INTRODUZIONE di Maria Antonietta Fugazzola Delpino e Luigi Fozzati
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INTRODUZIONE di Maria Antonietta Fugazzola Delpino e Luigi Fozzati
Continua la pubblicazione dei testi delle conferenze di archeologia subacquea (III, IV e V ciclo delle “Lezioni Fabio Faccenna”): ci auguriamo che questo appuntamento dedicato all’archeologia subacquea contribuisca a far si che non solo gli specialisti ma anche il grande pubblico possano accedere ad informazioni tecniche precise, sintetiche e aggiornate. Con la pubblicazione dei vari contributi – di argomenti molto diversi l’uno dall’altro – vorremmo dare una sintesi delle novità relative all’archeologia subacquea internazionale, una sintesi estremamente stringata ma abbastanza completa ed in linea con l’evoluzione della disciplina. Il nostro impegno intende proseguire su questa strada, completando regione per regione anzitutto il panorama italiano e quindi se possibile quello europeo: la conoscenza delle varie problematiche – anche dal punto di vista della tutela e della valorizzazione del patrimonio archeologico subacqueo – potrà contribuire all’evoluzione dello scenario istituzionale italiano, ancora privo di una tradizione di lunga durata in questo settore della ricerca, della conservazione e della fruizione. Alla ribalta dell’archeologia subacquea italiana si sono affacciate nuove leve naturalmente desiderose di apprendere e mettere in pratica: anche a loro sono indirizzate queste pubblicazioni a più temi, che, spaziando su più campi, potrebbero aiutarli a scegliere una delle specializzazioni relative all’archeologia subacquea a loro più congeniali. Nel corso dei cicli sinora svolti è stato ottenuto anche l’obiettivo di far incontrare i colleghi archeologi che operano a vario titolo in acqua con un pubblico molto eterogeneo, con i volontari, con i docenti e gli allievi della scuola secondaria, con i giovani universitari e con persone interessate alla materia: alla fine delle “lezioni” il dibattito è sempre così vivo che a fatica si riesce a far uscire dalla sala conferenze il pubblico prima della chiusura notturna del Museo. I nostri incontri mensili nelle more della pubblicazione di questo volume sono continuati (è iniziato il VII ciclo, 2003-2004): speriamo di poter in tempi brevi dare alle stampe anche queste nuove conferenze.
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA NELLA PUGLIA MERIDIONALE di Rita Auriemma
La storia della ricerca archeologica subacquea nella Puglia meridionale è una storia singolare, con un andamento singhiozzante, altalenante, di cui vale forse la pena ricordare brevemente i punti salienti. In primo luogo, l’esordio, con Gianni Roghi, uno dei ‘padri fondatori’ del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, valente collaboratore del Lamboglia, che nel 1959 tentò di rintracciare nelle acque di Ugento, nell’area delle temibili Secche, i relitti delle navi della flotta di Pirro. Le prospezioni non diedero i risultati sperati: vennero individuati ‘unicamente’, a poca profondità, due giacimenti di anfore. L’intento di ricerca sistematica non ebbe seguito, nonostante segnalazioni e rinvenimenti, anche recentissimi, attestino la necessità di un progetto finalizzato a quell’area, particolarmente ricca di testimonianze relative ad età tardoantica e medievale. In secondo luogo, l’impegno, negli anni ‘60, di forze locali e di prestigiose istituzioni straniere. Tra le prime ricordo Raffaele Congedo, autore di una preziosa serie di recuperi e segnalazioni, e con Adiuto Putignani di una prima redazione di Forma Maris del Salento, nel 1964; Benita Sciarra, che riuscì a coinvolgere giovani e meno giovani subacquei locali – la cui eredità è stata raccolta dal Gruppo Ricerche Archeologiche Subacquee «N. Lamboglia» di Brindisi – e personalità scientifiche straniere, come Gerard Kapitän. A quest’impegno non fu sempre data adeguata risposta: un progetto di Mario Bernardini, direttore del Museo di Lecce, dei primi anni ‘60 di istituire nel Museo una sezione di ricerche subacquee, al fine di coordinare e indirizzare, con l’eventuale supervisione di N. Lamboglia, le iniziative dei subacquei salentini e avviare la stesura di una Carta Archeologica Subacquea, non ebbe seguito per il disinteresse della Soprintendenza Archeologica, che non diede risposta neppure alla successiva
1. - S. Pietro in Bevagna (Ta): il relitto di navis lapidaria con carico di sarcofagi.
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2. - (a sinistra) Lecce, Museo Provinciale: anfora Lamb.2 dal relitto di Porto Badisco. 3. - Relitto di Porto Badisco (Le): ancora di ferro in situ.
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richiesta del Bernardini di effettuare piccoli recuperi, mentre concesse ogni permesso a istituzioni straniere per le ricerche subacquee nel Tarantino. La novità nella proposta del Bernardini era nella richiesta di un «piano organico», di una «direttiva precisa» e del «controllo della competente autorità governativa», poiché «queste ricerche non possono essere eseguite a vanvera, saltando da un posto all’altro, a seconda dell’estro, alla pura e semplice ricerca del pezzo da recuperare...». Parole datate oltre quarant’anni, ma di grande attualità… Istituzioni come la British School e l’Università di Pennsylvania, nelle persone di P. Throckmorton, J. Bullitt e J.B.Ward Perkins, svolsero importanti indagini su relitti dello Ionio già segnalati, e altri ne individuarono, nel corso di ampie prospezioni (fig. 1). Ricordo, ancora, i tentativi di una programmazione e di una formalizzazione dell’attività subacquea negli anni ‘70: la creazione, nel 1971, di una sezione tarantina ed una salentina del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina; la sistematizzazione della raccolta di materiale archeologico da recupero subacqueo; la pianificazione di una serie di interventi mirati: da N. Lamboglia fu diretto lo scavo del relitto di Porto Badisco negli anni 1971-1972 (figg. 23); nel 1973 vennero avviate le indagini nell’insenatura di Torre S. Sabina, continuate per un decennio in maniera sistematica e successivamente affidate alla dedizione del G.R.A.S. di Brindisi; nel 1979 si realizzò una campagna di prospezioni e rilievi ad Egnazia e una serie di controlli in vari punti del Brindisino. Non vanno omessi gli «ultimi fuochi» e i grandi fallimenti degli anni ‘80; il 1982 segna una ripresa delle attività nel Brindisino: viene scavato il relitto medievale di Canale Pigonati e, nell’ambito di una mostra sul «Mare di Egnazia», vengono rivisti ed integrati i preziosi e comunque imprescindibili lavori di Diceglie. Sempre ai primi anni ‘80 risale lo scavo del relitto di S. Caterina di Nardò, oggetto di un provvedimento di custodia giudiziale emesso dal pretore di Nardò (figg. 4-5): le tristi vicende di questo giacimento, che ho ripercorso in una nota apparsa sull’ Archeologo Subacqueo, comprendono anche
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Archeologia subacquea nella Puglia meridionale
5. - Relitto di S. Caterina di Nardò (Le): pulizia delle anfore a bordo della motonave “Enea” (a destra Fabio Faccenna).
4. - Relitto di S. Caterina di Nardò (Le): il cumulo di anfore di tipo grecoitalico recente.
progetti miliardari – peraltro finanziati – mai andati in porto… Sono gli anni dei ‘buoni propositi’, nessuno dei quali portati al successo, a partire dal progetto di una Carta Archeologica dei mari italiani, «preciso impegno del ministro per la marina mercantile», su proposta della decima Commissione parlamentare; una sezione importante doveva essere costituita dalla carta del Salento, da redigere integrando i primi studi del Congedo; lo sviluppo di una collaborazione con l’Albania, che oggi sembra non interessare più a nessuno, tantomeno agli albanesi, i quali lasciano il loro immenso patrimonio archeologico sommerso alla mercé dei subacquei clandestini. Infine, l’episodicità degli anni ‘90: la ricerca si è limitata a interventi isolati, sempre casuali, cedendo le consegne alla buona volontà di qualche privato e, purtroppo, anche all’interessata attività dei clandestini. Il ‘silenzio’ operativo degli ultimi anni è stato vivacemente rotto dal risalto dato al rinvenimento e allo scavo dei bronzi di Punta del Serrone, nell’estate del 1992 (fig. 6); due anni dopo si è tentato, senza i risultati sperati, di realizzare uno scoop analogo a Leuca, dove erano stati individuati altri frammenti bronzei sempre pertinenti statue In quella fase di ‘stallo’, un piano di lavoro fu formulato all’interno dell’ Unità Operativa 2 del progetto Strategico 251100 C.N.R. - Dipartimento Beni Culturali dell’Università di Lecce, diretta da Cosimo Pagliara, il cui tema di ricerca era - ed è - la fascia costiera dell’Adriatico meridionale e le forme dell’insediamento antico ivi presenti.
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L’intento era appunto di mettere a fuoco i modi e le fasi della frequentazione della fascia costiera salentina, ovviamente partendo dall’analisi dei siti, e ponendo l’archeologia subacquea al servizio della ricostruzione storico-topografica. Evidentemente ciò implicava un approfondimento delle dinamiche evolutive geomorfologiche, imprescindibili nello studio di un territorio costiero come quello salentino. Nel corso di questi anni – circa un decennio – si è lavorato sui singoli siti o su tratti di costa, con campagne di scavo a terra e campagne di prospezioni e rilievi sia a terra che a mare. In parallelo veniva elaborata la Carta Archeologica Subacquea del Salento, supportata da un archivio informa6. - Relitto di Punta del Serrone (Br): la testa della statua in bronzo identificata con L. Emilio Paolo.
7. - Carta del Salento con la tipologia dei siti costieri di interesse archeologico.
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Archeologia subacquea nella Puglia meridionale
8. - Egnazia (Br): la pila finale del presunto “molo” nord, prospetto est. Si notino i negativi dei cubilia della cortina in opus reticulatum.
tizzato in cui sono confluiti i dati delle indagini e quelli della recensione dei materiali conservati presso Musei, depositi, collezione private del territorio. È stata questa la base che ha permesso di formulare un primo quadro tipologico dei siti: vorrei richiamare qui i più ‘parlanti’, per tentare di esemplificare alcune problematiche insite nel fenomeno insediativo di questa regione (fig. 7). Tra i «porti con attività mercantili e/o militari», cioè bacini più o meno attrezzati con infrastrutture, nell’accezione più completa del termine romano portus, figurano sicuramente Brindisi e Otranto, le cui opere portuali non sono però più rintracciabili, obliterate o distrutte da quelle moderne (si pensi alle fauces del porto di Brindisi, prolungate da Cesare) ma anche Egnazia e S. Cataldo, porto di Lupiae (odierna Lecce). Uno degli interventi a mare ha interessato la costa di Egnazia. Il sito era stato già oggetto di studio da parte di S. Diceglie, con fotografie aeree, ecoscandagli e radar, e alcune prospezioni e primi rilievi erano stati effettuati nel ‘79, come si è detto, e nel ‘94. La necessità di una documentazione completa e puntuale e di controlli e verifiche di presunti markers geomorfologici scaturiva dal riacceso dibattito circa la tipologia edilizia, la tecnica costruttiva, addirittura la natura e la funzione delle evidenze sommerse nell’insenatura settentrionale di Egnazia. L’ultimo intervento di documentazione conferma ulteriormente che si tratta di opere subacquee, concepite e realizzate sotto il livello del mare; i sistemi, le tecniche e i materiali costruttivi mostrano una perfetta aderenza al testo vitruviano, e trovano confronti puntuali in esempi ben noti, ormai, della costa tirrenica. Si sono riscontrate almeno due tipologie edilizie, l’opera a piloni e l’opera a fondazione continua , e due tecniche costruttive: la gettata di cementizio entro cassaforma stagnata, e quella entro cassaforma inondata, con ‘ossatura’ lignea. Rimangono l’attacco e i due plinti finali del c.d. ‘molo’ nord, insieme a tracce degli altri. Degna di nota la pila finale del molo di maestra, con la cortina in opus reticulatum, sicuramente costruita in doppia cassaforma stagna (fig. 8). Opera a segmenti progressivi accostati è la parte terminale del molo est, realizzata con cementizio pozzolanico in cassaforma inondata; appare fessurata in corrispondenza dei vuoti lasciati dagli elementi scomparsi dell’armatura lignea (figg. 9-10). Estremamente interessanti i manufatti ferrosi concrezionati,
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9. - Egnazia (Br): planimetria e sezione del molo sud-orientale.
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rinvenuti nei fori dei montanti perimetrali dell’originaria struttura lignea, manufatti che ne assicuravano l’ancoraggio al fondale roccioso. La stessa tecnica edilizia, con pilae in gettate successive di cementizio entro cassaforma stagna, ricorre nella zona flegrea, a Ponza e in altri siti della costa centrotirrenica, e rimanda ad età augustea. Il molo sud-orientale, per la tipologia edilizia e la peculiarità dell’ancoraggio della cassaforma su un fondale roccioso (e non, come al solito, sabbioso), ha un ‘gemello’ nel molo di S. Marco di Castellabate. Entrerebbe in gioco la figura di M. Vipsanio Agrippa, patrono del municipium di Egnazia: l’ipotesi che a questo illustre personaggio si debbano miglioramenti urbanistici, tra cui la costruzione della basilica e soprattutto la sistemazione del porto, non è inverosimile, considerata la posizione strategica della città e di tutta la costa salentina nel corso della guerra tra Ottaviano e Antonio. Il materiale fittile interessa soprattutto l’area portuale: l’orizzonte cronologico della ceramica frammentaria recuperata va da età ellenistica ad età tardoantica. Anche per S. Cataldo, porto di Lupiae, noto dalle fonti per uno sbarco di Ottaviano, la ricerca ha fornito ulteriori elementi; erano già ben noti, anche perché tuttora parzialmente visibili, i resti del molo romano attribuito da Pausania ad Adriano, in prossimità dell’attuale faro, sul fianco nord dell’ampia insenatura sabbiosa; l’imponente struttura mostra pareti esterne in grandi blocchi di pietra leccese e nucleo in ‘cementizio’ attraversato da ‘catene’ di blocchi analoghi a quelli in faccia vista (fig. 11). Una parte della struttura è sommersa, ma ben
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10. - (in alto, a sinistra) Egnazia (Br): l’estremità meridionale del molo di SE. 11. - (in basso, a sinistra) S. Cataldo (Le): il molo. 12. - (a destra) S. Cataldo (Le): le “vasche” in loc. S. Giovanni.
leggibile nelle foto aeree. Altri resti sono stati segnalati nel corso degli anni e talvolta recuperati: dalla battigia o dal mare provengono colonne in marmo, più o meno frammentarie, e dai fondali numerosi ed eterogenei frammenti fittili. Indagini condotte da Francesco Esposito e Giuseppe Ceraudo hanno invece interessato il tratto a meridione della baia, in località S. Giovanni, distante due chilometri dal molo adrianeo: si sono individuate sulla battigia strutture murarie di età tardorepubblicana e altoimperiale ed una serie di escavazioni prive di contesto, da identificarsi con vasche per la produzione del sale, attività praticata nell’area anche in tempi recenti (fig. 12). Nel tratto di mare prospiciente, in prossimità della costa e quindi a bassissima profondità, sono apparsi allineamenti di blocchi ed una struttura a più ambienti ricavata nell’ affioramento del banco roccioso. Entrambi i complessi sono stati riferiti in via ipotetica ad un grande e diversificato impianto di itticultura, ma non è escluso che possano essere stati realizzati ‘all’asciutto’ e indiziare, quindi, un innalzamento del livello del mare, per il quale abbiamo diversi indicatori geologici e archeologici; un livello del mare più basso dell’attuale di uno o due metri non contrasterebbe, peraltro, con l’attribuzione dei filari di blocchi a vivaria, mentre la escluderebbe totalmente per l’opera tagliata nella roccia: il fondo degli ambienti è oggi a - 1, 1.5 m. Strutture murarie analoghe alle prime, semisommerse, sono recentemente apparse ancora più a sud, al margine meridionale della zona umida delle Cesine, e, purtroppo, nuovamente ‘inghiottite’ dalla spiaggia a causa di opere pseudoambientali di ripascimento del litorale. Alcune, se non tutte queste evidenze del tratto di costa meridionale di S. Cataldo potrebbero essere, quindi, riferiti ad una prima fase – tardorepubblicana e altoimperiale – di edificazione di impianti che gravitavano sull’area portuale, e raccordarsi così alla nuova cronologia della Lupiae romana. Le più recenti indagini, coordinate da Liliana Giardino, pongono l’impianto della città romana con i suoi edifici pubblici, già in età augustea. E’ ragionevole pensare che assieme alla città, anche lo scalo conosca un primo potenziamento in questa fase, anche in funzione del territorio,
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13. - Torre S. Gregorio (Le): strutture in prossimità della riva.
14. - Torre S. Gregorio (Le): foto aerea. Si noti l’ingombro dell’antemurale all’ingresso della baia.
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mentre è solo nel II secolo che diviene òrmos cheiropòietos, vero e proprio porto artificiale, per usare le parole di Pausania. La presenza di infrastrutture di servizio, per quanto limitate, caratterizza anche l’approdo di Torre S. Gregorio, dove è stato condotto un altro intervento mirato di prospezioni e rilievi. Oltre Leuca, ben nota anche per il santuario ‘emporico’ di Grotta Porcinara, anche la cala di S. Gregorio fu scalo del centro interno di Veretum; protetta dai venti, fornita di sorgenti, fu sicuramente frequentata anche prima dell’età ellenistica. Da semplice ancoraggio fu trasformato in approdo attrezzato in età tardorepubblicana, età alla quale sono ben datate, da monete della zecca di Durazzo, le strutture in prossimità della riva (fig. 13), ma anche i materiali restituiti dai fondali dell’insenatura e l’antemurale all’ingresso della baia, leggibile nella foto aerea (fig. 14). L’aspetto attuale è quello di un aggere con profilo interno a scarpa, costituito da pietrame locale probabilmente da cava, largo, nella parte più conservata, oltre 50 m, e lungo 80 m ca. Ha in pianta forma ovoidale, con i margini piuttosto irregolari. Soprattutto il fianco esterno risulta disgregato dall’azione del moto ondoso, mentre quello interno è piuttosto ben conservato e mantiene un notevole grado di inclinazione. Le prospezioni subacquee hanno, in primo luogo, permesso di verificare l’unitarietà del programma di realizzazione delle opere portuali, collocabile in pieno II secolo a.C., quando i con-
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Archeologia subacquea nella Puglia meridionale
15. - Torre S. Sabina (Br): scavo dei materiali pertinenti il presunto relitto tardorepubblicano.
16. - Torre dell’Orso (Le): l’insenatura.
tatti tra le città del Salento e quelli dell’opposta sponda adriatica, già avviati nel corso del III secolo, si fanno più intensi, specie tra i due importanti terminali: Brindisi e Durazzo. Vengono a godere dell’incremento di traffici e scambi anche i centri minori, sia dell’Epiro che del Salento, che dispongono di scali e possono così assorbire parte del movimento di merci e persone. Grazie alle stesse ricognizioni, inoltre, si è potuto conoscere, con il recupero di altro materiale, una fase ulteriore di frequentazione dell’approdo, in età tardoantica. Torre S. Gregorio afferisce comunque alla categoria degli approdi legati a centro interno e/o di servizio a un territorio. Tra questi, particolarmente interessante è quello di Torre S. Sabina, la cui funzione di scalo lungo la rotta di cabotaggio e di terminale di rotte transadriatiche è accertata dalla ricchissima documentazione subacquea; certamente rappresentò il polo litoraneo della messapica Karbina, ma il materiale fittile restituito dai fondali dell’insenatura attesta un ventaglio di frequentazioni molto più ampio, da età micenea a età medievale. Il fondale, soprattutto nella metà settentrionale, ha restituito e restituisce tuttora materiale eterogeneo sia per la provenienza, sia per le fabbriche, sia, soprattutto, per la cronologia: dalla ceramica micenea (LH III) alla classe microasiatica Late Roman C, di età tardoantica. La relazione tra alcune produzioni ed i relitti - almeno tre - individuati nella baia non è ancora pienamente chiara. Si sono notate concentrazioni di materiali più omogenei, non riferibili necessariamente a resti lignei: i materiali di età arcaica, d’importazione, sembrano essere il risultato di scarichi di imbarcazioni ormeggiate soprattutto lungo il costone nordoccidentale dell’insenatura; sempre in questa fascia sono state recuperate numerosissime coppe ellenistiche a rilievo, che costituiscono il più importante deposito in Italia di questa classe ceramica; più al largo e in corrispondenza del taglio della scogliera sommersa sono state individuate concentrazioni di materiale anforario, in un caso tardorepubblicano (fig. 15). Degni di nota anche i segni, sommersi e non, di un’intensa attività di cava. Sull’approdo gravitano, in età imperiale e tardoantica, gli insediamenti del retroterra, ubicati lungo la via Traiana. Scalo di una rotta di cabotaggio, ma con tutta probabilità terminale di peleggi transadriatici (la ‘rotta mediana’ di attraversamento del Canale) è sicuramente la splendida baia di Torre dell’Orso, che si classifica come approdo legato a luogo/luoghi di culto (fig. 16). La ricchissima documentazione subacquea attesta una frequentazione da età arcaica ad età tar-
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doantica e persino medievale; le aree di frammenti fittili coincidenti con la secca delle Monache, a nord, e la secca della Balena, a sud, hanno restituito materiale eterogeneo sia per produzione sia per cronologia. Tale documentazione ha ulteriormente messo in evidenza il nesso tra l’insediamento di Roca, poco più a nord, e la baia di Torre dell’Orso: esiste una piena rispondenza tra le fasi di occupazione del primo sito e quelle messe in luce anche dall’esplorazione subacquea dei ridossi dell’insenatura, che in antico presentava sicuramente i connotati dell’ approdo, essendo molto più profonda e solcata da un piccolo corso d’acqua. Le ragioni della frequentazione sono sicuramente cultuali: luoghi sacri erano a Roca (Grotta Poesia) e su entrambi i fianchi della baia. La grotta santuario meridionale vive da età arcaica ad età medievale, come attestano i materiali rinvenuti sulla terrazza antistante ed il repertorio epigrafico della grotta stessa, compreso tra il I a.C. e il XIII sec. d.C.: si tratta di iscrizioni greche, latine e cristiane contenenti la richiesta al dio o agli dei della grotta di buona navigazione, in particolar modo per la nave, sulla rotta nell’attraversamento dell’os vadi. La connotazione sacrale del sito viene ereditata, nel IV sec. d.C., dalla chiesa cristiana non a caso intitolata a S. Cristoforo, il ‘traghettatore’, che sussiste, sembra senza soluzione di continuità, fino ad età medievale e la cui frequentazione è, ancora una volta, attestata dai rinvenimenti subacquei. Tra gli approdi sussidiari o ancoraggi figurano Torre S. Stefano e Porto Badisco, rispettivamente a nord e a sud di Otranto. Entrambi forse rappresentarono, in particolari momenti ed in particolari condizioni di mare, approdi sussidiari di Otranto, considerata anche la vicinanza con il porto principale. Entrambi sono casi emblematici dell’apporto dell’indagine subacquea: le tracce a terra sono state completamente o quasi obliterate (Torre S. Stefano è sede di un Club Mediterranée e a Porto Badisco l’esigua area che si è sottratta all’edificazione reca unicamente i segni di un’occupazione protostorica) e solo le evidenze sommerse ci permettono di ricostruire o congetturare aspetto e funzione di questi siti. Per Badisco, in particolare, i materiali recuperati nelle ricognizioni suggeriscono una frequentazione da età arcaica sino al Medioevo. Si sono individuati i punti corrispondenti agli ancoraggi antichi, in particolar modo lungo il costone meridionale, dove tuttora vengono ormeggiate le barche. Più eloquenti sono le fasi ellenistica e tardorepubblicana, e quelle tardoantica e medievale: ciò corrisponde pienamente alla serie di insediamenti ubicati lungo il canalone di Badisco, che continua in direzione di Uggiano, via di penetrazione dall’approdo nell’entroterra. Come si è accennato, necessario supporto a questo lavoro di analisi prima e sintesi poi è stata la Carta Archeologica Subacquea. In essa sono confluiti e confluiscono il censimento delle notizie fino ad oggi edite o comunque note, sottoposte però a verifica e studio, la schedatura dei reperti provenienti da recupero subacqueo conservati nei Musei, depositi e nelle collezioni locali, sia pubbliche che private, ed infine la serie delle nuove evidenze venute alla luce nel programma di sopralluoghi mirati su segnalazione e di prospezioni subac20
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Archeologia subacquea nella Puglia meridionale
quee di tratti di costa. L’insieme dei dati così assunti, sotto forma di schede di relitti o presunti relitti (SR) e rinvenimenti isolati e/o decontestualizzati (SRI), è stato inserito in un archivio informatizzato, formulato per una catalogazione in costante incremento e aggiornamento, ed una ricerca comunque agile dell’informazione. Il ricco repertorio di materiali recuperati e di giacimenti ha offerto talora l’opportunità di confermare, o puntualizzare, o integrare il quadro dei modelli produttivi, della circolazione dei beni, dei flussi d’importazione ed esportazione, delle presenze e assenze nella Puglia meridionale da età antica a età medievale. Alcuni fenomeni si qualificano come prioritari e possono essere brevemente segnalati. L’ingente produzione ed esportazione di vino e olio apulo trova pieno riscontro nella quantità dei rinvenimenti relativi alle produzioni adriatiche della tarda repubblica: sono massicciamente rappresentate le anfore Lamb.2, Dr.6A e l’eterogenea famiglia delle ‘ovoidali adriatiche’, in cui inseriamo le anfore delle fornaci salentine (e non più solo brindisine, come attestano le scoperte anche nella provincia di Lecce). Quella breve pagina di storia dell’economia antica rappresentata dal commercio di vino di largo consumo con navi cisterne, le navi con dolia, si è arricchita di una nuova rotta, quella ionico-adriatica, che forse puntava ad Oriente, dove peraltro suggestive tracce di questo commercio erano già state individuate all’inizio di vie carovaniere. Dolia riferibili all’armamento di imbarcazioni si sono rinvenuti all’altezza di Torre S. Giovanni e di Gallipoli nello Ionio, tra Otranto e Leuca e al largo di Monopoli nell’Adriatico, ecc. Non è escluso, d’altra parte, che un possibile terminale della rotta adriatica potesse essere Aquileia. Queste piccole e robuste imbarcazioni potevano percorrere vie fluviali, come attestano recenti rinvenimenti lungo il corso della Garonna e una produzione a Lione di anfore vinarie (altrimenti inspiegabile, poiché il territorio lugdunense non è vinicolo) dove questo vino veniva travasato….D’altronde, ad Aquileia e nel suo territorio è attestato un uso forse precoce di botti (si pensi a quella del relitto di Grado), contenitori congeniali al travaso di vino da dolia. Un altro fenomeno rilevante è quello delle importazioni dall’Oriente, che si mantiene interlocutore privilegiato nelle varie fasi: anfore, vasellame da mensa e persino ceramiche comuni, come ha potuto stabilire Lisa Pietropaolo per Torre S. Sabina, provenienti dalla sponda opposta, dall’Egeo e dalla costa microasiatica, dalle regioni pontiche, hanno indici di presenza considerevoli, che trovano riscontro in quelli forniti dai contesti ‘terrestri’ di Brindisi, Otranto, S. Foca, ecc. I rinvenimenti subacquei forniscono poi una preziosa conferma di quanto parallelamente sta emergendo dallo scavo di siti urbani e rurali: la vitalità di questo territorio in età tardoantica e medievale. I dati della Carta Archeologica Subacquea e le evidenze restituite dai siti costieri palesano un notevole volume di scambi; le importazioni dall’Africa, soprattutto a partire dal III sec. d.C., e dal bacino orientale del Mediterraneo un secolo più tardi, sono considerevoli; dai siti costieri il processo di distribuzione interessa i siti rurali e i centri più urbanizzati dell’entroterra, come attestano, per esempio i rinvenimenti a Mas© 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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seria S. Giorgio, a Vitigliano, a Vaste, a Rudiae, ma anche in fasce più interne (il vicus e gli altri insediamenti rurali di Cutrofiano e Soleto, di Supersano). Nel repertorio figurano vari esemplari decontestualizzati della produzione anforaria sud-tirrenica Keay LII, mentre un carico di questi contenitori si è individuato a Lido Marini, presso Ugento. L’anfora, presente in numerosi giacimenti subacquei, è voce principale del carico solo nei relitti di Ugento e in quello ‘speculare’ di Capo Alfieri, testimoni di una corrente da ovest verso est lungo la rotta tradizionale di attraversamento dello Ionio tra Crotone e Leuca. Elevati indici di presenza tra i materiali della Carta mostrano le produzioni nordafricane, ed in particolare i contenitori cilindrici bassoimperiali e gli spathia. Molto più rare sono in Salento le anfore africane di grandi dimensioni dei secoli VI e VII. Le produzioni tardoantiche orientali sono ben attestate lungo tutte le coste salentine; in particolare, i numerosi rinvenimenti confermano l’ elevato grado di diffusione raggiunto dall’anfora Late Roman 1 / British Bii tra i secoli V e VII d.C. in tutto il Mediterraneo. Inoltre, frammenti di anfore Late Roman 1 e Late Roman 2 erano tra i resti del carico di bronzi portati alla rifusione di Punta del Serrone (almeno un collo sembra riferibile al sottotipo Pieri A/ Egloff 169, di V sec.), pertinenti probabilmente la dotazione di bordo e termini post quem per la datazione del naufragio. Seguono le anfore globulari, sia LR 2 che Yassi Ada A, tipo II, apparentemente pertinenti la stessa ‘famiglia’, ma in realtà nettamente distinguibili per impasto e caratteri morfologici. Tutto mostra come la peculiarità della fascia costiera adriatica, nel quadro dei flussi commerciali tardoantichi, è la tradizionale e privilegiata relazione con l’Oriente; lo si evince anche dalle differenze con siti interni dell’Italia meridionale, come la villa di S. Giovanni di Ruoti, dove l’accurato scavo stratigrafico restituisce un panorama delle presenze molto più circoscritto: le ceramiche importate hanno un’incidenza bassissima rispetto a quella di produzione locale; conclusioni analoghe trae G. Volpe per il territorio dauno, in base al décalage tra i dati offerti dal sito costiero di Agnuli e quelli dei siti interni di Posta Crusta e S. Giusto.
Bibliografia Si forniscono qui di seguito cenni bibliografici sui singoli siti: Egnazia G. Andreassi, Egnazia, in «Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle Isole Tirreniche» VII, Pisa - Roma, 1989, pp. 104-125. G. Andreassi , A. Cocchiaro, Necropoli di Egnazia, Fasano 1987. G.Andreassi et Al., La fase tardoromana della necropoli occidentale di Egnazia, in «Taras» I, 2 1982 , pp. 227 ss. 22
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Archeologia subacquea nella Puglia meridionale
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VITA A BORDO DELLE NAVI IN ETÀ ROMANA di Carlo Beltrame
1. - Proposta ricostruttiva di pompa di sentina “a bindolo” (da Carre, Jézégou, 1984).
La ricerca archeologica sottomarina e l’indagine dei relitti di imbarcazioni “interrate” hanno portato al ritrovamento di un gran numero di reperti che non sono riferibili al carico delle navi bensì alle operazioni di governo o alla vita quotidiana degli imbarcati. Lo studio di questa categoria di oggetti è stato, fino ad oggi, abbastanza trascurato perché ben maggiore interesse ha suscitato negli studiosi la merce presente nei relitti, utile per lo studio dei commerci. Una più accurata attenzione andrebbe invece posta sugli oggetti non collegabili al carico poiché essi aprono una finestra unica sul passato: permettono infatti di comprendere le abitudini, le superstizioni o gli scrupoli religiosi sia di chi della nave faceva la sua abitazione, cioè i marinai, sia di chi della nave si serviva saltuariamente per lunghi trasferimenti o per transazioni commerciali. Questi manufatti aiutano inoltre a ricostruire le operazioni più strettamente legate al governo dell’imbarcazione e alla sua manutenzione. I manufatti in questione possono essere divisi in due grandi insiemi: gli oggetti relativi all’attrezzatura della nave e alle operazioni per la sua manutenzione e tutti gli oggetti connessi alla vita quotidiana. Del secondo insieme fanno parte utensili, specialmente metallici, armi, strumenti commerciali, suppellettili da cucina, attrezzi per la pesca, oggetti relativi al culto abituale e a riti propiziatori, giochi e passatempi, oggetti personali e attrezzature specialistiche (quale quella del medico). La maggior parte degli oggetti relativi alla vita quotidiana si rinviene ad un’estremità del relitto ossia nella zona della cabina. In base alla documentazione iconografica e ai confronti etnografici, tale estremità viene interpretata come la poppa. Utile per distinguere poppa e prua è comunque l’identificazione della posizione delle ancore normalmente, sempre in base alla documentazione di cui si è detto, a prua. Ricca è la documentazione archeologica relativa alle attrezzature impiegate nelle navi. Uno dei meccanismi più importanti era senz’altro la pompa di sentina per l’evacuazione dell’acqua depositatasi sul fondo dell’imbarcazione. Le navi romane erano armate con pompe del tipo a bindolo, ossia cime munite di dischetti di legno che scorrevano all’interno di “tubi” sempre di legno grazie al movimento rotatorio provocato da un marinaio collocato sul ponte della nave. L’acqua veniva caricata dal fondo verso il ponte di coperta dove veniva espulsa attraverso due tubi di piombo (fig. 1). L’azionamento di questa
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Carlo Beltrame
2. - Gomena arrotolata dal relitto di Procchio (cortesia A. Fioravanti).
3. - Ancora di ferro dal relitto Dramont E (da Santamaria, 1995).
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macchina doveva essere mansione particolarmente ingrata se, come ci tramandano Artemidoro (Oneirop., I, 48) e Svetonio (Vita di Tiberio, LI, 6), spesso esso era oggetto di condanne. Non infrequente è il rinvenimento di cime, a volte forse appartenenti alle manovre delle vele, ma altre volte relative alle operazioni di ormeggio o ancoraggio quale la gomena eccezionalmente conservatasi ancora arrotolata nel relitto di Procchio (fig. 2). Delle manovre veliche invece facevano certo parte i bozzelli, ossia una sorta di carrucole per tendere il sartiame, in legni duri e muniti di una o più pulegge per lo scorrimento delle corde. Destinate ad uso simile erano le bigotte, semplici tavolette munite di uno o più fori. Attrezzi fondamentali per la navigazione erano le ancore e lo scandaglio. L’ancora delle navi romane era inizialmente (fino all’età medio-imperiale) costituita da fusto e marre di legno, per la presa sul fondale, mentre il ceppo di appesantimento era di piombo. Già in età repubblicana, ma specialmente, in età medio-imperiale, viene introdotta l’ancora di metallo molto simile a quella moderna (detta ancora “ammiragliato”). In questo caso, marre, fusto e ceppo sono di ferro e quest’ultimo è smontabile e di piccole dimensioni (fig. 3). Abbastanza sottovalutata è stata fino ad oggi l’importanza dell’uso dello scandaglio nella navigazione antica. Esso era costituito da una sorta di campanella di piombo che sulla sommità veniva collegata ad una cimetta mentre all’interno poteva essere spalmata di grasso (fig. 4). In questa maniera, era possibile non solo saggiare la profondità del fondale durante la navigazione sotto costa ma anche campionarlo per conoscerne la natura e facilitare quindi anche le operazioni di ancoraggio. A bordo delle navi erano imbarcati utensili per operazioni di manutenzione dello scafo. Stranamente rarissimi sono i rinvenimenti di asce da carpentiere, utili per rifinire elementi lignei dello scafo, mentre numerose sono le accette semplici o bipenni. Queste potevano essere uti-
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4. - Scandagli in piombo dal relitto Dramont D (da Joncheray, 1975).
5. - Dolabra dal relitto Cabrera III (da Bost et al., 1992).
lizzate sia in operazioni di riparazione della nave sia per le attività di procacciamento di legname per il focolare di bordo o altro. I mazzuoli di legno di varie forme, come ricordato da Plauto quando afferma che «navis lignea saepe trita, saepe fixa, saepe excussa malleo» (Menandro, II, 3, 52), erano utili per saggiare il fasciame e per ribattere i cavicchi di collegamento, ma forse venivano impiegati durante le operazioni di impiombatura delle cime (ossia di collegamento tra più corde). A bordo si poteva provvedere anche alla manutenzione del rivestimento protettivo della carena. Come documentano alcune anfore piene di resina e vasi con questa sostanza sottoposta a cottura, i marinai erano attrezzati per provvedere allo spalmo della resina all’interno e all’esterno dello scafo e come sembrerebbero testimoniare, almeno in alcuni casi, dei ritagli di lamina di piombo, essi potevano intervenire per riparare eventuali squarci apertisi sul rivestimento plumbeo dell’“opera viva”. Ad altra categoria appartengono invece quegli utensili non finalizzati alla manutenzione della nave ma ad operazioni di vario genere. Si tratta, ad esempio, di coltelli o roncole utili sia in cucina che per tranciare cime, caviglie per forare le vele, sessole per asciugare la sentina, scopette ecc. Particolare attenzione merita un utensile a forma di piccone definito dagli autori antichi dolabra. La sua particolare versatilità e la frequenza con cui appare nei relitti, ci fa pensare che esso costituisse un utensile in dotazione ai marinai romani così come lo era ai soldati del genio (fig. 5). Gladii (fig. 6), spade, lance, pugnali o armi da lancio, quali ghiande missili, frecce o proiettili litici per frombola nonché, nel solo caso del relitto di Mahdia, armi pesanti, sono ritrovamenti abbastanza comuni nei
6. - Gladio in ferro dal relitto di Porto Nuovo (da Bernard, Bessac, Mardikian, Feugère, 1998).
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Carlo Beltrame
7. - Stadera “danese” dal relitto di Taillat (da Joncheray, 1987).
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relitti di navi romane. Alle armi vanno poi aggiunti gli elementi di armatura, perlopiù elmi. In base alla lettura delle fonti scritte, la presenza di armi nelle navi potrebbe essere spiegata con la presenza di soldati imbarcati per vari scopi. In alcuni casi si potrebbe trattare di armati imbarcati per un viaggio di trasferimento, come i cavalieri arabi a bordo della nave di Sinesio (Epist., V, 96); oppure si potrebbe trattare di soldati di scorta a prigionieri, come quelli destinati ad accompagnare San Paolo a Roma (Atti degli Apostoli, XXVII, 144). A veri e propri servizi di scorta dovevano essere addetti i φυλακιται menzionati nei papiri del III e II sec. a.C. che documentano il trasporto dei rifornimenti granari a Roma, mentre, in base al Digesto (IV, 9, 1, 3), per garantire l’ordine a bordo e per sorvegliare la nave al porto erano imbarcati i ναυ− φυλακες. L’interpretazione della presenza delle armi con la spiegazione della loro appartenenza a scorte a carichi particolarmente preziosi sembrerebbe la più plausibile. Pur rimanendo su un’interpretazione di tipo difensivo, però, il numero assai ridotto di manufatti per singolo relitto ci fa pensare che le navi dovessero essere munite di una sorta di armeria, utilizzabile da chiunque in caso di assalto piratesco, piuttosto che di professionisti. Su navi da carico, quali erano la maggior parte dei relitti giunti a noi, era d’obbligo la dotazione di un’attrezzatura commerciale costituita perlopiù da strumenti da pesatura. Si tratta di stadere di bronzo complete del romano (contrappeso) spesso raffigurante delle divinità. Su due relitti sono state rinvenute anche rarissime stadere “danesi” (fig. 7). I pesi litici sono certo testimonianza dell’uso anche di librae ossia grandi bilance a due bracci fabbricate in materiale deperibile. Una bella immagine di questo tipo di bilancia ci è offerto dal mosaico dell’ipogeo di Sousse (Tunisia) dove lo strumento viene impiegato per la pesatura di lingotti appena scaricati da una nave. Alcune imbarcazioni potevano essere attrezzate dello strumentario utile per sigillare le anfore: punzoni che servivano a marchiare le sigillature di pozzolana che coprivano i tappi di sughero delle anfore, tappi di sughero semilavorati e pozzolana, contenuta in anfore. Quasi in ogni nave vi era un servizio da tavola per la consumazione e, meno frequentemente, per la preparazione di pasti. Ovviamente il vasellame più documentato è quello in ceramica, sebbene non manchi qualche testimonianza dell’uso di servizi di legno. Per quanto la distinzione tra ceramica destinata all’uso di bordo da quella finalizzata allo smercio sia particolarmente difficoltosa specialmente nei relitti con carichi di vasellame, possiamo dire che a bordo si utilizzava perlopiù ceramica comune ma anche sigillata e campana. Si trattava di piatti e scodelle per mangiare, coppe, tazze, boccalini e bicchieri per bere. Acqua e vino erano serviti in brocche, ma anche in olpi e bottiglie. I liquidi erano conservati nella cambusa in anfore a fondo piatto. Per cucinare cibi semiliquidi si utilizzavano
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Vita a bordo delle navi in età romana
8. - Casseruola in bronzo dal relitto di Diano Marina (da AA. VV., 1983).
9. - Mortaio fittile dal mare di Venezia (foto dell’autore).
molto le olle, utili anche per conservare; per cibi solidi invece erano impiegati tegami. Casseruole e pentole, anch’esse con frequenti tracce di fuoco, erano recipienti ad uso misto. Piatti, coppe, scodelle, tazze e olle potevano essere personalizzati dal proprietario con un graffito quale una croce o un quadrato oppure con il proprio nome. Il calcolo del numero di pezzi di vasellame da mensa a volte permette di ipotizzare il numero originario di persone imbarcate che si doveva aggirare tra le tre e le cinque unità. Oltre al vasellame fittile non mancava quello di bronzo e di vetro. In bronzo erano prevalentemente brocche e coppe mentre in vetro erano bicchieri, piattini e vasetti. Per attingere e versare liquidi si faceva ricorso ad attingitoi di bronzo mentre non è ben chiaro a cose servissero le molte casseruole rinvenute nei relitti. Dato il contesto marinaresco, è presumibile che, come i soldati, anche i marinai le utilizzassero come gamelle (fig. 8). La dieta era prevalentemente a base di cereali che venivano macinati a bordo così da permettere una migliore conservazione del grano. Quasi ogni nave, quindi, era fornita di una o due macinelle rotatorie manuali. Semplicemente tostati oppure ridotti in semola o farina, i cereali potevano servire per la preparazione di pagnotte, gallette o farinate, ma anche di zuppe. Per impastare ingredienti, mescolare farina o preparare salse si faceva largo uso di mortai fittili muniti di beccuccio (fig. 9), anch’essi, come le macine, presenti spesso in coppia per provvedere forse ad una rapida sostituzione in caso di guasto. Per la cottura delle pietanze la nave era spesso dotata di un fornello del tipo “a cassa”, costituito da una base di mattonelle e da pareti di argilla. Sopra le braci veniva appoggiata una graticola. La ricostruzione più attendibile di questo tipo di focolare è stata possibile grazie all’ottima conservazione e all’analitico lavoro di documentazione del relitto bizantino di Yassi Ada; tale tipologia di fornello si è conservata sino almeno al XVI secolo. In alcuni casi comunque, le navi potevano essere armate di un vero forno coperto come ricostruito per il relitto di Guernsey rinvenuto nel Canale della Manica. In alternativa ad una struttura fissa, le imbarcazioni potevano caricare un piccolo for-
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Carlo Beltrame
10. - Fornello di piombo dal relitto Barthélémy B (da Lopez, 1996).
11. - Rilievo dal Portus Augusti di Ostia (collezione Torlonia) (da Casson, 1995).
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nello mobile di lamina di piombo. Si trattava di un oggetto a forma di ferro di cavallo, con bacino per la posa delle braci e pareti cave collegate ad una sorta di camino (fig. 10). Sopra le braci era posta la pentola mentre dal “camino” si poteva versare dell’acqua che impediva che il piombo raggiungesse la temperatura di fusione. Il tutto funzionava in pratica sul principio di un moderno sistema di raffreddamento di un motore. Perché utilizzare il piombo per un oggetto da sottoporre al fuoco? semplice, un oggetto di piombo risulta particolarmente stabile ed inoltre è quasi indistruttibile e facilmente riparabile: caratteristiche particolarmente indicate per l’uso navale. La dieta di bordo, come detto, era basata principalmente sui cereali ma non mancavano frutta secca, frutta fresca, carne e ovviamente pesce. Quest’ultimo poteva essere agevolmente pescato sia con reti, che alla lenza, che con arpioni e fiocine, come documentato da numerosi attrezzi alieutici e come illustrato anche da molti mosaici africani. La pesca poteva avvenire sia durante le soste all’ancora, come descritto dai vivaci racconti di Petronio (Satyricon, CIX, 6) e Sinesio (Epistolario, V, 207-212), sia durante la navigazione, in base al ricordo di Eliano (De Animalium Natura, XV, 10). A bordo ognuno portava con sé la sua fede religiosa alla quale però spesso si aggiungeva, dato il particolare rischio che comportava ogni viaggio, una buona dose di superstizione. Molti erano i tabù da rispettare: era infatti proibito avere rapporti sessuali, bestemmiare, tagliarsi i capelli, le unghie ed altri comportamenti. La superstizione non si fermava qui, un corno poteva ornare la prua della nave forse per uno scopo apotropaico; il ceppo dell’ancora veniva decorato con la combinazione vincente degli astragali: il “colpo di Afrodite”. Ma queste credenze si manifestavano già in occasione del varo della nave, quando, al di sotto del piede dell’albero della vela, veniva posta una moneta con funzione beneaugurante. Sin dall’età greca, prima della partenza, era prassi comune propiziarsi gli dei con delle abluzioni rituali, ma funzioni analoghe si dovevano svolgere anche durante la navigazione, come, ad esempio, in occasione del passaggio davanti ad un santua-
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Vita a bordo delle navi in età romana
12. - Attrezzi da lapicida dal relitto di Porto Nuovo (da Bernard, Bessac, Mardikian, Feugère, 1998).
13. - Bisturi di bronzo dal relitto di Plemmirio (da Gibbins, 1989).
rio, o forse all’arrivo, come sembrerebbe testimoniarci il noto rilievo di Portus della collezione Torlonia (fig. 11) dove un personaggio togato, assistito da altre due persone, appare nell’atto di aspergere incenso su di un altare mobile. Alcuni ritrovamenti sembrano indicare che, oltre che con i rituali visti, la religione a bordo si doveva manifestare sotto forma di devozione personale. È possibile cioé che alcuni imbarcati portassero con sé oggetti devozionali quali le statuette, raffiguranti divinità perlopiù legate al mare, rinvenute in alcuni relitti. Non ha fondamento invece la teoria secondo la quale a bordo delle navi romane sarebbe stato collocato un altarino in pietra. Le lunghe ore di inattività venivano riempite con il gioco dei dadi, degli astragali o quello dei latrunculi. Quest’ultimo si giocava con pedine bianche e nere su una tabula lusoria. Piacevole intrattenimento poteva essere offerto anche da un suonatore di strumento musicale a corde o a fiato, come indicherebbe il rinvenimento di alcuni flauti. Dagli autori antichi, comunque, sappiamo che molte opere letterarie furono composte proprio nel corso di un viaggio per mare durante il quale lettura e scrittura, come conferma anche il rinvenimento di calamai e stili scrittori, aiutavano a trascorrere le lunghe pause di bonaccia. In alcuni casi, gli oggetti personali che si rinvengono nei relitti ci permettono di identificare la personalità di alcuni imbarcati. Si sono riconosciute, ad esempio, specifiche figure professionali quali quella del lapicida. Due artigiani di questo tipo erano certo imbarcati sulla nave carica di marmi naufragata sulle coste della Corsica, presso Porto Nuovo, come dimostra chiaramente l’eccezionale insieme di attrezzi (scalpelli, mazzette, pinze, martelli, punte, sgorbie ecc.) rinvenuto insieme al carico (fig. 12). Le navi erano spesso dotate di una cassetta di pronto-soccorso ma, a volte, dovevano imbarcare un medico in carne ed ossa. Frequente infatti è il rinvenimento di cassettine contenenti sostanze medicamentose e di attrezzi chirurgici. Sul relitto di Plemmirio (Sicilia) sono stati rinvenuti dei bisturi ad uso oftalmico che fanno appunto pensare alla presenza di un medico, forse in viaggio di trasferimento (fig. 13). Sul relitto di Ladispoli, poi, il
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Carlo Beltrame
14. - Strigile e ariballos di bronzo dalla nave di Comacchio (da Berti, a cura di, 1990).
15. - Proposta ricostruttiva della cabina della nave bizantina di Yassi Ada, con tettoia in tegole e coppi (la restituzione del fornello è errata) (da Van Doorninck, 1972).
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ricordo di un medico è ancora più evidente essendo stato impresso il suo nome sul fondo di un piatto rinvenuto vicino ad un cassettina di medicinali. Altri oggetti personali ci hanno lasciato traccia del viaggio intrapreso da alcune donne che trattenevano i capelli con aghi crinali in osso e si profumavano con olii conservati in unguentari e si specchiavano con preziosi specchi di bronzo. Ma il culto del corpo, come noto, non era esclusivo appannaggio femminile come testimoniano, ad esempio, molti strigili e ariballoi per contenere l’olio (fig. 14) o pettini in osso. Anelli, pendagli d’oro e gemme sono chiara testimonianza che le navi commerciali erano preferite anche da personaggi benestanti a causa della minore affidabilità, maggiore instabilità e scomodità delle più veloci imbarcazioni militari, spinte da rematori. Tali oggetti potevano essere stati abbandonati dai naufraghi, prima di abbandonare la nave, oppure potevano avere decorato il corpo di qualche persona perita nella sciagura, ma a volte, come nel caso di alcuni gruzzoli di monete, essi erano stati nascosti o al di sotto del pagliolato o all’interno di un contenitore per scongiurarne il furto da parte di qualche compagno di viaggio. A bordo si portavano zoccoli da marinaio con tasselli rialzanti oppure sandali in cuoio, ma è possibile, dato il frequente rinvenimento di calzature, che sul ponte della nave si girasse scalzi abbandonando le scarpe in un angolo della nave fino al momento di scendere a terra. I marinai vestivano normalmente un grembiule di pelle e usavano portare con sé pratiche borse a tracolla. Dai racconti degli autori antichi (si veda, ad esempio, l’impostazione scenica del Satyricon di Petronio) si deduce che almeno alcune delle navi di età romana fossero dotate di un ponte sotto coperta e forse di alcune cabine che permettevano una certa privacy. I relitti e le raffigurazioni di navi però sembrano darci un’immagine un po’ diversa. Le galere erano dotate di una semplice copertura voltata a poppa che permetteva il ricovero del comandante mentre le navi ad esclusiva propulsione velica erano munite di una cabina più capiente. Questa però occupava solo la zona di poppa, o quella centrale, ed era posta sul ponte di coperta mentre lo spazio nella stiva doveva essere quasi sempre occu-
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Vita a bordo delle navi in età romana
pato dal carico. La struttura era dotata di porte e finestrelle ed aveva un tetto che, come mostra il rinvenimento, nella maggior parte dei relitti, di tegole ed embrici, doveva essere in materiale fittile e quindi ignifugo per scongiurare possibili incendi dovuti alla presenza del focolare della cucina (fig. 15). L’illuminazione a bordo era garantita da lucerne ma anche da lanterne che permettevano la navigazione in convoglio e, presumibilmente, da torce di cui non ci è giunta traccia.
Bibliografia AA.VV., Navigia fundo emergunt, Mostra di archeologia sottomarina in Liguria, Genova 1983. G.F. Bass, F.H. Van Doorninck, Yassi Ada. A SeventhCentury Byzantine Shipwreck, vol. I, College Station 1982. H. Bernard, J.-C. Bessac, P. Mardikian, M. Feugère, L’épave romaine de marble de Porto Novo, «Journal of Roman Archaeology» 11, 1998, pp. 53-81. F. Berti (a cura di) (catalogo della mostra), Fortuna Maris. La nave romana di Comacchio, Bologna 1990. J. P. Bost, M. Campo, D. Colls, V. Guerrero, F. Mayet, L’épave Cabrera III (Majorque), Pubblications du Centre échanges commerciaux et circuits Pierre Paris, URA 991, 23, Parigi 1992. M. B. Carre, M. P. Jézegou, Pompes a chapelet sur des navires de l’antiquité et du début du moyen age, «Archaeonautica» 4, 1984, pp. 115-143. L. Casson, Ships and Seamanship in the Ancient World, Baltimora-Londra 1995. P. A. Gianfrotta, Commerci e pirateria: prime testimonianze archeologiche sottomarine, in «Mélanges de l’École Française de Rome» 93, 1981, pp. 227-242. P. A. Gianfrotta, P. Pomey, Archeologia subacquea. Storia, tecniche, scoperte e relitti, Milano 1981. D. J. L. Gibbins, The Roman Wreck of c. 200 at Plemmirio, near Siracusa (Sicily): Second Interim Report. The Domestic Assemblage 1: Medical Equipment and
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STORIA, ARCHEOLOGIA E TUTELA DEI BENI ARCHEOLOGICI SOMMERSI: L’ESEMPIO DEI CAMPI FLEGREI * di Alessandra Benini
* Il tema di questa presentazione ripropone i contenuti della mostra iconografica “Città sommerse” organizzata dalla Facoltà di Conservazione dei BB.CC. dell’Università della Tuscia (Viterbo) ed esposta ad Atene (dicembre 2000).
I Campi Flegrei costituiscono l’estremità settentrionale del golfo di Napoli e la loro costa rappresenta un esempio unico per la trasformazione del territorio e lo sprofondamento dell’antica fascia costiera. Malgrado le profonde modificazioni dei luoghi, dovute proprio agli effetti di traumatici stravolgimenti geologici, i Campi Flegrei conservano ampia testimonianza dell’antico splendore. Mitologia e storia ancora oggi si fondono nei monumenti delle due città principali: Cuma e Pozzuoli alle quali fanno corona Baia, Miseno e il lago d’Averno (fig. 1). La storia dei Campi Flegrei inizia con la costituzione, intorno al 770 a.C., di uno scalo commerciale nell’isola di Pithecusa (Ischia) da parte di coloni eubei e calcidesi, accompagnata dalla fondazione di Kyme (Cuma), la prima colonia greca in occidente. Inizia così una rapida irradiazione nella penisola italica della religione e della cultura greca tra cui l’introduzione dell’alfabeto. Questa è la terra dove, secondo i miti portati dai primi coloni greci, i fenomeni sismici erano dovuti ai Giganti qui seppelliti e dove abitarono anche i Cimmeri e i Lestrigoni. Il sottosuolo ospitava l’Ade e i fiumi infernali Cocito e Piriflegetonte, causa delle numerose manifestazioni idrotermali. L’espansione del dominio cumano in tutto il golfo di Napoli porta ad un aperto conflitto con gli Etruschi. Nel 531 a.C. Cuma per garantirsi il controllo del territorio permette ad un gruppo di esuli fuggiti da Samo e dalla tirannia di Policrate, di insediarsi nel suo territorio fondando Dicearchia, città del buon governo. Al suo posto, nel 194 a.C., verrà poi fondata la colonia romana di Puteoli (attuale Pozzuoli), che come porto commerciale di Roma diviene centro di traffici marittimi così intensi e rilevanti da guadagnarsi l’appellativo di Delus minor.
1. - Il territorio dei Campi Flegrei.
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2. - Le colonne del Serapeo di Pozzuoli recano i chiari segni della loro passata sommersione a documentazione dell’ampio fenomeno del bradisismo presente in quest’area.
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A partire dal I secolo a.C. tutta la costa flegrèa diventa meta preferita dell’aristocrazia romana, che edifica lussuose ville sul mare dotate persino di peschiere per l’allevamento del pesce. Tra i più famosi proprietari furono gli Scipioni, Gaio Mario, Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone, Pompeo Magno, Marco Antonio, Licinio Crasso e dopo di essi anche gli stessi imperatori che a Baia costruiscono un Palazzo imperiale. Per godere del clima mite e dei numerosi impianti idrotermali vi soggiornano Augusto, Tiberio, Claudio, Caligola, Nerone, Adriano e Alessandro Severo. La decadenza del litorale flegreo coincide con la fine dell’impero romano e con la sommersione di tutta la fascia costiera causata dal bradisismo. La stessa denominazione flegreo significa in greco ardente, con chiaro riferimento all’intensa attività vulcanica che caratterizza quest’area e che si manifesta attraverso sorgenti termominerali, fumarole vulcaniche e il bradisismo. Quest’ultimo, un lento ed alterno movimento verticale della crosta terrestre dovuto alla risalita di masse magmatiche ed al loro raffreddamento, è il fenomeno caratterizzante di questa zona, particolarmente evidente lungo la fascia costiera dove il livello del mare fornisce un’immediata quota di riferimento. Le colonne del grande mercato (cosiddetto Serapeo) di Puteoli conservano le perforazioni dei molluschi marini (litodomi) ad una altezza di m 6,30 (+9 s.l.m.), segno evidente dell’avvenuta sommersione e del successivo sollevamento del suolo (fig. 2). Il bradisismo è quindi la causa dello sprofondamento, in età tardo antica, di tutta l’antica fascia costiera e di tutti quegli edifici che vi erano stati costruiti. La topografia dei Campi Flegrei venne ulteriormente sconvolta da un evento sismico nel 1538. In pochi giorni l’area del Lucrino fu teatro di un terremoto e di un rigonfiamento della crosta terrestre che sfociò in una eruzione vulcanica. I materiali espulsi crearono un monte alto più di 100 metri chiamato Monte Nuovo. Venne così inglobato e seppellito parte di un territorio che dalle fonti letterarie sappiamo essere stato densamente edificato con lussuose ville tra cui quella di proprietà di Cicerone. Anche i laghi Lucrino e Averno, utilizzati come bacini interni del porto costruito nel 37 a.C. da Agrippa, subirono radicali modifiche.
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Storia, archeologia e tutela dei beni archeologici sommersi: l’esempio dei Campi Flegrei
Pozzuoli
3. - Un’immagine del molo di Pozzuoli da un’incisione del 1768 di G. B. Natali e C. F. Nicole.
Pozzuoli, il principale centro dei Campi Flegrei, fu dapprima emporio di Cuma, poi, con il nome augurale di Dicearchia, fu il rifugio dei fuggiaschi di Samo (530 a.C.). Perde successivamente importanza ma riemerge come caposaldo della difesa romana nella seconda guerra punica. Nel 194 a.C. vi viene istituita la colonia marittima di Puteoli. La città, dapprima arroccata sul promontorio (dove è l’attuale “Rione Terra”), si estese progressivamente ai piedi del colle con la costruzione di due anfiteatri, di uno stadio, di numerose terme, di un grande mercato. La grande crescita economica ed urbanistica della città è legata soprattutto al porto, grazie al quale divenne il più grande scalo marittimo di Roma per i commerci con il Mediterraneo orientale e l’estremo oriente ed il maggiore sviluppo si realizzò proprio lungo la costa che fu completamente attrezzata con magazzini adibiti allo stoccaggio delle merci. Il porto di Pozzuoli fu la più grandiosa opera portuale dell’area flegrea, realizzata probabilmente in età augustea. Ogni anno vi attraccavano centinaia di navi alessandrine con il grano egiziano e con molti altri prodotti esotici (spezie, vetri, tessuti, unguenti) che giungevano in Italia dalla lontana India, attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso, le carovaniere del deserto egiziano e il Nilo, fino al porto di Alessandria e da lì, infine, a Puteoli. Altre vie commerciali utilizzavano le carovaniere della penisola arabica fino a giungere ai porti del Mediterraneo orientale.Il poderoso impianto del porto era sostenuto con arconi montati su piloni di calcestruzzo gettati in casseforme idrauliche, secondo un ardito procedimento tecnico sperimentato e largamente impiegato nell’area flegrea. Il molo, lungo 372 metri e provvisto di anelli di ormeggio, era costituito dall’allineamento di almeno quindici grandi piloni a pianta quadrangolare. L’imponenza della costruzione, tale da suscitare grande stupore e ammirazione nei frequentatori cosmopoliti della città campana, la impose quale elemento caratterizzante della topografia marittima. La spettacolare architettura del grande molo scandito da arconi sostenuti da pilae risalta infatti in primo piano nelle raffigurazioni dipinte su bottiglie-souvenirs di produzione puteolana, mentre i suoi resti, ormai completamente inglobati nel cemento delle ristrutturazioni moderne, sono rimasti per secoli ben visibili nel panorama, e molte vedute di viaggiatori italiani ed europei del XVII e del XVIII secolo li hanno spesso riprodotti (fig. 3).
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4. - L’antica topografia della costa puteolana radicalmente mutata per gli effetti del bradisismo e della nascita di Monte Nuovo.
Fin dalla tarda età repubblicana iniziarono ad istallarsi a Puteoli varie comunità di mercanti orientali soprattutto egiziani, giudei, siriani e arabi nabatei. Le ricerche archeologiche subacquee condotte lungo l’antica fascia costiera di Puteoli, oggi sommersa, hanno portato al rinvenimento di un sontuoso luogo di culto, documentato da ben tre altari in marmo bianco che recano sulla fronte iscrizioni di dedica al dio Dusares, che i mercanti nabatei (provenienti dall’attuale Giordania) avevano costruito per la propria popolosa comunità.
Portus Iulius 5. - Numerosi resti archeologici ancora testimoniano la ricchezza e la densità edilizia dell’antica ripa puteolana.
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Il complesso di Portus Iulius nasce come porto militare nel 37 a.C., per volere di Agrippa, in previsione della guerra civile contro Sesto Pompeo, che controllava la Sicilia. Per la sua realizzazione furono effettuate grandi opere d’ingegneria: un canale lungo 400 metri collegava il mare con il lago Lucrino ed un secondo metteva quest’ultimo in comunicazione con il lago d’Averno. Dismesso il ruolo militare trasferito al nuovo porto di Miseno, il Portus Iulius, ampliato con infrastrutture e magazzini, assunse un’importante funzione commerciale potenziando la recettività di quello di Puteoli. Mutamenti geologici hanno portato alla sommersione dell’impianto portuale (bradisismo) e ad un radicale restringimento del Lucrino, invaso dall’eruzione del Monte Nuovo (fig. 4). La conoscenza del porto, che giace ora a bassa profondità, si deve in gran parte, seppure nelle linee generali, alla fotografia aerea grazie alla quale sono stati individuati il canale di accesso, le darsene e i numerosi magazzini (fig. 5). Queste strutture sono spesso state luogo di ritrovamenti occasionali, tra questi ricordiamo il recupero di 10.000 lucerne già usate ed accatastate in uno dei magazzini, evidentemente impiegate per consentire anche il lavoro notturno. Un’area-campione di quasi 10.000 mq è stata oggetto di più dettagliate indagini subacquee, permettendo di precisare le tracce tratte dalla fotografia aerea. Il settore indagato corrisponde ad un grande magazzino a pianta quadran-
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Storia, archeologia e tutela dei beni archeologici sommersi: l’esempio dei Campi Flegrei
6. - Resti pavimentali in mosaico nell’area di Portus Iulius (foto E. Scognamiglio).
golare con corte centrale, articolato in lunghi tronconi con ripetizione di moduli uguali. Muri in reticolato suddividono una serie di stanze, alcune ancora provviste di soglie in pietra, di pavimenti e di resti dell’impianto idraulico, che si aprono su un porticato. Rampe di scale documentano inoltre la presenza di un piano superiore. Una grande domus, forse appartenente al proprietario del magazzino, conserva ancora in piena evidenza un peristilio di colonne in laterizio ed ambienti con pavimenti di mosaico e di signino (fig. 6). Il canale di accesso al Porto Giulio era destinato, secondo un progetto mai portato a termine, a consentire l’ingresso in un lungo canale che avrebbe dovuto collegare direttamente il porto di Puteoli a Roma. Durante il regno di Nerone si iniziò lo scavo di un canale navigabile (fossa Neronis) per rendere più sicuro il tragitto invernale delle navi che dovevano trasferire il grano a Roma. Il canale doveva avere una larghezza di 60 metri per consentire l’incrocio di due quinqueremi. La morte di Nerone interruppe i lavori, ma tracce dell’opera sono ancora individuabili dalle fotografie aeree.
Baia Baia fu un centro residenziale rinomato per il clima mite, la bellezza del paesaggio e la ricchezza di benefiche acque termali, sfruttate fin dal II secolo a.C. Celebre luogo di villeggiatura fu meta della più alta aristocrazia romana e della famiglia imperiale fino a tutto il III secolo d.C. L’attuale conformazione del paesaggio si discosta molto dall’antico assetto del territorio per la sommersione, in seguito al bradisismo, di tutta la fascia costiera. L’insenatura di Baia era anticamente occupata da un lago (Baianus lacus), comunicante con il mare aperto tramite un ampio canale, le cui sponde erano densamente edificate da lussuose ville dotate di approdi e peschiere. Tra i principali edifici sommersi, finora documentati, sono il ninfeo imperiale di Punta Epitaffio, la villa dei Pisoni ed un complesso termale, disposti lungo una strada basolata e, nell’estremità meridionale dell’insenatura, una peschiera a pianta semicircolare. Anche l’entroterra è costellato da imponenti resti di strutture purtroppo parzialmente distrutti dall’edilizia moderna, ma un esempio della densità edilizia © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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7. - La suggestiva ricostruzione del Ninfeo di Punta Epitaffio in una sala del Museo archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese di Baia).
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e del tessuto urbanistico dell’antica Baia si conserva nell’attuale Parco Archeologico dove si intersecano ville residenziali, complessi termali pubblici e privati. I primi segnali del lento movimento discendente, che portò alla scomparsa della fascia costiera iniziarono sul finire del IV secolo d.C., ma ancora nel VI secolo Baia continuava ad essere considerata luogo di piacevoli soggiorni. L’area sommersa non è altro che la prosecuzione di quanto ancora oggi si conserva a terra, particolarmente importante è stato lo scavo di Punta Epitaffio, condotto negli anni ’80. Nel 1969, il rinvenimento casuale nel fondale antistante Punta dell’Epitaffio, il promontorio che chiude a nord l’insenatura di Baia, di due statue di marmo sfigurate superiormente dai litodomi marini portò all’individuazione di un grande edificio appena affiorante dalla sabbia. Successivamente furono riconosciuti in esse due dei protagonisti della celebre scena dell’inebriamento di Polifemo descritta da Omero nel libro IX dell’Odissea: Ulisse che porge la coppa piena di vino al Ciclope, mentre un suo compagno versa altro vino da un otre. Un lungo scavo, all’inizio degli anni ’80, ha poi messo in luce un ampio ambiente rettangolare absidato, con le pareti lunghe articolate in quattro nicchie precedute da un ingresso. Tutto intorno alle pareti corre uno stretto canale ancora in parte rivestito da lastre di marmo, mentre all’interno del piano centrale è ricavata una grande vasca. Durante lo scavo dello strato di abbandono, sono state trovate cinque statue, cadute dalle nicchie laterali. L’abside era foderata con pezzi di calcare in modo da renderla simile ad una grotta naturale; la statua di Polifemo, che doveva trovare posto nell’abside tra Ulisse e il suo compagno, dovette essere certamente asportata già all’epoca dell’abbandono dal momento che al suo posto è stata trovata una sepoltura tardo-antica. La presenza di condutture d’acqua all’interno delle statue e l’architettura della sala hanno permesso di identificarlo come un lussuoso ninfeo-triclinio. L’identificazione delle statue con personaggi legati all’imperatore Claudio (la madre, Antonia Minore, ed una delle figlie morta in tenera età) ha permesso di riconoscere nel ninfeo un settore della residenza imperiale a Baia e datarlo alla prima metà del I secolo d.C. Tracce di rifacimenti e di restauri ne indicano l’impiego fino al IV secolo d.C., quando ebbe inizio il lento abbandono della costa progressivamente invasa dall’acqua marina per il fenomeno del bradisismo. Dopo una lunga ed impegnativa opera di conservazione e di restauro, le statue insieme a parte della decorazione architettonica sono esposte nel Castello di Baia, in una sala del museo archeologico, suggestivamente ambientate in una ricostruzione quasi a grandezza naturale del ninfeo sommerso (fig. 7). Oltre all’assidua presenza della famiglia imperiale e della corte, in un grandioso complesso che occupava gran parte di Baia, l’intera costa flegréa, ormai in gran voga grazie anche al richiamo delle rinomate sorgenti termali, era andata
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8. - Il molo del porto di Miseno, in larga parte ricoperto da una scogliera moderna.
rapidamente riempiendosi delle lussuose ville dei più eminenti personaggi dell’élite romana. Un esempio dell’architettura delle ville marittime lo ritroviamo negli affreschi di Stabia e di Pompei, ampiamente confermato dai ritrovamenti subacquei effettuati lungo tutta la costa che da Baia giunge fino a Miseno. Un’altra categoria di monumenti tipici di questa area sono le peschiere. Già dal I secolo a.C., aveva preso avvio e si era sviluppato con ampie ed esasperate applicazioni anche l’allevamento ittico, grazie a Sergio Orata, impresario e realizzatore geniale dei primi allevamenti di ostriche, cui va riconosciuto il merito di avere costruito, oltre ai primi bagni pensili, gli impianti per la piscicoltura direttamente in mare e di averne saputo diffondere la costosissima moda divenuta poi dilagante in tutta l’alta società romana. L’insieme di alta società, ricchezza, lusso e amenità dei luoghi costituì una dirompente miscela di occasioni di divertimenti e d’incontri, ma anche, a detta di molti moralisti dell’epoca, un invito al rilassamento dei costumi e della morale. Anche il poeta satirico Marziale, frequentatore di Baia sullo scorcio del I secolo d. C., si unisce al coro con un ironico epigramma (I, 60, 5): «La casta Levina era più rigida del rigidissimo marito. Mentre passava dal Lucrino all’Averno e quando spesso si ristorava nelle acque di Baia, cadde nel fuoco dell’amore: abbandonò il marito e seguì il giovane amante. (a Baia) Era giunta Penelope e ne ripartì Elena».
Miseno La profonda insenatura di Miseno, il cui toponimo deriva secondo la leggenda dal compagno di Ulisse, fu utilizzato come approdo naturale già in età arcaica da Cuma. In epoca romana Miseno divenne un centro residenziale caratterizzato da sontuose ville; acquisì una funzione militare solo alla fine del I secolo a.C., quando vi fu trasferita dal vicino Portus Iulius la flotta militare. Il porto cadde in disuso nel V sec. d.C. quando Teodorico trasferì l’intera flotta a Ravenna. Quando, nel 79 d.C., si verificò l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, la carica di praefectus classis era rivestita da Gaio Plinio Secondo, il grande enciclopedista latino meglio noto come Plinio il Vecchio, il quale con una nave militare accorse da Miseno sui luoghi del disastro per osservare da vicino il fenomeno e portare aiuto alla popolazione in fuga. Dell’antico porto militare si conservano i resti di otto piloni di un molo su arcate e di un molo più interno, in gran parte ricoperto dai blocchi di una scogliera moderna. Ne resta in vista solo la grande testata curvilinea da cui sporgono quattro grandi anelli d’ormeggio in pietra, tutti con le estremità spezzate e giacenti sul fondo alla base del molo. Sul lato interno si conserva una rampa a gradoni per le operazioni di imbarco e sbarco (fig. 8). Dal lato opposto, l’imboccatura del porto era delimitata da un altro molo ad arcate, di cui si conservano alcuni piloni. © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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9. - L’area del parco archeologico sommerso con l’indicazione dei percorsi subacquei allestiti nei due principali complessi.
10. - Villa a Protiro, un pavimento in mosaico perfettamente conservatosi (foto E. Scognamiglio).
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Tutela e conservazione La costa dei Campi Flegrei conserva un patrimonio sommerso di inestimabile valore storico ed artistico con grandi potenzialità di attrattive culturali e turistiche ma al tempo stesso comporta grandi problemi di tutela e conservazione e valorizzazione. Ai fini della conservazione in situ è importante trasformare in aree protette quelle zone che, ricche di presenze archeologiche, sono soggette a rischi di danneggiamenti e di distruzioni in quanto adibite a funzioni contrastanti con la loro stessa sopravvivenza (ormeggi, attività di pesca, ecc). Un clamoroso esempio si ha proprio nel porto di Baia, dove per anni il traffico commerciale del porto – ora interrotto grazie ad una interdizione alla navigazione emessa dalla magistratura – ha messo a repentaglio l’area archeologica sommersa. Molto valida a tale scopo appare la creazione di parchi archeologici sottomarini, veri e propri musei aperti non solo ai subacquei e proprio a Baia la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli e Caserta ha applicato per la prima volta ad un’area archeologica marina la possibilità offerta dalla legge Ronchey di dare in concessione a soggetti privati la gestione di servizi accessori, quali vigilanza, pulizia dei fondali, visite guidate subacquee e di superficie, che difficilmente una Soprintendenza avrebbe potuto condurre per carenza di mezzi e di personale specializzato.
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Storia, archeologia e tutela dei beni archeologici sommersi: l’esempio dei Campi Flegrei
Si giunge così, all’inizio del 2002, alla nascita del Parco Archeologico di Baia Sommersa che racchiude in un’area di circa 80.000 mq alcuni dei complessi archeologici sommersi meglio conservati, tra cui la Villa dei Pisoni e la Villa a Protiro; attraverso questi due complessi sono ora stati allestiti due percorsi subacquei che mostrano ai visitatori gli aspetti più interessanti e più suggestivi dell’area archeologica (figg. 9-10) . Bibliografia AA. VV., I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Atti del convegno internazionale 4-7 maggio 1976, Atti Lincei 1977, n. 33. AA.VV., Baia. Il ninfeo imperiale di Punta Epitaffio, Napoli 1993. P. Amalfitano, G. Camodeca, M. Medri, I Campi flegrei. Un itinerario archeologico, Venezia 1990. A. Benini, Recenti indagini a Bacoli e Miseno, in P. A Gianfrotta F. Maniscalco (a cura di) Forma maris (Pozzuoli 1998), Napoli 2001, pp.51-56. A. Benini, Una villa marittima nelle acque di Bacoli. Note preliminari, in Atti del convegno nazionale di archeologia subacquea (Anzio 1996) Bari 1997, pp. 193-202. A. Benini P. Miniero, Baia sommersa. Una nuova esperienza di parco archeologico, in F. Maniscalco (a cura di), Mediterraneum, 1, 2002, 273-276. M.R. Borriello A. D’Ambrosio, Baiae - Misenum, Forma Italiae, Regio I, vol. 14, Firenze 1979. J.H. D’Arms, Romans on the bay of Naples. A social and cultural study of the Villas and their Owners from 150 B.C. to A.D. 400, Cambridge Mass.1970. S. De Caro, I Campi flegrei, Ischia, Vivara. Storia e archeologia, Napoli 2002. G. Di Fraia, N. Lombardo, E. Scognamiglio, Contributi alla topografia di Baia sommersa, in Puteoli 9-10, 1985-86, pp.211-229. G. Di Fraia, Baia sommersa. Nuove evidenze topografiche e monumentali, in ASubacq I, 1993, pp. 21-48. P.A. Gianfrotta, Puteoli sommersa, in F. Zevi ( a cura di), Puteoli, Napoli 1993, pp.115-124. P.A. Gianfrotta, Harbor Structures of the Augustan Age in Italy, in Atti del Convegno Caesarea Maritima, A retrospective after Two Millennia, (Caesarea Marittima 1995) Leiden - New York - Köln 1996, pp.6576. P.A. Gianfrotta, I porti dell’area flegrea, in G. Laudizi C. Marangio (a cura di) Porti approdi e linee di rotta del Mediterraneo antico, Studi di filologia e lettera-
tura, Atti del seminario di studi (Lecce 1996) 4, 1998, pp. 153-176. P.A. Gianfrotta, Il contributo della ricerca subacquea agli studi di topografia antica in Italia, in La forma della città e del territorio, Atti dell’incontro di studio (S. Maria Capua Vetere 1998) Roma 1999, pp. 7590. N. Lamboglia, Inizio dell'esplorazione di Baia sommersa (1959-1960), in Atti III Congresso di Archeologia sottomarina, Barcellona 1961 (Bordighera 1971), pp.225-249. N. Lombardo, Un documento epigrafico dalla “Villa dei Pisoni” a Baia, in ASubacq I, 1993, pp. 49-63. A. Maiuri, L'esplorazione archeologica sottomarina di Baia, in Atti II Congresso di Archeologia sottomarina, (Albenga 1958), Bordighera 1961, p. 108 ss. F. Maniscalco, Ninfei ed edifici marittimi severiani del Palatium imperiale di Baia, Napoli 1997. P. Miniero, Il museo archeologico dei Campi flegrei nel Castello di Baia, Napoli 2000. P. Miniero, Baia: dallo scavo subacqueo, al Museo, al parco archeologico sottomarino… e le prospettive di tutela, in P.A. Gianfrotta - F. Maniscalco (a cura di), Forma Maris (Pozzuoli 1998), Napoli 2001, pp. 2935 M. Napoli, Di una villa marittima di Baia, in Bollettino di Storia dell'Arte del Magistero di Salerno, 3, 1953, pp. 77-107. E. Scognamiglio, Il rilievo di Baia sommersa: note tecniche e osservazioni, in ASubacq I, 1993, pp. 65-70. E. Scognamiglio, Aggiornamenti per la topografia di Baia sommersa, in ASubacq II, 1997, pp. 35-46. E. Scognamiglio, Baia sommersa: gli sviluppi della ricerca, in P.A. Gianfrotta - F. Maniscalco (a cura di), Forma Maris (Pozzuoli 1998), Napoli 2001, pp. 43-50. E. Scognamiglio, Nuovi dati su Baia sommersa, in ASubacq III, 2003, 47-56. F. Zevi ( a cura di), Puteoli, Napoli 1993.
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LA PIRATERIA NELLA NAVIGAZIONE ANTICA di Luca Cavazzuti
«Stranieri, chi siete? e di dove navigate i sentieri dell’acqua? forse per qualche commercio, o andate errando così, senza meta sul mare, come i predoni, che errano giocando la vita, danno agli altri portando?» (Omero, Odissea, IX, 252-5, trad. di R. Calzecchi Onesti)
La domanda rivolta da un irato Polifemo ad Ulisse e ai suoi compagni, furtivamente introdottisi nella sua grotta, mette in risalto come nella remota arcaicità il limite tra commercio e attività predatorie fosse quanto mai sfumato. Breve tempo dovette passare dall’inizio della navigazione mediterranea nella sua declinazione mercantile, a quando si manifestarono i primi attacchi delle leggere e veloci feluche dei pirati. Va rilevato che in epoca omerica l’andar per mare era prerogativa solo degli aristocratici, che abbandonate provvisoriamente le attività agricole potevano permettersi di armare una nave ed equipaggiarla con i loro compagni e con schiavi. Comportamenti simili erano ben noti ai principi achei, non a caso riuniti sotto le mura di Troia per vendicare un atto di rapina. In sostanza chi aveva la possibilità di commerciare o razziare schiavi e bestiame, vino e cereali, per scambiarli soprattutto con metalli e oggetti preziosi, era in grado di affrancarsi da ogni bisogno e pertanto la pirateria non recava vergogna, ma buon nome come ricorda Tucidide (Guerra del Peloponneso, I, 5, trad. a cura di F. Ferrari): «Giacchè i Greci anticamente e, tra i barbari, quelli che sono costieri e abitano nelle isole, da quando avevano cominciato ad attraversare più frequentemente il mare per recarsi gli uni dagli altri, si erano dati alla pirateria sotto la guida dei più abili, in cerca di guadagno per sé e di nutrimento per i più deboli; e, assalendo le città che erano senza mura e disperse in villaggi le saccheggiavano e così si procuravano la maggior parte dei loro mezzi di sussistenza, senza ancora vergognarsi di questo modo di agire, il quale anzi portava loro perfino una certa gloria. Anche ora lo dimostrano alcuni popoli della terraferma, per i quali è un onore esercitare con successo la pirateria, e lo dimostrano gli antichi poeti nelle domande che senza eccezione facevano rivolgere dappertutto a coloro che sbarcavano, vale a dire se erano pirati. Giacché gli uni non respingevano come indegno quel fatto di cui gli altri li interrogavano e gli altri, che avevano interesse a sapere questa cosa, non la biasimavano. Ma anche in terra praticavano reciprocamente la pirateria, e anche ora in molte parti della Grecia si vive alla maniera antica, presso i Locresi Ozoli, gli Etoli, gli Arcaniani e i paesi di terraferma situati da quelle parti. A questi popoli continentali è rimasta, dall’antica abitudine alla pirateria, l’abitudine di andare
armati». Il passo di Tucidide mette in luce altre due caratteristiche peculiari del saccheggio: pirateria e brigantaggio erano in realtà le due facce di una stessa medaglia, con origini e motivazioni identiche, ma che si esplicavano con tecniche e mezzi differenti semplicemente perché l’azione avveniva in ambienti diversi, le acque o la terra. Appare quindi logico che altre popolazioni quali per esempio i Liguri o gli Isauri dell’Anatolia sud orientale, abitanti di impervie terre montuose e con coste alte a strapiombo sul mare, potessero con la stessa facilità scendere a valle a razziare o, avvistato un lento convoglio com© 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Luca Cavazzuti
merciale, armare le navi tenute nascoste in grotte e anfratti sicuri, inseguirlo e abbordarlo, per poi rifugiarsi indisturbati sui monti. Altro aspetto di fondamentale importanza era il saccheggio dei centri abitati, che procurava ai predoni la maggior fonte di guadagno, in quanto permetteva una retata di esseri umani pronti per essere venduti al miglior offerente nel mercato di schiavi più vicino, o liberati dietro un ingente riscatto. «…I pirati vennero nella nostra terra di notte e portarono via trenta o più giovani ragazze e donne ed altre persone, schiave e libere. Mollarono gli ormeggi alle nostre navi nel porto e, prendendo la nave di Dorieo, fuggirono su di essa con i prigionieri e il bottino…» (Silloge Inscriptionum Graecarum, I, 521).
Con queste parole incise nel marmo, la piccola comunità dell’isola di Amorgo onorò due dei prigionieri, che riuscirono a convincere i predoni a trattenerli come ostaggi e a liberare gli altri. La legittimità della pirateria preclassica cominciò a vacillare dal V sec. a.C. quando si svilupparono tra Greci pratiche e abitudini rivolte alla tutela e alla sicurezza dell’individuo; anche se tali usanze raggiungeranno solo più tardi e in ambito romano un inquadramento di tipo giuridico furono percepite ed osservate come norme di comportamento collettivo. Da quest’epoca la legittimità al saccheggio fu circoscritta ai periodi bellici, con il preciso scopo di osteggiare l’avversario nei suoi interessi economici, ma al di fuori della guerra dichiarata divenne sinonimo di barbaro, alieno alle tradizioni e quindi all’identità etnica dei Greci. Non a caso Tucidide definisce barbari popolazioni del nord della Grecia come gli Etoli dediti alla pirateria ancora in epoca romana, quindi il tema fondamentale sviluppato dallo stesso autore è che la pirateria trova terreno fertile laddove gli stati e le istituzioni politiche centrali sono deboli o del tutto assenti. Concetto che sembra suffragato dalle parole di Teuta, regina degli Illiri, allorché rispondendo agli ambasciatori romani inviati nel 230 a.C. per lamentare i continui attacchi alle onerarie italiche dirette verso la Grecia disse: «..che,in ambito pubblico,avrebbe cercato di fare in modo che nessun torto venisse fatto ai Romani dagli Illiri, ma che, nella sfera privata, non era consuetudine dei re impedire agli Illiri di fare bottino sul mare… (e dopo la franca risposta del più giovane degli ambasciatori)… a tal punto si irritò per quanto era stato detto che, senza curarsi dei diritti fissati tra gli uomini, inviò qualcuno contro di loro, che stavano salpando a uccidere quell’ambasciatore che si era espresso così liberamente». (Polibio, II, 8, trad. di M. Mari).
L’episodio rappresentò il casus belli per lo scoppio della prima guerra illirica (229-228 a.C.), che segnerà il primo coinvolgimento romano nel Mediterraneo orientale. Nonostante l’intervento, Roma giungerà alla piena funzione di polizia dei mari molto lentamente e solo nella tarda Repubblica, di pari passo con la crescita dei propri interessi politici e commerciali verso il Levante, tanto da susci46
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La pirateria nella navigazione antica
tare in tempi più antichi le proteste di Alessandro Magno prima e le accuse di Demetrio Poliorcete poi: «Precedentemente gli Anziati possedevano navi e partecipavano con i Tirreni ad atti di pirateria, sebbene fossero già soggetti ai Romani. È per questo che Alessandro, in epoca anteriore, mandò un’ambasceria per esprimere le sue lamentele e Demetrio poi, rinviando ai Romani i pirati catturati, disse che faceva loro il favore di rimandare i prigionieri per il legame di parentela con i Greci, ma che non era cosa dignitosa che gli stessi uomini fossero al comando dell’Italia e intanto inviassero bande di pirati e che, avendo costruito nel Foro un tempio ai Dioscuri, onorassero quelli che tutti chiamano Salvatori, ma poi mandassero in Grecia, la patria dei Dioscuri, gente che andava lì per depredare. I Romani così cessarono da questa attività».
Le parole di Strabone (Geografia, V,3,5, trad. di A.M. Biraschi) mettono in evidenza un atteggiamento non molto dissimile da quello di Teuta, anche se la reazione romana fu decisamente diversa: quantomeno gli ambasciatori non furono trucidati. D’altra parte Plutarco nella Vita di Pompeo (cap. 24) , ricorda come ancora tra II e I sec. a.C. ci fossero personaggi di illustri famiglie implicati nei traffici della pirateria; infatti enormi guadagni potevano scaturire da complicità di vario genere: non solo la diretta partecipazione ai raids, ma anche il riciclaggio e la rivendita di mercanzie rubate, magari frodando le compagnie assicurative o più semplicemente la vendita d’informazioni preziose. Il fenomeno della pirateria era quindi intimamente legato ai traffici commerciali e appariva abbastanza generalizzato in tutto il bacino del Mediterraneo. Ad Oriente oltre a Illiri, Etoli e Fenici operavano i Cretesi, provetti navigatori e famosi arcieri: presero varie località delle Sporadi e controllavano anche capo Malea, all’estremità meridionale del Peloponneso; di conseguenza costringevano le onerarie, che viaggiavano fra l’Italia e la Grecia, a mantenersi al largo e possibilmente scortate da navi armate. A Occidente la testimonianza di Strabone ricordava gli Anziati e i Tirreni; quest’ultimi erano a tal punto famosi nell’antichità che il loro nome era diventato leggendario sinonimo di pirati. Nel settimo degli Inni Omerici si narra il mito di Dioniso rapito dai pirati Tirreni, i quali, credutolo figlio di un re per la sua bellezza, lo catturarono e lo imbarcarono sul loro vascello con l’intenzione di venderlo come schiavo; ma ben presto dalla nave cominciò a zampillare vino che profumava d’ambrosia, sulla sommità della vela apparvero racemi di vite da cui pendevano ricchi grappoli d’uva, mentre una rigogliosa edera adorna di fiori avvolgeva l’albero maestro e gli scalmi erano tutti inghirlandati. I pirati sbalorditi cercarono di guadagnare la costa, ma il giovinetto dalle chiome turchine si trasformò in un leone dall’aspetto terribile, che si avventò sul comandante e lo ghermì. Gli altri atterriti si gettarono in mare, ma furono trasformati dal dio in delfini; solo il pilota che aveva riconosciuto la natura divina del prigioniero fu risparmiato e ricompensato. Un tale incantesimo portò i delfini ad essere amici degli uomini e a soccorrerli nei naufragi, poiché dietro il loro aspetto si nasconderebbero i pirati pentiti. Questo racconto era celeberrimo nell’antichità e ha lasciato varie tracce © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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1. - Kylix attica a figure nere dipinta da Exékias (550-530 a. C.). Staatliche Antikensammlungen, Munich. 2. - Stele 10 del sepolcreto dei Giardini Margherita. Museo Civico Archelogico, Bologna.
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nella decorazione ceramica, come ad esempio la bella coppa dipinta da Exékias, dove un Dioniso regale riposa sulla nave dei pirati adorna di grappoli odorosi, mentre i malcapitati nuotano tra i flutti sotto forma di delfini (fig. 1). Secondo gli storici moderni i Tirreni della leggenda non rappresenterebbero però gli Etruschi, bensì i loro avi dell’Egeo, originari dell’isola di Lemno; in ogni caso sono documentate storicamente anche azioni piratesche dei Tirreni d’occidente, sia nel Tirreno che in Adriatico. Nel 339 a.C. Timoleonte di Siracusa sorprese e mise a morte il potente pirata etrusco Postumio comandante di una flotta forte di ben dodici vascelli; l’origine di Postumio va ricercata nell’ambito dell’Etruria meridionale, probabilmente a Cerveteri dove è noto il corrispondente gentilizio etrusco. L’anno seguente Roma conquistò la città volsca di Anzio, e manifestò la vittoria adornando la tribuna degli oratori nel Foro con sei rostri strappati alle navi dei pirati, ma la collaborazione tra Anziati ed Etruschi continuerà con l’utilizzo della base navale alla foce dell’Astura. Sul versante adriatico è nota l’opera degli abitanti di Spina durante il IV sec. in antitesi con la politica espansionistica di Dionigi di Siracusa prima e di Atene in seguito, ma anche in tempi precedenti, quando i rapporti commerciali tra le due etnie trovavano nell’emporio di Spina uno dei punti di contatto e scambio commerciale, gli etruschi, probabilmente sotto l’orchestrazione di Felsina, conducevano operazioni di corsa sul mare contro e nello stesso tempo a difesa dalle popolazioni rivierasche dalmate. In questo senso va interpretata la stele di Vel Kaikna, proveniente dalla necropoli dei Giardini Margherita a Bologna (fig. 2). La rappresentazione sul lato principale restituisce una nave da guerra dall’alta prua, armata con il rostro e azionata da due file di rematori, di cui sono visibili le teste. Sul ponte compaiono il nocchiero, che guida l’imbarcazione seduto a poppa, mentre a prua si nota un personaggio di vedetta e al centro due armati con lancia e corazza. L’evidenza
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La pirateria nella navigazione antica
figurativa induce ad attribuire a Kaikna un ruolo politico-militare, probabilmente quello di navarca della flotta etrusca a Spina. D’altra parte anche Strabone (Geografia, V,1,7) ricorda quanto potente sul mare fosse stata la città di Spina in tempi più antichi a quelli da lui vissuti, tanto da offrire un tesoro nel santuario di Delfi, e in un altro passo (III, 16,120) specifica che il tesoro conteneva i frutti delle prede di guerra. Altre feluche incrociavano sulle acque tirreniche. Nel 181 a.C. il console L. Emilio Paolo guidò una spedizione a tenaglia per terra e per mare contro i Liguri di ponente, in particolare Ingauni e gli Intemeli, che si davano al brigantaggio sui monti e pirateggiavano sul mare sino alle colonne d’Ercole. Prese tra due fuochi le tribù liguri si arresero: furono catturate trentadue navi corsare con i comandanti e i piloti. Livio (XL, 28; 34) ricorda che nel trionfo celebrato dal console l’anno seguente vennero esposti molti principi dei Liguri, probabilmente gli esponenti di questa aristocrazia di guerrieri e armatori che mal sottostava ai trattati stipulati con i Romani all’indomani del conflitto annibalico. Esistevano poi gruppi forse meno organizzati di pescatori-predoni, i lestai menzionati da Cassio Dione (LV,28), che operavano lungo le coste della Sardegna; ma per sedare i disordini da loro fomentati fu necessario sia l’intervento della flotta che quello dell’esercito. Per non sottostare al giogo romano alcuni gruppi fuggirono verso le Baleari dove trovarono l’alleanza dei locali abitanti, famosi ed esperti frombolieri. Dall’arcipelago iberico i rivoltosi sarebbero stati in grado sia di fomentare disordini in Sardegna e in Gallia forzando i blocchi navali, sia di razziare le navi che viaggiavano tra l’Italia, la Gallia e la Spagna, profittando del gran numero di insenature e porti naturali offerti dalle coste baleariche. Come si è mostrato sin ora la pirateria era un fenomeno sviluppato in varie zone, ma comunque con una sfera d’azione di breve o medio raggio; la situazione si modificò radicalmente a partire dalla metà del II sec. a.C.: con la crisi del regno dei Seleucidi e il decadere della potenza navale di Rodi, la recrudescenza degli attacchi proliferò in ogni parte del Mediterraneo. D’altra parte Roma, divenuta ora potenza di primo piano in Oriente con le vittorie su i regni ellenistici, era restia nel mantenere una grande flotta permanente ed anzi aveva creato sull’isola di Delo un grande porto franco dove non si facevano troppe domande circa la provenienza delle merci o degli schiavi; schiavi che in gran parte soddisfacevano il bisogno di manodopera romana. Sulla costa meridionale dell’Anatolia, la Cilicia era il centro propulsore della pirateria, grazie anche ad un habitat ideale costituito da un’estensione di montagne scoscese, che si gettano in mare con una successione di promontori a precipizio e di profondi fiordi; così protetti alle spalle dai monti contro qualsiasi attacco di forze terrestri, potevano sfruttare la varietà di ridossi e di covi ben nascosti sulla costa per sferrare i loro attacchi. I Cilici stabilirono il loro quartier generale nella roccaforte di Coracesium, odierna Alanya, una specie di Gibilterra in miniatura, appolaiata su una roccia a strapiombo sul mare e unita alla terraferma solo da uno stretto istmo; ma tutta la costa era disseminata di piazzeforti secondarie per il ricovero delle navi e di torri per l’avvistamento e le segnalazioni. © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Quando poi nel 88 a.C. Mitridate VI Eupatore cominciò la sua rivolta contro Roma, i pirati divennero il braccio armato del re sui mari mettendo a sua disposizione la migliore flotta di tutto il Mediterraneo. Essi si consideravano appartenenti ad una solidale comunità più grande e relativamente unita, nella quale confluivano gruppi di varie etnie quali Siriani, Panfilii, Ciprioti, Pontici e di altre zone del Mediterraneo orientale. Secondo Appiano (Guerre Mitridatiche, 92) lo sfruttamento attuato dai pubblicani romani ai danni della Provincia d’Asia generò profondi sentimenti antiromani, che Mitridate fomentò per i suoi scopi; così i nemici di Roma divennero gli alleati naturali dei pirati, che si spinsero sino nelle acque delle Baleari in aiuto di un altro ribelle: Sertorio. In sostanza si può parlare di una vera e propria “internazionalizzazione” del fenomeno piratico. Le testimonianze lasciateci dagli autori antichi mostrano una situazione di totale terrore, che pervadeva ogni zona, con il mare in completo dominio dei predoni: queste le parole di Plutarco (Vita di Pompeo, 24, trad. di A. Marcone): «L’attività dei pirati prese le prime mosse dalla Cilicia…[e] trovò nuova conferma e nuova convinzione nel corso della guerra contro Mitridate, al cui servizio essa si era posta. Poi, durante le guerre civili, quando i Romani, presero a farsi la guerra gli uni contro gli altri alle porte di Roma, il mare, lasciato senza sorveglianza, cominciò ad attirare e a spingere i pirati sempre più lontano, tanto che si misero ad attaccare non solo le imbarcazioni, ma anche le isole e le città costiere….In più luoghi vi erano approdi sicuri per le navi corsare, posti fortificati atti a dare segnalazioni, squadre d’assalto che non solo per il valore degli equipaggi, la capacità dei nocchieri, la rapidità e la leggerezza delle imbarcazioni, erano particolarmente adatte al loro compito, ma offendevano per l’eccesso della loro magnificenza più di quanto non destassero timore. Le prue dorate, i tappeti di porpora e i remi d’argento davano l’impressione che le loro malefatte li riempissero d’orgoglio e di soddisfazione….Le navi dei pirati erano più di mille e le città di cui si impadronirono furono più di quattrocento. Tra i santuari, sino ad allora sacri e inviolabili, invasero e saccheggiarono quelli di Claro, Didima, e Samotracia, a Ermione il tempio della dea Ctonia e quello di Asclepio a Epidauro, quelli di Nettuno all’Istmo, a Tenaro e a Calauria, quelli di Apollo ad Azio e a Leucade, quelli di Giunone a Samo, ad Argo e a Lacinio… Dopo aver recato moltissimi oltraggi ai Romani, arrivarono a praticare, partendo dal mare, il brigantaggio anche sulle strade e sulle proprietà vicine. Una volta rapirono persino due pretori, Sestilio e Bellieno, nelle loro vesti ornate di porpora e li portarono via insieme ai loro servitori e littori. Si impadronirono anche della figlia di Antonio, un uomo che aveva avuto l’onore del trionfo, mentre si recava in campagna e non la rilasciarono se non dietro un forte riscatto».
Un fenomeno di tale portata non aveva più solo implicazioni commerciali, ma anche politiche e sociali: la stessa Roma, si trovava sull’orlo di una nefasta carestia, dal momento che gli approvvigionamenti non giungevano più nel porto di Ostia e addirittura una flotta intera fu distrutta dai pirati all’interno del porto; a questo punto l’intervento romano, guidato da Gn. Pompeo, fu tanto veloce quanto efficace; ancora Plutarco (Vita di Pompeo, 25-28, trad. di A. Marcone): 50
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La pirateria nella navigazione antica
«25. …Allora Gabinio, uno degli intimi di Pompeo, propose una legge che gli conferiva non dico il comando della flotta, ma addirittura un potere assoluto e universale…[con una] autorità sul mare sino alle Colonne d’Ercole e dovunque sulla terraferma, entro un raggio di quattrocento stadi dal mare. Pochi erano, allora, i territori dei Romani che si trovassero fuori di questo ambito, che per altro comprendeva i popoli più importanti e i re più potenti….Furono equipaggiate per lui cinquecento navi e raccolti centoventimila fanti e cinquemila cavalieri. Scelse all’interno del senato ventiquattro luogotenenti e generali, e si affiancò due questori… 3. - Kylix attica a figure nere (c. 510 a.C.). British Museum, London; (da Casson 1995).
26. …[Pompeo] provvide a dividere l’intera estensione del mare Mediterraneo in tredici settori, affidandone ciascuno a una flotta di una determinata entità con un luogotenente, così che, grazie a questa flotta disseminata contemporaneamente ovunque, poteva accerchiare i gruppi di pirati che incontrava e dare loro la caccia fino a respingerli verso terra. Poiché quelli che riuscivano a disperdersi tempestivamente e a sfuggirgli andavano a rifugiarsi, convergendo da tutte le parti, in Cilicia, come api in un alveare, si apprestò lui stesso a inseguirli con sessanta delle sue navi migliori. Ma non volle dirigersi contro di loro prima di aver liberato dai pirati che li infestavano, in soli quaranta giorni, il mare Tirreno, il Libico, il mare di Sardegna, di Corsica e di Sicilia… 28. Tuttavia la maggior parte e i più potenti dei pirati avevano messo al sicuro le loro famiglie e le loro ricchezze, insieme alla massa di coloro che non servivano alla guerra, nei castelli e nelle piazzeforti del Tauro e, imbarcatisi sulle navi, si accingevano a fronteggiare l’arrivo di Pompeo nei pressi di Coracesio, in Cilicia; ingaggiata battaglia furono sconfitti e quindi assediati… si arresero, consegnando le città e le isole di cui si erano impadroniti e che avevano fortificato… La guerra fu così conclusa: i pirati furono cacciati ovunque dal mare in non più di tre mesi, e Pompeo catturò, tra le molte altre, novanta navi dotate di speroni di bronzo».
In totale furono necessari poco più di sei mesi per preparare e portare a compimento la guerra, tra la fine del dell’inverno del 67 e l’estate del 66 a.C. Un fenomeno così vasto, che ha lasciato tracce voluminose nelle parole degli autori antichi, non ha prodotto però la stessa mole di testimonianze archeologiche. Alcune le possiamo riscontrare nell’iconografia della ceramica antica, in particolare la famosa coppa attica a vernice nera B 436 del British Museum, dipinta intorno al 510 a.C., dove assistiamo all’attacco di una nave da guerra ai danni di un’imbarcazione commerciale (fig. 3). Nella prima scena si nota la feluca pirata, bassa e filante sull’acqua, con la prua a testa di cinghiale, che termina nel terribile muso-sperone. Tutti i rematori sono seduti ai loro banchi, intenti nello spasimo della voga per lanciare la nave alla massima velocità e raggiungere la preda: un lento e ingombrante naviglio commerciale, che procede a velatura ridotta. Nella seconda immagine il mercantile ha invece la grande vela quadrata completamente spiegata nell’estremo tentativo di fuga, mentre gli assalitori non sono più al loro posto, alcuni © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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4. - Nike di Samotracia (200-180 a.C.). Musée du Louvre, Paris; (da Pomey 1997).
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li vediamo ora in piedi, intenti ad armeggiare con la velatura e l’albero maestro; forse hanno desistito dall’attacco? L’insieme della rappresentazione è stata convincentemente spiegata da L. Casson: in combattimento una nave doveva muoversi con molta più agilità rispetto alla navigazione di crociera, per poter sfruttare appieno le potenzialità offensive del rostro, quindi era insufficiente, per non dire pericoloso, affidarsi alla sola forza del vento. In genere un comandante, che si accingeva all’attacco, ordinava di abbassare albero e velatura per abbandonarli sulla spiaggia, poiché a bordo non c’era posto per albergare simili attrezzature. Per soddisfare le proprie esigenze, i pirati idearono allora una singolare soluzione tecnica, che sarà ripresa in seguito anche dalla regolare marina da guerra: trasformarono la classica galea a due banchi di rematori nella hemiolia, la “uno e mezzo”. Questo tipo di nave permetteva loro di navigare durante l’inseguimento sia con le vele che con la propulsione a remi, ma quando la preda era raggiunta e l’azione d’abbordaggio pronta, metà dei rematori dei banchi superiori, quelli tra l’albero e la poppa, abbandonavano il loro posto e fissavano i remi; così non solo si lasciava un ampio spazio dove riporre albero e velatura, ma una dozzina di uomini in più era pronta per l’abbordaggio. È questo il momento “fotografato” nella seconda scena in cui si vedono alcuni dei pirati in piedi, intenti nell’imbracare le vele e nell’abbattere l’albero, pronti all’attacco. Se confrontiamo la rappresentazione dell’hemiolia nelle due immagini, noteremo che nella seconda i remi della parte di poppa sono disposti su un’unica linea e non su due come nella prima immagine, proprio perché quelli arretrati dei banchi superiori sono stati tolti. La grande nemica della hemiolia era la triemiolia ricordata in molte fonti antiche; creata nei cantieri di Rodi proprio per dare la caccia alle navi pirata, rappresentava uno sviluppo della hemiolia come indica il nome stesso. In realtà non è ancora chiaro quale fosse la disposizione dei rematori, cioè se si trattasse di una trireme che, accingendosi all’abbordaggio, si trasformava in una due e mezzo, oppure una soluzione sempre di uno e mezzo, ma con due rematori per ogni livello; in ogni caso il sistema dell’abbattimento dell’albero rimaneva analogo a quello utilizzato dai pirati. Molti degli studiosi moderni hanno riconosciuto il tipo di nave rodia in alcuni monumenti, dei quali il più famoso è indubbiamente la cosiddetta Nike di Samotracia. Si tratta di una statua di vittoria alata montata sulla prua di una nave da guerra, una triemiolia appunto, che Demetrio Poliorcete offrì al santuario panellenico dopo la vittoria di Salamina di Cipro nel 306 a.C. sui Tolomei (fig. 4) .
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La pirateria nella navigazione antica
5. - Elmo romano concrezionato con parte di calotta cranica dal relitto di Spargi (prima metà I sec. a.C.). Museo archeologico navale “Nino Lamboglia”, Isola della Maddalena (SS); (foto Sopr. Arch. Sassari e Nuoro).
6. - Relitto di Spargi in corso di scavo (prima metà I sec. a.C.); (da Pallarés, «Bollettino d’arte» suppl. al n. 37-38, 1986).
Un valido supporto per lo studio della pirateria può essere ricercato anche nell’archeologia subacquea, che, con uno sviluppo considerevole negli ultimi quarant’anni, ha permesso di far luce su vari aspetti della navigazione antica, dal commercio alle tecniche di costruzione navale e più in generale sul rapporto tra l’uomo e il mare. Come è noto i reperti che abitualmente si rinvengono sui relitti di navi antiche sono quelli più resistenti, per loro natura, all’azione degli agenti marini, in particolar modo: anfore, ceramiche, pietre, marmi e alcuni metalli. Molto rari sono anche gli oggetti di uso personale ed eccezionali sono i resti umani; nonostante ciò sin dall’inizio delle ricerche sottomarine furono ritrovate su alcuni relitti delle armi: elmi, spade, giavellotti e corazze il cui impiego in base alla funzione commerciale delle navi, rimaneva oscuro. D’altra parte in alcune situazioni i reperti si prestano a spiegazioni anche contraddittorie, ad esempio la presenza di una preziosa corazza anatomica di I sec. d.C. sul relitto B della Cueva del Jarro in Andalusia, potrebbe segnalare la presenza a bordo di un alto ufficiale in trasferimento o fare parte del carico; però nonostante casi particolari sembra evidente un filo conduttore che lega i ritrovamenti. Già all’inizio degli anni Ottanta P.A. Gianfrotta pubblicava un lavoro, che metteva in evidenza la pertinenza delle armi ai marinai stessi o ad un gruppo di armati presenti a bordo con lo specifico compito di difendere i convogli. D’altra parte non mancano certo le testimonianze di autori antichi quali Polluce (VII,139) o passi del Digesto (IV,9,1,3), che parlano di personale di bordo con mansioni di vigilanza come i nauphilakes o i dietarii di età tardoantica; o di vere e proprie scorte, sia in mare per difendere ad esempio i preziosi rifornimenti granari dall’Egitto o le navi mercantili che veleggiavano nel Mar Rosso, sia in terra per le carovane che attraversavano i deserti. In questa ottica il recupero più sorprendente è stato quello di un elmo concrezionato con parte di una calotta cranica, su una nave oneraria naufragata alla fine del II sec. a.C vicino all’isola di Spargi, nell’arcipelago della Maddalena (fig. 5). L’imbarcazione trasportava un carico composto essenzialmente di anfore contenenti vino dell’I-
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talia meridionale e ceramica a vernice nera e di altro tipo (fig. 6). Si sono rinvenuti anche i frammenti di un secondo elmo, una punta di lancia e alcune borchie appartenenti probabilmente a una corazza; ma è soprattutto la presenza del cranio umano con il suo elmo che ha fornito un’indicazione precisa, grazie alla quale possiamo ipotizzare che l’imbarcazione sia naufragata in seguito ad un combattimento, considerato che un pesante elmo bronzeo non è un oggetto comunemente indossato durante la navigazione per ripararsi dalla pioggia e tanto meno dal sole. Potremmo quindi ipotizzare una scena simile a quella dipinta sulla coppa del British Museum sopra descritta: la nave dopo aver fatto rotta lungo le coste tirreniche dell’Italia centrale stava entrando nelle bocche di Bonifacio, per poi risalire la costa corsa sino alla Provenza o per proseguire verso la penisola iberica, quando fu attaccata da un gruppo di pirati sardi, così a bordo si ingaggiò un cruento combattimento, seguito dall’affondamento della nave. L’uomo con l’elmo ne sarebbe appunto rimasto vittima, anche se rimane difficile capire se in qualità di membro dell’equipaggio, l’esito negativo lo renderebbe più probabile, o al contrario come assalitore. Anche gli evidenti segni d’urto riscontrati in alcune parti dello scafo, difficilmente imputabili a ostacoli naturali, lascerebbero pensare che la nave di Spargi sia stata abbordata e speronata. L’affondamento può essere considerato una precauzione dei pirati per eliminare il corpo del reato, dopo essersi impossessati degli oggetti più preziosi e facilmente smerciabili, e aver deciso la sorte dei prigionieri: soppressione, rapimento per ottenere un riscatto o vendita come schiavi. Una situazione simile è ipotizzabile anche per il relitto di Kyrenia. Otto punte di lancia e alcune punte di freccia vennero riconosciute, dopo accurati esami, all’interno di conglomerati ferrosi ritrovati sull’imbarcazione affondata nelle acque cipriote alla fine del IV sec. a.C.; in molte delle armi si riscontrarono tracce di lacci in cuoio che passavano anche sotto lo scafo. Così si è pensato che le punte si fossero incastrate nella fiancata della nave prima dell’affondamento. La nave dopo l’inseguimento era stata colpita dai predoni con lance legate al guinzaglio per facilitare le operazioni di abbordaggio. È interessante che un naufragio reso sospetto da tali circostanze sia avvenuto a Cipro, proprio di fronte alle coste della Cilicia. Scenari simili dovevano essere molto frequenti, tanto che i romanzi e i racconti di avventura dell’antichità traboccano di esempi. Nel romanzo di Achille Tazio Leucippe e Clitofonte (III, 20), la nave assalita viene colata a picco e i naufraghi uccisi. Nelle Etiopiche di Eliodoro (I, 3), i pirati si limitano a portare via dalla nave catturata oro, argento, pietre preziose e drappi di seta trascurando il resto. Sempre nelle Etiopiche (V, 23-27) dopo essersi impossessati di una nave mercantile, i predoni si sbarazzano della loro imbarcazione per non destare sospetti nei porti dove intendevano recarsi a vendere il bottino sotto le mentite spoglie di innocenti marinai. Nei Racconti d’Efeso (I, 13-14), i pirati s’impadroniscono della nave sulla quale viaggiano i protagonisti, trasbordano soltanto la parte più preziosa del carico con pochi ostaggi e poi bruciano la nave. L’elmo di Spargi è sicuramente il ritrovamento più significativo, proprio 54
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La pirateria nella navigazione antica
7. - Elmo italico da Populonia (metà V se. a.C.). Museo del Mare del Circeo (Sabaudia); (da Gianfrotta 2001). 8. - Uno dei meno noti elmi del relitto d’Albenga (prima metà I sec. a.C.), si noti la cerniera con ribattino che testimonia un restauro in antico; (il disegno da Lamboglia, «Rivista Studi Liguri» 1964).
per quell’immagine di combattimento quasi “istantanea” che sembra restituirci; ma un’altra situazione cruenta è ipotizzabile grazie ad un secondo elmo rinvenuto nelle acque di Populonia, nel golfo di Baratti, all’interno del quale rimanevano frammenti ossei (fig. 7). L’arma è databile intorno al V sec. a.C. e va sottolineato che la sua presenza sul fondale può essere dovuta a molteplici fattori, ma non va taciuta la testimonianza di Diodoro Siculo (XI, 88,4-5), che ricorda due scorrerie dei Siracusani condotte contro i pirati Tirreni datate nel 453-2 a.C. proprio in queste acque e all’isola d’Elba. Altri elmi provengono da svariati relitti come quello d’Albenga, nel quale furono trovati ben sei esemplari (fig. 8). L’elevato numero di reperti lascia supporre una vera e propria scorta armata giustificata dall’enorme stazza della nave che, con suoi quaranta metri di lunghezza e dieci di larghezza, trasportava un carico complessivo di oltre 270 tonnellate, formato da circa diecimila anfore vinarie e da una partita di ceramiche di produzione campana. Con queste cifre la nave di Albenga rimane a tutt’oggi il relitto antico più grande del Mediterraneo e può essere identificato con una delle myriagogoi, navi appunto da diecimila anfore, ricordate anche da Strabone (Geografia, III, 3,1). Nel relitto dell’Isola di Mal di Ventre, ad occidente della Sardegna, naufragato tra il I sec. a.C. e la metà del I sec. d.C. si rinvennero duecento glandes plumbeae, proiettili da fionda in piombo (fig. 9). I reperti però non si trovavano mischiati ai lingotti di piombo che costituivano il grosso del carico, ma erano a poppa nei pressi dei materiali e dell’attrezzatura di bordo; questa parte delle navi era predisposta per ospitare la cabina, e quindi non si può escludere che i proiettili facessero parte di una piccola armeria controllata dal comandante. Nella stessa ottica può essere considerato un gruppo di elmi in bronzo
9. - Glandes plumbeae dal relitto dell’Isola di Mal di Ventre (prima metà I sec. a.C.); (foto Sopr. Arch. di Cagliari).
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10. Elmo romano dal relitto di Benicarló (Castellón) (II - prima metà I sec. a.C), (disegno di A. Oliver Foix).
11. Parti di catapulta in bronzo dal relitto di Mahdia (prima metà del I sec. a.C.); (da AA.VV. Das Wrack. Der antike Schiffsfund von Mahdia, Rheinland-Verlag GmbH·Köln 1994).
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e in ferro di età repubblicana recuperato in un relitto presso la località di Benicarlò, nel territorio di Valencia, che erano custoditi uno sull’altro all’interno di una cassetta lignea (cm150x50x50) praticamente distrutta dalle fiamme (fig. 10). Naturalmente poteva trattarsi di oggetti destinati al commercio, ma la loro diversa tipologia sembra qualificarli più come armi di uso personale. Un caso sino ad ora unico in contesto subacqueo è il rinvenimento di alcuni elementi di catapulta provenienti dal relitto di Mahdia, in Tunisia (fig. 11). Le testimonianze delle fonti sono molto scarse al riguardo, ma non va taciuto che un passo di Senofonte (Economico, VIII, 11) menziona una grande nave da carico fenicia dotata non solo di armi per l’equipaggio, ma anche di macchine da lancio da impiegare contro il naviglio nemico; inoltre Ateneo (V, 208) ricorda le catapulte montate da Archimede sulla famosa Syracusia di Gerone. È ipotizzabile quindi che per trasporti eccezionali o in periodi di particolare pericolo si ricorresse a strumenti sempre più efficaci: si ricordi che il naufragio di Mahdia avviene all’inizio del I sec. a.C. e la nave aveva un carico particolare con opere d’arte di notevole valore, alcune di dimensioni contenute e quindi facilmente trafugabili. Infine ricordiamo il ritrovamento di una delle navi di un famoso pirata, o meglio così dipinto dalle fonti a lui ostili e allineate con la storiografia del vincitore Augusto: ci riferiamo a Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. Durante le guerre civili Sesto combattè Augusto ed Agrippa e, impiegando come base la Sicilia, operò un blocco navale che tagliava i preziosi approvvigionamenti granari verso Roma, da qui la similitudine con la strategia attuata dai predoni al tempo del padre e il conseguante marchio politico di pirata. Proprio in Sicilia, nei pressi di Capo Rasocolmo in acque messinesi, sono venuti in luce i resti della nave, incendiata e affondata probabilmente nel conclusivo scontro di Milazzo e fra questi, non solo alcune monete riconducibili ad emissioni di Pompeo, ma anche altre più recenti ascrivibili a Sesto e soprattutto una laminetta di bronzo con iscrizione CNP MAGNUS, con chiaro riferimento al Grande Pompeo. In altri relitti di navi mercantili sono state rinvenute delle armi, non solo elmi, ma anche spade,
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12. Guardamano di gladio dal relitto di Valle Ponti (Comacchio) (seconda metà del I sec. a.C.). La decorazione a sbalzo mostra una coppia di leoni e una di orsi che si affrontano; (da Berti, Fortuna Maris. La nave romana di Comacchio, Bologna 1990). 13. Fodero di gladio dal relitto H della Chrétienne (Saint Raphaël,Var) (inizi I sec. d.C.); (da Santamaria, «Archaeonautica» 1984).
14. Elmo in bronzo con paraguance anatomiche da un relitto della baia di Camarina (III-inizi II sec. a.C.); (da Di Stefano, Antichi relitti nella baia di Camarina, Ragusa 1991).
lance, proiettili da frombola e punte di frecce (figg. 12-14). Le testimonianze riguardano ora quasi tutto il Meditterraneo, grazie anche allo sviluppo delle ricerche verso il Levante, in particolare nella Turchia meridionale e in Israele, e coprono un ventaglio cronologico che spazia da relitto di Ulu Burun in Turchia, datato al XIV sec. a.C. a quello di Favaritx, affondato nelle acque di Minorca nel VI se. d.C. Molto interessante appare anche la suddivisione cronologica: infatti i nuovi dati non solo confermano quelli già registrati nel 1981, con il 40% dei ritrovamenti datato tra la metà del II e la metà del I sec. a.C., in coincidenza con il periodo più acuto e travolgente della pirateria, stroncato poi dall’intervento di Pompeo nel 67 a.C.; ma circa un 20% delle testimonianze sono ascrivibili al I e II sec. d.C. In un epoca in cui il Mediterraneo era divenuto il Mare Nostrum, vero proprio lago romano che Augusto aveva posto sotto la tutela della flotta imperiale, ci aspetteremmo che il fenomeno piratico scompaia definitivamente e così sembrerebbero indirizzare la maggior parte delle fonti letterari. La realtà è che la pax marittima esaltata dalla propaganda augustea, pur essendo sostanzialmente vera, è da intendersi come vittoria sulla grande pirateria internazionale, terribile mezzo di destabilizzazione politica, ma alcune insidie perdurarono tra le pieghe del grande e variegato impero romano, soprattutto con valenze locali in quelle zone dove il fenomeno piratico era da sempre endemico come in Cilicia, sul litorale illiricodalmatico e lungo il litorale nord africano, in particolare nel delta del Nilo. A conclusione sia concessa una riflessione riguardo fatti drammatici dei giorni nostri. Nonostante i parallelismi su
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aspetti di epoche differenti siano sempre un azzardo, sono da sottolineare le misure di sicurezza che stanno discutendo le compagnie aeree di vari paesi dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, e che riguardano non solo maggiori controlli a terra, ma anche la presenza a bordo di personale addestrato alla difesa con o senza armi; quindi vere e proprie scorte contro gli attacchi terroristici che, seppur con tutti i distinguo del caso, richiamano alla memoria le figure dei nauphilakes presenti sulle antiche navi per scongiurare gli attacchi dei pirati. Bibliografia AA.VV., Antike Helme. Sammlung Lipperheide und andere Bestände des Antikenmuseums Berlin, Mainz 1988. L. Basch, Le Musée imaginaire de la marine antique, Athènes 1987. D. Braund, Piracy under the Principate and the ideology of imperial eradication. War and Society in the Roman World, London-New York 1992. P. Brulé, La piraterie crétoise hellénistique, Paris 1978. L. Casson, Ships and Seamanships in the Ancient World, Baltimore-London 1995 ?. L. Cavazzuti, Nuovi rinvenimenti sottomarini per lo studio della pirateria, in «Archeologia subacquea. Studi, ricerche e documenti» II, 1997, pp. 197-214. M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, Milano 1983. H.J. Dell, The origin and nature of Illyrian piracy, in «Historia» 16, 1967, pp. 344-358. M. Feugère, Les armes des Romains. De la République à l’Antiquité tardive, Paris 1993. Y. Garlan, Signification historique de la piraterie grecque, in «Dialogues d’histoire ancienne» 4, 1978, pp. 1-16. P.A. Gianfrotta, Commerci e pirateria: prime testimonianze archeologiche sottomarine, in «Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité» 93, 1981, pp. 227-242. P.A. Gianfrotta, La Piraterie, in (sous la direction de) P. Pomey, La Navigation dans l’Antiquité, Aix-en-Provence 1997, pp. 46-57. P.A. Gianfrotta, Fantasmi sottomarini: guerre, pirateria…..o chissà cos’altro, in «Daidalos. Studi e ricerche del Dipartimento di Scienze del Mondo antico. Viterbo» 3, 2001, pp. 209-214. M.G. Ientile, La pirateria tirrenica. Momenti e fortuna, in «Kokalos» suppl. 6, Roma 1983. A. Lewin, Banditismo e civilitas nella Cilicia Trachea antica e tardoantica, in P. Desideri, S. Settis (a cura di ), Scambi e identità culturale: la Cilicia, «Quaderni storici» n.s. 76, 1991, pp. 167-184. G. Marasco, Roma e la pirateria cilicia, in «Rivista Storica Italiana» 99, 1987, pp. 122-146. E. Maroti, Die Rolle der Seeräuber in der Zeit des Mithridatischen Krieges, in «Ricerche storiche ed econo58
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA A CAMARINA di Giovanni Di Stefano
1. - Camarina. Ripresa aerea verticale.
Per ampi tratti i fondali della costa meridionale della Sicilia (fig. 1) sono bassi e sabbiosi fino a 100-150 metri dalla battigia e molti antichi relitti sono arenati in acque poco profonde, spiaggiati e coperti da un insabbiamento mobile. Non è raro che dopo una mareggiata compaiano sul fondo del mare resti di antichi naufragi, o velieri ottocenteschi o aerei e mezzi da sbarco dell’ultima guerra. Nella baia di Camarina (fig. 2) sono apparsi inaspettatamente decine di relitti e vari resti di carichi commerciali, suscitando problematiche di ricerca scientifica e di tutela legate alla necessità di documentare la giacitura dei resti che giacciono al sotto delle dune sabbiose mosse dal moto ondoso e dalle forti correnti marine La quantità dei resti dei naufragi conferma anche quanto difficile fosse nell’antichità la navigazione in questo tratto del Canale di Sicilia, battuto da forti venti di libeccio: un vero e proprio triangolo delle Bermude al centro del Mediterraneo, teatro di affondamenti, talvolta celebri. In due passi delle Storie di Polibio (I,37 e 54) sono raccolti quasi come in una cronaca giornalistica due catastrofi che coinvolsero la marina di guerra romana: nel 255 a.C. naufragò lungo la spiaggia di Camarina la flotta romana inviata in Africa per salva-
2. - Camarina. Il promontorio e la baia.
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3. - Punta Braccetto. Elmo corinzio.
4. - Punta Braccetto. Elmo corinzio-illirico. 5. - Camarina. Baia. Elmo di tipo “Montefortino”.
re i resti della sfortunata spedizione di Attilio Regolo contro Cartagine. Morirono 60.000 uomini e si salvarono solo 80 navi. Ciò che non avevano distrutto i Cartaginesi in battaglia fu distrutto da un’impietosa tempesta abbattutasi sulle coste camarinesi e anche su un’intera classe dirigente romana, che forse aveva sottovalutato mezzi ed esperienze per il confronto con il mare. Non molto tempo dopo, nel 249 a.C., lungo il litorale camarinese la flotta di Publio Claudio Pulcro, che aveva già perso 200 navi in battaglia a Trapani, fu decimata da un nuovo naufragio: due flotte, ben 920 navi, del console Giunio Publio, sorprese da un tempesta affondarono inesorabilmente. A queste celebri pagine di storia la recente ricerca archeologica subacquea nel mare di Camarina ha aggiunto decine di storie di naufragi anonimi, dimenticati, ma che costituiscono i veri “tesori”. Sono proprio questi naufragi che ci consentono di scrivere alcune pagine della storia commerciale ed economica dall’epoca greco-arcaica fino alla tarda età imperiale. Alcuni esempi sono sicuramente emblematici. Un piccolo vascello commerciale greco diretto verso le colonie greche di Sicilia, lungo la rotta dell’olio, dalla Grecia verso l’occidente, naufragò agli inizi dl VI sec. a.C., durante una navigazione di cabotaggio, nell’ancoraggio di Punta Braccetto (vicino Camarina). È stato possibile recuperare parte del carico: grandi anfore da trasporto di tipo corinzio, attiche e greco-orientali, ma anche coppe ioniche e lucerne. Due magnifici elmi di bronzo (figg. 3, 4) ritrovati nel luogo del naufragio, databili al VII sec. a.C., sono forse due preziosi cimeli portati a bordo dal comandante della nave, un vero signore e piccolo principe del mare. Alla fine del IV sec. a.C. un altro affondamento di un vascello commerciale dovette avvenire nella baia sottostante l’agorà di Camarina. Il carico era formato da anfore greco-italiche, forse per trasportare vino camarinense. Dal carico proviene anche un prezioso elmo di tipo “montefortino” (fig. 5).
6. - Camarina. Baia. “Relitto di Mercurio”, vasi in bronzo.
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7. - Camarina. Baia. “Relitto di Mercurio”, manico di vaso in bronzo. 8. - Camarina. Baia. “Relitto di Mercurio”, lucerna in bronzo.
9. - Camarina. Baia. “Relitto di Mercurio”, statuetta di Mercurio.
Nella baia di Camarina, fra la fine del I e gli inizi del II sec. d.C., affondò anche una nave, di cui è stata individuata la cambusa. Da qui provengono vasi in bronzo finemente decorati: anfore (fig. 6), patere e vasi in lamina con i manici decorati con figure della dea Iside, con maschere dionisiache (fig. 7), con grandi uccelli acquatici nell’atto di ghermire un serpente, con teste di arieti. Questi preziosi contenitori facevano parte del servizio da mensa che forse accompagnava il viaggio in Sicilia di un ricco aristocratico romano che volle riprodurre sulla nave gli agi delle lussuose ville di Pompei e di Ercolano. I confronti più immediati rimandano, infatti, a simili produzioni artigianali campane. Dal carico provengono anche lucerne in bronzo, con manici decorati (fig. 8), basi di statue e una statuetta del dio Mercurio (fig. 9). Anche una nave che trasportava un pesante carico di marmo affondò nella zona verso il 250 d.C. La nave, forse sorpresa da una tempesta di libeccio nel Canale di Sicilia, tentò un impossibile attracco a Camarina; il fondale basso e sabbioso ne provocò il naufragio. Il relitto, oggi ben indagato, è veramente monumentale: 35 madieri, il paramezzale e ben due colonne in marmo giallo antico di Numidia provenienti dalle cave di Chemtou (fig. 10). Il carico era misto: oltre alle colonne anche anfore per il trasporto del vino e
10. - Camarina. Baia. Relitto delle colonne, veduta.
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poi eccezionali vasi in bronzo come un thermos e un vaso decorato (fig. 11). La nave, forse, aveva imbarcato le colonne nel porto di Tabarka per poi fermarsi a Cartagine e dirigersi verso Roma o Costantinopoli. Le illustrazioni sono di Mario Russo.
11. - Camarina. Baia. Relitto delle colonne, thermos.
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SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA: RICERCA E TUTELA DEL PATRIMONIO SOMMERSO di Pamela Gambogi
1-2. - Populonia - LI. Relitto del Pozzino (II sec. a.C.). Parti del fasciame.
L’occasione fornita da questo ciclo di conferenze, intitolate a Fabio Faccenna, può essere sfruttata per un bilancio consuntivo di alcune tappe segnate dall’Istituzione preposta in Toscana alla tutela dei beni archeologici negli ultimi anni di attività subacquea. Non va dimenticato peraltro che il concetto di tutela non può essere scisso da quello di ricerca, poiché la prima non deve limitarsi a una rigida serie d’impedimenti e divieti, tanto sterili quanto pericolosamente orientati a chiudere in una sorta di “gabbia” un patrimonio che è, per sua stessa natura (giuridica ed etica), semplicemente di tutti. E la ricerca ha davvero poco senso se è disgiunta da un lato dal lavoro di conservazione, catalogazione e restauro, dall’altro dalla continua pubblicazione dei dati. Tenterò qui una sintesi il più possibile completa delle principali ricerche sottomarine e del lavoro che a esse è seguito con i limiti imposti dallo spazio concesso e con la consapevolezza di ripetere cose già dette e scritte in altre sedi che, tuttavia, riunite in un unico schema, possono facilitare la comprensione di una realtà territoriale ben definita (dove il mare è elemento prevalente) e l’approccio alle più recenti acquisizioni da essa pervenute. Si deve al Soprintendente Francesco Nicosia l’intuizione dell’assoluta necessità di costituire, agli inizi degli anni Ottanta, un gruppo subacqueo interno alla Soprintendenza che, sulla scorta delle conoscenze già acquisite in Toscana dalla precoce attività di Nino Lamboglia e Francisca Pallarès, cresce nel tempo, affiancato da professionalità interne ed esterne al Ministero. Nascono da questa realizzazione le campagne sui relitti del Pozzino (1982 e 198990, figg. 1-2) e di Cala Piccione (1993) a Populonia, di Giglio Porto (1984 e poi 1986-1988), le ricognizioni nelle acque del Giglio (1982) e in quelle della Pianosa (1991-
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Pamela Gambogi
92), e anche l’impulso dato a scavi e ricerche in concessione, che portano alle campagne del relitto arcaico del Giglio Campese (1982-1985) e alle prime acquisizioni sistematiche su giacimenti diversi nelle acque della Gor3. - Secche della Meloria - LI. Il “Relitto della Torre”(metà III sec. a.C.). Resti del carico.
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gona (1990-1993), a opera di Mensun Bound. Fra il 1993 e il 1994 si realizzano i primi saggi di scavo nel bacino archeologico sommerso della Cala del Barbiere di Punta Ala, sulla costa grossetana di Castiglion della Pescaia, più tardi indagato sistematicamente, mentre di fronte alla costa di Livorno, sulle Secche della Meloria, nello stesso biennio, ricognizioni sistematiche portano al riconoscimento di ciò che resta di tre importanti giacimenti più volte segnalati alla Soprintendenza. Il 1995 ha segnato una battuta d’arresto nell’attività del personale subacqueo dell’Amministrazione, in attesa di una nuova e più controllata disciplina delle immersioni in servizio, poi raggiunta tramite decreti ministeriali ad personam, rilasciati dopo corsi o esami d’abilitazione. Il lavoro del Nucleo Subacqueo Toscano, fra i più numerosi in seno al Ministero, composto da sette elementi, tutti abilitati e di diversa professionalità, compresa chi scrive col compito del coordinamento, è ripreso soltanto nel 1998 con l’inizio dello scavo sistematico del “Relitto B” di Punta Ala e le ricognizioni su tutta la costa e nell’Arcipelago. La Soprintendenza si avvale in tutte le operazioni del supporto continuato dei Nuclei Sommozzatori del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco (Comandi Provinciali di Firenze, Pisa, Livorno e Grosseto) e dell’assistenza dell’Istituto di Anestesiologia dell’Università degli Studi di Firenze. Questa veloce cronistoria dell’ultimo ventennio era necessaria per introdurre l’esposizione di alcune acquisizioni degli ultimi anni e per sottolineare che a Francesco Nicosia va riconosciuto il merito di avere compreso fra i primi la necessità di addestrare personale interno all’Amministrazione per la tutela e la ricerca del patrimonio sommerso e di averne permesso l’intensa e prolungata attività. Nell’esposizione che segue si sono selezionati, per ovvi limiti di spazio, solo alcuni interventi che hanno già condotto a risultati scientifici definiti e alcune operazioni di natura particolare che, derivando direttamente dall’esperienza del cantiere subacqueo, possono apportare qualche nuova conoscenza. A partire dal 1993-94 – e le ricerche proseguono a tutt’oggi – i bassi fondali delle Secche della Meloria, di fronte alla costa di Livorno, sono stati oggetto d’indagini archeologiche tendenti anche a valutare il livello dei danni provocati dal saccheggio e dalla distruzione operati da organizzati predatori clandestini di tesori sommersi, a cui si sono aggiunti nel tempo i modesti prelievi dei sempre più numerosi subacquei sportivi. In particolare si è insistito allora sulla necessità d’iniziare un’indagine sistematica soprattutto in seguito alla consistente mole di materiali, di provenienza accertata dalle acque della Meloria,
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4. - Secche della Meloria - LI. Il “Relitto dei dolia”(I sec. d.C.). Particolare del giacimento.
recuperata attraverso i sequestri della Guardia di Finanza di Livorno nei primi degli anni Novanta. Che le Secche della Meloria abbiano costituito un pericoloso punto di naufragio in tutti i tempi è un fatto semplicemente intuitivo e la letteratura ne conosceva, attraverso ritrovamenti anche clamorosi, l’importanza e la ricchezza come giacimento di relitti o di carichi perduti. Non erano però state condotte vere e proprie campagne di ricognizione sistematica finché una proficua collaborazione fra l’Università degli Studi di Pisa, Insegnamento di Topografia Antica, volontari dell’Archeosub di Livorno e il Nucleo Sub della Soprintendenza, con l’appoggio del Nucleo Sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Livorno, ha permesso di raggiungere, in tempi relativamente brevi, alcuni significativi risultati. Oltre che sulle segnalazioni dei volontari si è lavorato sui dati del nostro Archivio Storico, nell’ambito di una ricerca globale sulle acque del livornese che ha permesso la realizzazione di due tesi di laurea, fatto questo di non poca importanza se si pensa alle scarse possibilità che si offrono ai giovani studenti che intendano dedicarsi alla ricerca subacquea. Si sono quindi identificati tre relitti, tutti a bassa profondità (la massima non supera i 4,5 m) ampiamente saccheggiati, danneggiati da vandalismi e dal moto ondoso delle violente libecciate della Meloria, relitti che pure hanno ancora fornito preziose indicazioni per la ricostruzione storica delle rotte e dei commerci di questo tratto del Mediterraneo nord-occidentale. Il relitto della Torre – 3 m di profondità – in stato di avanzata frantumazione, oggetto di continuo saccheggio, di cui restano tredici grandi blocchi di frammenti ceramici ancorati al fondo da un rivestimento di solida concrezione marina (fig. 3); una campionatura del poco che sopravvive ha permesso comunque d’identificare un carico composto da due tipi di materiali ben definiti e omogenei fra loro. Anfore greco-italiche arcaiche e ceramica da mensa a vernice nera pongono così il naufragio della nave da trasporto intorno alla metà del III secolo a.C.; i frammenti anforacei (con bolli in lettere greche) recano ancora tracce di sostanza isolante e inseriscono la rotta della nave in quel flusso commerciale basato sull’esportazione del vino italico dal sud della penisola verso le coste della Gallia, e dei relativi serviti da mensa, già da epoche ben precedenti a quella del dominio di Roma sull’intero Mediterraneo. Il relitto dei dolia – 4,5 m di profondità – di cui restano tracce costituite da una notevole concentrazione di orli, pareti e grappe in piombo a coda di rondine per la riparazione delle fenditure. Resti del fasciame e parte di un’ordinata sono stati rintracciati recentemente durante un’immersione di controllo con limitato uso di sorbona. Un fitto strato di radici e una prateria di posidonia impediscono una più chiara visione della consistenza della nave oneraria, il cui naufragio può essere collocato nella prima metà del I secolo (fig. 4).
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5. - Secche della Meloria - LI. Il “Relitto dei marmi”.
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A breve distanza dal relitto dei dolia, su un fondale di circa 4 m, giacciono gli imponenti resti di un carico di marmo bianco (undici grandi blocchi squadrati e un probabile fusto di colonna già lavorato) per un peso totale calcolabile attorno alle cinquanta tonnellate (fig. 5). Non possiamo affermare con certezza che la nave lapidaria naufragata fosse d’età imperiale poiché non v’è più traccia di materiale associato nel carico, ma sappiamo che il marmo di Luni, trasportato verso la capitale e impiegato nell’edilizia a partire dall’età di Augusto, percorreva normalmente questa rotta. Le indagini subacquee della Meloria promettono ulteriori risultati ma crediamo che il metodo col quale sono state impostate -ricognizioni mirate, rilevamenti sistematici, analisi e datazione dei materiali, copertura fotografica, rilievo grafico- abbia comunque già dato notevoli frutti e fornito alcuni primi dati scientificamente controllati; per non parlare dei punti fermi stabiliti nella redazione della carta archeologica subacquea di questo significativo tratto della costa toscana. Il che dimostra che anche un bacino archeologico plurisaccheggiato e particolarmente esposto, se indagato correttamente, può offrire ancora materia di ricostruzione storica. L’impegno degli ultimi due anni si è riversato in buona parte nelle campagne di scavo del cosiddetto “Relitto B” che giace a una profondità di soli 4 m circa sui fondali della Cala del Barbiere di Punta Ala, in comune di Castiglion della Pescaia (GR). Poco lontano, nel bacino ove sorge l’attuale porto turistico, Nino Lamboglia nel 1974 aveva condotto due campagne di scavo sui resti di un naufragio di III secolo, poi impietosamente obliterati dalla gettata cementizia dell’odierno molo n. 4. Le notizie di rinvenimenti e le segnalazioni si sono in seguito concentrate sulla Cala del Barbiere, rimasta libera da strutture artificiali. Qui la Soprintendenza aveva intrapreso ricerche, con la direzione di M. Cygielman, già nel 1993-94 eseguendo saggi di scavo che avevano portato al rinvenimento di almeno due giacimenti, detti appunto “Relitto A” e “Relitto B”. Solo nel 1998 si sono potuti riprendere i lavori, sotto la direzione di chi vi parla e con il ricostituito Nucleo Subacqueo, per la durata di un mese. La campagna di scavo stratigrafico si è concentrata sul “Relitto B”, rivelando una notevole mole di materiali e parte dello scafo. È apparso evidente che si trattava di una grande oneraria, naufragata fra la fine del I e il II secolo, con un carico misto di abbondante varietà. Questi positivi risultati hanno portato a una seconda campagna di cinque settimane nel 1999, che ha fruttato ulteriori elementi per la ricostruzione dell’architettura della nave e per la composizione del carico. Dello scafo si sono messi in luce due tronconi (fig. 6). Il primo è costituito da una parte della fiancata di circa 2 x 2 m con cinque ordinate ancora in posizione, sotto le quali si conservano otto corsi del fasciame in connessione; si tratta probabilmente di parte della fiancata presso la chiglia in corrispondenza
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6. - Punta Ala - GR. Il “Relitto B”. Rilievo delle parti indagate.
7. - Punta Ala - GR. Resti del carico.
di una sezione dello scafo piuttosto centrale (la curvatura delle ordinate è pressoché impercettibile e i fori di biscia si trovano a metà circa delle ordinate stesse). Il secondo troncone (portato in luce nella campagna del ‘99) consta di sei ordinate, disposte parallelamente fra loro, a sud-est del primo troncone, con orientamento e quote diversi dalle precedenti. Questa parte della fiancata appare adagiata sul fondo con il fasciame rivolto verso l’alto (pochi i frammenti superstiti) come indica la posizione dei fori di biscia e la curvatura delle ordinate. Non si sono rinvenuti invece né la chiglia né i madieri, o parti di essi, il che porta a ipotizzare che le due parti di fiancata scoperte corrispondano al lato dello scafo che non poggiava direttamente sul fondo e che pertanto, col passare del tempo, si è staccato dalla chiglia stessa. Una terza campagna è in progetto per la ricerca delle altre parti dello scafo. La struttura appare comunque di buona robustezza, come sembrano indicare la frequenza delle ordinate (la misura delle maglie va da 9 a 17-20 cm) e lo spessore del fasciame (5-6 cm); inoltre la lunghezza massima delle ordinate rilevata arriva a 2,31 m; indizi questi che porterebbero a pensare a un’oneraria di notevoli dimensioni, spezzata in più parti e ulteriormente collassata dal moto ondoso e dall’ azione degli organismi xilofagi. Di conseguenza nessuno dei reperti che costituivano il carico si trovava nella posizione originaria di stivaggio e solo in alcuni casi i reperti stessi giacevano a contatto con lo scafo, mentre la maggior parte del materiale è stato rinvenuto negli strati soprastanti (il relitto si trova a circa m 1,20 sotto il livello superficiale dell’attuale fondo sabbioso) e in stato estremamente frammentario (fig. 7); la vicinanza alla costa e la scarsa profondità possono far apparire verosimile un’attività di recupero già all’epoca del naufragio. Il carico, il cui studio sistematico è in corso, era costituito essenzialmente da anfore e vasellame da mensa in terra sigillata: le prime sono riconducibili alle forme Dressel 20, Gauloise 4 e 5, Forlimpopoli B, Dressel 2-4 e alla cosiddetta anfora di Spello (Ostia II, 521/ Ostia III,
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8. - Punta Ala - GR. Una fase del recupero di materiale ceramico.
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369-370). Il vasellame da mensa comprende una significativa quantità di terra sigillata tardo italica, liscia -piatti su piede, coppette, bicchieri, lucerne – e decorata -spiccano le grandi coppe carenate Dragendorff 29 – e africana A con piatti e ciotole. Fra i bolli più noti, Lucius Rasinius Pisanus e Sextus Murrius Pisanus. Si distinguono, al di fuori delle produzioni ceramiche, due coppe in vetro verdazzurro (forma Isings 1957 3a), databili agli inizi del II secolo. La ceramica africana da cucina e la ceramica comune possono aver fatto parte, più che del carico, della normale dotazione di bordo. Il naufragio può essere inquadrato tra l’età traianea e quella primo-adrianea e i materiali appaiono cronologicamente coerenti, anche se di diverse aree di provenienza. Si può in conclusione pensare a una nave oneraria che ha stivato il suo carico misto in un grande porto oppure che ha toccato, nel suo ultimo viaggio, differenti porti del Mediterraneo occidentale, dalla Penisola Iberica alla Gallia, fino alle coste dell’Etruria Settentrionale, visitando certamente il Portus Pisanus. Fra i numerosi problemi che afferiscono alla conduzione di un cantiere di scavo subacqueo, sui quali non occorre dilungarsi perché fanno parte della conoscenza comune, quello del corretto recupero del materiale archeologico dalla giacitura originaria e dei primi interventi di conservazione è senz’altro uno dei più importanti. I due anni di scavo a Punta Ala hanno permesso di sperimentare alcune tecniche specifiche su materiali di diversa natura che è utile descrivere più dettagliatamente: nel primo caso si trattava di una pelvis in ceramica comune grigia la cui superficie esterna appariva molto fragile ed esfoliata; nel secondo caso di un manufatto ligneo dislocato (probabile parte della scassa) integro, ma fratturato in più punti e di scarsa consistenza al tatto. Per la ceramica l’operazione è consistita in una prima delicata pulitura del reperto, con uso di sorbona a distanza e scavo manuale; quindi si è passati all’applicazione di fogli di alluminio isolante, sui quali s’impiantano bende di ovatta e strisce di iuta o garza (è buona regola preparare il materiale a terra già tagliato a misura e portarlo sott’acqua in sacchetti di poliestere sigillati); il passo successivo prevede l’uso del gesso hydrocal giallo, che ha dato i migliori risultati: ponendo il sacchetto stagno che lo contiene sulla sommità del reperto lo si fora in modo da saturare il gesso con l’acqua; si ottiene in questo modo una massa molto plastica che viene spalmata sulla superficie del reperto ormai incamiciato; seguono lo stacco e il recupero, con applicazione di fasciature supplementari; tutta l’operazione imita le tecniche dello strappo su scavi in terra, ma ovviamente richiede tecniche del tutto particolari, che Roberto
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9. - Isola d’Elba - LI. Il giacimento indagato dal sottomarino Rémora 2000.
Bonaiuti, del Centro di Restauro della Soprintendenza, ha prima testato in laboratorio e poi sperimentato in numerose campagne subacquee (fig. 8). Per il recupero di manufatti lignei di piccole e medie dimensioni si è dimostrato particolarmente adatto il sistema della “barella” (supporto rigido, generalmente in legno, costruito tenendo conto della forma e delle dimensioni del reperto) rafforzata da sottili fogli di piombo che, avvolti intorno all’oggetto da recuperare, con l’ausilio di garze imbottite di ovatta, bloccano perfettamente la fragile materia e la pongono al riparo da pericolosi movimenti e torsioni durante il sollevamento in superficie e il trasporto a terra. Un’operazione del tutto particolare, che esula dalla normale esperienza della ricerca subacquea, almeno della nostra, è avvenuta nel marzo del 1999 nelle acque a sud dell’Elba, in vista dell’isola di Montecristo, grazie alla collaborazione in forma volontaria della Comex di Marsiglia, nota per le numerose campagne di archeologia delle acque profonde svolte sotto la guida del DRASSM, organo per la ricerca e la tutela del patrimonio subacqueo della Francia. Il sottomarino biposto Rémora 2000, capace di raggiungere profondità fino a 600 m per una durata d’immersione di circa dieci ore, con l’appoggio della nave Minibex, dotata a bordo di strumentazione tecnologicamente avanzata, ha raggiunto un relitto di grande oneraria alla profondità di 177 m, che era già stato avvistato e segnalato in passato dalla stessa Comex durante ricerche di relitti moderni. Una volta effettuata la discesa, della durata di circa sei minuti, sulle coordinate ottenute dal GPS di ultima generazione, il giacimento è apparso in stato di quasi totale frantumazione, ma ancora spettacolare per le dimensioni: il cumulo di anfore (meglio dire di ciò che resta di esse) occupa una superficie di circa m 25x4 e non è stato risparmiato in alcuna parte dal passaggio ripetuto e continuato delle reti a strascico. Il carico sembra essere costituito soprattutto da anfore betiche di prima età imperiale (si riconoscono, a un primo esame, Haltern 70, Beltrán II B e anche le tarragonesi Pascual 1), delle quali non sono state eseguite campionature. L’immersione ha avuto una durata di un’ora e trentasette minuti, con realizzazione di riprese video e copertura fotografica (fig. 9). Le coordinate sono state fornite alla Capitaneria di Porto competente per l’emanazione di un’ordinanza di divieto al passaggio delle imbarcazioni da pesca d’altura, nel tentativo di risparmiare ulteriori danni al giacimento. Una relazione al Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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10. - Toscana. Carta di distribuzione dei recuperi e giacimenti di dolia. (Da Memorie Sommerse).
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per promuovere ulteriori e più istituzionali collaborazioni con la Comex non ha per ora ottenuto attenzione. Il lavoro subacqueo della Soprintendenza Archeologica per la Toscana si riversa costantemente nella redazione della carta archeologica dei siti sommersi, che chi scrive sta elaborando con Paola Rendini non senza difficoltà, dovute sia alla mancanza di strumenti informatici adeguati, sia alla scarsa capacità di programmazione di una Soprintendenza che soffre oggettivamente di gravi problemi nella gestione di un territorio vasto e complesso, ricco di monumenti ed emergenze archeologiche a rischio, nel quale i siti sommersi non rappresentano certamente il problema prioritario. Una prima “carta di distribuzione dei rinvenimenti” era comparsa nel lontano 1982 sul quarto supplemento al “Bollettino d’Arte”, Archeologia Subacquea 1, ove la parte riguardante la Toscana è sufficientemente estesa, comprendendo il territorio da Livorno all’isola di Giannutri. I dati provenivano dall’Archivio Storico della Soprintendenza, dalle segnalazioni, dai recuperi casuali e soprattutto dalla già ricordata attività di scavo di Nino Lamboglia e, in seguito, di Francisca Pallarès nei mari toscani. Queste ricerche avevano ampiamente dimostrato la notevole importanza di quelle coste e delle isole dell’Arcipelago, poste al centro delle rotte del mondo antico, come una sorta di ponte di collegamento fra oriente e occidente, intensamente attraversato dai flussi commerciali dell’Etruria prima e poi da quelli d’età repubblicana e imperiale. Il decennio che segue la pubblicazione di questi dati preliminari è caratterizzato dall’intensa attività subacquea della Soprintendenza, mentre l’edizione dei risultati prosegue con articoli e monografie, culminando con i due cataloghi delle mostre Relitti di storia (1991) e Memorie Sommerse (1998). Da quest’ultimo proviene una carta di distribuzione dei relitti con dolia esemplificativa del metodo adottato (fig. 10). Come si vede si è prescelta una cartografia di tipo tematico estremamente generica e convenzionale, che dovrebbe corrispondere a singole schede di sito contenenti i dati più significativi, non esclusa la profondità, che è parte integrante della storia per esempio di un naufragio, ma certamente non le coordinate precise, che in sede di pubblicazione provocherebbero altissimi rischi. Corre l’obbligo di ribadire che le coordinate devono rimanere in possesso dell’Organo di tutela e delle Istituzioni che lo affiancano di fronte al pericoloso entusiasmo di articolati programmi di dettagliate carte archeologiche del territorio. Si propone in sostanza, per i giacimenti subacquei, la redazione di una carta del rischio estremamente precisa da un lato, da affidare alle Capitanerie di Porto, alle Autorità Portuali, ai Corpi di Polizia Giudiziaria, mentre dall’altro si auspica la pubblicazione della carta archeologica con i dati topografici di
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Soprintendenza archeologica della Toscana: ricerca e tutela del patrimonio sommerso
giacimento in forma generica e con i dati storico-archeologici in forma completa per l’acquisizione scientifica. Bibliografia S. Bargagliotti, F. Cibecchini, P. Gambogi, Prospezioni subacquee sulle secche della Meloria (LI): alcuni risultati preliminari, in Atti del Convegno Nazionale di Archeologia Subacquea, (Anzio 1996), Bari 1997, pp. 43-53. S. Bargagliotti, F. Cibecchini, P. Gambogi, Punta Ala: ultime campagne di prospezione e scavo nella Cala del Barbiere, in «L’Archeologo Subacqueo» 1(16), gennaio -aprile 2000, pp. 4-5. S. Bargagliotti, F. Cibecchini, P. Gambogi, Punta Ala (GR). “Relitto B”. La campagna di scavo 1998: relazione preliminare, in Atti della Rassegna internazionale di archeologia subacquea (Giardini Naxos, 2931 ottobre 1999), c.s. S. Bargagliotti F.Cibecchini, P.Gambogi, Punta Ala (GR). “Relitto B”. La campagna di scavo 1998. relazione preliminare, in «Archeologia subacquea. Studi, ricerche e documenti» III, 2002, pp. 243-246.
R. Bonaiuti, Tecniche di recupero applicate allo scavo subacqueo, in «L’Archeologo Subacqueo» 1 (16), gennaio-aprile 2000, pp. 5-6. M. Celuzza, P. Rendini, (a cura di), Relitti di storia. Archeologia subacquea in Maremma, (catalogo della mostra), Siena 1992. M. Martelli, (a cura di), Archeologia Subacquea in Toscana, in Archeologia Subacquea 1, suppl. al «Bollettino d’Arte», 1982, pp. 37 e ss. G. Poggesi, P. Rendini, (a cura di), Memorie Sommerse. Archeologia subacquea in Toscana, (catalogo della mostra), Pitigliano 1998. G. Volpe, (a cura di), Archeologia Subacquea. Come opera l’archeologo sott’acqua. Storia delle acque, VIII Ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano- Siena, 9-15 dicembre 1996) Firenze 1998.
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VECCHIE E NUOVE ESPERIENZE NELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA ITALIANA di Francisca Pallarés
È con viva emozione che oggi mi trovo qui a parlare, nell’ambito del ciclo di lezioni che l’A.I.A. Sub e la Soprintendenza al Museo “L. Pigorini” tengono annualmente in onore del nostro compianto amico Fabio Faccenna, sul tema. Quando, alcuni mesi fa, sono stata invitata ad intervenire, mi era stato suggerito questo titolo generico in quanto mi avrebbe consentito di poter scegliere tra i diversi interventi di scavo subacqueo ai quali ho avuto la possibilità di partecipare. A tali interventi, eseguiti dal Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina di Albenga, ho collaborato dapprima in qualità di Assistente dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri diretto dal prof. Nino Lamboglia e, in seguito alla sua scomparsa, quale Direttore dell’Istituto e del Centro stesso. In realtà, al momento di scegliere, mi sono trovata in difficoltà, in quanto ognuno di questi lavori mi ha permesso di fare esperienze di tipo diverso. Ho quindi cercato, in questa sede, di trattare, anche se molto sommariamente, quegli interventi che, in qualche modo, hanno maggiormente contribuito all’impostazione metodologica dei cantieri subacquei, alla creazione ed al perfezionamento di attrezzature idonee alla documentazione dello scavo e, soprattutto, alla maggior conoscenza delle tipologie e dell’inquadramento cronologico delle ceramiche romane. L’esperienza che ho potuto acquisire nel campo degli scavi archeologici, sia in campo terrestre che in quello subacqueo, la devo soprattutto al fortunato incontro che ebbi alla fine degli anni Cinquanta col prof. Nino Lamboglia. Tale incontro avvenne in occasione dei Corsi di Archeologia organizzati dal prof. Martin Almagro ad Ampurias, nei quali il Lamboglia teneva le lezioni di tecnica di scavo e di classificazione della ceramica romana. Da questi corsi ricevetti il maggior impulso per le mie definitive scelte di studio. Nella tarda primavera del 1958, il prof. Lamboglia era stato ospite, per alcuni giorni, dei miei genitori ed aveva insistito affinchè, in occasione del II Congresso di Archeologia Sottomarina, che doveva essere tenuto ad Albenga nel mese di Agosto di quell’anno, partecipassi ai lavori e mi occupassi della Segreteria spagnola del Congresso. Purtroppo ero in fase di ultimazione degli studi universitari e di presentazione della tesi di laurea per cui mi fu impossibile accettare. L’occasione si ripresentò qualche mese dopo quando, a laurea conseguita, l’Istituto Internazionale di Studi Liguri mi concesse una borsa di studio per partecipare agli scavi di Ventimiglia diretti dallo stesso Lamboglia. Fu così che, nella tarda mattinata del 20 Ottobre 1958, arrivai a Bordighera, in una splendida giornata autunnale e dopo una notte insonne in treno. Dopo un pasto frugale consumato assieme al Professore, ai suoi collaboratori e ad altri borsisti, italiani e francesi, il Lamboglia mi disse che disponevo di mezz’ora di tempo per prepararmi e partire verso Genova. Mi comunicava inoltre che, strada facendo, avremmo fatto il programma per i giorni successivi. Giungemmo in serata a Genova, dopo un viaggio allucinante lungo la Via Aurelia. In Soprintendenza ci aspettava Renzo Ferrandi, giunto nel frattempo da Milano, con il quale il Lamboglia stava prendendo gli ultimi accordi per sottoscrivere un contratto di collaborazione quale Assistente tecnico del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, nato un anno prima ad Albenga, e © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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1. - La nave “Daino” ancorata a Punta Epitaffio (Baia).
2. - Spargi. Fotomosaico del secondo strato di anfore.
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del quale Ferrandi era stato uno dei fondatori insieme a Gianni Roghi e Alessandro Pederzini. Quella sera e il mattino dopo, con il prof. Mirabella Roberti, allora Soprintendente reggente della Soprintendenza Archeologica della Liguria, erano stati presi i primi contatti con le ditte che avrebbero dovuto fornire le attrezzature per gli scavi archeologici subacquei. Tali attrezzature sarebbero state finanziate dal Ministero della Pubblica Istruzione, che allora comprendeva anche i Beni Culturali, dopo l’approvazione del voto per l’acquisto di una nave appositamente attrezzata per le ricerche archeologiche sottomarine, presentato nell’ultima seduta del II Congresso di Archeologia Sottomarina tenutosi pochi mesi prima ad Albenga. La serata si prolungò fino a mezzanotte e durante la stessa si discussero soprattutto le strategie da adottare per programmare i lavori di ristrutturazione della nave che il Ministero della Marina, su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione, doveva scegliere e mettere a disposizione. Non tutte le attrezzature erano disponibili in commercio e fu Ferrandi, nei mesi successivi e dietro i suggerimenti del Lamboglia, a stendere progetti e disegni che sarebbero serviti per la fabbricazione delle attrezzature idonee. Tra queste atrezzature vi erano gli innesti dei tubi rigidi e flessibili della sorbona; i setacci per il vaglio dei materiali; i quadri metallici per il rilievo, per i quali erano stati fabbricati appositamente dei giunti di collegamento in lega di alluminio e il cavalletto a quattro gambe per la documentazione fotografica di ciascun quadrato, che veniva chiamato dal Lamboglia il “marchingegno” a causa delle sue considerevoli dimensioni
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Vecchie e nuove esperienze nell’archeologia subacquea italiana
3. - La campana batiscopica sul relitto di Punta Scaletta (Giannutri).
per cui risultava troppo pesante e complicato da sistemare sul fondo marino. Con diverse ditte specializzate in forniture fotografiche furono studiati nuovi e più leggeri scafandri per le macchine fotografiche e per la cinepresa. Per le prospezioni subacquee fu costruita l’ala subacquea e furono presi accordi con Dimitri Rebikoff per la messa a punto di un autopropulsore sottomarino o scooter di piccole dimensioni. Quest’ultimo si dimostrò, in seguito, poco adatto al lavoro sistematico di prospezione costiera che si intendeva effettuare. Nello stesso tempo furono progettate le stazioni per la sistemazione dei compressori ad alta e bassa pressione. Tre mesi dopo, il 14 Gennaio del 1959, dopo una riunione tenutasi presso l’Arsenale Militare di La Spezia, furono individuate nella nave “Daino”, ex unità tedesca costruita nel 1943 e consegnata all’Italia nel 1949, le caratteristiche che più si adattavano alle richieste del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina e che tenevano conto del dislocamento, della velocità, del pescaggio e dello spazio necessario ad ospitare le complesse attrezzature e le strutture di servizio (una sala operativa, un gabinetto fotografico, un deposito per il materiale archeologico, una infermeria, gli alloggi per il personale civile imbarcato ecc.) (fig. 1). Per l’armamento della nave fu firmata una apposita convenzione tra il Ministero della Marina Militare, il Ministero della Pubblica Istruzione e l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, della durata di cinque anni, dal 1959 al 1963. Ogni anno la nave “Daino” doveva essere a disposizione del Ministero della Pubblica Istruzione per la durata di cinque mesi. L’Istituto di Studi Liguri, per il tramite del suo Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, doveva effettuare le campagne di ricerca e di scavo nei mari italiani per conto del Ministero e doveva, tra altri obblighi, presentare dei programmi annuali di ricerca concordati preventivamente con le singole Soprintendenze. Occorreva pure predisporre un progetto per il riadattamento del “Daino” alle sue nuove funzioni. Uno dei problemi più pressanti era quello della sicurezza. Si pensò quindi di fare costruire, sull’esempio delle torrette usata dai palombari, una campana che avrebbe consentito all’archeologo che non si immergeva di seguire, dal suo interno, lo scavo subacqueo. Ma la funzione fondamentale di tale campana fu quella di appoggio ai sommozzatori. Durante le prime campagne di scavo la campana avrebbe potuto fungere da camera di decompressione, in attesa del finanziamento per l’acquisto della camera di decompressione vera e propria (fig. 3). Nei primi sei mesi della mia permanenza in Ita-
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Francisca Pallarés
lia, mentre scavavo a Ventimiglia, ebbi occasione di partecipare alle riunioni relative ai preparativi delle campagne subacquee. L’intendimento del Lamboglia era quello di tenermi al corrente di tutto quanto veniva deciso in modo da essere pronta al momento dell’inizio delle operazioni. Il “Daino” fu armato definitivamente soltanto nel mese di Giugno del 1959 e dopo i primi difficili momenti di rodaggio si avviò verso quello che possiamo definire come uno dei momenti più importanti dell’archeologia subacquea italiana. Forse, a distanza di oltre 40 anni, tutto ciò sembrerà abbastanza ovvio, come a qualcuno potranno sembrare ovvi i sistemi metodologici utilizzati dal Lamboglia, ma la loro applicazione non fu così faci4. - Pyrgi. Documentazione aerea del porto-canale.
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le ed indolore. Il Lamboglia intese applicare sott’acqua gli stessi criteri utilizzati nello scavo a terra. Già dal 1938 a Ventimiglia, egli aveva iniziato ad utilizzare delle linee di riferimento, materializzate con sagolino, disposte a distanze regolari ed ortogonali tra loro in modo da formare una serie di quadrati. In mare, tenendo conto che lo scavo subacqueo è molto più impegnativo dello scavo a terra, il Lamboglia, pur mantenendo inalterato il concetto di base, adottò un sistema che, seppure empirico, consentiva di documentare celermente la posizione di ciascun oggetto in fondo al mare. Tale sistema consisteva nella creazione di una rete di quadrati collocata direttamente sul giacimento archeologico. Ogni quadrato veniva fotografato in verticale e ad una stessa distanza, cui seguiva l’immediato sviluppo e stampa in scala delle fotografie. Il fotomontaggio così ottenuto permetteva di avere una base di partenza per il rilevamento di quanto visibile sul fondo. La prima applicazione di tale reticolo si ebbe, nel 1958, sul relitto di Spargi, in Sardegna, dove venne impiegata una rete di stuoia formata da quadrati di 2 m di lato collocata parallelamente al fondo. La stuoia, tuttavia, a causa di vari problemi, dovette essere sostituita l’anno successivo da aste in metallo e la maglia dei quadrati fu ridotta ad 1,50 m di lato. Purtroppo, dopo la documentazione ed il recupero del primo strato di anfore, lo scavo a Spargi fu interrotto e il relitto fu preda, negli anni successivi, dei sommozzatori clandestini (fig. 2). Con questa esperienza alle spalle, negli anni 1961 e 1962 si potè affrontare il rilevamento totale dello strato superficiale del relitto della nave romana di Albenga che presentava considerevoli dimensioni. La sua posizione su un fondale quasi piatto, a 40 m di profondità, aveva facilitato notevolmente la copertura fotografica del giacimento. Il fotomosaico aveva permesso di documentare il tipo di giacitura, le dimensioni, l’orientamento e la disposizione del carico ed ha costituito un valido punto di partenza per i lavori effettuati negli anni successivi. Il relitto di Punta Scaletta, a Giannutri, scavato nel 1963, è stato un’altra importante palestra, in quanto ha riguardato il rilievo di un giacimento situato
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5. - L’abbinamento campana e camera di decompressione prima dell’installazione sulla nave “Cycnus”.
su un fondale in forte pendio. Il sistema di collocare i quadri di rilievo a “gradini” e in bolla perfetta – sistema già utilizzato dagli americani sul relitto di Yassi Ada nel 1961 – non era adatto per effettuare un fotomosaico che avesse gli scopi prefissati dal Lamboglia, in quanto le fotografie così ottenute falsavano completamente la situazione. La rete fu quindi collocata parallelamente al pendio del fondale, e ogni quadro fu fotografato dalla stessa distanza e perpendicolarmente al suolo. L’adozione di questo metodo portò a buoni risultati e tale soluzione fu utilizzata anche in seguito, in situazioni analoghe. In Italia si era lavorato intensamente con la nave “Daino” durante i cinque anni previsti dalla Convenzione. Nel corso di questo quinquennio si era tentato di sviluppare per la prima volta un metodo scientifico da applicare a questo nuovo aspetto dell’archeologia, avendo Albenga come base fissa di riferimento. In questo modo si erano fatti di anno in anno progressi considerevoli arrivando così a risolvere il problema di effettuare la documentazione grafica (piante e sezioni), prima di iniziare qualsiasi recupero dai relitti. D’altro canto, era stata pure perfezionata la documentazione di aree archeologiche sommerse, come Baia, eseguendo planimetrie precise e fissando, inoltre, in maniera cartograficamente esatta i dati di ogni prospezione o ritrovamento casuale in mare. Si erano pure raccolti gli elementi e create le basi dell’organizzazione della Forma Maris Antiqui, progetto ambizioso che esigeva buona volontà e collaborazione tra le diverse istituzioni e tra gli archeologi di tutti i paesi del Mediterraneo. Il problema maggiore, in questa fase iniziale dell’archeologia subacquea, era che gli archeologi non si immergevano e vi erano delle difficoltà reciproche da parte degli archeologi e dei tecnici. Per i primi si trattava di assorbire nuove tecniche di lavoro intensivo che richiedevano un’organizzazione complessa dovendosi, tra l’altro, affidare totalmente ai subacquei. Da parte di questi ultimi, invece, la difficoltà nasceva dal dover rispettare metodi e regole che il lavoro archeologico rigidamente esige, in modo che l’attività dei sommozzatori non si limitasse al solo recupero di oggetti con mentalità collezionistica, già superata nell’archeologia terrestre da più di un secolo. Nel 1970, quando ormai il “Daino” era solo un ricordo l’Istituto di Studi Liguri armò una propria nave, il “Cycnus”, sulla quale furono sistemate le attrezzature acquistate dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1959. La prima uscita della “Cycnus” fu dedicata alla prospezione e all’inizio dello scavo del relitto del Sec, a Palma di
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6. - L’abbinamento campana e camera di decompressione dopo l’installazione sulla nave “Cycnus”.
7. - Il relitto di Filicudi F a Capo Graziano con la quadrettatura topografica prima dell’inizio dello scavo.
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Maiorca. Questo relitto si presentava con una singolare situazione di giacitura su un fondale piatto a 33 m di profondità. Al centro del relitto spiccava una enorme concrezione, alta circa 3 m, formata da vasellame bronzeo fortemente concrezionato mentre attorno si trovava disseminata buona parte del carico. Lo strato superficiale del giacimento presentava, per tanto, un notevole sbalzo di quote. Per poter documentare la situazione, si dovette circondare la concrezione con una serie di quadri di rilievo orientati parallelamente alle tavole del fasciame esterno. Dai punti estremi, interni ed esterni, dei quadri venne rilevata la concrezione in tutti i suoi dettagli. Un problema analogo si sarebbe presentato, anni dopo, sul relitto di Diano Marina, scavato a partire dal 1975, dove il carico di dolia occupava la parte centrale della nave e si elevava dal fondale per circa 1,80 m. In questa occasione, ispirandosi al metodo di rilevamento stereoscopico ampiamente sperimentato dagli americani in Turchia e successivamente dai francesi sul relitto della Madrague de Giens, fu collocato, limitatamente alla zona poppiera e al campo dei 14 dolia, un apposito binario per la documentazione fotografica e grafica. Furono individuati gli assi verticali dei dolia e da questi si potè ricostruire la rotazione da essi subita al momento in cui si ruppero le fiancate. Fu così possibile ricostruire l’esatta posizione dei dolia all’interno della stiva. Ricostruzione che la scoperta del relitto del Petit Conglouè, avvenuta nel 1979 ma pubblicata soltanto nel 1983, dimostrò attendibile. Nel 1974, nell’ambito di un accordo stabilito tra l’Istituto di Studi Liguri e la Scuola Americana di Roma, ebbi occasione di collaborare ai lavori di scavo nelle zone portuali di Pyrgi e di Populonia. In questo caso i rilevamenti furono effettuati basandosi sulla fotografia aerea ottenuta per mezzo di un pallone aerostatico guidato da terra (fig. 4). I rilievi di dettaglio furono eseguiti da due stazioni di rilevamento situate lungo la costa, con dotazione di tacheometri. Assai impegnative sono state le campagne di scavo eseguite negli anni Settanta sul relitto F di Filicudi, a Capo Graziano, giacente alla profondità di 55 m (fig. 7). Un lavoro di questo tipo si poteva affrontare soltanto coi mezzi imbarcati sulla “Cycnus”. La possibilità di collegare, attraverso il SAS, la campana batiscopica alla camera di decompressione, permise di effettuare le decompressioni
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8. - Grotta Verde (Alghero). Campo base all’ingresso della grotta.
“a secco” e, quindi, di aumentare notevolmente i tempi di permanenza sul fondo consentendo, in definitiva, maggiori risultati con un minor dispendio di tempo e di energie (figg. 5, 6). Nel 1979 ci fu possibile di effettuare una nuova esperienza, lo scavo effettuato nel laghetto terminale della Grotta Verde di Alghero. Tale lavoro comportò non lievi difficoltà, soprattutto per i considerevoli problemi riguardanti l’impostazione del cantiere. La Grotta Verde, che prende il nome dal colore della patina formata dai licheni che ricoprono le pareti, si trova sul versante occidentale di Capo Caccia e si apre a strapiombo a circa 80 m dal livello del mare. Era stata chiusa al pubblico a metà degli anni Settanta, in seguito al crollo di parti della volta che, riversandosi all’interno, avevano prodotto una zona di franata nella parte più profonda della cavità. In questo punto si trova un laghetto di acqua salmastra la cui superficie è sullo stesso livello del mare. Questo fece supporre che esistesse un passaggio tra il mare e la grotta attraverso un sistema di cunicoli più o meno sommersi. L’acqua salmastra si forma dalla commistione tra l’acqua di mare e l’acqua dolce proveniente, probabilmente, da una polla che doveva trovarsi in corrispondenza dell’odierno laghetto e della quale oggi non ci sono tracce. La presenza di acqua dolce fu, con molta probabilità, la ragione per la quale la Grotta Verde fu intensamente visitata ed occupata a partire dal Neolitico antico. Vicino all’ingresso si conservano i resti di un altare dedicato a Sant’Erasmo il cui culto, come si sa, era strettamente legato ai naviganti. Dall’ingresso della grotta al laghetto vi è una ripida discesa, soprattutto nella seconda parte, che termina nella zona franosa di cui abbiamo parlato. Qui confluiscono tutti i materiali di caduta, per cui l’accesso alla sala in cui si trova il laghetto risulta difficoltoso. L’organizzazione del cantiere fu piuttosto complessa. Per il suo montaggio furono impiegati 7 giorni su 23 di lavoro effettivo. Dopo una attenta valutazione delle possibilità logistiche che offriva la grotta, il campo-base venne sistemato sul piccolo piazzale situato all’ingresso della grotta stessa. In questo campo-base, oltre alla varia attrezzatura necessaria, furono installati il generatore di corrente, il compressore ad alta pressione, la teleferica e il telefono da campo (fig. 8). Sopra il pozzo che collegava il laghetto con le grotte sommerse fu istallato il cantiere vero e proprio. All’uopo era stata costruita una intelaiatura con canne di ponteggi Dalmine Innocenti sulla quale furono sistemati dei tavolati, situati a più piani, che ricoprivano integralmente il laghetto. Oltre alle attrezzature per lo scavo, la documentazione ed il recupero, era stato collocato il bidone per la raccolta del materiale di risulta dello scavo con il cesto per il vaglio del materiale. Il bidone era sufficientemente profondo da consentire l’inserimento di una potente pompa ad immersione neccessaria per aspirare i detriti, il fango e l’acqua di risulta che, per mezzo di un tubo che oltrepassava la prima
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9. - Grotta Verde (Alghero). Particolare di una delle sepolture a grotticella.
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grotta sommersa, venivano pompati nella cavità sommersa successiva, su un fondale di oltre 20 m di profondità. Lo scopo era quello di evitare che lo scarico di questo materiale avvenisse direttamente nel laghetto, creando forte sospensione ed impedendo del tutto la già scarsa visibilità. Un riduttore di tensione consentiva di alimentare un parco lampade sommerso collocato direttamente sull’area di scavo. Dal compressore ad alta pressione situato nel campo-base presso l’ingresso della Grotta partiva una frusta, lunga 100 m, che giungeva ad una rampa per il caricamento delle bombole. Tale rampa era situata a circa 80 m dall’ingresso principale. Una bombola con riduttore di pressione era utilizzata per azionare la sorbona. Dal laghetto si scendeva, attraverso un pozzo profondo, sulla parete nord di una prima grotta sommersa. Il passaggio verso quest’ultima era stretto e in parte occluso dalla frana soprastante. Sulla parete Sud, un’apertura permetteva il passaggio verso una seconda grotta sommersa, molto profonda. Per scendere senza difficoltà ed in sicurezza alla parte terminale del pozzo, era stata collocata una lunga scala, al piede della quale venne fissata una cima-guida di acciaio, di adeguata lunghezza, lungo la quale scorreva il cavo di sicurezza al quale era legato l’operatore. La forma della parte sommersa della grotta è simile ad una pelle di bue distesa ed il suolo è in notevole discesa. Lungo il suo perimetro si aprono 7 grotticcelle minori. Ad una prima analisi si potè vedere che all’interno di queste ultime vi erano degli inumati collocati nella classica posizione rituale già riscontrata in altre sepolture a grotticella e cioè coi piedi rivolti verso l’interno e i vasi del corredo vicino alla testa e, per tanto, all’imboccatura. Sul fondo della nicchia indicata col n. VII, in corrispondenza degli arti, vi erano una serie di pietre di medie dimensioni (20 cm x 30 cm), a quanto sembra collocate intenzionalmente (figg. 9, 10). Tale nicchia proseguiva in profondità ma non fu esplorata onde evitare di danneggiare le ossa rinvenute che, essendo fragilissime, si rompevano facilmente. Per la prima volta in Italia fu affrontato uno scavo stratigrafico in un ipogeo sommerso. Nella sala, in corrispondenza della nicchia n. VII, furono collocati 9 quadri di rilievo, di un metro per un metro, fabbricati con tubi a sezione quadrata in lega di alluminio. Questi a loro volta erano divisi in quattro quadrati minori di 50 cm di lato. Nonostante la scarsa visibilità, furono individuati quattro strati sovrapposti che si erano formati in momenti cronologici assai diversi. Ad uno strato superficiale di finissima argilla di colore rossiccio, con pochi resti di ceramica moderna, ne seguiva un secondo formato dalle pietre calcaree di origine franosa, ricco di materiali ceramici che coprono un arco cronologico che si estende dal Neolitico fino al IV sec. d.C. Appariva, quindi, un terzo strato costituito da una infiltrazione di argilla calcarea finissima di colore bruno, apparentemente
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10. - Grotta Verde (Alghero).I quadri di rilievo dinanzi alla grotticella sepolcrale n. VII.
sterile. Questa mancanza di materiali poteva significare soltanto che per un certo periodo la grotta non era stata frequentata. Infine, sul suolo roccioso, lo strato più antico era composto da limo scuro misto a bricioline calcaree. Tale strato era ricco di frammenti ceramici e vasi integri databili al Neolitico antico. I vasi integri facevano indubbiamente parte dei corredi tombali ed erano rotolati verso l’esterno, essendo l’imboccatura di ogni grotticella sepolcrale inclinata in questo senso. Da questa grotta sommersa, ricca di anfratti sepolcrali si passa, come abbiamo detto, ad una grotta interna, di maggiori dimensioni, che presenta una alta volta con stalattiti e, a -10 m di profondità, un leggerissimo solco di battente che sembra documentare un antico livello d’acqua. Le grotticelle sepolcrali si trovano ad un livello variabile tra -6,50 m. e -10 m. È ovvio che al momento della deposizione, si trovavano all’asciutto. Andrea Lamberti ha eseguito uno studio geologico sommario, che ha lasciato da chiarire alcuni aspetti. In attesa di uno studio geomorfologico più ampio, si potrebbe ipotizzare che il mare, anticamente, non fosse in comunicazione con le grotte interne, forse separato da queste ultime da un diaframma roccioso, rottosi successivamente. Da quanto detto, si può comunque ipotizzare che la Grotta Verde, prima che il livello del mare ne sommergesse la parte inferiore, sia stata frequentata intensamente fin dall’inizio del Neolitico e, molto probabilmente, abbandonata nel periodo nuragico, quando prese avvio un’organizzazione politica, sociale ed economica diversa. Resta ancora privo di documentazione il periodo delle colonizzazioni e della romanizzazione nonchè quello della prima epoca imperiale romana. Attraverso i materiali romani raccolti si era stabilito che una intensa frequentazione della grotta ebbe luogo a partire dalla fine del III sec. d.C., forse come conseguenza delle invasioni barbariche, dando probabilmente origine al culto di Sant’Erasmo, cui abbiamo accennato sopra. Alla Grotta Verde si lavorò ininterrottamente dal 9 al 31 Agosto 1979 e la campagna fu assai dura. Le cause principali delle difficoltà incontrate furono la temperatura dell’acqua che, essendo sempre al di sotto dei 10 gradi, aveva fatto ridurre di molto i tempi di immersione; la scarsissima visibilità, dovuta alla finissima argilla in sospensione, che aveva posto anche seri problemi per documentare fotograficamente e graficamente il giacimento; la necessità di lavorare in un ambiente chiuso, con i movimenti resi ancora più difficili dal passaggio dei cavi elettrici per la illuminazione, dalla sistemazione della bombola di emergenza e dalle manichette della sorbona, alle quali si aggiungeva la scarsa dimestichezza di alcuni dei nostri collaboratori ad effettuare operazioni in grotta. A tutto ciò si aggiunga la non facile discesa e risalita dal campo-
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base al cantiere che, per necessità logistiche, venivano effettuate più volte al giorno. Un ritrovamento di questa importanza avrebbe certamente meritato un prosieguo dei lavori, tanto più che i problemi che si erano dovuti affrontare sarebbero serviti ad evitare errori futuri. Venne, purtroppo, deciso di soprassedere, ferma restando la necessità di lasciare il giacimento in sicurezza. A tale scopo, si decise di chiudere l’accesso del pozzo montando dei tubi Dalmine Innocenti ed incastrandoli negli anfratti delle pareti del medesimo. Circa un’anno dopo, in seguito ad un controllo eseguito dal Gruppo Speleologico di Alghero si era potuto constatatare che i giunti dei tubi, ossidandosi, avevano formato un blocco difficilmente smontabile. Da un controllo successivo, effettuato a metà degli anni Ottanta, risultò purtroppo evidente che nel periodo trascorso la grotta era stata visitata dai clandestini i quali, agendo indisturbati, avevano manomesso parte delle sepolture. Dal momento della scomparsa del prof. Lamboglia, avvenuta nel mese di gennaio del 1977, all’anno 1986, gli interventi del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina sono stati numerosi e si sono svolti, principalmente, in Toscana, Liguria e Sardegna. A partire dal 1986, con la costituzione, a Roma, del Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea, presso il Ministero dei Beni Culturali, i lavori si erano limitati, a parte qualche eccezione, alla sola Liguria e l’Istituto Internazionale di Studi Liguri aveva prevalentemente svolto opera di consulenza scientifica. Una di queste consulenze è stata svolta per conto della ditta Elettronica Ingegneria Sistemi di Roma, per la realizzazione di un progetto su «I porti e gli approdi nell’Antichità dalla preistoria all’alto medioevo» nell’ambito dei giacimenti culturali (Art. 15 della legge 41 del 26 Febbraio 1986) del Ministero dei Beni Culturali. Il progetto, presentato su proposta dell’Istituto di Studi Liguri, si è diviso in due fasi. La prima, della durata di due anni, prevedeva il censimento delle zone portuali sommerse in alcune zone del Tirreno Settentrionale, dalla frontiera francese al Lazio, Sardegna compresa. Una seconda fase ebbe luogo pochi anni dopo, finanziata dal Ministero del Lavoro (Art. 6 della legge 160 del 20 Maggio 1988), ed ebbe una durata di tre anni; tale fase interessò il tratto di costa che si estende dal Sud della Campania ad Ancona e la Sicilia. Il Progetto EIS ha costituito una nuova, importante esperienza in quanto ha presentato aspetti, talvolta molto complessi, assai diversi tra loro. In primo luogo, per quanto riguarda la collaborazione tra le diverse istituzioni (Soprintendenze Archeologiche ed enti preposti per la tutela) che, ad onor del vero, non sempre è stata facile; in secondo luogo, per il peso non indifferente dovuto alla complessa organizzazione del lavoro. Ma, a conti fatti, l’esperienza è stata sicuramente positiva e buoni sono stati i risultati ottenuti. Il progetto EIS ha consentito non solo di procedere alla documentazione necessaria ai fini della salvaguardia e della tutela dei siti sommersi costieri ma di creare una palestra di formazione e di addestramento professionale per molti giovani (circa un centinaio) che hanno avuto la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. 96
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11. - Diano Marina. Il recupero di uno dei dolia del relitto.
Nell’estate del 1986 ebbi occasione di incontrare a Napoli Domenico Faccenna che mi parlò di suo figlio Fabio e del fatto che, seppure laureatosi in Giurisprudenza, aveva avuto occasione di lavorare in alcuni cantieri, restando affascinato dall’archeologia subacquea. Mi chiese di osservarlo al lavoro per poter giudicare se aveva la passione per dedicarsi a questo tipo di ricerca. Fu così che poco dopo mi accordai con Fabio affinchè egli partecipasse alla XI campagna di scavo sul relitto di Diano Marina (fig. 11). Durante la campagna cercai di inserirlo in squadre diverse affinchè potesse partecipare a tutte le fasi operative del cantiere. A terra, lo esortai a collaborare al lavaggio ed alla classificazione dei materiali facendo, come tutti noi, turni di 13-14 ore giornaliere. Si adattò perfettamente e fu durante una pausa del lavoro che maturò in lui l’idea di iscriversi nuovamente all’Università e di prendere la laurea in lettere con indirizzo archeologico. Ricordo di avergli fatto presente che non si può essere un buon archeologo subacqueo senza avere seguito anche cantieri di scavo a terra. La prima occasione si presentò per lui soltanto nel 1991, quando venne a Ventimiglia a partecipare al XL Corso Internazionale di Studi Liguri, improntato prevalentemente sulle tecniche di scavo e le classificazioni delle ceramiche. Un anno dopo, nell’ambito del progetto “I porti e gli approdi nell’Antichità dalla preistoria all’Alto-Medioevo”, potè seguire i corsi di formazione che miravano soprattutto alla classificazione, inventariazione e schedatura dei materiali archeologici e partecipò, in qualità di operatore subacqueo, a gran parte delle operazioni previste in progetto. Durante il lavoro di spoglio bibliografico previsto nel suddetto progetto, vennero individuate alcune aree costiere sommerse ricche di materiali archeologici di epoche diverse, tra le quali quella della zona antistante San Vito Lo Capo ove, intorno alla secca del Faro, era segnalata la presenza di un relitto arabo-normanno. Per cui, quando nell’ambito dei corsi di formazione professionale finanziati dalla Comunità Europea e tenuti dall’Istituto Attività Subacquee (IAS) di Palermo, d’intesa con la Soprintendenza Archeologica di Trapani, negli anni 1993, 1994 e 1996, fu deciso di aprire un cantiere-scuola per gli allievi, i corsi e il lavoro di scavo furono impostati da Fabio Faccenna e da Sebastiano Tusa, e poi continuati da altri a partire dal 1996, sul relitto del XII secolo della Secca del Faro a San Vito lo Capo. Su iniziativa dell’IAS di Palermo e con la collaborazione delle istituzioni locali e di un gruppo di amici e di allievi, i risultati delle prime campagne sono stati esposti nel piccolo Museo di Archeologia Subacquea nato in onore di Fabio Facenna a San Vito Lo Capo. Il Museo, come d’altronde questo ciclo di “Lezioni Fabio Faccenna” che si tiene ormai da tre anni, costituisce un omag-
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gio al caro Amico e rappresenta il modo migliore per mantenere viva la sua memoria.
Bibliografia Atti del II Congresso di Archeologia Sottomarina, Albenga 1958, Bordighera 1961. Atti del III Congresso di Archeologia Sottomarina, Barcellona 1961, Bordighera 1971. Atti del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, in «Forma Maris Antiqui», XI-XII, 1975-1981. P. Dell’Amico, Il giacimento “Del Faro” di Capo S. Vito, in «Archeologia delle Acque», II, 1, 2000, pp. 120-124. P. Dell’Amico, La Marina Militare italiana e l’Archeologia subacquea, in «Rivista Marittima», Marzo 1999, pp. 117-136. F. Faccenna, Un relitto del XII sec. a San Vito Lo Capo (Trapani), in «Archeologia Subacquea. Studi, ricerche e documenti», I, 1993, pp. 185-188. A. Lamberti, F. Lo Schiavo, P. Pallarés, E. Riccardi, Lo
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scavo nel laghetto della Grotta Verde di Alghero (Campagna 1979), in «Forma Maris Antiqui», XIII, 1982-1985, pp. 543-552. F. Lo Schiavo, Ricerche subacquee nella Grotta Verde di Alghero, in Archeologia Subacquea 3, suppl. al «Bollettino d’Arte» 37-38, 1986, pp. 63-67. F. Pallarés, La Grotta Verde, in Atti del Centro sperimentale di Archeologia Sottomarina 1975, in «Forma Maris Antiqui» XI-XII, 1975-1981, pp. 235-245. F. Pallarés, Porti e approdi nell’Antichità: un progetto di schedatura, in «Nuove Effemeridi», A. XII, n. 46, 1999, pp. 26-37. F. Pallarés, Nino Lamboglia e l’archeologia subacquea, in «Rivista di Studi Liguri», LXIII-LXIV, 19981999, pp. 21-56.
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LA MARINA MILITARE ROMANA TRA IL I E IL III SEC. D.C. di Roberto Petriaggi
La necessità di fronteggiare e sopraffare la potenza navale cartaginese determinò il primo significativo impegno di Roma come potenza marinara. La tradizione vuole che le prime navi da guerra romane siano state costruite sul modello di una quadrireme nemica fortunosamente catturata (Polibio, Storie, I, 20). È però singolare che, concluse le guerre puniche, i Romani non pensarono di dotarsi stabilmente di una marina da guerra. L’allestimento delle flotte, per tutta l’età repubblicana, rimase un fatto episodico, legato a necessità contingenti e demandato, dal punto di vista costruttivo e organizzativo, agli alleati di Magna Grecia, nel periodo più antico, e greco-orientali verso la fine della Repubblica. L’Italia stessa, se si esclude l’importante base di Brindisi, è sprovvista, in quest’epoca, di porti concepiti per ospitare una base militare. L’assenza di una forza di dissuasione fu una delle cause che favorirono lo sviluppo della pirateria fino all’intervento straordinario di Pompeo Magno (67 a.C.). Lo stesso motivo, più tardi, consentì a Sesto Pompeo di agire indisturbato nel bacino occidentale del Mediterraneo con la propria flotta, fino allo scontro decisivo con quella allestita da Agrippa nel 36 a.C. (Milazzo e Nauloco). L’impreparazione dello stato romano, in campo navale, rispetto alla parte orientale dello stesso Mare, dove piccoli e grandi centri mantennero intatta la loro capacità di armare flotte, in teoria sotto il controllo di Roma, ma in realtà, alla portata di chi fosse in grado di assicurarsene l’egemonia, esplose con evidenza durante il conflitto tra Ottaviano ed Antonio, quando quest’ultimo, alleandosi con Cleopatra e avvalendosi della forte flotta alessandrina, si comportò, di fatto, come un monarca orientale ribelle, dimostrando come fosse possibile, in poco tempo, armare una squadra navale in grado di mettere in serio pericolo l’egemonia dell’Urbe e l’incolumità della Res Publica. Il duplice, difficile, conflitto con Sesto Pompeo, prima, e con Marco Antonio poi, indusse Ottaviano Augusto, certo sotto il consiglio del suo esperto ammiraglio e genero M. Vipsanio Agrippa, a dotare la Penisola di basi per una Marina da guerra professionale. Alla morte di Augusto l’Italia è in grado, con le due basi di Ravenna e Miseno, di fronteggiare qualsiasi situazione di pericolo sui due versanti del Mare Internum. Basi minori, come Brindisi ed Aquileia offrono utili opportunità di ricovero alle flotte in navigazione, mentre, nelle province comincia ad essere intessuta una rete di basi di appoggio, quali Forum Iulii e Salona. In Egitto presso Alessandria viene costituita la prima importante base fuori dell’Italia, costituita con il nerbo della flotta sottratta ad Antonio (Classis Alexandrina), che durerà fino alla fine dell’Antichità e svolgerà la sua attività dalla Mauretania alla Giudea e, in qualche caso, alla Tracia. Essa è coadiuvata da una flotta fluviale che è attiva lungo il Nilo, la Potamophylax. Di più, Augusto crea una rete di scali lungo il Reno, utilizzati da una flotta di pattugliamento con base principale a Colonia (Classis Germanica). Essa ha compiti difensivi ma anche di appoggio alla penetrazione romana lungo gli affluenti della riva destra del Reno. Sembra probabile che tale dispositivo fluviale si sia mantenuto, anche se mancano attestazioni precise, almeno fino al IV secolo. All’epoca di Claudio si deve la creazione della Classis Britannica, con basi prima a Boulogne e Richborough, quindi, nel secondo secolo, a Dover. Essa pattugliava soprattutto lo stretto della Manica, assicurando le comunicazioni con il continente © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Roberto Petriaggi
e facilitando la penetrazione e l’amministrazione romana dell’Isola. Una prima crisi si verificò alla fine del III secolo, quando prese il potere l’usurpatore Carausio. Di questa flotta non si hanno più notizie nel secolo IV, quando la difesa delle coste fu delegata alle fortificazioni. Alla fine dell’impero di Nerone si data la costituzione della Classis Pontica con base a Trapezunte. Essa pattugliava le coste del Mar Nero, assicurando i rifornimenti dei confini sud-orientali verso il regno dei Parti. La crisi per questa squadra navale sembra sopraggiungere, sotto la pressione delle prime invasioni, dopo la metà del III secolo. Sotto i Flavi, soprattutto con Domiziano, mentre nel Mediterraneo le due flotte principali di Miseno e Ravenna, assunto il titolo di Praetoriae per la fedeltà dimostrata verso la nuova dinastia, mantengono il compito principale di proteggere l’Italia, nuove squadre navali vengono create lungo i fiumi del confine nord-orientale dell’impero. La Classis Flavia Pannonica fu organizzata da Vespasiano con base a Taurunum lungo il Danubio a monte di Singidunum (Belgrado). La sua funzione di pattugliamento del fiume si esplicherà, anche se con effettivi ridotti, fino al basso impero. La sua consorella attiva sul tratto inferiore del Danubio, la Classis Flavia Moesica, con base a Noviodunum subito prima del delta del fiume, ebbe anche compiti di pattugliamento delle coste del Mar Nero prima che sopravvenisse la crisi della metà del III secolo. Squadre navali in difesa del corso inferiore del Danubio furono comunque attive nel basso impero, vista l’importanza strategica di questa area per Bisanzio. Da ultima, sotto gli stessi Flavi o sotto Traiano, compare la Classis Syriaca. Essa è nota ancora dalle fonti del IV secolo con il nome di Classis Seleucena, dal nome della sua principale base, Seleucia di Pieria. I suoi compiti furono essenzialmente quelli del supporto strategico per le truppe e del vettovagliamento del fronte partico. La politica navale iniziata da Augusto con il fine principale di difendere l’Italia formando attorno ad essa una sorta di cordone sanitario che ne assicurasse la tranquillità ed i regolari rifornimenti dall’Egitto, si evolve, dunque, tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. e, uniformandosi alla nuova situazione sociale ed economica, determina l’assetto definitivo della Marina da guerra che non muterà se non alle soglie del Basso Impero. La politica navale della media età imperiale, quindi, sarà quella di assicurare i traffici ed i commerci da un capo all’altro del Mare Internum, grazie alla presenza puntuale della flotta con basi fisse e distaccamenti. Ciò era necessario soprattutto nell’area orientale del Mediterraneo e, contemporaneamente, ai confini nord-orientali dell’impero, dove esigenze di difesa esterna portarono alla creazione della rete di squadre navali disseminate lungo il corso dei grandi fiumi, a cui si è accennato.
Le infrastrutture portuali Una flotta da guerra necessita, ovviamente, di basi militari. D’altra parte, qualsiasi porto civile può essere usato provvisoriamente da vascelli da guerra quando se ne presenti la necessità, per ripararsi da un fortunale, per approvvigionarsi di viveri e d’acqua e così via. 100
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Quali sono le caratteristiche che permettono di distinguere un porto militare antico da un porto commerciale? Non era certo possibile che la marina militare romana potesse avere arsenali e servizi propri in ciascun porto ove, dalle fonti storiche o epigrafiche, è ricordata la presenza di galere e marinai; sarebbe stato eccessivamente dispendioso. Le fonti di cui noi disponiamo ci permettono, tuttavia, di avere un’idea di quale fosse la rete portuale utilizzata dalla marina da guerra romana, anche se non possiamo essere certi che una singola menzione di navi da guerra in un porto possa significare che quel porto era una delle basi stabili della flotta da guerra. Del resto gli Antichi non distinsero mai nettamente un porto militare da uno commerciale e, né in greco, né in latino, esistono termini distinti per l’uno o per l’altro. Tutt’al più si assiste, in epoca classica ed ellenistica, alla diversificazione d’uso nell’ambito di uno stesso porto dotato di due o più bacini, come nel caso del Pireo o di Cartagine. Il solo caso di complesso portuale edificato con scopi puramente militari è rappresentato dall’impianto augusteo del Portus Iulius, trasferito in un secondo momento, nell’omologo doppio bacino del capo Miseno. Quanto alla scelta dei siti e alla conformazione degli impianti, la casistica è estremamente varia e, in genere, si cercò di sfruttare il più possibile, la predisposizione naturale dei luoghi e rari furono i casi di porti realizzati in modo totalmente artificiale. Per quanto riguarda i sistemi di difesa, anche qui i casi tramandatici dalle fonti scritte e iconografiche sono assai vari. Se nel periodo classico ed ellenistico, a riscontro di una situazione poco sicura dal punto di vista della navigazione, la teorizzazione del limen kleistòs aveva portato alla realizzazione di porti fortificati tramite il prolungamento delle mura cittadine, ovvero compresi entro il perimetro urbano fortificato, nella prima età imperiale questa esigenza non sembra più sentita così imperiosamente. È vero che poco o nulla si può dire della situazione di Miseno, ma anche le fortificazioni che compaiono sui mosaici di S. Apollinare in Ravenna, sono poco significative, poiché non è chiaro se si riferiscono ad una situazione relativa alla prima età imperiale o all’età tardo - antica. Questo ragionamento vale, un po’ in generale, per la documentazione iconografica in nostro possesso, poiché, infatti, è difficile stabilire se l’assenza della rappresentazione di fortificazioni risponda ad esigenze di idealizzazione, ovvero se la loro presenza documenti una realtà contemporanea o una situazione ormai storicizzata: in poche parole, è ovvio che i porti forniti di fortificazioni risalenti all’età ellenistica non le abbiano abbattute all’inizio dell’età imperiale, ed è altrettanto verisimile che scali privi di mura all’inizio dell’impero ne possano essere stati dotati in età tarda. È comunque plausibile ritenere che, come si è potuto rilevare in alcuni casi, i porti fossero caratterizzati da canali d’accesso abbastanza stretti, così da essere ben difendibili (le parole latine che li designano, fauces ed angiportus sono sinonimo di passaggio angusto) e che, rispondendo ad un precetto vitruviano, i loro accessi avessero almeno due torri collegabili con una catena a pelo d’acqua: tra i casi noti si segnala quello del porto traianeo di Centumcellae le cui quattro torri erano visibili, parzialmente, almeno fino al secolo scorso. Sulle infrastrutture portuali, al solito, non abbiamo molte testimonianze di natura archeologica, ma le fonti iconografiche e scritte ci supportano in una © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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plausibile ricostruzione. L’esistenza dei navalia, ad esempio, è sovente menzionata dalle fonti. Si tratta degli arsenali dove le navi venivano ricoverate nei periodi di inattività, dove, all’occorrenza, erano effettuate riparazioni e costruiti nuovi scafi (alle volte quest’ultimo settore viene denominato textrinum). In assenza di testimonianze archeologiche certe riguardanti l’epoca imperiale, facciamo riferimento a quanto si conosce per l’età ellenistica e repubblicana. Dai resti degli arsenali ateniesi, di Cartagine e di altri siti e dalla documentazione iconografica, possiamo dedurre che queste costruzioni avevano l’aspetto di porticati con lunghi corridoi interni disposti parallelamente l’uno all’altro, in pendenza verso lo specchio d’acqua, separati da colonne o muri e coperti con un tetto a doppio spiovente. In Atene, poi, l’armamento di bordo era custodito a parte in un apposito edificio, la Skeuothéke di Filone, misurante metri 123 per 17, diviso in tre navate. Anche a Roma, lungo il Tevere, presso il Campo Marzio, esistevano navalia che, distrutti da un incendio nel 44 a.C., pare non siano stati più ricostruiti. Dobbiamo ragionevolmente pensare, dunque, che anche nei porti dell’età imperiale siano esistiti edifici analoghi a quelli appena descritti, sia per funzioni che per aspetto, ai quali bisogna affiancare idealmente tutte le altre infrastrutture che caratterizzano un porto, cioè banchine, magazzini, uffici annonari e amministrativi, terme, edifici religiosi e civili e, ovviamente, un faro. Nei porti sede di basi o distaccamenti della Marina, le fonti e le testimonianze archeologiche attestano, inoltre, la presenza di castra, ossia campi militari del tutto simili a quelli dell’esercito.
Lo Stato Maggiore della Marina Militare e gli equipaggi tra Augusto e i Severi I Prefetti Il comando delle flotte imperiali fu affidato da Augusto a praefecti di rango equestre e tale rimase, salve una breve parentesi sotto Claudio e Nerone, quando le flotte furono affidate a liberti. Se prima di Claudio era possibile trovare qualche prefetto uscito dai ranghi della marina dopo aver ricoperto i gradi più alti della carriera di ufficiale, questo non accadde più in seguito. Le carriere dei Prefetti della Flotta furono fissate sotto i Flavi e possiamo seguirne il progresso in base alle retribuzioni. Al primo gradino troviamo i prefetti sexagenarii di Pannonia, Mesia, Siria ed Egitto; troviamo, quindi, i prefetti centenarii di Britannia, Germania e Ponto; con il rango di ducenarii guidano la gerarchia prefettizia i comandanti delle Flotte Pretorie di Ravenna e Miseno. Come vicari di questi ultimi e del Prefetto della Flotta Egiziana troviamo, poi, alcuni subpraefecti sexagenarii. Oltre alle carriere regolari che abbiamo seguito fin qui, esiste la possibilità di imbattersi in comandi transitori e straordinari, in occasione di particolari situazioni operative che prevedono l’impiego di squadre navali provvisorie. Questi comandanti compaiono con il titolo di praepositi classis o classibus. Se ne conoscono tre esempi in cui compaiono due membri dell’Ordine equestre ed un ex-primipilo. I distaccamenti delle Flotte Pretorie, denominati vexillationes, hanno a capo un praepositus vexillationis di rango equestre, quasi sempre un ex alto ufficiale 102
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dell’esercito. Da ultimo, troviamo il praepositus reliquationis, l’ufficiale che comanda le unità rimaste alla base quando il grosso della flotta si trova in missione. Gli ufficiali Dalle fonti a nostra disposizione apprendiamo che la nave in cui si prestava servizio veniva considerata dai militari alla stregua di una centuria, la nota unità di combattimento terrestre. Così, infatti, le navi sono definite in numerose epigrafì dagli stessi marinai. Le fonti ci tramandano i gradi di trierarcus, navarcus, centurio classicus. Alcuni ritengono che il comando dell’unità navale fosse condiviso tra due ufficiali, uno per la ciurma, l’altro per i militari imbarcati. Pertanto, al comando di una nave figurerebbero contemporaneamente e rispettivamente un Trierarca e un Centurio Classicus (Ordinis Primi), mentre il comando di una squadra navale sarebbe suddiviso tra un Navarcus e un Centurio Classicus (Ordinis Secundi). A parte la confusione che un tale sistema di comando avrebbe potuto generare a bordo, si rileva che nelle epigrafi sia i marinai che i soldati si definiscono indistintamente milites e che il riferimento alla nave di appartenenza è costituito dal termine Centuria seguito dal nome dell’ufficiale al genitivo, o dal nome stesso della nave. Perché non si fa mai riferimento al Trierarca o al Navarca? È forse preferibile pensare, quindi, come sostengono altri studiosi, che questi gradi appartengano alla medesima carriera il cui culmine sarebbe rappresentato dal Centurionato della Flotta, qualifica che avrebbe aperto la strada alla carriera negli eserciti di terra. I gradi degli ufficiali superiori della marina sarebbero, pertanto, in ordine crescente, trierarcus, navarcus, centurio classicus. I primi due termini, mutuati dalla marineria ellenistica, indicherebbero rispettivamente il comandante di una sola unità navale e il comandante più unità navali. Al grado di centurio classicus, invece, si poteva accedere, probabilmente, per particolari motivazioni o per anzianità, in accordo con quella tendenza ad assimilare le carriere della marina con quelle dell’esercito che proseguirà per tutto il II secolo, per giungere a compimento nel secolo successivo. Da epigrafi di ufficiali romani è attestato, infatti, il passaggio alternato nei quadri di comando di unità di terra e di mare. I sottufficiali e il personale tecnico Non ci è pervenuta l’indicazione di quale fosse la carriera abituale dei sottufficiali anche se, avendo numerose iscrizioni sull’argomento, si può tentare di ricostituire un quadro della diversificazione delle attribuzioni. Innanzi tutto va detto che un elemento chiaro di distinzione all’interno delle carriere dei sottufficiali è quello riferibile alle paghe. Nelle iscrizioni questo dato è riportato con il termine sesquiplicarius, colui che percepiva l’equivalente di uno stipendio e mezzo, e duplicarius, colui che percepiva l’equivalente di due stipendi. C’era, forse, una ulteriore diversificazione dovuta ad indennità accessorie, come avveniva per i sottufficiali dell’esercito, ma non abbiamo informazioni su questo. Alle dipendenze del Prefetto o del Trierarca erano diversi aiutanti e © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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segretari. Conosciamo adiutores e secutores, non meglio distinti, ma anche sottufficiali il cui incarico è chiaramente desumibile dai titoli vexillarius, vestiarius, signiferus, victimarius ecc… Al seguito del Prefetto erano dei praecones araldi, stratores scudieri, cornicularii soldati insigniti di un cornetto onorifico aventi mansioni di segreteria, ecc… C’erano, poi, responsabili di diverse operazioni a carattere tecnico o tattico a bordo della nave. Tra quelli con incarichi prettamente militari troviamo l’optio soldato scelto, una sorta di brigadiere, con un sottoposto suboptio. Conosciamo, poi, i velarii, e il proreta, l’uomo che sorvegliava la prua e il gubernator, il timoniere, il naupegus aupiciarius, l’addetto al calafataggio, mastri d’ascia, detti dolabrarii. Ad un curioso incarico era addetto il subunctor, il quale doveva provvedere a che i rematori fossero spalmati di olio, mentre, sempre per la cura del corpo, ma ad un livello superiore, su ogni nave era imbarcato un medicus. Inoltre, tra gli addetti alle segnalazioni e alla trasmissione degli ordini, sono da segnalare i trombettieri, presenti negli eserciti di tutti i tempi e paesi. Sulle flotte romane del II secolo dell’impero servivano i cornicines, i tubucines, i bucinatores. Gli equipaggi Sembra che tra il personale imbarcato, rematori, manovratori e truppe di marina, non ci siano state sensibili differenziazioni di ruoli, almeno dall’inizio dell’età imperiale. La mancanza di ruoli definiti, induce a ritenere che, già nel II secolo d.C., anche i rematori ricevessero un addestramento ed un armamento tale da renderli capaci di prendere parte ai combattimenti, come sicuramente avveniva in età proto-bizantina. Le truppe di mare, poi, non si differenziavano troppo in quanto ad armamento e organizzazione dai colleghi delle legioni e degli ausiliari. Rispetto a questi ultimi, essi sembrano, però, godere di minore considerazione e prestigio, anche se non erano, di norma, di origine servile. La loro provenienza era, per lo più, peregrina ed è incerto se ricevessero il diritto latino al momento dell’arruolamento. Al termine della ferma, dopo 26 anni di servizio, ottenevano un diploma che assicurava loro la iusta missio, ovvero il congedo, lo ius connubii, il diritto al matrimonio e la civitas, forse il bene più ambito per essi stessi ed i loro discendenti. Non risulta che, oltre a queste gratificazioni essi abbiano goduto di regolari assegnazioni di terre, così come avveniva per i legionari in congedo. Dalla fine del I secolo d.C. appare sempre più diffuso tra i marinai l’uso dei tria nomina, forse assunti per motivi pratici già all’atto dell’arruolamento o forse, come si è detto, per l’ottenimento del diritto latino; ma già di per sé questa usanza costituisce il segno di un accostamento qualitativo della Marina agli altri corpi di terra. In effetti, spesso il servizio in marina, duro e pericoloso, era inflitto come una punizione a militari di fanteria indisciplinati e irrequieti, o era vissuto come un periodo di passaggio, da reclute che speravano di fare una successiva carriera nelle legioni. Quanto alle regioni di provenienza delle reclute, poco si sa in base ai documenti epigrafici. Abbiamo qualche documento utile attraverso le iscrizioni dei marinai delle Flotte Pretorie di Ravenna e Miseno. Dalle epigrafi provenienti da quest’ultima località si deduce la netta prevalenza di reclute originarie delle provincie orientali e, soprattutto, dell’Egitto. Per la flotta di Ravenna, in mancan104
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za di adeguata documentazione epigrafica, Tacito ci informa della preponderanza di elementi dalmati e pannonici. I quadri di comando, invece, vedono una consistente presenza di Italici. Metodi di costruzione e struttura delle navi da guerra Naves longae è l’appellativo che distingue le navi da battaglia da quelle da trasporto, le onerariae, navi dalla carena tondeggiante. In effetti le fonti iconografiche rappresentano battelli allungati, dal profilo asimmetrico, con poppe alte e tondeggianti e prue basse, a profilo concavo, terminanti con un rostro. Poco, però, si può dire sulle effettive caratteristiche architettoniche di questi vascelli, poiché non esiste la possibilità di osservare e studiare relitti di navi da guerra, se si esclude il caso di Marsala. L’assenza del carico, infatti, che per i relitti delle navi da trasporto costituisce una sorta di protezione nei confronti dei fattori di disfacimento, ha condannato gli scafi alla distruzione. Poche osservazioni possono essere fatte in base allo studio del relitto di Marsala e a quanto ci tramandano le fonti. Esaminiamo ora gli elementi più importanti nell’architettura della nave. La chiglia è l’asse, generalmente composto da più segmenti assemblati con sistemi di giunti ad incastro molto elaborati, che costituisce la spina dorsale della nave. La parola latina che designa questo elemento è Carina. Se per le navi onerarie la chiglia poteva essere in legno di pino, per le navi da guerra le fonti scritte suggeriscono l’uso della quercia, più resistente nel caso che il vascello dovesse essere tratto in secco. Lo scheletro interno (ossatura), è l’insieme delle ordinate e dei madieri che rinforzavano dall’interno il fasciame delle navi e prende il nome latino di Costae. I bagli, sono le travi che congiungono trasversalmente le opposte murate e sostengono, ove presente, il ponte. Prendono il nome latino di Transtra. La scassa, è l’elemento ligneo costituito da un solido parallelepipedo sul quale è innestato il piede dell’albero. Un sistema di bloccaggio di facile rimozione consentiva di estrarre il piede d’albero per poterne permettere il ribaltamento. Le cinte di rinforzo, sono visibili, sui monumenti figurati, come corsi di fasciame sporgenti e di dimensioni maggiori. Il loro nome era Cintae ed avevano la funzione di proteggere le fiancate dagli urti accidentali. Il fasciame, infine, era costituito dall’insieme delle assi lignee giunte, a paro con il sistema di cui si parlerà in seguito. Verso prua e verso poppa le assi si stringevano e si innestavano, le une alle altre, con una sorta di giunzione ad unghia. A completamento della costruzione la struttura veniva impregnata con resine e pece (in particolare l’opera viva) per aumentarne la resistenza nei confronti dell’umidità e dell’attacco degli organismi marini. I relitti di navi da trasporto hanno dimostrato che, almeno fino alla metà del I sec. d.C., le carene potevano essere rivestite anche da una lamina di piombo ribattuta da chiodini di rame a testa piatta. Il sistema di costruzione adottato è detto a guscio portante. La nave da guerra di Marsala è un esempio di questa tecnica e denota, inoltre, la messa in © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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opera di parti prefabbricate; dovevano esistere degli schemi standardizzati, il cui impiego permetteva di costruire in breve tempo l’intera nave. Ciò spiegherebbe la facilità con cui gli antichi erano in grado di allestire ingenti flotte da guerra in pochissimo tempo, come ci attestano le fonti (Polibio, Plinio, ecc…). Il fasciame era assemblato a paro con l’ausilio di sistemi di incastro (mortase e tenoni). Chiodi in bronzo o in ferro potevano, in alcuni punti, completare l’assemblaggio. Grazie a questi sistemi di giunzione, il fasciame era autoportante e consentiva di porre in opera diversi corsi di tavole, a partire dalla chiglia, prima di introdurre all’interno le parti di rinforzo costituite dai madieri e dalle ordinate. Perché una nave realizzata con l’impiego di essenze lignee potesse dirsi ben riuscita era importante la scelta di elementi in grado di garantire una naturale resistenza meccanica in relazione alla funzione da svolgere nel contesto architettonico del vascello: la forma naturale delle varie sezioni arboree prescelte, costituiiva la migliore garanzia in questo senso. Le fonti antiche ci informano sulle essenze utilizzate e sui metodi di raccolta. L’abete o il pino erano quelle maggiormente impiegate, soprattutto per il fasciame e l’impavesata, insieme al gelso e all’olmo; il platano, troppo soggetto alla putrefazione, non era apprezzato. Sotto la linea di galleggiamento, il pino offriva garanzie di resistenza contro l’umidità, mentre i giunti, tenoni, erano per lo più in legno di quercia e le caviglie in legno di olivo, quercia, ciliegio. L’abete, per la sua leggerezza, era impiegato anche per l’albero, il pennone e i remi. Gli elementi che richiedevano una maggiore resistenza, come ad esempio la chiglia, erano realizzati con essenze adeguate e, preferibilmente, in quercia o, come nel caso delle cinte di rinforzo e l’epotìs, il baglio più prossimo alla prua, in frassino, olmo o gelso. Anche il cipresso veniva impiegato e, in Oriente, il cedro. La nave di Marsala ha la parte centrale della chiglia in pino, mentre il dritto di poppa è realizzato in acero. Gli esempi forniti dall’archeologia navale indicano, però, che spesso si usciva da questi schemi, frutto dei precetti dei teorici (Teofrasto, Plinio, Vegezio) e che la disponibilità locale condizionava, in pratica, la scelta delle essenze. Dimensioni e sistemi di propulsione delle navi da guerra Poco si sa, dalle fonti, sulle dimensioni degli antichi vascelli da guerra. È vero che gli scavi archeologici hanno evidenziato, in diverse località, bacini di carenaggio antichi, dalla misura dei quali è possibile dedurre qualcosa per quanto riguarda le navi, ma si tratta di ritrovamenti di strutture databili in età greca o ellenistica: rampe in pietra degradanti verso il mare, fiancheggiate da colonne e coperte da tetti spioventi. I confronti tra le varie situazioni pervenute danno una dimensione media, almeno per le triremi di età classica ed ellenistica, di circa 35 mt. di lunghezza per circa 5 mt. di larghezza. Che cosa sia stato, poi, recepito di questi moduli in età romana e, in particolare, nella media età imperiale, è difficile stabilirlo, né le raffigurazioni artistiche, per le deformazioni e la sommarietà di esecuzione, possono essere utili a tal fine. Tutto ciò che si può dire osservando le rappresentazioni, soprattutto pittoriche, di navi da guerra, è che esse appaiono veramente più lunghe che larghe e abbastanza basse sul profilo dell’ac106
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qua. Esse, inoltre, dovevano la loro agilità e manovrabilità alla presenza dei rematori. In effetti le vele erano usate durante la navigazione di crociera, ma, in assetto di battaglia, l’albero era rimosso e si manovrava con i remi. L’invenzione della trireme tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. stabilisce un modello di riferimento al quale si riconducono tutte le successive evoluzioni dei vascelli da guerra. I romani, nel corso dell’età imperiale, si servono di un modello di nave ispirato sì alla trireme classica, ma modificato in alcuni elementi essenziali, tra i quali spicca il sistema di allestimento dei piani di voga. La trireme romana di epoca imperiale può presentarsi esteriormente sotto due aspetti, a seconda della disposizione dei rematori entro gli aposticci di voga: nel primo tipo i remi escono da portelli posti sul fronte dei ballatoi, mentre nel secondo i remi escono al di sotto dei ballatoi, poggiando, evidentemente su scalmi collocati nella parte bassa degli stessi. Una questione aperta è quella riguardante le poliremi, le navi, cioè, che vengono denominate quadriremi, quinqueremi, esere, ecc. … Questi nomi dipendevano dalla presenza di più ordini di remi sovrapposti, ovvero dal fatto che ad un singolo remo potevano essere applicati più rematori? Come simili bastimenti manovrassero e quali soluzioni tecniche fossero adottate per permettere l’operatività dei rematori, non è ancora oggi perfettamente chiaro. L’ipotesi condivisa dalla maggior parte degli studiosi è, tuttavia, quella che non si siano impiegati più di tre ordini di rematori sovrapposti e che per le cosiddette poliremi si debba supporre l’applicazione di più rematori su uno stesso remo, secondo un sistema di voga denominato a scaloccio. Del resto, già per l’età ellenistica vengono citati colossi impressionanti (fino alle tessarakontere, navi da quaranta), che hanno fatto ipotizzare architetture navali paragonabili ai nostri catamarani, perché non si capisce come in un solo scafo potessero essere ospitati così numerosi ordini di remi o tanti rematori potessero essere applicati su di un solo remo. Le unità da guerra dell’Impero romano non furono, comunque, superiori alle esere, secondo la documentazione epigrafica di cui disponiamo, probabilmente ammiraglie delle due Flotte Pretorie. Quanto alla velatura, esse erano dotate di due alberi a vela quadra, uno a prua detto dolon, ed uno nella parte mediana, il malus o albero maestro, dal quale pendeva la vela principale. Probabilmente la vela di prua serviva per rimontare il vento o agevolare le manovre di virata, mentre nelle andature portanti era poco funzionale essendo coperta dalla vela principale.
Tipi di navi da guerra in uso presso le flotte imperiali Le naves longae, come si è visto, derivano generalmente il loro nome dal sistema di voga adottato. Fa eccezione la liburna, un tipo di bireme leggera, probabilmente non pontata, adoperata in origine dai pirati illirici e introdotta nelle flotte romane dopo le vittorie di Pompeo sui corsari. La tradizione storiografica attribuisce proprio a questi vascelli il merito della vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C.. Il nome liburna, nel tempo, divenne sinonimo di nave da guerra, tanto che alcuni autori tardi lo riferiscono anche alle poliremi. Le liburne erano provviste di rostro, ma non sappiamo se fossero fornite anche di torri, né le raffigurazioni © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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artistiche ci aiutano a risolvere il problema; è, infatti, difficile identificare in ogni rappresentazione di bireme una liburna. Quello su cui tutti gli autori concordano è la velocità e l’estrema maneggevolezza di queste unità delle quali, a dispetto della fama di cui godettero nell’antichità, non si può dire neanche per quanto tempo fossero in uso presso le flotte imperiali. È certo, comunque, che dopo il 400 d.C., non si riscontra più l’uso di questo nome per designare navi da battaglia. Un altro tipo di nave da guerra che ha goduto di una lunga tradizione nell’antichità è la triera o triremis. Abbiamo parlato delle dimensioni della trireme classica e abbiamo visto su quali basi empiriche si fonda la nostra conoscenza in proposito. Poco si sa delle dimensioni di quella romana e si suole accostarla a quella dell’età classica, anche se è consigliabile una certa prudenza. Dalle raffigurazioni a noi note, sembrerebbe che queste navi fossero normalmente pontate. La presenza di un ponte permetterebbe anche l’uso di torri e di artiglieria oltre che l’imbarco di un maggior numero di armati. Alcuni autori ammettono la contemporanea esistenza di triremi non pontate. Il numero massimo di imbarcati poteva aggirarsi intorno ai 220-230 uomini, di cui 170 erano i rematori. L’impiego di queste navi è stato mantenuto fino al quarto secolo dopo Cristo, epoca in cui cominciano ad essere introdotti nuovi tipi di navi da guerra. Navi interamente pontate erano, poi, le quadriremi, quinqueremi ed esere che imbarcavano un forte contingente di soldati e di rematori fino a raggiungere, e superare, le 400 unità. Le iscrizioni ci tramandano, però, soltanto cinque volte la menzione di esere, navi che servivano esclusivamente, come si è già detto, come ammiraglie delle flotte principali, anche se documentate fino al III secolo. Insieme alle quinqueremi, queste navi sembrano poco impiegate in un periodo di relativa tranquillità e di fronte a probabili nemici dotati di vascelli più maneggevoli e meno imponenti. A dispetto della fortuna goduta presso gli scrittori di cose navali, stando alle epigrafi pervenuteci, le liburne non sembrerebbero i vascelli più diffusi; esse sono menzionate 62 volte, mentre le quinqueremi sono attestate 66 volte. Quelle che guidano di gran lunga questa sorta di classifica sono le triremi con 282 menzioni. Si potrebbe definire la trireme l’unità che ha senz’altro costituito, per tre secoli, il nerbo delle flotte pretorie e quella più importante delle squadre provinciali. Questi numeri si basano in gran parte sulle iscrizioni funebri dei marinai delle due flotte di Ravenna e Miseno. Le scarse notizie circa gli effettivi delle flotte periferiche non permettono di escludere a priori che presso le Classes provinciali venisse impiegato un numero preponderante di vascelli leggeri, fatto quasi certo nel caso delle flotte fluviali, per evidenti motivi di ordine tattico. Limitatamente all’epoca tardo-romana, conosciamo un’imbarcazione denominata lusoria, molto diffusa presso le flottiglie che difendevano il limes renano e danubiano. Doveva essere leggera e di forma allungata, spinta da rematori e, all’occorrenza, da una vela, anche se non ci sono giunte precise notizie al riguardo. Le navi militari erano coadiuvate da barche di dimensioni più ridotte, con impieghi diversi. Ricordiamo qui le scaphae, sorta di scialuppe che, oltre ad essere utilizzate in situazioni di emergenza, durante la battaglia partecipavano a missioni finalizzate al danneggiamento del timone delle navi nemiche. Tra le ausiliarie di dimensioni 108
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La marina militare romana tra il I e il III sec. d.C.
maggiori si ricorda l’hippago, o hippagogo, nave a remi per il trasporto dei cavalli, che compare, insieme ad altre imbarcazioni più o meno identificate, nel mosaico di Althiburus e nella Colonna Traiana. Nella marina ateniese del quinto secolo a.C. esisteva già una nave con i medesimi compiti, ricavata da vecchie trireme rimaneggiate, che poteva imbarcare una trentina di cavalli. Capacità offensiva La presenza di un rostro a prua, sul prolungamento delle cinte laterali, sulla linea di galleggiamento o poco al di sopra, rende l’intera nave simile ad un gigantesco proiettile o ad una lancia protesa contro l’unità nemica. Ci sono giunte diverse rappresentazioni dei rostri e, da quanto ci è possibile osservare, possiamo suddividerli in due tipi fondamentali: quello che ha l’aspetto di tre lame di spada sovrapposte e quello a forma di un unico cuneo rivolto all’insù. Non sembra si possa parlare di evidenti differenze cronologiche, in quanto i due tipi risulterebbero in uso contemporaneamente. Tuttavia dalla fine del I secolo d.C. non compare più il rostro a tre lame sui monumenti figurati. Il rostro era costituito da un fodero metallico in bronzo applicato al prolungamento delle cinte o anche a quello della chiglia, come nel caso dell’unico rostro bronzeo ritrovato sott’acqua, quello di Athlit in Israele. Al di sopra del rostro (embolion in greco) esisteva un rostro secondario più piccolo (proembolion), avente la funzione di danneggiare le sovrastrutture della nave nemica. Esso era variamente configurato, come si evince dai monumenti pervenutici. Un esemplare a testa di cinghiale proviene dal porto di Genova. Le navi pontate (naves constratae o cataphractae) erano a volte dotate di una protezione merlata, da impavesate protette da scudi e da castelli di prua alti e merlati, propugnacula. All’occorrenza potevano dotarsi di torri facilmente rimovibili o ricostruibili in caso di necessità. Da queste, o dai castelli di prua, o dai casseri a poppa (ove presenti), potevano essere scagliati proiettili, anche incendiari, grazie a macchine belliche analoghe a quelle impiegate dagli eserciti di terra. Tutto ciò lascia arguire come la tattica di guerra navale si fosse evoluta in modo complesso dall’età classica, quando la principale strategia di assalto era costituita dal tentativo di speronare l’unità nemica attraverso le manovre del diekplous e del perìplous. Infatti, già a partire dall’età ellenistica, di solito, la battaglia navale vera e propria cominciava con un bombardamento a distanza con l’impiego di tutto ciò che poteva danneggiare la nave nemica e il suo equipaggio. L’assalto non era più finalizzato all’immediato speronamento, anzi, le manovre di artiglieria servivano a mettere in seria difficoltà l’avversario e a decimarne gli effettivi, in previsione dell’eventuale assalto finale. Dopo lo speronamento, poteva aver luogo l’arrembaggio con il combattimento corpo a corpo, nel quale erano impiegate le armi individuali. Alla luce di queste considerazioni, l’espediente dei corvi adoperati dalla flotta di Lutazio Catulo nel 260 a.C. contro quella cartaginese appare, agli albori della storia della marineria romana, come la testimonianza della precoce ricezione da parte dei Romani delle più moderne tecniche di tattica, piuttosto che l’espediente improvvisato da un popolo di contadini ignari dell’arte della guerra sul mare. © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Roberto Petriaggi
Bibliografia AA.VV., The age of the Galley, Conway’s history of the ship, Conway’s maritime press, London 1995. D. J. Blackman, Triremes and Shipsheds, Tropis, II, International Symposium on Ship Construction, Delphi (1987) 1990, pp.35-52. D. J. Blackman, Ancient harbours in the Mediterranean. Part. I, in «The International Journal of Nautical Archaeology» 11.2, 1982, pp.79-104. D. J. Blackman, Ancient harbours in the Mediterranean. Part. II, in «The International Journal of Nautical Archaeology» 11.3, 1982, pp.185-211. E. Linder, The Athlit Ram, edited by Lionel Casson and J.R. Steffy. College Station (Texas),Texas A&M
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University Press, Published with the cooperation of the Institute of Nautical Archaeology, 1991. J. Morrison, The ship. Long ships and round ships, London 1980. B. Pferdehirt, Das Museum fur antike schiffahrt, I, Mainz 1995. M. Reddé, Mare Nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militare sous l’Empire romain in «Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et de Rome», fasc. 260, Rome, 1986. G. C. Starr, The Roman Imperial Navy 31 BC-324 AD, Cambridge 1966.
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PER IL RESTAURO DEL FARO DEL LAZZARETTO A CIVITAVECCHIA di Lorenzo Quilici
1. - Il porto di Civitavecchia con evidenziate le strutture romane (da S. Bastianelli). 2. - Il porto di Civitavecchia in un disegno del Seicento (Archivio di Stato di Roma).
Mi è stato molto gradito l’invito ricevuto dall’Associazione Fabio Faccenna a partecipare a questi incontri annuali che vogliono ricordare questo giovane studioso: un ragazzo che ho appena avuto l’occasione di conoscere, ma che mi è caro ricordare per l’affetto che mi lega ai genitori, Lidia e Domenico, così che a lui mi unisce il medesimo sentimento. Cercando un argomento “marittimo”, consono a questi incontri, ho pensato al faro romano di Civitavecchia, anche per suscitare l’interesse al restauro e alla valorizzazione di un eccezionale monumento, quasi ultima testimonianza di un impianto portuale antico di straordinaria valenza, obliterato dalle superfetazioni del porto attuale. Civitavecchia infatti, l’antica Centumcellae, aveva conservato, straordinariamente intatte, le strutture portuali romane fino all’ultima guerra, quando proprio per la funzionalità di quelle, che ne facevano uno dei più sicuri ed efficienti porti dell’alto e medio Tirreno, è stata tra le città italiane più aspramente bombardate, distrutta per l’ottanta per cento delle sue strutture (figg. 1-2). Sono andate allora cancellate
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Lorenzo Quilici
3. - Il porto di Civitavecchia in una fotografia aerea del 1928. Si riconoscono bene i moli romani e si conservano ancora i fari (Archivio Ministero dell’Aeronautica Militare).
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Un lavoro che rimane fondamentale sul porto di Civitavecchia è quello di S. Bastianelli, Centumcellae (Civitavecchia), Castrum Novum (Torre Chiaruccia), Roma 1954. Per conguagli e approfondimenti degli argomenti qui trattati, rimando a un mio lavoro, Il porto di Civitavecchia - L’antica Centumcellae, in Eius Virtutis Studiosi: Classical and Postclassical Studies in Memory of Frank Edward Brown (19081988), (Studies in the History of Art 43, Simposium Papers XXIII), Washington 1993, pp. 63-83. 2 Vedi L. Quilici, Nero Claudius Caesar Kosmocrator, in I culti della Campania antica, Atti del Convegno internazionale dei Studi in ricordo di Nazarena Valenza Mele, Roma 1998, pp. 201-212.
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per sempre opere mirabili per antichità: anche la fretta della ricostruzione è stata causa di obliterazioni, che gli interventi succedutisi, fino ai nostri giorni, hanno avvallato: tanto che solo occhi assai esperti possono oggi riconoscerne il disegno originario. Le generazioni alle quali è spettato di ridare forma alla nuova città, si sono dimostrate, fino ad oggi, prive di sensibilità nel riconoscere e valorizzare i tesori che nonostante tutto vi si sono mantenuti. Il porto di Civitavecchia ha costituito, nel quadro delle esperienze dell’ingegneria portuale di tutti i tempi, un vero modello: esso infatti non era venuto a sfruttare condizioni naturali di riparo costiero, come un golfo, una rada, un promontorio; ma fu realizzato del tutto artificialmente, su di un’aperta costiera, gettando direttamente in mare aperto le sue dighe. Esso, inoltre, non fu il prodotto di molteplici interventi, protrattosi nell’arco di tempo di più generazioni, tesi a potenziare ed a migliorare l’opera; ma fu il risultato di un’unica idea progettuale 1. In età imperiale Roma aveva aggiunto alle attrezzature fluviali di Ostia, alle foci del Tevere, i grandi porti di Claudio e di Traiano. Lo spazio metropolitano della città, però, aveva acquistato un respiro immensamente più ampio già in età augustea, con l’eccezionale sviluppo impresso al porto di Pozzuoli, l’antica Putèoli, che si era andato di poi ulteriormente potenziando sempre in funzione di Roma, raggiungendo le massime potenzialità in età flavia. Nerone e Domiziano avevano reso più efficiente la linea di cabotaggio costiero e costruito, il primo, il porto di Anzio. Traiano, alla costruzione del porto interno a quello di Claudio, aveva aggiunto quello di Terracina e infine, a nord, quello di Civitavecchia. Con quest’ultimo si completava così, nei primi anni del II secolo, il sistema degli allacci marittimi in funzione della capitale dell’impero che, in aggiunta agli apparati portuali centrali collocati alla foce del Tevere, vedeva come teste di ponte Putèoli a sud, per le comunicazioni con l’Africa e con l’Oriente, e Centumcellae a nord, per le comunicazioni con la Gallia e con la Spagna 2. La posizione fu scelta per la natura aperta della costa, bassa e rocciosa, la prima che si incontra a nord di Roma libera dalle sabbie di provenienza tiberina. Furono allora avanzati in mare aperto due moli: quello di levante con andamento ad arco di cerchio, che veniva così ad abbracciare il lembo di mare ed a proteggerlo dalle correnti dominanti; ed un altro a ponente più breve e rettilineo, a difesa del versante meno esposto. Avanti ai due fu gettato in mare profondo l’antemurale, ad andamento ancora un poco curveggiante, a difesa dell’imbocco. Sintetizzando, le opere di difesa sulla fronte del mare erano date da due moli convergenti tra di loro e da una bocca protetta da antemurale: la disposizione intendeva assicurare a tutto il bacino chiuso tra i due moli l’ufficio di porto interno, mentre lo specchio direttamente ridossato dall’antemurale
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Per il restauro del faro del Lazzaretto a Civitavecchia
4. - Civitavecchia, il molo e il faro romano di Lazzaretto.
3 Epistularum VI, XXXI, 1517 (ed. Loeb Classical Library, 1922).
poteva funzionare da avancorpo, accessibile, a seconda della direzione del mare e del vento, dall’una e dall’altra delle due bocche. Qui, infatti, le correnti sono determinate in prevalenza dallo scirocco, che spinge a nord ovest spazzando la linea di costa (fig. 1). L’antemurale ed il molo di levante, lunghi circa 350 m ciascuno, furono costruiti gettando in acqua una solida scogliera, sulle quali furono elevate le banchine in calcestruzzo e rivestite di blocchetti parallelepipedi di arenaria. Resta, famosa, la descrizione dell’opera in costruzione in una lettera di Plinio il Giovane, che ne fu testimone oculare: … huius sinistrum brachium firmissimo opere munitum est, dextrum elaboratur. In ore portus insula adsurgit, quae inlatum vento mare obiacens frangat, tutumque ab utroque latere decursum navibus praestet. Adsurgit autem arte visenda: ingentia saxa latissima navis provehit contra; haec alia super alia deiecta ipso pondere manent ac sensim quodam velut aggere construuntur. Eminet iam et adparet saxeum dorsum impactosque fluctus in immensum elidit et tollit; vastus illic fragor canumque circa mare. Saxis deinde pilae adicientur quae procedente tempore enatam insulam imitentur 3. Ne offro per comodità la traduzione: «Del porto, la diga sinistra è munita con una struttura solidissima, quella di destra è in corso di realizzazione. Sulla bocca del porto viene innalzata un’isola che, ponendosi avanti alla bocca stessa, rompa il mare spinto dal vento e offra alle navi un accesso sicuro da entrambi i lati. Viene innalzata con una tecnica proprio mirabile da vedere: una larghissima nave trasporta avanti grandi macigni; qui gettati gli uni sopra gli altri, rimangono fermi per il loro stesso peso e lentamente viene costruito come un bastione. Già sale e ne appare il dorso sassoso, che infrange e solleva a grande altezza i flutti che vengono ad urtarlo; là forte è il fragore e il mare spumeggia bianco all’intorno. Poi verrà aggiunto il molo di pietra che, con il procedere del tempo, lo faranno assomigliare a una nuova isola». A differenza dell’antemurale e del molo di levante, costruiti a banchina piena, il molo di ponente, che è lungo 250 m, fu innalzato su pile in calcestruzzo collegate mediante arcuazioni, che fornendo la continuità della banchina permettevano alle correnti marine di passarvi al di sotto. Il gioco prevalente delle correnti, quindi, provenendo da sud-est, urtava dapprima il molo di levante e poi l’antemurale, già attutendosi e distraendosi sull’andamento curvilineo di quelli: la corrente, che entrava dalla stessa bocca di levante del porto, ne usciva poi da quella posta sull’opposto versante, mentre la corrente che ancora riusciva ad entrare nel bacino ne poteva pure fuoriuscire in parte, attraverso le arcuazioni del molo di ponente. Quest’ultimo molo, con la sua particolare tecnica costruttiva, consentendo alla corrente di attraversarlo, permetteva a questa di pulire continuamente il fondale, impedendo l’interro del bacino; inoltre, in caso di mare mosso, riduceva la risacca (figg. 1, 4-5). Nel sistema d’ingresso al porto venivano quindi ad assumere grande impor-
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Lorenzo Quilici
5. - Civitavecchia, pianta e prospetto del molo e del faro romano di Lazzaretto.
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De reditu suo, I, 237-244 (ed. H. Prior, 1989).
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tanza le testate sia dell’antemurale che dei moli, distanti tra loro tra bocca e bocca meno di 200 m e che furono resi ben visibili con quelle torri che ancora esistevano fino all’ultima guerra. Il porto, poi, non si concludeva nello specchio d’acqua conchiuso tra le dighe, ma si completava con un bacino più interno, trapezoidale di 350x300 m, scavato nella roccia della terraferma e banchinato in muratura, che è quello mirabilmente conservato, che in passato serviva da dàrsena e nel quale oggi riposano le barche da pesca (figg. 1-3). Una suggestiva immagine del porto, con l’isola, i suoi fari, il doppio ingresso, ed anche con il bacino più interno, è offerta dalla poesia di Rutilio Namaziano, che approdò qui tra gli anni 415 e 418, provenendo da Roma e diretto in Gallia: Ad Centumcellas forti defleximus austro;/ Tranquilla puppes in statione sedent./ Molibus aequoreum concluditur amphiteatrum./ Angustosque aditus insula facta tegit./ Attollit geminas turres bifidoque meatu/ Faucibus artatis pandit utrumque latus./ Nec posuisse satis laxo navalia portu: / Ne vaga vel tutas ventilet aura rates,/ interior medias sinus invitatus in aedes/ Instabilem fixis aera nescit aquis 4. Ne offro anche qui la traduzione: «Volgemmo a Centocelle con forte vento australe; le poppe si fermano nel porto tranquillo. Le acque sono chiuse dai moli come in un anfiteatro. Un’isola artificiale protegge gli stretti accessi. Leva in alto le torri gemelle e spalanca entrambi i lati sul doppio ingresso dalle strette bocche. Né gli apprestamenti per le navi potrebbero trovare una migliore sicurezza in un porto tranquillo: perché neppure la brezza muova dalla loro quiete le imbarcazioni, la parte più interna del porto, che giunge fin tra le case della città, tra acque immobili ignora il mutare dei venti». La bontà della realizzazione e della esecuzione di questo porto è provata dal suo uso plurimillenario, ininterrotto nel tempo. Così i papi, fin dal Rinascimento, ebbero ben chiara l’importanza di questo porto per la città di Roma, impegnando nelle opere di restauro e di potenziamento grandi ricchezze e la mente dei massimi architetti del loro tempo: Bramante, Leonardo, Michelangelo, Sangallo il Giovane, Bernini, Carlo Fontana, Vanvitelli si avvicendarono in un’impresa che, senza alterare l’equilibrio delle forme romane, venne anzi ad arricchirle grandemente, anche imitandole, aggiungendo man mano l’impronta di ogni periodo senza turbare il godimento del loro insieme. Come orgoglio dello Stato della Chiesa, un’infinità di disegni e rilievi rappresentano il porto di Civitavecchia fin dal Cinquecento, con dettaglio straordinario delle strutture antiche, come quelle eseguite da Leonardo, Sangallo e Fon-
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Per il restauro del faro del Lazzaretto a Civitavecchia
6. - Civitavecchia, la torre e il molo di Lazzaretto con ancora l’ospedale al di sopra, particolare da una stampa dell’Ottocento.
5 A. Cialdi, Quale debba essere il Porto di Roma e ciò che meglio si convenga a Civitavecchia e ad Anzio, in «Giornale Arcadico» 109, 1846, pp. 3-60 (p. 36 per il primo brano riportato), e Idem, Disegno per l’ingrandimento e il miglioramento del porto di Civitavecchia, ibidem 163, 1861, pp. 3-60 (p. 16 per il resto del testo riportato). 6 Struttura che era di norma nei porti.
7. - Il faro romano di Lazzaretto, visuale da est.
tana; e scenografiche prospettive a volo d’uccello, che documentano il porto per tutti i secoli della storia moderna (fig. 2). Il porto antico, si può dire, è rimasto tale e quale fino all’inizio del Novecento quando, con il declinare della navigazione a vela e con l’imporsi delle diverse esigenze della navigazione a vapore, si erano già avviati i lavori intesi al suo ingrandimento ed ammodernamento (fig. 3). Così lo descrive ancora un’opera portolana alla metà dell’Ottocento: «Civitavecchia (è) posseditrice del piccolo sì ma del più bello e meglio costruito porto del mondo… Questa disposizione del presente antemurale… è… una conferma dell’alta mente e della profonda pratica dell’uomo che ne dettò l’insieme. Difatti, per entrare in porto con mare grosso è necessario che il bastimento riceva le onde in fil di rotta e si tenga ben prossimo alla testata dell’antemurale: ed essendo questa poco protratta a scirocco in confronto del molo del Bicchiere (cioè quella di Levante), il bastimento può con superabile difficoltà entrare felicemente in porto; ma se l’antemurale fosse più protratto a scirocco, e peggio ancora più a levante, il bastimento stesso, per la mancanza di acqua verso la riva, dovrebbe ricevere un vivo, più alto e spesso franto mare, e così sarebbe irreparabilmente perduto» 5. Anche le vecchie fotografie aeree del porto ben fanno comprendere l’immagine antica e, in definitiva, anche quelle recenti (fig. 3). Ma del porto antico, a parte qualche rudere qua e là, resta ben riconoscibile unicamente una parte del molo di ponente (figg. 4-5) e il bel bacino interno, quello oggi adibito a ricovero per le barche dei pescatori (figg. 1-3). Dei fari resta solo quello del molo accennato, che prendeva nome di molo di Lazzaretto, perché su di esso si impostò, sempre nel Cinquecento, il lebbrosario (figg. 4, 6-7) 6. Presumibilmente il faro vero e proprio, visibile a grande distanza, doveva essere sulla diga avanzata in mare aperto, mentre sui moli erano le lanterne, che col faro principale dovevano permettere l’avvicinamento e l’entrata sicura nella notte. Già dal Rinascimento i
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Lorenzo Quilici
8. - Il faro romano di Lazzaretto, particolare dell’ingresso.
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fari minori furono trasformati in torri di guardia e muniti di artiglierie, per il controllo degli ingressi (fig. 6). Il nostro faro-lanterna si presenta a tre piani con quello terreno, conservando un’altezza di 11-12 m contro i 14-15 del passato (figg. 4-5, 7-8). I piani si scandiscono in tre zone, divise ciascuna da una cornice rinascimentale a cordone aggettante, di travertino; la base si presenta rafforzata da una lieve scarpa laterizia cinquecentesca, che porta la struttura a 30 m di diametro. Presenta tutto all’ingiro sei basse finestre per le bocche da fuoco, tagliate a ventaglio nello spessore del muro e coperte da un archetto ribassato; vi sono due porte, una sulla fronte orientale che prospetta il molo e un’altra a nord, che comunica con altri edifici antichi, ai quali la torre si addossava, dei quali restano ruderi di pari altezza sempre sul lato del molo. Il piano superiore, il secondo, mostra in tutta evidenza la struttura cementizia traianea, rivestita da un’accuratissima opera reticolata di tufo e scandita sopra e sotto da fascioni in masselli parallelepipedi, sempre di tufo. La struttura in reticolato più alta, che sta subito sotto la cornice che riporta al terzo piano, e tutto il reticolato superiore è di restauro cinquecentesco, imitanti l’antico ma fatto di tasselli un poco più grandi, e così l’attuale coronamento, in masselli parallelepipedi. Il calcestruzzo traianeo si distingue per il colore bianco sporco, tenacissimo, mentre quello rinascimentale è ricco di pozzolana rossa e più friabile. Un elemento caratteristico del piano intermedio è dato da una serie di finestre cieche, campite in opera reticolata e riquadrate da cornici di arenaria semplicemente sagomate, a loro volta inquadrate sui lati da stipiti di masselli parallelepipedi di eguale materiale e al di sopra da un archetto ribassato quasi a piattabanda, questo in piccoli conci sempre di arenaria, più rilevati a scopo ornamentale in chiave di volta (fig. 8). Quest’ultimo motivo è senza dubbio rinascimentale e riquadra le finestre cieche antiche a scopo ornamentale. Anche le finestre, accecate, debbono aver avuto in antico uno scopo ornamentale o sono state chiuse come una variante del progetto in corso d’opera. Sopra la cornice che scandiva il terzo piano erano altre troniere rinascimentali e altre ancora ne furono aperte nel coronamento scoperto o, nel variare delle realizzazioni nei secoli scorsi, guarnita in sommità di feritoie per il tiro di fucileria. La torre, come si è già accennato, fin dal Rinascimento, fu trasformata in fortilizio per la difesa dell’ingresso al porto e non è improbabile che la torre anche in antico, oltre che la funzione di faro, avesse questo stesso ufficio. Riguardo all’interno del monumento, il piano terreno è ancora rifasciato da laterizio rinascimentale per uno spessore complessivo, alla base, di 2,4 m,
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Per il restauro del faro del Lazzaretto a Civitavecchia
mentre l’antico sembra mostrarne 1,2 e sembra essere stato dotato, all’esterno, per quel che si intravede nelle sezioni del muro stesso, da un paramento in masselli parallelepipedi. L’ambito circolare interno è oggi del diametro di 15,35 m, mentre in antico doveva essere di 16 m. La cortina rinascimentale interna è servita a impostare, nella stessa epoca, una copertura a cupola, della quale si riconosce una fase nella quale era stato lasciato al centro un grande occhio di quasi 11 m di diametro, poi coperto e sostenuto probabilmente da un grande pilastro centrale oggi scomparso: il tutto valido ad adattarla all’uso delle artiglierie poste al piano superiore (fig. 5). Riguardo al coronamento, esso è oggi inaccessibile. Anche la nostra torre è stata infatti colpita dai bombardamenti e diroccata su tutta la fronte volta al mare aperto. Si è intervenuti nel dopoguerra con restauri, mediante l’accecamento di alcune finestre e alcune riprese murarie laterizie, l’incastonamento di alcuni stemmi pontifici di Clemente VIII, non pertinenti. Al di sopra ancora si è intervenuti in una seconda fase brutalmente, presumibilmente tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta pensando a un riuso, con massicci pilastri e architravi in cemento armato che non solo hanno snaturato il monumento, ma lo hanno gravemente appesantito e danneggiato (fig. 7), tanto che il tamburo è tutto aperto da paurose crepe e si è ritenuto necessario puntellare completamente l’interno con una fitta palificata e capriate lignee che sorreggono la cupola. Tutto resta, a tutt’oggi, privo di copertura. Al faro si addossa, come ho già accennato, sul lato del molo, una struttura in opera reticolata alta almeno due piani, larga 11 e lunga forse 18 m, che doveva accogliere il presidio di servizio alla torre. Sia il faro che questo edificio sono fondati sulla roccia sottomarina con una potente struttura in grandi massi parallelepipedi di travertino e arenaria, che s’alzano a più filari sovrapposti, formando come un isolotto parallelepipedo avanzato in mare (fig. 5). Essendo stato ridossato da scogliere moderne, non resta tutto visibile. Veniamo ora al molo che, come accennato, ancora si conserva: è ben visibile per la lunghezza di 100 m dei circa 250 originari, essendo i rimanenti rimasti inglobati in cementificazioni recenti (figg. 4-5). Il molo antico, largo 11 m, è ben visibile sul lato sud est, ma è stato inglobato sul lato opposto da un allargamento che lo porta a 19-20 m, quando al di sopra, nel Cinquecento, gli fu costruito il Lazzaretto (fig. 6). Il molo è alto circa 3-3,5 m sul fondale, circa 2,5 sul livello del mare e traforato da arcuazioni, come detto all’inizio, che scandiscono luci di 2,3 m tra pile lunghe 5,3. Le aperture antiche sono ortogonali al senso del molo, mentre l’ampliamento rinascimentale le prosegue su di un altro asse. Il molo romano, del quale si riconosce anche la fronte a nord ovest, entrando sotto gli archi rinascimentali, era rivestito di masselli parallelepipedi di arenaria, così come da piccoli conci radiali le ghiere degli archetti. Le superfetazioni recenti che oggi coprono per 150 m il resto del molo, nel suo attracco alla terraferma, lasciano intravedere qua e là la struttura antica e gli attracchi pontifici, che davano al Lazzaretto. Questo molo è la straordinaria sopravvivenza di un genere portolano, l’opus pilarum, caratteristico dell’età romana, della cui funzionalità si è già specifica© 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Lorenzo Quilici
7 Se ne veda un buon conguaglio in «Archeologia subacquea. Studi, ricerche e documenti» I ,1993; II, 1997, passim. 8 De Arch., I, 2, 3.
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to, tanto che l’attuale ingegneria marittima lo sta riprendendo in altri porti. Non esistono oggi moli antichi così straordinariamente conservati, tanto che esso si presenta come un unicum: famoso è stato, di questo genere, il molo di Pozzuoli (Putèoli), che però è tutto scomparso sotto le ristrutturazioni di età contemporanea, e ne restano altrimenti solo figurazioni portolane antiche, in pittura o mosaico 7. Anche il faro è un unicum in Italia ed è altrettanto straordinaria la cura con la quale i nostri grandi architetti del Rinascimento, probabilmente lo stesso Bramante o Michelangelo, sono intervenuti integrando e imitando la struttura antica. Sono, queste, quelle moles necessariae, nelle quali si configurano gli aspetti più significativi della civiltà di Roma antica, per le quali essa vantava i principi di firmitas, utilitas e venustas (solidità, utilità, bellezza), annoverati da Vitruvio come i fondamenti della sana architettura 8. È drammatico tuttavia constatare come, in particolare il faro, sia stato lasciato diroccato e in condizioni così critiche da farne temere per la stessa sopravvivenza. La servitù militare, alla quale ancora il monumento soggiace e che viene ancora reclamata, ha impedito alla Soprintendenza archeologica di intervenire nel restauro, nonostante vi siano stati precisi impegni a proposito, quali il blocco dei lavori devastanti e il puntellamento della volta: ormai ridotte, queste capriate, a legno fradicio, essendo passati trent’anni da quei lavori. Un monumento eccezionale per il ricordo della nostra Antichità ed eccezionale per gli uomini del Rinascimento che vi posero mano, impone come del tutto doveroso e urgentissimo il restauro. Di questa responsabilità morale sono investiti il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e l’Autorità del Porto di Civitavecchia: a noi, nel ricordo dell’impegno civile di Fabio Faccenna, sta di cercare di smuovere le acque intorpidite, che ostacolano il recupero del monumento.
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IMPIANTI MARITTIMI PER LA PISCICOLTURA IN ETÀ ROMANA di Letizia Rustico
1. - Saracca. Resti della villa sepolti nella duna. (Foto Fabio Faccenna).
Trattare questo argomento costituisce per me una piacevole consuetudine che perdura ormai da oltre un decennio; ma ogni occasione per parlare di peschiere romane mi è cara perché riporta alla mente l’amicizia con Fabio, nata lungo le coste laziali dove ci trovavamo quindici anni fa per rintracciare e documentare questo genere di strutture. La pubblicazione a cura dell’ENEL di una monografia dal titolo L’itticoltura nell’antichità dove si tracciava una storia dell’allevamento ittico nel mondo antico presso le civiltà del Mediterraneo, ha offerto l’opportunità di presentare, a titolo esemplificativo, alcuni impianti per piscicoltura dislocati lungo il litorale a nord della foce del Tevere, con una documentazione grafica e fotografica diretta dei resti. Veniva inoltre eseguito un censimento delle peschiere presenti nel litorale tirrenico edite da bibliografia o segnalate dalle fonti antiche. Ne è emerso un quadro ben preciso: su un totale di 54 impianti solo per 30 poteva essere accertabile il loro stato di conservazione; in secondo luogo nella maggior parte dei casi la documentazione, ormai datata, necessitava di un aggiornamento, a volte purtroppo peggiorativo dei resti archeologici e, comunque, una comparazione paradigmatica tra le peschiere rendeva indispensabile una uniformità di rappresentazione di tutti gli esempi noti. Su insistenza e sollecitazione di amici e colleghi, primo fra tutti Piero Gianfrotta, si sta procedendo a una ricerca che prenda in esame mediante l’esecuzione di rilievi grafici diretti in scala 1:100 tutti gli impianti di piscicoltura del litorale tirrenico. L’intento è quello di conferire alle peschiere romane l’importanza di classe monumentale peculiare per realizzazione tecnica e dislocazione topografica, cosa finora negata loro dalla letteratura moderna, a fronte di un partecipato interesse degli scrittori antichi sull’argomento. Particolare attenzione verrà spesa per l’inquadramento storico del fenomeno piscicoltura in età romana, a partire dal grandioso programma edilizio che determinò lo sviluppo delle villae maritimae tra la fine del II secolo a.C. fino a tutto il I secolo d.C.; per giungere al giudizio perentorio e negativo che le fonti storiche hanno trasmesso sui piscinarii, i famigerati proprietari di peschiere, colpevoli secondo Cicerone e Marziale di abbandonare la prisca rusticitas a cui si ispiravano le aziende avite, in nome di un passatempo tutto sommato passivo dal punto di vista economico. Alcuni di questi homines novi erano intraprendenti personaggi, a volte di estrazione equestre, arricchitisi in fretta e desiderosi di emergere social-
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2. - Pianosa. La peschiera circolare in loc. Darsena di Augusto. 3. - Torre Valdaliga. La peschiera vista dalla ciminiera della centrale ENEL.
4. - Punta della Vipera. Il corpo centrale della peschiera.
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mente in un’epoca i cui valori etici maggiormente propagandati erano una sfrontata ostentazione di beni e ricchezze materiali, l’otium, cioè il distacco dagli affari pubblici e uno smaccato individualismo. Ma accanto a C. Sergio Orata, L. Licinio Murena e P. Vedio Pollione non mancavano i ricchi proprietari terrieri della vecchia aristocrazia nobiliare, interessati a quelle novità in campo economico che potevano essere veicolo di affermazione personale; basta pensare a L. Licinio Lucullo, L. Licinio Crasso e Q. Ortensio Ortalo. Una serie di caratteristiche generali accomunano un po’ tutti gli impianti di itticoltura del litorale tirrenico: in primo luogo la scelta ubicativa per la realizzazione delle peschiere risponde a criteri ritenuti fondamentali e imprescindibili. Ad esempio la vicinanza di una baia riparata ma non troppo chiusa ai venti e alle correnti marine predominanti, in modo da offrire ai vivai una protezione dal moto ondoso e, d’altro canto, un costante ricambio idrico all’interno dei bacini, sfruttando e assecondando i movimenti di marea. Avere a disposizione costanti riserve di acqua dolce con fossi, fiumi, sorgenti e lagune costiere ma anche cisterne e condotte artificiali, costituisce un altro requisito importante per mantenere il giusto grado di salinità delle acque e condizioni di vita
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accettabili per le varie specie ittiche, a volte attratte proprio dalle foci. Tra gli esempi più tipici e rispettosi dei canoni progettuali suggeriti dalle fonti si possono annoverare le peschiere dell’isola di Pianosa (Campo nell’Elba) (fig. 2), Torre Valdaliga (Civitavecchia) (fig. 3), Punta della Vipera (Santa Marinella) (fig. 4), Saracca e Casa Banca (Nettuno) (figg. 1, 5, 6, 7) le quali conservano, fortunatamente intatte, alcune caratteristiche peculiari. Evidenti sono gli elementi di protezione e delimitazione (moles) frutto di un notevole sforzo tecnico e consistenti in poderose gettate successive di calcestruzzo in acqua, generalmente appoggiate al banco roccioso, scalpellato come a costituire un solido rinfianco. A Torre Valdaliga, Punta della Vipera e Saracca si osservano lunghi canali (aestuaria, rivi, fossae) intagliati nella roccia e completati da murature artificiali; essi avevano lo scopo di captare al largo acqua pulita, priva di particelle in sospensione e di convogliarla all’interno della peschiera per ottenere un costante ricambio idrico. La maggior parte degli impianti riconoscibili del litorale tirrenico si imposta su una piattaforma rocciosa affiorante artificialmente livellata per determinare la profondità dei vari settori. Le vasche dovevano accogliere le differenti specie ittiche come induce a ritenere Varrone, il quale con una
5. - Saracca. La peschiera vista dalla duna. 6. - Casa Banca. La peschiera vista da Nord.
7. - Casa Banca. Particolare della chiusa forata in situ. (Foto Roberto Di Re).
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Letizia Rustico
8. - Pian di Spille. L’impianto visto dalla spiaggia. (Foto Fabio Faccenna).
9. - Fiaschetta vitrea da Populonia con ostriaria (da Ostrow).
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efficace e realistica espressione paragona le ripartizioni interne alle tavolozze dei pittori per separare le cere di diverso colore (R.R., III, 17, 4). Lungo il percorso dei canali, nel punto di innesto tra questi ultimi e il bacino e in comunicazione tra le vasche si predisponeva un sistema di chiusura consistente in cataratte (clatri) infisse dall’alto e spesso dotate di fori per controllare il flusso dell’acqua in entrata ma impedire la fuga dei pesci. In alcuni casi si conservano elementi pieni in pietra, adagiati sul fondo dei canali, oppure lastre forate in travertino ancora in situ, mentre in altre peschiere rimangono solo le tracce per l’alloggiamento e lo scivolamento delle chiuse. Dalle acque antistanti la peschiera di Grottacce (Santa Marinella) proviene, infine, una saracinesca metallica forata conservata nei locali dell’Antiquarium di Santa Severa. Una citazione a parte merita l’impianto di Pian di Spille (Tarquinia) (fig. 8) a causa del suo atipico schema planimetrico costruito in un tratto di costa poco articolato e caratterizzato da fondale sabbioso. L’assenza di canali e di ripartizioni interne, l’esiguità delle murature perimetrali e le osservazioni sulla geomorfologia del sito hanno indotto a riconoscere nel caso di Pian di Spille un parco di allevamento di molluschi eduli, nato in un ambiente lagunare salmastro ricco di acque meteoriche e di ruscellamento, ora quasi completamente irriconoscibile ma in origine particolarmente adatto alla molluschicoltura. Preziose informazioni sull’articolazione strutturale dei parchi provengono da una serie di fiaschette vitree databili tra la fine del III e il IV secolo d.C. e raffiguranti il litorale tra Baia e Pozzuoli con alcuni monumenti visti dal mare e identificati con una didascalia (fig. 9). Su tre esemplari compaiono gli ostriaria costruiti in specchi d’acqua dove venivano infissi palificazioni affioranti a pelo d’acqua su cui si ancoravano elementi lignei e cordame destinati a loro volta a sorreggere un sistema di pergolati e cestelli dove attecchiva il novellame.
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Impianti marittimi per la piscicoltura in età romana
La ricostruzione di questa tecnica di allevamento, non dissimile da quella adottata ancora oggi, consente di gettare uno sguardo sulle origini dell’itticoltura in ambiente marittimo tirrenico che vide, come primo esperimento, la produzione su vasta scala di ostriche nel lago Lucrino a cura di C. Sergio Orata. Bibliografia AA.VV., La via Aurelia da Roma a Forum Aurelii in «Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma» IV, 1968, pp. 49, 54-55, 57-60, 141-143. S. Bastianelli, Centumcellae, Castrum Novum, Roma 1954. F. Castagnoli, Astura in «Studi Romani» XI, 1963, n. 6, pp. 637-644. L. Crema, L’architettura romana in «Enciclopedia Classica», sez. III, vol. XII, tomo I, Torino 1959, p. 239. J.H. D’Arms, Proprietari e ville nel golfo di Napoli in I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Roma 1977, pp. 347-363. R. Del Rosso, Pesche e peschiere antiche e moderne nell’Etruria marittima, Firenze 1905. G. Di Fraia, Baia sommersa. Nuove evidenze topografiche e monumentali in «Archeologia Subacquea. Studi, ricerche e documenti» I, 1993, pp. 21-48. L. Giacopini, B. Belelli Marchesini, L. Rustico, L’itticoltura nell’antichità, Roma 1994. P.A.Gianfrotta, Castrum Novum, Forma Italiae, Regio VII, Vol. VII, Roma 1972. P.A.Gianfrotta, Le peschiere scomparse di Nettuno in Atti del Convegno nazionale di archeologia subacquea (Anzio 3 maggio-1 giugno 1996), Bari 1997, pp. 21-24. P.A.Gianfrotta, Archeologia subacquea e testimonianze di pesca in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome» 111, 1, pp. 9-36. J.A. Higginbotham, Piscinae. Artificial fishponds in Roman Italy, Chapel Hill 1997.
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RICERCHE ARCHEOLOGICHE SUBACQUEE A PANTELLERIA di Sebastiano Tusa
Da poco meno di dieci anni Pantelleria è nuovamente oggetto di attenzione da parte di numerosi archeologi, appassionati e soprattutto delle istituzioni preposte alla ricerca, tutela e valorizzazione (Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Trapani, Gruppo d’Indagine Archeologica Subacquea Sicilia, Università degli Studi di Bologna, Archeoclub d’Italia ed altri). Ciò ha prodotto una gran massa di scoperte, dati e materiali, nonché l’acquisizione di conoscenze maggiori sulla storia dell’importante ruolo dell’isola che, com’è noto, ebbe quale tramite o frontiera tra Europa ed Africa. Ha anche prodotto l’allestimento (ancora provvisorio) nei locali del Castello di una mostra delle centinaia di anfore provenienti da recuperi, scoperte fortuite e sequestri per oltre cinquant’anni. È naturale che il mare abbia giocato un ruolo non indifferente nella sua millenaria antropizzazione, anche se l’isola dimostra anche un fortissimo carattere rurale che tende a farne un microcosmo caratterizzato da svariate forme adattive. La storia dell’isola non dimostra, per la verità, paradossalmente, una forte proiezione marinara. In tempi recenti, soltanto tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, Pantelleria ebbe una discreta flotta mercantile con la quale esportava i propri preziosi prodotti agricoli, tra cui principalmente zibibbo e moscato. Anche nel passato più remoto non si hanno prove di intraprendenza marinara dell’isola che, tuttavia, fu sempre obbligato scalo intermedio tra Europa ed Africa. Le tracce dei passaggi panteschi le abbiamo in molteplici relitti mediterranei tra cui ricordiamo le macine di trachite di Pantelleria nel relitto del Sec di Maiorca e la zavorra della nave punica di Marsala. Quasi certamente la mancanza di approdi sicuri e di spiagge ebbe un ruolo fondamentale nella scelta agro-pastorale di Pantelleria. Inoltre, come emerge attraverso le più recenti ricerche e scavi, Pantelleria, in uno dei periodi più importanti della sua storia – quello compreso tra l’epoca ellenistica, punica e romana – divenne quasi un sobborgo di Cartagine e comunque ad essa legata da vincoli politici, militari, ma anche commerciali e funzionali, vivendo quasi sempre nell’orbita della potente vicina. Del periodo arcaico, per non parlare della preistoria (particolarmente presente a Pantelleria), non abbiamo alcuna testimonianza sottomarina certa che documenti un rapporto commerciale di scambio attivo né con il Nord-Africa né con la Sicilia, né tanto meno con la penisola italica. Abbiamo, come vedremo, soltanto alcuni lingotti in rame, fortuitamente rinvenuti, che potrebbero attribuirsi vagamente al periodo protostorico. Le anfore puniche più antiche rinvenute in mare sono del tipo T-4.2.1.5. Ma è a partire dalla fine del III sec. a.C. – gli anni della terza guerra punica – quando l’isola viene conquistata da Roma (217 a.C.), che si ha la massima documentazione dei relitti. La distruzione di Cartagine non sembra però mettere in crisi il rapporto commerciale tra Pantelleria ed il Nord-Africa, in quanto sono documentati abbondantemente relitti con anfore cartaginesi fino alla seconda metà del II secolo a.C. La presenza massiccia di relitti di età ellenistica, che associano anfore puniche cartaginesi a quelle romane tirreniche, documenta la probabile esistenza a Pantelleria di un emporio e un centro di smistamento di merci. In particolare gli abbondanti rinvenimenti di anfore puniche © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Sebastiano Tusa
1. - Cala Gadir.
2-3. - Anfore dalla zona del relitto di Cala Gadir.
sottolineano lo stretto rapporto dell’isola con Cartagine e il legame culturale che continua anche dopo l’avvento del dominio romano. I relitti di queste navi con carico misto potrebbero riferirsi a delle imbarcazioni di dimensione medio-piccole che svolgevano traffici marittimi con rotte irregolari, facendo diverse soste negli emporia di varie località vendendo e comprando solo parte del carico. La chiave di lettura dell’isola dal punto di vista economico, in età ellenistica, porterebbe a definirla un luogo di smercio per navi provenienti principalmente dalle coste italiche tirreniche che esportavano vino e quelle africane che vendevano prodotti alimentari, come garum, pesce salato, carne salata e frutta secca. Tralasciando per un momento i relitti partiamo proprio dalla sua portualità, o meglio pseudo-portualità antica, per affrontare sommariamente quanto la ricerca archeologica subacquea ha prodotto recentemente. Tali ricerche hanno, infatti, avuto come oggetto principale le uniche tre aree portuali dell’isola, nonché una serie di luoghi di ancoraggio indiziati attraverso la localizzazione di ancore in pietra e piombo. I luoghi tradizionalmente dedicati all’ancoraggio e, quindi, anche all’approdo, sono stati sempre la piccola baia ove sorge l’attuale scalo principale e su cui si specchia il capoluogo dell’isola, sulla costa nordoccidentale, il sistema di approdi di Cala Gadir e Cala Levante, sulla costa orientale, e la baia di Scauri sull’opposta costa occidentale.
Gadir A più riprese l’area marina di Cala Gadir era stata visitata sin dagli anni ’50 soprattutto da subacquei animati più da interessi depredatori che scientifici (fig.1). Le prime segnalazioni pseudo-scientifiche risalgono
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Tipo greco-italico tardo tirrenica
Tipo T – 5.2.3.1.
Tipo T – 7.4.1.1. Tavola 1. - Anfore dal relitto di Cala Gadir (fine del III - inizi del II secolo a.C.).
Tipo T – 5.2.3.2
Tipo T – 7.4.2.1.
Tipo T – 7.3.1.1..
Tipo T – 7.4.3.1.
agli anni ‘60 con i primi recuperi e la notizia di diverse centinaia di anfore giacenti sui fondali. La zona fu anche oggetto di attenzione di rapide ricognizioni effettuate da Lamboglia nel ‘72 e ’73 che portarono al recupero di oltre 100 anfore. Tuttavia nulla di scientificamente apprezzabile si portò a termine in questo luogo che può essere senza timore di smentite definito una delle miniere di anfore tra le più tragicamente ricche del Mediterraneo. Purtroppo l’emorragia anforacea si è articolata attraverso i rivoli di un mercato incontrollato che ha portato centinaia di anfore nei salotti di mezza Italia. Tuttavia ai reperti recuperati da Lamboglia altri se ne sono aggiunti grazie all’intercettazione di carichi in fuga da parte delle forze dell’ordine con la magra consolazione che almeno una selezione tipologica risulta salva. In tempi recenti anche Gadir è stato oggetto delle nostre attenzioni operandovi ricognizioni, rilievi e limitati recuperi indotti da esclusivi motivi di tutela (fig.2). Infine è proprio a Gadir che abbiamo realizzato il primo vero e proprio itinerario archeologico subacqueo d’Italia collegando e valorizzando, mediante didascalie, i numerosi reperti (anfore, ancore e paramezzali) ancora giacenti sui fondali della baia (fig.3). Lo studio delle anfore recuperate ha permesso di identificare almeno due relitti. Il primo relitto (Cala Gadir I) è databile alla fine III / prima metà II secolo a.C. con un carico misto di anfore puniche di tipo T-5.2.3.1., T-5.2.3.2, T7.2.1.1., T-7.3.1.1., T-7.4.1.1., T-7.4.2.1., T-7.4.3.1., prodotte a Cartagine e nei centri punici adiacenti, e greco-italiche tarde tirreniche (tav.1). La maggior parte delle anfore greco italiche presenta all’interno delle abbondanti tracce di residuo di pece, tipico rivestimento delle anfore vinarie romane. Il secondo relitto,
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Tipo Dressel 1A
Tipo Dressel 1B
Tipo Lamboglia 2
Tipo T – 7.5.1.1.
Tipo T – 7.5.2.2.
Tipo T – 7.4.3.3.
Tipo Dressel 1C
Tipo T – 7.5.2.1.
Tipo T – 7.6.1.1.
Tavola 2. - Anfore dal relitto di Cala Gadir II (fine del II - inizi del I secolo a.C.).
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4. - Ceppi d’ancora in piombo recuperati dalla zona dei relitti di Cala Gadir. 5. - (a destra) Probabile paramezzale nella zona dei relitti di Cala Gadir.
Tavola 3. - Vomere in ferro rinvenuto nell’area dei relitti di Cala Gadir.
(Cala Gadir II) è databile tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. con anfore romane del tipo Dressel 1 (nelle tre varianti A,B,C) e Lamboglia 2, associate a quelle puniche del gruppo T7.0.0.0.(T-7.5.1.1., T-7.5.2.1., T7.5.2.2., T-7.4.3.3., T-7.6.1.1.) prodotte nell’area cartaginese (tav.2). Abbondanti tracce di pece si trovano nelle Dressel 1, A,B,C ed in alcuni tipi di anfore puniche. Le recenti ricognizioni nell’area hanno verificato la presenza ancora di numerosi reperti le cui caratteristiche tipologiche ben poco aggiungono a quanto già evidenziato dagli studi precedenti. In particolare sono stati individuate anfore di tipo greco–italico, punico e romano dei tipi già noti. È stata anche localizzata una grossa marra in piombo (fig.4) e una punta di vomere in ferro probabilmente pertinente la dotazione votiva di uno dei due relitti (tav.3). Sul fondale sabbioso sono anche stati identificati tre probabili paramezzali pertinenti i relitti in questione (fig.5). Nella stessa zona, al fine di verificare l’estensione del sito, si è effettuata un’ampia ricognizione con il veicolo filoguidato Pluto sui fondali che vanno dalla Cala Gadir verso Nord fino alla Punta ‘Armani’. Si sono ispezionati fondali che vanno tra m 50 ed i 120 di profondità per un'estensione totale di circa mq 40.000. Il fondale è caratterizzato da una scarpata che scende con lieve pendio fino a circa m 50 di profondità per poi precipitare fino ad oltre m 100. Si è constatata la presenza di anfore integre in vari punti fino alla profondità massima raggiunta. Le anfore individuate attraverso le immagini video comprendono le consuete tipologie definibili genericamente Maña C 1, Maña C 2, greco-italiche, Dressel 1 A 1, 1 A 2, 1 B, 1 C, 2, 4, 18. Ciò che di nuovo si può dire a proposito di Gadir è che, oltre ad essere sede di almeno due relitti, fu anche un luogo di ancoraggio. E si può anche aggiungere che la dinamica degli affondamenti
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Sebastiano Tusa
desunta dalla dispersione dei reperti ancora in situ indica che essi avvennero ad una discreta distanza dalla costa a giudicare dallo scivolamento verso l’alto fondale. 6. - Il porto di Scauri.
Scauri
7. - L’area del relitto di Scauri in corso di scavo.
8. - Frammento ligneo e ceramiche nell’area del relitto di Scauri.
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Nel 1997 una campagna di ricerche effettuate dal GIASS in collaborazione con la Stazione Navale della Guardia di Finanza di Palermo, su segnalazione di Piero Ferrandes, portò alla identificazione, nelle acque antistanti il porticciolo di Scauri, di una vasta concentrazione di materiale ceramico (fig.6). Si trattava principalmente di ceramiche da cucina (pentole, scodelle e coperchi), inquadrabili nella c.d. ‘pantellerian ware’, rinomata e diffusa produzione artigianale di epoca tardoromana imperiale (V sec.d.C.). Da allora si sono effettuate tre campagne di scavo (1999, 2000, 2001) finalizzate alla comprensione dell'esatta natura del contesto mediante scavo estensivo. Con lo scavo sono venuti in luce abbondanti ceramiche del tipo già noto, anche integre, nonché una ricca varietà di reperti di vario tipo e natura (fig.7). I reperti recuperati consistono nella quasi totalità in tre tipologie di oggetti: pentole cilindriche a fondo arrotondato e lati convessi con prese ad orecchia, scodelle tronco-coniche con base piatta ed orlo rivoltato e coperchi con presa a disco (tav.4). In misura molto minore figurano alcune anfore del tipo ‘late roman’ 2 ed africane grandi, alcuni frammenti di piatti in ceramica ‘sigillata africana D’ con decorazione stampigliata a palmette e segmenti paralleli ed
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Tavola 4. - Ceramiche di Pantelleria (Pantellerian ware) rinvenute nel relitto di Scauri.
alcuni frammenti di lucerne africane con decorazione a palmette (tav.5). Sono presenti anche numerose tessere di mosaico di varia natura, macine piatte con foro centrale in pietra bianca porosa estranea all'isola di Pantelleria, numerosi resti di fauna (soprattutto denti) pertinenti ad ovicaprini, alcuni frammenti di legno dello scafo e del sistema di ammortizzamento del carico (fig.8).
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a
b
Interessante un'epifisi di bovino fortemente levigata, attraversata da incisioni distali e decorata da tre fori simmetrici per lato. L'interpretazione dell'oggetto non è possibile con certezza anche per la mancanza di confronti. Tuttavia è probabile che si tratti di un elemento utilizzato per effettuare un gioco (del tipo di quello che si fa con i dadi) o di un amuleto. In entrambe i casi si tratta di un elemento che ben si accorda con il contesto navale dal quale proviene trattandosi di oggetto facente parte del corredo personale da marinaio, funzionale ad ingannare le lunghe ed estenuanti ore e giornate di navigazione. Sono presenti anche numerosissimi frammenti di vasi, bottiglie e bicchieri in vetro. Tra i reperti particolari da segnalare un anellino d’argento con castone di corniola decorato da freccia incisa (fig.9) ed un vago di collana in vetro verde. Ad un esame preliminare i dati raccolti ci inducono a ritenere ormai certa l'attribuzione del contesto sondato ad un relitto di imbarcazione affondata intorno alla fine del V secolo d.C.. Verosimilmente si trattava di una grossa imbarcazione (a giudicare dal
c Tavola 5a-c. - Cermiche del tipo sigillata africana e lucerne del relitto Scauri.
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9. - Anello argenteo con castone di corniola inciso rinvenuto nell’area del relitto di Scauri.
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Ricerche archeologiche subacquee a Pantelleria
vasto areale di dispersione dei materiali, esteso per oltre m 50 parallelamente ed esternamente al molo di ponente del porto di Scauri) (fig.10). Tale imbarcazione doveva aver caricato, o stava caricando, le ceramiche da cucina sopra descritte probabilmente prodotte nelle contigue installazioni artigianali. Per cause oggi imprecisabili l'imbarcazione dovette incendiarsi e, per tale motivo, affondare. Che la causa del disastro sia stato un incendio risulta altamente probabile poiché le ceramiche sono state spesso trovate a gruppi, inserite in sedimento cinereo e, talvolta anche con presenza di tracce di paglia bruciata e sostanza bitumosa. Inoltre le tracce di annerimento sono estesamente presenti sui reperti recuperati. Non possiamo ancora con precisione stabilire la rotta di questa imbarcazione anche se la presenza di frammenti di piatti di ‘sigillata africana’ potrebbe indicare un porto di partenza africano, uno scalo a Pantelleria per caricare una consistente partita di ‘pantellerian ware’, ed un probabile proseguimento verso la Sicilia. Ipotesi probabile e logica quanto ancora non accertabile per la preliminarietà dell'indagine. I legni recuperati, pertinenti probabilmente al fasciame o ad altre parti del relitto, sono stati identificati come pertinenti a Pinus pinaster. Questo relitto contribuisce non poco a chiarire la problematica connessa con la peculiare produzione della ‘pantellerian ware’ che fu identificata anni or sono da Peacock e che, più recentemente, Sara Santoro, oltre ad avere impostato un vasto progetto di ricerca basato principalmente su analisi degli impasti, ne ha analizzato i possibili centri di produzione e immagazzinamento proprio sulla costa antistante la baia di Scauri dove sono state identificate una struttura residenziale del tipo ‘villa’ di epoca romana, funzionante fino al IV sec. d.C., edifici artigianali di epoca successiva ed una vasta necropoli rupestre di epoca post-imperiale. La ‘pantellerian ware’ è un vasellame ‘da cucina’ grossolano e poco differenziato tipologicamente (pentole, coperchi, teglie, tegami) che venne identificata a Cartagine in strati di V sec. d.C. e, successivamente, in molti altri insediamenti costieri del Mediterraneo centrale (Sabratha, Leptis, Djerba, Tharros, Luni, Cosa, Ostia). Il quadro si è notevolmente arricchito sia geograficamente che cronologicamente in seguito a recenti indagini condotte su siti siciliani (Agrigento, Segesta e Termini Imerese) che hanno dimostrato la sua presenza già in epoca ellenistica. È, comunque, segnalata anche in Sardegna (Tharros, Turris Libisonis), e ad Albintimilium (IV e V sec.d.C.). La sua produzione maggiore abbraccia, tuttavia, un ambito cronologico che oscilla tra l’età augua
10. - L’area del relitto di Scauri in corso di scavo.
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stea e l’epoca bizantina. Peacock e Fulford riconobbero l’impronta pantesca grazie alle analisi mineralogiche. La presenza di feldispati anortoclastici, augite di egirina, ossidiana verde e lava li indussero a collegare questa ceramica con Pantelleria dove il vulcanesimo presente si manifesta proprio con caratteristiche chimico-fisiche analoghe. Le analisi archeometriche condotte dall’Istituto di Mineralogia dell’Università di Palermo su tale tipo di ceramica rinvenuta in Sicilia hanno, però, mostrato una composizione mineralogico-petrografica compatibile con numerose altre provenienze siciliane. La diffusione di questa ceramica nel Mediterraneo centrale fu interpretata da Peacock come effetto della continua frequentazione di Pantelleria quale scalo intermedio nelle rotte dalla Sicilia a Cartagine, di cui potrebbe averne costituito una sorta di hinterland per la notevole vicinanza. Secondo Peacock l’insularità favorirebbe lo sviluppo di un’industria di tipo domestico-familiare che avrebbe prodotto tale ceramica come merce di scambio con derrate alimentari indispensabili e non prodotte sull’isola. La relativa ‘fortuna’ di questa ceramica dipenderebbe, secondo taluni, dalle caratteristiche meccaniche del prodotto che lo renderebbero resistente agli shock termici e perciò preferibile ai prodotti locali a parità di costo. Aggiungerei a tale ipotesi anche una probabile maggiore economicità del prodotto pantesco dovuta a minori costi produttivi e maggiore disponibilità di componenti naturali. L’ipotesi che tali grandi contenitori di ceramica pantesca siano stati utilizzati per preparare la pece vegetale adoperata per calafatare le barche, proponibile anche per taluni contenitori rinvenuti nel relitto di Scauri con pece al loro interno, viene corroborata dal rinvenimento effettuato nel corso della discussa spedizione di Ballard presso il Banco Skerki, riferito dalla McCann, di una pentola di ‘pantellerian ware’ contenente pece, nello stesso relitto da cui proviene una moneta di Costanzo II (354 d.C.). Le analisi condotte sulla pece hanno identificato una miscela di resine di pino ed erbe cotta ad alta temperatura (fino a 300°), per la cui preparazione era dunque necessario un contenitore da fuoco di particolare resistenza. Le indagini collegate effettuate a Pantelleria hanno permesso di individuare le antiche cave di argilla nella valle di Nikà ed in località Rakale, sul versante occidentale dell’isola non lontano da Scauri, dove questa coesiste con la sabbia lavica e l’acqua dolce raccolta per sublimazione fumarolica e canalizzata in cisterne. È interessante notare che questi sistemi di vasche e canali si trovano soprattutto nelle aree di Monastero, Serraglia e Ghirlanda dove si registrano i segni del popolamento, anche centuriato, in forma di fattorie di epoca punicoellenistica, romana e bizantina, controllate da insediamenti fortificati. Il popolamento espanso nella pianura di Ghirlanda, che taglia l’isola da Est ad Ovest, permetteva l’agevole utilizzazione complementare dei due scali naturali di Scauri a Ovest e Gadir ad Est, utilizzabili a seconda delle condizioni meteomarine. Proprio sul lato orientale della baia di Scauri la ricognizione ha permesso l’individuazione di vasti areali di frammenti ceramici di varie epoche e produzioni (dalla vernice nera alla sigillata aretina, alla sigillata chiara africana ed alla ‘pantellerian ware’, con prevalenza di queste ultime due classi, nonché di 134
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Ricerche archeologiche subacquee a Pantelleria
11. - Resti visibili in superficie delle strutture di epoca romana nell’area di Scauri.
frammenti anforacei). Sono state anche localizzate strutture edilizie allineate, con pareti intagliate nella roccia, interpretate come magazzini o edifici artigianali di lunga durata (dall’epoca punico-ellenistica a quella tardo-antica di IV-VI sec.d.C.) da porre in relazione funzionale con un approdo a scalea intagliato nella roccia, che trovano singolare confronto con i magazzini realizzati da Agrippa a Ventotene. Si è anche identificata una fornace in uso tra il IV ed il V secolo d.C. C’è da segnalare, infine, che nei pressi della fonte termale ancora oggi attiva (in posizione ancora più prossimale rispetto all’approdo) è stata indiziata la presenza di una struttura a peristilio da interpretare come villa marittima databile tra il IV ed il V secolo d.C. (piatti di ceramica africana D, forme Hayes 67 e 76) con annesse grandi cisterne da dove provengono elementi architettonici decorativi di pregio, in terracotta, e frammenti di mosaico (fig.11). È probabile che tale struttura residenziale ed anche le altre precedentemente descritte vivano una trasformazione in senso produttivo intorno al V sec d.C. proprio nel periodo di maggiore successo internazionale della ‘pantellerian ware’. Estendendo la ricognizione nei fondali della baia di Scauri si sono evidenziati reperti ceramici pertinenti varie epoche (dall’epoca punico-ellenisticoromana a quella bizantina e medievale) a testimonianza della sua prolungata funzione di approdo.
Porto di Pantelleria Nell’ambito dell’infinita storia del porto di Pantelleria, opera incompiuta da numerosi decenni e tanto attesa ed utile per gli abitanti dell’isola, vi è anche un capitolo archeologico che si aprì e si richiuse nella tarda estate del 1994 e che vide protagonista Fabio Faccenna. Nel corso dei lavori di sistemazione dell’area portuale pervenne la richiesta progettuale di rimuovere i resti di una scogliera rettilinea che erroneamente negli ultimi decenni era stata definita ‘molo cartaginese’. Tale scogliera partiva dalla costa interna al porto attuale, sul lato di ponente, e puntava verso un affioramento roccioso anch’esso interno al porto, detto Scoglio Tre Colonne. Risultava ovvio che tali affioramenti costituissero, ed ancora costituiscono, fonte di pericolo e grave impedimento alla navigazione all’interno del porto. Ma era altrettanto ovvio che l’indubbio potere evocativo del nome, quand’an© 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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Tavola 6. - Geografia dell’area del porto di Pantelleria nella cartografia di W.H.Smyth (1814-1816).
Tavola 7. - Geografia dell’area del porto di Pantelleria nella tavoletta dell’I.G.M. del 1877-78
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che usurpato, inducesse cautela e rendesse necessario un intervento di scavo presso questa scogliera onde chiarirne l’esatta identità. L’intervento fu condotto tra il 7 ed il 20 settembre 1994 da Fabio su nostra richiesta nell’ambito del progetto ‘Porti e approdi nell’antichità’ diretto da Francisca Pallarés. Furono scavate tre trincee delle quali due presso il c.d. molo cartaginese ed una terza nell’area più interna del porto. Dai due primi saggi risultò chiaro stratigraficamente che la scogliera fu realizzata in due momenti diversi dei quali quello superficiale certamente posteriore alla costruzione del molo di ponente avvenuta nel 1929. Pochi massi, a diretto contatto con il fondo roccioso potevano stratigraficamente dimostrare l’esistenza di una qualche struttura preesistente al molo Nasi costruito nel 1929. Gli scavi evidenziarono, quindi, con chiarezza che questo allineamento di scogli non poteva essere interpretato come struttura portuale antica risalente all’occupazione cartaginese di Pantelleria. Questi dati ci indussero ad effettuare un riscontro cartografico con due indicative carte della zona. La più antica risale al 1839 ed è opera del Reale Ufficio Topografico di Napoli, ma si basa sul rilievo dei porti e delle coste siciliane effettuato tra il 1814 ed il 1816 dal Capitano W.H.Smyth per conto della Regia Marina Britannica (tav.6). La più recente è la tavoletta I.G.M. nella versione del 1877 / 78 (tav.7). In entrambe le carte si nota effettivamente un singolare allineamento di scogli che si attesta sulla costa e punta in direzione nord-est. Fu questo allineamento che, nella carta angloborbonica, evidenzia la netta traccia di una struttura portuale in una baia priva di alcuna struttura in uso, ed in quella del 1877/78 si colloca, invece, a ponente di un esile molo parallelo, ad avere generato, a
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12. - (a sinistra) Ancora litica nell’area di ancoraggio di Punta Limarsi 13. - (a destra) Lastra litica usata per trebbiare e probabilmente riutilizzata come ancora nell’area di ancoraggio di Punta Limarsi
nostro avviso una certa confusione assimilando questa struttura cartografata certamente antica e da riferire almeno al periodo pre-medievale poiché non vi è traccia alcuna nelle fonti storiche di caricatore o quant’altro nell’isola di Pantelleria, con la scogliera presso la quale effettuammo i saggi. Sorse naturale l’interrogativo su dove fosse quella struttura certamente antica così ben definita cartograficamente. Sulla base di riscontri metrici effettuati sui luoghi risultò altamente probabile che quella struttura fosse stata inglobata nel rifacimento portuale che portò nel 1929 alla costruzione del molo Nasi. La nostra scogliera si rivelava quello che alcuni da tempo asserivano, cioè il residuo di una rampa realizzata dopo il pauroso bombardamento di Pantelleria nel corso della seconda guerra mondiale per evacuare le macerie del paese. Tuttavia dai due saggi e, soprattutto, dal terzo venivano abbondanti ceramiche (circa 3000 frammenti) databili tra il III secolo a.C. e l’epoca attuale, con picchi di presenze da collegare all’età alto imperiale (sigillata italica, gallica, anfore spagnole Dressel 2/4 e 20) e tardo-romana e bizantina (sigillata africana e anforette scanalate orientali). Tale dato, collegato con quanto emerso attraverso l’osservazione dei lavori di rifacimento delle banchine portuali, nel cui materiale di risulta abbondavano ceramiche delle medesime epoche, provava la frequentazione dell’area portuale con varia intensità a partire dall’epoca tardo ellenistica (anche se un frammento attribuibile all’età del bronzo ci fece intravedere interessanti proiezioni più antiche della funzione portuale di quest’area di Pantelleria). Zone di ancoraggio Grazie ad un programma sistematico di ricognizioni effettuato in collaborazione con Maria Ghelia è stato possibile identificare due zone di ancoraggio intensivo rispettivamente presso Punta Tre Pietre, sulla costa occidentale, e Punta Limarsi, sulla costa meridionale. A Punta Tre Pietre si localizzarono due ancore litiche trapezoidale e rettangolare a tre fori nei pressi di frammenti di anfore greco-italiche. A Punta Limarsi sono state identificate numerose ancore litiche (rettangolare a tre fori, rettangolare con due scanalature passanti, ovale con grande foro eccentrico, a contorno triangolare con foro centrale, trapezoidale con foro eccentrico) e frammenti di anfore del tipo Keay 25 e Dressel 2/4 e 1. Nella stessa zona si sono localizzati un lingotto ed una marra in piombo (fig.12). Interessante anche a Punta Limarsi la localizzazione di un blocco parallelepipedo forato con la superficie attraversato da fitte scanalature parallele interpretabile come strumento per trebbiare e diversi frammenti di fistole in piombo relativi probabilmente ad un relitto non meglio identificabile al momento (fig.13).
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Arco dell’Elefante Infine segnaliamo un rinvenimento del tutto eccezionale poiché estremamente raro ed unico per quanto attiene alla Sicilia. Si tratta di cinque lingotti in rame inquadrabili nel tipo cosiddetto ‘a panella’ dal contorno irregolarmente circolare, talvolta molto articolato tendente al triangolare, di considerevoli dimensioni, dal peso oscillante tra kg 6,5 e 20 e dal diametro compreso tra i 20 ed i 25 centimetri (fig.14). Presentano una sezione lenticolare con una faccia irregolarmente liscia e convessa e l’altra fortemente articolata con vistosi inclusi ghiaiosi. Il più piccolo presenta sulla faccia liscia alcuni evidenti marchi in forma di impressioni non molto profonde a punzone quadrangolare (tav.8). Trattandosi di materiali consegnati non sappiamo alcunché sulla giacitura originale che viene riportata in sabbia tra scogli, non lontano dal ben noto Arco dell’Elefante sulla costa orientale dell’isola, poco a Sud di Gadir. Nella zona effettuammo ripetute ricognizioni senza alcun esito al di là dell’identificazione di un’ancora in ferro del tipo ammiragliato di epoca post-medievale. Pur essendo la forma tipologicamente inquadrabile nell’ambito della produzione di lingotti dell’età protostorica (si veda il ripostiglio del Mendolito di Adrano più contiguo geograficamente e tipologicamente), gli esemplari di Pantelleria ne differiscono per le dimensioni ed il peso. I valori espressi dagli esemplari panteschi sono, infatti, pressoché doppi rispetto a quelli noti da vari siti protostorici. Tuttavia la loro attribuzione al medesimo periodo appare probabile.
Bibliografia
Tavola 8. - Lingotti in rame provenienti dalle acque di Cala Levante - Arco dell’Elefante.
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Ricerche archeologiche subacquee a Pantelleria
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14. - Lingotti in rame provenienti dalle acque di Cala Levante - Arco dell’Elefante.
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