con nessun altro partito. Si levarono alte proteste non soltanto dalle 'leghe antibolsceviche': il 26 settembre del 1920, diversi giornali di Roma annunciarono che il cardinal Pompilj, vescovo di Velletri, aveva inviato una lettera per informare il 'blocco' che Papa Benedetto Quindicesimo non approvava 'le mosse e la tattica elettorale del partito popolare italiano' 82). Il giorno seguente il "Corriere Italiano", portavoce romano del partito
popolare, affermava che la lettera era falsa. Ma il 28 settembre un altro prelato, il cardinal Pignatelli, vescovo di Albano, intervenne nella questione, e in una intervista alla "Tribuna", pur negando che esistesse una circolare del Vaticano in merito alle elezioni, biasimò la tattica del partito popolare, annunciando che il cardinal Pompilj era della stessa opinione, e aggiungendo: 'Non credo che si sia lontani dal vero credendo che questo sia anche il pensiero del Vaticano, contrario a quello della direzione del P.P' (3). Quindi, anche se la lettera del cardinal Pompilj poteva essere stato un falso, il suo pensiero non era stato falsato del tutto. Subito dopo, la "Settimana Sociale", portavoce ufficiale dell'Unione popolare, che ufficialmente dipendeva dalla Santa Sede, entrò in lizza. Secondo tale giornale, la intransigenza era pienamente spiegabile quando le alleanze fossero per riuscire dannose od inutili; meritasse invece 'prudenti quanto dignitose eccezioni allorché le intese risultassero mezzo unico e necessario ad impedire il trionfo di programmi contrari sì ai principi religiosi come all'ordine sociale' (4). Il 27-28 settembre 1920, l'"Osservatore Romano" interpretava le parole del suo confratello come un 'consiglio ai cattolici di preoccuparsi tempestivamente e seriamente di situazioni che, per complessi problemi morali e religiosi, non possono essere considerate ed affrontate con esclusivi concetti politici e tattici.' Il giornale terminava invitando la direzione nazionale del partito popolare 'ad uno spassionato, quanto libero esame di alcune specialissime condizioni locali'; essi dovevano rammentare che 'di fronte ad interessi, religiosi e civili, quelli politici e particolari di un partito debbono, specie in momenti di eccezionale gravità, ed in casi di riconosciuta ed utile efficacia, non tanto sacrificarsi, ma cercare di coordinarvisi.' A partire da questo momento, i clerical-conservatori potevano sostenere che se essi si ribellavano contro il partito popolare, ciò era in obbedienza 'ad interessi superiori, religiosi e civili,' secondo il consiglio dato dal Vaticano. In grandi centri urbani, in cui per trent'anni i clericali erano stati alleati coi conservatori nelle elezioni amministrative, le ribellioni e le minacce di ribellione furono talmente forti che Don Sturzo e la direzione del partito non osarono affrontare la tempesta, e annunciarono che erano disposti a permettere alleanze 'antibolsceviche' dovunque fosse evidente lo stato di necessità. A Roma non fu permessa alleanza, e il partito presentò una propria lista. A Torino Don Sturzo permise che le locali sezioni del partito partecipassero ad una alleanza 'antibolscevica.' A Ferrara, Modena, Venezia, Padova, Brescia, chiuse gli occhi e lasciò che i popolari entrassero nei blocchi 'antibolscevichi' (5). Quanto a Milano, Don Sturzo consigliò i popolari all'astensione, ma i clerical-conservatori non obbedirono. Il quotidiano cattolico "Italia", il 3 novembre 1920, e un deputato iscritto al partito popolare, Nava, invitarono i cattolici a votare per la lista 'antibolscevica.' Il 5 novembre 1920, il giornale "La Perseveranza" annunciò che 'una altissima personalità ecclesiastica,' in cui tutti riconobbero il cardinal Ferrari, arcivescovo di Milano, invitava 'quanti hanno a cuore il vero bene della città,' a votare per la coalizione antisocialista (6). Nelle città più piccole e nelle campagne, i conservatori e l'alto clero non ebbero successo. Le masse rimasero compatte dietro a Don Sturzo. Quando alla fine del 1920 i fascisti cominciarono a distruggere le organizzazioni socialiste, gli elementi conservatori del partito popolare si schierarono con tutto il cuore dalla parte dei fascisti (7). Tra le masse vi fu un iniziale sbandamento. Dove i socialisti avevano instaurato un proprio monopolio mostrando di voler opprimere i popolari, questi ultimi considerarono l'offensiva fascista contro i socialisti come una liberazione. Ma non appena i fascisti iniziarono lo smantellamento delle organizzazioni popolari, la massa del partito, pur senza associarsi ai socialisti, divenne interamente contraria a fascisti. Don Sturzo, ora come sempre, era con la massa del partito. E a questo punto, nel suo primo discorso parlamentare il 21 giugno 1921, con grande sorpresa di tutti coloro che conoscevano il suo passato antireligioso, Mussolini offrì l'alleanza dei fascisti non solo ai socialisti, ma anche ai popolari. E ancor più egli affermò la necessità di risolvere la questione romana..
«Vi è un problema che trascende questi problemi contingenti (...), ed è il problema storico dei rapporti che possono intercedere (...) fra l'Italia e il Vaticano. (...) Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. (...) Affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che si irradia dal Vaticano. (...) Penso che se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici - e credo che sia già su questa strada - l'Italia profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicismo nel mondo (...) è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani.» L'invito non venne raccolto. La coscienza morale del 'popolo minuto' organizzato nel partito popolare era stata offesa dalla crudeltà della guerra civile. Anche se fosse stato un altro uomo e si fosse arreso alle pressioni di Mussolini, Don Sturzo sarebbe stato seguito soltanto da una piccola minoranza del suo partito. D'altra parte la tenerezza di Mussolini nei confronti del Vaticano era talmente inaspettata che nessuno se ne fidò. Nell'agosto del 1921, Benedetto Quindicesimo condannò pubblicamente 'le spedizioni crudeli, perpetrate da mali intenzionati' in Istria, contro il clero di lingua slava. 'Sacerdoti non di altro colpevoli che di essere della stessa nazionalità e dell'idioma dei fedeli (...) sono vittime di atrocità sanguinose e contumelie di ogni specie.' Il papa deplorava anche che 'le scelleratezze accennate si compiono impunemente' (8). Lungi dal scendere a patti con i fascisti, nell'estate del 1921 diversi gruppi del partito popolare cominciarono a discutere pubblicamente se non fosse opportuno allearsi con i socialisti per formare un gabinetto che disarmasse i fascisti e ponesse fine alla guerra civile. Il 13 settembre del 1921, il settimanale "Il Popolo Nuovo", organo ufficiale della direzione del partito popolare, controllato da Don Sturzo, rese noti i termini che i socialisti avrebbero dovuto accettare per rendere possibile un'alleanza. Essi erano 'la libertà e il rispetto della coscienza cristiana,' specificare un programma ragionevole di immediate riforme finanziarie ed economiche, e garantire alle organizzazioni popolari diritti uguali a quelle socialiste. Commentando tali affermazioni, la "Tribuna" così diceva: 'Per la prima volta ed esso per primo, il partito popolare formula al partito socialista una base concreta di intesa e di attività comune ' (9). Il problema venne discusso al congresso nazionale del partito che si tenne a Venezia dal 20 al 23 ottobre del 1921. I clerical-conservatori, sentendosi in minoranza, non osarono proporre al partito di allearsi con i fascisti e con i gruppi conservatori non cattolici; si limitarono a richiedere che tale alleanza non fosse vietata. I democratici, che rappresentavano la stragrande maggioranza, accettarono di non escludere in modo assoluto una alleanza con le destre; ma la dichiarazione votata dal congresso offriva un'alleanza ai socialisti, qualora questi considerassero 'travolte dalla realtà le illusioni apocalittiche di un governo o di una dittatura di classe,' e accettassero 'una politica di realizzazioni e di dirette responsabilità, contraddicendo alla intransigenza collaborazionista, ultimo tentativo di sequestrarsi dalla complessa, organica vita collettiva' (10). Se i socialisti avessero accettato questa offerta, un anno prima della marcia su Roma sarebbe sorto un governo solido, sostenuto in Parlamento da una forte maggioranza, il quale forse avrebbe ristabilito la pace pubblica in Italia e salvato dalla rovina le istituzioni parlamentari. Ma i massimalisti erano drogati dalle formule marxiste, e i socialisti di destra erano indecisi e timorosi di assumersi le responsabilità del governo. Di conseguenza, quando i clerical-conservatori sostenevano una alleanza tra il partito popolare e i partiti conservatori non cattolici rinforzati dai fascisti, essi avevano il
vantaggio di sostenere una politica possibile; mentre i popolari, paralizzati dalla cecità dei massimalisti e dalla indecisione dei socialisti di destra, non avevano nessuna possibilità per una azione positiva. In aiuto ai clerical-conservatori venne l'"Osservatore Romano" con un articolo del 1 gennaio 1922. Il giornale ufficiale del Vaticano lamentava che attualmente 'l'azione schiettamente e apertamente cattolica è meno sentita da uomini politici, da organizzatori e da scrittori.' Poi intervenne il "Cittadino", di Brescia, attaccando il partito popolare e le organizzazioni che da esso dipendevano, in quanto non ponevano al primo posto l'azione cattolica, ma 'una politica meno sana' (11). Terzo venne "L'Avvenire d'Italia", di Bologna. Già da un anno esso sosteneva l'alleanza tra il partito popolare e i fascisti; inoltre, denunciava il pericolo che grosse organizzazioni (cioè, i sindacati dipendenti dal partito popolare) potessero far passare in secondo piano 'quella forza unificatrice che sola si trova nell'Azione cattolica' (12). L'"Unità Cattolica" di Firenze a sua volta cominciò a chiedere con fervido zelo che i cattolici ritornassero alle loro 'tradizioni gloriose.' I clerical-conservatori non osavano accusare i popolari di essere democratici, perciò muovevano contro di essi l'insinuazione che non fossero abbastanza cattolici. Speravano così di provocare lo smarrimento nelle masse. Senza dubbio la campagna dei giornali Clerical-conservatori nel gennaio 1922 fu voluta dal Vaticano. Ne è prova l'articolo dell'"Osservatore Romano". Articoli su questioni di quel genere non vengono mai pubblicati dall'"Osservatore" se prima non sono stati approvati dalla segreteria di stato. Per comprendere l'atteggiamento del Vaticano va tenuto presente che la Santa Sede attraversava gravi difficoltà finanziarie. Già al tempo di Pio Nono, l'obolo di Pietro bastava appena a coprire le necessità del Vaticano. Leone Tredicesimo si guadagnò la reputazione di avaro, riducendo le spese inflessibilmente. Per aumentare le sue risorse, si avviò in una serie di speculazioni edilizie in Roma, cercando cioè di fare quattrini approfittando del fatto che come capitale d'Italia la città si andava sviluppando, e questo mentre al tempo stesso protestava che Roma non doveva essere la capitale d'Italia. La tragica crisi dei beni immobili del 1887 si portò via gran parte dei suoi risparmi. Pio Decimo dovette vivere giorno per giorno. Per far fronte alle spese più essenziali, vendeva tutti i beni di valore che riceveva in dono dai suoi devoti. Durante la guerra, sotto Benedetto Quindicesimo, i cattolici di Francia e di Belgio dovettero ridurre in modo drastico i loro contributi all'obolo di Pietro, non solo perché impoveriti dalla guerra, ma soprattutto perché scontenti della politica di Benedetto Quindicesimo e del cardinal Gasparri. In seguito alla rivoluzione bolscevica, le corporazioni religiose francesi, che avevano investito in Russia enormi capitali, avevano perduto tutto, e non soltanto non potevano più contribuire al mantenimento della Santa Sede, ma avevano bisogno esse stesse di essere aiutate da questa. Alla fine della guerra anche i buoni del tesoro austriaci furono ridotti a zero, mentre nel 1915 il cardinal Gasparri aveva ceduto parte dei titoli italiani posseduti dalla Santa Sede per acquistare titoli austriaci(13). La spaventosa crisi economica che a partire dal 1919 sconvolse l'Austria e la Germania privò il Vaticano dei contributi dei tedeschi cattolici, mentre francesi e belgi continuavano a non contribuire. Per la maggior parte il Vaticano visse nel periodo del dopoguerra dei contributi del Nord e Sud-America, ma tali entrate non coprivano tutte le spese. Qualche volta Benedetto Quindicesimo era costretto a elemosinare dai suoi visitatori: alla moglie di un grosso industriale piemontese chiese un milione (14). Ad aumentare le preoccupazioni del Vaticano, Giolitti nel settembre del 1920 fece approvare dal Parlamento una legge che obbligava i possessori di titoli pubblici o privati a registrarli sotto il loro nome, in modo da non evadere le tasse di successione e quelle dirette. Tale sistema era già in funzione in Inghilterra. Ma il Vaticano e le corporazioni religiose furono terrorizzati. Se avessero dovuto registrare i loro titoli sotto il nome di un possessore, avrebbero
dovuto affidare i loro capitali a persone che di regola erano assai in là con gli anni; di conseguenza avrebbero dovuto pagare molto spesso le tasse di successione, assai elevate, ed entro pochi anni esse avrebbero divorato tutto il capitale (15). Come se questi guai non fossero abbastanza, il Banco di Roma, a cui il Vaticano e molti istituti cattolici avevano affidato buona parte del loro denaro, era stato diretto talmente male che era sull'orlo del fallimento. In tali circostanze, il Vaticano era ansioso e i clerical-conservatori insistevano che il partito popolare si alleasse con i gruppi conservatori e filo-fascisti, che erano disposti a pagare tale alleanza abrogando la nominatività dei titoli e salvando il Banco di Roma. La massa del partito popolare ignorava tali faccende, rifiutandosi di allearsi coi fascisti. Ecco perché il partito popolare era in disgrazia con il cardinal Gasparri. La campagna giornalistica del gennaio 1922 non fu condotta contro la volontà di Benedetto Quindicesimo. Le preoccupazioni finanziarie dovevano turbarlo non meno del suo segretario di stato. Inoltre una alleanza tra i cattolici italiani e i socialisti significava troppo un salto nel buio. Leone Tredicesimo con l'enciclica Rerum Novarum (1891) aveva incoraggiato il movimento democratico cristiano, e poi con l'enciclica Graves de Communi (1902) vi aveva posto un freno. Ma non ha senso argomentare su quanto avrebbe fatto Benedetto Quindicesimo se fosse vissuto. Il fatto è che egli morì il 22 gennaio 1922, e gli succedette il cardinale Achille Ratti, arcivescovo di Milano, che prese il nome di Pio Undicesimo. Il padre di Achille Ratti era stato un capo operaio in una fabbrica di seta in Lombardia. Achille Ratti, da giovane, era stato precettore a Bologna e a Milano in famiglie nobili. Come papa, egli conferì il titolo di conte al fratello, che si era arricchito durante la guerra (16).b e celebrò con molta pompa in Vaticano il matrimonio della nipote, come se si fosse trattato di una principessa di sangue imperiale. Pio Decimo, che proveniva anch'egli da umili origini, non permise mai che i suoi parenti abbandonassero la condizione sociale in cui erano nati. Pio Undicesimo proveniva da quella parte di clero che aveva sempre desiderato in Italia una conciliazione tra Stato e Chiesa, che opponesse alla marea crescente del socialismo la resistenza compatta di tutti gli elementi conservatori, fossero questi cattolici o 'liberali.' Nell'estate del 1920, quando le armate dei bolscevichi russi arrivarono sotto le mura di Varsavia, monsignor Ratti si trovava in quella città come nunzio apostolico. Tutti gli altri diplomatici fuggirono. Egli rimase al suo posto. Questo incontro col bolscevismo autentico pare che abbia lasciato nel suo spirito una impronta indelebile. Di tutto quanto avveniva in Italia nel 1919 e 1920, egli lesse stando in Polonia quanto pubblicavano i giornali conservatori di Milano, i quali denunciavano 'la sanguinosa tirannia del bolscevismo italiano.' Monsignor Ratti era persuaso che in Italia le cose andassero come in Russia e in quella parte di Polonia infestata dal contagio bolscevico. Richiamando monsignor Ratti dalla Polonia e nominandolo arcivescovo di Milano (13 giugno 1921), Benedetto Quindicesimo fece ai conservatori milanesi il più bel dono che potessero desiderare. E' probabile che Achille Ratti, al suo ritorno dalla Polonia e prima che la sua nomina ad arcivescovo di Milano venisse ufficialmente annunciata, sia venuto in contatto con Mussolini, smantellando il suo bellicoso anticlericalismo. Se le cose sono veramente andate così, il discorso di Mussolini alla Camera del 21 giugno 1921 sarebbe stato il risultato di questo primo scambio di vedute. Sia come sia, i cardinali, scegliendo Achille Ratti come papa nel febbraio del 1922, sapevano bene quello che facevano. Allo stesso modo che Pio Decimo era stato scelto alla morte di Leone Tredicesimo, Pio Undicesimo fu scelto alla morte di Benedetto Quindicesimo, perché in tutti e due i casi i cardinali volevano un papa che rafforzasse nella Chiesa e nella società gli elementi conservatori. Il nuovo papa trovò nelle casse della Santa Sede appena 600000 lire, cioè neppure quanto bastava per pagare le spese quotidiane di una settimana, e in sopraggiunta c'era la prospettiva della nominatività dei titoli e l'imminente fallimento del Banco di
Roma. Per rimettere in sesto le finanze vaticane bisognava condurre in porto la soluzione della questione romana. Nell'assumere il suo ufficio, Pio Undicesimo ripeté il giuramento di affermare e difendere i diritti inviolabili della Chiesa e della Santa Sede, ma dette la sua benedizione alla folla in attesa in Piazza S. Pietro. Tale mutamento nel corso della cerimonia mostrò chiaramente che si era creata una situazione nuova. L''esprit nouveau' non tardò a manifestarsi. Nel giugno del 1922, il marchese Cornaggia, un clerical-conservatore milanese, amico personale del nuovo papa, fondò la 'Unione costituzionale italiana.' La nuova associazione, così come il partito popolare, evitava di dichiararsi cattolica, ma, diceva, 'riconosce nella religione il fondamento della moralità pubblica e privata.' Per sopraggiunta il marchese Cornaggia annunciava che la sua organizzazione si proponeva di aprire le sue porte a quei cattolici che si staccassero dal partito popolare, nel caso che questo si alleasse coi socialisti. Interrogato se la sua iniziativa avesse l'approvazione del nuovo papa, Cornaggia rispondeva, o meglio non rispondeva: «Da tempo non vedo il Pontefice e non credo che egli si sia ancora espresso con alcuno sulla questione alla quale lei accenna, ma posso dirle che Pio Undicesimo è al corrente delle nostre idee e dei nostri propositi, e che in una recente occasione egli ha inviato (...) un telegramma con espressioni particolarmente benevole e, se lei vuole, significative. Dal canto nostro non abbiamo fatto alcun passo verso il Vaticano» (17). Commentando tali affermazioni, l'"Idea Nazionale" del 29 giugno 1922 scriveva: «Ora, se a queste pacate, ma chiare affermazioni aggiungiamo un dato di fatto a tutti noto, e cioè i rapporti di devota amicizia che legano l'on. Cornaggia a Pio Undicesimo, potremo desumere, senza aver l'aria di fare delle rivelazioni, che il Pontefice segue con simpatia l'opera iniziata dalla Unione costituzionale italiana.» Da parte sua l'"Osservatore Romano", sempre pronto a rigettare da parte del Vaticano ogni responsabilità per l'azione del partito popolare, non negò in alcun modo la 'simpatia' del papa per l'iniziativa del marchese Cornaggia. Malgrado la pubblicità fattagli da fascisti, nazionalisti e 'liberali,' il marchese Cornaggia fallì miseramente. La massa rimase fedele al partito popolare. Tuttavia il suo tentativo era significativo. Un estraneo, che seguiva con la curiosità dello storico e con la simpatia del democratico il movimento popolare, nel giugno del 1922 scriveva: «Pei conservatori-cattolici e pei conservatori-liberali-democratici, l'ideale sarebbe che il nuovo Papa, Pio Undicesimo, ritornasse alla politica del suo omonimo, abbandonando la tattica del predecessore immediato. Papa Ratti, se obbligasse Don Sturzo ad abbandonare la segreteria del Partito popolare, se mettesse l'azione elettorale e politica delle organizzazioni popolari sotto il controllo dei vescovi, se sconfessasse l'on. Miglio, diventerebbe subito un gran Papa per gli agrari lombardi e toscani e per tutti i candidati del liberalismo, che non è liberalismo, di destra, e della democrazia, che non è democrazia, di sinistra. Ma sembra assai difficile che Pio Undicesimo voglia tentare oggi, contro il Partito popolare di Don Sturzo, una nuova edizione della spietata operazione chirurgica compiuta da Pio Decimo, tra il 1904 e il 1906, contro la democrazia cristiana di Romolo Murri. Ai tempi di Pio Decimo, non era scesa ancora in campo una massa di più che un milione di organizzati, in maggioranza piccoli proprietari di campagna, fittabili, contadini. Un orientamento del Partito popolare verso la destra fascista, nazionalista, agraria, getterebbe lo sfacelo in queste moltitudini. I socialisti mieterebbero dove i popolari hanno seminato. (...) Mentre correggo le bozze, giugno 1922, le violenze fasciste hanno intensificato nel Partito
socialista quella evoluzione verso il riformismo e verso il collaborazionismo coi popolari, che alcuni mesi or sono, mentre davo la prima forma a questo studio, cominciava appena ad accennarsi. E in relazione con quest'accostarsi della maggioranza socialista all'idea di collaborazione col Partito popolare, si accentua nel Partito popolare una crisi fra gli elementi di destra e quelli di sinistra: il Marchese Cornaggia, che al tempo di Pio Decimo fu il personaggio più autorevole del movimento demomoderato, promuove il sorgere di una organizzazione cattolica di destra; e Pio Undicesimo sembra approvare questo tentativo, e già cominciano a chiamarlo 'il Papa dei lombardi'» (18). I sintomi di questo 'esprit nouveau' cominciarono subito a manifestarsi. Ripubblicando la sua lettera dell'agosto 1920 (19), il cardinal Boggiani si prese il disturbo di sottolineare che essa "non era mai stata biasimata né condannata da Colui che solo avrebbe avuto ed 'ha' il diritto di farlo" (20); e a prova di quanto affermava, pubblicava una nota di approvazione inviatagli da Benedetto Quindicesimo. Il cardinal Boggiani parlava di 'Colui che avrebbe avuto ed "ha" il diritto' di condannarlo, mettendo in rilievo in tal modo non solo Benedetto Quindicesimo ('avrebbe avuto'), ma anche il Papa vivente ('ha'). Egli non avrebbe fatto tale affermazione, se non ne fosse stato autorizzato da Pio Undicesimo. A dissipare ogni ultimo dubbio, l'"Osservatore Romano" del 30 luglio scriveva che: 'Questi atti dell'Em.mo Porporato (...) se hanno la data di qualche anno addietro, conservano, peraltro, tuttora, la stessa ragione di attualità e di previggente intervento che li fecero, a suo tempo, dettare.' 'Lo sviluppo di avvenimenti e di speciali condizioni (...) rendono questi Atti Pastorali (...) ancor più interessanti e utili, avendo essi avuto, in questi anni, dagli uomini e dalle cose, piena conferma e giusta illustrazione, nei loro giusti richiami e nei loro saggi ammonimenti.' "E' questo volume un vero prontuario e un manuale di dottrina e di disciplina utilissimo ai cattolici, specialmente in questi tempi di 'tanti oblii e di tante defezioni.'"
CAPITOLO VENTITREESIMO. LO SCIOPERO GENERALE DEL 1-3 AGOSTO 1922. Il 2 febbraio del 1922, il gabinetto Bonomi si dimetteva. Il suo atteggiamento incerto aveva finito con l'attirarsi l'ostilità sia dei fascisti che degli antifascisti. Giolitti non poteva essere il successore perché, avendo armato i fascisti, nessuno si fidava di lui. La nomina di Nitti avrebbe provocato una rivolta armata dei fascisti sostenuta dalle autorità militari. Un gabinetto nazionalista-conservatore-fascista non avrebbe potuto contare su più di un centinaio di deputati. D'altra parte il fatto che socialisti e comunisti avrebbero comunque votato contro qualsiasi gabinetto rendeva la situazione parlamentare disperata. Sembrava impossibile riuscire a trovare un presidente del Consiglio più incapace di Bonomi; invece si trovò Facta: un uomo politico di quart'ordine col cervello di una gallina. Egli venne considerato un sostituto, in attesa che scappasse fuori qualcosa a migliorare la situazione che sembrava altrimenti disperatamente senza via d'uscita. Senza dubbio tre erano i mali di cui soffriva il corpo politico italiano: la paralisi parlamentare, la guerra civile e la sedizione militare. Se il Parlamento non riusciva a riacquistare il suo potere e mettere fine alla guerra civile e alla sedizione militare, esso sarebbe stato privato di tutti i poteri o addirittura tolto di mezzo. Le responsabilità maggiori di questa situazione ricadevano sui deputati socialisti. Essi si erano separati dai comunisti al principio del 1921. Così facendo, non soltanto i socialisti di destra ma gli stessi massimalisti avevano implicitamente respinto ogni progetto e ogni speranza di una rivoluzione sociale. Adesso avrebbero dovuto sentire il dovere di assicurare un governo che potesse almeno apparire degno di qualche rispetto. Un tale governo sarebbe stato possibile soltanto se i socialisti avessero acconsentito a formare una coalizione coi popolari e coi democratici. I socialisti di destra erano favorevoli a tale politica; ma la maggioranza del partito era composta di marxisti di stretta osservanza, e per essi era inconcepibile cooperare con qualsiasi altra classe che non fosse il proletariato rivoluzionario. Si chiamavano massimalisti e rivoluzionari, ma tutto quello che sapevano fare era di risciacquarsi la bocca con una rivoluzione che non arrivava mai. Pur senza sapere come realizzare una rivoluzione, essi resero impossibile ogni riforma. Sottomessi alla cieca ostinazione di questi proletari intellettuali, i socialisti di destra persero un anno intero senza fare nessun tentativo per trovare una via d'uscita nella disperata situazione parlamentare. Uomini come Turati e i suoi seguaci erano persone disinteressate e piene di buone intenzioni, ma essi non osavano agire contro la volontà della maggioranza del partito. Avevano paura, qualora fossero entrati in un governo, od anche si fossero limitati ad appoggiarlo, senza il permesso della maggioranza del partito, di essere accusati di ambizione personale. Aspettavano pazientemente che i loro compagni cambiassero idea. Non si resero conto che i cervelli dei marxisti di stretta osservanza sono come le uova sode: più bollono e più diventano dure. Come era naturale, la guerra civile continuò con la stessa intensità. Tra il 31 maggio e il 2 giugno 1922, diecimila fascisti provenienti dalle provincie limitrofe si concentrarono a Bologna chiedendo le dimissioni del prefetto, accusato di essere complice dei 'bolscevichi.' E' chiaro che se il prefetto avesse potuto contare sull'esercito avrebbe impedito questa concentrazione, ma il generale Sani durante tutto il periodo critico rimase assente, proprio come aveva fatto otto mesi prima durante la 'marcia su Ravenna.' Il 19 luglio, anche Facta si dovette dimettere. Le consultazioni per formare un nuovo gabinetto proseguirono per una quindicina di giorni, tra i diversi gruppi, i loro leaders, e il Re. Durante quei giorni avvenne qualcosa di molto importante: la maggioranza dei
deputati socialisti, ribellandosi contro i massimalisti che controllavano l'esecutivo centrale del partito, si dichiararono pronti a dare il proprio appoggio ad un nuovo ministero, a condizione che questo ristabilisse l'ordine nel paese. Il 29 luglio, il leader della destra, Turati, con il consenso dei suoi colleghi, si recò dal Re per discutere la situazione politica. Ma il ristabilimento della pace pubblica non si poteva raggiungere senza sciogliere l'organizzazione fascista. Ciò significava sfidare la 'mano nera' militare, che si era già compromessa troppo a fondo con l'avventura fascista. Quando si criticano le Camere del periodo postbellico per la incapacità a formare un ministero stabile, si devono distinguere le cause che paralizzarono le Camere a partire dal novembre 1919 sino al luglio 1922, da quelle che si manifestarono nel luglio 1922. Sino al luglio 1922, la causa della paralisi era nella stessa Camera; ogni coalizione stabile era resa impossibile dall'intransigenza dei deputati socialisti e dalla mancanza di fiducia di tutti i partiti nei confronti dei popolari. Nel luglio del 1922 questi dissidi interni stavano per scomparire. Ma adesso era una causa esterna a paralizzare la Camera; la mano nera, che aveva una scarsa forza nella Camera, ma una formidabile organizzazione armata all'esterno, mise il veto ad una coalizione parlamentare di sinistra, che il nuovo atteggiamento dei deputati socialisti rendeva possibile. 'C'è troppa paura fisica in giro,' disse Turati, in una intervista all'"Epoca" del 1 agosto 1922. 'In tutti i partiti ci sono troppi pavidi, ma è certo che nella Camera se ne trova una percentuale superiore a quella che di solito dà una raccolta qualsiasi di uomini.' Se i socialisti si fossero decisi nel luglio 1921, probabilmente avrebbero salvato il paese dai malanni dell'anarchia militare-fascista, e le libere istituzioni dalla distruzione. Nel luglio 1922 era troppo tardi. Ma un anno avanti, subito dopo le sciagurate elezioni del maggio 1921, qual è quel socialista che avrebbe potuto fare il primo passo senza provocare la rivolta di tutti i suoi compagni? Più si riflette sugli avvenimenti di quei tristi anni, e più appaiono imperdonabili gli uomini politici che alla fine del 1920 e all'inizio del 1921 armarono i fascisti per farsene strumenti di punizione e di pressione elettorale. Mentre i gruppi parlamentari erano paralizzati da questo ostruzionismo e il Re era incapace di trovare un presidente del Consiglio che, sostenuto alla Camera da una maggioranza, potesse tener testa ai fascisti nel paese, il 30 luglio, un giornale di Genova, "Il Lavoro", annunciava che per il 1 agosto era stato proclamato uno sciopero generale. Questa mossa pazzesca era stata decisa dall''Alleanza del lavoro,' che si era formata nel dicembre precedente tra i rappresentanti del Sindacato nazionale ferrovieri, la Confederazione generale del lavoro, la Federazione lavoratori del mare, l'Unione italiana sindacale e altre organizzazioni minori. Nell'esecutivo centrale del Sindacato ferrovieri gli anarchici esercitavano una grande influenza, sebbene la gran massa degli iscritti fosse tutt'altro che anarchica. La Confederazione del lavoro era diretta e composta per lo più da socialisti riformisti, ma conteneva anche una attiva e chiassosa minoranza di comunisti e socialisti massimalisti. L'Unione sindacale era composta di anarchici e di sindacalisti rivoluzionari. La Federazione lavoratori del mare e le altre organizzazioni minori erano composte da iscritti appartenenti a partiti diversi. L'iniziativa di formare l'Alleanza del lavoro era partita dall'esecutivo centrale del Sindacato ferrovieri; scopo degli anarchici, che vi avevano la maggioranza, era di formare una coalizione tra le organizzazioni economiche delle classi lavoratrici, rifiutando ogni contatto col Parlamento. I dirigenti della Confederazione del lavoro avevano aderito all'Alleanza per la pressione degli iscritti comunisti e massimalisti, convinti che non avrebbe mai approdato a niente, sperando di tenere a freno gli estremisti. Nei primi sei mesi del 1922, l'Alleanza del lavoro limitò le sue attività a qualche discorso generico su uno sciopero generale. Nel luglio 1922, la discussione si fece accesa. Coloro che più
desideravano lo sciopero erano gli anarchici; i dirigenti della Confederazione del lavoro erano contrari. Dopo un mese di accanite discussioni, la mozione per lo sciopero fu approvata con una lieve maggioranza contro il voto della Confederazione del lavoro. E' probabile che, oltre gli estremisti i quali aspettavano che dallo sciopero potesse sorgere una autentica rivoluzione, vi fossero degli agenti provocatori tra coloro che si adoperarono per promuoverlo (1). Ma va anche ricordato che in tutto il paese le classi lavoratrici erano esasperate dalla prospettiva che il nuovo gabinetto si sarebbe alleato coi fascisti o comunque sarebbe stato incapace di disarmarli. La spinta finale fu data dai disordini di Ravenna del 26-29 luglio. Qui il 25 luglio un modesto sciopero locale di carrettieri degenerò in un conflitto, in cui un fascista perse la vita (2). Ne seguì un conflitto con la polizia in cui rimasero uccisi sette scioperanti. La cosa sarebbe potuta finire qui ma il 26 luglio calarono sulla città dalle provincie limitrofe tremila fascisti, armati di fucili, bombe e mitragliatrici. venne ordinato ai dirigenti repubblicani, socialisti e comunisti di abbandonare la città entro le ventiquattr'ore. Il giorno 27, i fascisti distrussero la Casa del popolo e tentarono di invadere la Camera del lavoro, il municipio, e le sedi principali delle cooperative dell'intera zona. Nei giorni seguenti distrussero gli uffici di un quotidiano e la succursale di una cooperativa, bruciarono un circolo, e, con una bomba incendiaria, appiccarono il fuoco alla sede principale delle cooperative: solo il piano terreno e un'ala di questo bel palazzo dove una volta aveva abitato Byron rimasero in piedi; i danni ammontarono a un milione e mezzo di lire, che significavano venticinque anni di lavoro continuo ed intelligente. 'L'incendio del grande edificio,' scrive Italo Balbo che comandava le squadre fasciste che compirono l'eroica impresa, 'proiettava sinistri bagliori nella notte. (...) Dobbiamo oltre a tutto dare agli avversari il senso del terrore' (3). Baldini, organizzatore socialista e deputato al Parlamento, sino all'ultimo momento era rimasto al suo posto nell'edificio. Scrive ancora Balbo: «Quando ho visto uscire l'organizzatore socialista con le mani nei capelli e i segni della disperazione sul viso, ho compreso tutta la sua tragedia. Andavano in cenere in quel momento, col palazzo delle cooperative di Ravenna, il sogno e le fatiche della sua vita. Qui era tutta o per lo meno gran parte della forza di cui i socialisti godono nella regione. Organizzazione mastodontica, ma retta con criteri sostanzialmente onesti. Soltanto che non era un ente economico, bensì politico» (4). Il giorno 29, Balbo partì da Ravenna, a capo di una lunga colonna di camions pieni di fascisti, per una spedizione in provincia che doveva concludersi all'alba del giorno dopo. «Siamo passati da Rimini, Sant'Arcangelo, Savignano, Cesena, Bertinoro, per tutti i centri e le ville tra la provincia di Forlì e la provincia di Ravenna, distruggendo e incendiando tutte le case rosse, sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. E' stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai colli è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti. (...) Episodi innumerevoli. Scontri con la teppaglia bolscevica, in aperta resistenza, nessuno. I capi sono tutti fuggiaschi. Le leghe, i circoli socialisti, le cooperative, semideserti» (5). Balbo, come spesso per tutto il suo "Diario", tralascia di descrivere gli atti di violenza contro persone, ma il quadro è abbastanza eloquente e non ha bisogno di commenti. Sotto la pressione di questi avvenimenti l'Alleanza del lavoro proclamò lo sciopero generale (6). Dato che Ravenna era la principale roccaforte dei socialisti di destra, questi si trovarono indeboliti nella loro opposizione allo sciopero. Molti di coloro che
all'ultimo momento furono trascinati a votare in favore dello sciopero, non solo intendevano protestare contro questa distruzione irragionevole, ma speravano anche che un largo spiegamento delle forze antifasciste, tale da mostrare che i fascisti non erano i padroni del paese, avrebbe condotto alla formazione di un ministero di sinistra. Per farvi aderire questi elementi non rivoluzionari, l'Alleanza del lavoro, nel proclamare lo sciopero, dichiarò che urgeva spezzare 'un assalto in forze agli organi dello Stato.' La notizia dello sciopero colse di sorpresa i deputati socialisti riformisti, mentre erano a mezzo i negoziati per la formazione del nuovo gabinetto. Lo sciopero mandò a monte tutti i loro sforzi in favore della collaborazione governativa. Impedirlo non era stato loro possibile, perché gli estremisti che lo avevano proclamato non erano sotto il loro controllo, e i dirigenti della Confederazione del lavoro, una volta commesso lo sbaglio iniziale di avere aderito all'Alleanza, erano impegnati ad attenersi alle decisioni della maggioranza. Se avessero sconfessato lo sciopero, essi sarebbero stati tenuti responsabili del suo fallimento, in un momento in cui i fascisti avrebbero approfittato del fallimento per sferrare una nuova offensiva. Se avessero mantenuto il silenzio, sarebbero stati accusati di aspettare a vedere come andava a finire prima di prendere una decisione. Nella difficile situazione in cui si trovavano, essi fecero la scelta peggiore: sostennero quegli elementi secondo le cui intenzioni lo sciopero doveva essere una protesta contro la minaccia di un gabinetto fascista, senza sfociare in un movimento rivoluzionario. Intervistato, Turati dichiarò che lo sciopero aveva come scopo la difesa della costituzione contro gli scioperi anticostituzionali: 'Sarebbe uno sciopero legalitario' disse. 'Il proletariato sosterrà lo Stato difendendolo dai fascisti' (7). Ma uno sciopero generale, inteso soltanto come una manifestazione antifascista, avrebbe dovuto essere proclamato per un periodo di tempo definito (non più di ventiquatt'ore), e sarebbe occorsa la cooperazione delle organizzazioni popolari. Queste non erano state consultate, e si pronunciarono contro lo sciopero. Inoltre non fu posto nessun limite di tempo, dato che gli anarchici e gli altri estremisti, che ne erano i promotori, si illudevano con la speranza che, dopo diciotto mesi di irresistibile pressione fascista, esso avrebbe potuto sfociare in una rivoluzione. A questa sfida insensata, i capi del partito fascista risposero con una abile mossa. Essi dichiararono che i fascisti avrebbero aspettato quarantotto ore perché lo stato affermasse la sua autorità: «Trascorso questo termine, il fascismo rivendicherà piena libertà di azione e si sostituirà allo stato che avrà ancora una volta dimostrato la sua impotenza» (8). Se lo sciopero non fosse stato generale, il suo fallimento sarebbe risultato palese alla fine del secondo giorno: i fascisti, scendendo in campo il terzo giorno, avrebbero vantato tutta intera la gloria della vittoria. Se, d'altra parte, lo sciopero fosse stato generale, le prime quarantotto ore di tempo sarebbero bastate a malapena al governo per mettere in moto la macchina di repressione: i fascisti, arrivando sulla scena proprio quando la macchina avrebbe cominciato a funzionare, avrebbero preso per sé tutto il merito della repressione. Comunque andassero le cose, i fascisti si sarebbero presentati come gli unici salvatori del paese. Come primo risultato della proclamazione dello sciopero, il Re interruppe tutte le consultazioni per una soluzione della crisi ministeriale, mantenendo Facta come presidente del Consiglio, tanto per avere un governo come che sia per ristabilire l'ordine. Sin dal suo inizio, lo sciopero generale fu un fiasco. I ferrovieri, i cui rappresentanti in seno all'Alleanza del lavoro erano stati i più accaniti sostenitori dello sciopero, risposero aderendo parzialmente e in modo fiacco. Su 229000 uomini solo 60000
scioperarono (9). Gli altri gruppi risposero anch'essi in modo incoerente. Fu l'ultima mossa fuori tempo del pugile che sta per esser messo al tappeto. Nella notte del secondo giorno, l'Alleanza del lavoro proclamò la fine dello sciopero per le ore 12 del giorno seguente, 3 agosto (10). Il 5 agosto, l'ufficio stampa fascista pubblicò la 'prima lista approssimata' delle città dove i fascisti avevano, come rappresaglia, occupato i municipi e devastato le Camere del lavoro, circoli, cooperative, eccetera: Alessandria, Ancona, Antignano, Ardenza, Campicaneto, Falconara, Figline Valdarno, Firenze, Fornovo, Gallarate, Gravina, Intra, Livorno, Milano, Muggia, Noceto, Novara, Novi Ligure, Oderzo, Pavia, Pagazzano, Pistoia, Ponte a Signa, Rimini, Ronco, Rebocco, Sampierdarena, San Secondo, San Jacopo, Savona, Scandino, Schio, Spezia, Tabiano, Torre, Torino, Vigevano, Voghera. Tali rappresaglie continuarono sino al 17 agosto. L'occupazione del municipio di Milano e la defenestrazione del sindaco massimalista e dei consiglieri comunali fece in tutta Italia una grande impressione. Nessuno avrebbe mai ritenuto possibile una tale violenza in una città che era stata sempre considerata come la cittadella del movimento socialista in Italia. Questa volta gli operai milanesi non reagirono in nessun modo: il loro scoraggiamento era totale. Mentre questa ondata di violenze infuriava in tutto il paese, Facta concentrava tutti i suoi sforzi nei negoziati con i fascisti, per impedire che essi occupassero Roma. Ottenuta la loro promessa che la capitale sarebbe stata rispettata, lasciò loro man libera nel resto d'Italia. Di tutti i possibili presidenti del Consiglio, egli era quello che faceva più comodo ai fascisti, fino a che questi non avessero deciso di occupare anche la capitale. La Camera, che il 19 luglio aveva rifiutato di accettare la politica di Facta, gli concesse il voto di fiducia il 10 agosto, e prese le vacanze. Nell'agosto del 1922, secondo il piano del generale Gandolfo, l'organizzazione dell'esercito fascista appariva insufficiente, sicché venne deciso dall'esecutivo nazionale fascista di adottare un nuovo piano maggiormente centralizzato, e la creazione di un direttorio militare. A far parte di questo direttorio furono chiamati De Vecchi, Italo Balbo e il generale De Bono. Il nuovo piano venne steso dai primi due a Torre Pellice, e fu pronto per il 15 settembre (11). Era convinzione generale che il nuovo gabinetto non sarebbe sopravvissuto sino al termine delle vacanze parlamentari. Agosto e settembre furono mesi di intense trattative dietro le quinte. Il 20 settembre, otto senatori che appartenevano al partito popolare pubblicarono una lettera indirizzata a Don Sturzo, in cui deploravano 'che il partito popolare, sorto con un programma di concordia di classi, di superiore armonia nazionale, non abbia sempre saputo e potuto sottrarsi a talune deviazioni esteriori.' E la lettera così continuava: «I sottoscritti (...) sanno non vera l'accusa da taluni rivolta al gruppo parlamentare popolare di aver cercato alleanze o intese con partiti incompatibili con i principi per noi fondamentali. Tuttavia non è inutile ribadire il convincimento che certi connubi ripugnanti ai principi più sacri e più necessari alla vita sociale non debbono essere ammessi, e molto meno cercati» (12). Uno degli otto firmatari, il conte Santucci, era il presidente del Banco di Roma; costui, e un altro dei firmatari, il conte Grosoli, in caso di fallimento del Banco di Roma avrebbero dovuto risponderne davanti ai magistrati; altri due, Montresor e Crispolti, erano generalmente noti come uomini di fiducia di Pio Undicesimo e del cardinal Gasparri. Gli otto senatori non osavano dire esplicitamente che la sola alleanza compatibile coi 'principi più sacri e più necessari alla vita sociale' era quella col partito fascista; si limitavano a respingere l'alleanza con i socialisti. Il resto sarebbe venuto da solo.
Il pericolo di una coalizione parlamentare tra popolari, democratici e socialisti di destra crebbe dopo il congresso socialista tenutosi a Roma nei giorni 1-3 ottobre. In questo congresso i socialisti di destra rappresentavano 29119 voti, e i massimalisti 31106; i primi avevano guadagnato 15000 sostenitori, mentre i secondi avevano visto dissolversi nel nulla 67000 dei loro 'socialisti di guerra.' La destra si staccò e formò un nuovo partito, che prese il nome di 'Partito Socialista Unitario,' il che suona abbastanza strano in un paese dove c'erano tre partiti socialisti, senza contare quei riformisti che erano intorno a Bonomi e che ancora pretendevano di essere socialisti. In seguito a tale scissione la Confederazione generale del lavoro si staccò da tutti i partiti socialisti, pur continuando a essere divisa da continue contese tra socialisti di destra, massimalisti e comunisti. Vi era adesso alla Camera un gruppo di settanta socialisti di destra pronti a cooperare con gli altri partiti. La strada era dunque aperta per uno stabile riassestamento dei gruppi parlamentari: una coalizione di maggioranza formata da 107 popolari, 167 democratici e 70 socialisti di destra, per un totale di 334 deputati; una opposizione di destra formata da 35 fascisti, 10 nazionalisti e 13 conservatori; una opposizione di estrema sinistra formata da 50 massimalisti e 14 comunisti. Non si era ancora arrivati a nessun accordo definitivo tra il nuovo partito socialista di destra, i popolari e i democratici; ma tale riassestamento era una questione di pochi mesi, forse persino di poche settimane. Parlando con il leader socialista belga, Vandervelde, nell'agosto del 1922, il Re prevedeva una tale soluzione della crisi e se ne mostrava soddisfatto. I più ansiosi di questo riassestamento parlamentare erano i comunisti e i massimalisti. Una volta che il nuovo governo avesse pacificato il paese, avrebbero potuto accusare i socialisti di destra di avere tradito il proletariato alleandosi con i partiti borghesi per andare al potere. Nell'estate del 1922, il desiderio di pace, dopo tre anni di guerra e quattro di disordini, l'orrore per le crudeltà della guerra civile, lo stato di ansietà provocato dalla anarchia militare, la preoccupazione per la situazione economica e finanziaria del paese, che per quanto in realtà non fosse più disperata si mostrava in apparenza ancora tale, la stanchezza per le inutili manovre dei gruppi parlamentari, l'indignazione per l'inettitudine di un presidente del Consiglio quale Facta, tutti questi sentimenti confluivano in un diffuso stato d'animo di vergogna e scoraggiamento. Per uscire da una situazione morale divenuta intollerabile, il paese avrebbe accettato qualsiasi governo nuovo, a condizione che ristabilisse l'ordine e la pace. Una soluzione del genere sconcertava i piani e le speranze di molta gente, oltre a Pio Undicesimo, al cardinal Gasparri e ai conservatori-cattolici. Anche negli ambienti finanziari si era molto ansiosi di riuscire ad ottenere l'abrogazione della legge del 1920 sulla nominatività dei titoli, sia pubblici che privati. Molte ditte industriali durante la guerra avevano fornito al governo ogni genere di materiali e di prodotti. Adesso si era ansiosi di ottenere lo scioglimento di una commissione parlamentare che stava investigando su tutte le transazioni facendo luce su speculazioni scandalose. Le compagnie di assicurazione guardavano con timore l'avvicinarsi del 1923, anno in cui, secondo una legge del 1912, avrebbero dovuto trasferire ogni loro attività a un Istituto nazionale di assicurazioni gestito dal governo in condizione di monopolio. Per tutti questi gruppi il pensiero di un governo a cui partecipassero dei socialisti, non importa quanto moderati, era estremamente scoraggiante (13). Adesso autorità militari e fascisti operavano apertamente fianco a fianco. Chiunque scorra i giornali fascisti troverà centinaia di nomi di ufficiali dell'esercito che nel 1922, apertamente, si iscrivevano ai Fasci, partecipavano a cerimonie pubbliche, inviavano telegrammi di solidarietà a Mussolini. Nei tre mesi di luglio, agosto e settembre 1922, il Popolo d'Italia menzionò i seguenti generali: Zirano (5 luglio), Bertolini (8 luglio), Moriani (30 luglio), Campomazza (23 luglio), Ceccherini (25 luglio), Zampieri (26
luglio), Gandolfo (30 luglio), Fiori (1 agosto), Pastore (8 settembre), De Marzillac (14 settembre), Milanesi e Oro (9 settembre). Tra il 30 settembre e il 4 ottobre, settemila fascisti provenienti dalla Lombardia e dal Veneto si concentrarono a Trento e a Bolzano, per protestare contro il governatore civile della provincia. Non vi fu nessun intervento per impedir loro di servirsi della ferrovia. Alle ore 14 del 4 ottobre, il comandante la settima divisione di Trento assunse i pieni poteri per il mantenimento dell'ordine. Di conseguenza si ebbe un aumento del disordine. Alle 16,30 ebbe luogo un colloquio tra i fascisti e il governatore, alla presenza del generale Ghersi, comandante il corpo d'armata di Verona, il generale comandante di brigata Acqui ed 'altri ufficiali superiori e funzionari.' I fascisti chiesero che il governatore desse le dimissioni e abbandonasse la zona, e non rimasero soddisfatti delle sue risposte (14). La notte seguente i fascisti assediarono la residenza del governatore: «Le truppe erano schierate in modo che la più leggera pressione delle squadre fasciste avrebbe determinato il mescolamento della forza, di guisa che non si sarebbe potuto usare le armi. (...) Il comando fascista si accontentò di dare uno spettacolo solenne (!) di forza (!) e di disciplina; spettacolo che nel silenzio più profondo duro fino alle ore tre della notte» (15). Nel pomeriggio del 5 ottobre, i fascisti tolsero l'assedio dal palazzo. 'Il generale Ghersi (...) ci ha assicurato che il governatore Credaro sarebbe partito immediatamente' (16). Soltanto un colpo di stato antiparlamentare avrebbe potuto prevenire alla Camera il formarsi di una coalizione di popolari, democratici e socialisti. Su questo punto è decisiva la testimonianza di Luigi Villari, noto propagandista fascista: «All'interno del partito socialista il problema di accettare l'idea di collaborare a un governo borghese era altamente controverso. I leaders del gruppo collaborazionista lavoravano di buona lena per convincere i oro compagni, e a un certo momento sembrò che il loro punto di vista avesse buone probabilità di venire accettato. In diversi degli altri partiti c'era una vera e propria concorrenza per assicurarsi l'appoggio dei socialisti collaborazionisti nella formazione di un futuro gabinetto, "dato che si era convinti che una combinazione con gli elementi rossi moderati avrebbe garantito un governo di lunga durata". (...) I fascisti, i nazionalisti, e generalmente le destre si opponevano rigidamente a tale esperimento. (...) "Il socialismo rivoluzionario non costituiva più un pericolo serio"; i comunisti potevano occasionalmente commettere delle violenze o degli atti di terrorismo, ma avevano perduto l'appoggio di gran parte della classe lavoratrice. "Ma il collaborazionismo rappresentava un pericolo assai più concreto ed insidioso"» (17). Un'altra prova lampante su questo punto viene da un personaggio fascista altolocato, il professor Volpe, amico personale di Mussolini e storico ufficiale del fascismo. Nel 1932, Volpe scriveva: «Si può riconoscere che nella seconda metà del 1921, e più, nel 1922, le condizioni generali del paese, certe condizioni, accennavano a un miglioramento. Qualche indice confortante di vita economica. Ripresa di lavoro. Ormai in decadenza, l'infatuazione per la Russia e il suo bolscevismo. (...) Gli italiani tutti venivano, un po' per volta, riconciliandosi con la guerra, cioè con se stessi. (...) Questo, dunque, si può e deve riconoscere. (...) Mentre molti, anche simpatizzanti, si aspettavano che il fascismo cominciasse a smobilitare e disarmare (...) il fascismo invece mobilitò sempre di più.
Il bersaglio maggiore, parlamentare» (18).
ormai,
diventa
il
Governo,
possiamo
dire
il
regime
In conclusione, la marcia su Roma fu progettata non perché la paralisi parlamentare fosse divenuta intollerabile, ma perché la paralisi parlamentare poteva essere superata da una coalizione di gruppi democratici. Molta luce viene fatta su questo punto dal "Diario" di Balbo. Il 16 ottobre, fu tenuto a Milano un 'consiglio di guerra' segreto, al quale, oltre a De Bono, Mussolini invitò due generali in pensione, Ceccherini e Fara. Egli spiegò che 'nel fatto rivoluzionario crede utile vi siano generali in divisa, alla testa dei gruppi insorti' (19). Ceccherini e Fara erano stati tra quei generali che, nel settembre 1919, avevano raggiunto D'Annunzio a Fiume. Nel 'consiglio di guerra,' Mussolini affermò che il fascismo si sarebbe trovato 'da un momento all'altro condotto nella necessità di iniziare il movimento insurrezionale,' perché 'non si può attendere una soluzione parlamentare che è contro lo spirito e gli interessi del fascismo' (20). Alla domanda se le forze militari del fascismo fossero pronte e sufficienti al compito, il generale De Bono e De Vecchi risposero che secondo loro non erano ancora pronte, e che era necessario ritardare un poco la cosa. Balbo pensava che non ci fosse tempo da perdere. «Io mi dichiaro preoccupato per la piega che hanno preso in questi ultimi giorni gli avvenimenti politici. Ritengo pericolosissimo ogni indugio. Le manovre dei vecchi partiti parlamentari si fanno più serrate. Anche non volendo, il fascismo minaccia di restare prigioniero dell'intrigo che si ordisce ai suoi danni con la trappola delle elezioni. Penso che se non tentiamo subito il colpo di stato, in primavera sarà troppo tardi: nel tepore di Roma, liberali e sovversivi si metteranno d'accordo: non sarà difficile al nuovo ministero predisporre più energiche misure di polizia e compromettere l'esercito contro di noi. Oggi godiamo del beneficio della sorpresa. Nessuno crede ancora seriamente alle nostre intenzioni insurrezionali. Insomma, tra sei mesi, le difficoltà saranno decuplicate. Meglio tentare oggi l'azione definitiva, anche se la nostra preparazione non è completa, piuttosto che domani, quando insieme con la nostra sarà completa anche la preparazione degli avversari» (21). Non venne presa nessuna decisione definitiva; ma fu nominato un quadrumvirato per dirigere l'insurrezione, formato da De Bono, De Vecchi, Balbo, e il segretario generale del partito, Michele Bianchi. Due giorni dopo, i quadrumviri si incontrarono a Bordighera per preparare nei particolari il loro piano, con l'assistenza del colonnello Sacco, che aveva appartenuto allo stato maggiore dell'esercito. Mentre che 'nel massimo segreto' aveva luogo questo incontro, la vecchia regina madre, Margherita, che passava l'estate nella sua villa di Bordighera, seppe della presenza di questi signori, e li invitò ad una colazione, al termine della quale, scrive Balbo, 'ha formulato i più grandi auguri per la realizzazione dei nostri piani che non potevano che essere indirizzati alla salvezza e alla gloria della patria' (22). Il Vaticano non era informato di questi preparativi. Lavorava per conto proprio per rendere impossibile un accordo tra i deputati popolari e i socialisti di destra. Il 2 ottobre 1922, il cardinal Gasparri intervenne personalmente nella campagna. In una circolare diretta ai vescovi italiani, egli 'protestava energicamente' contro 'le insinuazioni assolutamente false e calunniose,' che presentavano il partito popolare come una 'emanazione della Santa Sede o l'esponente dei cattolici nel Parlamento e nel paese.' La Santa Sede intendeva rimanere 'fedele al principio di non lasciarsi trascinare nel gioco delle competizioni politiche'; essa 'era rimasta sempre e intendeva rimanere totalmente estranea al partito popolare come ad ogni altro partito politico (...) pur riservandosi di assumere verso di esso, come verso altri partiti, un atteggiamento di riprovazione e di biasimo ove fosse venuto a mettersi in contrasto
con i principi della religione e della morale cattolica.' Neppure negava la Santa Sede ai vescovi e ai parroci il diritto di avere, come privati cittadini, le proprie opinioni e preferenze politiche; ma 'in quanto vescovi e parroci essi dovranno tenersi in tutto alieni dalle lotte dei partiti al di sopra di ogni competizione meramente politica' (23). Non era facile tracciare una linea di separazione tra privati cittadini e vescovi e parroci. Nei casi dubbi, essi dovevano astenersi. Per quattro anni, in tutti i toni e in tutte le occasioni, il partito popolare aveva ripetuto che esso non era una emanazione della Santa Sede. Il cardinal Gasparri, perciò, andava dicendo una verità sacrosanta. Ma la forma aspra e tagliente che egli dava a questa verità equivaleva, non solo a un rifiuto di responsabilità, ma ad una condanna. Egli condannava come 'insinuazioni assolutamente false e calunniose' le voci circa un legame tra il Vaticano e il partito popolare, come se quest'ultimo fosse stato una associazione a delinquere. Il Vaticano era pronto a condannare il partito popolare non appena questo si comportasse male; mentre il Vaticano lo avrebbe ignorato, dal momento che non aveva nulla a che fare con esso, quando questo si comportasse bene. Del resto era significativo anche il momento scelto dal cardinal Gasparri per emanare la sua circolare. Egli invitava il clero a non confondersi con il partito popolare, qualora quest'ultimo non prestasse la dovuta attenzione a quella che era la volontà delle autorità religiose, proprio nel momento in cui appariva possibile una coalizione tra popolari, democratici e socialisti di destra. Lo stesso giorno che inviava la circolare sul partito popolare, il cardinal Gasparri inviava ai vescovi un'altra circolare sulla Azione cattolica. Tramite l'Azione cattolica, egli spiegava, i laici cooperano a quella missione religiosa che appartiene di diritto alla Chiesa. L'Azione cattolica, 'a causa della necessaria connessione di tutte le cose, deve scendere anche nel campo economico-sociale, toccando anche questioni politiche'; ma nel far ciò, deve sempre tenere presenti 'gli interessi supernaturali' e operare 'per l'elevazione morale e religiosa del popolo'; di conseguenza, l'Azione cattolica era una organizzazione religiosa e non politica; essendo una organizzazione religiosa, essa 'dipendeva interamente dalle autorità ecclesiastiche'; non era autorizzata a emettere 'direttive di natura teoretica'; poteva soltanto 'svolgere la propria opera nel campo della pratica'; in base a questi principi, il papa avrebbe riorganizzato l'Azione cattolica, e chiesto ai vescovi di esprimere la propria opinione sulla nuova costituzione (24). Il rapporto logico tra questi due documenti che recano la stessa data è ovvio. Pio Undicesimo faceva ritorno alla politica di Pio Decimo, e poneva le organizzazioni cattoliche laiche di nuovo sotto il controllo delle autorità ecclesiastiche. Il partito popolare si trovò posto di fronte ad un dilemma: o sottomettersi al controllo delle autorità ecclesiastiche come un ramo dell'Azione cattolica, o affrontare la concorrenza dell'Azione cattolica, sola organizzazione nelle cui file i cattolici potevano operare con l'approvazione della Santa Sede.
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO. LA MARCIA SU ROMA. Sino dal 29 settembre, l'esecutivo centrale del partito fascista sapeva che, in caso di una insurrezione fascista 'l'esercito non vi avrebbe partecipato' (1). Lo stesso Mussolini, parlando il 30 ottobre 1923, rivelò che nell'ottobre 1922 egli sapeva che le mitragliatrici del governo 'al momento opportuno non avrebbero sparato' (2). L'ambasciatore americano a Roma, Child, filofascista accanito, venne informato che 'segretamente l'esercito favoriva il movimento' (3) Con la parola 'esercito' si devono intendere i capi dell'esercito. Il 14 ottobre una fonte non ufficiale annunciò che il governo aveva incaricato il generale Badoglio di preparare l'esercito alla battaglia contro il fascismo, e che Badoglio avrebbe detto: 'Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà' (4). La notizia produsse una forte impressione al quartier generale fascista. In un vibrante articolo sul "Popolo d'Italia", Mussolini dichiarava di non credere che la notizia fosse vera. 'L'esercito nazionale non verrà contro l'esercito delle Camicie nere, per la semplicissima ragione che i fascisti non andranno mai contro l'esercito nazionale'; 'il generale Badoglio si rifiuterà al tentativo inutile di fare il carnefice del fascismo italiano' (5). Commentando il fatto, così Balbo scriveva nel suo "Diario": «E' strano come i generali conoscano poco la psicologia dei loro soldati. Abbiamo le prove ormai, documentatissime, che gran parte dell'esercito è con noi. Mi è stato portato da Ferrara il rapporto 'Zeta' dei nostri fiduciari al ministero della Guerra. Vi sono notizie interessanti sopra la costituzione dei "battaglioni misti" che dovrebbero essere impiegati contro di noi: formazioni ibride di carabinieri, guardie regie, guardie di finanza e poliziotti. Aspetto altri particolari sulla loro dislocazione futura. Se il regime conta su queste forze per sferrare l'attacco contro il fascismo, è segno che non si fida delle forze regolari. Quanto a noi, nemici di questo genere ci lasciano completamente tranquilli» (6). Il giorno seguente i giornali annunciavano che Badoglio aveva smentito la notizia diramata il giorno prima. Balbo scrive nel suo "Diario": 'Ne sono contentissimo' (7). Secondo il "Diario" di Balbo, al 'consiglio di guerra' del 16 ottobre, De Bono e De Vecchi pensavano che le truppe fasciste non fossero ancora pronte e che occorresse rinviare ogni decisione, mentre Balbo sosteneva che l'insurrezione si sarebbe trovata di fronte ostacoli assai più seri se fosse stata rinviata alla primavera. Questo sembrava dimostrare che si riteneva che le truppe fasciste sarebbero state pronte per la primavera del 1923. Secondo la stessa fonte, la decisione definitiva di mobilitare immediatamente le camicie nere e farle muovere contro Roma venne presa a Napoli nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, durante una riunione presieduta da Mussolini. Scopo della 'mobilitazione' era di costringere il ministero Facta alle dimissioni. Dopo di che i fascisti si sarebbero accinti 'alla conquista del potere con un ministero che avesse almeno sei ministri nostri nei dicasteri più importanti' (8). Nella stessa notte, il generale Baistrocchi si recò da De Bono per dirgli, 'che i reparti dell'esercito dislocati nel Mezzogiorno seguono con grande simpatia il movimento fascista' (9). Il giorno dopo, mentre si trovava ancora a Napoli, Balbo ricevette da un messo, inviato dal 'fiduciario' presso il ministero della Guerra, 'una copia degli ordini emanati poche ore prima dal ministro: riservatissimi.' «Ma non abbastanza per essere ignorati dal comando generale fascista... Risulta che la formazione dei battaglioni misti è ancora in alto mare. Sono stati dati in proposito
ordini ai corpi d'Armata. Ma noi sappiamo come queste cose procedono sotto il regime della burocrazia militare. Possiamo dunque stare tranquilli. L'esercito non ci impressiona. E' molto più nostro che di Soleri» (10). Dopo che a Napoli era stata presa la decisione per una azione immediata, Mussolini fece partenza, passò per Roma senza fermarsi, non si recò a Perugia dove era il quartier generale della insurrezione, ma andò direttamente a Milano, che dista circa seicento chilometri sia da Perugia che da Roma, e dove rimase sino alla notte del 29 ottobre. Lussu ha osservato ironicamente che Milano 'era una località davvero curiosa per dirigere una battaglia'; 'anche secondo le più moderne concezioni strategiche, seicento chilometri di distanza dalla linea principale del fuoco sono molti; ma, d'altra parte, Milano aveva il vantaggio di essere assai vicina al confine svizzero' (11). Se Mussolini avesse previsto la improvvisa e schiacciante vittoria del 28 ottobre, sarebbe stato a Perugia, in modo da non dover dividere con altri la gloria della 'battaglia' e della 'vittoria.' Ma non si fidava dell'avventura. Si confinò a Milano, a due ore dalla frontiera svizzera, pronto a fuggire se le cose avessero preso una brutta piega. Durante il mese di ottobre, Mussolini condusse trattative segrete con Giolitti, da una parte, e con Nitti, dall'altra. Egli chiedeva per i fascisti sei posti nel ministero, e nuove elezioni generali (12). Non era questo il piano delle autorità militari e dei nazionalisti, i quali volevano un governo totalmente conservatore-reazionario-militarista. Il loro candidato per la presidenza non era Mussolini, ma Salandra. Intendevano servirsi di Mussolini e dei fascisti tenendo poi per sé i frutti della vittoria. Il 22 agosto, il "Giornale d'Italia" di Roma aveva pubblicato una lettera, firmata 'un gruppo di ufficiali dell'esercito,' in cui si sfidava Mussolini a pronunciarsi francamente sulla questione monarchica. Mussolini, sul suo giornale, aveva risposto rassicurandoli che la monarchia non correva nessun rischio da parte dei fascisti, e più tardi, nel discorso di Udine del 20 settembre, aveva ribadito la stessa assicurazione e fatto una professione di fede monarchica, buttando alle ortiche le idee repubblicane professate dal fascismo al suo inizio (13). Malgrado questa virata a destra, i capi militari e i nazionalisti rimasero fermi nella loro scelta, per un futuro presidente del Consiglio, su Salandra. Mussolini non era disposto ad avere la parte del secondo violino in un ministero nazionalista, che si sarebbe risolto in una dittatura militare, e avrebbe offerto ancor meno occasioni di un qualche mutamento a suo favore. Parlava della imminente 'marcia su Roma,' come già aveva fatto altre volte, perché non voleva rimaner tagliato fuori dal giuoco, nel caso che la 'marcia su Roma' venisse posta veramente in attuazione. Ma teneva al suo arco due altre frecce: Giolitti e Nitti. Il primo era il candidato dei socialisti di destra; il secondo dei popolari e del cardinal Gasparri. Comunque fossero andate le cose, Mussolini era sicuro che avrebbe avuto un posto nel nuovo ministero. Ma preferiva un ministero democratico, e contava sulle prossime elezioni generali per arrivare alla presidenza. La sera del 27 ottobre, venne ufficialmente annunciata la 'mobilitazione,' e durante la notte gruppi fascisti cominciarono a convergere su Roma dalle località limitrofe dell'Italia centrale. De Bono avrebbe dovuto dirigere il movimento da Perugia, ma appare dal "Diario" di Balbo che di fatto egli non diresse un bel niente. Altri quattro generali in pensione, Fara, Maggiotto, Ceccherini, Tiby, comandavano i gruppi fascisti che 'marciavano' su Roma. Un quinto generale, Zamboni, era a Foligno, poco distante da Perugia, al comando delle 'riserve' fasciste. Qui venne raggiunto da un altro generale, Novelli (14). Altri ufficiali, alcuni in pensione, altri in servizio ma in regolare licenza, comandavano i gruppi fascisti che dovevano impadronirsi delle stazioni ferroviarie, dei telegrafi e dei telefoni, in molte delle più importanti città dell'Italia settentrionale e centrale. Il Re, che si trovava vicino a Pisa nella sua residenza, estiva di San Rossore, si affrettò a far ritorno a Roma la sera del 27 ottobre. Si dice che, indignato contro i
fascisti, abbia detto in piemontese: 'Piuttosto che cedere, prendo mia moglie e mio figlio e me ne vado.' Nei momenti di rabbia capita agli italiani di fare ritorno al dialetto. Nella notte del 27 ottobre, il ministero decise di proclamare lo stato d'assedio, e in attesa della firma del Re per la proclamazione, venne fatto sapere ai prefetti delle provincie che dovevano passare i poteri alle autorità militari. Si era sicuri che il Re avrebbe firmato il decreto di stato d'assedio. Durante la notte, in tutta l'Italia, dopo che in obbedienza al decreto di stato d'assedio le autorità civili avevano ceduto i poteri alle autorità militari, ovunque queste ultime tennero le truppe nelle caserme, permettendo ai fascisti di impossessarsi delle stazioni ferroviarie, degli uffici telegrafici e telefonici, dei magazzini di armi e munizioni, delle sedi dei giornali. Ogni volta che i fascisti avanzavano, prudentemente le autorità militari si ritiravano (15). Vi furono qua e là alcuni comandanti militari, i quali non appartenevano alla congiura, che non si ritirarono di fronte alla insurrezione fascista. Dove e quando ciò avvenne, furono i fascisti che si ritirarono o furono annientati. Il ben noto scrittore inglese Israel Zangwill si trovava a Firenze negli ultimi giorni dell'ottobre 1922. Ai suoi occhi gli avvenimenti di quei giorni parevano più che una vera rivoluzione un'opera comica. Curzio Malaparte, uno dei capi del fascismo toscano, racconta questo episodio. Sforzandosi di persuadere Zangwill che quella di cui era testimone era una rivoluzione, lo condusse, per veder di convincerlo, alle officine del gas, ai telefoni, ai telegrafi, ai ponti e alle stazioni ferroviarie. Tutti questi 'punti strategici' erano nelle mani delle camicie nere. Il risultato di questa dimostrazione fu disastroso per la tesi di Malaparte. Zangwill osservò che i fascisti si erano impadroniti di tutte queste posizioni senza colpo ferire, mentre le forze di polizia si erano rifugiate in prefettura, riparate dietro cordoni di carabinieri, di guardie regie e di autoblinde. E non basta: 'le truppe della guarnigione, i reggimenti di fanteria, di artiglieria e di cavalleria, (..) erano consegnate nelle caserme: le autorità militari mantenevano per il momento una neutralità benevola' (16). Malaparte richiamò l'attenzione di Zangwill sul fatto che il prefetto di Firenze non poteva comunicare con le altre autorità perché gli uffici telegrafici e telefonici erano nelle mani dei fascisti. Egli si guardò bene dal dire che a Firenze il comando militare è a soli duecento metri dalla prefettura, e che il prefetto in cinque minuti avrebbe potuto dare ordini al comandante militare di far sgomberare i fascisti dai 'punti strategici.' Anche senza conoscere questo significativo particolare, Zangwill avrebbe potuto chiedersi perché il prefetto non si serviva della polizia, concentrata in prefettura, per espellere i fascisti dagli uffici telegrafici e telefonici e dalla stazione centrale: tutti posti che non distavano dalla prefettura più di mezzo chilometro. L'atteggiamento del generale Gonzaga, comandante la piazza di Firenze, quale Malaparte lo descrive, appare, se non altro, anche più ambiguo di quello del prefetto. Dopo avere consegnato le truppe nelle caserme e aver permesso in tal modo ai fascisti di occupare i 'punti strategici' senza colpo ferire, egli apprese dai giornali che il Re stava trattando con Mussolini e probabilmente gli avrebbe affidato l'incarico di formare un nuovo ministero. In quel momento la notizia era falsa. Ma il generale Gonzaga telegrafò al ministero della Guerra a Roma per ottenerne conferma (evidentemente le autorità militari avevano ancora a loro disposizione i servizi radio, che i fascisti si erano dimenticati di sequestrare). Il ministero della Guerra si rifiutò di dare una risposta precisa, rispondendo che il nome del Re non doveva essere mescolato in risse di partiti, e che la notizia era probabilmente prematura. La mossa seguente del generale fu di recarsi al quartier generale dei fascisti a Firenze per chiedere se la notizia era vera. Gli fu assicurato che le cose stavano veramente così. Questa 'lieta notizia' pose termine ai suoi scrupoli di coscienza e sollevò dalle sue
spalle una grossa responsabilità: quella di far sloggiare i fascisti da quei 'punti strategici.' Un caso tipico si verificò a Padova. Il generale Boriani, comandante della piazza, nella notte del 27 ottobre era assente, pare in licenza. Il generale Emo Capodilista, che aveva temporaneamente assunto il comando e non apparteneva alla cricca militare in combutta con i fascisti, si preparava a prendere le misure necessarie per far sloggiare i fascisti, quando in tutta fretta il generale Boriani poneva termine alla sua licenza, riprendeva il comando nel cuor della notte, e consegnava le truppe nelle caserme (17). Un fascista, che insieme ai suoi camerati occupava la stazione ferroviaria di Cancello, a sud di Roma, così racconta la sua avventura: «Si era sparsa la voce che i carabinieri volessero tentare il forzamento della linea e perciò siamo rimasti al posto, con una scatoletta di carne in conserva e una pagnotta per lauto cibo per tutta la giornata. I carabinieri, calunniati a torto, non sono venuti. E' venuto, invece, un capitano del commissariato militare, il quale ci ha donato, inneggiando a Mussolini, un camion carico di ogni ben di Dio» (18). La mattina del 28, erano disponibili per una vera 'marcia' su Roma quattro gruppi fascisti. Circa quattromila dislocati a Santa Marinella, vicino a Civitavecchia, a una cinquantina di chilometri a nord-ovest di Roma; circa duemila a Orte, una cinquantina di chilometri a nord di Roma; circa ottomila a Tivoli, a poco più di venti chilometri a est di Roma; e un gruppo a Valmontone, circa trenta chilometri a sud di Roma, di cui nessuna fonte dà la forza. Questi gruppi non disponevano di mezzi di trasporto, e le linee ferroviarie che conducevano a Roma avrebbero potuto facilmente venire interrotte al momento voluto dalle truppe regolari con l'assistenza del tutto spontanea dei ferrovieri. Tra questi gruppi sparsi a ovest, est, nord e sud di Roma, non c'era un contatto diretto. Quanto al loro armamento, possiamo affidarci al "Popolo d'Italia", del 1 novembre 1922, dove si dice che 'le più strane foggie caratterizzano questo poderoso esercito del dopoguerra. (...) Predomina l'armamento di bastoni e rivoltelle, ma numerosissimi hanno il fucile ed un leggero armamento di cartuccie.' Due altri testimoni oculati, il deputato belga Louis Pierard, e il giornalista americano C. Beals, descrivono i fascisti come 'uomini armati nel modo più fantastico, con rivoltelle, fucili da caccia, bastoni, mitragliatrici e zappe'; 'armati di fucili e di gambe di tavolino' (19). Gli uomini dislocati a Foligno, e che dovevano costituire le 'riserve,' erano tremila, ma non più di trecento erano armati. Il loro numero crebbe a 5000 alla sera del 28 ottobre, e solo durante la notte tra il 28 e il 29 si impossessarono di due depositi di armi e poterono così armarsi. In ogni modo, da Foligno, che dista oltre cento chilometri da Roma, il 28 ottobre non avrebbero potuto fare niente. Le forze dell'esercito regolare, concentrate a Roma, ammontavano a 12000 uomini. Esse avrebbero potuto facilmente disperdere ad una ad una queste turbe. Non sarebbe occorsa una battaglia campale; sarebbe bastato lasciarle senza viveri e acqua in quel deserto che circonda Roma, tagliando le comunicazioni con le loro basi. Dopo ventiquattr'ore di questo trattamento, quattro fucilate distribuite con giudizio e una discreta dose di pedate sarebbero state sufficienti a spedirli a casa col loro giusto castigo. A Roma, il decreto che proclamava lo stato d'assedio, era stato affisso alle ore 10 del 28 ottobre. Non appena conosciuta la notizia, i fascisti di Roma furono presi dal panico. Temevano che le autorità militari, richiamate al loro giuramento di fedeltà da un ordine perentorio del Re, avrebbero messo in moto la macchina della repressione. Dalle dieci a mezzogiorno per le strade di Roma non si vide un fascista. Un deputato fascista, Acerbo, scappò con indosso la camicia nera alla Camera dei deputati, e
tremando da capo a piedi chiese se fintanto che rimaneva là poteva essere sicuro di non venire arrestato. Frattanto il presidente del Consiglio, Facta, portò il decreto al Re per la firma. Egli era stato preceduto. L'ammiraglio Thaon de Revel aveva 'consigliato' al Re di cedere alla 'rivoluzione.' Anche il generale Diaz - uno dei capi militari - arrivò al palazzo. Nel pomeriggio del giorno 27, egli si trovava a Firenze, al momento in cui il quartier generale del partito fascista aveva ordinato la 'mobilitazione' delle camicie nere. Diaz aveva ricevuto una entusiastica manifestazione dei fascisti, e aveva concesso al giornale fiorentino "La Nazione" una intervista, in cui esprimeva la sua piena fiducia nel movimento fascista; indi si era precipitato in automobile a Roma per 'informare' il Re che l'esercito non avrebbe combattuto contro i fascisti (20). Il generale Cittadini, aiutante di campo del Re, era anche lui filofascista, e appoggiava Thaon de Revel e Diaz. Anche Federzoni si recò a corte, da parte dei nazionalisti, per dare le stesse notizie. Giunse la notizia che il cugino del Re, il Duca d'Aosta, si trovava a Bevagna, presso Perugia, pronto a farsi proclamare Re non appena Vittorio Emanuele avesse abdicato o fosse stato deposto dai fascisti. Tutti questi 'consigli,' 'informazioni,' 'notizie' spaventarono il Re. Facta era ancora più spaventato di lui. Inoltre pare che nella sua vanità imbecille egli immaginasse che, aiutando il Re e i fascisti a trovare un compromesso, egli sarebbe stato invitato a formare un nuovo ministero con la collaborazione dei fascisti. Perciò egli non consigliò la proclamazione dello stato d'assedio. 'Sire,' avrebbe detto al sovrano, 'ci pensi sopra.' E il Re ci ripensò e si rifiutò di firmare (21). Dato il suo carattere debole, non firmare era molto più facile. Egli agì esattamente allo stesso modo dei generali che comandavano le diverse piazze: lasciò via libera ai fascisti (22). Una volta ottenuta la revoca dello stato d'assedio, Thaon de Revel, Diaz e Cittadini suggerirono al Re di convocare l'uomo su cui essi potevano contare, Salandra. Questi era a Roma, in attesa di quell'alto destino che era stato preparato apposta per lui. I consiglieri del Re si accorsero subito di avere fatto un grosso sbaglio. La revoca dello stato d'assedio era un'arma a doppio taglio. Non appena essa fu resa nota alle 12,15, la notizia propagò un fremito di trionfo nei fascisti di tutta Italia. Essi si riversarono nelle strade, invasero i treni e 'marciarono' su Roma. Era una gara frenetica per arrivare primi. Arginare la marea era impossibile. Anche i carabinieri abbandonarono le loro caserme fraternizzando con i fascisti e accompagnandoli nella loro 'marcia su Roma.' Fu un caso di improvvisa suggestione collettiva. Rifiutandosi di firmare il decreto di stato d'assedio, il Re non solo aveva disarmato il gabinetto in carica, ma aveva perso la propria libertà nella scelta del presidente del Consiglio. Sino alle 12,15 del 28 ottobre, Salandra, con in mano il decreto di stato d'assedio, avrebbe ancora potuto trattare con i fascisti; dopo le 12,15 Mussolini era il padrone della barca. Il Re non era più un Re, ma un prigioniero di guerra con il titolo di Re. Uno dei due 'quadrunviri' presenti a Roma, De Vecchi, si dava da fare per Salandra, mentre il segretario generale del partito, Michele Bianchi, sosteneva Mussolini con intrepida ostinazione. La sera del 28 ottobre, egli si rese conto che senza lo stato d'assedio a Roma o in Italia, con migliaia di fascisti che da tutte le parti si riversavano su Roma, Mussolini poteva facilmente aver ragione dei nazionalisti, e persuase gli altri quadrunviri che Salandra sarebbe stato messo da parte, e che la presidenza sarebbe toccata a Mussolini. A Milano, Mussolini fu anche meno pronto nel rendersi conto di quanto schiacciante fosse la sua vittoria. Dato che il Re aveva affidato a Salandra l'incarico di formare il governo, Mussolini pensò che la sola cosa da fare fosse di trattare con Salandra per telefono circa il numero di posti che sarebbero andati al suo partito nel nuovo gabinetto. Fu Finzi, uno degli amici che contornavano Mussolini negli uffici del "Popolo d'Italia", che strappò il ricevitore a Mussolini dichiarando a Salandra che avrebbe dovuto cedere il passo a Mussolini, e ponendo fine alle trattative. Per ventiquattro ore
Salandra si sforzò invano di mettere insieme il nuovo gabinetto. Nel pomeriggio del 29 ottobre riconobbe il suo fallimento. I nazionalisti erano furiosi, ma anche loro dovettero cedere il passo. Il Re non aveva altra alternativa che chiamare Mussolini. Ogni movimento politico ha bisogno di un leader. Diventa leader alla fine colui che si è mantenuto più in vista. Mussolini si era sempre tenuto in vista. Egli era divenuto 'la voce articolata del fascismo.' Così, quando venne l'ora della vittoria, il mantello del pontificato fascista cadde sulle sue spalle, perché egli era stato il profeta che aveva pronunciato il verbo. All'invito del Re, egli lasciò Milano la sera del 29, e 'marciò su Roma' in vagone letto. Nel frattempo, dopo la revoca del decreto di stato d'assedio, nel pomeriggio del 28 ottobre e per tutto il giorno 29 e la notte seguente, migliaia di fascisti avevano 'marciato su Roma,' unendosi a coloro che già avevano 'marciato' nella notte del 27 e la mattina del 28. Alcuni di loro, come il Duce, 'marciarono' in vagone letto; la maggioranza 'marciò' nei treni che erano stati presi d'assalto, altri su camions, alcuni a cavallo o anche a piedi. Al loro passaggio vi fu ovunque un incredibile massacro di polli e intere botti di vino vennero ridotte all'asciutto; e quel contadino che fosse stato tanto indiscreto da reclamare i propri diritti di proprietà su una gallina o su un fiasco di vino correva il rischio di passarsela brutta, come 'comunista' e 'nemico della patria.' Più gente si andava radunando alle quattro località di raccolta e più diventava ridicola e tragica la situazione di queste moltitudini affamate, assetate e disordinate. A rendere la confusione anche peggiore contribuivano rovesci di pioggia. La campagna intorno a Roma, nei tempi andati, ha già visto scene del genere. Una di queste è descritta dallo storico latino Tacito. Fu la 'marcia su Roma' di Vitellius: 'Sexaginta millia armatorum sequebantur, disciplina corrupta.' La sera del 29 ottobre, il comandante in carica dei tredicimila uomini dislocati a nord di Roma, non sapendo più cosa fare di tutta quella turba, irrequieta, affamata, assetata e fradicia d'acqua, inviò al comandante della turba che si era rifugiato a Tivoli un messaggio, dove diceva che 'in vista della impossibilità di rimanere a Monterotondo' (23) sarebbe partito per Roma la mattina seguente, e lo invitava a fare altrettanto. La mattina del 30 ottobre, Mussolini arrivò a Roma assumendo la carica di presidente del Consiglio. Era per lui impossibile ordinare a quei quarantamila uomini che avevano 'marciato su Roma' di farsene ritorno a casa senza neppure essere entrati a Roma. Perciò le autorità militari e la direzione delle ferrovie dedicarono l'intero giorno del 30 ottobre, la notte di poi e il mattino del 31, a mettere un po' d'ordine, come meglio potevano, in quell'anarchia. Le orde che si trovavano più vicine a Roma furono alloggiate e rifocillate il meglio possibile, date le circostanze; quelle più lontane furono trasportate per ferrovia. In tal modo fu possibile classificarle secondo il numero delle vetture e dare loro un certo ordine prima che arrivassero a Roma. Al tempo stesso, con l'aiuto dei nazionalisti, le autorità militari distribuivano in Roma alcune migliaia di camicie azzurre, l'uniforme usata dai nazionalisti per distinguersi dai fascisti, a elementi raccogliticci che si facevano avanti spinti dalle circostanze. Le stesse autorità militari consegnavano il 31 ottobre dei cavalli a questi uomini in camicia azzurra. Si improvvisò così una cavalleria, il cui compito era di soffocare eventuali violenze da parte dei fascisti al momento del loro ingresso in Roma. Quando tutto fu preparato per questa ridicola dimostrazione, finalmente nel pomeriggio del 31 ottobre la dimostrazione ebbe luogo. Cinquantamila uomini sfilarono in parata per le strade di Roma per celebrare la loro vittoria, dopo una 'marcia su Roma' che non c'era mai stata. Un vecchio prelato romano che era stato in Vaticano con Pio Nono il 20 settembre del 1870, quando le truppe italiane presero la città, con una perdita di soli venti uomini, commentò la difesa di Roma del 1922 da parte del governo regio con una frase non indegna di Tacito: 'Noi, Roma, nel 1870 l'abbiamo difesa meglio' (24). La 'suggestione
collettiva' del 28 ottobre, il fallimento di Salandra, il farsi avanti di Mussolini per la presidenza, la dimostrazione per le vie: di Roma dei cinquantamila prodi, nulla era stato previsto. La marcia su Roma fu una 'commedia degli errori.' 'La fortuna e gli stati d'animo passeggeri governano il mondo,' dice La Rochefoucauld. La storiografia fascista chiama quest'opera buffa una; 'rivoluzione.' Che cosa è una rivoluzione? Alla fine del secolo diciottesimo, la Rivoluzione francese cominciò con un colpo di mano, la presa della Bastiglia, il, 14 luglio del 1789; il che fu reso possibile da un ammutinamento delle truppe di Parigi, dai dissensi che paralizzavano la nobiltà e il clero, il disordine amministrativo e la ignavia del re. Questo colpo di mano dette il via a quattro 'rivoluzioni' contemporanee, che si aiutarono a vicenda: 1) i contadini dettero fuoco ai castelli feudali e cacciarono o uccisero gli esattori fiscali; 2) il popolino delle città attaccò le barriere daziarie e le botteghe di generi; alimentari; 3) i ceti medi si rifiutarono di obbedire alle autorità amministrative; 4) una parte considerevole dell'esercito regolare si rifiutò di partecipare alla repressione dei disordini. Durante il periodo di 'anarchia spontanea' che, dopo la crisi principale dell'estate 1789, durò per parecchi anni, ebbero luogo numerosi colpi di mano o colpi di stato. La conseguenza di tutti questi avvenimenti fu, dopo il 1799, l'emergere di un società controllata dai ceti medi. Nel 1917 la Russia fu il teatro di una 'rivoluzione.' Milioni di uomini, in rivolta contro la disciplina militare, uccisero i loro ufficiali, fecero ritorno armati ai loro villaggi e si impossessarono della terra, cacciando o uccidendo vecchi proprietari. Altri gruppi invasero le grosse città, paralizzando col loro numero l'azione delle vecchie autorità politiche e amministrative. Tutti gli interessi, le abitudini, le ideologie e le superstizioni che componevano la vecchia società crollarono al suolo. In mezzo a questo caos sociale, nell'autunno del 1917, emergevano ancora alcuni resti della vecchia struttura. Nell'ottobre del 1917, i bolscevichi, approfittando della condizione creata dalla precedente rivoluzione, si impadronirono del potere con un colpo di mano, spazzando tutti i resti del vecchio regime iniziando poi la costruzione di una nuova struttura, militare, amministrativa e sociale, in parte modellata sulla loro ideologia marxista o pseudo-marxista, in parte sotto la pressione di necessità inaspettate. Si deve fare una distinzione tra 'colpo di mano' e 'rivoluzione.' Strettamente parlando, le 'rivoluzioni' in Francia del luglio 1830 e del febbraio 1848 furono dei 'colpi di mano,' che ebbero successo per la debolezza delle autorità militari e civili, timorose di appoggiarsi sull'esercito e incapaci di agire con la necessaria energia ed intelligenza. Nel settembre del 1870, per la fine del Secondo Impero, in Francia, non fu necessario neppure un 'colpo di mano'; alla sconfitta militare si accompagnò il crollo del governo, che abdicò senza colpo ferire. La Comune di Parigi ebbe origine da un 'colpo di mano' che intendeva essere il principio di una rivoluzione sociale, ma rimase un tentativo isolato, e Thiers poté disporre di abbastanza truppe per soffocarla. La rivoluzione repubblicana tedesca e la disintegrazione della monarchia austro-ungarica nell'autunno del 1918 furono fenomeni paragonabili alla caduta del governo che nel 1870 produsse in Francia la Terza Repubblica. Questi mutamenti di regime si differenziano dalle rivoluzioni francese e russa in quanto si tratta di rivoluzioni 'politiche' e non 'sociali.' Essi implicano soltanto alcuni cambiamenti negli uomini che sono a capo delle amministrazioni centrale e locali, mentre una rivoluzione sociale impone una espropriazione economica e politica, o persino la effettiva eliminazione fisica delle vecchie classi dirigenti. In ogni modo una 'rivoluzione,' sia 'sociale' che 'politica,' è sempre il risultato di una insurrezione di forze extragovernative contro le forze regolari di un governo. Se tale è una 'rivoluzione,' si può seriamente pensare che la marcia su Roma sia stata una 'rivoluzione'? Senza dubbio la marcia su Roma possiede alcuni degli elementi di
un 'colpo di mano' o di una 'rivoluzione politica,' in quanto un gruppo di persone, che non erano al potere, approfittando della debolezza del Re e della stupidità del presidente del Consiglio, si impadronirono del governo. Ma in una rivoluzione i capi militari rimangono fedeli al governo regolare, e l'esercito è sconfitto dalle forze rivoluzionarie. Nel caso della marcia su Roma, uomini che non erano al potere si impadronirono del governo con la connivenza delle autorità militari. Quindi la marcia su Roma dovrebbe piuttosto essere definita un 'colpo di mano' militare. Durante l'estate e l'autunno del 1922, i fascisti parlavano di un imminente 'colpo di stato' e non di una rivoluzione (25). Tuttavia un 'colpo di stato' militare è condotto da uomini che occupano nel governo le cariche più alte. Esempi tipici i 'colpi al stato' del brumaio 1799 e del 2 dicembre 1851, in Francia. Napoleone Bonaparte e Luigi Napoleone assunsero apertamente la responsabilità di abolire il Parlamento. In Italia, nel 1922, la prima vittima dell'insurrezione fu il Re. Quanto realmente avvenne fu qualcosa di mezzo tra una 'sedizione militare' e un 'intrigro dinastico,' che sotto la veste di una 'rivoluzione popolare' si proponeva di costringere il Re o all'abdicazione o a compiere un 'colpo di stato' contro il Parlamento. Trovandosi stretto tra un presidente del Consiglio imbecille e una sedizione militare travestita da falsa insurrezione popolare, il Re, piuttosto che abdicare a favore del cugino, cedette al 'consiglio,' cioè alla pressione, della cricca militare, e contro il suo desiderio condusse il 'colpo di stato' antiparlamentare, privando il governo civile dei mezzi indispensabili ad una repressione legale e affidando a Mussolini la presidenza del Consiglio. Definire come una 'rivoluzione' la marcia su Roma significa assolvere le autorità militari e lo stesso Re da ogni accusa di mancata fedeltà allo Statuto, e contornare Mussolini di un alone di 'conquistatore rivoluzionario' il quale ha raggiunto il potere dopo Dio sa quante battaglie campali e quante dure prove.
OSSERVAZIONI AL CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO. Quanti erano i fascisti che la mattina del 28 ottobre erano disponibili per un attacco contro Roma? Un giornale fascista romano, "La Patria", riportando il 31 ottobre del 1922 una pittoresca descrizione delle epiche giornate trascorse, calcolava che 'fossero circa settantamila i fascisti accampati la notte sul 29 alle porte di Roma' (1). La stessa cifra di 70000 è data nel libro del giornalista inglese, Sir Percival Phillips; secondo lui i fascisti ammontavano a quasi 120000, o più precisamente 117000, 'di cui 70000 erano camicie nere che costituivano truppe scelte' (2). Vale la pena di riportare per intero le parole di Sir Percival: «Fu una marcia di poveri contadini, alcuni dei quali per la prima volta vedevano una grande città, e di operai provenienti da cantieri ed officine, mescolati con elementi sociali diversi, tutti che reclamavano libertà (sic). Quasi 120000 uomini armati, tutti uomini fedeli, tutti pensosi solamente del bene del paese e pronti a mettere le loro persone in disparte, raccolti alle porte di Roma. Essi, come le legioni di un tempo, arrivarono in coorti, in centurie comandate da centurioni, in 'manipoli', o in gruppi che recavano nomi resi famosi dalle loro imprese. (...) La mattina seguente, sotto la direzione del generale Fara, essi erano in marcia verso i tre luoghi di raccolta. I tre comandanti supremi (De Bono, De Vecchi e Balbo) stavano al loro quartier generale a Perugia. Le camicie nere provenienti dall'Umbria, dalla Romagna e dalla Toscana si raccolsero prima a Foligno e successivamente a Monterotondo, poco più di trenta chilometri a nord di Roma. Dagli Abruzzi altre camicie nere al comando di Bottai scesero dalle loro montagne e si raccolsero presso Tivoli, pressappoco alla stessa
distanza da Roma, in direzione nord-est. Le unità fasciste provenienti da Genova, Milano, Bologna e in genere dalle zone di nord-ovest, scesero lungo la costa sino a Santa Marinella, un piccolo posto di mare vicino a Civitavecchia, dove aveva il comando Pollastrini. In tal modo Roma fu circondata da tre parti da un esercito di quasi 120000 uomini, perfettamente organizzati e disciplinati e pronti a combattere. Devo però sottolineare che il movimento convergente di queste forze verso Roma fu un movimento di piccole unità e non di vaste formazioni militari. Squadre e manipoli si incontrarono come di solito ai loro luoghi di riunione e si diressero poi al centro di mobilitazione. Viaggiarono in treno, in automobile, in camion. Il loro equipaggiamento consisteva di moschetti, rivoltelle ed elmetti» (3). Nel 1924, Luigi Villari, propagandista fascista per i paesi di lingua inglese, dava la cifra di 70000 per le truppe di prima linea, e di 20000 per quelle alla retroguardia (4). Due anni dopo, nel "Manchester Guardian" del 27 marzo 1926, portava il totale a 200000. Sir Ernest Benn, un editore inglese che si faceva passare per studioso di politica e di economia, non trovando tale cifra abbastanza ingente, la portò a 300000 (5). Nessuno di questi signori si è mai domandato quanti treni e autocarri sarebbero stati necessari per trasportare in una sola notte 70000 uomini, né tanto meno 200000 o 300000. Il giornale di Mussolini, "Il Popolo d'Italia", del 3 novembre 1922, troppo presto quindi perché fosse inventata la leggenda fascista, affermò che tra il 31 ottobre e il 1 novembre, partirono da Roma in ferrovia 45000 fascisti. In un discorso di Mussolini del 24 marzo 1924, egli disse di avere avuto al suo comando 52000 uomini. Il 17 giugno, aumentò tale cifra sino a 60000, ma in una lettera scritta il 28 ottobre 1924, riportò la cifra a 50000. Quindi probabilmente le sue 'truppe' al 30 ottobre ammontavano ad una cifra tra 50000 e 60000. Ma i fascisti che entrarono a Roma il 30 ottobre non erano gli stessi che al mattino del 28 ottobre avrebbero potuto trovarsi a dover affrontare l'esercito regolare. La corsa sfrenata di camicie nere verso Roma ebbe luogo solo durante il pomeriggio del 28 ottobre, e nei due giorni seguenti. Le cifre che abbiamo dato sono state ricavate dalle affermazioni fatte da De Bono, Balbo e gli altri capi della marcia su Roma, senza che si rendessero conto che così facendo distruggevano la saga fascista (6).
CAPITOLO VENTICINQUESIMO. IL DELITTO MATTEOTTI. Al momento della marcia su Roma, la Camera dei deputati era composta dai seguenti gruppi: 1) fascisti 35; 2) nazionalisti 10; 3) conservatori 43; 4) popolari 107; 5) democratici di correnti diverse 167; 6) repubblicani 7; 7) socialisti di destra 71; 8) socialisti massimalisti 50; 9) comunisti 11; 10) slavi e tedeschi 8; 11) indipendenti 16. I primi tre di questi gruppi erano favorevoli a Mussolini, ma non potevano mettere insieme più di 88 voti. I gruppi dal 6 al 10 e la maggioranza dei deputati del gruppo 11, erano contro Mussolini, e insieme controllavano circa 160 voti. Il destino del gabinetto di Mussolini dipendeva dai 107 deputati del partito popolare e dai 167 democratici. Se il partito popolare avesse deciso di schierarsi contro Mussolini, una buona parte dei democratici si sarebbe unita all'opposizione, e il gabinetto di Mussolini non avrebbe ottenuto il voto di fiducia. In questo caso Mussolini avrebbe avuto tre alternative: o dimettersi, o sciogliere la Camera e indire le elezioni, o abolire completamente la Camera stessa. Per questa ultima ipotesi sarebbe stato necessario che il Re facesse un altro colpo di stato. Ciascuno, a cominciare dal Re, avrebbe dovuto assumersi direttamente e apertamente le proprie responsabilità. Nel partito popolare c'era una minoranza in combutta con Mussolini, e sebbene la maggioranza gli fosse contraria, essa non osava sfidare la sua collera. Durante la votazione alla Camera, soltanto due deputati popolari furono tanto coraggiosi da votare contro Mussolini, quattro o cinque si dettero assenti, gli altri si comportarono come un branco di pecore. La maggior parte dei democratici fecero lo stesso. Ci furono 306 voti a favore di Mussolini e 116 contrari. Erano assenti 113 deputati, i più per paura. Fu così che la Camera dei deputati si suicidò. C'era in molti la speranza che i fascisti, ora che avevano ottenuto il controllo del governo, avrebbero messo fine ai loro illegalismi. Tali speranze vennero subito deluse. Nel suo libro, "Un anno di dominazione fascista" (1), Giacomo Matteotti riportava più di 2000 casi di omicidi, ferimenti più o meno gravi, bastonature, distribuzioni di olio di ricino, devastazioni di abitazioni private e sedi di associazioni, incendi di tipografie e redazioni di giornali, avvenuti tra il novembre 1922 e l'ottobre 1923. A Torino, nella notte tra il 17 e il 18 dicembre, in seguito a una lite per ragioni private e non politiche, venne ucciso un fascista. Il capo del Fascio locale, tale Brandimarte, fece finta che si trattasse di un delitto politico tale da meritare rappresaglie. Per tutto un giorno venne lasciata alle camicie nere, e la polizia si guardò bene dall'intervenire, piena libertà di fare uso a volontà delle rivoltelle, incendiare abitazioni private, locali di sindacati, cooperative e organizzazioni politiche. Brandimarte dichiarò pubblicamente: 'Da una lista di trecento rivoluzionari, ne furono scelti ventiquattro, e affidati alle migliori squadre punitive.' Si ritrovarono soltanto quattordici dei corpi delle vittime. Brandimarte affermò: 'Gli altri cadaveri saranno restituiti dal Po, se così vuole, o altrimenti si troveranno nei fossi, negli avvallamenti e nelle boscaglie sulle colline intorno a Torino, ad eccezione di due che sono fuggiti' (2). Due giorni dopo il massacro di Torino, il 22 dicembre, un regio decreto concedeva un'amnistia generale a tutti coloro colpevoli di delitti 'politici,' omicidio compreso, a condizione che tali delitti fossero stati commessi 'per un fine nazionale, immediato o mediato.' 'Nazionale' significa 'fascista.' Tale amnistia mostrava chiaramente che una volta compiute le loro imprese, i fascisti potevano contare sul pieno appoggio del governo. Pochi giorni dopo veniva sciolta la Guardia Regia, e col regio decreto 14 gennaio 1923 le 'squadre' fasciste, che nei due anni precedenti avevano condotto la guerra civile, venivano ufficialmente raccolte in una 'Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.' Il compito della milizia era 'di proteggere gli inevitabili ed inesorabili sviluppi della
rivoluzione d'ottobre' (3), e di 'sostenere a tutti i costi il regime nato con la Marcia su Roma'(4). Le spese del suo mantenimento erano a carico del bilancio dello stato, ma per fare parte della milizia era necessario essere iscritti al partito fascista, e i militi dovevano prestare un giuramento di fedeltà a Mussolini. I caporioni delle squadre locali fasciste furono fatti ufficiali della milizia. I responsabili delle più crudeli uccisioni avvenute nei due anni precedenti venivano ora insigniti dei gradi di console (colonnello) o di generale della milizia. Brandimarte ottenne il grado di console. Dato che l'articolo 5 dello Statuto del Regno considera fuori legge tutte quelle formazioni armate legate da un giuramento di fedeltà a persona diversa dallo stesso Re, che 'comanda tutte le forze di terra e di mare' dello stato, il decreto era incostituzionale. Esso toglieva al Re una delle prerogative fondamentali della corona. La creazione della milizia segna una svolta fondamentale nella storia del fascismo. Nel 1924 un commentatore fascista scriveva: «La sostanza del movimento fascista vuol essere attuata, di necessità, fra l'indifferenza o l'iniziale ostilità delle masse. (...) Onde la necessità che chi domina abbia anche una forza sua, caratteristica, indipendente da ogni altro principio o autorità, unicamente ispirata ai fini precipui e caratteristici del suo dominio. Tale è e deve restare il più a lungo possibile, per il governo fascista, la Milizia volontaria delle Camicie nere. Da essa trae, il governo, il massimo della sua indipendenza, autorità e stabilità» (5). In forma ancor più convincente, Mussolini nel 1927 scriveva: «La creazione della Milizia è il fatto fondamentale, inesorabile, che poneva il governo sopra un piano assolutamente diverso da tutti i precedenti e ne faceva un regime. (...) La notte del gennaio 1923, durante la quale fu creata la Milizia, segnò la condanna a morte del vecchio stato demo-liberale. (...) Da allora esso non fece che attendere di essere sepolto» (6). Lo storico ufficiale del fascismo, professor Volpe, scrisse nel 1928 che la fondazione della milizia 'voleva dire, almeno implicitamente: qui stiamo e qui resteremo, fino al compimento dell'opera nostra, piaccia o non piaccia agli altri partiti' (7). Una settimana dopo la creazione della milizia, a La Spezia vi fu una ripetizione del massacro di Torino. Nella notte del 21 gennaio un fascista fu ucciso dai suoi camerati fascisti. Come al solito la responsabilità venne fatta ricadere sulle spalle dei 'bolscevichi.' Il giorno dopo iniziarono le rappresaglie. Prima che si placasse l'ira dei fascisti occorsero ben quattordici morti e un centinaio di feriti più o meno gravi. La polizia si fece notare per la sua assenza. Nessuno venne né arrestato né processato. Quando il 10 febbraio si parlò dei fatti alla Camera, Mussolini pose fine ad ogni discussione dichiarando: «Non c'è niente da discutere in materia di politica interna; quello che accade accade per mia precisa e diretta volontà e dietro miei ordini tassativi dei quali assumo naturalmente piena e personale responsabilità. (...) La differenza fra lo Stato liberale e lo Stato fascista consiste precisamente in ciò: che lo stato fascista non solo si difende, ma attacca» (8). Dal 1 novembre 1922 al 31 marzo 1923, per quanto è possibile ricavare dalle fonti disponibili, i fascisti uccisero non meno di 118 persone. Sarebbe ingiusto affermare che tutti questi atti di violenza venivano compiuti dietro ordine di Mussolini. Ma rimane il fatto che i responsabili di tali delitti non furono mai puniti. Segni di ostilità nei confronti del regime fascista si manifestavano per tutto il paese, ed era necessario
il terrore per arginare l'opposizione. E' perciò che Mussolini, anche quando in cuor suo riteneva che gli atti di violenza fossero eccessivi o non necessari, si guardò bene dal reprimerli. In molti casi fu egli stesso a darne l'ordine. Nel giugno 1924, il sottosegretario agli Interni, Aldo Finzi, e il capo dell'ufficio stampa di Mussolini, Cesare Rossi, rivelarono che parecchi atti di violenza, e specialmente quelli compiuti contro giornalisti e deputati dell'opposizione, erano stati ordinati da Mussolini personalmente. Nel febbraio 1923, il partito fascista e il partito nazionalista si fusero in un solo organismo. Come abbiamo già visto, durante i due anni precedenti, i nazionalisti si erano ovunque infiltrati nelle file fasciste, e dato che erano i soli a sapere quel che volevano, avevano contribuito in modo massiccio a fare del movimento fascista uno strumento della reazione capitalista e militarista. Ma i leaders nazionalisti non aderirono ufficialmente al partito fascista e mantennero la propria organizzazione. Tale stato di cose conduceva spesso a un certo, urto tra i seguaci dei due partiti gli 'aristocratici' nazionalisti guardavano dall'alto in basso i 'democratici' fascisti; a loro volta i fascisti accusavano i nazionalisti di essere dei parassiti, che vivevano a spese dei loro sacrifici. Per mettere fine a questo stato di frizione, nel febbraio del 1923 i leaders dei due partiti decisero che i loro seguaci si sarebbero riuniti in un solo partito. Questo fatto ebbe una grande influenza sull'orientamento intellettuale del partito fascista. Dopo la conquista del potere, la mistica puramente negativa della 'rivoluzione' (= violenza) non bastava più. Né Mussolini, né gli altri capi del partito fascista avevano la preparazione, la pratica, o il tempo per costruire da sé una nuova dottrina, mentre i nazionalisti per oltre quindici anni erano stati i sostenitori di un 'governo forte' e della liquidazione sia della democrazia che del parlamentarismo, cioè proprio di quelle dottrine di cui avevano bisogno Mussolini e i suoi seguaci. Il partito fascista mancava di un cervello; i leaders nazionalisti lo fornirono di questo cervello. In compenso, questi ultimi trovarono nel partito fascista quell'organismo che da soli non erano mai stati capaci di creare. Dopo la fusione dei due partiti, tutti i leaders nazionalisti divennero personaggi di primo piano nel partito fascista. Essi iniettarono nelle arterie del fascismo le dottrine nazionaliste. I 'filosofi,' i 'giuristi,' gli 'storici' del regime fascista provenivano quasi tutti dal nazionalismo. In un discorso del 7 marzo 1923, Mussolini così definiva lo spirito del suo regime: «Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto clamore, perché tanti armati...? Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini, ma nell'attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili. Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando mancasse il consenso, c'è la forza» (9). Consenso, in quel momento, significa il consenso della maggioranza alla Camera. Nell'aprile del 1923, i deputati del partito popolare si scissero: sedici passarono apertamente al fascismo, e novantuno, sotto la pressione della massa del partito, passarono all'opposizione. In seguito a ciò Mussolini doveva fare i conti con una opposizione che era formata da una metà della Camera. Inoltre, tra i deputati che votavano in suo favore, ce n'erano almeno 150 che si erano uniti in tutta fretta al coro degli osanna dopo la vittoria fascista, ma che erano favorevoli ad un 'esperimento fascista' e non al 'fascismo,' erano cioè pronti a passare dalla parte dell'antifascismo non appena l'esperimento fallisse. Non avendo una maggioranza sicura in quella Camera, Mussolini doveva sbarazzarsene per formarne una nuova, con una maggioranza chiaramente in suo favore. Tuttavia, con il sistema elettorale esistente non c'era da fidarsi di nuove
elezioni generali. Il corpo elettorale avrebbe potuto rimandare alla Camera una maggioranza antifascista. Bisognava quindi trovare un nuovo sistema elettorale che garantisse. una maggioranza fascista. Non si poteva dare forza di legge ad un tale sistema per mezzo di un regio decreto. Questo avrebbe significato un altro colpo di stato, e la corona si sarebbe trovata troppo esposta. La legge doveva essere approvata dalla Camera. In tal modo, per liberarsi dei suoi oppositori, Mussolini doveva chiedere a questi stessi oppositori di approvare una legge che avrebbe impedito loro di essere rieletti. La legge fu presentata alla Camera il 17 aprile del 1923. Come già sappiamo, secondo il sistema elettorale in vigore nel 1923, il paese era diviso in grandi collegi elettorali, e in ciascun collegio ciascun partito otteneva un numero di seggi proporzionato al numero di voti ottenuto dalla sua lista. Il nuovo progetto manteneva la divisione del paese in grandi collegi elettorali, ma prescriveva che in ciascun collegio ogni partito presentasse un numero di candidati non superiore ai due terzi dei deputati di spettanza del collegio. I voti ottenuti in tutti i collegi da ciascun partito venivano sommati insieme per formare per ogni partito un 'totale nazionale.' Il partito che riceveva il 'totale nazionale' più alto, avrebbe avuti assegnati i due terzi dei seggi (356 su 535) in tutti i collegi, anche in quelli in cui non avesse ottenuto la maggioranza. Tale partito perciò avrebbe controllato alla Camera i due terzi dei voti. Gli altri partiti si sarebbero divisi in ciascun collegio il restante terzo dei seggi, in proporzione al numero dei voti ottenuti. Ad un sistema di rappresentanza proporzionale avrebbe fatto luogo un sistema di rappresentanza 'disproporzionale.' Quando nel luglio la legge venne in discussione alla Camera, i gruppi socialisti e comunisti, e quei democratici condotti da Amendola, immediatamente si schierarono contro di essa. L'esito finale dipendeva dall'atteggiamento dei deputati popolari. Se questi avessero votato contro, il conflitto tra Camera e governo avrebbe dato motivo ad un intervento del Re. Se il Re si fosse schierato con la Camera contro il governo, Mussolini avrebbe dovuto o dimettersi, o fare un colpo di stato non solo contro la Camera, ma anche contro il Re. Tra i deputati popolari, i più conservatori o meno coraggiosi erano disposti a cedere, ma Don Sturzo era un irriducibile avversario della legge, ed aveva dietro di sé l'appoggio della massa del partito e della maggioranza dei deputati. La legge era destinata ad incontrare una forte opposizione e una probabile sconfitta. Per Mussolini c'era soltanto una soluzione: costringere la Camera ad ingollare la legge. La milizia fascista era pronta. Invece delle truppe regolari, come era consuetudine della 'vecchia era,' Montecitorio fu posto sotto la custodia della milizia fascista. Le truppe regolari erano state agli ordini del presidente della Camera a garanzia della libertà dei deputati. I militi fascisti erano agli ordini del presidente del Consiglio per intimidire i deputati. La stampa fascista pubblicò attacchi selvaggi contro i deputati di opposizione. Molti di questi venivano pedinati. Uno di essi, Misuri, il 29 maggio 1923 era stato bastonato quasi a morte, e i suoi aggressori, per quanto conosciuti da tutti, rimasero per la polizia 'persone ignote.' Contemporaneamente la stampa fascista e oratori fascisti in pubblici comizi annunciavano con linguaggio truculento che, se il partito popolare non avesse ceduto di fronte alla legge elettorale, l'Italia avrebbe assistito al più violento scoppio di anticlericalismo che si fosse mai avuto nella storia. Don Sturzo, così argomentavano, era un prete; come tale, egli era sotto la disciplina dei suoi superiori ecclesiastici; quindi questi ultimi erano responsabili per la politica del partito popolare; perciò il partito fascista avrebbe esteso la sua ostilità non soltanto contro Don Sturzo e il suo partito politico, ma anche contro l'intera gerarchia ecclesiastica alla quale Don Sturzo apparteneva. Il 10 luglio del 1923, la legge venne presentata davanti alla Camera. I corridoi erano affollati di camicie nere che facevano grande sfoggio di corde, preparate - gridavano per impiccare quei deputati che avessero osato votare contro. I deputati sapevano
molto bene, dopo quello che era capitato a Misuri il 29 maggio, che non si trattava semplicemente di manifestazioni verbali. Scrive Don Sturzo: «L'atmosfera politica era grave e opprimente. Le camicie nere erano concentrate a Roma. Circolavano da ogni parte voci di feroci violenze e di vendette personali; le forze armate fasciste si mettevano in mostra in numero sempre crescente; perfino le gallerie della Camera, e i corridoi e i saloni ne erano affollati» (10). Ciò malgrado, l'opposizione rivelò una energia insospettata. Quand'ecco che l'11 luglio Don Sturzo si dimette da segretario del suo partito, rilasciando la seguente dichiarazione: «Ho creduto di prendere una simile decisione per non dare più oltre ad avversari di ogni colore il pretesto, per quanto ingiustificato, altrettanto subdolamente sfruttato, di equivocare sui rapporti del partito popolare italiano con la Chiesa, e quindi coinvolgere questa negli inevitabili contrasti politici che il partito stesso deve affrontare, con piena autonomia e responsabilità, per la difesa e la realizzazione del suo programma ideale e pratico. (...) Credo di non dovere più oltre indugiare per non lasciare che la offensiva contro la Chiesa, iniziata proprio in occasione dell'atteggiamento popolare contro la riforma elettorale politica, dalle insidie e dalle minacce vada più oltre» (11). Il giornale liberale La Stampa era più esplicito di Don Sturzo: «In Vaticano si temette che l'ostilità fascista venisse ad estendersi al clero in generale. Infatti, dalle alte sfere fasciste giunse in Vaticano l'avvertimento dell'impossibilità di mantenere l'incolumità sia della persona di Don Sturzo sia dei sacerdoti in genere nelle varie regioni d'Italia. Il Vaticano si mostrò preoccupato di tale situazione, e poiché Don Sturzo aveva già preventivamente offerto di eliminare la propria persona qualora essa potesse creare qualche imbarazzo al Vaticano, così esso fece conoscere a Don Sturzo che il momento delle dimissioni era venuto. Il segretario politico inviò senz'altro la lettera di dimissioni, che fu conosciuta prima dal Vaticano» (12). Nel numero del 12-13 luglio 1923, il "Popolo", quotidiano popolare diretto da un amico di Don Sturzo, riproduceva le parole della Stampa senza smentita alcuna, né da parte di Don Sturzo né da parte del Vaticano. Tale giudizio in proposito è quindi da considerarsi giusto. Ma questa non era tutta la verità. La verità intera è che nel gennaio del 1923, Mussolini e il cardinal Gasparri, segretario di stato del papa, avevano avuto un colloquio segreto nell'abitazione di uno dei direttori del Banco di Roma. Essi si erano accordati sul modo di risolvere la questione romana, e Mussolini si era impegnato al salvataggio della banca a spese dei contribuenti italiani (13). Egli aveva mantenuto la parola. Un fallimento era stato evitato. Era giunto il momento che il papa ricambiasse il favore. Si disse a Don Sturzo che egli doveva dimettersi da segretario del partito popolare. Per lui non c'era altro da fare che obbedire. Una volta abbattuto il pastore, era facile disperdere il gregge. Il 13 luglio le sedi di molte organizzazioni cattoliche, in tutta Italia, vennero assaltate e devastate. Era questo un altro avvertimento a quei deputati popolari che non avessero ancora compreso il consiglio di arrendersi. Lo stesso giorno, fu portato alla ribalta il Re. I giornali pubblicarono il testo di un decreto-legge, con il quale si autorizzavano i prefetti delle provincie e 'diffidare' quei direttori di giornali che avessero messo in circolazione notizie 'false o tendenziose.' Un
direttore che fosse stato 'diffidato' due volte nel corso di un anno avrebbe perso il diritto a dirigere il giornale. Il decreto era una violazione aperta allo Statuto e riguardava una materia che era sempre stata interdetta ai regi decreti. Mai né un gabinetto né il Re avevano emesso provvedimenti del genere senza la preventiva approvazione del Parlamento. Il Re non aveva ancora firmato il decreto. Diffondendo la notizia che esso era stato firmato, Mussolini creava l'impressione che il Re fosse decisamente dalla sua parte e pronto a sostenerlo anche su di un terreno incostituzionale. Il Re non aprì bocca. In questo modo la Camera venne avvisata che essa non poteva far altro che cedere o affrontare un altro colpo di stato, dato che Mussolini aveva il Re nelle sue mani. Dopo che la Camera aveva per quattro giorni discusso la legge, il 15 luglio Mussolini fece un discorso inaspettatamente mite, e nel quale faceva sperare che non appena la legge fosse stata approvata, ogni illegalismo sarebbe subito cessato in tutto il paese. Il leader dei democratici antifascisti, Amendola, con disgraziata mancanza di acume politico, si lasciò irretire da questa promessa, e sacrificando i suoi sentimenti antifascisti al desiderio di pace generale, dichiarò che si sarebbe astenuto dal votare contro la legge. Fu questo il segnale del 'ciascun per sé' per tutti coloro che o erano ansiosi di entrare nelle buone grazie di Mussolini, o non avevano nessuna voglia di assaggiare il manganello fascista. La legge fu approvata con 235 voti in suo favore. Solo un centinaio di deputati socialisti, comunisti e democratici, e 39 popolari ebbero abbastanza fegato da votare contro. Tutti gli altri o si dettero assenti o si astennero dalla votazione. Quello stesso giorno il Re firmava il decreto contro la stampa. Dopo che la Camera aveva rinunciato al suo onore e alla sua indipendenza, egli si sentiva meno colpevole distruggendo un altro pezzetto del vecchio Statuto del Regno. Il decreto tuttavia non venne pubblicato nella Gazzetta Ufficiale; rimase nel cassetto di Mussolini, pronto per la pubblicazione e l'applicazione non appena Mussolini lo desiderasse. Anche questa fu una innovazione nella prassi costituzionale, o piuttosto incostituzionale, italiana. Mai si era dato prima che un presidente del Consiglio avesse presentato al Re un decreto la cui pubblicazione ed entrata in vigore non seguisse immediatamente la firma del Re, ma venisse rimandata ad un tempo futuro quando quel presidente del Consiglio lo ritenesse opportuno. Anche con la nuova legge elettorale, una elezione generale poteva sempre produrre qualche spiacevole sorpresa. Era necessario assicurarsi che i risultati dessero una maggioranza fascista. Era anche necessario attaccare forza e consenso allo stesso carro. Il reverendo Giovanni Minzoni, parroco di Argenta (Ferrara), era il coraggioso leader dell'organizzazione della gioventù cattolica della sua zona, e con tutte le sue forze cercava di impedire che la propaganda fascista si infiltrasse tra i ragazzi. Il 23 agosto tre uomini provenienti da Ferrara arrivarono ad Argenta e ridussero per sempre al silenzio Don Minzoni fracassandogli il cranio a colpi di bastone. Il 29 novembre le camicie nere assalirono l'abitazione dell'ex presidente del Consiglio Nitti: la casa fu saccheggiata e gli arredi distrutti. Il 26 dicembre Amendola venne aggredito in una delle vie principali di Roma e bastonato sino a fargli perdere la conoscenza. Né Don Minzoni, né Nitti, né Amendola erano socialisti o comunisti. La furia fascista non era meno spietata e crudele nei confronti di coloro che rappresentavano gruppi del tutto ossequienti alla legge. Non c'è bisogno di dire che nessuno degli autori di tali violenze venne mai punito. L'"Osservatore Romano", organo ufficiale del Vaticano, ignorò l'assassinio di Don Minzoni: l'intesa cordiale tra Pio Undicesimo e Mussolini stava dando i suoi frutti. Nel gennaio del 1924, il Re venne ancora portato alla ribalta. Un regio decreto-legge del giorno 24 poneva sotto la vigilanza dei prefetti quelle associazioni che 'traggono in
tutto o in parte i mezzi finanziari occorrenti alla esplicazione della loro attività, da contributi dei lavoratori.' I prefetti erano autorizzati a dichiarare sciolti i consigli di amministrazione, sostituirli con un proprio commissario e, se necessario, ordinare la liquidazione del loro patrimonio (14). C'erano in Italia migliaia di società di mutuo soccorso, specialmente per pensioni di vecchiaia, fondate dai lavoratori, di solito in gruppi distinti per categoria, e finanziati dai contributi degli iscritti. Inoltre c'erano migliaia di istituzioni a scopo educativo o ricreativo, e circa 20000 società cooperative. E c'erano infine i sindacati socialisti o popolari, che contavano ancora un alto numero di iscritti nonostante la violenta pressione esercitata contro di loro dai fascisti negli ultimi tre anni. In seguito a questo nuovo decreto, i lavoratori non avevano altra scelta: o si sottomettevano al controllo fascista, o altrimenti i fondi delle loro organizzazioni - frutto di mezzo secolo di lavoro, di economie e di progressi - sarebbero stati gettati al vento. Tale decreto non era meno incostituzionale dell'altro sulla stampa del 15 luglio 1923. Il Re, compiuto il primo passo, aveva perduto ogni senso dell'onore. Il 28 gennaio 1924, in una assemblea nazionale dei leaders fascisti, Mussolini annunciava il suo ultimo ultimatum alla nazione: il paese doveva dare un pieno voto di fiducia al suo governo, un plebiscito fascista; la lista fascista doveva vincere, costi quel che costi: 'chi tocca la milizia avrà del piombo!' I leaders dei partiti antifascisti avevano troppa paura per tentare una coalizione dei loro candidati tale da ottenere la maggioranza dei voti. Nemmeno il senso profondo che questa era la loro ultima disperata battaglia poté superare la loro paura della violenza fascista. Di conseguenza ogni gruppo presentò la sua propria lista separata. Mussolini, al contrario, ammise nella sua lista solo 256 dei militanti fascisti, e distribuì i rimanenti cento posti tra quegli uomini politici della 'vecchia era' che non erano stati avari nel loro appoggio al fascismo, o che erano disposti a convertirsi dietro compenso. Ancora una volta questa era una mossa politica astuta. Comprendendo nella sua lista nomi come quelli dei due ex-presidenti del Consiglio, Salandra e Orlando, e di parecchi altri i quali, specialmente nel Mezzogiorno, avevano ancora il fermo controllo dei loro collegi elettorali, Mussolini impedì che essi comparissero nelle liste di opposizione, assicurando alla sua lista i voti di larghi settori, che altrimenti sarebbero andati agli antifascisti. In diverse parti d'Italia, durante la campagna elettorale, centinaia di propagandisti antifascisti furono arrestati dalla polizia, e tra questi venticinque furono estromessi da questa valle di lacrime. I partiti di opposizione non potevano tenere comizi, e nemmeno attaccare manifesti. A Napoli si impedì ad Amendola di pronunciare il suo discorso elettorale; dovette tenerlo in una casa privata davanti a un gruppetto di amici. Un dissidente fascista, Forni, che aveva osato presentarsi candidato nel collegio di Pavia, venne aggredito alla stazione ferroviaria di Milano e bastonato quasi a morte da quella stessa banda che il 10 giugno seguente doveva assassinare Giacomo Matteotti. Questa brillante operazione era stata ordinata da Giunta, sottosegretario nel Gabinetto Mussolini, e lo stesso Mussolini, nel "Popolo d'Italia", scrisse un articolo intitolato 'Chi tradisce, perisce!' in cui si approvava il fatto. Un candidato del collegio di Reggio Emilia, Antonio Piccinini, venne assassinato. In molti collegi elettorali, specialmente nel Mezzogiorno, ai partiti antifascisti fu impossibile persino nominare i loro candidati; il partito fascista nominava i candidati sia per la maggioranza che per la minoranza. Molte amministrazioni municipali controllate da sindaci fascisti rifiutavano di consegnare i certificati elettorali agli elettori antifascisti. Fu durante questa campagna elettorale che il filosofo neohegeliano, Giovanni Gentile, allora ministro della Pubblica Istruzione, parlando a Palermo il 24 marzo 1924, accennò al manganello come a uno strumento di educazione morale e intellettuale, in un elogio che merita un posto particolare nella storia della filosofia moderna. A proposito di coloro che distinguono tra forza morale e forza materiale, egli disse:
«Distinzioni ingenue, se in buona fede! Ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l'argomento adoperato - dalla predica al manganello - la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l'uomo e lo persuade a consentire. Quale debba essere poi la natura di questo argomento, non è materia di discussione astratta» (15). Il 6 aprile, giorno delle elezioni, specialmente nelle zone rurali, i locali in cui avvenivano le votazioni erano sorvegliati da fascisti armati, che proibivano agli elettori antifascisti di dare il loro voto. In molte località i votanti furono condotti alle urne in camion sotto la supervisione dei fascisti, ricevettero il certificato elettorale dai fascisti, e dovettero deporre la scheda nelle urne senza nemmeno entrare nella cabina elettorale. Parecchie persone che cercarono di andare a votare furono ferite o addirittura uccise. In moltissime sezioni non si permise ai partiti di opposizione di avere i loro rappresentanti per il controllo delle votazioni. I fascisti, liberi di fare quel che volevano, riempirono le urne di voti falsi, tanto che in molte sezioni la loro lista ricevette i voti di tutti i votanti iscritti, anche di coloro che erano morti o erano all'estero. Dove non si era permesso ai partiti di opposizione di nominare i propri candidati, i candidati fascisti riuscirono eletti sia come candidati governativi che come candidati d'opposizione. Malgrado tutto ciò, 2.300.000 cittadini ebbero il coraggio di votare per i candidati di opposizione non comunisti. I comunisti ricevettero 265000 voti. I candidati fascisti raccolsero 4.613.000 voti. Di questi, il grosso (2.700.000) veniva dal Mezzogiorno; nei collegi meridionali i funzionari governativi avevano sempre 'manipolato' i risultati elettorali, secondo i desideri del partito al governo, anche nell'era prefascista. Nell'Italia settentrionale, la lista fascista ottenne soltanto 1.800.000 voti, contro 1.285.000 voti delle liste antifasciste, esclusa quella comunista che raccolse 185000 voti. In parecchie delle maggiori città del Nord, i fascisti ricevettero un numero minore di voti del totale raccolto dalle liste non fasciste. Nella nuova Camera, contro una maggioranza di 374 deputati, c'era una minoranza di 159 deputati divisi tra loro. Con una tale Camera, un Senato in cui il governo era appoggiato sia dai vecchi senatori conservatori che dai nuovi fascisti, e con la milizia alle sue spalle, Mussolini era padrone assoluto della situazione. Tuttavia ancora esisteva una opposizione parlamentare; e fintanto che essa continuava ad esistere, c'era da aspettarsi che avrebbe svolto la sua normale funzione di discutere la politica del governo. Inoltre, la maggioranza alla Camera sapeva di non rappresentare la maggioranza nel paese, e la maggioranza negava il suo diritto di mantenere il potere. Il 30 maggio 1924, il deputato socialista unitario Giacomo Matteotti denunciò la violenza e i brogli messi in opera durante le ultime elezioni. Egli portò numerosi esempi di minacce, di atti di violenza e della generale manipolazione delle elezioni e dei risultati. In conclusione, egli proponeva che le elezioni fossero dichiarate nulle e prive di effetto, e che si tenessero nuove elezioni in condizioni tali da permettere agli elettori di esprimere liberamente la loro preferenza. La Camera era in preda ad una tensione drammatica. Il discorso di Matteotti veniva interrotto quasi ad ogni frase da grida, smentite, insulti e minacce della maggioranza fascista, ma rimanendo calmo ed impassibile il coraggioso deputato continuò sino alla fine la sua denuncia delle violenze fasciste. Poi volgendosi verso i colleghi disse con lo stesso tono di voce calmo e fermo: 'Ed ora preparatevi a farmi l'elogio funebre.' Matteotti sapeva bene che avrebbe pagato con la vita il suo atto di coraggio. Il pomeriggio del 10 giugno 1924, in una strada di Roma e in piena luce del sole, Matteotti venne aggredito da cinque uomini e trascinato a forza dentro una automobile. Due mesi più tardi, in un bosco, una sessantina di chilometri fuori Roma, venne scoperto il luogo dove era stato sepolto.
Le indagini giudiziarie misero in luce i seguenti fatti: 1) che il capo della banda che aveva rapito e assassinato Matteotti era un certo Dumini, che era al servizio del capo dell'ufficio stampa di Mussolini, Cesare Rossi; 2) che l'automobile usata per il rapimento era stata procurata da un certo Filippelli, direttore di uno dei quotidiani fascisti di Roma; 3) che Dumini aveva agito secondo ordini ricevuti da Giovanni Marinelli, segretario amministrativo dei partito fascista, e da Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa di Mussolini. Sembra che il piano di Dumini fosse di rapire Matteotti, condurlo in un punto isolato della campagna intorno a Roma, ucciderlo e abbandonare là il cadavere. Ma all'interno dell'automobile, Matteotti cominciò a lottare contro i suoi rapitori e a gridare. Uno dei suoi aggressori allora lo avrebbe ridotto al silenzio con una pugnalata al petto. Non appena si sparse la notizia della sparizione di Matteotti, per quanto ancora non ci fossero prove che egli fosse stato assassinato, gli italiani ebbero subito il sospetto che Matteotti fosse morto, e chi aveva commesso il crimine e perché. Per tutto il paese si sollevò un moto di sdegno. Il pomeriggio del 12 giugno, alla Camera, un deputato socialista unitario presentò una interrogazione sulla scomparsa del deputato. Mussolini sapeva già che Matteotti era stato ucciso, perché Dumini aveva fatto ritorno a Roma la notte precedente, e Filippelli, Marinelli e Rossi erano stati informati del fatto. E' assurdo pensare che nessuno di loro avesse informato Mussolini prima che questi si recasse alla Camera ad affrontare la tempesta. Mussolini affermò che Matteotti era scomparso improvvisamente 'in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del Parlamento.' Un deputato socialista esclamò: 'Allora Matteotti è morto.' Un deputato repubblicano gridò: 'Lasciate parlare il presidente.' Si fece silenzio. Il deputato repubblicano gridò: 'Allora è complice.' Fu sottratto con difficoltà alla furia dei fascisti. Per parecchi giorni il marciapiede dove Matteotti era stato sopraffatto e rapito fu cosparso di rami di palma e di fiori; una folla di uomini, donne e bambini che si inginocchiavano e dicevano preghiere, lo affollava di continuo. I fascisti non osavano molestarli. Intanto i giornali riguadagnavano coraggio e dedicavano molte colonne a commentare il delitto, discutendo gli elementi che giorno per giorno venivano alla luce. I capi fascisti erano storditi, come se fossero stati colpiti da un disastro irreparabile; la massa dei loro seguaci li abbandonava; per le strade le camicie nere evitavano di farsi vedere. Fu una di quelle reazioni spontanee di tutto un popolo, che nessun regime può impedire né tentare di soffocare con la forza. Lo stesso Mussolini, scomparso del tutto il suo ardimento e il suo coraggio, aspettava senza più speranza il sopraggiungere della catastrofe. Vi furono parecchi giorni di intensa aspettativa. Non successe niente. I deputati massimalisti e comunisti, che per anni avevano parlato di rivoluzione, non osarono proclamare uno sciopero generale. I deputati socialisti unitari, democratici e popolari erano contrari ad una soluzione rivoluzionaria della crisi. La sola cosa che fecero i deputati di opposizione di tutti i gruppi fu la decisione di astenersi dal partecipare alle sedute della Camera in segno di protesta contro il governo. Essi redassero poi un manifesto ben scritto, in cui si chiedeva che venisse fatta luce sul delitto e che si facesse ritorno ad un regime costituzionale. In un articolo sul "Mondo" del 2 luglio 1924, Guglielmo Ferrero così descriveva la situazione: «C'è un punto sul quale Opposizione e Maggioranza non potranno intendersi mai: la legittimità delle elezioni. Se l'Opposizione accettasse come legittime le operazioni elettorali del 6 aprile, si suiciderebbe, perché riconoscerebbe alla maggioranza il diritto di distruggerla con il ferro ed il fuoco. Se la Maggioranza riconoscesse illegittime le elezioni, si suiciderebbe a sua volta, perché dichiarerebbe essa stessa
usurpato il suo potere. Opposizione e Maggioranza non potranno discutere di nulla, perché tra loro si leverà sempre questa questione insolubile. (...) Pochi giorni dopo che Giacomo Matteotti aveva ufficialmente, in nome delle opposizioni, intimato alla Camera una diffida di illegittimità, una mano usciva dall'ombra e lo pugnalava. Ed oggi Opposizione e Maggioranza formano due Camere, che si negano e si escludono a vicenda. Che queste due Camere si possano fondere in una sola assemblea, universalmente riconosciuta e rispettata come la legittima espressione della sovrana volontà nazionale, è una illusione. Tra l'una e l'altra sta non solo un cadavere, ma una questione di legittimità che né l'una né l'altra, ma la nazione soltanto, può sciogliere. (...) Una piccola minoranza, dopo essersi imposta al paese con la forza, vuole essere riconosciuta come legittima rappresentanza della maggioranza (...). In un regime rappresentativo, come quello che vige in Italia, e di cui la dinastia è garante giurata, non può ad essi spettare altro diritto che quello di concorrere al potere e al governo, in condizioni eguali, con gli altri gruppi, le altre scuole e gli altri partiti politici, secondo le regole convenzionali del parlamentarismo lealmente osservate.» Quello che speravano i deputati di opposizione era che con la loro assenza la Camera sarebbe stata paralizzata, e il Re sarebbe stato costretto a chiedere le dimissioni di Mussolini. Nel gennaio e nel luglio del 1923, e nel gennaio del 1924, il Re aveva già firmato tre decreti incostituzionali, dimostrando quanto poco lo turbasse il suo ufficio di garante giurato. Gli oppositori non si resero conto che quando è necessario agire le parole sono inutili. I fatti hanno dimostrato che fu la loro assenza e il loro rifiuto di impegnarsi immediatamente in una battaglia parlamentare nel momento in cui il risentimento del paese era al suo massimo, ciò che veramente salvò Mussolini. Mussolini, dopo un primo momento di depressione, incoraggiato dall'inerzia dell'opposizione corse ai ripari. Il primo segno che egli aveva già superato la tempesta si ebbe il 10 luglio 1924, quando egli mise fuori dal cassetto e fece pubblicare il regio decreto sulla stampa 15 luglio 1923, con in aggiunta un altro regio decreto che dava potestà ai prefetti delle provincie di sequestrare a loro discrezione quei giornali che pubblicassero 'notizie false o tendenziose.' In tal modo ancora una volta il Re dette prova di sostenere Mussolini. Questo avrebbe dovuto aprire gli occhi alla opposizione parlamentare, che ancora credeva che il Re potesse prendere l'iniziativa di congedare Mussolini. Ma i loro sogni non vennero dissipati affatto, ed essi continuarono ad attendere le dimissioni di Mussolini. Di fatto un forte sentimento antifascista era ancora vivo in tutto il paese. Nonostante il decreto contro la libertà di stampa, il delitto Matteotti occupò la prima pagina dei giornali di opposizione per tutta l'estate e l'autunno del 1924. Nella seconda metà del 1924 i giornali antifascisti in tutta Italia avevano una tiratura totale di quattro milioni di copie, contro soltanto 400000 della stampa fascista. A Torino, la "Stampa", antifascista, aveva una circolazione di 400000 copie, contro soltanto 30000 della "Gazzetta del Popolo", fascista. A Milano, il "Corriere della Sera" raggiungeva la cifra tonda di mezzo milione di copie, mentre il giornale di Mussolini, "Il Popolo d'Italia", aveva una vendita di appena 40000 copie. A Roma, i due quotidiani fascisti, "Idea Nazionale" e "Impero", andavano bene quando riuscivano a vendere 10000 copie ciascuno, mentre il giornale umoristico antifascista, "Becco Giallo", nell'agosto del 1924 aveva una tiratura e una vendita di oltre 350000 copie per ogni numero. I pazienti dell'ospedale principale di Milano acquistavano giornalmente 290 quotidiani antifascisti contro 62 fascisti. Se questi dati significano qualcosa, significano che la maggioranza degli italiani era tutto men che fascista. Durante l'estate, il leader dei democratici antifascisti, Amendola, venne in possesso di due memoriali, scritti uno da Filippelli e l'altro da Cesare Rossi, ambedue implicati nel delitto e trattenuti in prigione. Temendo di essere presi come capri espiatori, i due
avevano scritto questi memoriali, affidandoli poi ad amici, perché, se necessario, se ne servissero in loro difesa. Tali amici li avevano consegnati ad Amendola. Filippelli affermava che tanto Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa di Mussolini, quanto Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista, gli avevano detto che l'ordine per l'uccisione di Matteotti era stato dato personalmente da Mussolini. Su questo punto Cesare Rossi manteneva il silenzio, ma accusava Mussolini di essere personalmente responsabile di molte azioni di violenza commesse dai fascisti dopo la marcia su Roma. Inoltre, Finzi, che al tempo del delitto era sottosegretario agli Interni, aveva confidato a diverse persone che l'ordine di sopprimere Matteotti era stato dato dallo stesso Mussolini: Senza dubbio le affermazioni di Finzi e i memoriali di Filippelli e Rossi non costituivano una prova provata della colpevolezza di Mussolini, ma offrivano motivo più che sufficiente per la presentazione di una mozione alla Camera per chiedere che venisse nominata una commissione parlamentare di inchiesta, indipendentemente dalle indagini condotte dalla magistratura. L'opposizione parlamentare antifascista aveva in mano armi e munizioni sufficienti per dare battaglia. Ma avrebbero dovuto andare alla Camera. Appariva ormai chiaro che la loro astensione dalle sedute parlamentari era stato un errore che era servito à vantaggio di Mussolini. Persistere nella stessa tattica sarebbe stata pura follia. Ciò nonostante, essi persistettero nella stessa tattica. E nel dicembre del 1924, alla riapertura della Camera, essi decisero di continuare l'astensione dalle sedute. Solo i deputati comunisti fecero ritorno alla Camera, ma dichiararono che il delitto Matteotti era faccenda della 'borghesia' e che non li riguardava, e che da parte loro non avrebbe costituito motivo per attaccare il governo. I deputati democratici, popolari e socialisti unitari erano sicuri che le indagini giudiziarie in corso avrebbero portato alla luce la responsabilità di Mussolini nel delitto, il che di conseguenza avrebbe costretto il Re a congedarlo. Una eventuale rivolta delle camicie nere poteva essere facilmente domata dall'esercito regolare, e la crisi avrebbe trovato la sua soluzione in un modo costituzionale. Sembrava che tutto fosse chiaro e semplice. Non si rendevano conto che il problema creato dal delitto Matteotti non poteva trovare una soluzione secondo una procedura puramente giudiziaria, come se si fosse trattato di un caso comune. I giudici che si occupavano della cosa non avevano fretta. segnavano il passo aspettando che le forze politiche trovassero una via di uscita in quel vicolo cieco. Conducevano l'istruttoria con grande lentezza, e per sei mesi interrogavano centinaia di presunti testimoni che non avevano niente da dire, mentre evitavano accuratamente di interrogare gli esecutori del delitto e di metterli a confronto con i promotori di esso, per evitare che il nome di Mussolini venisse portato direttamente in causa. Pur astenendosi dalle sedute della Camera, l'opposizione cercò di tirare in ballo il Re. Verso la metà di novembre, Amendola consegnò al Re i memoriali di Rossi e Filippelli, pensando che, una volta in possesso di tali prove, egli non si sarebbe più rifiutato di agire. Il Re non dette segno di vita. Dopo che la Camera aveva preso le vacanze natalizie, il 28 dicembre, Amendola pubblicò il memoriale di Cesare Rossi, contando di fare uso più tardi di quello di Filippelli. Tale pubblicazione suscitò una impressione enorme, sia perché Rossi era stato uno dei più intimi aiutanti di Mussolini, sia perché provava che molti atti di violenza erano stati ordinati direttamente da Mussolini. Amendola e i suoi amici non si mossero, aspettando di vedere che cosa avrebbe fatto il Re. Il Re non alzò un dito. Al contrario, Mussolini non perdette tempo. Egli sapeva di avere il Re nelle sue mani. Durante i mesi di agosto, settembre ed ottobre era stato in giro in molte località dell'Italia settentrionale e centrale, tenendo ovunque discorsi incendiari contro l'opposizione. Le squadre avevano ripreso a compiere le loro 'spedizioni punitive' con spietata efficienza. Il 22 ottobre del 1924, l'"Osservatore Romano" dichiarava che
nella sola provincia di Piacenza, nel corso dei quattro mesi precedenti, trentasei preti erano stati aggrediti e bastonati, uno dei quali era stato ferito mortalmente. I preti appartenevano al partito popolare, che era solo uno dei partiti che formavano l'opposizione e Piacenza era solo una delle novantanove provincie d'Italia. Ciò può dare un'idea della situazione predominante nel paese durante quei mesi. Il 30 dicembre 1924, per impedire ogni commento al memoriale Rossi e ancor più per impedire la pubblicazione del memoriale Filippelli, che lo accusava direttamente, Mussolini dissotterrò una legge di oltre quarant'anni prima che dava potestà ai prefetti, in caso di urgenza, di 'vegliare sull'andamento di tutte le pubbliche amministrazioni' (16). La stampa veniva considerata come un ramo della pubblica amministrazione, e di conseguenza i prefetti erano autorizzati a prendere 'i provvedimenti che credano indispensabili' per impedire ai giornali la pubblicazione di notizie ritenute dannose. Da quel momento in poi la stampa antifascista fu soffocata da una serie continua di sequestri, tutte le volte che essa tentava di pubblicare quelle notizie che i prefetti consideravano dannose. Mediante questo nuovo colpo di stato contro la stampa, fu 'affrontato e risolto quasi completamente il problema della: stampa fascista,' come affermò Mussolini in un discorso del 10 ottobre 1928. Contemporaneamente, specialmente nell'Italia centrale, le camicie nere andavano conducendo spettacolari 'spedizioni punitive.' Ora che la stampa era stata ridotta al silenzio e il paese terrorizzato, il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò alla Camera. Egli rigettò ogni diretta partecipazione al delitto Matteotti, ma assunse la responsabilità politica per l'atmosfera di violenza in cui era vissuto il paese negli ultimi quattro anni. «Si grida: 'Il fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione ed un movimento di banditi e di predoni,' e s'inscena, o signori, la questione morale! (...) Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (...) Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico, morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento fino ad oggi.» Poi egli sfidava l'opposizione ad avere il coraggio di porlo sotto stato di accusa, e concludeva: 'Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita.' Non c'era alla Camera nessun gruppo di opposizione che potesse immediatamente raccogliere la sfida. Per essere ancor più sicuri che nessuno degli oppositori si facesse vivo entro le 48 ore, immediatamente dopo che Mussolini aveva lanciato la sua sfida, il presidente della Camera aggiornò la seduta a data da destinarsi, senza quindi far sapere quando la Camera sarebbe tornata a riunirsi. I membri dell'opposizione avrebbero così potuto chiedere che Mussolini venisse posto in stato d'accusa solo fuori della Camera, cioè mediante un atto rivoluzionario che avrebbe dato alle camicie nere un buon pretesto per massacrarli. La stampa, imbavagliata, non avrebbe neppure potuto annunciare al mondo il felice evento. Solo cinque giorni dopo, i deputati di opposizione pubblicarono un 'manifesto,' scritto in bello stile letterario e pieno di bei sentimenti morali, ma che non conteneva nessuna esplicita accusa contro Mussolini. Esso valse soltanto come il documento di una sconfitta definitiva, e il governo fu ben lieto di consentirne la pubblicazione. Rocco, ministro della Giustizia nel gabinetto Mussolini dal gennaio 1925 al luglio 1932, ha scritto:
«Il discorso memorando del 3 gennaio aprì la nuova fase della rivoluzione. Ogni residuo di collaborazione con altri partiti fu eliminato. Scomparvero i detriti del vecchio mondo politico e il fascismo dominò da solo lo stato» (17). Nel 1927, Mussolini personalmente affermò che il regime democratico in Italia, dopo essere stato ucciso nel gennaio 1923, con la creazione della milizia, fu definitivamente sepolto il 3 gennaio 1925 (18). Da un punto di vista politico, il delitto Matteotti segna una svolta decisiva nella evoluzione del fascismo. Mussolini conquistò il potere nel 1922 grazie all'appoggio dell'alta finanza, dei grossi industriali, dei grandi proprietari terrieri, con la connivenza delle autorità militari e l'acquiescenza del Re. Tutte queste persone non avevano nessuna voglia di una dittatura quale sorse dal delitto Matteotti. Il Parlamento era stato reso impotente, la stampa imbavagliata, il suffragio universale 'disciplinato,' ma esteriormente e da un punto di vista formale lo Statuto non era stato toccato. Da molto tempo i conservatori erano contro quello che chiamavano il sistema 'parlamentare,' al quale volevano facesse luogo un sistema 'costituzionale.' Il Re doveva 'governare' e non 'regnare' semplicemente. Non era loro proposito instaurare una dittatura che privasse la corona di tutti i suoi diritti ed attributi; la loro monarchia ideale era quella prussiana, quale era stata sotto Bismarck. Negli anni 1923 e 1924, erano i fascisti di estrema sinistra ad invocare radicali riforme costituzionali, minacciando di proclamare la repubblica qualora il Re avesse opposto resistenza. Mussolini, assorbito dagli impegni quotidiani del governo, lasciò che gli intellettuali facessero e disfacessero le loro astratte teorie, servendosene a sua volta o rigettandole a seconda delle necessità pratiche. Durante quegli anni il suo programma principale fu di rimanere al potere: 'Sono venuto qui per rimanervi il più a lungo possibile' (19). Di conseguenza, i primi anni del regime fascista furono caratterizzati dalla più assurda contraddizione tra parole e fatti, teoria e pratica, legge e governo. Fu un periodo, da una parte di anarchia locale, dall'altra di abuso del potere centralizzato. Le squadre fasciste continuavano a compiere atti di violenza, ma questi atti di violenza erano condannati dalla legge. Gli antifascisti erano di fatto privati dei loro diritti personali e politici, ma l'Italia era ancora un paese in cui, secondo lo Statuto in vigore, tutti i cittadini, senza distinzione di partito, godevano degli stessi diritti personali e delle stesse libertà politiche. Un partito politico da solo, il partito fascista, si proclamava il rappresentante di tutta la nazione. Il Parlamento era stato consegnato ad una maggioranza fascista con mezzi certo non contemplati dal vecchio Statuto, e si impediva con la violenza ai membri dei gruppi di opposizione di esercitare il loro legittimo compito di discutere e criticare le azioni del governo. L'esistenza dei partiti politici tuttavia era ancora contemplata dalla legge, e si poteva ancora sperare che una minoranza parlamentare fosse in grado di svolgere la propria azione. La stampa era imbavagliata, ma la legge che garantiva la libertà di stampa non era ancora stata esplicitamente soppressa. Direttori ed editori dei giornali antifascisti venivano bastonati, le redazioni devastate e date alle fiamme; ma ai giornali antifascisti era ancora consentita la pubblicazione. In conclusione, sebbene la democrazia venisse messa in croce, le forme di uno stato democratico venivano ancora mantenute. Solo con la crisi susseguente al delitto Matteotti si ebbe la rottura aperta anche con gli aspetti formali del vecchio regime democratico. Fu durante tale crisi che a Mussolini non fu più possibile autorizzare da una parte, come Duce del fascismo, i delitti compiuti dalle squadre, e sconfessarli dall'altra, come presidente del Consiglio. Non gli era più possibile promettere che giustizia sarebbe stata fatta, e contemporaneamente fare uso dei mezzi a disposizione del governo per garantire l'impunità agli esecutori dei delitti. Per superare la crisi, per evitare di essere egli stesso sommerso, Mussolini doveva bloccare tutte le vie costituzionali, attraverso le quali l'opposizione poteva
svolgere una azione legale. Doveva distruggere completamente la libertà di stampa e sopprimere nel paese ad ogni costo ogni possibile manifestazione di dissenso. Assumendo pubblicamente, col discorso del 3 gennaio 1925, la responsabilità del 'clima storico' che aveva condotto il fascismo alla illegalità e alla violenza, egli poneva fine alla ambigua politica del suo regime. Adesso apertamente le vuote forme delle costituzioni democratiche venivano messe da parte. Anche il Re fu costretto a venire alla ribalta. Fintanto che la violenza fascista veniva ufficialmente sconfessata dal suo presidente del Consiglio, il Re, come Ponzio Pilato, se ne poteva lavare le mani. Ma una volta che Mussolini si era assunta ufficialmente la responsabilità morale e politica per tutte le imprese fasciste, il Re era costretto ad assumere la sua parte di responsabilità. Il giuramento prestato al momento di salire sul trono lo obbligava esplicitamente all'osservanza e alla difesa dello Statuto del Regno lasciatogli in eredità dal padre. Al contrario, il 31 luglio 1925, egli firmava una amnistia che consentiva ai fascisti, colpevoli del delitto Matteotti, di evitare la pena. In tal modo diventava un complice del sovvertimento dello Statuto. La vittoria di Mussolini confermava definitivamente il suo supremo ed assoluto controllo non soltanto nei confronti del suo partito. Indipendentemente da quanto tutti gli altri capi fascisti minori avessero detto e fatto per salvare il fascismo nell'ora del pericolo, fu Mussolini che, assumendosi intera la responsabilità delle imprese fasciste e sfidando apertamente l'opposizione ad un duello definitivo, aveva condotto a termine la crisi. Da questo momento in poi non c'era niente che Mussolini non potesse permettersi di fare. La sua vittoria intensificò nelle file del suo partito la fede del mito del 'Duce invincibile,' e la convinzione che la obbedienza cieca a Mussolini fosse essenziale per la esistenza del fascismo. Il partito divenne sempre più una organizzazione militare in cui il primo dovere era il vecchio slogan militare: 'Prima obbedisci e non cercar di capire.' Superando la crisi con pieno successo, Mussolini si rese conto non soltanto della condizione disperata dei suoi avversari, ma della misura della sua forza.
CAPITOLO VENTISEIESIMO. LA COSTITUZIONE DELLO STATO TOTALITARIO. 1. LO STATO A PARTITO UNICO. Dopo il colpo di stato del gennaio 1925, sino alla fine del 1926, il paese fu mantenuto in un regime di terrore. Durante il 1925 e il 1926, la Camera e il Senato (la prima era sgombra ormai di ogni opposizione, e nel secondo solo un pugno di uomini avevano il coraggio di criticare la nuova legislazione) liquidarono la vecchia libera costituzione italiana dando una forma giuridica al regime dittatoriale. I diritti dei cittadini garantiti dalla libera costituzione erano compresi in tre categorie principali: 1) diritti personali, cioè, il diritto di "habeas corpus", la libertà di pensiero, di fede, di educazione, di lavoro eccetera, e il diritto di essere giudicati secondo la determinata procedura giuridica; 2) libertà di parola, di stampa e di associazione, e il diritto di partecipare a riunioni che si svolgono in modo pacifico; 3) il diritto di autogoverno e di rappresentanza politica, cioè il diritto della maggioranza dei cittadini di cambiare attraverso le elezioni gli uomini al potere nell'amministrazione centrale e locale. Quando nel diciottesimo secolo ebbe inizio il movimento liberale, esso mirava ad imporre i diritti della maggioranza dei ceti inferiori contro i privilegi del clero e dell'aristocrazia. Dopo che i privilegi politici di queste minoranze furono aboliti, sorse un nuovo pericolo: i partiti al potere potevano sopprimere le libertà delle minoranze. A questo punto la definizione di libertà divenne più complessa. La dottrina liberale venne a comprendere non soltanto il principio che la maggioranza è investita del diritto di governare, ma anche il principio che la minoranza è investita del diritto di dissentire dalla maggioranza. I diritti di coloro che erano al potere venivano limitati dai diritti di coloro che erano all'opposizione. Fondamentalmente la libertà è il diritto dei cittadini di dissentire col partito al potere. E' da questo diritto di dissentire col partito al potere che in una libera costituzione sorgono tutti gli altri diritti dei cittadini: libertà di parola, libertà di stampa e di associazione, diritto di riunione, e diritto di rappresentanza. I diritti personali, le libertà politiche e gli istituti parlamentari hanno il compito di proteggere le minoranze contro una possibile oppressione del partito al governo. La prova migliore per valutare il grado di liberalità di una costituzione è data dalle disposizioni che essa contiene a favore delle minoranze. In una dittatura un solo partito - il partito al potere - ha il diritto di esistere. Un uomo solo controlla il meccanismo centrale di governo. Il controllo di tutte le branche subordinate della vita nazionale è affidato a uomini di fiducia del padrone assoluto: Gli oppositori effettivi o potenziali degli uomini al governo sono posti fuori legge. La costituzione della dittatura italiana ci offre un esempio perfetto di quello che uno stato a partito unico è obbligato ad essere. Il partito fascista è il solo partito di cui sia consentita l'esistenza. Tutti gli altri sono illegali. Il partito fascista non è una organizzazione privata, ma un istituto pubblico riconosciuto dalla legge. Lo statuto del partito è pubblicato mediante regio decreto e il suo testo ha valore di legge. L'emblema del partito fascista fa parte dello stemma nazionale, e cinge lo stemma dinastico. Chiunque commette un atto irrispettoso contro l'emblema del partito è soggetto ad una pena da uno a tre anni di detenzione, e sino a 24 anni qualora il delitto sia stato commesso in territorio straniero. Il partito fascista è una organizzazione il cui sistema è rigidamente centralizzato. Mussolini è il suo 'duce,' cioè il suo capo supremo. Egli nomina il segretario generale del partito. Il segretario generale sottopone al Duce i membri del direttorio nazionale e i segretari provinciali. A loro volta i segretari provinciali nominano i loro diretti dipendenti e i segretari delle sezioni locali, sottoponendo la loro scelta
all'approvazione del segretario generale. I segretari locali nominano i loro dipendenti e ne sottopongono la scelta all'approvazione del segretario provinciale. Ciascun fascista deve indiscussa obbedienza al suo superiore. Le nuove reclute prestano il seguente giuramento: 'Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista.' A tale giuramento si è vincolati per tutta la vita. La disubbidienza è punita con l'espulsione dal partito. Essa comporta, per l'eretico che ha rifiutato di sottomettersi, la espulsione da ogni ufficio pubblico. Egli diventa un proscritto. Nessun fascista deve per nessuna ragione rimanere in contatto con coloro che sono stati espulsi. Chiunque contravviene a questo dovere deve essere denunciato alle autorità di polizia. A somiglianza del primo ministro in un regime liberale, Mussolini è insieme presidente del Consiglio e leader del partito che controlla il governo. Egli è al tempo stesso capo del governo e duce del fascismo. Ma in un regime liberale il partito è una organizzazione privata e la guida del partito è una faccenda sistemata nell'interno del partito stesso, e non un ufficio pubblico come la presidenza. Nella dittatura fascista il partito è una istituzione pubblica. Mussolini è in primo luogo il duce del fascismo e poi il capo del governo. Come capo del governo egli mette in opera la sua volontà di duce del fascismo. Tale situazione è la logica conseguenza del fatto che Mussolini agisce come se avesse conquistato il potere con la forza armata, e il suo diritto al potere deriva dal fatto che egli è il capo delle sue proprie forze armate. Secondo una legge del dicembre 1925, 'chiunque con parole od atti offende il capo del governo è punito con la reclusione o con la detenzione da sei a trenta mesi' (1). Gli autori del codice penale entrato in vigore nel 1931 pensarono che trenta mesi non erano sufficienti, e portarono il minimo della pena a cinque anni. Il potere esecutivo del governo centrale non dipende più dal potere legislativo. Il Parlamento è privato di ogni effettiva autorità. Come membro del partito fascista, ciascun deputato è soggetto alla disciplina di partito, e se il segretario generale del partito decretasse la sua espulsione e lo sospendesse, egli sarebbe "ipso facto" espulso o sospeso dal suo ufficio di deputato. Se criticasse una qualche azione del duce del fascismo e capo del governo, sarebbe imputabile di 'offesa' alla sua persona. Quindi, il capo del governo non è in nessun modo responsabile di fronte al Parlamento. E' il Parlamento che è responsabile verso di lui. Ogni volta che ragioni di urgente od assoluta necessità lo richiedono, il governo può modificare una legge esistente in ogni ramo dell'amministrazione e promulgare una nuova legge, mediante regio decreto, senza il consenso preventivo del Parlamento. Posta così in balìa dell'esecutivo e privata di ogni potere, la Camera dei deputati è ridotta alla condizione di un ufficio di registrazione di leggi e decreti, e alla funzione di un grammofono per lodare ed esaltare le virtù del dittatore. Anche le amministrazioni locali non sono più elettive. Esse sono rette da funzionari di nomina governativa. Tutte le associazioni le cui attività posson essere considerate ostili al partito al potere sono fuori della legge. Chiunque riorganizzi sotto nuovo nome associazioni che la polizia ha decretato essere illegali diviene un proscritto. Tutte le associazioni, anche gli istituti di carità, i circoli sportivi, i circoli di bocciofili, eccetera, devono essere diretti da uomini che siano ben visti dal partito al governo, e sono scelti dai capi del partito fascista. Qualsiasi tipo di manifestazione o di attività antigovernativa è severamente punito. Riunioni in case private sono illegali e soggette a pene severe, indipendentemente dal numero dei partecipanti, se nel corso di esse si siano tenute discussioni politiche giudicate pericolose. Tutti i mezzi di educazione e di informazione devono avere lo scopo di creare uno spirito del tutto conformato al modello eretto dal partito dominante. Direttori di giornali e di riviste devono essere uomini di fiducia del partito al potere. I libri non
graditi al partito al potere sono sequestrati. Il clero di tutte le confessioni deve mantenere assoluto silenzio su questioni non gradite al partito al potere, o altrimenti unirsi al coro delle lodi. Gli insegnanti devono prestare un giuramento di fedeltà al partito al potere, impegnandosi a fare uso dell'insegnamento per formare cittadini devoti al regime esistente. Giudici e pubblici funzionari sono allontanati dai loro uffici, avvocati, medici, chimici ingegneri e professionisti in genere non hanno il diritto di svolgere la loro professione, se si mettono in opposizione al partito al potere. I delitti politici vengono giudicati non da giudici regolari, ma da un tribunale speciale, composto da un generale e da cinque ufficiali della milizia, i quali, come fascisti, hanno giurato senza discussione agli ordini del Duce. La polizia ha la potestà di tenere sotto sorveglianza o di internare in isole ed in villaggi remoti coloro che siano processati e condannati, una volta che essi hanno già scontato la pena, e anche coloro 'che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un'attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l'azione dei poteri dello Stato, o un'attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionali' (2). La persona è presa, e spesso senza nessun interrogatorio, condotta ammanettata al luogo di internamento. La durata dell'internamento può essere sino a cinque anni. Trascorsi i primi cinque anni, può iniziare un nuovo periodo di cinque anni, e così via all'infinito, a discrezione della polizia. La polizia può aprire le lettere. Chiunque sia trovato fuori della sua città di origine e privo di una carta di identità può essere 'fermato' dalla polizia, cioè tenuto in stato d'arresto a discrezione della polizia. I datori di lavoro non possono occupare nessuno che sia sprovvisto di documenti. Basti quindi che la polizia ritiri a uno la carta d'identità per ridurlo alla fame. Ogni tentativo di lasciare il paese senza un regolare passaporto, come pure l'aiuto fornito per un tale tentativo, è punito con la detenzione sino a cinque anni. Chiunque sia sorpreso nel tentativo di passare il confine fuori dei pochi valichi autorizzati può essere ucciso a fucilate dalla polizia di frontiera. Si tratta di una pena di morte sommaria, applicata dalle guardie, che diventano tutto in una volta accusatori, giudici ed esecutori. Per farla breve, non soltanto le libertà politiche sono tenute in non conto, ma anche i diritti personali. Ciò non si deve al capriccio, alla cattiva volontà o al caso. Le istituzioni che hanno origine dalla dottrina liberale non sono qualcosa di divisibile. Un regime politico che garantisce ai cittadini il diritto di eleggere gli uomini che li devono rappresentare davanti al loro governo deve essere basato sul principio della concorrenza dei partiti, cioè sul diritto dei partiti di opposizione di sostituirsi al partilo al potere quando questo abbia perso la fiducia della maggioranza del corpo elettorale. Il diritto di mutare il partito al potere perderebbe ogni valore senza essere unito al diritto di cui è investita l'opposizione di criticare il partito al potere. Ciò significa che i partiti di opposizione devono godere della libertà di parola, di stampa e di associazione, e del diritto di riunione. A loro volta queste libertà politiche sarebbero ridotte a una mistificazione se il partito al potere avesse il diritto di violare e sopprimere del tutto i diritti dei cittadini, ogni volta che questi cercassero di farne uso per opporsi al partito al potere. Quindi, istituti rappresentativi, libertà politiche, diritti personali, formano una catena i cui anelli sono inseparabilmente legati insieme. Viceversa se si accetta il principio dello stato monopartitico o stato 'totalitario,' si devono non solo sopprimere o ridurre a una mistificazione gli istituti rappresentativi, ma anche sopprimere le libertà politiche e i diritti personali. Infatti, se al cittadino fosse garantito il diritto di opposizione con tutti i suoi accessori, cioè libertà di parola, di stampa e di associazione, e il diritto di riunione, senza dargli la possibilità di cambiare il partito al potere mediante mezzi legali, questi diritti sfocerebbero nella violenza di una rivoluzione. E quando siano soppresse le libertà politiche, anche i
diritti personali devono essere soppressi o rigorosamente ridotti. Come è possibile sopprimere la libertà di parola, se la libertà di pensiero rimane priva di vincoli? Come si può sopprimere la libertà di stampa, se la libertà di insegnamento rimane intatta? Come si può impedire la formazione di un movimento di opposizione, se la polizia non ha il potere di controllare anche la vita privata di tutti coloro che sono sospettati di essere oppositori? E per sopprimere l'opposizione, quando questa si manifesti, quale metodo più efficace che spedire gli oppositori in prigione o ridurli alla fame? Gli istituti di uno stato monopartitico non sono divisibili, allo stesso modo di quelli dello stato pluripartitico. Si deve accettare o respingere tutto, nell'uno come nell'altro caso. Sia per la libertà che per la dittatura, si tratta di 'prendere o lasciare.' 2. GLI ISTITUTI CORPORATIVI. Gli istituti della dittatura fascista non sono una novità nella storia. La Francia, sia sotto Napoleone Primo che sotto Napoleone Terzo, visse sotto istituti dello stesso tipo di quelli dell'Italia fascista. Tuttavia, nell'instaurare i loro sistemi totalitari, le dittature dei tempi andati dovevano preoccuparsi soltanto di quelle correnti di opposizione che potevano svilupparsi tra i ceti elevati e i ceti medi della società. Sia nelle città che nelle campagne le classi lavoratrici erano politicamente inerti, e per quanto riguardava la politica di governo si poteva tranquillamente non tenerne conto. 'Le autorità sapevano con precisione dove rivolgere la sorveglianza della polizia: alle redazioni di tali e tali giornali, nelle vicinanze di tali e tali caffè trasformati in circoli, nei pressi delle abitazioni di tali e tali cittadini, sospettati e tenuti d'occhio. Lo sviluppo economico non aveva ancora fatto sorgere quegli enormi aggregati di esseri umani che sono oggi ammassati insieme nelle grandi fabbriche. Le conseguenze sociali del progresso industriale imponevano alle dittature nuove necessità e nuove tattiche. A che serve abolire il diritto di riunione, mettere in catene la stampa, proibire manifestazioni nelle strade, se all'interno delle fabbriche si tollera lo sviluppo di centri rivoluzionari? A che serve impedire ai lavoratori di impegnarsi in qualsiasi genere di attività politica fuori del lavoro, se si permette che tale attività abbia origine sul luogo di lavoro, in quelle occasioni innumerevoli in cui gli operai terminato il loro lavoro si trovano insieme, all'entrata e all'uscita delle officine? Era assolutamente necessario che il nuovo governo adottasse un atteggiamento di stretta sorveglianza verso i gruppi operai' (3). E' questa la ragione perché oggi in una dittatura c'è una serie di istituti che non hanno precedenti nelle dittature dei tempi passati: i cosiddetti istituti corporativi. L'Italia è divisa in provincie. In ogni provincia, per ciascun gruppo di datori di lavoro, lavoratori o classi professionali, una sola organizzazione è giuridicamente riconosciuta. La legge ammette l'esistenza "de facto" di altre organizzazioni oltre quelle riconosciute giuridicamente. Ma nessuno sinora ha osato di formare una di queste organizzazioni "de facto". Un tentativo del genere sarebbe considerato come sovversivo nei confronti dell'ordine 'nazionale,' e severamente punito. Nessuno può appartenere alla propria organizzazione ufficiale fascista di mestiere senza esservi ammesso dal segretario, e il segretario può espellere quei membri che, a suo giudizio, siano indesiderabili. Ma tutti devono corrispondere il loro contributo annuo alla propria organizzazione di mestiere, che vi appartengano o no. Le organizzazioni fasciste sono riunite in nove confederazioni nazionali: quattro per i datori di lavoro, quattro per i lavoratori, e una per le classi professionali. I presidenti delle confederazioni nazionali vengono nominati da Mussolini. I segretari delle organizzazioni provinciali vengono designati dai presidenti delle confederazioni dopo essersi consultati con le più alte autorità del partito fascista. I segretari delle organizzazioni provinciali scelgono i funzionari dei gruppi locali. Un funzionario può essere sempre destituito dal governo, quando manchi di manifestare un grado sufficientemente elevato di indubbia fedeltà nazionale (cioè fascista).
In tal modo, i funzionari non sono 'eletti' dagli iscritti, ma 'nominati' dall'alto, ed essi devon render conto della propria azione non ai membri della loro organizzazione, ma ai capi del partito al potere. In questo, sembrerebbe che non ci fosse nessuna differenza tra le associazioni di datori di lavoro, da una parte, e quelle di lavoratori o delle classi professionali, dall'altra. I loro funzionari sono sempre nominati dall'alto. Ma le condizioni di fatto delle diverse classi non sono identiche. Tra i datori di lavoro c'è una netta differenza tra grossi industriali, proprietari terrieri, e banchieri, da una parte, e gli altri minori. Quando si deve nominare un funzionario in una associazione di datori di lavoro, grossi uomini d'affari, numericamente scarsi, si mettono d'accordo prima durante una delle loro riunioni, scelgono il loro uomo di fiducia, fanno una telefonata a uno dei capi del partito al potere, gli comunicano il nome dell'individuo prescelto, e questo viene nominato. Ad esempio, oggi il presidente della confederazione industriali è il conte Volpi, che si può considerare il Rockefeller italiano. Non c'è dubbio che egli rappresenta perfettamente il grosso industriale italiano. I piccoli datori di lavoro, piccoli industriali, negozianti, proprietari terrieri, non partecipano alla partita. Nella nomina dei funzionari delle loro associazioni, essi non hanno voce in capitolo. Alla direzione delle loro associazioni vi sono gli agenti dei grandi uomini d'affari, non i rappresentanti dei piccoli industriali. Quanto ai lavoratori, tra loro non c'è nessuna differenza di più potenti o meno potenti, grossi e piccini. Sono tutti piccini, tutti privi di potere. Essi sono troppo numerosi, e non si permette loro di riunirsi per discutere dei loro affari. A loro non è possibile telefonare ai capi del partito al potere per presentare i nominativi dei loro prescelti. Le direzioni delle loro organizzazioni non rappresentano nessuno. Sono composte dagli uomini di fiducia del partito al potere, il quale controlla i loro sindacati. E questo vale anche per le classi professionali. Nello stato corporativo fascista i grossi uomini d'affari costituiscono un fattore attivo e dirigono le associazioni dei datori di lavoro. I piccoli datori di lavoro, i lavoratori e le classi professionali costituiscono l'elemento passivo, e devono assoggettarsi a tutto quello che sia ritenuto opportuno dai loro funzionari. Una volta che ci si sia formata un'idea chiara di queste organizzazioni legalmente riconosciute e dei loro funzionari, si comprenderà che cosa significa affermare che tutti i contratti in merito a salari, ore di lavoro, eccetera, sono stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori e che tali contratti sono vincolanti per tutti i datori di lavoro e i lavoratori, siano questi o no membri dell'organizzazione. Questi contratti sono stipulati da uomini di fiducia dei grossi datori di lavoro e da funzionari che sono stati nominati dall'alto per controllare i sindacati dei lavoratori. In tali faccende gli iscritti ai sindacati non possono metter bocca. Se qualcuno degli iscritti non fosse soddisfatto e si provasse a brontolare, il segretario del suo sindacato ne decreterebbe l'espulsione, e quindi tutti coloro che rimangono iscritti al sindacato se ne stanno beati e contenti. Gli scioperi sono proibiti e puniti con una serie severa e progressiva di sanzioni, che contemplano un massimo di sette anni di detenzione. Così come gli scioperi, anche la serrata è proibita. Di qui i fascisti pretendono che il capitale sia stato messo sullo stesso piano del lavoro. Ma una volta che non ci siano più scioperi, la serrata diviene superflua. Inoltre la legge, mentre obbliga gli operai al lavoro sotto pena di imprigionamento, non può obbligare un datore di lavoro a continuare la sua attività quando egli dichiari che non può più mantenere i vecchi salari. La interruzione di lavoro allora non è una serrata, ma una chiusura dovuta a 'giustificati motivi.' Quando i rappresentanti dei datori di lavoro e i funzionari che dirigono i sindacati operai non raggiungono l'accordo, la vertenza deve essere risolta da una corte del
lavoro, sia per quanto riguarda i contratti in corso di esecuzione che per quelli che siano in via di formazione. La corte è formata da un giudice e da due esperti, e tutti gli esperti devono essere dei laureati. In tal modo i lavoratori sono automaticamente esclusi dalla corte. I fascisti giustificano l'abolizione del diritto di sciopero mediante il seguente teorema: Lo stato non è più stato, cioè non è più sovrano, se non può applicare la giustizia nei conflitti tra classi e categorie sociali, proibendo loro di esercitare una giustizia privata, esattamente allo stesso modo che ciò viene proibito agli individui e alle famiglie. Ma nelle vertenze di lavoro chi è lo 'stato?' Nello 'stato corporativo' al primo gradino si trovano gli uomini di fiducia dei grossi datori di lavoro, e i funzionari nominati dall'alto per dirigere i sindacati dei lavoratori, e al gradino più alto troviamo i giudici e gli esperti delle corti del lavoro. A nessuno di questi due livelli i lavoratori hanno una vera rappresentanza. Perciò lo 'stato' viene a essere la classe dei datori di lavoro. Prendiamo un esempio per mostrare come funziona il sistema in pratica. Nel marzo del 1927, i rappresentanti dei coltivatori di riso e i funzionari che dirigono i sindacati dei mondariso firmarono un contratto secondo il quale i salari sarebbero stati ridotti del 10 per cento. Quindici giorni prima l'inizio dei lavori, i datori di lavoro annunciarono che essi non potevano pagare i salari concordati, perché, dopo la firma del contratto, il prezzo del riso aveva subito un ribasso del 25 per cento, e chiedevano quindi una ulteriore riduzione dei salari del 20 per cento. I funzionari che dirigevano i sindacati offrirono una seconda riduzione del 2 e mezzo per cento. Essa fu giudicata insufficiente dai datori di lavoro. Quando la vertenza venne portata davanti alla corte del lavoro, questa autorizzò soltanto la riduzione del 2 e mezzo per cento a cui gentilmente avevano acconsentito i funzionari, e fece restituire dai mondariso ai datori di lavoro quanto essi avevano già percepito in eccesso. I giornali annunciarono che la corte del lavoro aveva sconfitto i datori di lavoro. Non si preoccuparono di spiegare che di fatto i salari erano stati diminuiti del 12 e mezzo per cento. Nel 1928, il governo decise che avesse luogo una nuova riduzione del 7,5 per cento. Durante il 1929, il prezzo del riso salì del 20 per cento, e i coltivatori offrirono ai lavoratori un aumento dell'1,5 per cento. I funzionari del sindacato lo accettarono con animo grato. Ma nel 1930 il prezzo diminuì di nuovo, e i funzionari generosamente accettarono una ulteriore riduzione dei salari del 17,5 per cento. Nel 1931, i datori di lavoro richiesero un'altra riduzione del 35 per cento. I funzionari si affrettarono ad offrire una riduzione del 20 per cento. La corte del lavoro stabilì una riduzione del 21 per cento. Nel 1933 e 1934, i salari furono di nuovo ridotti. In tal modo i salari di 200000 lavoratori, in gran parte donne, dal 1927 al 1934 subirono una riduzione dal 55 al 61 per cento, secondo le diverse categorie di mondariso. Al di sopra delle organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori, in Italia troviamo le ventidue cosiddette 'corporazioni.' Da queste corporazioni, la dittatura fascista ha preso la sua denominazione di 'stato corporativo.' Che cosa sono queste corporazioni? Sono organismi, ciascuno dei quali si occupa di una determinata categoria dell'industria, dell'agricoltura e del commercio. Per esempio, uno si occupa dei tessili, un altro della produzione e vendita del grano, un altro dell'industria siderurgica, e così via. I membri che fanno parte di queste corporazioni si dividono in quattro categorie: 1) Ministri e alti funzionari, nominati da Mussolini; 2) esperti, nominati da Mussolini; 3) membri del partito fascista, nominati dal segretario generale del partito, che è a sua volta nominato da Mussolini; 4) cosiddetti rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, designati dai presidenti delle confederazioni, che sono nominati da Mussolini, e che non hanno l'obbligo di render conto delle loro azioni ai membri delle organizzazioni. I datori di lavoro, naturalmente, sono rappresentati dai grossi uomini
d'affari, mentre i lavoratori sono rappresentati da burocrati dei sindacati che non sono responsabili verso gli iscritti. Mussolini è il presidente di tutti questi organismi, e designa i loro vicepresidenti. Egli ha il potere di mutare la composizione dei consigli ogni volta che lo ritenga opportuno, e di liberarsi di quei consiglieri che siano diventati indiscreti. Se l'opinione dei consigli non coincide con quella di Mussolini, egli ha il potere di respingerli, e può anche impedire che di tali opinioni contrarie riferisca la stampa. I consigli sono convocati quando lo voglia Mussolini. Se non li convocasse mai, nessuno potrebbe obiettare nulla e le cose andrebbero avanti nello stesso identico modo. Le ventidue corporazioni vennero inaugurate il 10 novembre 1934 e la prima cominciò a funzionare nel gennaio 1935. Fino ad ora tutto quello che hanno fatto è stato di dare dei pareri su questioni tecniche: come, per esempio, che nomi si debbano dare ai differenti tipi di formaggio, perché non si abbiano a confondere l'uno con l'altro; se non sia possibile usare seta prodotta in Italia invece di cotone importato dall'estero, eccetera. Oggi in molti paesi ci sono, accanto ai ministeri del lavoro, dei comitati consultivi, in parte nominati dal governo. Essi possono esercitare una influenza notevole sulla politica dei governi, dato che i loro pareri vengono riferiti dalla stampa, vengono pubblicamente discussi e non possono essere ignorati dai ministri. Ora se si dicesse che in Italia oggi ci sono dei 'comitati consultivi' per le questioni economiche, che i membri di questi comitati sono tutti assolutamente in mano a Mussolini, e che tali comitati sono privi di potere se Mussolini non è d'accordo con loro, ciascuno capirebbe subito che tali istituti sono il più inutile organismo burocratico che ci sia mai stato al mondo. Mussolini pomposamente annuncia che 'nello stato corporativo il lavoro non è più oggetto del sistema economico, ma soggetto,' perché nello stato corporativo 'la direzione della produzione non è imposta dall'alto, da un organo o da un complesso esterno all'attività produttiva; è imposto dagli stessi gruppi economici, poiché ciascun gruppo economico si esprime attraverso le corporazioni. La corporazione è lo strumento attraverso il quale la produzione disciplina organicamente se stessa' (4). Nobili sentimenti e belle parole, se non si guarda al funzionamento effettivo degli istituti corporativi fascisti. Se si guarda a questo si possono trarre soltanto due conclusioni: il lavoro nello stato corporativo fascista non ha parte più attiva di quella che hanno gli animali in una società per la protezione degli animali. 3. LE ELEZIONI TOTALITARIE. Nel 1929 e nel 1934 le organizzazioni di datori di lavoro, lavoratori e classi professionali posero le basi su cui doveva sorgere la Camera dei fasci e delle corporazioni. Nel regime prefascista, il Parlamento italiano consisteva di due camere: il Senato e la Camera dei deputati. Il Senato era formato da membri scelti dal presidente del Consiglio e nominati dal Re. Sarebbe la Camera ideale di un regime dittatoriale, dato che rende superflua la Camera elettiva. Nella costituzione fascista esso quindi venne mantenuto. Anche una Camera 'elettiva' venne mantenuta. Se di tanto in tanto Mussolini non si desse la pena di avere delle 'elezioni' nazionali o, come sprezzantemente Mussolini le ha chiamate, 'ludi cartacei,' gli altri paesi civili, che sono ancora infatuati per una ridicola procedura quale quella delle elezioni, avrebbero pensato che la dittatura fascista non fosse fondata sul consenso popolare. Ma la Camera 'elettiva' fascista era una Camera 'senza opposizione.' La 'Camera senza opposizione' veniva 'eletta' mediante una procedura che rendeva impossibile ai votanti di 'eleggere' degli oppositori del governo. Quando si doveva formare una nuova Camera, i funzionari provinciali e nazionali di ciascuna confederazione si riunivano a Roma e compilavano una lista dei candidati. Il procedimento per la scelta delle candidature era il seguente: il presidente di ciascuna
confederazione, che era nominato da Mussolini, d'accordo con i dirigenti nazionali del partito fascista, anch'essi nominati da Mussolini, preparava la lista dei candidati, che leggeva durante la riunione dei funzionari della sua confederazione. I funzionari la approvavano in blocco per acclamazione, e la lista dei candidati della confederazione era varata. La confederazione poteva disporre di ottocento candidati. Altri duecento candidati venivano nominati da organismi culturali o enti assistenziali designati dal governo. Il sistema per la scelta delle candidature anche in questi enti privilegiati era lo stesso come per le confederazioni. Il presidente dell'ente, che era stato nominato dal segretario generale del partito fascista, il quale a sua volta era stato nominato da Mussolini, annunciava i nominativi e i presenti li accettavano per acclamazione. L'autorità veniva dall'alto. I nomi dei duemila candidati erano quindi 'presentati' al Gran Consiglio del fascismo, che era un organo di cui facevano parte circa trenta alte personalità fasciste scelte da Mussolini. Il Gran Consiglio redigeva la lista dei quattrocento futuri rappresentanti. Ma tale scelta non era limitata ai duemila candidati, potevano essere scelte anche persone che non erano comprese nella lista. Un tale illimitato potere discrezionale rendeva la 'presentazione' della lista preliminare una vera farsa. Dopo che il Gran Consiglio aveva 'designato' i quattrocento rappresentanti, i nomi venivano portati di fronte al corpo elettorale per la 'ratifica.' A tale scopo tutto il paese veniva a essere una singola unità elettorale. Al votante veniva chiesto di dichiarare se approvava o no l'intera lista coi quattrocento nomi. In altre parole, il compito di nominare i candidati non apparteneva più ai partiti politici, ma ai presidenti delle confederazioni e degli altri enti privilegiati, che direttamente o indirettamente erano stati nominati da Mussolini. Il diritto di 'eleggere' i deputati non apparteneva al corpo elettorale ma al Gran Consiglio del fascismo, i cui membri anche questa volta erano stati nominati da Mussolini. All'elettorato si lasciava soltanto il compito di dire 'sì' o 'no.' Quando si richiese di dire 'sì' o 'no,' non c'era più una stampa di opposizione, nessuna organizzazione di partito di opposizione, nessuna possibilità di una campagna contro la lista ufficiale, e nessun candidato di opposizione. Chiunque si rifiutasse di recarsi alle urne si metteva in luce come un oppositore di Mussolini e diventava un proscritto. All'ingresso del seggio elettorale, il votante riceveva due schede, una tricolore con la parola 'si' e una bianca con la parola 'no.' La scheda tricolore era stampata su carta talmente leggera e trasparente che anche una volta piegata poteva essere facilmente distinta da quella bianca. Il votante tuttavia poteva ritirarsi in un luogo appartato dove, nel più assoluto segreto, poneva in un'urna una delle due schede, e precisamente quella che non voleva utilizzare. Lasciando il luogo appartato, doveva consegnare l'altra scheda, quella buona, al funzionario addetto. Nel 'plebiscito' del marzo 1929, il governo poté annunciare che l'89 per cento di tutti i votanti iscritti si erano recati alle urne, e che si erano avuti oltre 8.500.000 'sì' contro appena 136000 'no.' Sia che quei 'no' fossero generosamente regalati dal governo a una opposizione inesistente per evitare l'assurdo di una unanimità completa, o siano altre le ragioni, essi dimostrano che nel marzo del 1929 si potevano ancora trovare in Italia 136000 uomini coraggiosi, anche se pazzi, disposti a sfidare le camicie nere per la soddisfazione di deporre in un'urna una scheda assolutamente inutile. I risultati del plebiscito del marzo 1934 furono anche più adulatori verso la dittatura di quelli di cinque anni prima. Su un totale di 10.433.536 votanti iscritti, se ne recarono alle urne 10.041.997, cioè il 96,25 per cento; i 'si' furono 10.025.513, pari al 99,84 per cento dei votanti. Hitler nei suoi plebisciti fu meno 'efficiente' di Mussolini: nel novembre 1933 ricevette solo il 92,8 per cento, nell'agosto 1934 l'89,09 per cento, e nel marzo 1936 il 98,79 per cento.
Nel 1934, in tutta la provincia di Aquila, si ebbero nel plebiscito solo otto voti contro il regime. Pochi giorni dopo, a Pratola Peligna, vi fu una sommossa popolare in cui furono uccise sette persone, trenta furono ferite e circa duecento arrestate. E' evidente che tutte queste persone, meno otto, nel giorno del plebiscito avevano votato 'sì,' e nessun altro nel resto della provincia aveva votato un 'no.' Il sentimento di soddisfazione fu unanime anche tra i tedeschi del Sud-Tirolo e gli slavi e i croati dell'Istria. Nel Sud-Tirolo gli elettori iscritti erano 51952; di questi si recarono alle urne 48543, e solo 516 votarono 'no.' Nelle provincie di Fiume, Pola, Gorizia e Trieste, comprendenti 500.000 persone tra slavi e croati, gli elettori iscritti erano 240.599, di cui 230.954 si recarono alle urne, e non più di 418 votarono 'no.' Ciò nonostante nella primavera del 1931 la stampa fascista aveva affermato che a causa del sentimento anti-italiano, in meno di quattro mesi nelle regioni abitate da slavi, si erano avuti oltre un centinaio di crimini, comprendenti quindici omicidi e trenta aggressioni a mano armata. Diciotto tra scuole, asili e officine erano state incendiate. C'erano stati otto azioni terroristiche e quattro casi di spionaggio. Il tribunale speciale per la difesa dello stato, tra il febbraio 1927 e il giugno 1932, condannò 106 slavi, per un totale di 1124 anni di carcere, e cinque alla pena di morte. Il plebiscito del marzo 1934 dimostra che più aumentano gli arresti, le pene di morte, le pene detentive, gli invii al confino tra questi 500000 slavi, e più cresce il loro entusiasmo per Mussolini. Parlando di 'elezioni' fasciste, i propagandisti di Mussolini affermano che in Italia le votazioni non avvengono più nei collegi elettorali ripartiti per territorio, ma avvengono nei collegi elettorali ripartiti per categoria professionale, e si accalorano a spiegare che, per un individuo, è assai più importante la propria occupazione che non la propria residenza, e che i cittadini voterebbero per i propri rappresentanti all'interno della propria categoria, e non secondo il luogo fortuito della loro residenza. Questa dottrina politica sarebbe meritevole di discussione se nell'Italia fascista i rappresentanti fossero veramente eletti dai membri di ciascuna confederazione. Ma sta di fatto che la scelta delle candidature fu opera dei presidenti delle confederazioni e di altri enti privilegiati, e la selezione finale fu fatta dai membri del Gran Consiglio del fascismo. E tutti questi signori erano stati nominati da Mussolini. Queste operazioni non avevano niente a che fare con collegi elettorali a base territoriale o professionale. Quando venne per i votanti il momento di rispondere 'sì' o 'no,' questi dettero la loro risposta di fronte a una lista elettorale non a carattere professionale, ma nazionale, cioè in un enorme collegio elettorale a base territoriale, e se non volevano finire in galera dovevano rispondere 'sì.' Per quanto riguarda i quattrocento rappresentanti, questi non rappresentavano niente e nessuno. Nessun legame li univa ad un corpo elettorale. Coloro che erano stati costretti a pronunciare il loro 'sì' non disponevano di nessun mezzo per esprimere sul conto degli eletti approvazione e disapprovazione. I cosiddetti rappresentanti erano sotto la disciplina militare del partito fascista, e sia alla Camera che fuori dovevano obbedire agli ordini di Mussolini. Ma neppure questa 'Camera senza opposizione' era di gradimento di Mussolini. Il 14 novembre 1933, egli affermava: «La Camera dei deputati non mi è mai piaciuta. In fondo questa Camera dei deputati è ormai anacronistica anche nel suo stesso titolo: è un istituto che noi abbiamo trovato e che è estraneo alla nostra mentalità, alla nostra passione di fascisti. La Camera presuppone un mondo che noi abbiamo demolito presuppone pluralità dei partiti: spesso e volentieri l'attacco alla diligenza. Dal giorno in cui noi abbiamo annullato questa pluralità, la Camera dei deputati ha perduto il motivo essenziale per cui sorse» (5).
Secondo quanto Mussolini affermò il 25 marzo 1936, la Camera doveva essere sostituita da una assemblea generale di tutte le ventidue corporazioni, che si doveva chiamare 'Camera dei fasci e delle corporazioni.' La riforma fu emanata nel 1938. A partire da allora, i membri delle 'Camere dei fasci e delle corporazioni' furono senza tanto chiasso nominati da Mussolini, e rimasero in carica per il tempo che egli ce li teneva, e il 'plebiscito' venne abolito.
CAPITOLO VENTISETTESIMO. CHIESA E STATO. I rapporti tra il Vaticano e il governo italiano furono posti su basi nuove dai Patti lateranensi del febbraio 1929. Tale accordo consisteva di tre documenti: un trattato di conciliazione, una convenzione finanziaria, un concordato. Il trattato di conciliazione riguardava la posizione del papa quale capo della organizzazione internazionale della Chiesa cattolica. Il governo italiano riconosceva il papa, in modo esplicito, non solo come legittimo possessore del Vaticano, ma anche come sovrano indipendente sopra l'area che è occupata dal Vaticano. In tal modo si veniva a formare nel cuore di Roma uno stato lillipuziano, ufficialmente chiamato 'Città del Vaticano,' e indipendente da qualsiasi sovranità italiana. A sua volta la Santa Sede riconosceva come legittimo il regno d'Italia, avente Roma come sua capitale. Ciò significava che il papa riconosceva l'esistenza di una Italia che già esisteva da cinquantanove anni anche senza il suo permesso; e l'Italia riconosceva il papa come sovrano di una piccola area in cui, per cinquantanove anni, gli era stato permesso di vivere da sovrano. Il mutamento era nella formula; la realtà rimaneva immutata. La sola innovazione effettiva importante era che il papa avrebbe potuto emettere francobolli e cartoline postali. In cambio, il governo italiano non sarebbe stato più definito fuori d'Italia, dai predicatori cattolici, carceriere del papa. Nessun italiano di buon senso avrebbe potuto trovare nulla da ridire su una tale sistemazione della questione romana. La pacificazione è preferibile all'ostilità, anche se di fatto l'ostilità era già sbollita. Secondo la convenzione finanziaria, il papa riceveva 90 milioni di dollari (dollari di prima di Roosevelt) (1), che, se non venivano dilapidati, gli avrebbero dato una rendita annuale di quattro milioni e mezzo di dollari. La legge delle guarentigie nel 1871 gli garantiva una rendita annua di 600 mila dollari. E tale era la somma che figurava nel bilancio del vecchio stato pontificio come contributo dei sudditi del papa per il mantenimento dei servizi centrali della Chiesa cattolica. Il resto veniva pagato dai cattolici di tutti gli altri paesi. Nel 1919 venne stimato che al Vaticano occorresse una rendita corrispondente ad un capitale di circa 30 milioni di dollari. A partire dal 1929, il papa non avrebbe più avuto preoccupazioni finanziarie. Veniva a ricevere un capitale che gli forniva una rendita tre volte maggiore di quella che nel 1919 era stata considerata necessaria per fare fronte alle sue spese annuali. Il popolo italiano pagava quattro milioni e mezzo di dollari all'anno del suo pane quotidiano per coprire le spese occorrenti per i servizi centrali della organizzazione internazionale della Chiesa cattolica. Parrebbe giusto che la Chiesa cattolica, basata sulla fede religiosa di 300 milioni di uomini viventi in tutte le parti del mondo, dovesse essere mantenuta dai contributi spontanei di tutti i suoi fedeli, e non dal tributo forzato di un solo popolo. Il Concordato, terzo elemento dei Patti lateranensi, riguardava i rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Per intendere questo trattato, si deve tenere presente che in Italia sotto il regime prefascista, tutte le professioni religiose godevano dello stesso trattamento; il clero cattolico non aveva privilegi di nessun genere, e c'era un sistema di quasi completa separazione tra Chiesa e Stato. Mediante il Concordato del 1929 la separazione veniva sostituita da un sistema definito di 'cooperazione' tra i due poteri. Questo nuovo sistema non aveva la sua origine in un atto legislativo decretato dal governo italiano; ma trovava la sua origine come conseguenza di un trattato internazione tra il capo della Chiesa cattolica e il governo italiano. Da quel momento in poi i cattolici italiani erano sotto il protettorato di una potenza straniera, la Santa Sede, e questa potenza straniera aveva il diritto di rappresentarli davanti al governo italiano. Questo è, ora e sempre, il significato sostanziale di qualsiasi concordato
cattolico: si viene a creare una doppia sovranità sopra i cattolici di un paese, il cui governo firma un concordato: quella del governo secolare e quella del papa. Se il presidente Roosevelt firmasse un trattato con Stalin che garantisse ai comunisti degli Stati Uniti un particolare stato giuridico, e desse a Stalin il diritto di controllare quello stato giuridico e proteggere i comunisti americani davanti al governo americano, il presidente Roosevelt firmerebbe un 'concordato' con Stalin analogo a quello che la Santa Sede si sforza di ottenere dai governi di tutto il mondo. In seguito al Concordato del 1929, i sessantamila ecclesiastici viventi in Italia divennero una casta privilegiata. Essi sono esenti dal servizio militare. Tutti quei giovani che si avviano a diventare preti o frati sono esenti dalle tasse sul reddito per quello che guadagnano nell'esercizio del loro ministero. Se uno è medico, avvocato, insegnante, o bottegaio, paga la tassa sul reddito dei propri guadagni, per piccini che questi siano; se uno è un prete, non la paga. Infine, un ecclesiastico che commetta un reato non è soggetto allo stesso trattamento degli altri sfortunati mortali: egli 'è trattato col riguardo dovuto al suo stato ed al suo grado gerarchico' e, nel caso di condanna, la pena è scontata possibilmente in locali separati da quelli destinati ai laici. Il clero forma un corpo che è sotto la giurisdizione della Santa Sede e dei vescovi. I preti spretati o coloro che sono incorsi in una censura non possono insegnare, né essere mantenuti nella posizione di insegnanti. Un uomo che sia stato chiuso in un seminario dall'età di dieci anni sino a ventuno, e che diventi prete senza conoscere niente del mondo, rimane per tutta la vita alla mercé del suo vescovo. Se cambia idea e abbandona l'abito, il suo vescovo gli impedirà di guadagnarsi da vivere in quel solo campo che di regola gli sarebbe aperto, l'insegnamento. Di conseguenza sarà costretto a rimanere prete anche quando abbia perduto la sua fede. In tal modo, la sovranità del Vaticano non riguarda soltanto il territorio della Città del Vaticano; essa si irradia da questo territorio, e si fa sentire in tutta Italia su tutti quegli italiani che entrano a far parte del clero. La Santa Sede ed i vescovi esercitano una sovranità sopra le scuole italiane. Il Concordato stabilisce che 'l'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica.' Per farsi una idea del significato di questa norma, basta solo leggere un articolo pubblicato dalla Civiltà Cattolica nel 1929 (2). La rivista si pubblica a Roma a cura dei padri Gesuiti, sotto il controllo personale del papa. La rivista affermava che nelle scuole medie non doveva essere insegnato niente che fosse contrario alla dottrina cattolica. Sarebbe quindi opportuno sgravare il professore di storia dal compito di insegnare ai suoi studenti la religione e la storia degli ebrei, le origini del cristianesimo, la organizzazione della Chiesa, e altri soggetti altrettanto rischiosi. Queste materie dovrebbero essere affidate all'insegnante di religione, che è designato dal vescovo della diocesi. Solo la filosofia cattolica, quale è stata eretta a sistema una volta per tutte da San Tomaso d'Aquino, dovrebbe essere insegnata. Sfortunatamente non ci si può aspettare che tutti gli insegnanti di filosofia mutino lo spirito e le dottrine di cui sono imbevuti. Sarebbe quindi la soluzione migliore abolire del tutto una materia tanto pericolosa come la filosofia. Qualora si dimostri impossibile ottenere una tale soluzione radicale, si potrà trovare un possibile accomodamento considerando che la mentalità degli insegnanti si verrà modificando secondo le nuove regole. L'insegnante di religione insegnerà la dottrina cattolica, esponendo tutte le dottrine contrarie; l'insegnante di filosofia eviterà tutti quei soggetti 'che possano ragionevolmente turbare o mettere in disagio la coscienza religiosa e morale degli alunni.' In tal modo si eviterà ogni urto tra l'insegnamento della religione e quello della filosofia e della storia. Il Concordato riconosce la sovranità della Santa Sede nel caso di matrimonio contratto tra cattolici italiani. Sino al 1929, chiunque in Italia voleva dare uno stato giuridico al
suo legame familiare doveva compiere un matrimonio civile davanti alle autorità municipali. Non era proibito a nessuno di avere oltre a ciò un matrimonio religioso. I cattolici si recavano prima davanti al parroco, gli ebrei alla sinagoga, i protestanti dai loro pastori, e coloro che non avevano nessuna religione si recavano soltanto davanti al sindaco. Quando nel 1865 venne introdotto in Italia il matrimonio 'alla francese,' che veniva a sostituire il vecchio sistema secondo il quale il matrimonio era esclusivamente nelle mani della Chiesa, il clero cattolico sollevò un gran putiferio; essi diffamarono come concubinato il matrimonio civile e cercarono di impedire che la gente lo praticasse. I risultati di questa lotta furono pessimi. Molti uomini sposavano una donna davanti al parroco, e con il beneplacito del prete non contraevano il matrimonio davanti al sindaco. Dopo alcuni anni trovavano che le loro mogli non erano più così piacenti, e decidevano che era più comodo prendersi un'altra ragazza; si recavano allora a sposarsi davanti al sindaco; secondo la legge era valido questo secondo matrimonio, mentre il primo, sebbene valido secondo la Chiesa, non aveva nessun valore legale. Finalmente il clero trovò che era meglio rinunciare alla lotta contro il matrimonio civile. La Santa Sede dette istruzioni a tutti i parroci perché non sposassero nessuno senza prima essersi assicurati che il matrimonio sarebbe avvenuto anche davanti alle autorità civili. Divenne così uso comune di sposarsi prima in comune e poi in chiesa. Durante questo secolo nessuno aveva più discusso tale argomento. La Chiesa si era arresa anche su tale questione. Inaspettatamente, nei Patti lateranensi il matrimonio tra cattolici veniva riconosciuto di nuovo dal governo italiano come un sacramento. I cattolici che desideravano sposarsi dovevano soltanto recarsi davanti al parroco e davanti a lui contrarre il matrimonio, mentre ebrei e protestanti si devono recare davanti ai loro rabbini o pastori. Parroco, pastore o rabbino celebrano la cerimonia, e alle autorità comunali non rimane altro compito che quello di trascrivere l'avvenuto matrimonio. I miscredenti vanno soltanto in comune. Ma di fatto, chi si sposa in comune prima di celebrare il matrimonio religioso è segnato a dito come una pecora nera e si procura dei guai. In aggiunta il Concordato stabilisce che 'le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici' (3). Se esistesse un trattato del genere tra la Santa Sede e gli Stati Uniti, tutti quei cattolici americani che vogliono che il loro matrimonio venga annullato dovrebbero rivolgersi non ai tribunali degli Stati Uniti, ma ai tribunali vescovili delle loro diocesi e, in ultimo appello, al tribunale della Città del Vaticano. La causa sarebbe giudicata da questi tribunali ecclesiastici, e alla magistratura americana non rimarrebbe altro da fare che accettare la sentenza e registrarla. L'articolo 1070 del codice di diritto canonico, secondo il quale i tribunali ecclesiastici giudicano la causa, stabilisce che il matrimonio tra una persona non battezzata e una persona battezzata nella Chiesa cattolica è da ritenersi nullo e come non avvenuto. Di conseguenza la Santa Sede può annullare un matrimonio legalmente celebrato davanti alle autorità municipali italiane, qualora la moglie o il marito non siano battezzati, e non appena uno di loro si battezzi e ritenga conveniente sposarsi con un altro battezzato. Nel 1853, ad esempio, una ebrea di Cento, paese che era allora nello Stato Pontificio, abbandonò il marito fuggendo con l'amante, ricevette il battesimo e chiese che le fosse concesso di sposare l'amante. L'arcivescovo di Bologna dichiarò nullo il primo matrimonio e sposò la donna e l'amante. Anche in questo caso, il tribunale secolare si limiterebbe a registrare l'annullamento del primo matrimonio e la celebrazione del nuovo matrimonio. L'articolo 1072 del codice di diritto canonico stabilisce che il matrimonio di un sacerdote è nullo. Di conseguenza l'autorità secolare non è autorizzata a sposare un prete spretato; qualora un matrimonio del genere abbia luogo, il tribunale ecclesiastico lo può annullare e permettere in tal modo alla moglie di risposarsi. L'articolo 1014 del codice di diritto canonico ammette il
matrimonio segreto senza pubblicazioni e la cui registrazione avviene su speciali registri custoditi negli archivi vescovili. In tal modo si possono celebrare in Italia matrimoni dei quali le autorità civili non sono messe al corrente, ma che sono legalmente validi e rendono illegittimi altri matrimoni successivi. I Patti lateranensi contengono diverse altre disposizioni, la cui forma è tanto incerta ed equivoca da significare tutto e nulla. Ad esempio, una delle disposizioni stabilisce che 'avranno (...) senz'altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche ed ufficialmente comunicati alle autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali o disciplinari' (4). Ciò potrebbe significare che i tribunali della Santa Sede e i tribunali vescovili possono condannare un ecclesiastico colpevole di eresia o di indisciplina ad essere confinato in un chiostro per fare penitenza. Se il prete si rifiuta di sottostare alla sentenza, la Santa Sede comunica il fatto alle autorità civili e la polizia costringe il ribelle a fare penitenza. Una clausola del Concordato stabilisce che l'Italia 'ove occorra, accorda agli ecclesiastici per gli atti del loro ministero spirituale la difesa da parte delle sue autorità' (5). Queste parole possono significare semplicemente che il governo si impegna a proteggere la fede cattolica contro chiunque voglia recare contro di essa impedimento. Possono anche significare che la polizia ha l'obbligo di applicare una sentenza pronunciata dall'inquisizione contro un eretico, o da una corte vescovile contro una signora che abbia la sottana o le maniche del vestito troppo corte. Un'altra clausola stabilisce che 'in considerazione del carattere sacro della Città eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere' (6). Tale formula imprecisa può significare, ad esempio, che nessuna chiesa protestante potrà essere aperta al pubblico per il culto nella città di Roma, esattamente come avveniva quando la città era sotto il dominio pontificio. Può anche significare che nessuna strada di Roma debba portare il nome di un qualche noto eretico. O ancora può significare che nessun congresso religioso o scientifico, che non sia autorizzato dalla Santa Sede, possa essere tenuto a Roma. Il 2 giugno del 1930, la tragedia di D'Annunzio, "La figlia di Jorio", veniva rappresentata all'aperto in una piazza di Roma. Contrariamente a molte opere di D'Annunzio questa non presenta nessun caso di perversione sessuale, ma solo di una passione sfrenata indifferente ad ogni legge morale. Il giornale vaticano, l'"Osservatore Romano", il 2-3 giugno del 1930, protestava contro tale rappresentazione. 'Chiediamo se la rappresentazione di un'opera proibita dall'autorità ecclesiastica per la sua passionalità immorale, allestita proprio in una pubblica piazza in Roma, risponda al rispetto dovuto al carattere della sacra Città.' La interpretazione e l'applicazione di queste e di molte altre clausole imprecise dipendevano dalla pressione che il Vaticano poteva esercitare, caso per caso, sul governo italiano. Pio Undicesimo ebbe a dichiarare che i Patti lateranensi erano 'l'inizio di nuovi sviluppi' (7). Nessuno può prevedere quali questi nuovi sviluppi possano essere. Tuttavia due fatti erano certi. Il primo era che a partire dal 1929 il governo italiano non era più libero di mutare, di propria iniziativa, la sua legislazione interna in materia in cui la Santa Sede si dichiarasse interessata. Se il partito al potere cambiasse e il Parlamento, ad esempio, volesse introdurre il divorzio nella legislazione italiana, dovrebbe ricordarsi che un trattato bilaterale tra l'Italia e la Santa Sede obbliga il governo italiano a considerare il matrimonio tra cattolici come un sacramento indissolubile. Di conseguenza, se il governo italiano volesse introdurre il divorzio, dovrebbe concederlo soltanto a quei cittadini il cui matrimonio non sia stato celebrato davanti al parroco. Per concedere il divorzio indiscriminatamente a tutti gli italiani, il Parlamento dovrebbe prima denunciare il Concordato. Che cosa ottenne Mussolini in cambio di tante concessioni? Prima di tutto la macchina di propaganda internazionale del clero cattolico fu messa al servizio di Mussolini.
Cardinali, arcivescovi, vescovi, preti, frati, suore e giornalisti di tutto il mondo furono entusiasti di Mussolini. Inoltre, l'articolo 24 del Trattato di Conciliazione creava una nuova situazione giuridica, la cui importanza e gravità doveva apparire negli anni seguenti. Dice l'articolo: «La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che essa vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale. In conseguenza di ciò la Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerata territorio neutrale ed inviolabile.» La Piana ha sottolineato (8) che con questo articolo la Santa Sede prometteva di non immischiarsi nelle competizioni temporali tra gli stati, se non vi fosse stata invitata, ottenendo in cambio garanzia di neutralità e inviolabilità della Città del Vaticano. Ciò significa che la Santa Sede non è più libera di rimanere o non rimanere neutrale nelle controversie internazionali. Essa si è impegnata di fronte al governo italiano a rimanere neutrale, cioè, essa non può deflettere dalla sua politica di neutralità senza il consenso del governo italiano, cioè senza che il governo italiano decida che la Santa Sede, intervenendo in una controversia internazionale, sostenga gli interessi italiani. Osserva La Piana: «Mussolini si serve dell'articolo 24 solo per impedire alla Santa Sede di esprimere qualsiasi opinione sfavorevole al suo regime. Ogni volta, tuttavia, che egli vuole l'appoggio morale del Vaticano e della opinione pubblica cattolica, egli non solo dimentica l'articolo 24, ma invita la Santa Sede a violarlo prendendo posizione in una controversia internazionale.» Così, nel 1936, dopo che la campagna di Etiopia si era conclusa con una vittoria italiana, Pio Undicesimo il 16 maggio concedeva la sua benedizione a 'la letizia trionfale di tutto un grande e buon popolo,' cioè a dire il popolo italiano, il cui esercito e i cui gas asfissianti avevano piegato gli abissini. Durante la guerra civile in Spagna, il papa elogiò i 'volontari' italiani (organizzati ed equipaggiati dall'esercito regolare italiano) che vi partecipavano. Al tempo in cui il papa lamentava di essere 'prigioniero' nel Vaticano, egli poteva non soltanto criticare liberamente il governo italiano, ma anche invocarne la caduta. Se facesse altrettanto oggi, il governo italiano avrebbe il diritto di dichiarare nullo il Trattato di Conciliazione e violare l'indipendenza della Città del Vaticano. Nel 1929, il Concordato sollevò anche tra i fascisti un profondo scontento. Tale inquietudine si accrebbe per la poca riservatezza di cui il clero fece mostra non appena venne a conoscenza della sua vittoria. Nel marzo del 1929, venne aperta a Bologna una piscina per gli alunni delle scuole comunali. L'arcivescovo di Bologna si sentì in dovere 'di richiamare l'attenzione dei pastori spirituali' sul pericolo morale che poteva celarsi in questa piscina, e risvegliava i genitori dei ragazzi 'perché non permettessero che si corresse il rischio di perdere la più cara qualità dei giovani, la modestia' (9). La mattina dopo i bolognesi trovarono che durante la notte mani di ignoti avevano rivestito il corpo nudo di Nettuno, che adorna la piazza principale della città, con un paio di brache. Per le strade di Genova, nel maggio del 1929, giovani zelanti si appostarono armati di carbone per segnare sulle gambe delle donne il punto in cui avrebbero dovuto arrivare le loro sottane. Nell'agosto del 1929, in un paesino vicino a Bologna, il parroco, armato di un nodoso bastone, si recò al teatro, affollato di gente, saltò sul palcoscenico e ordinò agli attori
di cessare la rappresentazione. Dovette intervenire la polizia a portar via il prete prima che lo spettacolo potesse continuare. Per calmare lo scontento dei suoi seguaci, Mussolini fu costretto ad assumere verso la Chiesa un atteggiamento aggressivo, che certo non era nelle sue prime intenzioni. Nel suo discorso del 13 maggio 1929, egli affermò che erano stati sequestrati più giornali cattolici negli ultimi tre mesi, che non nei sette anni precedenti. E spiegò: 'Era questo forse l'unico modo per ricondurli all'intonazione giusta!' Nell'applicazione di quelle clausole del Concordato il cui testo impreciso permetteva una interpretazione tanto estensiva quanto restrittiva delle richieste della Santa Sede, il governo fascista adottò la politica di conformarsi soltanto alla interpretazione più restrittiva. I discorsi degli uomini politici fascisti, gli scritti dei giornalisti e dei pubblicisti al servizio del regime fascista erano tutti ispirati al concetto di ridurre al minimo l'importanza delle concessioni fatte da Mussolini al papa, e di cavillare anche su quelle parti del Concordato che erano le meno soggette a controversie, allo scopo di dimostrare che in realtà il papa non aveva ottenuto niente. Il papa reagì con minacce, incriminazioni e proteste. Ma per quella volta la controversia fu appianata. Nel 1931 scoppiò un altro grave conflitto, e anche questo venne superato. Ma non cessò mai uno stato di scontento sotto la superficie. Secondo i Patti lateranensi, il Concordato è 'il necessario complemento' del Trattato di Conciliazione. Pio Undicesimo dette la interpretazione autentica di questa formula, affermando che 'Trattato e Concordato devono andare insieme e decadere insieme' (10). Ciò significa che se un qualche governo italiano cessasse di applicare il Concordato secondo la interpretazione data ad esso dalla Santa Sede, questa avrebbe il diritto di dichiarare che anche il Trattato di Conciliazione è stato annullato, e cesserebbe di riconoscere la legittimità dello stato italiano. Nel 1929, il papa consentì a rinunciare alla sua sovranità sopra i suoi antichi territori dell'Italia centrale, a condizione che tutta l'Italia si assoggettasse alla sua autorità spirituale. Il giorno che l'Italia getti alle ortiche il Concordato, il Vaticano reclamerà di nuovo la sua sovranità sopra il perduto territorio, e metterà di nuovo in moto contro l'Italia la sua macchina internazionale di propaganda. Alla sua morte, nel 1903, Papa Leone Tredicesimo lasciò un testamento politico per il Collegio dei cardinali e i suoi successori. In questo documento egli insiste affermando che una sola via rimane aperta alla Santa Sede per conservare la sua indipendenza nei confronti dello stato italiano: essa non deve mai venire a patti con il governo italiano. Il giorno che la Santa Sede abbandonerà il suo atteggiamento di intransigenza, essa cadrà irrimediabilmente sotto l'influenza del governo italiano, rendendosi ossequiente agli interessi dell'Italia. Ciò sarebbe un pericolo per l'unità cattolica. I Patti lateranensi del 1929 non fecero niente per dissipare quel sospetto e quel pericolo. Mediante gli accordi del 1929, Pio Undicesimo poneva se stesso e i suoi successori in quella luce di sospetto. Prima del 1929 nessuno sospettava una possibile insidia nel fatto che la maggioranza dei cardinali e dei funzionari del Vaticano fossero italiani. Adesso i cattolici fuori d'Italia si lamentano della eccessiva preponderanza italiana tra i cardinali e in Vaticano, e alcuni domandano perfino che si rompa la tradizione secondo la quale, sin dal sedicesimo secolo, il papa è sempre stato un italiano. Molti cattolici fuori d'Italia non riescono più a capire perché la Santa Sede li ha tenuti in ansia per oltre mezzo secolo per la questione romana, per poi far loro sapere, un bel giorno, che tale questione poteva semplicemente esser risolta firmando un pezzo di carta col quale veniva riconosciuta la sovranità del papa sopra pochi ettari di terra. Non appena i fedeli appresero che il papa non era più né povero né prigioniero, l'obolo di San Pietro diminuì in tutti i paesi. I cattolici belgi inviarono al papa nel 1929 solo 300000 franchi, mentre nel 1928 ne avevano inviati 600000. Quando gli italiani riotterranno il diritto di fare ancora uso del loro buon senso, agiranno saggiamente se non contesteranno al papa la sua sovranità sopra il
Vaticano. Fu un errore politico non riconoscere esplicitamente tale sovranità nel 1871. Tale errore fu corretto nel 1929. Sarebbe un errore rimettere in discussione la cosa. Ma tutte le altre concessioni contenute nei Patti lateranensi dureranno solo fintanto che dura il regime fascista. Il primo atto di coloro che succederanno alla dittatura fascista sarà quello di dichiarare nullo il Concordato e tutte le altre clausole del Trattato di Conciliazione che non sono la conseguenza necessaria della sovranità pontificia sopra la Città del Vaticano.
NOTE NOTE AL CAPITOLO PRIMO. N. 1. R. FUCINI, "Napoli a occhio nudo", Firenze, Le Monnier, 1878, pagine 98-101. N. 2. E. PANI ROSSI, "La Basilicata", Verona, Civelli, 1868, pagine 252-55. N. 3. L'anno finanziario italiano comincia il 1 luglio e finisce il 30 giugno dell'anno successivo. N. 4. B. STRINGHER, "Sur la balance des paiements entre l'Italie et l'étranger", in 'Bulletin de l'Institut International de Statistique,' vol. diciannovesimo; P. JANNACCONE, "La bilancia del dare e dell'avere ìnternazionale con particolare riguardo all'Italia", Milano, Treves, 1927, pagine 90 seguenti, pagine 100-104. N. 5. Annuario Statistico Italiano: 1931, pag. 79. N. 6. G. VOLPE, "L'Italia in cammino. L'ultimo cinquantennio", Milano, Treves, 1927, pag. 59; questo libro è da leggersi insieme a B. CROCE, "Storia d'Italia dal 1871 al 1915", Bari, Laterza, 1928, che dà la versione liberale. Un buon sommario della materia è quello del 1918 di uno storico americano, che aveva una larga conoscenza dell'ambiente italiano: W. R. THAYER, "Thirty years of Italian progress", in "Italica: Studies in Italian Life and Letters", Boston & New York, Houghton, Mifflin and Co., 1908. Per un resoconto più preciso delle diverse fasi della storia italiana dal 1871 al 1910, si veda l'opera in tre volumi "Cinquant'anni di storia italiana", pubblicata dall'Accademia dei Lincei nel 1911 presso l'editore Hoepli di Milano. Una serie eccellente di annuari è quella pubblicata da R. BACHI, "L'Italia economica", Torino, Roux e Viarengo, poi Città di Castello, S. Lapi, per gli anni dal 1910 al 1922. Uno strumento di prim'ordine per la storia economica dell'Italia a partire dal 1871, si deve a E. CORBINO, "Annali dell'economia italiana", Città di Castello, Tip. Leonardo da Vinci, 1911 e seguenti, 5 voll. Un sommario più breve ma altrettanto eccellente è quello di V. PORRI, "L'evoluzione economica italiana nell'ultimo cinquantennio", Roma, Stab. tip. Colombo, 1926. N. 7. Mussolini ebbe a dire: 'Da noi il socialismo era, in contrasto con altri paesi, un elemento unificatore. Tutti gli storici italiani lo riconoscono: esso era per un'idea, per una nazione.' E. LUDWIG, "Colloqui Con Mussolini", Milano, Mondadori, 1932, pag. 86. N. 8. G. MORTARA, "Lezioni di statistica economica e demografica", Roma, Athenaeum, 1920, pagine 261-262. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO PRIMO N. 1. Camera dei Deputati. Sessione 1913-15. Doc. XXXIV, 20 luglio 1915, "Terza relazione sulle bonifiche", pagine 22-69, 101-116; V. PEGLION, "Le bonifiche in Italia", Bologna, Zanichelli, 1924, pag. 8. N. 2. "Il bilancio dello Stato dal 1913-14 al 1929-30", Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1931, pag. 370. N. 3. V. PEGLION, "Le bonifiche in Italia", cit., pag. 5. N. 4. V. PEGLION, "Le bonifiche in Italia", cit., pagine 6-7: S. TRENTIN, "Per un nuovo orientamento della legislazione in materia di bonifiche", Venezia, Tip. della Cooperativa 'Casa del Popolo,' 1919, pag. 13. N. 5. A. DE STEFANI, "L'azione dello Stato italiano per le opere pubbliche (18621924)", Roma, Libreria dello Stato, 1925, pag., 131. Per le bonifiche di Ca Lino, tra l'Adige e il Brenta, degli orti di Chioggia, delle dune di Cavazuccherina e delle paludi in provincia di Brescia - tutte opere terminate nel 1922 - e per le opere cominciate nelle cosiddette 'crete' senesi, e nei cosiddetti 'calanchi' emiliani, vedi PEGLION, "Le bonifiche in Italia", cit., pagine 18, 19, 34, 38, 90, 91.
N. 6. H. HENDERSON and H. C. Z. CARPENTER, "Report on the commerciai industrial and economic situation in Italy, December 1922", Department of Overseas Trade, 1923, pag. 54. N. 7. F. VIRGILII, "L'Italia agricola odierna", Milano, Hoepli, 1930, pag. 200. N. 8. "Annuario Statistico Italiano: 1919", e anni seguenti. N. 9. M. BERGER et P. ALLARD, "Les secrets de la censure pendant la guerre", Paris, Editions de Portiques, 1932, pag. 181, n. 1. N. 10. L. CADORNA, "La guerra alla fronte italiana", Milano, Treves, 1921, 11, pag. 97. N. 11. Confer N. PAPAFAVA, "Badoglio a Caporetto", Torino, Gobetti, 1923; G. VOLPE, "Ottobre 1917: dall'Isonzo al Piave", Milano, Libreria d'Italia, 1930; E. CAVIGLIA, "La dodicesima battaglia: Caporetto", Verona, Mondadori, 1934; R. BENCIVENGA, "La sorpresa strategica di Caporetto", Roma, Tip. della Madre di Dio, 1932; P. PIERI, "La crisi dell'ottobre-novembre 1917", in 'Nuova Rivista Storica,' marzo-giugno 1935, pagine 224-254. NOTE AL CAPITOLO SECONDO. N.1. La storia economica d'Italia durante il periodo della guerra e del dopoguerra, 1914-1922, può essere ricavata dalle preziose relazioni inviate in quegli anni dagli "attachés" commerciali dell'Ambasciata americana in Roma, e pubblicati dal Bureau of Foreign and Domestic Commerce of the Department of Commerce U.S.A.; e da R. BACHI, "L'Italia economica", cit., 1915-1922; G. MORTARA, "Prospettive economiche: 1921, 1912, 1923", Città di Castello, Soc. Tip. 'Leonardo da Vinci'; L. EINAUDI, articolo alla voce "Italy" nella "Encyclopaedia Britannica", 1926, pagine 573 seguenti, e "La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana", Bari, Laterza, 1933, specialmente i capitoli quarto e quinto. N. 2. BANCA COMMERCIALE ITALIANA, "Movimento economico dell'Italia: Quadri statistici per gli anni 1921-1925", Milano, 1927, vol. XV, pagine 91 seguenti; "Il bilancio dello Stato dal 1913-14 al 1919-30 e la finanza fascista a tutto l'anno VIII", Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1931, pagine 228-230. N. 3. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1922", cit., pag. 374. N. 4. Un onesto resoconto delle cause della generale inquietudine si trova in G. MORTARA, "Prospettive economiche 1923", cit., pagine 421-422. Si veda anche E. A. MOWRER, "Immortal Italy", New York, D. Appleton & Co., 1922, pagine 317-329; il libro di questo intelligente ed onesto testimone americano costituisce una delle più valide fonti di informazione. N. 5. G. A. BORGESE , "Golia. Marcia del fascismo", trad. ital., Milano, Mondadori, 1946, pag. 168. NOTE AL CAPITOLO TERZO. N. 1. Annuario Statistico Italiano: 1919-1921, pag. 507. N. 2. M. PANTALEONI, "Bolscevismo italiano", Bari, Laterza, 1922, pag. XVII. N. 3. BANCA COMMERCIALE ITALIANA, "Movimento economico dell'Italia: Quadri statistici per gli anni 1921-1925", Milano, 1927, vol. XV, pagine 9495, 130-131. N. 4. 'La stabilità del corso del dollaro dal secondo semestre del 1920 in poi sembra confermare questo decisivo miglioramento dei nostri scambi internazionali.' G. MORTARA, "Prospettive economiche" 1923, cit., pag. XVIII. N. 5. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1924", Città di Castello, 1924, pagine 407-408. N. 6. "Il Bilancio dello Stato dal 1913-14 al 1929-30", cit., pag. 225. N. 7. G. M0RTARA, "Prospettive economiche" 1922, cit., pag. XX. N. 8. 16 ottobre 1919. N. 9. 14 agosto e 10 ottobre 1919.
N. 10. 22 agosto 1919. N. 11. 22 luglio 1920. N. 12. 22 ottobre 1920. N. 13. 20 febbraio 1920. N. 14. 27 aprile 1920. N. 15. 30 luglio 1920. N. 16. 10 febbraio 1921. N. 17. A. SERPIERI, "La guerra e le classi rurali italiane", Bari, Laterza, 1930, pagine 235-239. N. 18. R. BACHI, "L'Italia economica nell'anno 1919", Città di Castello, 1920, pag. XII. N. 19. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1922", cit., pagine XV-XX. N. 20. R. BACHI, "L'Italia economica nell'anno 1921", Città di Castello, 1922, pagine 221-305. N. 21. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1923", cit., pagine XVI-XVIII. N. 22. R. BACHI, "L'Italia economica nell'anno 1921", cit., pagine VI-VII. N. 23. L. EINAUDI, "La guerra e il sistema tributario italiano", Bari, Laterza, 1927, pagine 148 seguenti. N. 24. 'Le rimesse dei nostri emigrati e le spese dei forestieri sono quasi certamente bastate a compensare, nel bilancio degli scambi fra l'Italia e l'estero: il disavanzo degli scambi commerciali. Da due anni, ormai, l'economia italiana si è emancipata dal sussidio del credito estero, che era stato ancora necessario a sostenerla nel 1919 e nel 1920.' G. MORTARA, "Prospettive economiche 1923", cit., pagine XVII-XVIIL 'La bilancia dei pagamenti si mostrò (...) in grave squilibrio fino al 1919: ma già nel 1921-22 tale bilancia contrastava con la situazione degli anni 1919 e 1920 e rispecchiava qualche miglioramento nell'economia nazionale ed il suo graduale ritorno, dallo svolgimento del periodo bellico e dell'immediato dopoguerra, alla ripresa del lavoro e dei traffici internazionali.' Così scriveva il conte Volpi, ministro del Tesoro nel gabinetto Mussolini, in 'Rassegna Italiana,' dicembre 1925, pag. 786. N. 25. A. DE STEFANI, "Documenti sulla condizione finanziaria ed economica dell'Italia, dicembre 1923," pag. 337. "Il Bilancio dello Stato dal 1913-14 al 1929-30", cit., pagine 606, 611. N. 26. CREDITO ITALIANO, "L'Italie économique: son évolution progressive au cours des vingtcinq dernières années et sa situation actuelle, 1895-1920", Milano, 1920, pagine 104, 108. N. 27. L. EINAUDI, voce "Italy", in "Encyclopaedia Britannica", 1926, pag. 574. N. 28. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1923", cit., pag. 278. N. 29. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1922", cit., pagine 163, 165; e confer L. EINAUDI, voce "Italy", in "Encyclopaedia Britannica", cit., pag. 574: 'Le operazioni di lavatura e di pettinatura non si fanno più eseguire del tutto all'estero, "grazie ai miglioramenti degli impianti e dei macchinari che si sono avuti a partire dal 1915", specialmente in Piemonte e nel Vicentino.' N. 30. G. MORTARA, "Prospettive economiche 1922", cit., pagine 163, 165; e confer L. EINAUDI, voce "Italy", in "Encyclopaedia Britannica", cit., pag. 575: 'Le perdite causate dai sommergibili e dalle mine sono più che coperte dal naviglio preso a Trieste e in Istria, e nell'insieme i piroscafi sono più veloci e più moderni che non prima della guerra.' NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO TERZO. N. 1. F. A. REPACI, "La finanza italiana nel ventennio 1913-1932", Torino, Einaudi, 1934, pag. 68. N. 2. A. DE STEFANI, "Documenti sulla condizione finanziaria ed economica dell'Italia", Roma, Libreria dello Stato, maggio 1923, pagine 169-171. Anche il deputato fascista Olivetti nel 1925 ammise che se si detraggono dai bilanci del 1921 e
1922 le spese per gli indennizzi di guerra e il costo di quelle iniziative industriali intraprese durante la guerra per i rifornimenti alimentari, i trasporti eccetera, e che in quei due anni erano ferite aperte, il deficit per il 1921 sarebbe 'notevolmente inferiore,' e quello per il 1922 'anch'esso assai diminuito.' "Relazione della Giunta del Bilancio per gli esercizi dal 1912-13 al 1923-24", Roma, 1925, pag. 23. Anch'egli si guardò bene dal fornire i dati effettivi. Anche il conte Volpi, nel suo discorso del 9 dicembre 1926, parlando della diminuzione delle spese di guerra, non citò i dati precisi. Confer G. MATTEOTTI, "Reliquie", Milano, Corbaccio, 1924, pagine 120, 142, 174, 196, 205. N. 3. Questi dati non corrispondono né con quelli forniti da G. PARATORE, "Alcune note di politica monetaria", Roma, Modernissima, 1925, e "La situazione economica e finanziaria italiana", in 'Rassegna internazionale,' serie II, 1925, fasc. 4, 5, 6; né coi dati forniti da BANCA COMMERCIALE ITALIANA, "Movimento economico dell'Italia", cit., pag. 160; né con quelli dati dal "Rendiconto generale per l'esercizio 1925-26, nota preliminare", pagine CIV, CVII, CXII. I dati da me esposti sono ricavati dalla pubblicazione ufficiale fascista "Il bilancio dello Stato dal 1913-14 al 1929-30", cit., e da F. A. REPACI, "La finanza italiana nel ventennio 1913-1932", cit. Comunque tutti i dati, indipendentemente dalla loro fonte, conducono alla stessa conclusione. N. 4. "L'opera finanziaria del Governo Fascista, discorso tenuto nel teatro della Scala in Milano il 13 maggio 1923", Roma, 1923, pag. 17. N. 5. Pag. 103. N. 6. Pag. 85. N. 7. 'Survey Graphic,' New York, March 1927, pag. 724. N. 8. 'Trade Bulletin of the Italy-America Society,' April 1925, pagine 1-2. N. 9. 'Survey Graphic,' New York, March 1927, pagine 723-724. N. 10. "The economic life of fascist Italy", in 'Dublin Review,' Oct. 1927, pagine 27981. N. 11. B. MUSSOLINI, "My autobiography", New York, Charles Scribner's Sons, 1928. Questo libro fu messo in vendita in Inghilterra e in America con una copertina riproducente un facsimile dell'autobiografia di Mussolini, e dove si affermava che essa era la sua unica autobiografia autentica. Pochi anni dopo lo stesso Mussolini affermava che questa autobiografia autentica era una frode, messa insieme col suo consenso da suo fratello Arnaldo e dall'ex-ambasciatore americano Child (MUSSOLINI, "Vita di Arnaldo", Roma, 1933, pagine 124-125). Il fratello del Duce era responsabile per le bugie, e l'ex-ambasciatore per le stupidaggini. Da ora in avanti il libro sarà citato come MUSSOLINI, "Pseudo-Autobiography". N. 12. 'Corriere della Sera,' 23 dicembre 1927. N. 13. In 'Rassegna Italiana politica letteraria e artistica,' dicembre 1925, pagine 78687. N. 14. "Italy's International Economic Position", New York, MacMillan,1926, pag. 187. N. 14 bis. Ibidem, pag. 39, 303-305. N. 15. 'World's Work,' August 1929. N. 16. "Looking Forward; what will the American people do about it? Essays and addresses on matters national and international," New York, London, C. Scribner's Sons, 1932. N. 17. "The Adventures of the Black Girl in her Search of God", London, Constable, 1932. NOTE AL CAPITOLO QUARTO. N. 1. G. FERRERO, "La democrazia italiana", Milano, Edizioni della 'Rassegna Internazionale,' 1925, pagine 12-13, 16. N. 2. "Tory M. P.", London, Gollancz, 1939. N. 3. H. E. DALE, "The Higher Civil Service of Great Britain", Oxford, University Press.
N. 4. F. LUNDBERG, "America's Sixty Families", New York, The Vanguard Press, 1937, pag. 3. N. 5. H. AGAR and A. TATE, "Who Owns America?", Boston-New York, Houghton Mifflin Co., 1936; e A. ROCHESTER, "Rulers of America", New York, International Publishers, 1936. N. 6. "Address" del 30 dicembre 1937. N. 7. G. FERRERO, "La democrazia in Italia", cit., pagine 17, 21-22. N. 8. B. KING and T. OKEY, "Italy To-Day", London, J. Nishet & Co., 1901, H. FINER, "Mussolini's Italy", London, Gollancz, 1935, pagine 65-66; M. HENTZE, "Pre-Fascist Italy", London, Allen & Unwin Ldt., 1939, pagine 40-41. N. 9. Il signor Bruno Roselli, parlando il 22 gennaio 1927 alla New York Foreign Policy Association ("Italy under Fascism", pag. 10), disse: 'Il sessanta per cento degli elettori iscritti non ebbe mai il desiderio di disporre del privilegio che era loro concesso.' Egli attribuiva il sessanta per cento non per indicare coloro che si recavano alle urne, ma per indicare coloro che non vi si recavano. N. 10. Cit. trad. N. 11. 'The New Republic,' 15 marzo 1933. N. 12. G. M. TREVELYAN, "The Historical Causes of the Present State of Affairs in Italy", Sidney Ball memorial lecture delivered before the University of Oxford, 31 October 1923, London, H. Milford, 1923, pagine 7-9. NOTE AL CAPITOLO QUINTO. N. 1. 'Lotta di classe,' 13 luglio 1912. N. 2. Cit. trad. N. 3. I. BONOMI, "Dieci anni di politica italiana", Milano, Soc. Ed. Unitas, 1924, pagine 17-18. N. 4. G. GUY-GRAND, "La philosophie syndacaliste", Paris, Grasset, 1911; L. L. LORWIN, voce "Syndacalism", in "Encyclopedia ot the Social Sciences", XIV, pagine 496-499. N. 5. Confer cap. IV, pag. 65. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO QUINTO. N. 1. G. GIOLITTI, "Memorie della mia vita", Milano, Treves, 1922, 2 voll. N. 2. G. GIOLITTI, op. cit., I, 68. N. 3. G. GIOLITTI, op. cit., I, 122-123. N. 4. S. CILIBRIZZI, "Storia parlamentare politica e diplomatica d'Italia", Milano, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1923-1940, 5 voll. N. 5. S. CILIBRIZZI, op. cit., II, 458-459, 492. N. 6. S. CILIBRIZZI, op. cit., III, 369. N. 7. S. CILIBRIZZI, op. cit., IV, 292. N. 8. "Il ministro della mala vita", Firenze, La Voce, 1919; "La elezione di Molfetta", Firenze, a cura de 'L'unità,' 1914; "La elezione di Molfetta: i documenti pansiniani", Firenze, a cura de 'L'unità,' 1914; "La elezione di Bitonto", Firenze, 'L'unità,' 1914. Sulle elezioni del 1914 fu raccolto un altro gruppo di testimonianze in un libretto intitolato anch'esso "La elezione di Bitonto", Firenze, 'L'unità,' 1914. N. 8 bis. "Italy To-Day", cit., pagine 16, 122. N. 9. H. FINER, "Mussolini's Italy", cit., pag. 80. N. 10. "Mussolini in the Making", Boston, Houghton Mifflin Co., 1938 (trad. ital. "Mussolini dal mito alla realtà", Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1947. Da ora in avanti sarà citata questa edizione [N.d.C.]). N. 11. C. SFORZA, "I Costruttori dell'Europa Moderna", Paris, Editions Contemporaines, 1932, pagine 289-97 e passim; G. A. BORGESE, "Golia: marcia del fascismo", trad. ital., Milano, Mondadori, 1946, pagine 187-253.
N. 12. M. SARFATTI, "Dux", Milano, Mondadori, 1926; B. MUSSOLINI, "My Autobiography", cit.; I. DE BEGNAC, "Vita di Benito Mussolini dalle origini al 24 maggio 1915", Milano, Mondadori, 1936-1940, 3 voll. N. 13. G. MEGARO, op. cit., pagine 102-103. N. 14. G. MEGARO, op. cit., pag. 192. N. 15. G. MEGARO, op. cit., pagine 233, 235. N. 15 bis. M. SARFATTI, op. cit., pag. 42. N. 16. M. SARFATTI, op. cit., pag. 64. N. 17. M. SARFATTI, op. cit., pag. 108. N. 18. Cit. trad. Questa citazione è alla pag. 161 della edizione americana ("The Life of Benito Mussolini", New York, Stokes Co., 1925), ma non figura nella edizione italiana, dalla quale l'edizione americana si differenzia in parte, come avverte anche una nota del traduttore. [N.d.C.] N. 19. G. MEGARO, op. cit., pag. 91. N. 19 bis. Cit. trad. N. 20. G. MEGARO, op. cit., pag. 28. N. 21. G. MEGARO, op. cit., pagine 21-22. N. 22. G. MEGARO, op. cit., pag. 283. N. 23. Ibidem, pag. 285. N. 24. Ibidem, pag. 288. N. 25. Ibidem, pag. 290. N. 26 Ibidem, pag. 296. N. 27. Ibidem, pag. 300. N. 28. M. SARFATTI, op. cit., pagine 133-35. N. 29. G. MEGARO, op. cit., pagine 288-98. N. 30. "Pseudo-Autobiography", cit., pag. 13. N. 31. Ibidem, pag. 14. N. 32. Ibidem, pag. 18. N. 33. "Vita di Benito Mussolini...", cit., pagine 168-171. N. 34. G. MEGARO, op. cit., pagine 46-48. N. 35. Il ritratto, a pag. 49 dell'edizione americana, non è incluso nell'edizione italiana, ma è lo stesso riprodotto in DE BEGNAC, op. cit., I, 192. [N.d.C.] NOTE AL CAPITOLO SESTO. N. 1. Tutti i testi dei trattati, dal primo del 1882 all'ultimo del 1912, si trovano in A. F. PRIBRAM, "The Secret Treaties of Austria-Hungary: 1879-1914", Cambridge University Press, 1920, II, 64-73, 104-114, 150-162, 220-235, 244-259. Il trattato non fu mai concepito come un vincolo assoluto che legasse le potenze alleate di fronte a qualsiasi guerra potesse scoppiare. Esso costituì sempre un sistema di obbligazioni nei confronti di alcune ipotesi rigidamente definite. Nel caso dello scoppio di una guerra ad iniziativa della Germania o dell'Austria e senza che queste fossero attaccate, il governo italiano non era tenuto ad intervenire. Tale aspetto particolare dell'alleanza è sfuggito a tutti quegli storici che parlano di una 'Italia infedele,' tra i quali, strano a dirsi, si trova lo stesso Pribram, che per primo pubblicò i testi di tutti i trattati. Il 4 giugno 1902, il governo italiano dichiarò al governo francese che il trattato della Triplice Alleanza non conteneva nessun impegno secondo il quale l'Italia fosse obbligata ad unirsi in una guerra di aggressione contro la Francia, e perciò nel trattato non c'era niente che potesse minacciare la sicurezza o la tranquillità della Francia. Mediante questa dichiarazione, il governo italiano si impegnava a dare alla Triplice Alleanza una sola interpretazione: di un trattato che nei confronti della Francia era strettamente difensivo e pacifico. Il ministro degli Esteri Delcassé, il 3 luglio 1902, rese pubblico il contenuto di questa dichiarazione. Frattanto, il 28 giugno, era stato
firmato, tra i governi tedesco, italiano e austriaco, il nuovo trattato di alleanza. Un trattato, anche quando sia stato firmato, non diventa effettivo sino alla ratifica. I documenti di ratifica vennero scambiati l'8 luglio, cioè cinque giorni dopo che Delcassé aveva reso pubblico l'impegno italiano. Dato che i documenti di ratifica vennero scambiati dopo il pubblico annuncio di Delcassé, e dato che né il governo tedesco né quello austriaco sollevarono nessuna protesta o riserva prima dello scambio delle ratifiche, e meno che mai rifiutarono di scambiarle, è evidente che essi riconobbero l'intesa dell'Italia con la Francia come in perfetto accordo con la Triplice Alleanza. Tale impegno era incondizionato, cioè aveva valore anche nel caso di una guerra, in cui l'Italia non fosse impegnata a partecipare a fianco delle potenze centrali. N. 4. G. GENTILE, "L'essenza del fascismo", nel volume "La civiltà fascista", Torino. U.T.E.T., 1928, pag. 98. N. 5. '"Avanti!",' 5 agosto 1914. N. 5 bis. '"Avanti!",' (cit. in A. De AMBRIS, "Mussolini. La leggenda e l'uomo", Marseille, E.S.I.L., 'Pagine dell'Italia Libera,'' n. 7-8, maggio-luglio 1930, pag. 21 [N.d.C.]). N. 6. '"Avanti!"' N. 7. '"Avanti!"' N. 8. '"Avanti!"' N. 9. Pseudonimo letterario di Libero Tancredi. N. 10. Vedi A. BORGHI, "Mussolini Red and Black", New York, Freie Arbeiter Stimme, 1938, pagine 66-69. Il libro di Borghi contiene molte informazioni ricavate da fonti di prima mano. Merita di essere letto, malgrado la sua amarezza, che getta un'ombra di ingiusto sospetto sulle affermazioni dell'autore, violento ma onesto. N. 11. '"Avanti!"' N. 12. '"Avanti!",' 15 ottobre 1914. N. 13. 'Popolo d'Italia,' 20 novembre 1914. N. 14. 'Popolo d'Italia,' 23 novembre 1914. N. 15. Intervista al 'Giornale d'Italia,' 20 novembre 1914. N. 16 'Popolo d'Italia,' 20 novembre 1914. N. 17. 'Popolo d'Italia,' 27 novembre 1914. N. 18. Ibidem. N. 19. La lettera di questo corrispondente, Emilio Kerbs, comparve nel numero del 1 dicembre 1914 del 'Popolo d'Italia,' insieme alla risposta di Mussolini. N. 20. 'Popolo d'Italia,' 1 dicembre 1914. N. 21. 'Popolo d'Italia,' 24 gennaio 1915. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO SESTO. N. 1. Confer G. SALVEMINI, "Mussolini diplomatico", Bari, Laterza, 1952, Appendice A, "Mussolini e l'oro francese", pagine 419-431, dove appaiono buona parte delle osservazioni seguenti rielaborate in seguito a più recenti testimonianze, che peraltro non ne mutano le conclusioni. [N.d.C.] N. 2. D. VARE', "Laughing Diplomat", London, John Murray, 1938, pagine 213-214. (Nell'edizione italiana, "Il diplomatico sorridente", Milano, Mondadori, 1941, il brano è omesso). [N.d.C.] N. 6. I. DE BEGNAC, "Vita di Benito Mussolini...", cit., III,- 583. N. 7. A. DE AMBRIS, "Mussolini: la leggenda e l'uomo", cit., pag. 26 (cit. trad.). N. 8. "Quartetto. Le Roi, Mussolini, le Pape, D'Annunzio", Salon, Imprimerie nouvelle, pag. 15. N. 8 bis. Cit. trad. N. 9. M. SARFATTI, op. cit, pag. 163. N. 10. Il testo della Relazione della Commissione d'inchiesta à in DE BEGNAC, op. Cit., III, 603-609.
N. N. N. N. N. N. N.
11. Op. cit, III, 395. 12. "The Awakening of Italy", cit., pag. 19. 13. C. BATTISTI, "Scritti politici", Firenze, Le Monnier, 1923, pag. 189. 14. C. BATTISTI, op. cit., pag. 192. 14 bis. C. BATTISTI, op. cit., pag. 189. 15. I. DE BEGNAC, op. Cit., III, 367. 16. February 1926, pag. 107.
NOTE AL CAPITOLO SETTIMO. N. 1. 'Corriere della Sera,' 21 novembre 1918. N. 2. "Atti parlamentari", Camera. Discussioni, Legisl. XXIV, 1a sessione, pag. 17, 244. N. 3. 'Politica,' I, 15 dicembre 1918, pag. 17. N. 4. L. BISSOLATI, "La politica estera dell'Italia dal 1897 al 1920: scritti e discorsi", Milano, Treves, 1923, pagine 396-398. N. 5. "Il Diario di Guerra (1915-1917)", ripubblicato in "Scritti e Discorsi", I, Milano, Hoepli, 1934. N. 6. "Scritti e Discorsi", cit., I, 184. N. 7. In un articolo sul 'Popolo d'Italia' del 28 gennaio 1915, Mussolini affermava: 'L'irredentismo verso tutti i confini, quando non sia giustificato da ragioni di giustizia e di libertà, si risolve nel nazionalismo: non è il nostro!' A proposito della Dalmazia, l'8 aprile 1915, si diceva che l'Italia avrebbe dovuto contentarsi di proteggere i propri connazionali là residenti. Vedi anche H. MASSOUL, "Les étapes de la révolution fasciste", 'Mercure de France,' nov. 1932, pagine 513-541. N. 8. G. A. BORGESE, "Golia. Marcia del fascismo", trad. ital., cit., pag. 161. N. 9. C. AVARNA DI GUALTIERI, "Il Fascismo", Torino, Gobetti, 1925, pag. 17. N. 10. Cit. trad. N. 11. B. MUSSOLINI, "La dottrina del fascismo", Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pagine 9-10. Nelle "Note" sono raccolti alcuni estratti da vari scritti e discorsi di Mussolini, dai quali si cerca di fare apparire che il pensiero di Mussolini si sia sviluppato coerentemente, da una prima trama appena tracciata, nel 1919, a ciò che era diventato nel 1928 come dottrina definitiva. Con lo stesso sistema, cioè sopprimendo tutto quando si voglia ignorare negli scritti e discorsi di Mussolini, si può darne un ritratto anarchico o conservatore, internazionalista o nazionalista, di un ateo o di un Padre della Chiesa, di un sostenitore del controllo sulle nascite o di un ministro di una delle religioni esaltanti la prolificità, di un amico come di un nemico di ogni paese, e così via all'infinito. Il compilatore della 'edizione finale' (si riferisce alla edizione Hoepli [N.d.C.]) degli "Scritti e Discorsi" di Mussolini non si è contentato di ignorare tutti quegli scritti e discorsi che mettevano troppo in luce tutte le contraddizioni e le inconsistenze del suo eroe; ha anche falsificato alcuni dei testi inclusi nella raccolta. Di questo fatto ha dato dimostrazione G. MEGARO, in 'Political Science Quarterly,' June 1936, e in 'The Journal of Modern History,' September 1936. N. 12. L. SALVATORELLI, "Nazionalfascismo", Torino, Gobetti, 1923, pag. 14. N. 13. La guerra 'spinse in alto, sulla scala dei valori militari, gente del popolo e della piccola borghesia, che poi, riluttante e incapace di tornare nei vecchi ranghi (il corsivo è nostro), opererà come energico fermento rivoluzionario nella società italiana, ancora così mobile.' G. VOLPE, "Storia dei movimento fascista", Milano, I.S.P.I., 1939, pag. 16. N. 14. 'Popolo d'Italia,' Il novembre 1918. N. 15. 'Il Proletario,' New York, 2 giugno 1911; la collezione di questo giornale si trova presso la New York Public Library.
N. 16. L. R. FRANCK, "L'Economie Corporative Fasciste en doctrine et en fait", Paris, 1934, pagine 12-14, 25-28. E' questo a tutt'oggi lo studio migliore per quanto riguarda i rapporti tra capitale e lavoro sotto la dittatura fascista. N. 17. 'Corriere della Sera,' 21 marzo 1919. N. 18. 'Popolo d'Italia,' 1 aprile 1919. N. 19. Nel marzo del 1925, uno dei capi fascisti disse: 'Gli industriali si sbagliano di grosso, se pensano che avendo accettato i loro aiuti nel 1919, '20 e '21, il fascismo abbia rinunciato a proteggere i lavoratori.' Citato da L. HAUTECOEUR, "Le Fascisme", in 'L'année politique française et étrangère,' Oct-déc. 1925, pag. 145. NOTE. OSSERVAZIONI AL CAPITOLO SETTIMO. N. 1. "Dux", cit., pag. 185. N. 2. Il resoconto riporta una corrispondenza inviata da R. Garinei al 'Secolo,' in data 7 marzo 1917. B. MUSSOLINI, "Scritti e Discorsi", 1, cit., pag. 250. N. 3. M. SARFATTI, "Dux", cit., pagine 182, 183. N. 4. B. MUSSOLINI, "Il Diario di Guerra", in "Scritti e Discorsi", I, cit., pagine 236237. N. 5. Cit. trad. Questo periodo, alla pag. 231 della edizione americana ("The Life of Benito Mussolini", New York, F. A. Stokes Co., 1925), non figura nella edizione italiana. [N.d.C.] N. 6. 'La Gazzetta del Popolo,' 25 febbraio 1932. N. 7. 'Popolo d'Italia,' 8 novembre 1921. N. 8. "La Nuova Politica dell'Italia", Milano, Alpes, 1926, pag. 17. NOTE AL CAPITOLO OTTAVO. N. 1. E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", Firenze, La Voce, 1913, pag. 253. N. 2. 'Corriere della Sera,' 1 aprile 1919. N. 3. E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pag. 252. N. 4. 'Corriere della Sera,' 15 marzo 1919. N. 5. 'Bollettino dell'Ufficio del Lavoro,' XXXIV, 1, 523. N. 6. G. DE ROSSI, "Il primo anno di vita del Partito Popolare Italiano", Ferrari, 1920, pagine 72, 79. N. 7. 'Grandi speranze aveva suscitato al suo nascere il nuovo partito popolare. Non pochi liberali contavano di avere in esso un alleato contro il socialismo. Io ero tra quelli. (...) Io non avevo più fede nell'avvenire del partito liberale che a parer mio aveva smarrito la diritta via. (...) Se il partito popolare avesse dato al paese affidamento di redimerlo dall'asservimento ai partiti sovversivi, avrebbe dominato la situazione e si sarebbe imposto a tutti gli altri partiti; ciò esso era in grado di fare, poiché era il solo che avesse gli elementi per contendere al socialismo il dominio delle masse, e avverandosi ciò io mi sarei ufficialmente iscritto al partito popolare.' T. TITTONI, "Nuovi scritti di politica interna ed estera", Milano, Treves, 1930, pagine 281-282. Tittoni era stato ministro degli Esteri con Giolitti e ambasciatore a Parigi. Diventò più tardi una figura eminente del regime fascista. Tittoni aveva vaste proprietà terriere in provincia di Roma, dove la popolazione contadina era tra le più povere d'Italia. Per il significato della parola 'liberale,' si veda il cap. quinto, [pagine 80-81 del libro cartaceo]. N. 8. Ecco come continuano le parole di Tittoni: 'Ma ahimè, al primo Congresso che il partito tenne a Bologna, apparve subito che la maggioranza dei convenuti non aveva alcuna idea della situazione che il partito avrebbe potuto e dovuto conquistare, dando al paese ciò che questo attendeva ed i partiti liberali non potevano dargli.' Op. cit., pag. 282. N. 9. Il cattolico O. M. PREMOLI ("Storia ecclesiastica contemporanea 1900-1925", Torino, 1925, pag. 110) scrive: 'Ciò che era più doloroso, il clero delle campagne e
delle piccole città, venuto ordinariamente da famiglie campagnole ed operaie, facilmente applaudiva a questo socialismo cristiano e rendeva posizione contro la classe borghese, con grave iattura della religione.' Echi delle ire dei cattolici conservatori contro il partito popolare si trovano nel libro del barone EUGÈNE BEYENS ("Quatre ans à Rome", Paris, Plon, 1934, pagine 26, 130), che fu ambasciatore del Belgio a Roma dal 1921 al 1925. N. 10. 'Corriere della Sera,' 5 agosto 1919. N. 11. Per le espressioni 'rivoluzionarie' di Salandra e di Orlando si veda il cap. settimo, [pagine 123-24 del libro cartaceo]. Tanto per rimanere in campo cattolico, sarà bene rammentare che nel 1920 i vescovi degli Stati Uniti d'America annunciarono prossima 'l'abolizione del salariato.' Il cardinale Bourne scrisse: 'Tutti ammettono che un nuovo ordine, nuove condizioni sociali, nuove relazioni tra le diverse categorie sociali sorgeranno prodotte dalla distruzione dell'antico ordine di cose.' E monsignor Deploige, presidente dell'Istituto superiore di filosofia dell'Università di Louvain, scrisse: 'Un ordine nuovo va elaborandosi e il mondo di domani sarà altra cosa dal mondo di ieri.' E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pagine 263-264. In Italia, lo slogan 'la terra ai contadini,' fu lanciato per la prima volta nel 1918 da un 'socialista riformista,' Aurelio Drago, che più tardi diventò fascista; e venne raccolto e lanciato dall'ultraconservatore marchese Tanari, il quale anche, più tardi, divenne fascista. N. 12. L. STURZO, "Popolarismo e fascismo", Torino, Gobetti, 1924, pagine 2328, 107, 122-23, 168. N. 13. 'Corriere della Sera,' 28 luglio 1928. Cit. trad. N. 14. 'Corriere della Sera,' 12 maggio 1919. N. 15. Monsignor B. Cerretti (più tardi cardinale), e il presidente del Consiglio Orlando, iniziatori dei negoziati, hanno pubblicato i documenti dei loro scambi di opinione. Il diario di CERRETTI venne pubblicato nella rivista cattolica 'Vita e pensiero,' giugno-luglio 1929, pagine 411 seguenti; e la versione di Orlando in V. E. ORLANDO, "Su alcuni miei rapporti di governo con la Santa Sede", Napoli, Casa Editrice Sabina, 1930, pagine 71 seguenti. N. 16. GEMELLI e OLGIATI, "Il programma del P.P.I. come non è e come dovrebbe essere", Milano, 'Vita e pensiero,' 1919, pagine 59-60. N. 17. 'Osservatore Romano,' 17 giugno 1919. N. 18. G. MICHON, "Les documents pontificaux sur la democratie et la société moderne", Paris, Rieder, 1929. Vi si trovano raccolte le più caratteristiche condanne pronunciate dai papi durante il secolo diciannovesimo contro tutte le libertà che sono essenziali a un regime democratico. N. 19. Si veda specialmente la enciclica di Leone Tredicesimo, "Libertas", del 20 giugno 1888. Le dichiarazioni in favore di tutte le libertà fatte dal Governatore Smith nel 1927 durante la sua discussione con Mister C. C. Marshall ('Atlantic Monthly,' April and May 1927), furono 'tollerate,' ma mai 'approvate' esplicitamente dalle autorità ecclesiastiche americane, e perché fatte in un paese dove la costituzione garantisce in ugual misura tanto 'il bene,' cioè la religione cattolica, quanto 'il male,' cioè tutte le altre religioni. Il giorno in cui le autorità della Chiesa cattolica credessero possibile instaurare negli Stati Uniti un monopolio del 'bene' e sopprimere la libertà del 'male,' allora le dichiarazioni del Governatore Smith in favore della libertà per tutti, non sarebbero più 'tollerate,' ma verrebbero 'condannate.' N. 20. E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pagine 183, 185, 290-91. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO OTTAVO. N. 1. "Atti Parlamentari", Camera, Discussioni, Legislatura XXI, 2a sessione, pagine 13-134, 13-135.
N. 2. A. COMANDINI, "L'Italia nei cent'anni del secolo diciannovesimo", Vallardi, Milano, IV, pagine 108, 135-38. NOTE AL CAPITOLO NONO. N. 1. R. RIGOLA e L. D'ARAGONA, "La Confederazione generale del lavoro nel sessennio 1914-1920", Milano, La Tipografica, 1921, pagine 120-122. N. 2. G. LAZZERI, "Filippo Turati", Milano, 1921, pag. 198. Dall'articolo di Turati, "Socialismo e Massimalismo al Congresso socialista di Bologna", in 'Critica Sociale,' XXX, 17, pagine 264 seguenti. N. 2 bis. A. TASCA, "Nascita e avvento del fascismo", Firenze, La Nuova Italia, 1950, pag. 143. N. 3 La stessa Angelica Balabanoff raccontò più tardi il fatto a chi scrive. (Di questo colloquio con Lenin, la Balabanoff dà notizia nel suo libro di memorie "My Life as a Rebel", New York and London, Harper & Brothers Publishers, 1938, pagine 284-285. Esso avvenne il 20 settembre 1920, dopo che erano arrivate in Russia le notizie dall'Italia dell'occupazione delle fabbriche. [N.d.C.]) N. 3 bis. EPIFANE, "Fattori economici del successo della rivoluzione sociale", Milano, Libreria della Società Editrice 'Umanità Nova,' 1920, pag. 32. N. 4. LENIN, "Sul movimento operaio italiano", trad. ital. di F. Platone, Roma, Rinascita, 1949, pag. 157. N. 5. Ibidem. N. 6. Ibidem. N. 7. E. LUSSU, "Teoria dell'insurrezione. Saggio critico", Roma, 1950, pagine 22.23. N. 8. Dall'articolo di F. TURATI, "Socialismo e Massimalismo al Congresso socialista di Bologna", in 'Critica Sociale,' cit., riportato da G. LAZZERI, "Filippo Turati", cit., pag. 198. N. 9. Cit. trad. N. 10. Citato in "Sempre!", Almanacco n. 2 (1923) di 'Guerra di classe,' Berlino, 1923, pag. 47; confer anche 'Corriere della Sera,' 11 settembre 1922 e "Avanti!",' 12 settembre 1922. [N.d.C.] N. 11. LENIN, "L'estremismo, malattia infantile del comunismo", in "Sul movimento operaio italiano", cit., pagine 133-34. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO NONO. N. 1. "The Awakening of Italy", cit., pag. 79. N. 2. Ibidem, pagine 51, 74, 116. N. 3. Ibidem, pag. 105. N. 4. Ibidem, pag. 79. N. 5. R. P. DUTT, "Fascism and Social Revolution", New York, International Publishers, 1934, pagine 95 seguenti. NOTE AL CAPITOLO DECIMO. N. 1. Citazione parzialmente tradotta. 'Corriere della Sera,' 19 febbraio 1919. [N.d.C.] N. 2. Mozione del Consiglio nazionale della Confederazione del lavoro, '"Avanti!",' 3 febbraio 1919. N. 3. 'I problemi del Lavoro,' 1-16 marzo 1919, pag. 83. N. 4. 'Corriere della Sera,' 3 aprile 1919. N. 5. 'Corriere della Sera,' 11 aprile 1919. N. 6. Ibidem. N. 7. Tutte le notizie sono tratte dai numeri del 10 e 11 aprile di due quotidiani milanesi: il conservatore 'Corriere della Sera,' e il democratico 'Secolo.' N. 8. 'Secolo,' 14 aprile 1919.
N. 9. 'Secolo,' 15 aprile 1919. N. 10. F. T. MARINEITI, "Futurismo e fascismo", Foligno, 1924, pag. 169. N. 11. 'Secolo,' 18 aprile 1919. N. 12. F. T. MARINETTI, "Futurismo e fascismo", cit., pag. 170. N. 13. 'Secolo,' 18 aprile 1919. N. 14. 'Corriere della Sera,' 17 aprile 1919. N. 15. 'L'Unità,' 26 aprile 1919. N. 16. Si allude alla sottoscrizione per la nuova sede dell'"Avanti!". N. 17. 'Popolo d'Italia,' 16 aprile 1920. N. 18. Dalla prefazione a A. Rossi, "The Rise of Italian Fascism: 1918-1922", London, Methuen and Co., 1938, pag. X. N. 19. F. T. MARINETTI, "Futurismo e fascismo", cit., pag. 170. N. 20. 'Corriere della Sera,' 19 aprile 1919. N. 21. 'Corriere della Sera,' 21 gennaio 1919. N. 22. 'Corriere della Sera,' 25 gennaio 1919. N. 23. 'Corriere della Sera,' 27 gennaio 1919. N. 24. 'Corriere della Sera,' 9 marzo 1919. N. 25. 'Corriere della Sera,' 2 aprile 1919. N. 26 "Avanti!", 29 aprile 1919. NOTE AL CAPITOLO UNDICESIMO. N. 1. Cit. trad. N. 2. F. TURATI, "Discorsi Parlamentari", vol. III, Roma, 1950, pag. 1612. N. 3. Discorso di Turati alla Camera, del 29 aprile 1919, "Discorsi Parlamentari", cit., pagine 1614-1615. N. 4. Cit. trad. N. 5. "Annuario statistico italiano: 1919-1921", pagine 395, 398. Fu stimato che in media le tariffe delle mercedi dei lavoratori agrari crebbero in complesso dal 1914 alla prima parte del 1919 del 220 per cento, ma la spesa settimanale di una famiglia operaia tipica composta di cinque persone, crebbe da lire 41,20 nel primo semestre del 1914 a lire 120,05 nel giugno del 1919 (R. BACHI, "L'Italia economica nel 1919", cit., pag. 162); in altre parole, il costo della vita, 292 per cento, fu superiore all'aumento dei salari. Villari ("The Awakening of Italy", cit., pag. 50) scrive: 'Durante la guerra i salari erano assai cresciuti, mentre i prezzi erano aumentati solo leggermente (sic: "slightly"): fu dopo l'armistizio che i prezzi cominciarono a salire rapidamente, e "sebbene essi non abbiano mai raggiunto gli aumenti dei salari", i lavoratori si sentivano truffati perché non godevano più del benessere in cui erano vissuti durante gli anni di guerra.' N. 6. 'Corriere della Sera,' 13 giugno 1919. N. 7. 'Corriere della Sera,' 14 giugno 1919. N. 8. 'Secolo,' 14 giugno 1919. N. 9. Cit. trad. N. 10. Il corsivo è nostro. N. 10 bis. Citazione parzialmente tradotta. N. 11. 'Corriere della Sera,' 26 giugno 1919. N. 12. 'Corriere della Sera,' 20 giugno 1919. N. 13. Cit. trad. N. 14. 'Idea Nazionale,' 17 giugno 1910. N. 15. Discorso dell'on. Soleri, "Atti Parlamentari". Camera. Discussioni, Legislatura XXIV, I sessione, pagine 18446-18447. N. 16. 'Corriere della Sera,' 12 giugno 1919. N. 17 'Corriere della Sera,' 12 giugno 1919. N. 18. Cit. trad.
N. 19. 'Corriere della Sera,' 14 giugno 1919. N. 20. 'Idea Nazionale,' 18 maggio, 31 maggio 1919. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO UNDICESIMO. N. 1. 'Corriere della Sera,' 3 agosto 1919. N. 2. Milano, Mondadori, 1924, pag. 50. NOTE AL CAPITOLO DODICESIMO. N. 1. 21 giugno 1919. N. 2. 'Popolo d'Italia', 15 settembre 1919 (cit. trad.). N. 3. C. PELLIZZI, "Problemi e realtà del fascismo", Firenze, 1924, pag. 163. N. 4. Elogi a Nitti furono pubblicati nei numeri de 'L'Idea Nazionale' del 20 dicembre 1917, 31 gennaio, 8 marzo, 27 aprile, 27 maggio, 20 luglio 1918, 15 giugno 1919. N. 5. Violenti articoli contro Nitti apparvero nell''Idea Nazionale' e 10 marzo 1919. N. 6. 'Idea Nazionale,' 26 maggio 1919; riporta il testo del discorso che D'Annunzio doveva tenere a Roma per l'anniversario della dichiarazione di guerra, e che fu proibito. N. 7. 'Idea Nazionale,' 30' giugno 1919. N. 8. Ibidem, discorso di Eugenio Coselschi. N. 9. Ibidem, parole del capitano degli Arditi, Venturi. N. 10. Vi aveva sede il ministero degli Interni e la presidenza del Consiglio. N. 11. Il Nitti abitava a Piazza Barberini. N. 12. 'Idea Nazionale,' 30 giugno 1919. N. 13. 'Idea Nazionale,' 1 luglio 1919. N. 14. 'Idea Nazionale,' 3 luglio 1919. N. 15. 'Corriere della Sera,' 5 luglio 1919. N. 16. Vedi cap. undicesimo, [pagine 192-93 del libro cartaceo]. NOTE AL CAPITOLO TREDICESIMO. N. 1. 'L'Unità,' 10 luglio 1919. N. 2. 'La Nazione,» 4 luglio 1919. N. 3. Ibidem. N. 4. 'La Difesa,' 4 luglio 1919. N. 5. 'La Nazione,' 4 luglio 1919. N. 6. Ibidem. N. 7. 'La Nazione,' 6 luglio 1919. N. 8. 'La Difesa,' 5 luglio 1919. N. 9. 'La Nazione,' 5 luglio 1919. N. 10. L'Alleanza di difesa cittadina; vedi 'La Nazione,' 9 luglio. N. 11. "Per la bandiera dei volontari di guerra". N. 12. 'Idea Nazionale,' 19 settembre 1919. N. 13. 'Idea Nazionale,' 5 luglio 1919. N. 14. "Giustizia di popolo", di Alceste De Ambris. N. 15. 'secolo,' 10 luglio 1919. N. 16. Cit. trad. N. 17. 'L'Unità,' 10 luglio 1919. N. 18. Ibidem. N. 19. 'Avanti!,' 5 luglio 1919. N. 20. 'Avanti!,' 7 luglio 1919. N. 21. 'Avanti!,' 13 luglio 1919. N. 22. 'Corriere della Sera,' 15 luglio 1919. N. 23. 'Avanti!,' 17 luglio 1919. N. 24. 'Corriere della Sera,' 22 luglio 1919.
N. 25. Il resoconto si trova ne 'L'Unità,' 11 settembre 1919. N. 26. G. LAZZERI, "Filippo Turati", Milano, 1921, pag. 206; dall'articolo di Turati "Socialismo e Massimalismo al Congresso socialista di Bologna", in 'Critica Sociale,' XXX, 17, pagine 264 seguenti. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO TREDICESIMO. N. 1. L. VILLARI, "The Awakening of Italy", cit., pagine 58-59. NOTE AL CAPITOLO QUATTORDICESIMO. N. 1. Vedi cap. dodicesimo, [pagine 208, 211 del libro cartaceo]. N. 2. R. BACHI, "L'Italia economica nei 1919", cit., pagine 397-398. N. 3. F. RUFFINI, "Guerra e riforme costituzionali", Torino, Paravia, 1920, pag. 76, n. 23, e pag. 84, n. 106. N. 4. 'Idea Nazionale,' 20 marzo 1919. N. 5. 'Corriere della Sera,' 15 giugno 1919. N. 6. 'Corriere della Sera,' 20 giugno 1919. N. 7. 'Secolo,' 8 giugno 1919, e vedi V. NITTI, "L'opera di Nitti", Torino, Gobetti, 1924, pagine 111-120. N. 8. Vedi cap. settimo, [pag. 123 del libro cartaceo]. N. 9. 'Corriere della Sera,' 12 e 22 agosto 1919. N. 10. R. BACHI, "L'Italia economica nel 1919", cit., pagine 274, 418; "L'Italia economica nel 1920", cit., pag. 296. N. 11. 'Secolo,' 29 settembre 1919. N. 12. 'Secolo,' 10 e 13 ottobre 1919. N. 12 bis. Intervista del ministro dell'Agricoltura, Micheli, al quotidiano romano 'La Tribuna,' 22 ottobre 1920. Confer L. VILLARI "The Awakening of Italy", cit., pag. 101: 'In Sicilia, molte proprietà terriere furono occupate, ma i conflitti furono generalmente promossi da associazioni di ex-combattenti e organizzazioni operaie, che volevano veramente terra da coltivare: qualche volta si giunse ad una composizione mediante accordi con i proprietari.' N. 13. G. VOLPE, "L'Italia in cammino", cit., pag. 60. N. 14. N. PAPAFAVA, "Appunti militari. 1919-1921", Ferrara, S.T.E.T., 1921, pagine 152-53. N. 15. G. FERRERO, "Da Fiume a Roma", Milano, Athena, 1945, pag. 9. N. 16. Nei tempi antichi del periodo classico, erano gli schiavi che salutavano i loro padroni alzando la mano destra. Gli uomini liberi si salutavano stringendosi la mano. N. 17. Il fatto venne reso noto a una commissione di giornalisti milanesi da due redattori del 'Popolo d'Italia,' che erano in contrasto con Mussolini; vedi 'Avanti!,' 12 febbraio 1920, e 'Secolo,' 14 febbraio 1920. La 'Civiltà Cattolica' (6 marzo 1920, pagine 472-474) commentò la notizia nei seguenti termini: 'Un po' di luce. E' poca; ma questo barlume ci basta per poter dire: quale pozzanghera!... Ecco in mano di quali genti stanno la bandiera del patriottismo e dell'onore nazionale.' N. 18. Il capo di stato maggiore di D'Annunzio, maggiore Reina, si trovò presente ad uno scoppio di collera di D'Annunzio, che definì Mussolini 'un ladro.' Chi scrive apprese tale incidente dallo stesso maggiore Reina, e in qualità di deputato denunciò il fatto alla Camera (7 agosto 1920). Mussolini cercò di ridurlo al silenzio sfidandolo a duello. I suoi secondi chiesero che venisse compiuta una indagine per accertare se il fatto era vero o no; solo qualora il fatto non fosse stato vero ci sarebbe stato il duello. I secondi di Mussolini rifiutarono qualsiasi indagine. Quindi nessuno dovette versare una goccia di sangue. I documenti di questa buffa vertenza furono pubblicati da 'L'Unità,' 19 agosto 1920. N. 19. U. GIUSTI, "Le correnti politiche italiane attraverso due riforme elettorali dal 1909 al 1921", Firenze, Alfani e Venturi, 1922, pagine 22, 29. Alcune lievi discordanze
tra il numero dei seggi dei nostri dati e quelli forniti da Giusti dipendono dal fatto che i nostri dati si riferiscono al novembre 1919, mentre quelli del Giusti si riferiscono all'agosto 1920, quando alcuni deputati erano morti. N. 20. Se si prende, ad esempio, la provincia di Firenze, troviamo che col sistema uninominale si sarebbero avuti dodici deputati socialisti, e soltanto due deputati non socialisti, mentre con la proporzionale si ebbero otto socialisti, tre popolari e tre 'liberali' (U. GIUSTI, op. cit., pagine 39-41). Certamente, col sistema uninominale, gli elettori, costretti a scegliere tra non più di due candidati, si sarebbero comportati in modo diverso che non con la proporzionale. Ma dato il sentimento di ostilità che la massa del partito popolare nutriva verso tutti i vecchi leaders politici, compresi Salandra e Giolitti, si può affermare senza pericolo di errore che tale massa, se non avesse potuto votare per i candidati popolari, avrebbe votato per i socialisti piuttosto che per i vecchi uomini politici. N. 21. I. BONOMI, "Dal socialismo al fascismo", Roma, Formiggini, 1924, pagine 8384. N. 22. 17 novembre 1919. N. 23. G. CIPRIANI-AVOLIO, "Una volontà: Benito Mussolini", Roma, Stab. Poligr. per l'Ammin. della Guerra, 1932, pag. 114. NOTE AL CAPITOLO QUINDICESIMO. N. 1. G. A. BORGESE, "Golia. Marcia del fascismo", trad. ital. cit., pagine 261-264. N. 2. 'Avanti!,' 4 dicembre 1919. N. 3. 'Avanti!,' 4 dicembre 1919. N. 4. Lettera di Lenin a Serrati, direttore dell''Avanti!'» e a Lazzari, segretario generale del P.S.I., in data 19 agosto 1919, pubblicata nell''Avanti!' del 2 settembre 1919 (ripubblicata in LENIN, "Sul movimento operaio italiano", cit., pag. 110 [N.d.C]). N. 5. Vedi cap. quindicesimo , [pag. 237 del libro cartaceo]. N. 6. La lettera fu pubblicata, nel suo testo integrale, nella prima edizione dell''Avanti!' del 6 dicembre 1919. Stupidamente il censore, nelle edizioni successive, soppresse l'ultima parte di essa (dalle parole: 'Può darsi,' eccetera). Ma altri giornali, ad esempio il quotidiano popolare 'Corriere d'Italia,' 8 dicembre 1919, riprodussero il testo completo dalla prima edizione dell''Avanti!' L'edizione russa delle opere di LENIN (XXIV, 504) dà il testo incompleto della seconda edizione dell''Avanti!' Non siamo in grado di dire se ciò dipenda dal fatto che l'editore non si è presa la pena di ritrovare il testo completo, o se piuttosto non sia stato giudicato più prudente coprire con un modesto velo il fatto che Lenin, nell'ottobre 1919, consigliava i compagni italiani a non lasciarsi tradire da tentativi rivoluzionari prematuri, e ad attendere un 'momento favorevole' che non fu mai destinato ad arrivare. (La lettera è riprodotta, priva della sua parte finale, anche in LENIN, "Sul movimento operaio italiano", cit., pag. 112. Si dà però in nota una traduzione dal francese della parte, soppressa dalla censura, che fu riprodotta nel 'Populaire' del 20 gennaio 1920. Ma non è vero che quella del 'Populaire' fosse la prima pubblicazione integrale. [N.d.C]) N. 7. 'Idea Nazionale,' 7 dicembre 1919. N. 8. Vedi cap. ottavo, [pagine 148 seguenti del libro cartaceo]. N. 9. Discorso dell'on. Salvemini, "Atti Parlamentari". Camera. Discussioni, Legislatura XXV, I sessione, vol. I, pagine 502-504. N. 10. N. PAPAFAVA, "Appunti militari", cit., pag. 154. N. 11. Vedi cap. terzo. N. 12. Dal 1895 al 1913, il numero dei regi decreti variò da un minimo di uno ad un massimo di ventiquattro all'anno. La guerra aumentò il numero di questi provvedimenti eccezionali. Infatti se ne ebbero 100 nel 1914; 221 nel 1915; 173 nel 1916; 337 nel 1917; 348 nel 1918; 1029 nel 1919; 545 nel 1920 (Discussione al
Senato, il 12 dicembre 1925, "Atti Parlamentari", Senato del Regno, Legislatura XXVII, I sessione, vol. IV, pag. 3964). N. 13 Guy Fawkes fu il principale e il più famoso dei cospiratori della 'congiura delle polveri,' promossa dai cattolici, e che mirava a far saltare il Parlamento inglese nel giorno della sua apertura, il 5 novembre 1605. [N.d.C.] N. 14. "La crisi ministeriale e la Costituzione", in 'La Rivoluzione Liberale,' 19 febbraio 1922. N. 15. E. FLORES, "Eredità di guerra", Napoli, Ceccoli, 1925, pagine 129 seguenti. N. 16. R. BACHI, "L'Italia economica nel 1911", cit., pagine 258 seguenti. N. 17. V. NITTI, "L'opera di Nitti", cit., pag. 165. NOTE AL CAPITOLO SEDICESIMO. N. 1. "Annuario Statistico Italiano: 1919-1921", pagine 385, 398. N. 2. M. NETTLAU, "Errico Malatesta", New York, Casa editrice Il Martello, 1921, pagine 300-301. N. 3. Una spiegazione analoga a quella data da Nettlau si trova in A. BORGHI, "Errico Malatesta in 60 anni di lotte anarchiche", New York, Edizioni sociali, 1933, pagine 184-189. N. 4. Chi scrive ebbe notizia di tali manovre da uno dei partecipanti alla riunione. Venne avvicinato anche Malatesta (A. BORGHI, "L'Italia tra due Crispi", Paris, Libreria Internazionale, 1924, pag. 103). N. 5. 'Umanità Nuova,' 1 luglio 1920; citato da A. BORGHI, "L'Italia tra due Crispi", cit., pag. 234, n. 1. N. 6. Ebbi l'informazione da Camillo Berneri, l'anarchico che venne assassinato dai comunisti a Barcellona nel 1938, e che nel 1920 era studente all'Università di Firenze. N. 7. 'Popolo d'Italia,' 13 settembre 1919. N. 8. 'Popolo d'Italia,' 14 settembre 1919. N. 9. 'Popolo d'Italia,' 25 settembre 1919. N. 10. 'Popolo d'Italia,' 11 e 14 novembre 1919. N. 11. 'Popolo d'Italia,' 27 dicembre 1919. N. 12. 'Popolo d'Italia.' N. 13. 'Popolo d'Italia,' 1 gennaio 1920. N. 14. 'Popolo d'Italia,' 6 aprile 1920. N. 15. 'Popolo d'Italia,' 25 maggio 1920. Questo articolo, come i due articoli citati sopra, del 12 dicembre 1919 e del 6 aprile 1920, sono stati soppressi nella raccolta ufficiale degli "Scritti e Discorsi" di Mussolini (Milano, Hoepli, 1934-1940). N. 16. Tali cifre furono date al congresso nazionale dei Fasci, di Firenze, e al congresso dell'Unione italiana del lavoro, che si tenne a Forlì. N. 17. 'Popolo d'Italia,' 8 novembre 1921. N. 18. Discorso al teatro Costanzi in Roma, nel quinto anniversario dell'adunata di Piazza S. Sepolcro (MUSSOLINI, "Scritti e Discorsi", IV, 64). N. 19. Un resoconto onesto delle cause della inquietudine generale è dato da G. MORTARA, "Prospettive economiche 1923", Città di Castello, 1923, pagine 421-422; vedi anche E. A. MOWRER, "Immortal Italy", New York and London, Appleton & Co., 1922, pagine 317-29. Il libro di questo testimone americano, intelligente ed onesto, fu scritto prima che venisse elaborata la leggenda fascista; esso è perciò una apprezzabile ed attendibile fonte di informazioni. N. 20. M. PANTALEONI, "Bolscevismo italiano", Bari, Laterza, 1922. NOTE AL CAPITOLO DICIASSETTESIMO. N. 1. Il fatto fu reso noto nell'ottobre 1920 ('Civiltà Cattolica,' 20 novembre 1920, pag. 374). Né i massimalisti né gli estremisti lo smentirono.
N. 2. A proposito di questo lento sviluppo di una mentalità l'antibolscevica' tra i diversi ceti prima dell'autunno 1920, si vedano le osservazioni di G. FERRERO, "Da Fiume a Roma", cit., pagine 91-93. Si vedano anche, nella collezione 'Il fascismo e i partiti politici italiani,' L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", pagine 21 seguenti.; M. MISSIROLI, "Il fascismo e la crisi italiana", pagine 14 seguenti.; G. ZIBORDI, "Critica socialista del fascismo", pagine 16-42. Gli studi pubblicati in questa collezione sono opera di uomini le cui opinioni politiche si differenziano largamente. Essi furono scritti tra la seconda metà del 1921 e la prima metà del 1922. Nell'insieme, quindi, costituiscono una fonte di prim'ordine per le origini del movimento fascista. N. 3. 'Ordine nuovo,' 2 ottobre 1921; citato da A. TASCA, "Nascita e avvento del fascismo", Firenze, La Nuova Italia, 1950, pagine 153-54. N. 4. vedi cap. decimo, [pag. 182 del libro cartaceo]. N. 5. A. LABRIOLA, "Le due politiche: fascismo e riformismo", Napoli, A. Morano, 1924, pag. 164. N. 6. "Le Parti Socialiste Italien et l'Internationale Communiste", Éditions de l'Internationale Communiste, Pétrograd, 1921, pagine 25, 87; A. TASCA, "Nascita e avvento del fascismo", cit., pagine 121-122. Tasca era il rappresentante comunista di Torino presente alla riunione, ed è quindi un testimone di prima mano. Egli scrive: 'L'insurrezione armata è impossibile, perché non vi è niente di pronto. Le masse si sentono sicure dietro i muri dell'officina, non tanto per il loro armamento, spesso primordiale ed insufficiente, Quanto perché esse considerano le officine come pegni che il governo esiterà a distruggere a colpi di cannone per sloggiarne gli occupanti. Da questo atteggiamento 'difensivo' alla lotta aperta della strada, la differenza è grande, e gli operai lo sentono, più o meno confusamente. A Torino stessa, dove pure vi è un'avanguardia audace e meglio armata che altrove, i capi comunisti si astengono da ogni iniziativa in questo senso e frenano i gruppi che hanno preparato, alla Fiat, dei camion per una sortita' (pag. 121). N. 7. 'L'Italia ha corso rischio di crepare in quei giorni: la rivoluzione non si è fatta, non perché ci fosse chi le contrastava il passo, ma perché la Confederazione del lavoro non l'ha voluta.' 'Corriere della Sera,' 28 settembre 1920. N. 8. H. C. McLEAN, "Labor, Wages and Unemployment in Italy", United States Department of Commerce, Washington, 1925, pag. 3. N. 9. A. DAUZAT, "La crise sociale en Italie", in 'Revue Mondiale,' 15 decembre 1920. N. 10. Sulla crisi che viene definita 'occupazione delle fabbriche' abbiamo il resoconto del ministro del Lavoro, Labriola, al Senato, il 20 dicembre 1920 (A. LABRIOLA, "Le due politiche"..., cit., pagine 297-311), e due narrazioni particolareggiate: una pubblicata negli 'Studies and Reports' del'International Labor Office (Series A, number 11, Nov. 5, 1920); l'altra ad opera di una delle più intelligenti autorità nel campo della vita sociale ed economica italiana, RICCARDO BACHI ("L'Italia economica nel 1920", cit., pag. 347). Altri buoni resoconti in: E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pagine 254 seguenti.; A. BORGHI, "L'Italia tra due Crispi", cit., pagine 248-296; E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pagine 329-34; O. POR, "Fascism", London, Labour Publishing Co., 1923, pagine 66 seguenti.; C. BEALS, "Rome or Death: The Story of Fascism", London, John Long, 1923, pagine 35-38; P. H. BOX, "Three Masters Builders", London, Jarrolds, 1925, pagine 135-37. N. 11. A. LABRIOLA, "Le due politiche", cit., pagine 304-305. N. 12. Per questi delitti, nel marzo del 1922, undici persone furono condannate a pene varianti da uno a trent'anni di detenzione. N. 13. 'Survey Graphic,' New York, March 1927. N. 14. 'Popolo d'Italia,' 2 settembre 1920. N. 15. La notizia fu pubblicata dalla 'Giustizia,' quotidiano dei socialisti unitari, il 13 dicembre 1922. Fu riprodotta testualmente dal 'Corriere della Sera,' 11 maggio 1923,
nel corso di una polemica col 'Popolo d'Italia.' Mussolini non smentì. Nella primavera 1926, a Londra, Buozzi parlando con lo scrivente ne confermava la veridicità. Non è chiaro ciò che intendesse Mussolini minacciando di opporsi al governo bolscevico, dopo aver detto che poco gli importava che le fabbriche appartenessero ai datori di lavoro o agli operai. Probabilmente voleva tenere un piede in tutte e due le staffe. Se le cose andavano bene per gli operai, si sarebbe richiamato alla prima parte del suo discorso per dimostrare che lui era stato favorevole agli operai; se le cose con questi andavano male - come di fatto avvenne - poteva rivendicare il merito di essersi opposto al pericolo bolscevico. N. 16. 'Popolo d'Italia,' 28 settembre 1920. N. 17. Ibidem. N. 18. 'Popolo d'Italia,' 28 settembre 1920. N. 19. 'Il fallimento dell'esperimento ha avuto una notevolissima importanza storica; la classe operaia ha molto imparato lungo quelle settimane.' R. BACHI, "L'Italia economica nel 1920", cit., pag. 348. N. 20. A. TASCA, "Nascita e avvento del fascismo", cit., pagine 122-23. N. 21. Il fatto fu rivelato nel 1921 da G. DE FALCO, "Il fascismo milizia di classe" (nella collezione 'Il fascismo e i partiti politici italiani'), Bologna, Cappelli, 1921, pag. 26. Bonomi, che era ministro della Guerra nel 1920 nel gabinetto Giolitti, così spiegò il fatto: 'Nell'ottobre 1920 uno dei tanti uffici dello Stato Maggiore, senza interrogare né il capo dello Stato Maggiore né il ministro della Guerra, chiedeva informazioni sui primi fasci di combattimento, con una dizione che poteva ingenerare qualche equivoco circa l'apprezzamento di quei primi fasci, allora più dannunziani che mussoliniani. Un comandante dell'Italia Centrale - o meglio, come si assodò in seguito, un suo subalterno - interpretò quella richiesta di informazioni come un'adesione, e stilò e divulgò una circolare laudativa dei fasci, dirigendola ai comandi militari dipendenti e ai tre prefetti della regione. Il gabinetto dell'Interno, a cui la circolare pervenne, ne diede doverosa notizia al sottoscritto, allora ministro della Guerra, ed io concordai subito con il capo dello Stato Maggiore, generale Badoglio, e a sua firma, una esplicita circolare a tutti i comandi militari d'Italia per rilevare il grave errore in cui taluno era caduto e per riaffermare che l'esercito era e rimaneva estraneo alle competizioni di parte.' ('L'Azione, rassegna di cultura politica, sociale, letteraria,' Roma, 9 marzo 1924.) Gobetti replicava ('La Rivoluzione Liberale,' 18 marco 1924): 'Bonomi pretende da noi una scempiaggine esagerata.' Già nel 1919 esisteva tra le autorità militari un piano per organizzare una 'guardia bianca' contro i 'bolscevichi.' Nel dicembre 1919, due uomini che erano ritornati dalla guerra, un insegnante di Genova, e un dirigente delle ferrovie di Firenze, furono avvicinati dai loro ex-comandanti militari, che gli chiesero di raccogliere intorno a sé gruppi di 'guardie bianche,' alle quali le autorità militari avrebbero fornito armi e denari. Tutti e due rifiutarono. e' più che probabile che nel 1919 e 1920 un certo numero di gruppi fascisti siano stati organizzati in questo modo. Ma in questo periodo era presidente del Consiglio Nitti, gli ufficiali non ricevevano ordini del genere dal ministro della Guerra, e quindi non furono molti gli ufficiali che agirono di loro iniziativa. Solo quando a Nitti successe Giolitti, e dopo l'occupazione delle fabbriche, le alte autorità militari ebbero via libera per mettere in esecuzione il piano che avevano già pronto da un anno. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO DICIASSETTESIMO. N. 1. "The Red Dragon and the Black Shirts, How Italy Found Her Soul: the True (sic) Story of the Fascist Movement", London, Carmelite House, 1923, pag. 13. N. 2. 'Corriere della Sera,' 2, 3, 4 marzo 1922. N. 3. "The Awakening of Italy", cit., pagine 94-97. N. 4. Federazione italiana operai metallurgici. N. 5. R. BACHI, "L'Italia economica nel 1920", cit., pag. 347.
N. 6. R. BACHI, "L'Italia economica", 1919, pag. 106; 1920, pag. 119; 1921, pag. 100. NOTE AL CAPITOLO DICIOTTESIMO. N. 1. A. BALABANOFF, "My Life as a Rebel", cit., pag. 262. N. 2. Vedi Cap. quindicesimo, [pag. 247 del libro cartaceo]. N. 3. LENIN, "La maladie infantile du Communisme", Paris, Bibliotheque Communiste, 1920, pagine 78, 131 seguenti. N. 4. I documenti della controversia tra Serrati, da una parte, e Zinoviev e Lenin, dall'altra, si trovano raccolti nel volume "Le Parti Socialiste Italien et l'Internationale Communiste", cit. N. 5. A. BALABANOFF, "My Life as a Rebel", cit., pagine 265-266. N. 6. "Le Parti Socialiste Italien et l'Internationale Communiste", cit., pagine 14, 24, 28, 87. N. 7. U. GIUSTI, "Le correnti politiche italiane attraverso due riforme elettorali", cit., pagine 32-33. N. 8. "Avanti!",' 16 ottobre 1920. N. 9. Abbiamo avuto tale notizia da Guglielmo Ferrero, il quale la seppe da Olindo Malagodi, direttore del quotidiano romano 'La Tribuna,' e intimo di Giolitti. N. 10. Essi furono pubblicati per esteso dalla stampa del tempo. Noi ci siamo serviti dei resoconti del 'Corriere della Sera.' N. 11. Vedi Cap. terzo, [pagine 49-50 del libro cartaceo]. N. 12. 'Persino l'organo del fascismo, dopo avere agitato per due anni con la massima violenza la questione dalmatica, si piegò su se stesso, s'ammosciò, rinnegò la sua tesi, predicò la rassegnazione, abbandonò D'Annunzio.' A. TAMARO, "Il Trattato di Rapallo", in 'Politica,' VI, 246, novembre 1920. N. 13. 'Popolo d'Italia.' N. 14. Cit. trad. N. 15. 'Si arruolarono nei Fasci non solo perché non avevano educazione politica, ma anche perché volevano avere una parte in quello che stava accadendo, e non vedevano nessuna possibilità di realizzazione nelle loro speranze comuniste.' O. POR, "Fascism", cit., pag. 107. N. 16. L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", cit., pag. 37. N. 17. U. BANCHELLI, "Le memorie di un fascista", Firenze, Sassaiola Fiorentina, 1922. Questo libro è un documento tipico a mostrare la incredibile confusione morale e mentale creata in molti giovani generosi e intelligenti dalla propaganda caotica di uomini come D'Annunzio e Mussolini. N. 18. U. BANCHELLI, op. Cit., pagine 12, 15, 35. Luigi Villari così ebbe a scrivere ('Manchester Guardian,' 27 marzo 1926): "E neppure 'molti' dei capitalisti simpatizzarono con il fascismo; e in ogni modo essi non furono certo gli organizzatori del movimento." L'equivoco consiste precisamente nell'uso che si fa della parola "molti". E' assolutamente vero che non tutti i capitalisti, senza eccezioni, sussidiarono il fascismo. Quanto agli 'organizzatori del movimento,' vedremo nelle prossime pagine chi erano. NOTE AL CAPITOLO DICIANNOVESIMO. N. 1. O. POR, "Fascism", cit., pag. 106. N. 2. C. MALAPARTE, "Tecnica del colpo di stato", Milano, Bompiani, 1947, pag. 165. N. 3. L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", cit., pag. 55; E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pagine 357-360. N. 4. "Se la violenza socialista rasentò spesso il delitto e, qualche volta, lo sorpassò nelle barbarie inaudite delle rappresaglie, la nostra coscienza civile si rifugiava nel pensiero che le masse potevano, lentamente, essere educate, sollevate dalla cieca
crudeltà dell'istinto e dell'egoismo ottuso. Ma nessuna scusa, nessuna consolazione ci soccorre quando pensiamo alla violenza, premeditata ed armata, dei borghesi senza cuore, cui la superiorità illimitata dell'educazione, dell'istruzione, del censo, del costume, della vita, non impedì di uccidere, e, peggio ancora, di percuotere. (...) Se l'agguato dei leghisti è sempre infame, la spedizione punitiva, capitanata da giovani studenti o laureati, da giovani che hanno studiato nelle nostre università, che hanno letto Carducci e recitato, chissà quante volte, il 'Canto dell'amore', non è pensabile senza che una 'solitudine fredda si dilati nell'anima nostra." M. MISSIROLI, "Il fascismo e la crisi italiana", Bologna, Cappelli, 1921, pag. 36 (nella collezione 'Il fascismo e i partiti politici italiani'). Più tardi Missiroli divenne un seguace di Mussolini. N. 5. L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", cit., pagine 59-61. N. 6. E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pag. 369. N. 7. L. VILLARI, "The Awakening of Italy", cit. N. 8. Discorso al congresso dei sindacati fascisti, "Scritti e Discorsi", VI, 162. N. 9. B. GIULIANO, "L'esperienza politica dell'Italia", Firenze, Vallecchi, 1924, pagine 185-186. Secondo le parole di Rocco: 'Il fascismo à semplicemente del nazionalismo inconscio. Noi abbiamo una dottrina organica, e una concezione dello Stato completa. I fascisti hanno cuore e sentimenti patriottici. (...) Non si deve dare troppa importanza agli eccessi verbali del fascismo.' 'Idea Nazionale,' 27 maggio 1921 (cit. trad.). N. 10. P. PHILLIPS, "The Red Dragon and the Black Shirts", cit., pagine 11-13. N. 11. L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", cit., pagine 96-97. N. 12. Nella prefazione alla edizione americana dei discorsi di A. Rocco, "The Political Dottrine of Fascism", New York, Carnegie Endowment, 1926. Una descrizione piuttosto condensata ma oggettiva della vita italiana durante gli anni 1921-22, e che contiene molti particolari importanti, à in C. BEALS, "Rome or Death", cit., pagine 4560, 105-108, 131-141. N. 13. Deposizione di Galliano Gervasi durante il processo ad Arezzo, 'Corriere della Sera,' 17 ottobre 1924. N. 14. 'Corriere della Sera,' 13 dicembre 1924. N. 15. Nella narrazione dei fatti, abbiamo seguito la versione data dal 'Corriere della Sera,' 13, 19 e 20 aprile 1921. Non ci siamo serviti di giornali antifascisti, perché si sarebbero potuti sospettare di esagerazione, dati gli atroci particolari in essi riportati. N. 16. A prova di questo fatto, essenziale per comprendere le origini del fascismo, si potrebbero raccogliere molte testimonianze. Tra quelle più immediate, pubblicate nel 1921 e 1922, basti ricordare E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pagine 343-347; M. MISSIROLI, "Il fascismo e la crisi italiana", cit., pag. 14: L. FABBRI, "La controrivoluzione preventiva", cit., pag. 21; C. DEGLI OCCHI, "Che cosa ho pensato del fascismo quand'ero popolare", Bologna, Cappelli, 1923, pag. 21. Tra i testimoni che scrissero dopo la marcia su Roma, ne ricorderemo soltanto tre: 1) I padri gesuiti della 'Civiltà Cattolica' scrissero (24 gennaio 1924): 'Quando il pericolo fu maggiore, cioè nei due anni dopo l'armistizio, i fascisti erano appena nati (...) e quando finalmente i fascisti furono in grado di scendere in campo, il che avvenne (...) coll'anno 1921 e più propriamente con le elezioni politiche del maggio, il pericolo si poteva dire superato, per più ragioni. (...) Dopo di che (...) l'arrogarsi che i fascisti fanno di essere i salvatori d'Italia è quanto farsi belli delle penne altrui. Ciò che essi pretendono d'aver salvato, era già salvo!' 2) In modo più conciso, e penetrando più a fondo nel significato di quegli eventi, G. PREZZOLINI, ora professore alla Columbia University e collaboratore volontario della politica fascista in America, affermava nel 1925 ("Le fascisme", Paris, Bossard, 1925, pag. 236): 'Il fascismo fu piuttosto l'effetto che non la causa del dissolvimento del comunismo in Italia.' 3) Il senatore G. FORTUNATO, uomo superiore ad ogni sospetto di parzialità per nobiltà d'intelletto e di carattere, nel 1926 scrisse un "pamphlet", "Nel Regime Fascista", di cui i fascisti
proibirono la pubblicazione, ma di cui furono in circolazione copie clandestine: 'Già il pericolo di una rivolta dalla sinistra era stato superato, quando si sviluppò, rapidamente e inaspettatamente, l'attacco dalla destra, favorito dalla plutocrazia e dal militarismo' (cit. trad.). Anche lo scrittore inglese P. H. BOX, a cui si deve uno dei più penetranti studi sulle origini del fascismo, dice chiaramente che 'il comunismo rivoluzionario era già sconfitto dal buon senso del popolo italiano, prima che i fascisti trionfanti piombassero sulle sue forze scompaginate.' "(Three Masters Builders", cit., prefazione e pagine 18-19.) N. 17. Abbiamo ricostruito quei fatti con l'aiuto del 'Corriere della Sera,' 28 febbraio, 1, 2, 3, 4, 5 marzo 1921. Nel 1921, il 'Corriere della Sera,' era filofascista, deplorando soltanto gli eccessi più scandalosi, e richiamando il governo perché si svegliasse dalla sua inerzia e ristabilisse la pace pubblica. Il corrispondente fiorentino era apertamente in favore dei fascisti, e coloriva le sue corrispondenze sulla guerra civile in modo da mettere sempre gli antifascisti in una luce sfavorevole. Possiamo quindi essere sicuri, che basando la nostra narrazione sulle corrispondenze del 'Corriere' non si darà un peso eccessivo alle accuse contro i fascisti. N. 18. Il corrispondente del 'Corriere della Sera,' 28 febbraio 1921, parlando di questo 'stato di grande eccitazione' del carabiniere, aggiunge che l'uomo che non si era levato il cappello avrebbe detto: 'E' morto un carabiniere? Ce n'è uno di meno!,' e che il carabiniere sparò all'udire queste parole. Siamo in grado di smentire questo particolare, basandoci sulla versione di un insegnante, amico di chi scrive, che si trovava accanto all'uomo che venne ucciso. Tale insegnante, sebbene a quel tempo vedesse assai di buon occhio il movimento fascista, da uomo di onore, più tardi nello stesso giorno riferì all'autore che il ferroviere non pronunciò mai quelle parole. Si può, tuttavia, capire e persino scusare il carabiniere, per aver perduto il proprio controllo alla morte del compagno e al pensiero che, se uno non si levava il cappello, ciò significava disprezzo. N. 19. 'Corriere della Sera,' 1 marzo 1921. N. 20. Tali particolari vennero alla luce durante il processo alle Assise di Firenze nell'autunno 1922. N. 21. Tali particolari vennero alla luce durante il processo alle Assise di Firenze. N. 22. 'Corriere della Sera,' 1 luglio 1922. N. 23. A. BORGHI, "Errico Malatesta", cit., pag. 241. N. 23 bis. Dei tre uomini ritenuti responsabili per tale delitto, due vennero condannati all'ergastolo, uno a trent'anni; tre altre persone vennero condannate a dodici anni; molti altri a pene minori. N. 24. A. BORGHI, "Errico Malatesta", 2 ed., Milano, Istituto editoriale italiano, 1947, pag. 228. E' interessante quanto scrive Borghi, a proposito di Malatesta, di se stesso e degli altri prigionieri, in attesa in carcere, mentre continuava trionfante l'attacco fascista. 'Ad Errico sembrava incredibile quello che ci riusciva di leggere di straforo o che apprendevamo ai colloqui. Gli incendi di Bologna, le uccisioni di Firenze, i massacri un po' dappertutto, confrontati con lo sviluppo di forza che aveva dimostrato il proletariato solo pochi mesi innanzi, gli sembravano brutti scherzi della fantasia. Pensavamo che da un giorno all'altro avremmo avuto la lieta notizia dell'insurrezione generale' (pagine 221-222). La fonte di questa infondata speranza era sempre la stessa: quella di tutti i rivoluzionari in Italia e altrove, ieri, oggi e, ho paura, sempre: l'illusione che il proletariato sia una classe rivoluzionaria. N. 25. Al processo, che si celebrò nel luglio 1921, tutti gli imputati vennero assolti. NOTE AL CAPITOLO VENTESIMO. N. 1. E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pag. 364. N. 2. 'Popolo d'Italia.'
N. 3. Oltre a Mussolini, si possono contare molti testimoni. Ricorderemo R. BACHI, "L'Italia economica nel 1921", pagine 225, 330, 339; I. BONOMI, "Dal socialismo al fascismo", Roma, Formiggini, 1924, pag. 39. Winston Churchill, parlando a Dundee il 26 settembre 1921, annunciò al suo auditorio che l'Italia non era più minacciata dal 'bolscevismo.' Il 'Corriere della Sera,' e molti altri giornali del 27 settembre, riprodussero il giudizio di Churchill senza metterne in dubbio l'esattezza. Nel maggio 1922, il nazionalista B. GIULIANO, scrisse: 'Di fronte alla minaccia della rivoluzione, era naturale che la sua gesta controrivoluzionaria (del fascismo) sintetizzasse gli interessi di tutta la nazione. Ma è anche naturale che non sia più così oggi, quando si è allontanata la minaccia' ("L'esperienza politica dell'Italia", cit., pag. 191). Nel 'New York Times Book Reviews,' 6 febbraio 1927, Simon Strunsky faceva le seguenti affermazioni: 'Se l'Italia non avesse accettato il fascismo nell'ottobre 1922, essa sarebbe caduta in preda al bolscevismo. Questa è una affermazione comune, ma non è una affermazione completa. Il pubblico americano ha mostrato in modo sorprendente di essersi dimenticato di un fatto di estrema importanza: che il bolscevismo in Italia ha costituito una minaccia, che è stata sventata due anni prima che Mussolini andasse al governo. Può essere che nel 1922 si stesse preparando un'altra minaccia bolscevica, ma le cronache quotidiane del tempo non lo indicano, e lo straordinario episodio dell'occupazione e della resa delle fabbriche, nel settembre 1920, è un argomento a prima vista contro tale tesi. Che il popolo italiano si sia gettato nelle braccia del bolscevismo due anni prima e sia stato salvato dal suicidio per l'intervento fascista, è una congettura che si basa sulla fede più che su prove evidenti.' N. 4. U. BANCHELLI, "Le memorie di un fascista", cit., pag. 218; G. A. CHIURLO, "Storia della Rivoluzione Fascista", Firenze, Vallecchi, 1929, voll. 5, III, 459-466. N. 5. Non tutti i capi militari ebbero parte nella congiura. Badoglio, come capo di stato maggiore, aveva avuto all'inizio la sua parte nell'armare i fascisti, perché Giolitti e Bonomi avevano autorizzato la cosa. Nel febbraio 1921, si dimise. Egli non voleva mescolarsi con la politica. Il suo posto fu preso dal generale Vaccari, uno dei protetti del Duca d'Aosta. Altri generali si rifiutarono di avere una qualche parte in quell'imbroglio, ma non avendo istruzioni dalle autorità superiori, se ne rimasero spettatori passivi di quegli eventi. La maggioranza prese, più o meno apertamente, parte attiva nella sedizione. N.6. Citato da Gobetti, in 'La Rivoluzione Liberale,' 18 marzo 1924. N. 7. La lettera venne riprodotta nell''Avanti!,' 26 luglio 1924; confer anche A. TASCA, "Nascita e avvento del fascismo", cit., pag. 160. N. 8. E. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pag. 367. N. 9. Lo stesso Baldini raccontò a chi scrive della promessa fattagli da Bonomi. N. 10. Secondo il "Regolamento per il servizio territoriale", 8 luglio 1883 (Art. 30, par. 218), le autorità militari non possono prendere nessuna iniziativa nella repressione di disordini, se non siano state prima richieste dalla polizia. Ma l'appendice al regolamento, pubblicata nel 1899, e ancora in vigore nel 1922 (vedi l'edizione del 1922), stabiliva che era dovere delle autorità militari prendere le misure necessarie per la repressione, in caso di gravi disordini, anche se non ci sia stata nessuna precedente richiesta da parte della polizia. N. 11. Il 'Resto del Carlino,' 11 settembre 1921. N. 12. Ibidem. N. 13. 'Resto del Carlino,' 13 settembre 1921. N. 14. Va tenuto presente che il 'Giornale d'Italia' era favorevole ai fascisti, e protestò contro i 'resoconti esagerati' che furono messi in circolazione sugli incidenti di Ravenna. (Citazione parzialmente tradotta.) N. 15. Questa parte del racconto si deve intendere "cum grano salis". Nelle cronache di queste spedizioni che danno i giornali fascisti o filofascisti, gli scontri hanno sempre
inizio per uno sparo o una provocazione dei comunisti. In questo caso, è possibile che due comunisti siano scomparsi dopo avere sparato due volte contro i fascisti e senza ferire nessuno? Luigi Fabbri ("La controrivoluzione preventiva", cit., pagine 66-67) descrive i fatti come segue: 'Nella loro marcia militare i fascisti devastano, nell'andata, i circoli di Godo e San Michele Fornace. A Ravenna cominciano subito con le imposizioni di scoprirsi al passaggio dei gagliardetti; e bastonate ai recalcitranti! Fra i bastonati c'è anche qualche straniero venuto per l'occasione. La mattina del 12 settembre i fascisti irrompono in un'osteria e vogliono i documenti personali dei presenti. Uno, certo Colombo, scoperto con la tessera della Camera del lavoro, è investito con furore; fugge ed è inseguito coi bastoni levati. S'ode finalmente un colpo di rivoltella... Il pretesto è creato; e nel pomeriggio incominciano le spedizioni punitive.' Tra la versione fascista e quella antifascista, è possibile arrivare alla esatta verità. N. 16. 'Corriere della Sera,' 27 settembre 1921. N. 17. 'Popolo d'Italia,' 24 aprile 1923. N. 18. Verdetto della Commissione arbitrale della associazione giornalisti lombardi, febbraio 1920, nel 'Secolo,' 14 febbraio 1920. N. 19. 'Popolo d'Italia.' N. 20. 'Popolo d'Italia,' 18 novembre 1921. N. 21. B. MUSSOLINI, "La nuova politica dell'Italia", Milano, Alpes, 1925, pag. 18. N. 22. 'Popolo d'Italia,' 23 marzo 1929. N. 23. M. PANTALEONI, "Bolscevismo italiano", cit., pag. XXXI; G. A. CHIURCO, "Storia della Rivoluzione Fascista", cit., IV, 33. N. 24. G. ALESSIO, professore all'Università di Padova nella facoltà di legge e ministro della Giustizia dal giugno 1920 al giugno 1921, affermò pubblicamente nel 1925, senza che nessuno lo abbia mai smentito: 'Generali, malcontenti d'un assegno troppo poco rispondente alle loro reali benemerenze, inquadrarono le forze incomposte' ("Per una nuova democrazia, Relazioni e discorsi al primo Congresso dell'Unione nazionale", Roma, 1925, Società Italiana di Edizioni, pag. 89). NOTE AL CAPITOLO VENTUNESIMO. N. 1. Cit. trad. N. 2. Lettera di Grandi a Missiroli, pubblicata con facsimile ne 'Il Carroccio,' New York, gennaio 1928, pag. 12. Confer Cap. XVIII, pag. 538. Il 'Carroccio' era una rivista fascista. N. 3. 'Corriere della Sera,' 1 ottobre 1921. N. 4. A. MOWRER, "Immortal Italy", cit., pag. 367. N. 5. Salvemini introduce a questo punto la seguente frase: 'Nessuno può giurare che la causa d'Italia sia necessariamente legata alla sorte della monarchia, come pretendono i nazionalisti, o alle istituzioni della repubblica, come credono i repubblicani.' Ma essa fa parte di un articolo di Mussolini del giorno seguente ('Popolo d'Italia,' 26 maggio 1921). [N.d.C.] N. 6. 'Popolo d'Italia,' 25 maggio 1921. N. 7. Si veda l'articolo del luglio 1921 di M. PANTALEONI, dove si denuncia la degenerazione 'bolscevica' del fascismo ("Bolscevismo italiano", cit., pagine 214 seguenti). N. 8. 'Popolo d'Italia.' N. 9. 'Popolo d'Italia,' 24 luglio 1921. N. 10. C. BEALS, "Rome or Death", cit., pag. 64. N. 11. 'Popolo d'Italia.' N. 12. 'Popolo d'Italia.' N. 13 'Popolo d'Italia.' N. 14 'Idea Nazionale,' 27 novembre 1921.
N. 14 bis. G. VOLPE, "Lo sviluppo storico del fascismo", in "La Civiltà Fascista", Torino, U.T.E.T., 1928, pagine 12-14. N. 15. C. PELLIZZI, "Problemi e realtà del fascismo", cit., pag. 101. N. 16. C. YARROW, nella sua sfortunatamente ancora inedita Ph. D. dissertation, "Ideological Origins of Italian Fascism", Yale University, 1934, pag. 184. N. 17. B. GIULIANO, "L'esperienza politica dell'Italia", cit., pag. 307. N. 18. 'Popolo d'Italia,' 22 novembre 1921. N. 19. 'Il merito del fascismo è stato quello di affermare con una mirabile chiarezza teorica, l'esigenza della controrivoluzione nazionale (...) ed il merito del fascismo è stato quello di avere operato una tale rivoluzione salvatrice' (B. GIULIANO, "L'esperienza politica dell'Italia", cit., pag. 306). Nel 1932, nei suoi colloqui con Ludwig, Mussolini disse: 'Quella parola (rivoluzione permanente) fa un'impressione mistica sulla massa. Anche sugli spiriti superiori ha un effetto stimolante. Costituisce una eccezione nel tempo e dà all'uomo comune l'impressione di prender parte ad un movimento eccezionale' (E. LUDWIG, "Colloqui con Mussolini", Milano, Mondadori, 1932, pagine 106-107). N. 20. Cit. trad. N. 21. G. K. CHESTERTON, "The Resurrection of Rome", New York, Dodd, Mead & C., 1930, pagine 219 seguenti (Michael Collins, 1890-1922, fu uno dei leaders del nazionalismo irlandese. [N.d.C.I). N. 22. J. S. BARNES, "The Universal Aspects of Fascism", London, Williams and Norgate, Ltd., 1928, pagine 1415. NOTE AL CAPITOLO VENTIDUESIMO. N. 1. P. BOGGIANI, "I due anni dell'episcopato genovese del Card. Pio Boggiani: Atti pastorali", Acquapendente, Stabilimento Tip. Lemurio, 1922, pag. 137; confer 'Corriere della Sera,' 8 agosto 1920. N. 2. 'La Tribuna,' 26 settembre 1920. N. 3. 'La Tribuna,' 28 settembre 1920. N. 4. Dal n. 17 della 'Settimana Sociale,' quale lo riporta 'L'Osservatore Romano,' 2728 settembre 1920. N. 5. Intervista di Don Sturzo al 'Giornale d'Italia,' 3 novembre 1920; E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pag. 167. N. 6. M. VAUSSARD, "la crise du parti populaire italien", in 'Revue Bleue,' 18 giugno 1921, pagine 382-383; E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", cit., pagine 167-183. N. 7. 'Quei gruppi che si potrebbero chiamare di vecchi cattolici, entrati o non entrati nel partito popolare (...) seguirono con simpatica attesa, o anche con schietto compiacimento, l'azione fascista.' U. QUESTA, "Mussolini e la Chiesa", Roma, Casa Edit. Pinciana, 1936, pagine 63-64; l'autore era iscritto al partito fascista. N. 8. Giunta rispose alla lettera di Benedetto Quindicesimo, accusando che 'i preti slavi sono i più accaniti propagandisti contro l'Italia.' 'Nella stessa Trieste, e precisamente nella chiesa di S. Antonio dove si permette la predica in lingua slava, più di una volta i fascisti hanno dovuto intervenire perché si insultava l'Italia. In certe località i comunisti stanno alle dipendenze del prete, perché essendo slavi si trovano perfettamente d'accordo nel sabotare l'Italia. I fascisti della Venezia Giulia sono in rapporti di larga simpatia coi preti italiani, e in buona armonia con lo stesso partito popolare. Dirò anzi di più che il partito popolare di Trieste votò la lista nazionale cioè fascista mentre per l'Istria i fascisti chiesero la collaborazione dei popolari, che fu pienamente approvata anzi ordinata da Don Sturzo e non effettuata per errati punti di vista dai dirigenti del partito popolare istriano. Durante la lotta elettorale, i fascisti, è logico, si batterono con tutti i mezzi. All'insidia dei propagandisti slavi hanno opposto talvolta la violenza, ma si trattava di salvare la patria di Nazario Sauro dalla vergogna
di vedersi rappresentata dagli strangolatori del martire. Nel nome di Sauro i fascisti hanno lottato per l'Italia contro gli slavi, come nel nome di Cristo i crociati lottarono per la Palestina contro gli infedeli.' ('Popolo d'Italia,' 26 agosto 1921.) N. 9. 14 settembre 1921. N. 10. E. VERCESI, "Il movimento cattolico in Italia", pag. 210. N. 11. Cit. trad. N. 12. Cit. trad. N. 13. Dobbiamo questa notizia ad una fonte fidata, cioè a persona che aveva una posizione importante nel Banco di Roma, i cui direttori consigliarono la Santa Sede a compiere l'operazione. N. 14. C. LOISEAU, "Politique romaine et sentiment français", pagine 38-39. N. 15. L. EINAUDI, "La guerra e il sistema tributario", Bari, Laterza, 1927, pag. 368; G. E. CURATOLO, "La questione romana da Cavour a Mussolini", Roma, Libreria del Littorio, 1928, pag. 176. N. 16. Il ben noto giornalista francese PERTINAX (pseud. di André Géraud), nel 1929, sentì dire a Roma che il fratello di Pio Undicesimo era uno degli industriali che in Lombardia avevano foraggiato il fascismo prima della marcia su Roma ("Why the Pope chose to sign the Concordat". 'New York Times,' 31 marzo 1929). Tale notizia non appare nel suo libro "Le partage de Rome" (Paris, Grasset, 1929). Non sappiamo se tale omissione si debba al fatto che Pertinax si sia convinto che la voce era infondata, o se sia stato consigliato di non gettare una luce indiscreta su di un precedente assai significativo. N. 17. Lettera del marchese Cornaggia al 'Corriere della Sera,' 13 giugno 1922, e intervista al 'Popolo d'Italia,' 27 giugno 1922. N. 18. G. SALVEMINI, "Il partito popolare e la questione romana", Firenze, La Voce, 1922, pagine 45-48. N. 19. Nel volume di "Atti pastorali", cit. N. 20. Cit. trad. NOTE AL CAPITOLO VENTITREESIMO. N. 1. E' questa l'opinione di Don Luigi Sturzo ("Italy and Fascism", London, Faber and Gwyer, 1926, pag. 107). Come segretario generale del partito popolare, Don Sturzo era in grado di ottenere informazioni attendibili. La sua opinione trova una convalida nel fatto che, quattro settimane prima che lo sciopero venisse proclamato, chi scrive fu avvicinato da un suo amico, che era nell'esecutivo centrale del Sindacato ferrovieri, il quale gli chiese consiglio sul come votare in merito al proposto sciopero. Egli aveva notato che i più zelanti sostenitori dello sciopero erano uomini sospetti di essere spie della direzione delle ferrovie. Pensò che la direzione volesse lo sciopero per attirare i sindacalisti in una battaglia disastrosa, e quindi licenziare i capi più attivi tra i ferrovieri. Consigliato di votare contro lo sciopero, così fece. Quando venne proclamato lo sciopero, obbedì all'ordine. Fu licenziato, mentre molti di quelli che appoggiarono lo sciopero rimasero in servizio. N. 2. La nostra fonte è il 'Corriere della Sera.' Si deve rammentare che i corrispondenti del giornale erano favorevoli al fascismo, e tendevano a gettare sui suoi avversari la responsabilità per il primo atto provocatorio. Non possiamo rispondere né dell'accuratezza né della completezza dei particolari. Cerchiamo semplicemente di dare una certa idea dei fatti, quali essi apparvero non agli antifascisti, ma a coloro che favorivano il fascismo, anche se non approvavano i suoi eccessi. N. 3. BALBO, "Diario" 1922, Milano, Mondadori, 1922, pag. 103. N. 4. Ibidem. N. 5. Ibidem, pagine 109-110.
N. 6. Villari ("The Awakening of Italy", cit., pag. 153) fa apparire questo sciopero nato in una notte come un fungo, e poi dice: 'Dei tanti scioperi che avevano avuto luogo negli ultimi tre anni, nessuno era più assolutamente ingiustificato di questo.' N. 7. 'Corriere della Sera,' 1 agosto 1922. (Cit. trad.) N. 8. Comunicato della direzione del P.N.F., il 31 luglio 1922, 'Popolo d'Italia,' 1 agosto 1922. N. 9. AMMINISTRAZIONE DELLE FERROVIE DELLO STATO, 'Relazione per l'anno 192223', Roma, pag. 124. N. 10. Questo sciopero generale del 1-3 agosto 1922 è invocato di continuo dalla propaganda fascista come una prova che l'Italia era minacciata dal bolscevismo anche alla vigilia della marcia su Roma. Ad esempio, scrive L. VILLARI in 'The Times,' 27 agosto 1927: 'E' del tutto inesatta l'affermazione che il bolscevismo fosse finito un anno prima della Marcia su Roma. Il 1 agosto 1922, lo sciopero generale politico proclamato dai diversi partiti sovversivi alleati (!), se non fosse stato per la reazione fascista (?), avrebbe paralizzato la vita di tutto il paese, come tentarono di fare gli autori dello sciopero generale in Gran Bretagna, nel maggio 1926.' Lo sciopero generale inglese del maggio 1926 interessò cinque milioni di operai e durò nove giorni. Ciò che è 'del tutto inesatto' è di porre i due scioperi sullo stesso piano. N. 11. I. BALBO, 'Diario' 1922, cit., pagine 140 seguenti. Il piano venne reso pubblico dal giornale di Mussolini il 15 ottobre 1922. N. 12. 'Corriere d'Italia,' 20 settembre 1922. N. 13. Questi tre gruppi capitalistici, furono tra i primissimi a essere ricompensati dal nuovo governo fascista. Il nuovo gabinetto era stato appena creato, che il 31 ottobre la Confederazione generale dell'industria dichiarò che la classe industriale avrebbe appoggiato gli sforzi del governo per rafforzare 'il diritto di proprietà,' 'il dovere per tutti del lavoro,' 'la necessità della disciplina, la valorizzazione delle energie individuali, il sentimento della nazione, in cui si riconoscono l'importanza e l'influenza - al di sopra delle correnti parlamentari - delle classi che (. ..) preparano la rinascita economica dell'Italia' ('Corriere della Sera,' 31 ottobre 1922). Nella seduta alla Camera del 17 novembre 1922, il leader dei socialisti di destra, Turati, osservò: 'Nessuno potrebbe essere così analfabeta da non aver veduto lo strano parallelismo che esiste fra le deliberazioni dell'ultimo congresso delle organizzazioni industriali e le deliberazioni successive dei vari vostri consigli dei ministri.' - Un industriale deputato, Tofani: 'Non può essere che così.' - Turati: 'Questa è una ben autorevole conferma.' ('Atti Parlamentari'. Camera. Discussioni, Legislatura XXVI, 1a sessione, vol. IX, pag. 8432.) N. 14. 'Popolo d'Italia,' 5 ottobre 1922. N. 15. 'Popolo d'Italia,' 6 ottobre 1922. N. 16. 'Popolo d'Italia,' 8 ottobre 1922. Scrive BALDO ('Diario 1922', pagine 163164): 'Ricevo una lettera infiammata di De Bono e di De Vecchi che mi chiedono perché non li ho preavvisati degli avvenimenti dell'Alto Adige. Neppure io sapevo nulla. Ho appreso la notizia dai giornali. (...) Proprio questo manda in bestia De Bono. 'Così non si fa la guerra,' mi scrive, 'e neppure la rivoluzione.'' N. 17. 'The Awakening of Italy', cit., pagine 150-168. N. 18. G. VOLPE, 'Storia del movimento fascista, cit., pagine 73-75. N. 19. 'Diario 1922', cit., pag. 177. N. 20. Ibidem, pag. 178. N. 21. 'Diario 1922', cit., pag. 179. N. 22. Ibidem, pag. 185. N. 23. 'Giornale d'Italia,' 20 ottobre 1922; la circolare è in data 2 ottobre, ma venne pubblicata solo il giorno 20. N. 24. 'Pio XI e l'azione cattolica', 332-333 (cit. trad.).
NOTE AL CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO. N. 1. La notizia fu data dal segretario particolare di Mussolini, in una intervista al 'Popolo d'Italia,' 27 ottobre 1923. N. 2. 'Popolo d'Italia,' 31 ottobre 1923. N. 3. R. W. CHILD, 'A Diplomat Looks at Europe', New York, Duffield and Co., 1925, pag. 171. N. 4. I. BALBO, 'Diario 1922', cit., pag. 175. N. 5. Ibidem. N. 6. Ibidem, pagine 175-76. N. 7. Ibidem, pag. 176. N. 8. I. BALBO, 'Diario 1922', cit., pag. 196. N. 9. Ibidem, pag. 198. N. 10. Ibidem, pagine 199-200. Soleri, ministro della Guerra, non era popolare tra i berretti gallonati per il suo discorso alla Camera del 4 marzo 1919; vedi Cap. undicesimo, [pag. 198 del libro cartaceo]. N. 11. E. LUSSU, 'The Road to Exile', New York, Covici, Friede, 1936, pag. 51. N. 12. A. TASCA, 'Nascita e avvento del fascismo', cit., pagine 411 seguenti. N. 13. I. BALBO, 'Diario 1922', cit., pagine 154-55. N, 14. Parlando con Ludwig, alla domanda: 'Che cosa ne pensa Ella, che dei generali, come i quattro che parteciparono alla Marcia su Roma, siano venuti meno al loro giuramento e abbiano fatto la rivoluzione, per aderire ad una nuova impresa?,' Mussolini risponde: 'In certe crisi storiche ciò può accadere.' (E. LUDWIG, 'Colloqui con Mussolini', trad. ital. cit., pag. 95.) N. 15. Su questo fatto, A. TASCA ('Nascita e avvento del fascismo', cit., pagine 440444) ha raccolto prove lampanti da molte città. N. 16. C. MALAPARTE, 'Tecnica del colpo di stato', Milano, Bompiani, 1948, P. 161. N. 17. Tale racconto è stato fatto a chi scrive da un testimone oculare. N. 18. P.N.F., 'Pagine eroiche della rivoluzione fascista', Milano, Casa edit. Imperia del P.N.F., 1925, pag. 319 N. 19. L. PIERARD, 'Le Fascisme', Bruxelles, L'Eglantine, 1923, pag. 7; C. BEALS, 'Rome or Death', cit., pag. 290; racconti analoghi fece il giornalista spagnolo Rafael Sanchez Mazas, cit. in L. VICENTINI, 'Il governo fascista giudicato fuori d'Italia', Milano, Barion, 1924, pag. 43; e A. TASCA, 'Nascita e avvento del fascismo', cit., pag. 508, n. 288. N. 20. 'Non per niente il generale Diaz - e questo nome troppo ci richiama la politica messicana - nella notte del 27 era a Firenze.' (C BEALS, 'Rome or Death', cit., pag. 286). N. 21. C. SFORZA, 'I costruttori dell'Europa moderna', Paris, Editions Contemporaines, 1932, pagine 287-88. N. 22. Dobbiamo le informazioni sul comportamento del Re e di Facta a Giovanni Amendola, che nell'ottobre del 1922 era ministro degli Interni; e ad Alberto Cianca, che era a Roma il direttore responsabile del quotidiano 'Il Mondo,' ed era in continuo contatto con Amendola. La versione di Don Sturzo ('Italy and Fascism', cit., pag. 119) e quella di Sforza concordano con quella data dalle nostre fonti. A quel tempo Don Sturzo era a Roma, e veniva immediatamente a conoscenza di quanto succedeva. Sforza era a Parigi, ma discusse più tardi la cosa con Giolitti, che a sua volta era senza dubbio informato dagli amici fidati che aveva a Roma. N. 23. Cit. trad. N. 24. 'Cose viste', vol. I, Milano, Treves, 1973, pag. 265. N. 25. A. TASCA, 'Nascita e avvento del fascismo', cit., pagine 394, 433. NOTE: OSSERVAZIONI AL CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO. N. 1. Riprodotto dal 'Popolo d'Italia,' 1 novembre 1922.
N. N. N. N. N.
2. 3. 4. 5. 6.
'The Red Dragon and Black Shirts', cit., pagine 14, 15, 54-57. Ibidem, pagine 14, 54-55. L. VILLARI, 'The Awakening of Italy', cit., pag. 74. 'Star,' 6 aprile 1926. A. TASCA, 'Nascita e avvento del fascismo', cit., pagine 455 seguenti.
NOTE AL CAPITOLO VENTICINQUESIMO. N. 1. G. MATTEOTTI, 'Un anno di dominazione fascista', Roma, 1924. N. 2. Intervista di Brandimarte al 'Secolo,' 20 dicembre 1922. (Cit. trad.). N. 3. Mussolini il 12-13 gennaio nella seconda riunione del Gran Consiglio. N. 4. Cit. trad. N. 5. C. PELLIZZI, 'Problemi e realtà del fascismo', cit., pag. 121. N. 6. Prefazione a 'Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell'Era Fascista', Roma, Libreria del Littorio, 1927, pag. XI. N. 7. G. VoLPE, 'Lo sviluppo storico del fascismo', cit., pag. 22. N. 8. 'Popolo d'Italia,' 11 febbraio 1923. N. 9. 'Scritti e Discorsi', cit., III, pagine 81-82. N. 10. L. STURZO, 'Italy and Fascism,' cit., pagine 137-38. L. VILLARI ('The Awakening of Italy', cit., pag. 247) pone un velo discreto a coprire i metodi coi quali la riforma elettorale venne fatta passare alla Camera. Alludendo ai popolari, scrive: 'Il partito non era più compatto come una volta, e il governo continuava a godere l'appoggio del Vaticano, che naturalmente era l'arma più efficace.' N. 11. 'Il Popolo,' 11-12 luglio 1923. N. 12. 'La Stampa,' 11-12 luglio 1923. N. 13. La notizia di un incontro tra Gasparri e Mussolini fu resa nota da una lettera al 'Popolo di Roma,' 22-23 agosto 1929, scritta dal conte Santucci, che nel 1923 era il presidente del Banco di Roma. Secondo questa lettera, Gasparri e Mussolini si erano accordati soltanto sul fatto che era tempo che la questione romana venisse risolta. Ma nell'agosto 1929, Mussolini e Pio Undicesimo si trovavano in grave disaccordo per l'interpretazione dei Patti lateranensi, e Mussolini dette ordine ai giornali che pubblicavano la lettera di Santucci di aggiungere una nota in cui si diceva: 'A proposito del colloquio del quale dà notizia con questa sua lettera il sen. Santucci, siamo in grado di affermare che nel corso del medesimo si parlò della situazione del Banco di Roma.' L'agenzia ufficiale Stefani comunicò il giorno dopo a tutti i giornali il testo della lettera di Santucci con aggiunta la nota. Poiché era noto che i comunicati della Stefani venivano prima sottoposti all'approvazione del governo, era evidente che Mussolini aveva pubblicato quella nota per ricordare a Pio Undicesimo quella loro trattativa. Il cardinal Gasparri non osò pronunciare nessuna smentita. N. 14. R. Decreto-legge 24 gennaio 1924, n. 64. N. 15. G. GENTILE, 'Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche', Firenze, Vallecchi, 1925, pagine 50-51. N. 16. Articolo 3 della legge comunale e provinciale 4 febbraio 1915, che si richiama alla legge 31 marzo 1877, n. 3771. N. 17. A. ROCCO, "La trasformazione dello Stato", nel volume "Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione" (è il vol. XXVI della 'Rassegna italiana politica e letteraria'), Roma, 1930, pag. 10. N. 18. Nella prefazione a "Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell'Era Fascista", cit. N. 19 Cit. trad. NOTE AL CAPITOLO VENTISEIESIMO. N. 1. Art. 9, legge 24 dicembre 1925, n. 2263. N. 2. Art. 181, legge di P.S., T.U. 18 giugno 1931, n. 773.
N. 3. L. R. FRANCK, "L'économie corporative fasciste en dottrine et en fait", Paris, 1934, pagine 50-51. N. 4. Cit. trad. N. 5. "Scritti e Discorsi", cit., VIII, 270. NOTE AL CAPITOLO VENTISETTESIMO. N. 1. Lo stato italiano si obbligava a versare la somma di lire italiane 750 milioni, ed a consegnare tanto consolidato italiano al cinque per cento al portatore per il valore nominale di un miliardo. [N.d.C.] N. 2. "Religione e filosofia nelle scuole medie", 'La Civiltà Cattolica,' 1 giugno 1929, pagine 414-427. N. 3. Articolo 34. N. 4. Trattato fra la Santa Sede e l'Italia, art. 23. N. 5. Articolo 1. N. 6. Concordato, art. 1. N. 7. Cit. trad. N. 8. G. LA PIANA, "The political heritage of Pius XII", in 'Foreign Affairs,' aprile 1940. N. 9. Cit. trad. N. 10. Cit. trad.