I Longobardi nelle Marche. Problemi di storia dell'insediamento e delle istituzioni (secoli VI-VIII) 1. Il problema delle fonti Le fonti sulla presenza dei Longobardi entro un quadro geografico marchigiano, relative al periodo della loro dominazione in Italia, sono estremamente scarse. L'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che rimane la principale fonte narrativa sulla storia del regno longobardo da Alboino a Liutprando, prende in considerazione la Flaminia, il Piceno e le province circostanti solo per ricordare eventi di importanza militare, qualificando così quest'area come zona di attrito tra Longobardi e Romani (termine, quest'ultimo, col quale si indicavano allora i sudditi dell'Impero d'Oriente). Dal punto di vista istituzionale lo storico dei Longobardi, meglio al corrente delle vicende concernenti il ducato friulano, la corte di Pavia e il ducato di Benevento, si interessa del ducato di Spoleto, che includeva buona parte delle attuali Marche, unicamente per registrare alcuni avvicendamenti nella carica ducale. Si diffondono di più sulle prime fasi dell'invasione longobarda nell'Italia centrale le fonti romane utilizzate dallo stesso Paolo, vale a dire, per citare le più importanti, le epistole e i Dialogi di Gregorio Magno e le biografie dei pontefici raccolte nel Liber pontificalis. Gregorio I fu testimone a distanza dei momenti più drammatici dell'occupazione longobarda della penisola, nonché l'iniziatore dell'opera di conversione di quel popolo al cattolicesimo e fautore della pace tra Longobardi e Romani. Il suo punto di osservazione rimane però Roma, mentre i suoi interlocutori sono rappresentati in primo luogo da esponenti delle chiese locali, quindi da magistrati cittadini, funzionari e comandanti militari dell'esarcato d'Italia: individui orientati secondo una visuale romana e antibarbarica, sconcertati perciò di fronte alle profonde tràsformazioni in atto nei territori occupati dal nemico. Anche il Liber pontificalis espone i principali eventi politici, diplomatici e militari - che toccarono marginalmente, alla fine del secolo VI e quindi nell'VIII, I'area pentapolitana - con decisa pregiudiziale antilongobarda, rivelando altresì una crescente ostilità nei confronti della stessa corte di Costantinopoli. Le fonti geografiche greche e latine si dimostrano le più insicure in tema di geografia politica marchigiana, o perché poco o per nulla aggiornate rispetto ai testi dai quali dipendono oppure perché malamente interpolate con dati di dubbia valenza amministrativa e di difficile datazione. A loro volta le fonti documentarie non sono in grado, a causa della loro assoluta penuria, di colmare i vuoti delle altre fonti scritte. Anche nel campo della produzione documentaria l'invasione longobarda determinò nei territori conquistati una rottura significativa rispetto alla preesistente tradizione giuridica e scrittoria, mentre nella Romània sembra che non si registri soluzione di continuità nella redazione dei documenti e, più in generale, nella pratica scrittoria: al punto che lo iato nella produzione documentaria nella Langobardia dalla seconda metà del VI fino al pieno secolo VIII - pur con l'eccezione di alcune aree circoscritte in cui i documenti ricompaiono già verso la metà del VII appare come uno dei caratteri distintivi di quest'area rispetto ai territori bizantini. Il cospicuo fondo arcivescovile ravennate, da cui provengono i papiri documentari magistralmente pubblicati dal Tjader, le pergamene e il Breviarium (meglio noto come "Codice Bavaro"), sta a confermare tale assunto. Ovviamente a beneficiare di tali fonti è quasi unicamente lo studio del settore pentapolitano, ivi comprendendo anche Rimini, Gubbio e Perugia. Un quadro ben diverso presenta l'Italia longobarda, nella quale l'eccezione è rappresentata da Lucca, dal cui archivio arcivescovile sono stati tratti ben 156 dei 266 documenti editi nei primi due volumi del Codice diplomatico longobardo dallo Schiaparelli per il periodo che va dal 685 al 774. Non è il caso di affrontare in questa sede l'analisi delle cause, legate ad ogni modo alla persistenza dell'urbanesimo antico, che determinarono così diversi atteggiamenti culturali tra Romània e Langobardia. Converrà piuttosto far rilevare come il territorio marchigiano sia probabilmente rimasto per lungo tempo estraneo alla rinascita della cultura scritta verificatasi precocemente nella Tuscia Langobardorum. Gli scarsi documenti, riguardanti in qualche modo territori marchigiani toccati dall'insediamento longobardo, sono infatti costituiti da due diplomi regi di Desiderio e Adelchi, redatti rispettivamente a Pavia e a
Brescia; inoltre da pochi altri documenti farfensi già editi più di un secolo fa da Giorgi e Balzani ne Il Regesto di Farfa, alcuni dei quali ripubblicati da H. Zielinski nei successivi volumi del Codice diplomatico longobardo. Per completare il quadro delle fonti scritte del periodo si aggiungerà che anche l'apporto delle epigrafi marchigiane è piuttosto modesto. Il campo delle fonti non scritte si presenta più ricco, ma non per questo rneno problematico. Premesso che il lavoro storiografico debba necessariamente prevedere l'esercizio combinatorio di fonti di vario genere, ivi compresi i relitti linguistici (in particolare i toponimi, ma anche le dedicazioni delle chiese) e i resti manufatti, va ribadito che l'utilizzo di queste testimonianze si presenta irto di insidie. Alcuni studiosi marchigiani hanno battuto la strada della toponomastica, ma i dati tratti da una ricerca di questo tipo si rivelano insicuri se non sorretti da un più variegato contesto di fonti. Diverse voci germaniche si sono fissate sul territorio lungo un arco di tempo assai ampio, a volte dopo la fine del regno longobardo. Esse perciò non presuppongono di necessità un insediamento longobardo risalente alle prime fasi della conquista o ad una qualche fase databile sulla sola base linguistica. L'unico settore della ricerca longobardistica da cui si attendono ancora risultati e sorprese è quello dell'archeologia 1. Bisogna però notare con rammarico che, dalla scoperta della necropoli di Castel Trosino nel 1893 ad oggi, non si è fatto molto nelle Marche per sviluppare la ricerca sul campo. D'altronde le prospettive future sembrano in gran parte compromesse dagli effetti devastanti di un uso distorto del territorio urbano e rurale (espansione edilizia, lavori agricoli in profondità), un processo che negli ultimi decenni è proceduto in questa regione con ritmi impressionanti. 2. L’assetto amministrativo della regione alla vigilia dell'inuasione longobarda Va premesso che l'attuale regione delle Marche costituisce in questa sede un mero quadro di riferimento geografico, non corrispondendo ad alcuna ripartizione amministrativa dell'Impero romano. Questo settore dè`1 versante adriatico, pur rivelando notevole uniformità dal punto di vista fisico, ha conosciuto sin da fasi protostoriche un netto confine etno-linguistico tra area gallica e area picena, confine che correva all'incirca all'altezza di Ancona e che fu fissato dalle autorità romane sul fiume Esino. A nord di tale fiume l'imperatore Augusto pose la regio V7 (Umbria et ager Gallicus) 2, mentre a sud si estendeva la regio V (Picenum) 3. Con la riforma amministrativa di Diocleziano le due regioni furono unite nell'unica provincia della Flaminia et Picenum 4, nella quale, però, ognuna delle due parti conservava il proprio coronimo. Ma al più tardi all'inizio del secolo V avvenne lo smembramento della regione in Flaminia et Picenum annonarium includente anche Ravenna, e Picenum suburbicarium, il quale si estendeva fino ad Adria e Penne, con confine di nuovo all'Esino 5. Tale divisione, oltre a riflettere l'antico confine etno-linguistico, ricalcava anche i confini di una frattura economica e sociale fra Italia settentrionale, gravitante attorno a Milano e Ravenna e caratterizzata dall'assetto annonario in virtù della sua importanza militare ed economica, e Italia centro-meridionale, gravitante su Roma e che aveva mostrato più precocemente i segni di un declino economico e demografico 6, quantunque alcuni indizi rivelino che la produzione agraria e silvo-pastorale del Piceno riuscisse a conservare in quest'ambito una sua autosufficienza 7. Ma questa situazione di relativa floridezza mutò radicalmente durante la guerra goto-bizantina quando scontri, assedi e devastazioni investirono in maniera particolarmente intensa il settore adriatico da Rimini ad Ascoli, producendo «il collasso economico di una regione agricola» 8. 3. I primi momeni dell'occupazione militare Questa rapida puntualizzazione delle differenziazioni esistenti tra Nord e Sud dell'area marchigiana, rilevabili per il periodo che precede immediatamente la data del 568-69, torna utile quando si affronta il tema specifico dell'insediamento longobardo nelle Marche. I dati delle fonti narrative utilizzabili per ricostruire le fasi e le modalità dell'ingresso dei Longobardi nelle province Flaminia
et Picenum annonarium e Picenum suburbicarium sono assai lacunosi e si prestano ad interpretazioni divergenti. Tuttavia gli eventi ai quali essi si riferiscono sono concentrati in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, gli ultimi tre decenni del secolo VI; per cui è pensabile che gruppi germanicu siano effettivamente penetrati in alcune vallate marchigiane in questo periodo. D'altronde anche i materiali della necropoli di Castel Trosino sembrano confermare tale cronologia 9. L'unico evento sul quale l'Historia Langobardorum si diffonde è la vittoria sui Bizantini conseguita a Camerino da Ariulfo, secondo duca di Spoleto, attorno al 591 10. Ma ciò che colpisce l'autore non è tanto il fatto militare in sé, quanto le sue implicazioni di carattere religioso: la prodigiosa apparizione del martire Sabino accanto al ducaspoletino durante lo scontro e il riconoscimento del celeste protettore da parte di Ariulfo nella basilica a questo dedicata in Spoleto 11. Perciò Paolo Diacono potrebbe aver ignorato o passato sotto silenzio altri eventi militari accaduti negli anni precedenti o seguenti la battaglia di Camerino. Il nome del condottiero e il luogo dello scontro, come anche l'attacco alla fortezza di Petra Pertusa al passo del Furlo riferito da Andrea Agnello ai primi anni del pontificato di Pietro seniore vescovo di Ravenna (c. 570-578) 12, fanno ritenere che i Longobardi provenissero dalla zona appenninica. D'altronde il ducato di Spoleto rappresentava nel 591 una forza reale, seppure dai contorni istituzionali ancora in via di definizione. Significativo è il fatto che proprio in quegli anni Gregorio Magno attesti l'interruzione della Flaminia, la via fondamentale per i collegamenti tra Roma e la costa adriatica, pro interpositione hostinm 13. Oal suo epistolario si apprende che i Longobardi avevano catturato alcuni cittadini di Fano, città adriatica posta su un punto nodale del medesimo percorso 14. Si suppone che nello stesso torno di anni sia stata occupata Osimo, di cui lo stesso pontefice ricorda la restituzione all'Impero per effetto della tregua del 598 15. È presumibile che anche Fano sia stata abbandonata dagli occupanti negli anni precedenti la stipulazione della tregua o per effetto di essa. Sulla base del testo di Paolo Diacono non è possibile, per i motivi detti poc'anzi, appurare se i Longobardi spoletini si siano aperta la strada verso il versante adriatico proprio grazie al successo di Camerino. Alcuni dati farebbero pensare che un episodio analogo a quello fanese (cattura di uomini e loro liberazione a seguito di pagamento di riscatto) si fosse già verificato a Fermo attorno al 580 16 e, d'altro canto, non si può escludere una direttrice di penetrazione più meridionale, per esempio lungo la via Salaria verso Ascoli e Castel Trosino. Ammettendo tuttavia che le schiere longobarde fossero nel 591 padrone della zona di Camerino, collegata al tratto umbro della Flaminia attraverso il passo di Colfiorito-Plestia, è lecito ipotizzare che di lì riuscissero a penetrare nell'alta valle dell'Esino 17 - un territorio che farà poi parte del gastaldato di Castel Petroso - e che quindi, attraverso la zona di Sentinum (presso l'odierna Sassoferrato), entrassero nell'alta valle del Cesano. Ed è probabile che l'incursione verso Fano sia stata attuata discendendo lungo quest'ultima vallata, e non lungo il Metauro dove, grazie alla presenza di gole e della strettoia fortificata del Furlo, era possibile bloccare la Flaminia in caso di avanzata nemica, come dimostrano alcuni episodi della guerra goto-bizantina 18. Altre possibili direttrici di penetrazione da Camerino sono le vallate fluviali del Potenza, che i Longobardi potrebbero aver scorso per giungere fino a Osimo e lungo la quale è attestato un altro gastaldato, quello di Settempeda 19, e del Chienti. 4. La Pentapoli In tali frangenti ciò che in queste regioni rimaneva dell'antico ordinamento provinciale fu definitivamente spazzato via. Cominciavano ad emergere due nuove realtà politico-istituzionali, la Pentapoli e il ducato di Spoleto, nel quadro della divisione della penisola italica in due grandi aree: quella occupata dai Longobardi (Langobardia) e l'altra rimasta sotto il dominio dell'Impero (Romaria). Nei territori romanici si avviò un riassetto amministrativo che, rispondendo alle necessità di una efficiente difesa militare, mirava all'accentramento delle funzioni civili e militari nelle stesse mani, mediante la subordinazione dei funzionari civili ai comandanti militari 20, Si trattava, nondimeno,
di una riforma svolgentesi nell'alveo della tradizione tardo-romana, quindi in sostanziale continuità con l'organizzazione economico-fondiaria e con l'intera vita sociale delle popolazioni, che continuavano a far perno sulle città 21, Già negli anni 80 del secolo VI appare costituito l'esarcato d'Italia 22, da cui dipendeva tutta l'Italia bizantina, fatta eccezione per le isole maggiori. Della provincia della Pentapoli, invece, si ha notizia soltanto dal 649 23, ma la sua istituzione dovrebbe essere coeva o di pochi anni posteriore a quella dell'esarcato 24, Compilare un elenco di città e centri minori facenti parte della Pentapoli, per cercare di intuirne l'estensione spaziale, è compito assai arduo 25, poiché una fonte geografica, come Giorgio di Cipro 26, Si riferisce a momenti non determinabili con sicurezza, ponendo altresì seri problemi di identificazione dei toponimi; mentre altre, come il Geografo Ravennate, sembrano rifarsi ad assetti anteriori al 568 quando intercalano città pentapolitane a municipi, a volte scomparsi, della Langobardia 27 Non meno ingannevole è l'elenco di città e castelli restituiti da re Astolfo a seguito del nuovo foedus di Pavia del 756, di cui l'abate Fulrado, incaricato da Pipino, prese possesso per consegnarli al beato Pietro e al suo vicario 28. Sembra tuttavia assodato che Rimini occupasse una posizione preminente all'interno della provincia, data la presenza in questa città di un dux, attestato nel 591 e poi ancora nel secolo VIII 29. Altre città lungo la costa adriatica, il cui governo sarebbe stato di norma affidato a un tribunus 30, dovettero essere Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona e Numana. In effetti dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del sinodo romano del 680 risultano quali città pentapolitane Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e Osimo, mentre ne è esclusa Jesi, il cui vescovo sottoscrive immediatamente dopo il presule di Spoleto e prima di quello di Camerino 31: ciò non apparirà strano, qualora si ponga mente al fatto che i Longobardi si erano incuneati nella valle dell'Esino già alla fine del VI secolo. Espressioni del tipo civitates urarumque Pentapoleos o Decapolis, rare nelle fonti dell'VIII secolo 32, le quali più sovente attestano la dizione unitaria di Pentapolis, non vanno intese come un riferimento alla divisione o sdoppiamento della provincia: esse rappresentano, sul piano letterario, il tentativo di approssimarsi alla consistenza poleografica della stessa. Le città della provincia pentapolense o ducatus Pentapolitanus non furono perciò cinque, e probabilmente nemmeno dieci, in quanto tali cifre sono state dedotte da termini puramente convenzionali esemplati dalla geografia del mondo antico 33. Pertanto la tesi circa l'esistenza di due distinte Pentapoli, l'una marittima e l'altra interna o annonaria, non risulta a mio avviso suffragata dalle fonti di età longobarda 34. Ci si dovrà chiedere, semmai, per quale ragione questo raggruppamento di città, le quali insistono all'incirca sul territorio della tardo-romana provincia della Flaminia, non abbia conservato quest'ultimo coronimo, come avrebbe imposto quel rispetto programmatico del mondo antico caratteristico della cultura medievale 35. L'unica spiegazione plausibile del cambiamento di denominazione è che la Flaminia avesse perso, per effetto dell'occupazione di alcune aree e della minaccia di ricorrenti incursioni da parte dei Longobardi, la sua originaria estensione e quindi la sua continuità territoriale. Occorreva pertanto un nome nuovo per indicare una realtà amministrativa assolutamente inedita: un sistema di città spesso private di un proprio territorio e funzionanti, quelle marittime, come teste di ponte per le comunicazioni da e per il mare; quelle interne, come fortezze lungo i percorsi stradali che collegavano la capitale esarcale Ravenna a Roma 36. Si può ben comprendere, allora, come sia parimenti arduo o forse impossibile, date l'incerta appartenenza di città e castelli e la fluidità della situazione nel corso di due secoli, tracciare precisi confini del ducato pentapolitano in un dato momento. Nel tentare l'impresa, il DieLl attribuì eccessivo territorio a «le Città» 37 (questo il significato storico-geografico di Pentapolis), mentre di recente il Baldetti, pur intuendo la vera natura della provincia, ha probabilmente ecceduto in senso contrario, oltre che nella ricostruzione particolareggiata 38. 5. I caratteri dell'insediamento longobardo La sottolineatura urbana del termine Pentapoli suggerisce un raffronto con i mutamenti intervenuti nel Piceno occupato dai Longobardi e con i caratteri dell'insediamento attuato da questo popolo. A
tutta prima appare in evidenza il fenomeno della scomparsa, o decadenza, dei centri urbani nelle Marche longobarde, mentre nella parte settentrionale della regione si registra la persistenza del fenomeno urbano. Fermo restando che tale persistenza costituisca uno dei principali tratti distintivi dell'intera area esarcale rispetto alla Langobardia 39, occorre meglio precisare i termini del confronto per non trarne deduzioni fuorvianti. Vi è da tener presente, innanzitutto, che il declino demografico e la crisi dell'urbanesimo sono fenomeni che hanno, nell'Italia antica, origini e cause assai lontane 40; inoltre che gli stessi fenomeni si manifestarono in modo più accentuato nelle regioni suburbicarie della penisola 41. I1 Piceno suburbicario è stato visto in questo senso come una regione a vocazione agricola. Già prima dell'invasione longobarda si verificava in alcune sue parti, come l'area compresa fra l'Aso e il Tesino 42 o come il territorio montano a nord-ovest di Ascoli 43, la scarsità o l'assenza di centri municipali. Per questi motivi sarebbe semplicistico incolpare i Longobardi della scomparsa di 12 città picene e di altre situate entro il frammentario dominio bizantino della Pentapoli, molte delle quali, rovinate durante la guerra goto-bizantina, apparivano in grave crisi nella seconda metà del VI secolo 44. D'altro canto tali vicende rivelano pure aspetti contraddittori poiché, se è vero che le città vescovili delle Marche di dominio longobardo rimasero appena tre (Camerino, Fermo e Ascoli), va aggiunto che soprattutto due di esse, Fermo e Camerino, assunsero nel corso dell'alto medioevo un ruolo politico-istituzionale ben più incisivo rispetto alle città pentapolitane, quasi che questi centri avessero polarizzato su di sé la vita e le istituzioni cittadine dell'intera regione picena. Ma vi è un altro aspetto sul quale conviene soffermarsi, l'altrettanto evidente decadenza delle città dell'area pentapolitana. Alcune di esse furono abbandonate (Cupra Montana e Planina nella valle dell'Esino, Ostra nella valle del Misa, Suasa nella valle del Cesano, Pitinum Mergens nella valle del Metauro-Candigliano, Pitinum Pisarense nella valle del Foglia); altre subirono una netta perdita di importanza (soprattutto Tifernum Mataurense e, in maniera meno accentuata, Forum Sempronii nella valle del Metauro) 45. Da quel poco che ci dicono le fonti si ricava l'impressione che nemmeno la situazione delle città marittime, e di quelle situate lungo il collegamento stradale Roma-Ravenna, fosse molto diversa 46. Ma queste ultime furono tenute in vita dalle autorità bizantine per esigenze strategico-militari e preservate così dal rischio di estinzione. Il loro carattere di piazzeforti risalta dal fatto che gran parte di esse vengono ormai equiparate a dei castra 47. E fu per la stessa ragione strategico-militare che i Longobardi abbandonarono al loro destino le città della costa a sud di Numana, ritenendole ormai indifendibili da attacchi dal mare, mentre le caratteristiche del loro insediamento e la cultura di cui essi erano portatori non lasciavano adito a interventi di rivitalizzazione delle morenti città dell'interno 48. Sul piano dell'evidenza archeologica il caso di Castel Trosino suggerisce l'ipotesi di un insediamento longobardo per castra nelle Marche 49; un'ipotesi che riceve conferma dall'ordinamento territoriale, se è vero che Castel Petroso (l'odierna Pierosara), sito alla confluenza dell'Esino con il suo affluente Sentino, divenne in seguito il centro di un gastaldato 50. Allo stesso modo che in altre regioni, i Longobardi si limitarono probabilmente ad occupare centri fortificati già esistenti, organizzati dall'Impero nel periodo in cui le prime incursioni barbariche avevano acuito l'esigenza della difesa territoriale in Italia 51. Un'ulteriore conferma della tendenza all'insediamento accentrato in luoghi naturalmente o artificialmente muniti è data dall'intenso processo di incastellamento che si manifesterà nei territori marchigiani di antico dominio longobardo almeno a partire dal secolo X. Tuttavia, se una caratteristica fondamentale di tale forma di insediamento consisteva nell'utilizzo di strutture già esistenti più che nella creazione di nuove, fermo restando il criterio di scelta strategicomilitare agli invasori si sarà offerta l'opportunità dell'occupazione di ville e fattorie, di villaggi rurali 52 e, da ultimo, delle città superstiti. Queste ultime, del resto, in quanto luoghi fortificati garantivano un ruolo non secondario nel contesto della difesa e del controllo dei territori su cui i Longobardi estesero il dominio. Esse poi, con il passaggio graduale dall'occupazione militare
all'insediamento stabile e con la trasformazione dei liberi longobardi in possessores e cives, ricominciarono ad esercitare nell'intera Langobardia un'attrazione verso la popolazione rurale 53. I relitti linguistici non offrono un contributo decisivo all'individuazione degli insediamenti barbarici nelle Marche. Presenti nella toponomasticama in misura piuttosto esigua se raffrontata con quella di altri territori del ducato di Spoleto - le voci longobarde fara e sala 54, Si nota invece una larghissima diffusione dei toponimi del tipo gualdo (dal germanico wald “bosco”) 55, il che potrebbe significare una prevalenza delle attività silvo-pastorali su quelle agricole, ma anche il perdurare di preoccupazioni di ordine strategicomilitare e giuridico-amministrativo, che non avrebbero consentito ai nuovi dominatori di familiarizzare con territorio e popolazione locale 56, Va notato d'altronde che queste tre voci sono attestate, nella stessa proporzione, anche nel Nord della regione, in particolare in quelle zone in cui la lontananza dai porti pentapolitani e dalle vie di comunicazione tra Ravenna e Roma consentirono una stabile occupazione longobarda. Ad esse si aggiungono qui i toponimi derivanti dall'etnico bulgaro 57, i quali hanno fatto discutere storici e linguisti, in quanto alcuni ne sostengono l'origine da burgus, altri li mettono in relazione con stanziamenti di foederati dell'Impero 58. Tuttavia la loro localizzazione per lo più in aree caratterizzate dalla presenza di toponimi di origine germanica nonché da strutture economicofondiarie tipiche della Langobardia fanno propendere, nel nostro caso, per la tesi che vede nei Protobulgari di razza mongolica una popolazione guerriera alleata dei Longobardi 59. La riprova che il criterio strategico-militare fosse seguito, pur con differenti risultati, da entrambi i contendenti nel valutare il ruolo dei centri urbani è fornita dal singolare caso di Cagli, che ascese al rango di città proprio nel periodo di transizione tra tarda antichità e alto medioevo 60. I1 toponimo Callis è inequivocabilmente legato alla viabilità montana: la sua ubicazione sulla Flaminia, prima che la strada si infili fra le due dorsali appenniniche del monte Falterona e del Catria superando una barra trasversale al passo della Scheggia, faceva risaltare l'importanza che il controllo di questo territorio rivestiva 61, Cagli del resto, era collegata al castrum di Luceolis, la cui prima attestazione è significativamente in relazione con la liberazione, da parte dell'esarco Romano nel 592, del ramo occidentale della Flaminia, la via Amerina 62. Da Luceoli, situata nei pressi di Pontericcioli a sud della dorsale del Catria e quindi in posizione opposta a quella di Cagli, si staccava appunto la via Amerina. Città e castello formavano dunque un unico sistema di controllo del punto chiave in cui la Flaminia, dopo aver valicato l'Appennino, si staccava dal suo ramo orientale, caduto nelle mani dei Longobardi spoletini. Ancor più singolari furono, sul fronte opposto, le circostanze che avrebbero favorito il sorgere della diocesi di Montefeltro, I'odierna San Leo. Conquistato dai Longobardi di Arezzo nel primo ventennio del VII secolo, quando questi invasero la media e alta valle del Tevere, questo castello divenne poco dopo, secondo il Lombardi 63, sede vescovile con il preciso compito di intraprendere un'azione missionaria tra i Longobardi ariani in un territorio compreso fra la riva destra dell'alto Savio e la sponda sinistra dell'alto Foglia. 6. Il ducato di Spoleto e le sue articolazioni periferiche in area marchigiana Poiché, tra i Longobardi, furono gli Spoletini i protagonisti del conflitto che li oppose, al di qua e al di là dell'Appennino umbro-marchigiano, all'Impero dei Romani fin dagli anni 70 del secolo VI, è opportuno richiamare brevemente la questione della fondazione del ducato di Spoleto. Su di essa intervenne nel dopoguerra G.P. Bognetti, formulando una tesi originale sui tempi e sui modi di una tale genesi 64. La quale tesi non è senza conseguenze sulla visione complessiva dell'insediamento longobardo nelle Marche, poiché coloro che hanno sviluppato l'idea bognettiana fanno derivare la fondazione del ducato da un ripiegamento di federati barbarici ribelli dalla costa adriatica, dove sarebbero stati stanziati dai Bizantini, e non da una avanzata dei Longobardi di Alboino da nord lungo la dorsale àppenninica 65. Stante tuttavia l'assoluta carenza di dati relativi al complesso degli eventi, una tesi siffatta ST muove su un piano in larga parte congetturale traendo spunti da notizie troppo frammentarie, di cui cerca di forzare l'interpretazione. La si può accettare, con riserva, solo
per ciò che riguarda la cronologia della presenza di contingenti longobardi nell'Italia centrale (dal 576) e per la consideràzione del carattere autonomo e disordinato delle conquiste compiute in quel frangente dagli stessi invasori. In quest'ottica l'insuccesso dell'offensiva guidata dal curopalate Baduario nel 575-576, posto come evento determinante la ribellione di Faroaldo e dei gruppi longobardi federati, sposterebbe di qualche anno più avanti la fondazione del ducato spoletino 66, mentre la tradizione storiografica ne scorgeva le origini già al tempo del regno di Alboino (571) 67. Le vicende del ducato, sulle quali cala il silenzio delle fonti per ciò che attiene al secolo VII, si svolsero comunque sulla linea della completa autonomia dal regno longobardo almeno sino al re Grimoaldo, il quale riuscì a porre in Spoleto un duca di sua fiducia, Trasmondo, già conte di Capua 68. Più che una certa dinamica istituzionale ancora legata alle strutture tribali dei Longobardi, era la collocazione geografica di Spoleto, separata dal regnum da barriere naturali e da sia pur frammentari domini bizantini, a fomentare la tendenza all'autonomismo. È legittimo, allora, chiedersi quale sia stata la posizione dei duchi spoletini di fronte alle tregue o alle paci sottoscritte dagli esarchi e dai sovrani longobardi. Se la restituzione di Osimo lascia intendere che la tregua del 598 impegnasse anche Spoleto, un'epistola di Gregorio Magno chiarisce a questo proposito che Ariulfo, il quale aveva già raggiunto un accordo col pontefice nel 592 ricevendone probabilmente forti somme di denaro 69, giurò il mantenimento della tregua separatamente dal re e ponendo condizioni particolari 70. Perciò il pontefice aveva motivo di dubitare della fides di Ariulfo: scrivendo infatti alla fine del medesimo anno al re Agilulfo, lo esortava ad ordinare ai duchi, et maxime in bis partibus constitutis, di rispettare la pace 71. È parimenti dubbio che, dal 603 fino alla pace del 680, con analoghi accordi di tregua sia stata garantita la cessazione di ogni sorta di ostilità fra ducato ed esarcato 72. La conquista di Jesi da parte dei duchi di Spoleto nel corso del VII secolo, anteriormente al 680, presuppone nuove ondate offensive degli Spoletini ai danni delle città della Pentapoli 73. In seguito, la notizia, riferita da Paolo Diacono (e sulla quale in verità è stato espresso più di un dubbio) 74 circa la temporanea presa di Classe, forse nel 712-713, daparte del duca Faroaldo II 75, rappresenta comunque un indizio del protrarsi, o della ripresa, di uno stato di guerra nell'Italia centrale nonché una prova della consapevolezza che i Longobardi del regno avevano dell'autonomia spoletina e dell'estraneità del ducato ai trattati e accordi che impegnavano i loro sovrani. Fu soltanto con Liutprando che la monarchia longobarda riuscì ad aprire reali prospettive di controllo politico e militare se non, in maniera stabile, sulla stessa sede ducale, almeno sul settore spoletino ad est dell'Appennino e sulla Pentapoli 76. Prima di allora i rapporti dei gruppi longobardi insediatisi in territori marchigiani con il regnum dovettero essere assai limitati, mentre emergono indizi di legami politico-istituzionali con Spoleto e con il resto del ducato. Il Geografo Ravennate chiama provincia Spolitium Sanciensis il settore adriatico a ridosso della Pentapoli pertinente al ducato longobardo. Lo Schnetz ha proposto la correzione dell'attributo Sanciensis in Savinensis (=Sabinensis) 77. Altro indizio della presenza spoletina nel Piceno è offerto dalla dedicazione di due chiese del Fermano a san Savino, il santo patrono dei Longobardi spoletini, durante il pontificato di Gregorio Magno 78. Tale agionimo, d'altronde, è assai diffuso su tutto il territorio marchigiano. Bisogna attendere la documentazione farfense relativa al pieno secolo VIII per avere utili elementi onde tentare di delineare la struttura periferica del ducato e le sue articolazioni in ambito marchigiano. Da fonti così tarde è arduo farsi un'idea del peso esercitato dalle strutture tribali dei Longobardi, prima fra tutte la fara 79, sull'evoluzione istituzionale dell'entità politica spoletina, dalle forme di insediamento, nei castra e nelle civitates, sino alla definizione di competenze territoriali dei funzionari ducali. Alcuni comites risultano presenti in qualità di testimoni in un documento redatto nel palazzo ducale di Spoleto nel 748: uno di questi, Rabenno, era con tutta probabilità conte di Fermo 80. Sono noti altri due comites aventi sede in città marchigiane, Lupo di Fermo e un altro Lupo di Ascoli nel 776 81, quando reggeva ancora il ducato il longobardo Ildeprando. Mancano invece dati sicuri sulla contemporanea esistenza di gastaldi nella regione.
Secondo il Gasparri la figura del comes spoletino rappresenterebbe semplicemente uno sviluppo tardivo e contraddittorio del gastaldo, il quale rimane, pur con alcune eccezioni, difficilmente associabile a un determinato territorio 82. I1 Bertolini collega la ripresa e la sistemazione dell'istituto comitale all'avvento in Spoleto del duca Lupo attorno al 745. Da allora i comites furono preposti a grandi circoscrizioni amministrative, con sede stabile nei rispettivi capoluoghi e con funzioni che spaziavano dall'ambito civile a quello militare 83. Anche Camerino potrebbe essere stata la sede di qualcuno di quei comites dell'VIII secolo, di cui le fonti farfensi non specificano il luogo di appartenenza 84: in questa città è comunque attestata la presenza del gastaldo in età carolingia 85. Oltre ai gastaldati-contee delle tre città picene, solo nel secolo X si ha menzione di altri gastaldati, i quali trovano sede in alcuni castra. Si tratta appunto del gastaldato di Castel Petroso, di cui tuttavia si può supporre l'esistenza già in età carolingia 86, mentre il suo ambito territoriale ricadeva nell'alto bacino dell'Esino e nelle valli degli affluenti Sentino e Giano, affacciandosi nell'alto Misa e coprendo in definitiva l'estremo lembo settentrionale della diocesi di Camerino 87; e del gastaldato Subtempidano il quale, pur traendo il nome dalla decaduta città di Septempeda, aveva probabilmente il suo centro nel vicino castello qui dicitur ad Sanctum Severinum (San Severino Marche), contestualmente documentato 88. Esso si distendeva lungo il fiume Potenza e sempre entro la diocesi di Camerino, occupandone presumibilmente l'estremità orientale in direzione dello sbocco vallivo. Questi particolari inducono a ritenere che si tratti di due gastaldati minori 89, organizzati attorno a luoghi fortificati (llvenutl, si Ignora quando precisamente, centro della circoscrizione. La circoscrizione di castello è ad ogni modo un organismo riscontrabile altrove per l'età longobarda 90 non esclusi i territori romanici (esempi vicini sono costituiti da Luceoli 91 e da Conca nel Riminese 92): la sua esistenza appare connessa con un sistema di difesa limitanea che possa nel contempo costituire la premessa per future azioni di conquista dei territori vicini. In questo caso, tuttavia, potrebbe trattarsi di suddivisioni del territorio di Camerino inglobanti alcune zone appartenute a civitates decadute o scomparse (Attidium e Tuficum per Castel Petroso e Septempeda per il gastaldato omonimo), su cui la città aveva in seguito esteso la sua giurisdizione. Il Baldetti e, sia pur in forma dubitativa, il Villani 93, prendono in considerazione un terzo organismo territoriale, il gastaldato Frisiano che, menzionato in un unico documento del 1066 94 sembrerebbe situato nel comitato di Nocera ai confini con il gastaldato di Castel Petroso ed estendentesi su alcuni lembi del territorio marchigiano. Tuttavia il suddetto documento è spurio e non anteriore al secolo XII: il che lo rende sospetto, poiché la creazione di una circoscrizione poteva in quel momento rispondere agli interessi di un comune (o di un monastero) impegnato in qualche conflitto territoriale o patrimoniale. Il Baldetti ipotizza inoltre un'origine regia dei tre gastaldati di Castel Petroso, di Settempeda e Frisiano; ma ciò non sembra fondato, se si considera, per esempio, che il territorio di Castel Petroso è compreso nel ducato di Spoleto ancora nel secolo XI, come dimostrano decine di carte dell'abbazia di San Vittore delle Chiuse 95. Se la tendenza del ducato, nel corso dei secoli dall'alto al pieno medioevo, è quella di perdere - e non di acquistare - i territori a est dell'Appennino, sarebbe davvero strano che verso la fine dell'età longobarda o durante l'età carolingia Spoleto riuscisse ad espandere la sua influenza su aree controllate, secondo l'ipotesi del Baldetti, dalla monarchia longobarda fin dal regno di Autari o di Agilulfo, senza nel contempo scontrarsi con la politica di Carlo Magno e dei suoi successori, assai diffidenti nei confronti di un ducato periferico ed impegnati a ridimensionarne l'ambito territoriale mediante suddivisioni che favorivano proprio il distacco dei distretti fermano e camerte. Ancora più controversi sono i ministeria del territorio fermano, attestati dalla fine dell'età carolingia sino alla metà del secolo XII. La Taurino ha creduto di scorgervi una persistenza della distrettuazione minore di età longobarda 96, ma altri studiosi hanno proposto ipotesi diverse circa la natura e soprattutto i tempi di costituzione di tali organismi, che sarebbero molto più tardi 97. 7. Gli interventi dei sovrani longobardi e l'istituzione dei ducati marchigiani
Gli interventi dei sovrani longobardi nella regione, attuati a seguito di spedizioni organizzate di conquista nel corso dell'VIII secolo, produssero sostanziali modificazioni nell'assetto giuridicoamministrativo sia del settore pentapolitano, dove i re erosero, fino ad eliminarle, le ultime sopravvivenze dell'amministrazione esarcale e bizantina, sia del Piceno spoletino. Qui comincia a farsi strada la tendenza al distacco da Spoleto e alla formazione di ducati di gastaldati-contee nei centri nevralgici delle Marche longobarde, vale a dire Fermo e Camerino. Liutprando, approfittando del moto di ribellione suscitato dall'estensione all'Occidente del decreto iconoclasta di Leone III l'Isaurico, attuò nel 727 un piano che mirava alla conquista del triangolo strategico Ancona-OsimoNumana, attraverso il quale erano soliti afiluire via mare dall'Oriente rifornimenti e truppe per l'esarcato 98. Qui - ma le fonti non sono così esplicite al riguardo 99 - egli avrebbe istituito i due ducati indipendenti di Ancona e di Osimo 100. L'altro obiettivo che il re si proponeva era infatti quello di sbarrare la strada ad ogni ulteriore velleità espansionistica dei duchi di Spoleto a nord del Musone 101, mettendo così in chiaro che la Pentapoli sarebbe stata, d'ora in avanti, terreno di conquista della monarchia longobarda. Più tardi lo stesso sovrano, pur incontrando resistenze da parte dei Romani e degli Spoletini, marcia alla testa delle sue truppe tra Fano e Fossombrone, proprio lungo il ramo principale della Flaminia 102 e, durante una sosta nella Pentapoli, riceve doni e benedizioni da parte degli abitanti e delle chiese del luogo 103. Risulta dunque assodato che la monarchia longobarda, di cui Liutprando rappresenta la massima espressione, riuscì ad infliggere colpi durissimi all'autonomismo spoletino, imponendo di fatto la nomina ducale da parte del re 104. Emblematiche, a questo riguardo, la deposizione, dopo alterne vicende, del duca Transamondo II da parte dello stesso Liutprando nel 742 e la sua sostituzione con il nipote del re Agiprando 105. Quest'ultimo non riuscl a reggersi dopo la morte dello zio (744), ma il suo successore Lupo fu uno dei duchi più legati a Pavia 106. È in questa fase che ritroviamo a Fermo il conte Rabenno, ancora legato al palatium di Spoleto 107. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, I'evoluzione dei rapporti fra duca spoletino e territori marchigiani procedette in direzione del distacco di questi ultimi dall'antica sede ducale. Sotto il regno di Astolfo un Bacaudanis exercitalis chiese all'arcivescovo Sergio di Ravenna sei once di tre fondi situati nel territorio di Osimo 108. Il documento, unica testimonianza d'età longobarda relativa a un exercitalis 109 insediato in territorio marchigiano, costituisce altresì una spia della presenza regia in questo settore strategico della Pentapoli, oltre che dei buoni rapporti instauratisi fra il sovrano longobardo e il presule ravennate all'indomani della conquista della capitale dell'esarcato da parte dello stesso Astolfo 110. Ancor più esplicita è l'iscrizione di Falerone del 770, datata ai tempi di Tasbuno duca di Fermo posposto agli anni di regno di Desiderio e di Adelchi 111: si tratterebbe pertanto della più antica testimonianza relativa al ducato di Fermo, istituito nell'ambito del regnum Langobardorum e operante sotto la diretta autorità del re. Nel 772 Adelchi, nel confermare i possessi del monastero di San Salvatore di Brescia, accennava alle possessiones et curtes provenienti dal fisco regio e ducale, situate anche nel Fermano e nell'Osimano 112: il diploma riconosce un posto preminente, nella geografia politica longobarda, ai fines Firmani e Ansemani, dal momento che li equipara a quelli spoletini e beneventani. Come si vede, l'istituto ducale si diffonde ora in città marchigiane appartenenti ad entrambi i settori geo-politici della regione. E ancora, fonti documentarie ci mostrano un certo Sergio duca di Senigallia e suo figlio Tommaso, che non è più duca, quali donatori di terre situate nel territorio di quella città a favore di due monasteri settentrionali, San Michele Arcangelo di Brondolo presso Chioggia e Santa Maria di Sesto nel Friuli, negli anni 800, 808 e 809 113. Si hanno fondati motivi per ritenere che Sergio, noto anche alla cronachistica veneziana 114, discenda da una stirpe longobarda friulana, o comunque austriana, insediata nella città pentapolitana da Ratchis o, più probabilmente, da Astolfo 115. La sua famiglia sarebbe riuscita a resistere a due successivi interventi di Desiderio, nel 764 circa e nel 772, contro Senigallia e altre città pentapolitane, o comunque a ritornarvi a seguito della sconfitta di Desiderio ad opera di Carlo Magno e della fine del regno longobardo indipendente l16.
Spregiudicatezza politica e autonomismo locale furono i due fattori che animarono, nelle Marche e altrove, lo scenario di una delicata fase di transizione dalla dominazione longobarda alla renovatio Imperii carolingia. Il duca Ildeprando ne è l'esempio più clamoroso 117. Ma la sottomissione al papa dei rappresentanti dell'aristocrazia spoletina, allorché si profilava la disfatta di Desiderio, fu immediatamente seguita da quella dei Longobardi dei ducati di Fermo, Osimo e Ancona 118. Si ha l'impressione che questo scarno elenco di ducati - agli occhi della curia romana i più importanti dal punto di vista politico e militare e oggetto delle più recenti rivendicaziopi da parte dei papi - sia puramente indicativo e che nasconda una più larga diffusione di organismi grandi e piccoli nati dalla dissoluzione dell'amministrazione bizantina al nord e da spinte centrifughe al sud della regione. Tali spinte sembrano temporaneamente frenate negli anni 776-781, se si tengono presenti i documenti attestanti di nuovo la presenza dei comiles a Fermo ed Ascoli, nonché il loro legame con la corte di Spoleto 119; ma ciò dovrebbe essere il risultato della politica accentratrice dell'ultimo duca longobardo Ildeprando, che dalla tradizione spoletina traeva motivi per rivendicare il controllo dei territori orientali del ducato; e costituisce altresì la riprova che i ducati marchigiani rispondevano all'interesse della monarchia longobarda di ridimensionare l'autorità ducale di Spoleto 120. Non appena, però, la monarchia franca ebbe preso le misure nei confronti del ducato e dopo l'insediamento del primo duca franco a Spoleto, venne sancita la separazione, gravida di conseguenze per i futuri assetti politico-amministrativi della Marca medievale, fra i ducati di Spoleto e di Fermo 121. 8. Verso la Marca Il ducato di Fermo, che diventerà marca fermana in età postcarolingia, fu la più importante eredità lasciata dai Longobardi alla regione, denominata Marca fino agli inizi del secolo scorso. Il primato della scuola di questa città, sottolineato dal capitolare olonense di Lotario I dell'825 122, rispecchia quindi una consolidata preminenza di Fermo sugli altri centri delle Marche meridionali, inclusa la stessa Camerino 123. Basti osservare che le scuole ivi menzionate trovano sede nelle città politicamente più importanti dell'Italia longobarda, cominciando da Pavia per finire a Forum Iulii. A1 termine dei due secoli longobardi l'aristocrazia funzionariale, di cui l'omonimo figlio del conte Rabenno e sua moglie Alerana rappresentano - pur nel coinvolgimento in tragici eventi 124 l'espressione matura, si avviava a divenire aristocrazia fondiaria, grazie ai suoi legami con l'abbazia di Farfa, un'istituzione monastica protetta dai duchi di Spoleto, poi dai re longobardi e quindi dalla monarchia franca 125, e con altri enti ecclesiastici, fra cui la stessa chiesa vescovile fermana. La penuria di fonti non permette di andare oltre nell'indagine sulla società longobarda della regione. Ma i successivi documenti vi testimoniano la presenza di famiglie di possessores di estrazione longobarda e, infine, l'organizzazione di strutture di potere signorile che da questi prese origine. ROBERTO BERNACCHIA
1 P DELOGU, Longobardi e bizantini in Italia, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all'età contemporanea, 11/2, Torino 1986, PP. 145-169, Cfr. PP. 149-151. 2 R THOMSEN, The Italic Regions from Augustus to the Lombard Invasion, Copenaghen 1947, PP.120-124.
3 THOMSEN, op. cit., PP. 109-112; N. ALFIERI, La regione V dell'ltalia augustea nella Naturalis historia, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario, Como 1982, PP.199219. 4 THOMSEN, op. cit., PP.217-221; N. ALFIERI, Le Marche e la fine del mondo antico, in Istituzioni e società nell'alto medioevo marchigiano, Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche,86 (1981), Ancona 1983, PP.934, cfr. pp. 10-11; A. CHASTAGNOT Notes chronologiques sur l'Histoire Auguste et le Laterculus de Polemius Silvius, Historia IV (1955), PP.173-188, cfr. in part. le pp. 176-180 e ID., L'administration du Diocèse Italien au BasEmpire, «Historia», Xll (1963), PP.348-379, in part. le pp. 360-362. 5 THOMSEN, Op. cit., PP. 221-230; ALFTERT, Le Marche cit., pp. 13-14; G. CLEMENTE, La creazione delle province di Valeria e di Picenum suburbicarium, «Rivista di filologia e di istruzione classica», 96 (1968), PP. 439-448 e ID., Ancora sulle province di Valeria e Flaminia et Picenum «Rivista di filologia e di istruzione classica», 97 (1969), PP. 179-184. 6 A CARTLE, Dal Vall'VIII secolo, in Storia della Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna 1976, PP. 333-363, cfr. pp. 333-337; P.M. CONTI, Il ducato longobardo di Spoleto e la storia istituzionale dei Longobardi, Spoleto 1982, PP. 12-15. 7 ALFIERI, Le Marche cit., pp. 20-21. 8 Ibidem, p. 29. 9 O. VON HESSEN, Alcuni aspetti della cronologia archeologica riguardanti i Longobardi in Italia, in Atti del 6° Congresso internazionalc di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1980 PP. 123-130, ID., Testimonianze archeologiche longobarde nel ducato di Spoleto, inAtti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, PP. 421-428, cfr. p. 425. Si veda in proposito in questi atti la relazione di L. Paroli. 10 PAULT Historia Langobardorum, IV, 16, edd. L. Bethmann et G. Waitz, in M.G.H Script. rer. Lang et Ital., Hannoverae 1878, PP. 121-122; cfr. B. FELTCTANGELT, Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia nel secolo VI. Appunti di corografia storica, Camerino 1908, 11 GASPARRT, I duchi longobardi, Roma 1978, p. 75. 12 AGNELLI QUI ET ANDREAS Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 95, ed. O. HolderEgger, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 338; cfr. FELTCTANGELT, op. cit., pp. 10-ll. 13 GREGORII I PAPAE Registrum epistolarum, il, 28, edd. R Ewald et L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., I, 23ed., Berolini l9S7, pp. 124-125: v.a. II, 7 (pp. 105-106), II, 32 (pp. 128-129) e II, 33 (pp. 129-130). 14 Reg. ep., II, 45, ed. Cit., pp. 143-146; cfr. FELCIANGELI, op. cit., pp. 71 -73, e R. BERNACCHIA, L'assetto territoriale della bassa valle del Cesano nell'alto medioevo, in Istituzioni e società Cit. (a nota 4), pp. 683-714, a p. 704. 15 Reg. ep., IX, 66, 67, 99 e 1OO, ed. L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., II, 2° ed. Berolini 1957, pp. 85-88 e 108-109; PAULT Hist. Lang., IV, 8, 9, 12, ed. cit., pp. 118-120 e 121 16 GREGORTT Reg. ep., IX, 51 e 52, ed. cit., II, pp. 76-77; cir. FELCIANGELI, op. cit., pp. 29-30. 17 N. ALFTERT, La Pentapoli bizantina d'ltalia, «Corsi di cultura sull'arte ravennate e bizantina», XX (1973), pp. 7-18, cfr. p. 16: l'A. mette in rilievo «il punto critico della linea del confine bizantino» nel territorio di Fabriano e nell'alto bacino dell'Esino. Sulla via della 8pina, che collegava direttamente Spoleto aPlestia, e sull'importanza nevralgica di quest'ultimo centro di valico cfr. G. SCHMIEDT, Contributo della foto-interpretazione alla conoscenza della rete stradale dell'Umbria nell'alto medioevo, in Aspetti dell'Umbria dall'inizio del secolo VIII alla fine del secolo Xl (Atti del III Convegno di studi umbri), Perugia 1966, pp. 177-210, part. pp. 192-195. 18 PROCOPIO DI CESAREA, La guerra gotica, II, 11 e IV, 28, a cura di D. Comparetti, II, Roma 1896, pp. 69-74; III, Roma 1898, pp. 218-219. 19 Sul percorso stradale Nuceria-Ancona v. K. MILLER, Itineraria Romana. Romische Reisewage an derHandder TabulaPeutingeriana, Roma 1964, col.305, G. RADKE, Viae publicae Romanae, Bologna 1981, pp. 235-239, cfr. FELCIANGELI, op. cit., p. 45 e ALFIERI, La Pentapoli Cit., p. 16. Secondo E. BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza nell'alto medioevo, in E BALDETTI et al., Le basse valli del Musone e del Potenza nel medioevo, Recanati 1983, pp. 7 -18, cfr. p. 8, i Longobardi conquistarono il basso Potenza già attorno al 580. 20 Ch. DIEHL, Études sur l'administration byzantine dans l'exarchat de Ravenne (568 751), Paris 1888, pp.7-23; CARTLE, Dal VII VIII secolo cit., pp.346-351, V. VON FALKFNHAUSEN, I Bizantini in Italia, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 1-136, cfr. pp.32-36.Si rimanda a T.S. BROWN, The Interplay between Roman et Byzantine Traditions and Local Sentiment in the Exarchate of Ravenna, in Bisanzio, Roma e l'ltalia nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XXXIV), II,Spoleto 1988, pp.127-160, in part.alle pp.127-131 per la bibliografia sull'esarcato e alle pp. 135-137 sulla costituzione dell'esarcato e la militarizzazione della società. 21 Un efficace inquadramento sul ruolo delle Città e sull'emergere di una aristocrazia rnilitare in età esarcale è ora in A. CARTLE, Materiali di storia bizantina, Bologna 1994, pp. 93 22 CARTLE, Dal V all’VIII secolo Cit., p. 347 (fra 572 e 582); VON FATKENHAUSEN, op. cit., pp. 12-13 (primi anni dell'imperatore Maurizio); BROWN, op. cit., p. 135 (attorno al 584). 23 MIGNE, P.L., 87, coll. 103-106 (Mauri, Ravennatensis archiepiscopi, epistola unica, ad Martinum pontificem Romanum adversus monothelitarum haeresim), part. col. 103 (greco) e col. 104 (latino). 24 DIEHL, Op. cit., pp. 24-26; A. GUILIOU, Régionalisme et indépendance dans l'Empire byzantin au VIIe siècle. L'exemple de l'Exarchat et de la Pentapole d'ltalie, Roma 1969, pp. 147-149; ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 11. 25 Il DIEHL, OP. cit., pp. 60-62, distingueva 1'Auximanum, separato dalla Pentapoli e comprendente Osimo e Numana, la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro Fano, Senigallia Ancona), la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi,
Cagli, Gubbio) e, collegata a quest'ultima la provincia castellorum (S. Marino, Montefeltro, Pennabilli, Petra Pertusa Luceoli, Tadinum-Validum, Acerrengium, Serra e Conca). Il GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 56-58 redige un elenco assai confuso di civitates, castra e altre località (nel quale appaiono identificazioni piuttosto discutibili), in parte riprendendo dal Diehl, ma senza specificare la loro provincia di appartenenza. Più cauto l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp.11-12, che già rilevava la non corrispondenza numerica delle città della Pentapoli marittima e l'incertezza sulle civitates e castella della Pentapoli interna. Ritorna all'attribuzione all'originaria Pentapoli marittima delle cinque città portuali già indicate dal Diehl E. BALDETTI, Per una nuova ipotesi sulla conformazione spaziale della Pentapoli. Rilievi topografico-storici sui toponimi di area pentapolitana, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 779-894, cfr. pp. 842-843 e 857 mentre (pp. 860-861, v.a. nota 213) assegna alla Pentapoli mediterranea Sarsina, Città di Castello, Urbino, Fossombrone e Gubbio, pur con il dubbio riguardante Città di Castello la quale, agli inizi del sec. VIII (periodo nel quale si sarebbe costituita questa seconda Pentapoli) poteva essere già sede di gastaldato longobardo: in questo caso la quinta città dovrebbe ricercarsi in Cagli. ll Baldetti ritiene altresì possibile che la seconda denominazione di Pentapoli possa essere stata coniata ad imitazione della precedente e non corrispondere necessariamente a un complesso di cinque città. 26 GEORGII CYPRI Descriptio orbis Romani, ed. H. Gelzer, Lipsiae 1890, pp. 31-32, Le Synekdèmos d'Hiéroblès et l'opuscule geographique de Georges de Chypre, texte, introduction, commentaire et cartes par E. Honigmann, Bruxelles 1939, pp. 53-54, cfr. PM. CONTI, L'Italia bizantina nella "Descriptio orbis Romani" di Giorgio di Cipro, estratto da «Memorie della Accademia lunigianese di scienze "G. Cappellini"», XL (1970), La Spezia 1975, pp. 11-12 e 21-26: le città che sarebbero entrate a far parte della Pentapoli vengono assegnate, insieme ad altri centri dell'Italia bizantina, alla provincia detta Annonaria comprendente, al tempo di Tiberio II, la regione nord-adriatica della penisola. L'opera di Giorgio di Cipro, che sarebbe anteriore alla costituzione dell'esarcato d'ltalia, si riferirebbe infatti a tale periodo. 27 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia (IV, 31 e V, 1) et GUIDONIS Geographica (21 e 69-70), ed. J. Schnetz, Lipsiae 1840, pp. 68 e 84, 117 e 129. 28 Le Liber pontificalis (Stephanus II, 252-254), texte, introduction et commentaire par L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 453-454. 29 GREGORII Reg. ep., I, 56, ed. cit., I, p. 80, cfr. DIEHL, op. cit., pp. 9 e 25-26. Sul duca Maurizio dell'anno 769 v. Liber pontificalis, Stephanus III, 282, ed. cit., p.477, cfr. A. CARILE Continuità e mutamento nei ceti dirigenti dell'esarcato fra VII e IX secolo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 115-145, a p. 120. Si riscontra un altro duca, Martino, a Rimini in due registrazioni del Breviarium Ecclesiae Ravennatis (Codice Bavaro). Secoli VII-X a cura di G. Rabotti, Roma 1985, p. 23 n. 39 e pp. 39-41 n. 76, databili, con qualche dubbio, al sec. VIII, ma che CARILE, Continuità e mutamento cit., p. 141, data all'850-878. 30 CARILE, Continuità e mutamento cit., pp. 127-131. 31 J.D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 301 -304, 311-314, 773 e 775. O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, Rivista di storia della Chiesa in Italia, VIII (1954), pp. 1-22, part. p. 19, non considera il vescovo di Jesi fra i nove provenienti dal ducato di Spoleto, trascurando però il fatto che nei succitati atti tutti e dieci i vescovi delle diocesi spoletine sottoscrivono in ordine compatto subito dopo il presule di Spoleto, mentre i sei vescovi "provinciae Pentapolis" formano un altrettanto compatto raggruppamento. Questo particolare non è preso in considerazione nemmeno da A. CHERUBINI, Presenza longobarda nel territorio jesino, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp.515550, che pure ammette l'avanzata longobarda spoletina lungo la vallata dell'Esino alla fine del VI o agli inizi del VII secolo, mentre Jesi sarebbe stata recuperata dai Bizantini in seguito alla tregua del 680, dopo la quale sarebbe iniziata una sorta di coesistenza pacifica tra i due settori nei quali era rimasto diviso il territorio jesino. 32 Liber pontificalis, Zachanas, 213, ed. cit., p. 429, M.G.H. Epist., III, Epistolae Merowingici et Karolini aevi, 2a ed., Berolini 1957, p. 580 n. 55; MIGNE, PL., 89, col. 519. 33 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 7-8 e 10-11. 34 Lo sdoppiamento della Pentapoli, postulato dal DIEHL, op. cit., pp. 60-62, il quale aggiunge l'Osimano come circoscrizione specifica, è stato più o meno accettato dai successivi studlosl e, per ultimo, anche dal BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 859-861. Si nota in Baldetti, come anche in F.L. LOMBARDI, Il Montefeltro nell'alto medioevo. Congetture sull'origine della diocesi, «Studi montefeltrani», 2 (1973), pp. 21-59, cfr. pp. 26-32, la tendenza a forzare l'interpretazione di un passo della Cosmographia dell'Anonimo Ravennate, IV, 29, ed. cit. pp. 65-66 (item Annonaria Pentapolensis est super ipsam Pentapolim id est provincia
castellorum, quae ab antiquis ita vocabatur), per trovarvi la prova concreta dell'organizzazione di una ben distinta Pentapoli interna. La migliore interpretazione del suddetto passo, prima che esso subisse ulteriori passaggi nel corso della tradizione manoscritta, ad onta delle arbitrarie integrazioni dello Schnetz è stata data proprio da Guido ravennate (sec. XII), 66, ed. cit., p. 128: Quinta provinciarum Italiae Annonica Pentapolensis est, super quam regio est quae castellanorum appellata est ab antiquis; dal cui testo risulta evidente che esiste una sola Pentapoli, geograficamente contigua ma distinta da una regio castellanorum (la provincia castellorum del Ravennate). Quest'ultima andrebbe identificata con la provincia delle Alpi Appennine, estendentesi dalle Alpi Cozie al Montefeltro, di cui parlano il Catalogus provinciarum Italiae, in M.G.H., Script. rer. Lang. et Ital. cit., pp. 188-189, anche in Itineraria et alia geographica, Turnholti 1965 (C.C.S.L., CLXXV), pp. 366-368, part. p. 367, il De terminatione provinciarum Italiae, in Itineraria et alia geographica cit., pp. 347-363, part. p. 355, e PAULI Hist. Lang., II, 18, ed. cit., p. 83.
35 Il coronimo Flaminia è usato dal Geografo Ravennate per designare l'Esarcato in senso stretto o provincia Ravennate, mentre viene recuperato l'attributo Annonaria per accompagnare il termine Pentapoli o un suo derivato: RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., pp. 65-66; v.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128. Non convincente appare la tesi del LOMBARDI, Il Montefeltro cit., p.31, secondo cui la nuova provincia si sarebbe chiamata "annonaria" in quanto in essa le "annonae" erano destinate al mantenimento dei soldati. Considerando la qualità e l'antichità delle fonti di cui il Ravennate disponeva, come non vedere in questo termine un preciso ricordo del Picenum annonarium: 36 Liber pontificalis, Gregorius, 113, ed. cit., p. 312; PAULI Hist. Lang., IV, 8, ed. cit., p. 118. Cfr. ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 17. 37 DIEHL, Op. cit., pp. 59-63: i confini erano costituiti secondo l'A. dal Marecchia a nord, dal Musone e dall'Esino a sud, dallo spartiacque appenninico a ovest, ma includendo Gubbio e, in certi momenti, Perugia. Segue sostanzialmente queste indicazioni l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 13- 18. 38 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 807-821, ma v.a. p. 859, dove l'A. precisa che la Pentapoli si componeva di tre o quattro gruppi di città fra loro separati: Rimini-Sarsina, Pesaro-Fano-Fossombrone-Urbino, Ancona-OsimoNumana e, forse, Città di Castello-Gubbio-Perugia, mentre Senigallia era completamente isolata. 39 V FUMAGALLI, "Langobardia" e "Romania": l'occupazione del suolo nella Pentapoli altomedioevale, in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" (Codice Bavaro) Roma 1985, pp. 95-107. 40 Ph. JONES, L'ltalia agraria nell'alto medioevo: problemi di cronologia e di continuità in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XIII) Spoleto 19óó, pp. 57-92, cfr. pp. 65-73; P DELOGU, Longobardi e romani: altre congetture, in Langobardia, a cura di P Cammarosano e S. Gasparri, Udine 1990, pp.111167, cfr. pp.145-157. 41 V. nota 7. 42 G. PACI, Considerazioni storiche sul territorio compreso tra i fiumi Aso e Tronto «Archeopiceno», a. I-II, n. 4-5 (ottobre-dicembre 1993/gennaio-marzo 1994), pp. 3-ó. 43 ALFIERI, La Marche cit., p. 24. 441bidem, pp. 24-29. 45 V. LANCIARINI, ll Tiferno Mataurense e la provincia di Massa Trabaria, Roma 1895, pp. 105-127: la città sarebbe stata distrutta durante la guerra goto-bizantina e subito dopo sarebbe stato costruito sulle sue rovine il castello di S. Angelo in Vado (affermazione, questa, che l'A. non può provare in alcun modo). Di Tifernum non si conosce alcun vescovo, mentre la diocesi di S. Angelo in Vado fu istituita da Urbano VIII nel 1636 (ibidem, pp. 792-798). Su Forum Sempronii che, sita nel fondovalle sulla Flaminia, fu progressivamente abbandonata e trasferita su un colle soprastante, v. A. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, I, Fossombrone 1903, pp. 126-130 e 139-140. Non si conoscono vescovi della chiesa locale tra Paolino (a. 555) e Leopardo (a. 826): PB. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873, p.698, cfr. VERNARECCI, op. cit., pp.141-142. È possibile che la non menzione di Forum Sempronii nell'elenco di città restituite al beato Pietro nel 756 (v. nota 28) rispecchi una situazione di crisi corrispondente alla fase di trasferimento del centro dal fondovalle all'altura. 46 Le città a nord del Conero, già colpite dalla crisi demografica e provate dalle precedenti invasioni, subirono gli effetti della guerra goto-bizantina (ALFIERI, Le Marche cit., p. 29). PROCOPIO, La guerra gotica, III, 11, ed. cit., II, pp. 275-276, ricorda l'incendio delle case di Pesaro e Fano, per le quali usa il termine “polismata” ("cittadine"), ad opera di Vitige, che aveva abbattuto anche le mura dei due centri. Le mura di Pesaro furono poi ricostruite in tutta fretta da Belisario nel 545. Lo stesso PROCOPIO, La guerra gotica, IV, 23, ed. cit., III, p. 174, chiama “corion” ("località") Senigallia, la quale sarà poi designata come “Kastron” nella Descriptio orbis Romani, ed. cit., p. 32. Ed ancora PROCOPIO, La guerra gotica, II, 11 e IV, 23, ed. cit., II, p. 70 e III, p. 172, qualifica Ancona come castello (“frurion”). L'incendio che distrusse Fano nel 565, causando la morte di numerosi cittadini, è collocato da Agnello ravennate (Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 90, ed. cit., p. 336) in un contesto di eventi prodigiosi che avrebbero accompagnato la morte dell'imperatore Giustiniano, ciò nonostante il fatto potrebbe essere realmente avvenuto, quantunque il cronista sembri enfatizzarne le conseguenze. Sull'abbandono della città antica e sulla probabile vacanza della cattedra vescovile a Fossombrone in età longobarda v. nota precedente. 47 G. RAVEGNANI, Kastron e Polis: ricerche sull'organizzazione territonale nel Vl secolo, «Rivista di studi bizantini e slavi», 2 (1982), pp. 271-282, cfr. part. Ie pp. 280-282, A. CARILE Introduzione alla storia bizantina, Bologna 1988, pp. 68 e 76-77. 48 N. ALFIERI, L'insediamento urbano sul litorale delle Marche durante l'antichità e il medioevo, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d'Occident (Colloques internationaux du Centre national de la recherche scientifique, n. 542), Paris 1977, pp. 87-96, cfr. p. 93. Circa le ripercussioni dell'invasione longobarda sulla vita delle città cfr. DELOGU, Longobardi e romani cit., pp. 157-160, il quale sottolinea la coincidenza tra aree di crisi delle città e frontiere longobardo-bizantine. 49 G.P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in ID., L'età longobarda, II, Milano 1966, pp. 11-673, cfr. pp. 131-132. 50 Sulla struttura di Castel Petroso, il cui impianto è fatto risalire al tardo-antico, v. A. FIECCONI, Luoghi fortificati e strutture edilizie del Fabrianese nei secoli XI-XIII, «Nuova rivista storica», LIX (1975), pp. 1-54, part. pp. 32-48. 51 F. SCHNEIDER, Die Reichsvermaltung in Toscana von der Grundung des Langobardeureiches bis zum Ausgang der Stanfer (568-1268), I, Die Grundlagen, Rom 1914 pp. 36-38. Sulle fortificazioni d'origine antica e altomedievale,
sul limes bizantino e sui sistemi difensivi longobardi v. G. SCHMIEDT, Le fortificazioni altomedievali in Italia viste dall'aereo, in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XV), II, Spoleto 1968, pp. 859-927, part. pp. 893-918. 52 DELOGU, Il Regno longobardo, in P. DELOGU-A. GUILLOU-G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 1-216, cfr. pp. 72-75. 53 Ibidem, pp. 107-110. 54 F. SABATINI Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell'ltalia mediana e meridionale, Atti dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XXVIII (19631-964), pp. 123-249, cfr. pp. 146-158; C.A. MASTRILLI, Tracce linguistiche della dominazione longobarda nell'area del ducato di Spoleto, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, II, Spoleto 1983, pp. 655-667, cfr. p. 660. 55 SABATINI, op. cit., pp. 171-] 84. 56 MASTRILLI, Op. cit., p. 662. 57 SABATINI, op. cit., pp. 166-167; MASTRILLI, op. cit., p. 660, BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 793794. 58 GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 98-108. 59 Le fonti sul possibile ingresso (in due distinti momenti: con la spedizione di Alboino nel 568-69 e sotto la guida di Alzeco poco prima del 668) dei Protobulgari in Italia sono: PAULI Hist. Lang., II, 26 e V, 29, ed. cit., pp. 86-87 e 154; THEOPHANIS Chronographia (297) rec. C. de Boor, I, Lipsiae 1883, p.357, NICEPHORI, Opuscula historica, ed. C. de Boor, Lipsiae 1880, p. 34; LANDOLFI SAGACIS Historia Romana, XXI, 19, a cura di A. Crivellucci, II, Roma 1913, pp. 153-154. Riferendosi alla grande Bulgaria ticinese F. SCHNEIDER, Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien. Studien zur historischen Geographie, Verfassungs- und Sozialgeschichte, Berlin 1924, pp.3435, ritiene la testimonianza di Paolo Diacono attendibile. Secondo BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelsepno cit., pp. 336, 338 e 342-343, i Bulgari entrati in Italia non facevano parte dell'esercito di Alboino ma, venuti al servizio dei Bizantini nel sec. VII, avrebbero tradito l'Impero passando dalla parte di re Grimoaldo, che li avrebbe fatti stanziare in molti luoghi strategici, dal Comasco al Molise. Per una disamina della Bulgaria ticinese e delle questioni connesse v. A. CAVANNA, Fara sala arimannia nella storia di un vico longobardo, Milano 1967, pp. 75-118, il quale, accogliendo in parte le osservazioni linguistiche del Serra, ritiene impossibile che i numerosi toponimi italiani del tipo Bulgaro e Bulgaria abbiano tutti una origine etnica, e del resto un gruppo barbarico esiguo (come i Bulgari del condottiero Alzeco al tempo di Grimoaldo) non avrebbe potuto essere disperso su un'area così vasta, ma solo nel Sannio e, in misura minore, nell'Esarcato: va notato tuttavia che l'A. espone con dovizia di particolari una serie di caratteristiche del distretto fiscale e militare (a quanto pare acefalo e dotato di una catena di castra) oggetto del suo studio, le quali mostrano significative analogie con la Bulgaria della bassa valle del Cesano, per la quale v. BERNACCHIA, L'assetto territonale cit., pp. 683-714. 60 Gli itinerari romani pongono sulla Flaminia la mutatio ad Calem, definita vicus nell'Antoniniano: MILLER, Itineraria Romana cit., col. 306, RADKE, Viae publicae Romanae cit., pp. 230-232. Si registra nel contempo il silenzio delle fonti su un municipio di Callis postulato dagli storici locali. Soltanto nel 359 è attestato il vescovo Grecianus a Calle (MIGNE PL., 10, col. 697), che F. LANZONI, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I, Faenza 1927, pp. 188-189 e 494, assegna a Calvi in Campania; nel contempo Servio equipara Cagli in Flaminia ad una civitas (SERVI GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, II, rec. G. Thilo, Hildesheim 1961, p. 188). 61 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 16-17. 62 V nota 36. Cfr. anche O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati di Spoleto e di Benevento, I, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VI (1952), pp. 1-46, a p. 17. 63 LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp. 21-59: la tesi qui esposta è stata sostanzialmente ribadita in ID., Storicità e antistoricità di un territorio di confine: il Montefeltro, in Territori, strade e comunità d'insediamento attraverso la lunga durata (Atti del 4° Convegno di storia territoriale, Pavullo nel Frignano (Mo), 20-21 ottobre 1984), Modena 1986, pp. 77-87, cfr. pp. 83-86. 64 G.P BOGNETTI, Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, in ID., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 439-475: v.a. nello stesso volume Il ducato longobardo di Spoleto pp. 485-505. La tesi del Bognetti è stata accolta da C.G. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell’Umbria alto-medioevale, in Aspetti dell'Umbria cit. (a nota 17), pp.103-125; ma a sostegno di essa lo studioso friulano non ha recato un grosso contributo limitandosi a segnalare (pp. 105-111) i titoli "romani" assunti dai duchi e alcuni aspetti peraltro controversi, dell'ordinamento territoriale come caratteristici della formazione politica spoletina. 65 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 29-31. 66 BOGNETTI, Tradizione longobarda cit., pp. 459-463. 67 La tradizione risale a C. SIGONIO, Historiarum de regno Italiae libri quindecim, Bononiae 1580, p. 19; per le opinioni degli altri eruditi e studiosi v. F. FELICIANGELI, op. cit., pp. 5-ó. 68 PAULI Hist. Lang., V, 16, ed. cit., p. 151, cfr. CONTI, Il ducato di Spoleto cit., p. 305; F. GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto. Istituzioni, poteri, gruppi dominanti, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1983, pp. 77-122, part. pp. 83-84.Il BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VIII (1954), pp. 1-22, part. pp. 4-12, pur ammettendo un comprensibile atteggiamento ostile del precedente duca Atto nei riguardi della spedizione a
Pavia di Grimoaldo, ancora duca di Benevento, nel 662, giudica infondata l'ipotesi del BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelseprio cit., p. 521, che parla di segrete intese tra papa Vitaliano e il suddetto duca al tempo dello sbarco a Taranto di Costante II nel 663 poiché non risulta una vera defezione di Atto dopo che Grimoaldo divenne re, né si ha notizia dl una sua morte violenta o di sua deposizione. Pare invece che sia Grimoaldo che Trasmondo di Capua trovassero amicos et adiutores nello Spoletino e nella Tuscia nel corso della spedizione di cui sopra. 69 GREGORII Reg. ep., V, 36, ed. cit., I, pp. 317-320 (giugno 595); V, 39, ed. cit., I, pp. 326-329 (l giugno 595); cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 11-13 e 30-31. 70 GREGORII Reg. ep., IX, 44, ed. cit., II, pp. 70-72 (ottobre 598), cfr. FELICIANGELI, Op. cit., pp. 41-45, BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-36, e GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 75. 71 GREGORII Reg. ep., IX, 66, ed. cit., II, pp. 85-86; cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-38. 72 Suppone razzie di Longobardi spoletini in territorio emiliano nel corso di tregue fra esarcato e regno longobardo CARILE, Dal V all’VIII secolo cit., p. 35, anche LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp.31-32, vede un perdurare della guerra fra Bizantini e Longobardi oltre la fine del sec. VI, nonostante le tregue e i trattati di pace, specie nei distretti montani, con inevitabili continue variazioni della linea di frontiera. 73 v nota 31. 74 O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, III, Rivista di storia della Chiesa in Italia, IX (1955), pp. 1-57, part. pp. 1012, ritiene l'evento possibile. Al contrario il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 308-309, considera la notizia dell'impresa di Faroaldo II come il riflesso di un'aspirazione politico-ideale, la quale legasse il nome di costui alla città che l'omonimo fondatore del ducato aveva un giorno tenuto. 75 PAULI Hist. Lang., VI, 44, ed. cit., p. 180. 76 DELOGU, Il Regno longobardo cit., pp. 152-163. 77 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., p. 66. V.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128: «provincia Picinum Spoletii Sauciensis». 78 GREGORII Reg. ep., IX, 58, 59 e XIII, 18, ed. cit., II, pp. 81, 82 e 385, cfr. E ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano per un dramma di amore e di morte, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 961-1116, part. pp. 981-982, P. BOGLIONI, Spoleto nelle opere di Gregorio Magno, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 267-318, alle pp. 314 e 315. 79 Nei riguardi del significato tecnico di fara come presidio di un castrum o castellum o di località avente comunque valore strategico esprime perplessità O. BERTOLINI, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in Ordinamenti militari cit. (a nota 51), pp. 429-607, alle pp. 508-510, pur accettando l'ipotesi che i Longobardi, nei primi decenni della conquista e degli stanziamenti, combattessero in gruppi formati sulla base dei legami parentali detti appunto farae; il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 86-93, dalla dislocazione delle fare m tutta Italia, nonché dalla loro costante connessione con castra e castella, trae la convinzione che questa fondamentale struttura demica dei Longobardi «divenisse altresì la struttura basilare del loro dominio militare e quindi politico», nel mentre respinge l'interpretazione del termine nel senso di "corpo di spedizione". Sulla collocazione delle fare cfr. anche CAVANNA, Fara sala arimannia cit., pp. 82-83. 80 Codice diplomatico longobardo, V/1, a cura di H. Zielinski, Roma 1988, pp. 48-53 n. 11, e IV/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1981, pp. 112-115 n. 38: «Rabenno, fil(ius) quondam Rabennonis comitis civ(itatis) Firmane» (a. 787). 81 Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 78-83 n. 28. 82 GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 89-93, sulla dialettica comes-gastaldus cfr. G.P BOGNETTI, Il gastaldato longobardo e i giudicati di Adaloaldo, Arioaldo e Pertarido nella lite fra Parma e Piacenza, in ID., L'età longobarda, I, Milano 1966, pp. 219-274, alle pp. 262-270. Su posizioni vicine a quelle del Gasparri, riguardo ai comites, è CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 49-50, il quale, tuttavia (pp. 42-49), crede piuttosto a un ordinamento territoriale del ducato spoletino imperniato sui gastaldati. 83 BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 484-487. 84 Nel doc. del 748 (cit. a nota 80) accanto a Rabenno sottoscrivono come testimoni altri due conti, Ansualdo e Teutprando. Al giudicato di Ildeprando del 776 (cit. a nota 81) presenzia anche “Halo com(es)”. Quest'ultimo, di cui non si specifica mai l'appartenenza territoriale, potrebbe identificarsi con «Alo» presente con «Lupo ... comites» ad un altro giudicato di Ildeprando del 777 (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 83-87 n. 29) e con «Halone, Lupone ... gastald(iis) et comitib(us)» figuranti nel 781 fra gli iudices di un giudicato dello stesso duca (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 99-104 n. 35). 85 I placiti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, I, Roma 1955, pp. 74-77 n. 24 (a. 811) e pp. 123-125 n.39 (a. 829). Sui gastaldi, poi conti, di Camerino nel sec. IX cfr. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell'Umbria cit., pp. 121123, il quale si rifà tuttavia a date diverse rispetto ai succitati documenti. Il BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza cit., pp. 16-17, avanza l'ipotesi dell'esistenza, nell'ultima età longobarda, del gastaldato di Osimo, fondandosi sulla peticio libelli che Giovanni gastaldo rivolge ad un arcivescovo ravennate di cui non si conosce il nome, per un suolo di terra entro la città di Osimo (Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 79-80 n. 146). Pur essendo questa registrazione priva di elementi di datazione, lo stesso Baldetti ammette che essa si riferisce ad un periodo immediatamente successivo al 774 e, dal momento che si ignora la natura dei poteri eventualmente esercitati da tale gastaldo, appare azzardato risalire da questo al gastaldato longobardo. D'altronde nemmeno la peticio del gastaldo Radigisi all'arcivescovo Valerio (806-810), relativa a 4 once di terra del fondo Lotaciano nel territorio di Osimo
(Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 75 n. 135), ci aiuta a risolvere il problema, rivelandoci generiche tracce di una presenza e influenza dei Longobardi nell'Osimano. 86 E. ARCHETTTI GIAMPAOLINI, Aristocrazia e chiese nella Marca del Centro-Nord tra IX e XI secolo, Roma 1987, pp. 40-42. 87 FIECCONI, Luoghi fortificati cit., pp. 2-3 nota 5; V. VILLANI, Nascita di un comune. Serra dei Conti nel comitato di Senigallia (sec. X-XIII), [Serra de' Conti] 1980, pp. 6-15, ID. Serra de' Conti. Origine ed evoluzione di un'autonomia comunale (secoli X-XV), [Serra de' Conti] 1995, pp. 64-71; BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 840-841 e 850852. 88 Archivio capitolare di S. Severino Marche, Chiese diverse, cas. XXXV, n. 1 (a. 944). Il doc. è pubblicato in G. CONCETTI, La canonica di S. Severino in Sanseverino Marche, 944-1586, Falconara M. 1966, Appendice, pp.193195 n. I, e in R. PACIARONI, Qualche ipotesi sull'evoluzione della pieve di Settempeda, «Miscellanea settempedana», V (1991), pp. 133-152, Appendice, pp. 148-149 n. 1. 89 Sui gastaldati minori nello Spoletino v. E. TAURINO, L'organizzazione territonale della contea di Fermo nei secoli VIII-X. La persistenza della distrettuazione minore longobarda nel ducato di Spoleto: i gastaldati minori, «Studi medievali», s. III, XI (1970), pp. 659-710, part. pp. 699-710; E. SARACCO PREVIDI, Lo sculdhais nel territono longobardo di Rieti (sec. VIII e IX). Dall'amministrazione longobarda a quella franca, «Studi medievali», s. III, XIV (1973), pp. 627-676, part. pp. 661-667 J.-P. BRUNTERC'H, Les circonscriptions du duché de Spolète du VIIIe au XIIe siècle, in Atti dei 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 207-230, part. pp. 212225. 90 Per una panoramica sui castelli longobardi e bizantini con proprio distretto amministrativo si veda SCHNEIDER, Burg und Landgemeinde cit., pp. 3-69. Sul distretto del Seprio v. BOGNETTTI, S. Maria f. p. di Castelseprio Cit., pp. 80-90. 91 V. nota 36. 92 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 39-41 n. 76 (registrazione di peticio forse del sec. VIII), cfr. A. CARILE, Katholikà / Catholica / La Catolga, in A. CARILE-M.L. DE NICOLÒ Cattolica / Katholikà. Un arsenale dell'Esarcato, Milano 1988, pp.7-23, part. pp. 10-14; ID. Materiali Cit., pp. 240-241. Conca e Luceoli rientrano nell'elenco di civitates che l'abate Fulrado consegnò al beato Pietro nel 756 (Liber pontificalis, Stephanus II, 254, ed. cit., p. 454). Su di esso v.a. F. V. LOMBARDI, "Crustumium a quo oppidum". (Note storiche sul fiume e sul castello di Conca), in Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di P Méldini-P.G. Pasini-S. Pivato. [Cattolica-Rimini] 1982, pp. 145-163. 93 V. nota 87. 94 Carte di Fonte Avellana, a cura di C. Pierucci e A. Polverari, 1 (975-1139), Roma 1972, pp. 55-57 n. 22. 95 R SASSI, Le carte del monastero di S. Vittore delle Chiuse sul Sentino, Milano 1962. 96 TAURINO, op. cit., pp. 659-710. 97 La SARACCO PREVIDI, op. cit., pp. 666-667, è del parere che in età carolingia si possano cogliere i primi spunti di un'articolazione del territorio che si attuerà nella sua pienezza solo in età postcarolingia; D. PACINI, I "ministeria" nel territorio di Fermo (secoli X-XII), «Studi maceratesi», 10 (1974), pp. 112-172, part. pp. 116-117, avanza l'ipotesi che i ministeria siano distretti amministrativi della diocesi fermana organizzati dalla fine del sec. X in coincidenza col passaggio dal potere comitale a quello vescovile; secondo G. FASOLI, La Pentapoli fra il papato e l'Impero nell'alto medio evo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 55-88, cfr. p. 62, la denommazlone di ministerium sa più di carolingio che di longobardo o di bizantino. 98 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 842-843. 99 Liber pontificalis, Gregorius ll, 184-185, ed. cit., pp. 404-405, PAULI Hist. Lang., VI 49, ed. cit., p. 181. Un indizio sull'esistenza dei ducati longobardi di Ancona e di Osimo verso la metà del sec. VIII è dato dall'assenza delle due città, oltre che di Numana, dall'elenco dei centri restituiti al beato Pietro nel 756, per cui v. qui a nota 28. L'elenco delle civitates da restituire alla res publica è il risultato di trattative intercorse tra Romani Franchi e Longobardi (O. BERTOLINI, Astolfo, re dei Longobardi, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp.467-483, cfr. pp.477-478): questi ultimi apparirebbero perciò interessati a mantenere il controllo del triangolo strategico costituito dalle tre città pentapolitane. Del resto la loro conquista, come fa osservare O. BERTOLINI, Roma di fronte a Bizanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, p. 574, non era stata opera di Astolfo, bensì risaliva appunto ai tempi di Liutprando: per questa ragione esse furono escluse in un primo tempo dalle trattative, divenendo solo in seguito oggetto di rivendicazione da parte della Chiesa di Roma. Sulla permanenza di Ancona Osimo e Numana nelle mani dei re longobardi dopo la seconda pace di Pavia v. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 60-61. 100 BERTOLINI Roma di fronte a Bisanzio cit., p. 684; FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 59-60. Tuttavia, secondo lo stesso BERTOLINI, I papi cit., III, pp. 33-40, la resa volontaria di Osimo avrebbe permesso ai guerrieri di Liutprando di valicare il Musone e di impadronirsi anche di Numana e di Ancona. Le schiere del re, pertanto, sarebbero penetrate da sud - e non da nord - nella Pentapoli, occupandone soltanto l'estremità meridionale. L'A. ritiene anche (p. 37 nota 63) che queste operazioni non comportassero il passaggio delle truppe regie nei territori del ducato di Spoleto (due affermazioni che risultano, a mio avviso, difficilmente conciliabili. 101 BERTOLINI, I papi cit., III, p. 48. 102 PAULI Hist. Lang., VI, 56, ed. cit., p. 185.
103 PAULI Hist. Lang., VI, 54, ed. cit., pp. 183-184: qui l'A. vuol ricordare le poche sconfitte subite da Liutprando ad opera dei Romani, fra cui quella patita, in sua assenza, dal suo esercito in Rimini. Il particolare è notevole e orienta a ritenere che la via abituale percorsa dal re per penetrare nella Pentapoli fosse quella che scendeva da nord. 104 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 310-315. 105 PAULI Hist. Lang., VI, 57, ed. cit., p. 185. 106 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 144 e 3 l3-314. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 80-81, ritiene il duca Lupo (745-751) un partigiano di Ratchis, ma lo suppone ostile ad Astolfo, che probabilmente nel 751 prese ad esercitare in prima persona i diritti ducali nella regione. 107 V. nota 80. 108 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 74 n 132. Sull'antroponimo germanico Bacaudanis v. S. LAZARD, Studio onomastico del "Breviarium ", in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" cit. (a nota 39), pp. 33-61, part. p. 39. Altre tracce della presenza longobarda nell'Osimano, dal Breviarium Ecclesiae Ravennatis, sono il fondo Longobaldie (pp. 67-68 n. 119 [850c.-878 o 905c.-914]), il fondo Sala Rupta (p. 86 n. 163 [927-971] e p. 68 n. 120 [971-983]), la "casa et curte Honorii sculd(ascii)" (pp. 79-80 n. 146), Leopardo q(ui) voc(atur) Maripassus (pp. 80-81 n. 149 [850c.-878 o 905c.-914]): su questo ed altro si veda BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., p. 836. Sulla questione dei gastaldi e del presunto gastaldato di Osimo si rinvia a nota 85. 109 I più recenti studi sull'argomento sono tornati a riaffermare l'equivalenza dei termini exercitalis e arimannus nelle fonti d'età longobarda, equivalenza che era stata negata da BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 572-580. Essi hanno inoltre affermato l'infondatezza della teoria classica, elaborata dalla scuola storico-giuridica, che vedeva negli arimanni un ceto particolare di coloni-soldati insediati su terra fiscale, l'arimannia appunto, proponendo invece l'identificazione degli arimanni-exercitales con tutti indistintamente i membri del popolo-esercito dei Longobardi, con l'unica esclusione dei liberi homines romani. Non essendo questa la sede per riassumere i termini della vexata quaestio, mi limito a rimandare a quei lavori, comprensivi di bibliografia sull'argomento, che hanno marcato più profondamente gli ultimi sviluppi del dibattito: G. TABACCO, I liberi del re nell'ltalia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966; ID., Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, «Studi medievali» s. III, X (1969), pp. 221-268; S. GASPARRI, La questione degli arimanni, «Bullettino dell'lstituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», n. 87, Roma 1978, pp. 121-153. C'è da aggiungere, però, che dopo la svolta impressa all'impostazione del problema dai contributi del Tabacco il CONTI, II ducato di Spoleto cit., pp. 247-282, senza mettere in dubbio l'equipollenza semantica tra arimannus ed exercitalis è tornato a sostenere la tesi di un uso specifico dei due termini, che indicherebbero i membri delle sequele dei re e degli iudices, in ciò riavvicinandosi alle posizioni cosiddette prefeudali del Bertolini. 110 A. SIMONINI, Autocefalia ed Esarcato in Italia, Ravenna 1969, pp. 150-151, CARILE Dal V all'VIII secolo cit., p. 358. 111 P. RUGO, Le iscrizioni dei sec. VI-VII-VIII esistenti in Italia, IV, Cittadella 1978, p. 28 n. 8; cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 62; ALLEVI, Nell’alto medioevo fermano cit., pp. 1057-1062. 112 Codice diplomatico longobardo, III/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1973, pp. 251-260 (part. p. 256) n. 44. 113 A POLVERARI, Senigallia nella storia, 2, Evo medio, Senigallia 1981, Appendice documentaria, pp. 215-221 nn. 1-4; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, 11, a cura di B. Lanfranchi Strina, Venezia 1981, pp. 13-14 n. 1 (a. 800). Il monastero di S. Maria di Sesto era stato fondato da Erfo, Marco e Anto, figli del duca Pietro del Friuli, poco prima del 762: Codice diplomatico longobardo, II, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1933, pp. 98-109 n. 162. Particolarmente importante, quindi, si rivela il legame che unisce la famiglia di Sergio al monastero friulano e alla stessa stirpe ducale del Friuli. 114 ANDREAE DANDULI Chronica per extensum descripta aa. 46-1280 d.C., a cura di E. Pastorello, in RR.II.SS., n. ed., XII/1, Bologna 1938, pp. 1-327, part. pp. 124-125. Sulla cronachistica veneziana riguardante il duca Sergio e sulle cronache senigalliesi (in particolare su quella più antica di G.E Ferrari del 1564 circa) v. A. POLVERARI, Una Bulgaria nella Pentapoli. Longobardi, Bulgari e Sclavini a Senigallia, Senigallia 1969, pp. 21-24 e 30-31, inoltre ID., Senigallia nella storia cit., pp. 53-57: il Ferrari presenta Sergio, figlio del duca Arioldo, come l'ultimo di una quasi ininterrotta serie di duchi longobardi di Senigallia dalla fine del secolo VI alla fine dell'VIII, di questi duchi, però, Sergio rimane l'unico storicamente accertato. Diversa è invece la ricostruzione degli eventi in L. SIENA, Storia della città di Sinigaglia, Sinigaglia 1746, pp. 77-84, il quale fa iniziare la dominazione longobarda nella città con la spedizione di Liutprando del 727 considerando implicitamente Arioldo, di nazione longobarda, come il primo duca di Senigallia, confermato in questa carica dal pontefice romano. 115 Sull'egemonia dell'aristocrazia friulana nel periodo di regno di Ratchis e Astolfo v. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 32-34. 116 Liber pontificalis, Hadrianus, 303, ed. cit., pp. 491-492, Pauli Continuatio tertia, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 212. Sembrerebbe plausibile l'inimicizia tra il padre di Sergio (v. qui a nota 114), in quanto esponente dell'aristocrazia veneto-friulana, e Desiderio, che invece rappresenterebbe la reazione dell'elemento tosco-padano allo strapotere dei gruppi parentali dell'Austria: cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 34. 117 GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 84-85; CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 315-317. 118 Liber pontificalis, Hadrianus, 311-313, ed. cit., pp.495-496; cfr. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 63-64. 119 note 81 e 83. 120 GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 26.
121 M.G.H., Dipl. Karol., I, 2° ed., Berolini 1956, pp. 213-216 n. 158 (diploma di Carlo Magno al monastero di Montecassino, a. 787): «... intra ambobus ducatibus nostris Spoletino atque Firmano»; cfr. GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 114-122. 122M.G.H., LL., II, Capit. regg. Franc., I, Hannoverae 1883, pp. 326-327 n. 163. 123 La suprema autorità giusdicente in Camerino era, agli inizi del sec. IX, un gastaldo (v. nota 85): i placiti da questi presieduti sono datati agli anni di un duca (Eccideo e Gerardo), che non è quello di Spoleto. Tali duchi rinviano pertanto ad una sede ducale che, per i motivi suesposti, non è nemmeno Camerino, bensì Fermo. Altri due documenti camerinesi, dell'821 e 834, sono datati «temporibus gerardi ducis» e «temporibus escrotoni et garardi comitum, anno ducatus eorum in dei nomine j. » (Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, pubblicato da I. Giorgi e U. Balzani, II, Roma l879, p.210 n.254, p.230 n.279). Discutibile, a tal proposito, la definizione di "duchi a Camerino" proposta dal GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., p. 119, il quale pure ammette che un "duca di Camerino" come tale non è mai nominato nelle fonti. 124 ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano cit., pp. 1084-1115. 125 GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 102-112.
Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni 'post obitum' nel regno longobardo
DE THESAURO IN COELO COLLOCANDO Aurea regna tenet supero thesaurus in aevo; Illic angelica praefulgida vestis habetur. Incorrupta manens semper sine fine beatis. Illic gemma nitet, pendentia pallia lucent Anulus, armillue, torques, dextralia, mitra, Aurea cuncta micant, lucentia cuncta coruscant. (Versus quod Smaragdus ad unum de filii Ludovici Pii misit, xii b.)
1. I doni di Rottopert Nel 745 Rottopert vir magnificus di Agrate affida a un atto scritto il destino delle sue sostanze 1. La sua principale preoccupazione è di prefigurare alle numerose donne della sua famiglia un futuro che non pregiudichi l'integrità del suo patrimonio. Le sorelle Galla e Rodelinda, le figlie Anselda e Galla, riceveranno in usufrutto alcune terre soltanto se conserveranno l'abito religioso, e cioè se non daranno alla famiglia una discendenza indesiderata. Solo per una figlia, Gradana, Rottopert ha pianificato un futuro di madre e di sposa, e considera una sventura che essa rimanga in cabello, cioè nubile nella casa paterna 2. L'atto comprende anche una serie di donazioni fondiarie a enti ecclesiastici locali, ma non riguarda gli eredi legittimi di Rottopert, ai quali spettano le sostanze tramandate a Rottopert dall'eredità paterna. Oltre agli aspetti che riguardano direttamente la pianificazione del futuro del nucleo parentale, l'atto si volge parallelamente a prefigurare la posizione di Rottopert nell'aldilà: una serie di clausole precisa infatti il modo in cui egli desidera essere ricordato nel giorno della sua morte. Egli stabilisce che alcuni suoi oggetti preziosi, un bacile e un gorale, cioè un calice d'argento 3, siano spezzati e distribuiti ai poveri. La cintura d'oro di Rottopert, denominata ringa mea aurea, dovrà essere invece riscattata dal figlio al prezzo di cento soldi, ma se egli non la vorrà anch'essa dovrà essere spezzata e distribuita in elemosina. Il rituale della rottura e della distribuzione degli oggetti sarà amministrato dalla moglie di Rottopert, Ratruda, il giorno stesso della morte del marito: suo compito sarà anche di distribuire ai poveri metà del vestitum del defunto 4. Questo documento testimonia con eccezionale chiarezza una serie assai rilevante di aspetti: esso non ci fornisce solo un esempio di strategia patrimoniale familiare, volta a limitare i danni di un eccessivo numero di donne all'interno della stessa famiglia, ma ci informa che alcuni degli oggetti che componevano un secolo prima il corredo funebre dei defunti erano utilizzati come dono ai poveri pro anima. Infine che il rituale della distribuzione e il rituale funebre non sono, come si potrebbe sulle prime ritenere, amministrati da un ecclesiastico, bensì da una donna, la moglie di Rottopert. La donazione di Rottopert può quindi costituire un utile punto di partenza per esaminare il processo attraverso il quale le aristocrazie del regno longobardo utilizzarono i documenti scritti in previsione della morte e le modificazioni nel rituale funebre che ne scaturirono. L'atto di Rottopert riguarda per giunta il territorio di Trezzo sull'Adda, il sito di una delle più importanti necropoli di età longobarda venute alla luce nel secondo dopoguerra 5. Voglio qui presentare i risultati di una ricerca ancora in corso sugli atti di tipo testamentario effettuati nel regno dei Longobardi fino alla piena età carolingia. Lo scopo consiste nell'esaminare quali esigenze e quale tipo di rapporto essi tendano a esprimere sia nei confronti del patrimonio familiare, sia nei confronti degli enti ecclesiastici che risultano ricevere i beni, globalmente oppure soltanto in parte 6. L'aspetto che intendo sviluppare in questa sede si riferisce in particolare al ruolo dei mobilia elencati nelle donazioni dell'VIII secolo e dei mobilia che normalmente si rinvengono nelle sepolture della prima età longobarda in Italia. Fonti per questo lavoro sono le donazioni post obitum (aventi
cioè valore solo dopo la morte del donatore) redatte in Italia nel corso dell'VIII secolo e la composizione dei corredi funerari utilizzati dai Longobardi nei due secoli precedenti 7. Di solito si afferma che la scomparsa dei corredi con armi dalle tombe dei Longobardi è dovuta alla conversione al cattolicesimo di questi ultimi. Mi sembra tuttavia che le linee di tale mutamento necessitino di ulteriori riflessioni. Infatti, anche per i Longobardi, non solo la mort du crétien divenne mort chrétienne 8, ma al contempo le istituzioni ecclesiastiche svilupparono un linguaggio e delle strategie atti a cooptare i Longobardi stessi. In questo processo convergente, alla cristianizzazione della morte dei Longobardi si accompagnò una 'germanizzazione' del cristianesimo, vale a dire una modificazione delle forme e dei modi attraverso i quali il cristianesimo fu vissuto e interpretato 9. Così come i cambiamenti nel corredo funebre dei Longobardi non consistettero in un supino e passivo processo di acculturazione - cioè nel progressivo adattamento agli usi della popolazione locale 10 anche l'adozione dei riti cristiani della morte sottintende una prospettiva di utilizzazione di essi radicalmente nuova, derivata dal convergere degli interessi patrimoniali delle aristocrazie con quelli di affermazione delle gerarchie ecclesiastiche nel disciplinare il funzionamento della società. Complessivamente il mutamento dei rituali funerari dei Longobardi è parte integrante del mutamento dell'aristocrazia e delle forme di trasmissione della proprietà nella società longobarda nel suo insieme: le istituzioni ecclesiastiche furono in grado di indirizzare tale cambiamento perché si presentarono, e furono intese, quale strumento di rafforzamento patrimoniale dell'aristocrazia stessa. Anni fa, in un volume ancora stimolante, Jack Goody ha proposto una stretta connessione tra il cambiamento della struttura della famiglia, i mutamenti della politica patrimoniale nei confronti della discendenza, e infine l'adozione del testamento nella società anglo-sassone. Questi tre aspetti sono interpretati come il frutto di un'azione coercitiva e disciplinante della chiesa nei confronti dell'aristocrazia laica: limitando fortemente il matrimonio endogamico - attraverso il quale i gruppi parentali erano in grado di mantenere compatto il patrimonio fondiario - la chiesa sarebbe riuscita a convogliare verso di sé le donazioni fondiarie, presentandosi quale ente in grado di far fruttare i beni stessi su due piani e in due mondi distinti. Se nel mondo ultraterreno i doni alla chiesa avrebbero guadagnato al donatore la salvezza dell'anima, nel mondo dei vivi essi avrebbero assicurato uno stabile rapporto di patronage tra i gruppi familiari e gli enti ecclesiastici. La stabilità sociale dei laici sarebbe stata garantita dalle donazioni dirette a enti dai beni inalienabili, impedendo la dispersione del patrimonio stesso 11. Anche se il modello proposto da Goody prospetta una opposizione del tutto astratta tra gli interessi dei laici e quelli delle gerarchie ecclesiastiche, vedendo i due gruppi separati assai più rigidamente di quanto non fossero in realtà 12, nondimeno risulta convincente la prospettiva di ricerca che osserva nella loro reciproca connessione le strategie di rafforzamento patrimoniale, l'azione delle istituzioni ecclesiastiche nel definire i modelli di famiglia legittima e incestuosa, e infine i mutamenti nella trasmissione della proprietà. Se l'attenzione di Goody e di coloro che si sono soffermati in seguito a definire i fenomeni di mutamento sociale nell'Europa altomedievale si è concentrata prevalentemente sui beni fondiari e sulle strategie per conservarli all'interno del gruppo familiare, io mi soffermerò invece sul ruolo dei beni mobili e sul cambiamento della loro funzione in relazione ai rituali connessi alla morte. Osserverò cioè lo slittamento dell'investimento familiare dal donare al morto un ricco corredo di armi o di gioielli all'elencare per scritto degli oggetti da distribuire pro anima. 2. Le donazioni 'post obitum': caratteristiche formali e strutturali Vale anzitutto la pena di chiarire quali siano le caratteristiche della documentazione scritta presa in esame. Nonostante il tema della morte e dei testamenti sia stato molto à la page negli ultimi vent'anni 13, manca ancora uno studio di insieme, sia diplomatistico, sia strutturale, sugli atti fatti in previsione della morte nell'Italia altomedievale. Una delle ragioni di tale disinteresse è stata motivata per il fatto che, come spesso è stato evidenziato dagli storici del diritto 14, durante l'alto medioevo non si fece più ricorso al testamento romano, un istituto formalmente codificato da clausole specifiche quali l'istituzione dell'erede, la presenza di sette testimoni, la possibilità della revocabilità espressa dal
codicilium 15. L'abbandono del testamento romano non significò tuttavia il venir meno di ogni forma di documento scritto avente valore soltanto dopo la morte: il testamento fu infatti sostituito da atti di tipo 'paratestamentario', noti attraverso i nomi di donatio pro anima, donatio post obitum, charta iudicati. Anche se dal punto di vista giuridico le donazioni post obitum non sono veri e propri testamenti romani, questa non appare una buona ragione per non esaminare affatto le forme con cui l'aristocrazia, maschile e femminile, laica ed ecclesiastica, volle pianificare il futuro dei propri beni e lo status del proprio gruppo parentale. Tali documenti rappresentano anzi un aspetto caratteristico, anche dal punto di vista formale, della trasmissione dei beni durante l'alto medioevo, cosicché “accentrare l'indagine su[i testamenti romani] e ricordare marginalmente [gli atti paratestamentari] significa non solo coartare tale realtà, ma rinunciare a coglierne i motivi di fondo” 16. Gli atti testamentari sono inoltre uno straordinario strumento di analisi sociale, la cui peculiarità non è soltanto formale ma anche di sostanza. La prospettiva del testatario è infatti duplice, come abbiamo visto nel caso appena esaminato di Rottopert: il documento è contemporaneamente volto a stabilire ciò che succederà dopo la morte sia su un piano ultraterreno (le modalità attraverso le quali il defunto dovrà essere ricordato pubblicamente dalla famiglia), sia su un piano rigorosamente terreno, delineando non solo le prospettive patrimoniali e di carriera dei singoli figli ma anche formalizzando per scritto i rapporti che la famiglia stessa intrattiene con alcuni enti ecclesiastici. I testamenti, insomma, sono miroir de la mort e al contempo miroir de la vie 17. Occorre poi sottolineare che se tecnicamente le donazioni pro anima e le donazioni post obitum sono negozi a titolo gratuito 18, dal punto di vista concreto esse si configurano come vere e proprie transazioni economiche. A fronte dei doni indirizzati a un ente ecclesiastico e ad alcuni membri del proprio gruppo parentale, il donatore si aspetta di ricevere in cambio la salvezza della propria anima e il rafforzamento patrimoniale della sua discendenza. La volontà del testatario non riguarda allora la legittima linea successoria, che in base al diritto longobardo, viene automaticamente a spartirsi i beni famigliari 19, bensì è volta a stabilire delle eccezioni, soprattutto per i beni che sono stati da lui acquisiti durante la sua vita 20. Come ha ben rilevato Adriano Prosperi, i testamenti servono a creare delle eccezioni, si inseriscono negli interstizi lasciati liberi dalla legge per condizionare il futuro, cosicché “a chi muore preme soprattutto regolare la successione dei suoi beni al di fuori delle norme successorie che altrimenti entrerebbero automaticamente in vigore” 21. Occorre tuttavia precisare che nell'alto medioevo il numero di individui che decise di affidare a un atto scritto il destino dei beni famigliari è assai esiguo e socialmente ristretto all'aristocrazia: esso comprende non soltanto gli ecclesiastici, ma anche laici (uomini e donne) e vedove in particolare. Si può allora ritenere che la stessa scelta di redigere un testamento faccia parte integrante degli strumenti di differenziazione di stile di vita dell'aristocrazia ed esprima, insieme ad altri aspetti, il bisogno di distinzione delle élites 22. Dunque, le donazioni post obitum sono uno dei molteplici strumenti scritti che esprimono la volontà di rafforzare i legami consolidati da un gruppo parentale, proiettandoli anche nel futuro. Tali esigenze sono pienamente espresse dal punto di vista formale, nella produzione di un tipo documentario largamente aperto a variazioni locali, ma che presenta una ossatura costante. Essa si compone di un protocollo, variamente articolato, in cui il donatore specifica le circostanze che lo hanno spinto a redigere l'atto; la dispositio può essere incentrata sia sull'elenco dei singoli beni, specificando il destinatario per ciascuno di essi, oppure, all'inverso, avere come elenco prevalente quello dei destinatari, specificando per ognuno di essi quali sostanze egli verrà in possesso. Queste variazioni nella struttura dell'elenco sono un fattore importante da considerare, perché nel primo caso il testo appare indirizzato a formalizzare per scritto le peculiarità patrimoniali, nel secondo sono invece sottolineati le relazioni sociali e i legami del donatore: la prospettiva del primo elenco è di consolidamento dello status acquisito, quella del secondo appare volta invece a delinearne una possibile evoluzione. Parte integrante della dispositio, sono infine le modalità rituali con cui il donatore dovrà essere ricordato sia immediatamente dopo la sua morte, sia negli anni successivi; l'escatocollo comprende infine la proibizione a venir meno alla irrevocabile volontà espressa dal donatore, e, come di norma, la serie dei sottoscrittori e la sottoscrizione del redattore dell'atto.
Rispetto alla struttura diplomatistica dei testamenti transalpini di età merovingia, esaminata in una serie di lavori recenti 23 le carte italiane presentano una maggiore ricchezza nel formulario del protocollo in cui costantemente si precisa il motivo che ha spinto il donatore a far redigere l'atto: la partenza per la guerra 24, la mancanza di figli maschi 25 o più semplicemente il desiderio di assicurare a sé e ai propri defunti una posizione stabile nell'al di là 26, e assai più raramente il timore della morte imminente 27, o la malattia 28. Di recente si è supposto che tali puntualizzazioni siano una diretta spia della novità che per i Longobardi rappresentava il far uso di documenti scritti per stabilire le proprie volontà dopo la morte: nell'Italia meridionale bizantina, dove si continuò semplicemente la tradizione precedente, le motivazioni che avevano spinto il testatario a redigere l'atto non compaiono quasi mai 29. Tuttavia, il fatto che le donazioni post obitum appaiano molto raramente in connessione con l'imminenza della morte, pone in rilievo che il loro valore principale fosse quello di garantire al testatario, durante il resto della sua vita, l'usufrutto e la disponibilità di alcuni suoi beni al sicuro da contestazioni. Torneremo più avanti sul problema. Le donazioni post obitum presentano una sorprendente uniformità, anche al di là delle variazioni che ho prima sottolineato, nelle categorie dei beni menzionati, cioè quelli che sono giudicati rilevanti per qualificare lo status del donatore: all'elenco dei beni fondiari, segue costantemente la menzione degli animali, dei servi (di cui si ordina la liberazione nel giorno della morte del donatore), e infine dei mobilia o scherpa, che possono sia essere elencati con precisione mentre si stabilisce chi ne verrà in possesso, sia essere menzionati cumulativamente, riservandosi la facoltà di donarli pro anima 30. Terra, animali, servi e mobilia vengono dunque a comporre la peculiarità patrimoniale di un'élite, che trova nel testamento l'occasione di elencare per scritto i beni che definiscono la posizione sociale, affermando le proprie caratteristiche attraverso uno strumento destinato a durare nel tempo. Elencare, prevedere e condizionare furono le opportunità offerte ai Longobardi dalla parola scritta, le cui molteplici funzioni e potenzialità essi avevano imparato ad apprezzare e a utilizzare attraverso la mediazione degli ecclesiastici. 3. I rituali funerari e le loro variazioni in età longobarda Occorre anzitutto soffermarsi, in generale, sul significato sociale della morte e dei rituali ad essa connessi. Per società non strutturate gerarchicamente attraverso un cursus honorum pubblico, quale fu inizialmente quella del regno longobardo 31, il mantenimento di uno status privilegiato è affidato non al ricoprire una carica pubblica, come nel mondo romano, bensì a una continua negoziazione 32: nell'alto medioevo un dives non può permettersi di essere parsimonioso, poiché l'ostentazione e la spartizione della ricchezza con i propri sodali rappresentano gli strumenti di consolidamento e conferma della ricchezza stessa e della posizione di centralità sociale dell'individuo 33. In questo contesto di relativa instabilità, la morte di un individuo costituisce un momento di potenziale di crisi per il gruppo parentale: esso tende pertanto a sviluppare un rituale atto a ribadire lo status del defunto, trasferendone le peculiarità su di sé 34. Le variazioni nei rituali della morte sono perciò strettamente connesse con i modi di trasmissione del potere e della rilevanza sociale nella società dei vivi. In età romana, si sa, le élites demandavano la continuità familiare alle iscrizioni e alle tombe famigliari anche monumentali, nei confronti di un'audience soprattutto urbana 35. Invece sepolture senza evidenti segni della loro presenza nel territorio, prive del ricordo scritto dell'identità dei sepolti - se non forse cumuli di pietre e, in casi eccezionali e urbani, le pertiche ricordate da Paolo Diacono fuori Pavia 36 ma che contengono al loro interno un defunto riccamente abbigliato pongono chiaramente l'accento sul momento dell'interramento come momento chiave della trasmissione delle peculiarità del defunto a coloro che, amministrando il rituale funebre, si proclamano suoi successori. Il momento dell'interramento è cioè quello nel quale la comunità ha la possibilità di vedere il defunto riccamente abbigliato e una famiglia ha di proclamare la continuità del suo status. I corredi funebri di armi e gioielli sono la prova che, almeno fino alla metà del VII secolo, i Longobardi affidavano al momento della sepoltura e delle cerimonie a essa collegate un grande valore simbolico e celebrativo, volto ad assicurare ai discendenti le prerogative sociali del defunto espresse e definite attraverso il suo
corredo. Si tratta cioè di un rituale amministrato dal gruppo parentale, privo di forme esteriori durevoli nel tempo, che si indirizza a una comunità locale e affida alla tradizione orale il ricordo delle cerimonie funebri e la memoria del prestigio familiare 37. Le variazioni nelle componenti del corredo, attraverso il ricorso a oggetti più o meno suntuosi, in stile 'germanico' o 'bizantino', sono la spia più efficace di quanto mutevoli e soggetti ai modelli elaborati in sede locale fossero gli strumenti con cui lo status era affermato e percepito 38: gli elementi del corredo funebre non erano stabiliti rigidamente per sottolineare l'appartenenza etnica, ma scelti di volta in volta per ostentare il prestigio sociale negoziato localmente. Non c'è dubbio che lo stanziamento in Italia da parte dei Longobardi costituì un forte mutamento: come ha brillantemente sintetizzato Paolo Cammarosano, oltre che di un mutamento per la storia d'Italia si trattò di una importante frattura per la storia dei Longobardi stessi 39. Per l'aspetto che qui ci interessa, a partire degli ultimi anni del VI secolo e fino almeno al primo venticinquennio del VII secolo, essi accentuarono fortemente il carattere di ostentazione sociale delle sepolture con corredo, moltiplicando gli oggetti preziosi tesaurizzati 40. Si potrebbe dire che nel momento del radicamento territoriale nel mondo latino, le forme peculiari di sepoltura dei gruppi Longobardi furono ulteriormente enfatizzate e presentate come attributo distintivo delle élites. Rispetto alle deposizioni della Pannonia e del primo periodo italiano, le élites del III secolo sono seppellite con oggetti che si riferiscono a tre classi tipologiche: l'abito funebre (decorato da fibule, cinture, vesti di broccato d'oro), le armi (se si tratta di sepolture maschili), i gioielli (se si tratta di sepolture femminili) e infine gli oggetti riferibili al banchetto, generalmente deposti ai piedi. Questi ultimi comprendono recipienti di vetro, bacili e brocche di bronzo, e infine recipienti di ceramica. L'arricchimento del corredo può essere spiegato attraverso il processo di progressiva trasformazione dei mezzi di ostentazione sociale da parte dell'aristocrazia longobarda: il radicamento territoriale aveva infatti profondamente mutato i valori e le azioni in base alle quali un uomo libero poteva dimostrare e conservare la propria specificità in una società semi-sedentaria, quali l'abilità nella razzia e nel raccogliere un ricco bottino, e il diritto di partecipare all'exercitus. Con l'insediamento in Italia, la nuova condizione di proprietari fondiari, pur permanendo la partecipazione all'exercitus come attività principe dell'uomo libero, sembra aver comportato una ridefinizione e un arricchimento della social persona: le sole armi - la componente principale dei corredi maschili pannonici - non risultarono cioè sufficienti a definire la più ampia sfera di relazioni delle aristocrazie. Ricche vesti, guarnizioni da cintura di oro e di argento, cioè oggetti di ornamento personale, si accompagnarono sempre più frequentemente a oggetti relativi al banchetto che sottolineavano la prodigalità del defunto e della famiglia nello spartire le proprie ricchezze in occasioni collettive e conviviali, volte a consolidare la fama e il rispetto 41. La stessa selezione delle armi tesaurizzate si ampliò, venendo a comprendere anche armi difensive quali l'elmo e la corazza, e parimenti potenziando gli elementi decorativi delle armi tradizionali, la spada e lo scudo 42. Se questo processo di ostentazione e stravaganza funeraria sembra riguardare nel complesso le sepolture in Europa, specie tra quelle popolazioni che non avevano ancora instaurato uno stabile rapporto di collaborazione politica con le élites ecclesiastiche, è da notare come, a differenza di AngloSassoni 43, Alamanni 44 e Visigoti 45, i Longobardi tesero a sottolineare il proprio rango equestre: a partire dagli ultimi anni del VI secolo, compaiono infatti alcune sepolture in cui si può riconoscere l'intenzione di qualificare il sepolto come uomo armato a cavallo. Gli oggetti utilizzati si riferiscono all'equipaggiamento del cavaliere e alla bardatura del cavallo (gli speroni, le briglie, il morso del cavallo) e comprendono talvolta vere e proprie sepolture di cavalli, poste accanto a quelle umane, oppure in fosse separate 46. Se sicuramente i cavalieri ebbero una rilevante funzione militare oltre che uno status sociale elitario già nella fase pre-italiana dei Longobardi 47, le sepolture ritrovate in Pannonia, anch'esse con corredo, presentano soltanto in casi eccezionali gli arredi 'da cavaliere': il morso del cavallo e le guarnizioni delle briglie furono inoltre i principali oggetti utilizzati per definire tale condizione 48. L'esigenza di qualificare alcuni defunti come cavalieri sembra scaturire, o per lo meno essere accentuata, dallo stanziamento in Italia, quando il corredo tradizionale maschile (formato da una
semplice cintura con guarnizioni di ferro, spada e scudo) non risultò più adeguato a esprimere con la dovuta efficacia la peculiarità di un'élite di possessori armati 49. Il confronto con la cronologia europea della distribuzione spaziale e temporale delle tombe da cavaliere permette di proporre, se non altro come ipotesi di lavoro, l'interpretazione fornita da Klaus Randsborg per i corredi equestri che si diffusero, in soluzione di continuità con la tradizione precedente, nella Danimarca del X secolo: essi paiono infatti esprimere l'ostentazione di un nuovo strato sociale di leaders armati, formatosi in concomitanza al processo di distribuzione delle terre che accompagnò il consolidarsi del regno 50. L'ostentazione equestre sarebbe allora ricollegabile a forti mutamenti nella composizione sociale delle élites e coloro che tendono a manifestarla si presentano come veri e propri parvenus. Si è detto che i corredi equestri si accompagnano, di norma, con un apparato ridondante di corredo, che testimonia il notevole investimento effettuato dalla famiglia (anche in termini economici) nel dotare il morto di oggetti volti a caratterizzare appieno le qualità e il rilievo della sua social persona e del gruppo parentale. Vale la pena di notare che, parallelamente al cambiamento che si è finora delineato, se ne affiancò un secondo, finora non sufficientemente messo in rilievo. Mentre le deposizioni femminili pre-italiane e relative al periodo immediatamente successivo alla migrazione dei Longobardi presentano corredi assai semplici, in genere limitati a scarsi ornamenti di abbigliamento (in genere la coppia di fibule ad S 51) le tombe equestri sono puntualmente accompagnate da tombe femminili che presentano un parallelo carattere di eccentricità. Accanto ai monili trovano cioè posto offerte funebri del tutto simili, quantitativamente e tipologicamente, a quelle dei cavalieri. Se nel VI secolo appare assai problematico individuare, sulla sola base dei corredi femminili, dei caratteri precipuamente distintivi di diverso stato sociale, all'inizio del VII secolo pare manifestarsi l'intenzione di indicare con chiarezza un modello di deposizione femminile che potremmo chiamare 'le donne del cavaliere' intendendo con questa espressione gli elementi femminili collegati in vario modo (moglie, figlia, sorella) con il defunto. In questa fase di mutamento, le donne paiono poter utilizzare, condividere, ma soprattutto contribuire ad affermare i simboli di status del loro gruppo parentale 52. 4. La Chiesa e le donne E in questo contesto, in cui assistiamo alla formazione di un nuovo ceto di possessori, che si può inserire una variante in controtendenza. Narra la Vita di Gertrude, badessa del monastero regio di Nivelles e figlia di Pipino e Itta, scritta alla fine del VII secolo, che all'approssimarsi della morte ella volle che “in ipso sepulture loco nullum laneum nec lineum vestitum super se misissent praeter unum velum vile multum [...] et ipsum cilicium: in sepulcro, ubi in pace quiescit, nullo alio velamine cooperire, exceptis his duobus, cilicio, quae induta fuerat, et panno vetere, quod ipsum cilicium tegebatur. Dicebat autem quod res superflua nihil morientibus nec viventibus adiovare potuisset” 53. Per contrapposizione alle ricche sepolture con corredo che avevano, per esempio, accompagnato le sepoltura di Baltilde, badessa di Chelles, e di Teodechilde, badessa di Jouarre 54, Gertrude volle sottolineare 1'umilitas, il disprezzo per le forme di ostentazione dell'origine sociale, quali le ricche vesti funebri. Giustamente si è rilevato quanto tale atteggiamento minimalista fosse proficuo nel definire il nuovo orientamento dell'aristocrazia merovingia nei confronti della morte 55. L'ostentato disprezzo delle usuali forme di celebrazione del prestigio sociale sottolineava infatti, attraverso il ribaltamento dei comportamenti tradizionali, la continua rielabolazione delle celebrazioni della morte di un gruppo sociale alla costante ricerca e ridefinizione della propria specificità. Il nuovo orientamento, che negava esplicitamente ogni valore simbolico agli oggetti sepolti con il morto, appare come una risposta aristocratica alla diffusione generalizzata dei corredi funebri, nel frattempo sempre più frequentemente composti da oggetti che semplicemente evocavano quelli tesaurizzati nelle ricche deposizioni dell'inizio del secolo 56.
Anche se riferita al peculiare contesto della società merovingia, ove la compenetrazione di ruoli e di interessi tra carriere laiche e carriere ecclesiastiche poteva certamente contare su una consuetudine di maggiore durata rispetto al caso italiano 57, la scelta di Gertrude può essere un utile punto di riferimento per comprendere in che termini si manifestò l'influenza ecclesiastica nel promuovere l'abbandono dell'uso del corredo tra i Longobardi, fenomeno ormai generalizzato durante il secolo VIII. Di recente Giovanni Tabacco ha sottolineato il peculiare rapporto che si era instaurato tra i Longobardi e le istituzioni ecclesiastiche locali, a partire dall'inizio del VII secolo. Nel regno dei Longobardi “le comunità monastiche si offrivano come ancora di salvezza religiosa, mezzo di acquietamento morale, garanzia di conservazione sociale per i possessori più trepidanti, mentre vescovi e abbaziati mantenevano aperte all'inquieta aristocrazia longobarda le vie della promozione individuale e parentale” 58: I'aggregazione attorno agli enti monastici dei gruppi parentali aristocratici non era però stata incentivata dall'intervento regio, così come era invece avvenuto nel regno dei Franchi, ma si era invece manifestata in modo del tutto spontaneo 59. Le istituzioni ecclesiastiche avevano cioè acquisito un ruolo non nel funzionamento del regno, bensì nel rafforzamento patrimoniale delle aristocrazie, esercitando una spontanea attrazione nei confronti dei laici grazie al rigore delle proprie tradizioni e alla gamma di strumenti culturali e di mezzi concreti di potenziamento che esse sole parevano offrire: il loro fascino risiedeva nell'essere rimasto un mondo governato da altre leggi, che aveva perpetuato lettura e scrittura come strumenti della propria specificità 60, Vi sono alcuni indizi per poter ritenere che tale 'fascino' si esercitò anzitutto sulle donne, offrendo ad esse, ai margini delle leggi consuetudinarie che regolamentavano i rapporti patrimoniali, l'opportunità di investire alcune delle loro sostanze come doni alla chiesa, salvaguardando sia una parte degli stessi beni per il proprio sostentamento sia la loro posizione in rapporto ai conflitti interni alla propria famiglia 61. L'esempio veniva dall'alto, come si può osservare dai rapporti epistolari intercorsi tra papa Gregorio Magno e la regina Teodelinda, e, successivamente, dalle donazioni fondiarie promosse dalle regine a favore di vari monasteri del regno 62. Il rapporto tra istituzioni ecclesiastiche ed elemento femminile della società si venne saldando grazie a una serie di rapporti di natura patrimoniale, che non furono necessariamente in antagonismo alle strategie patrimoniali parentali. Un censimento, recentemente effettuato, sull'andamento delle fondazioni monastiche femminili nell'Italia altomedievale, ha dimostrato che essi sono in grandissima parte fondati da laici, mentre i monasteri maschili presentano una percentuale assai più ampia di fondatori ecclesiastici 63: se in molti casi, come in quello di Rottopert e delle sue figlie, la monacazione serviva a orientare lo sviluppo famigliare e a limitare il numero dei discendenti, in altri la facoltà di donare alla Chiesa alcune sostanze poteva agire come strumento di rafforzamento individuale per le donne stesse. È infatti circa la possibilità di donare liberamente per le donne che l'Editto di Rotari interviene in maniera impositiva, quasi certamente sulla spinta delle pressioni di un conflitto esistente all'interno dei gruppi famigliari, stabilendo in modo irrevocabile il controllo maschile sulle attività patrimoniali delle donne 64. I contatti tra Chiesa e aristocrazia in Italia compresero, come è stato più volte sottolineato, una profonda modificazione culturale che consistette anzitutto nell'iniziazione alla parola scritta e al suo valore di testimonianza di prova nei conflitti, ma non solo. Dalla nostra angolazione ci interessa sottolineare che l'intensificarsi dei rapporti tra aristocrazia e gerarchie ecclesiastiche favorì, durante l'VIII secolo, l'immissione dei rituali funerari nell'ambito ecclesiastico, attraverso i crescenti rapporti che venivano stringendosi tra le donne e gli enti monastici. Ne derivò, anzitutto, un nuovo approccio alla commemorazione del defunto che interpretava la messa come mezzo per alleviare la sofferenza delle anime nell'aldilà e per espiare i peccati dopo la morte, favorendo la creazione di una serie speciale di messe commemorative, esplicitamente indirizzate a questo obiettivo 65. I riti funerari incominciarono cioè a orientarsi verso forme ecclesiastiche di celebrazione e di perpetuazione della memoria.
Il crescente peso dei monaci in questo ambito si manifestò su piani diversi: da un lato incoraggiò l'impiantarsi delle necropoli all'interno degli edifici ecclesiastici 66, dall'altro stimolò il ritorno della parola scritta come parte integrante della celebrazione della memoria individuale dei defunti, come testimoniano le numerose iscrizioni di regine e di aristocratiche pavesi, di recente riesaminate da Franca Ela Consolino 67; infine suggerì l'utilizzazione di alcuni mobilia come strumento di negoziazione del destino del defunto. Come la moglie di Rottopert, anche Ansa, moglie di Tenderacio di Rieti, ebbe dal marito il compito di distribuire pro anima caldaria II, concas de auricalco II, caballum maurum I et alium cavallum graum ed altri animali e servi, e di donare un cavallo ciascuno a tre preti minuziosamente indicati 68. Il rapporto tra figure femminili, enti monastici e celebrazione del rituale funerario risulta anche dal fatto che il compito di assolvere al rituale post mortem appare riservato alle donne anche nel caso che il testatario non abbia moglie o sorelle: è il caso di Anspaldo di Lucca che incarica Rattruda ancilla Dei parente mea, oltre che di reggere la chiesa di S. Maria fondata da Anspaldo stesso, anche di liberare i servi e di assegnare i monoilia (composti da ceramenta, ferramenta usitilia lignae) per la sua anima 69. Sembra allora che si possa supporre che le donne, tradizionali amministratrici del rituale funerario, abbiano contribuito in maniera non irrilevante nel promuovere una direzione ecclesiastica ai mutamenti nella celebrazione dei defunti, eleggendo i monasteri locali, e non i loro sepolcri personali, come i più efficaci custodi dei loro beni mobili. I rapporti tra donne e chiese locali si manifestarono anzitutto attraverso le donazioni dei propri beni individuali. Si tratta del morgencap, il dono che il marito faceva alla donna il giorno delle nozze, consistente in una serie di beni mobili 70 e beni fondiari 71, e del faderfio, cioè i beni famigliari donati alla donna dal padre come parte legittima dell'eredità in die votorum, il giorno in cui veniva stipulato il contratto matrimoniale 72. Sebbene più raramente, è attestata quale parte della donazione la quota ricevuta in eredità, alla morte del padre e della madre 73. Alcuni documenti, oltre a presentare la normale indicazione dei beni mobili indicati in modo globale con il nome di scherpa, presentano anche un elenco piuttosto dettagliato degli oggetti assegnati. Ne è esempio la serie di gioielli d'oro di abiti e di mantelli donati da Optileopa, moglie di Warnefrit, gastaldo di Siena nel 730, al monastero famigliare di S. Eugenio, fondato “pro redemptione animarum genitori et genitrici nostre et remedio anime nostre et pro animalus parentorum nostrorum qui iam fuere et qui per futura tempora fuerint” 74. In quest'occasione lo stesso Warnefrit coglie l'opportunità di elencare una serie di oggetti di metallo, di utensili di bronzo, di attrezzi agricoli che diventeranno in possesso del monastero 75, ponendo anche in rilievo la rarità di quegli stessi oggetti tra i normali utensili domestici 76. L'elenco scritto dei beni fondiari, dei mobilia, dei servi, degli animali, trasformava il testamento in un'occasione per elencare i beni stessi, ove cioè lista dei beni veniva ad assumere un valore altrettanto importante della loro destinazione, poiché definiva il rango del testatore stesso. Se non esiste alcuna proibizione a seppellire con un corredo funebre, esistono invece delle esortazioni precise ad affidare la continuità della famiglia non più nei doni al morto bensì in doni mediati dalla Chiesa, che si fa garante del patrimonio e del prestigio famigliare. La distribuzione dei mobilia in elemosina ai poveri viene ad assumere il valore di investimento per l'anima del defunto, ed è a volte sostituita, nella seconda metà dell'VIII secolo, con una quantificazione in moneta. Nel 765 il prete lucchese Risolfo si riservava 250 solidi dalle sue sostanze per ottemperare la commemorazione dei genitori: 150 per 1'anima del padre, solo 100 per la madre 77. Si noti in particolare l'affinità del rituale di rottura degli oggetti per l'elemosina funebre, utilizzato da Rottopert 78, con il rituale che aveva luogo al momento della monacazione: anche le regine merovingie Baltilde e Radegonda, al momento della loro entrata in monastero, deposero sull'altare alcuni oggetti preziosi stabilendo che il proprio “cingulum auri ponderatum fractum” fosse distribuito “in pauperum” 79. Sia per il defunto, sia per il monaco, il cambiamento di status è dunque sottolineato attraverso la privazione, la donazione e la distribuzione degli status symbols, quali anzitutto le cinture 80. Con le proprie preghiere, chierici e monaci si presentavano come ricettori efficacissimi di doni, poiché essi promettevano in cambio l'eternità e l'espiazione dei peccati: tra i compiti di Muntia,
Perterada e Ratperta, rispettivamente` madre, moglie e sorella di Ratperto di Pistoia, destinate alla monacazione presso il monastero dei SS. Pietro Paolo e Anastasio, vi è quello di pregare “pro anima mea gravata ponderis peccatis meis die noctuque” 81; Altiperga nel donare la sua casa alla chiesa di S. Salvatore di Valdottavo, chiede che il prete Lopardo dopo la sua morte “pro me peccatrice et indigna missas et orationes cottidie proficiscat” 82; Tenderacio, in partenza per la guerra, stabilisce che il monastero famigliare e i suoi beni siano destinati al monastero di Farfa, i cui monaci già “canunt pro antecessore nostro” affinché essi “pro anima nostra orent et pro nobis” 83. Tale rapporto si andava cioè strutturando in un organico scambio bilaterale di doni e di controdoni: da un lato i doni di terre e mobilia a chiese e monasteri permettevano alle aristocrazie di investire una parte delle loro sostanze in enti sotto il loro controllo; dall'altro, le donazioni incrementavano la credibilità degli enti stessi come efficaci intermediari con Dio 84, Il legame tra lo status sociale della famiglia, i riti funerari volti a perpetuarlo e il ruolo monastico nel suggerire le modalità più efficaci allo scopo, avrà come compiuta realizzazione, nella prima età carolingia, la disposizione scritta del luogo in cui si desidera essere sepolti: una voce che nelle carte longobarde non compare mai e fa la sua prima apparizione nel 768 a Rieti, quando il chierico Ilderico stabilisce che i suoi eredi “in ipsa ecclesia et in atrius ipsius ecclesie sepulturas sibi faciant”. La chiesa è quella di proprietà di Ilderico stesso, la donazione viene effettuata “pro anima fratris mei Valerini”, l'amministrazione dei beni della chiesa è affidata alla moglie Gutta “cum filiaLus suis”: si tratta dunque di un vero e proprio centro di commemorazione dinastica 85. D'altronde, proprio l'efficacia dell'investimento è l'elemento che viene costantemente e opportunamente utilizzato nelle arenghe delle donazioni. Esse, prendendo spunto da opportune citazioni evangeliche, esortano: “nolite thesaurizare vobis super terram, ubi furis effodiunt et furantur, sed thesaurizate vobis thesaurum in caelum, ubi fur, id est diabolus, non adpropinquat” 86, Come spiegare in modo più convincente a un longobardo, uso a concepire i doni come gli indispensabili strumenti delle proprie relazioni sociali, I'efficacia dei doni a Dio? Abbiamo già accennato che dal punto di vista del formulario i testamenti redatti nel regno dei Longobardi sono estremamente più ricchi e articolati di quelli transalpini: i notai e gli ecclesiastici che provvidero a redigerli esprimevano appieno, attraverso quel solenne e ridondante apparato di citazioni bibliche, le ragioni profonde che spingevano i testatori. 5. L’ambiguità delle vedove Lo stabile rapporto di protezione nei confronti di un ente ecclesiastico fungeva inoltre da involontario veicolo di autonomia per una categoria sociale molto diffusa anche in età longobarda, quella delle vedove. Come ha giustamente sottolineato Karl Leyser, l'altomedioevo è fitto di vedove attive, data la frequentissima forte disparità di età tra marito e moglie e il maggiore rischio di mortalità maschile che comportava l'esercizio dell'attività militare 87, In quasi ognuno degli atti post obitum che ho esaminato, le vedove compaiono o come diretto attore documentario, oppure risultano, in qualità di vedove a venire, usufruttuarie di una parte dei beni del marito 88, a patto che esse non si risposino per una seconda volta: in questo caso, si afferma, la donna torni in possesso del morgengap e dei suoi doni nuziali “et faciat quod vult” 89. Ma quest'ultima possibilità, a giudicare dalle carte coeve, non doveva risultare molto allettante, né fu frequentemente praticata, nonostante le comprensibili pressioni della famiglia di origine della vedova. È noto infatti che le donne sposate o laiche potevano intrattenere tali rapporti sociali soltanto attraverso la mediazione del proprio mundoaldo, che le rappresentava giuridicamente e pubblicamente: si è giustamente supposto che in tutte le carte ove compare una coppia di donatori (moglie e marito, più raramente padre e figlia, fratello e sorella) i beni donati siano quelli di proprietà della donna 90. Ben più fruttuoso, dal punto di vista dell'autonomia personale, risultava il discreto mundio ecclesiastico, grazie al quale le vedove sono di fatto in grado di avere rapporti sociali e di stringere legami clientelari 91 attraverso donazioni 92, vendite 93, permute e acquisti 94 di terra: le carte fatte redigere dalle ancillae Dei, non presentano infatti, in molti casi, la presenza di un componente maschile della famiglia di appartenenza che figuri acconsentire al negozio
stipulato 95; là dove tale certificazione formale è presente, le ancillae Dei compaiono comunque come attori documentari, appongono il proprio signum manus in testa alla lista dei sottoscrittori e sono denominate con gli appellativi che normalmente individuano la piena volontà e riconoscimento giuridico, traslati dal vocabolario maschile 96. L'esempio più noto, e forse più significativo nella sua eccezionalità, è d'altronde fornito dall'attività documentaria ed economica intrapresa dalla figlia del re Desiderio, Anselperga in qualità di badessa del monastero regio di S. Salvatore di Brescia, la quale, almeno dal punto di vista formale, appare come autonomo attore giuridico 97. Sullo stesso piano delle vedove compaiono poi le concubine di laici e di ecclesiastici, anch'esse designate quali usufruttuarie dei beni delle singole chiese, quando il donatore morirà 98. Lo stato di liminalità in cui le vedove si venivano a trovare comprendeva sia aspetti che ne accentuavano la debolezza, sia potenzialità di assicurare il proprio futuro. In particolare la possibilità di velarsi e di indossare la “nigram vestem quasi religiosam” 99, rimanendo non sposate, permetteva alle vedove di continuare a risiedere nella propria abitazione: esse risultavano di fatto sottratte alle pressioni dei gruppi parentali d'origine e d'acquisto, perché formalmente sottoposte all'autorità religiosa 100; d'altro canto l'impossibilità dell'obbligo a risiedere all'interno di un monastero permetteva loro una certa autonomia di vita, al riparo delle stesse costrizioni che la vita ecclesiastica imponeva 101. Nonostante le pressioni esercitate dall'autorità regia in età longobarda a non affrettare il momento della velatio e ad attendere almeno un anno dalla morte del coniuge 102, e poi inversamente dalle gerarchie episcopali carolingie a entrare in un monastero entro un mese 103, questi sforzi rimasero in gran parte inefficaci. Proprio l'ambito liminale della velatio entro la propria casa faceva delle vedove una categoria che l'autorità pubblica doveva proteggere ma anche tentare di controllare, poiché attirava su di sé il sospetto e l'antagonismo sociale: come intendere altrimenti il lungo capitolo 12 delle leggi di Arechi dedicato a reprimere con la monacazione entro un anno certe attività peccaminose delle muliercule velate di Benevento? Esse, si dice, “defunctis viris, maritalis dominaturae solutae” approfittano della loro condizione di libertà per recarsi alle terme, per pranzare e bere, per aggirarsi agghindate e truccate per la città, scatenando il desiderio di chi le vede. La promiscuità sessuale, seppur “non facile comprobatur”, viene allora indicata come una delle probabili conseguenze di tale fluida e flessibile condizione, esplicitando la profonda diffidenza e ostilità nei confronti dei comportamenti pubblici delle vedove, tanto da qualificarli come pestis execranda 104. Lo stato vedovile doveva riguardare molte donne ancora giovani (a giudicare dall'attrazione che esse esercitavano in pubblico) e fertili 105, la cui velatioimpediva al nucleo parentale nuovi collegamenti attraverso un secondo matrimonio. Non è un caso se tra tutte le carte redatte nell'Italia longobarda soltanto una volta assistiamo esplicitamente a seconde nozze e che l'esempio si riferisca a un elevatissimo grado sociale. Natalia clarissima femina, moglie dapprima di Alchis gasindio regio, e poi di Adelberto “antepor domne regine” 106 è infatti imparentata con una serie di personaggi collegati alla famiglia regia e specialmente alla clientela della regina Ansa 107: il suo matrimonio si può quindi collocare in una più ampia dimensione di alleanze patrimoniali direttamente correlate alla politica di rafforzamento della famiglia regia e degli enti ecclesiastici da questa controllati 108. Molto frequente è pertanto il caso di vedove che diventino ancillae Dei e che, attraverso le disposizioni pro anima del proprio marito, vengano a essere nominate usufruttuarie e reggenti di enti ecclesiastici: nel caso in cui il marito avesse disposto altrimenti, risultava perfettamente accettabile produrre una carta falsa in cui tale disposizione comparisse. È il caso di Ratruda, che riesce a vedere riconosciuta la propria autorità sullo xenodochio fondato dal marito nonostante l'opposizione del fratello del defunto. Infatti la donazione scritta (che Ratruda aveva probabilmente fatto confezionare) precisava che sarebbe stata lei stessa ad amministrare l'ente ove il vescovo di Pisa l'avesse retto indegnamente, e che sarebbe stato suo compito distribuire i mobilia del marito “in die obitus sui” 109. Le vedove ricorsero assai frequentemente a donazioni post obitum: non per il timore della morte imminente, ma per certificare attraverso un elenco scritto i loro possessi e il loro futuro sulla terra. Il momento della redazione dell'atto sembra cioè coincidere con la morte del marito stesso 110.
Il rapporto tra enti monastici e l'aristocrazia femminile si realizzava concretamente attraverso la normale procedura delle donazioni, specie quelle rivolte ai monasteri famigliari, che spesso destinavano al velo tutte le donne della famiglia: esse, di fatto, si trovavano perciò ad amministrare il patrimonio e le relazioni sociali dei monasteri stessi, attraverso le possibilità di usufrutto dei beni contenute nelle clausole delle donazioni stesse 111. Un esempio dell'elasticità con cui la vedova poteva agire, in accordo con il proprio gruppo parentale, nell'interpretare le donazioni, viene ancora una volta dalla famiglia di Natalia: sua madre, Radoara, dopo essere rimasta vedova dello strator Gisulfo e destinataria dell'usufrutto della metà dei suoi beni, chiede e ottiene da re Desiderio il permesso di vendere la metà della corte di Alfiano per potere ottemperare al suo dovere rituale di distribuire le elemosine a nome del marito. È il vescovo stesso di Lodi, nominato da Gisulfo esecutore testamentario, ad acconsentire a tale procedura: si tratta però, almeno in parte, di una vendita endogamica, poiché gli acquirenti sono il monastero regio di S. Maria e Arioald, fratello di Radoara; sottoscrivono all'atto i due fratelli e il genero di Radoara, indicando chiaramente il ramo della famiglia che sostiene la transazione 112, In altri casi, come quello di Magnerada di Campione, la donazione vedovile confluisce a rafforzare il patrimonio di monasteri privati, fondati dalla famiglia di origine della vedova, obbedendo a una logica di potenziamento interno l13. La debole condizione vedovile offriva, attraverso l'ambiguità della posizione sociale, gli strumenti per ottenere la protezione regia o ducale dalle pressioni esercitate dall'interno del nucleo parentale: Taneldis, vedova di Pando, ottiene dal duca di Spoleto Teodicio il permesso di donare al monastero di Farfa ciò che le era stato assegnato in usuirutto alla morte del marito. Il figlio Benedictus viene privato dell'eredità per il suo comportamento vessatorio nei confronti della madre, alla quale “multas (...) iniurias et amaritudines atque damnietates fecit, quod multis cognitum est” l14. La protezione monastica che Taneldis otteneva attraverso il dono di alcune terre, le permetteva cioè di raccordarsi direttamente con il più potente proprietario fondiario della zona e di liberarsi dall'invadenza di un figlio “rebellis et contrarius vel inobediens”. Il fascino ambivalente esercitato dalla chiesa, sia come rafforzamento del gruppo parentale, sia come veicolo di autonomia personale, è d'altronde direttamente visibile nelle fondazioni religiose femminili che numerose sorsero, specie all'interno delle mura urbane, nelle città longobarde 115: enti, si badi bene, sia fondati dalla coppia congiuntamente, ma anche da donne in prima persona. Detentrici del rituale funerario e svincolate, almeno formalmente, dall'autorità del gruppo parentale, le vedove 'di fatto' e le vedove probabili sembrano aver agito, come Rotruda, la moglie di Rottopert, sia in modo aperto e evidente, sia attraverso suggerimenti, come protagoniste dell'abbandono dei corredi prima per sé e poi per i loro famigliari, dimostrando loro l'efficacia pratica e ultraterrena di tale agire. D'altro canto, vedove, mogli e ancillae Dei costituirono per gli ecclesiastici un importante veicolo per la cristianizzazione dei rituali della morte e, infine, nella piena età carolingia, per giungere ad amministrare essi stessi il rituale, affiancandosi e poi sostituendosi alle donne 116. Il cambiamento nel rituale funerario fu dunque il frutto di una collaborazione tra élites ecclesiastiche e laiche, le quali si trovarono concordi nel sottolineare, come nel caso di Gertrude, la scelta di una morte austera, allo stesso modo in cui un secolo prima essi avevano invece ostentato la propria esuberante ricchezza. Lo straordinario elenco di 88 carte, composto da vendite, donazioni, permute, che documentavano l'attività economica di Alabis, fu consegnato da Tenspert di Pisa a Ghitta ancilla Dei e alle sue figlie, comprovando la legittimità dei possessi del monastero in cui Ghitta risiedeva. All'elenco delle carte, segue un elenco, purtroppo mutilo, di mobilia, dello stesso Alahis: accanto a monete, un petium de auro, troviamo anche le guarnizioni della cintura (“uno baltio cum banda et fibula de argento inaurato”) un armilla, cucchiai e speroni d'argento 117. Carte scritte e oggetti personali definivano compiutamente la personalità e lo status sociale della famiglia che Ghitta stessa, in quanto religiosa, doveva celebrare e perpetuare. 6. Conclusione
L'abbandono dei corredi funebri da parte dei Longobardi non comporta allora la perdita di valore dei mobilia, né il semplice passaggio di essi come doni alla Chiesa. I mobilia appaiono rivestire una funzione specifica che rimane m un primo tempo strettamente correlata all'ambito dei riti di passaggio all'aldilà, mantenendo anche la specifica caratterizzazione individuale dell'originario proprietario degli oggetti. La rottura delle cinture e la distribuzione pro anima ai pauperes individua nell'oggetto che più di ogni altro qualificava lo status sociale del suo proprietario, lo strumento di negoziazione della posizione del defunto nel mondo dei morti. In questa modificazione gli enti ecclesiastici appaiono non i diretti destinatari dei mobilia, bensì coloro che indirizzano, attraverso la cooperazione delle ancillae Dei, delle viduae santimoniales, e in generale, delle donne della famiglia del defunto, il rituale della morte a conformarsi ai riti che precedevano la monacazione. I1 cambiamento non fu né repentino né il frutto di un'azione coercitiva da parte della Chiesa, esplicitamente e consciamente progettata per inglobare nei propri 'tesori' gli oggetti preziosi. Tantomeno consistette nel passivo adattamento alle pratiche sociali della popolazione romana. Esso appare piuttosto come indicatore propositivo per il mutamento della società longobarda, che gradualmente si abituò a investire il proprio futuro in carriere laiche e carriere ecclesiastiche, utilizzando gli strumenti di continuità familiare come mezzo di scambio per l'eternità. La redazione delle liste scritte, attraverso le quali i donatori e le donatrici, oltre che designare i loro successori, potevano anzitutto elencare la serie dei loro beni, costituiva un'opportunità per elencare le aspettative individuali nei confronti del futuro sulla terra. CRISTINA LA ROCCA
1 Il documento, edito in CDL, I, 82 è conservato presso l'Archivio di Stato di Milano ed è tramandato in copia autenticata del XIII secolo. La sua struttura e il contesto sono stati analizzati, anche se sotto una prospettiva diversa da quella che qui si presenta, da AMBROSIONI LUSUARDI STENA 1986, pp. 175-179. 2 Cfr. Liutprandi Leges, 2, 3, 4, 14, 145. 3 E non una corazza, come proposto da AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 178-179: cfr. infatti quanto suggerito da RICHÈ 1972, nota 39 p. 43 e i garales facenti parte del paramentum capellae nostrae nel testamento di Everardo, conte del Friuli (863-864) edito in DE COUSSEMAKER (ed.) 1885, I. 4 “Si Ratruda conius mea me superadvixerit, in eius sit potestatem ipso (sc. argentum et aurum) frangendi et pauperibus pro anima mea et sua distribuendi habeat potestatem ex mea plenexima largidate, tam pro nostra anima quam et pro bone memorie Dondoni germano meo; et vestimento meo, omnia quod in illo tempore illo reliquero, omnia metietatem pauperibus distribuatur pro suprascripta Ratruda coniuge mea” (CDL, I, 82, p. 242). 5 La necropoli è pubblicata in ROFFIA (ed.) 1986, il nuovo sito di S. Martino è presentato da Silvia Lusuardi Siena in questo volume. 6 Per l'esame di un tipo particolare di donazione, diretta, secondo il modello pubblico carolingio, a suddividere equamente le sostanze tra i figli, cfr. il caso di Everardo conte del Friuli e di sua moglie Gisla (863-864) esaminata da LA ROCCA-PROVERO c.s. 7 Le carte sono edite in CDL, I, II,III/1, In presenza di carte conservate in originale o copta coeva, ho provveduto anche a controllare l'edizione sui vari volumi delle Chartue Latinae Antiquiores (ChLA, XXVI-XL). 8 FEVRIER 1987, pp. 881-883. 9 I più recenti lavori su questi temi, che non prendono però in esame l'Italia longobarda sono PAXTON 1990 e RUSSEL 1994. 10 Si veda, per esempio, l'interpretazione della necropoli di Castel Trosino presentata in questo volume da Lidia Paroli con le osservazioni in PAROLI 1995.
11 GOODY 1983, pp.95,103,209. 12 Cfr. le osservazioni di DAUPHIN et al. 1986. NELSON 1990b, pp. 330-332, NELSON 1995, PP.83-90; e in particolare ROSSETTI 1986, PP.166-170. 13 L'interesse sul tema si è esplicitato in un'amplissima bibliografia, riferibile al periodo compreso tra l'XI secolo e l'età contemporanea. A titolo puramente indicativo, occorre almeno ricordare come studio quantitativo EPSTEIN 1984; come esempio di studio orientato a cogliere le peculiarità religiose RIGON 1985; esamina invece gli aspetti istituzionali il lavoro di CHIFFOLEAU 1980; una rassegna storiografica sugli orientamenti interpretativi è BERTI 1988. 14 AMELOTTI 1966, P. 15; GIARDINA 1971, PP. 727-748; VISMARA 1988, PP. 109-146. 15 AMELOTTI 1970, PP. 18-25; VACCARI 1971, PP. 231-233. 16 AMELOTTI 1970, PP. 15-17. 17 CHIFFOLEAU 1980, PP. 36-38, RIGON 1985, PP. 44-45. L’accento sulle relazioni sociali espresse in tali donazioni è sviluppato da WHITE 1988, PP. 16-17, 26-34. 18 Cfr. ad esempio, GIARDINA 1971, PP. 727-748. 19 Il problema è esaminato da DELOGU 1977, PP. 77-82, con le fonti ivi citate. 20 Il divieto a diseredare la discendenza legittima è espresso in Edictum Rothari, 168 successivamente modificato in Liutprandi Leges, 6. 21 PROSPERI 1982, p. 404 22 Gli strumenti di distinzione delle élites rurali dell'Europa alto medievale sono oggetto del lavoro di WICKHAM 1994. 23 NONN 1972; SPRECKELMEYER 1977; GEARY 1985; KASTEN 1990. 24 CDL, II, 230 (769, Pisa); CDL,V, 52 (768, Rieti). 25 CDL,I, 90 (747, Lucca); 96 (748, Pistoia); CDL, II, 163 (763, Pavia); 171 (763 Pisa). 26 CDL, II, 133 (769, Gurgite); CDL,V, 100 (786, Rieti): “considerantes simulque expavescentes voracitatem ignis”. 27 CDL, II, 287 (773, Lucca) 28 CDL, II, 171 (763, Pisa); CDL,V, XVI (785, Benevento). 29 SKINNER 1993, pp. 135-136. 30 Esempi di esplicita esclusione dei mobilia dalla donazione post mortem sono: CDL II, 157 (761, Gurgite): donazione di Pettula alla chiesa di S. Paolo di Lucca “excepto scherpa mea quod pauperibus vel sacerdotibus pro anima mea potestatem habeam dispensandi”. Cfr inoltre ChLA, XL, 1158 (797); 1164 (798); 1166 (798); 1180 (800); ChLA, XXXIX, 1145 (795); ChLA, XXXVIII, 1089 (783); 1102 (786); 1114 (787); ChLA, XXXVI, 1045 (773) 1057 (776); n. 1059 (777). Nel 771 il chierico lucchese Guntelmo permette alla figlia Rachiperga “si ipsa filia mea de res mobile vel ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret”: CDL, II, 254 (771, Lucca); così anche in CDL, II, 230 (Pisa, 769), 287 (Lucca, 773). La scherpa è definita da locuzioni del tipo “omnem schirpas meas, pannos usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos” (ChLA, XXXVIII,1102 (786) p. 26); CDL, I, 73 (740, Lucca), p. 220: “omnia usitilia, seo scherpam meam, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis”; CDL, II, 293 (774, Bergamo): “mobilia vero rebus meis, hoc est scherpa mea, aurum et argentum, simul et vestes atque caballi”. 31 L'evoluzione dell'apparato statale longobardo è stata delineata da GASPARRI 1990 pp. 237-305. 32 La differenza della funzione delle cariche pubbliche nel mondo romano e nei regna dell'alto medioevo è lucidamente precisata da WICKHAM 1984, pp. 23-25. 33 Il tema è stato di recente riproposto da WICKHAM 1994; LE JAN 1995, pp. 60-76. 34 MORRIS 1987, pp.29-42 con la relativa bibliografia. 35 Cfr. HOPKINS 1983, pp.235-253. 36 PAULI Historia Langobardorum, V, 34. 37 Studi recenti sul valore politico delle cerimonie e dei rituali funebri sono ARCE 1988; CANNADINE-PRICE (eds.) 1987, ma soprattutto, sul ruolo dei mobilia, HEDEAGER 1992, pp.31-70. 38 Mi riferisco, in particolare alla situazione della Toscana, e dunque al contributo di Carlo Citter, in questo volume, e ai recenti ritrovamenti all'interno della fase di VII secolo nello scavo romano della Crypta Balbi che documentano la produzione a Roma di parti di armi e guarnizioni da cintura sia con agemina sia con decorazioni 'a virgola', presentati da Marco Ricci in questo volume, e parzialmente presentati da RICCI 1994, pp. 19-22; SAGUI’-MANACORDA 1995, pp. 121-134. Queste osservazioni hanno precisi riscontri nell'ltalia meridionale longobarda, ove la caratterizzazione 'etnica' della dominazione politica si configurò, dal punto di vista dei corredi funebri, con caratteristiche del tutto peculiari e locali: PEDUTO 1990, pp. 307-373. 39 CAMMAROSANO 1990, pp. X-XIII. 40 Indicazioni in questò senso sono generalmente osservabili in tutte le necropoli rinvenute in Italia e databili in questo arco cronologico: cfr., per esempio, i casi di Nocera Umbra e Castel Trosino, di recente riesaminati da RUPP 1995 e da PAROLI 1995. Per il Veneto cfr. LA ROCCA 1989; per il Friuli, TAGLIAFERRI 1990, PP. 364-475. 41 Cfr. PAULI Historia Langobardorum, 1, 24; Il, 28; V, 2, 5; VI, 8, 35 3 8, e le osservazioni di LE JAN 1995, PP. 62-63, 85-86. Si veda infine lo studio specialistico li ENRIGHI 1988. 42 Una recente analisi sul rapporto tra armi tesaurizzate nelle tombe e armi utilizzate in vita è COUPLAND 1990. 43 HARKE 1990,pp.22-43; HARKE 1993,pp. 433-436. 44 Sintesi quantitativa in FEHRING 1991, PP. 57-79, fig. I ]. 45 RIPOLI 1993, PP. 301-327 con la bibliografia precedente.
46 Un esame complessivo delle sepolture equestri tra V e VII secolo è in GHENNE DUBOIS 1991, PP. 23-70, a cui occorre aggiungere lo straordinario contesto ritrovato a Campochiaro (Campobasso), esaminato, seppur in via preliminare, da CEGLIA 1990, PP. 213-217, GENITO 1991, PP. 335-338. 47 Cfr. GASPARRI 1983. 48 Cfr. MENKE 1990 e la rapida sintesi, con bibliografia locale, di BONA 1990. 49 Per i casi italiani di sepoltura equestre, cfr. anche lo straordinario esempio di Campochiaro, che presenta cavallo e uomo sepolti nella stessa fossa in ben 10 casi: cfr. GENITO 1991. I. Ahumada Silva sta preparando uno studio complessivo sulle sepolture con cavallo rinvenute in Italia. 50 Cfr. RANDSBORG 1980, PP. 129-132; RANDSBORG 1981, PP. 112-117. 51 cfr. BONA 1990, P. 19; MENKE 1990, PP. 98-103 entrambi con la relativa bibliografia. 52 Vale la pena di notare che anche nei casi danesi si è riscontrato un analoga condivisione di status symbols tra uomini e donne nella fase delle sepolture equestri del X secolo: cfr. RANDSBORG 1981; HAEDEGER 1992, PP. 154-156. 53 Vitue sanctue Geretrudis, p. 461. 54 VIERCK 1978, PP. 521-570. 55 YOUNG 1986, PP. 379-407, che è un lavoro fondamentale su questo tema. 56 Sulle caratteristiche dei corredi della seconda metà del VII secolo, cfr. BIERBRAUER 1984, PP. 473-489 57 Un recente riesame dei rapporti tra élites laiche ed ecclesiastiche nel regno merovingio è WOOD 1994, PP. 102-119, sulla produzione agiografica, riflesso della compenetrazione di interessl e carriere, FOURACRE 1990, PP. 3-38. 58 TABACCO 1990, PP. 382-387 (citazione a p. 382). 59 GASPARRI 1980, pp. 433 -441. 60 PETRUCCI-ROMEO 1992, pp. 35-56. 61 NELSON 1990b, p. 331, mette opportunamente l'accento sulla flessibilità dei diritti femminili sulla proprietà, e la maggiore possibilità per i gruppi famigliari di negoziarli a seconda delle situazlom e delle opportunità. 62 L'epistolario di Gregorio Magno a Teodelinda è edito in GREGORII MAGNI Registrum, IV, 4, 33, 37; V, 52; IX, 68, XIV, 12. Sui rapporti di mutua collaborazione tra il papa e la regina, cfr. da ultimo GASPARRT, c.s. I diplomi delle regine longobarde sono in gran parte perduti. Cfr. CDL, III/1, n. 24 (749-751): donazione di Astolfo alla Chiesa di Modena su richiesta della regina Giseltruda “gloriosissima atque praccellentissima (...) dilecta coniux nostra”; CDL, V, VII (766, Benevento), in cui si menziona il diploma perduto di Scaniperga e Llutprando per il monastero di S. Vincenzo al Volturno; sono anche perduti i diplomi di Ansa per ll monastero di S. Salvatore di Brescia (CDL, IIV1, pp. 274-275), di Teodelinda per la chiesa di S. Giovanni di Monza e di S. Dalmazzo di Pedona (CDL, III/1, pp. 289, 300~, di Rotari e Gundiberga per il monastero di Bobbio e la chiesa di S. Giovanni Domnarum a Pavia (CDL, III/1, pp. 298, 309), di Rachi e Tassia al monastero dei SS. Silvestro e Nonnoso sul Monte Soratte (CDL, IIV1, p. 302) e di Tassia e la figlia Ratruda (CDL, III/I, p. 311). 63 VERONESE 1987, pp. 355-416. 64 Cfr. Edictum Rothari, 204. La sintassi delle leggi longobarde in materia di donazioni sarà oggetto di una mia prossima ricerca, dal titolo Les femmes et la /oi et la loi pour les femmes; m ambito anglosassone è fondamentale WORMALD 1995. Sul mundio femminile, cfr. da ultimo POHL RESL 1993, pp. 201-211. 65 ANGENENDT 1983, pp. 153-221; PAXTON 1990, pp. 66-69, con le fonti ivi citate. 66 Cfr., per esempio, i casi piemontesi illustrati da Egle Micheletto e Luisella Pejrani, e quello di S. Martino di Trezzo studiato da Silvia Lusuardi, esaminati in questo volume. 67 CONSOLINO 1987, pp. 166- 170. 68 CDL, V, 52 (768, Rieti), p. 187. 69 CDL, II, 175 (764, Lucca). Sul ruolo delle donne nella commemorazione dei defunti in età carolingia NE~soN 1990a, pp. 53-78; GEARY 1994, pp. 51-73. 70 Un elenco dei beni che componevano il morgencap è in CDL, 1, 70 (739, Lucca): “In primis lectum de soledos decem, Magnifredulu, Magnitrudola et Fermusiula pro soledos tricenta, tunica de soledus dece, mantus de soledos dece, nauri de soledos tricenta, caballum stratum pro soledos centum et pro centum soledos casa Valentiniani in Veturiana”. 71 CDL, I, 30 (722, Lucca): Urso dona alla chiesa da lui fondata “casas duas in Novole de morgincaput mulieri meae”; CDL, I, 67 (738, Lucca): Anstrualda Dei ancilla, dona alla chiesa di S. Giorgio di Montecalvoli, da lei fondata, una casa che “data est morgangab per domino bone memorie Barutta iocale meo”; CDL, I, 120 (755, S. Cassiano): Cleonia, ancella di Ostripert, offre alla chiesa di S. Cassiano da lei fondata “tertia portione ex omnibus rebus mois quod morghincap mihi datum est”. 72 Gradana, figlia di Rottopert di Agrate, riceverà in die uotorum le case tributariae di Trezzo e di Clapiate, “300 solidos in auro ficurato e vestito vel ornamento eius atque frabricato auro”, ma se il denaro sarà già stato precedentemente lasciato agli eredi maschi, essa riceverà in cambio la casa tributaria “in fundo Rocelle” (CDL, I, 82 (74s, Monza)); CDL, I, 73 (740, Lucca): l'arciprete Sichimund dona alla chiesa di S. Pietro di Lucca anche “res illas qui fuet quondam Sindi socero meo qui mibi oLvinet per coniuge mea Auria, tam casas, terra, vinea oliveta, cultis et incultis”; CDL,I, 104 (7s2): Arnifredo abita “in pecunia de socero meo Mastalone cuius filia mihi in coniugio sociabit”; CDL, II, 162 (762): i fratelli Erfo e Auto donano al monastero friulano di Sesto in Silvis terra e case <
(758, Piacenza): “portionem Gunderadae honestae feminae in fundo casalis Furtiniaco et in Mocomeria de quantum in ipsius casalis habere videntur ex successione parentum”,CDL, II 159 (762, Varsi): “terra cum vite et vacuum que fuit de portionem quondam Audendae genetricis tuae”; 226, (769, Pavia): “mihi ex iura parentum a quondam Gisullo genitore meo advenerunt”. Sui doni matrimoniali, cfr. da ultimo, R. LEJAN-HENNEs~cQuE 1993, pp. 107-122, con ampio riferimento alla problematica generale e alla bibliografia precedente. 73 CDL,I, 96 (748, Pistoia): Ratperto stabilisce che se la figlia Astruelda non vorrà rimanere presso il monastero beneficato dal padre, “cum portione sua vadat ubi voluerit”; CDL,I, 123 (7só, Como): Walderada dona alla chiesa di S. Zeno di Campione “meam rationem quos me legibus contaget avere de inter sorores et neptas meas” per l'anima del defunto marito Arochis; CDL, II, 234 (769, Campione): Magnerada, vedova di Anscaus, dona viti e oliveti a Campione che le vengono da “quondam Gundoald avius meus”. Cfr. poi, CDL, II 287 (773, Lucca). 74 CDL,I,50 (730, Siena): “De ornamento autem mulieris meae Optileopae, sive mantoras siricas, palleas, tunicas, fibulas maurenas et aris vestra, anulos, vel quicquid a suo vestimento habere videtur, quaeque exinde post obitum eius reliquerit”. 75 CDL,I,50 (730, Siena): “de ceramento vero caldarias numero quinque: una cum manicas tenente anfora una; secunda tenente congia quattuor; tertia tenente congia tres; quarta tenente congia duo, quinta tenente congio uno. Pariola vero numero sex, quod est fasso uno, frixorias duas, cucumas duas: una tenente congio dimidio, et alia sub minore. De obsequio brandi : catenas super focos numero sex, una cum ; da filiis quondam Boccioni de Saviniano oLvenit, tripidem unum, spitas ferreas duo, recentario uno, concas de ariscalco duas et tres gavatas. De omne vero ferramentum maioris, minus minoris capite uno, falces numero sex. Lecta autem numero octo, una cum ordinationes suas ac secias vero numero quinque, mappas quinque, cumaras et alias franciscatas numero decem”. 76 CDL, I, n. 2s,(720, Lucca): Geminiano vir devotus offre alla chiesa di San Silvestro di Lucca pro meis facinoris, oltre a vari appezzamenti di terra, anche “caldaria una, ornile cum catena fumaria”; CDL, V, 7s (777, Farfa): il prete Tenferio offre a Farfa “mobilia seseque movent~a tam pecul~a quam et ramma seu ferramenta vel pannos et universas res meas tam de iure parentum meorum quam etiam et de conquisito meo”; 82 (778, Rieti): il prete Giovanni dona tutti i suoi beni al monastero di Farfa, tra cui: “carros ferratos duos, boum paria ii lectistrata ii cum cultricis suis, concam i, aquarios mannum parium i, secula ii, caldaria iiii”, CDL, V, XVI (785, Benevento): lo sculdascio Trasemundo dona al monastero di S. Sofia di Benevento, insieme con i beni e la chiesa privata di S. Martino anche <~; 78 (742): “De spe eterne vitae salutis animae remedium cogitat, qui in sanctis locis de suis rebus confer terrena, ut a Christo recipiat eterna celestia. Et ut votis meis expleatur dilectio, oblatione meam munera offero, non quantum debeo, set quantum valeo”. 87 LEYSER 1979, pp. 52-62. 88 Metà dei beni in usufrutto: CDL, Il, 137 (759, Lodi), 171 (763, Pisa), 281 (773 Lucca); elenco di terre, servi, utensili: CDL, II, 143 (760, Lucca), 287 (773, Lucca); elenco di terre: CDL,V, 86 (778, Rieti); tutti i beni in usufrutto: CDL,I, 34 (724, Lucca), 90 (747 Lucca); CDL, Il,293 (774, Bergamo); CDL,V, 76 (777, Rieti); 83 (778, Rieti); beni in usufrutto con facoltà di distribuire i proventi pro anima:CDL'1, 82 (745, Monza); CDL,V, 52 (768, Rieti). Le vedove compniono anche, henché più raramentc, c<>me beneficiarie di dotlaziotli in usufrutto da parte dei figli: CDL, Il, 136 (756, Lucca); 162 (762). 89 CDL,1, 82(745, Monza): <<si ad secundas migraverit nuptias, suficiat ei lex sua nam amplius de rehus meis notl conscquatur”; 96 (748, Pistoia): si coniuge mea Perterada carnale vitio fucrit consecuta et in ipso xenodochio vel monasterio non voluit deservire mllla de rebus meis avere deveat, nisi vacua et inalle exinde foris exire deheat, ambolando ubi voluerit; 90 (747, Lucca): “Si coniuge mea Waltruda super IIIC retnanserat et lectum meum custodieret et fidis maritalis observaveret”. formule analoghe in CDL, 11,171 (763, Pisa); 281 (773, Lucca). La clausola del divieto alle seconde nozze non compare in CDL, V, 76 (777, Rieti); V, 8ó (778, Rieti).
90 POHI RFS~ 1993, pp. 211-214. Esempi di tali carte di vendita o di donazione in coppia: CDL, 1, 59 (736, Varsi); 84 (744-745, Volterra); CDI., 11, 221 (768, Lucca); 229 (769, Lucca), ove si dice espressamente che la terra permutata <
115 Il problema è esaminato da VERONESE 1987. Fondazioni di monasteri e chiese da parte di fondatrici femminili: CDL, 1, 83 (745, Verona); 120 (755, Lucca). 116 PAXTON 1990, pp. 127-161. 117 CDL, II, 29S (768-774, Pisa). 118 Voglio ringraziare Stefano Gasparri, Nicoletta Giové, Aldo Settia, Stefano Zamponi per ~ loro suggerimenti e per avermi fornito utili spunti di riflessione.
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Archeologia funeraria e insediamento nelle Marche nei secoli VI e VII
Affrontare due argomenti quali gli insediamenti e le sepolture nelle Marche nei secoli VI e VII non è facile in quanto i dati archeologici in nostro possesso sono troppo scarsi e lacunosi per una trattazione soddisfacente della materia; sembra infatti di non poter offrire una relazione sistematica, ma solo una serie di flash, cioè di spunti per successivi approfondimenti. Per il tema delle sepolture, dopo quanto esposto da chi scrive in occasione del VI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana ad Ancona nel 1983 ~, non molto c'è da aggiungere. E vero che scavi condotti nel 1988 proprio ad Ancona hanno sicuramente portato alla luce la più grande area cimiteriale paleocristiana della città (circa 270 tombe nell'area dell'ex Panificio Militare di piazza Stamira, ora piazza S. Pertini), ma è anche vero che i riferimenti cronologici raccolti riportano al IV-V secolo, senza che ci siano indizi per pensare ad una durata fino ai secoli successivi, che qui interessano 2. Dovrebbero invece rientrare nei limiti cronologici analizzati in questa sede le tombe rinvenute a partire dalla fine dello stesso anno 1988 in piazza Mazzini (Fig. 1) a Fossombrone, di fronte al Duomo, che forniscono l'occasione non solo per illustrare una tipologia sepolcrale particolare, ma anche per fare alcune riflessioni sui rapporti spazio-temporali tra la romana Forum Sempronii e la medievale Fossombrone 3. Per quel che riguarda il sepolcreto, tre sono i problemi fondamentali, indissolubilmente legati fra loro: tipologia delle tombe, cronologia, ubicazione. 1 ) TIPOLOGIA Vari sono i tipi di sepoltura, accomunati tutti dal pessimo stato di conservazione degli inumati e dall'orientamento ovest-est. Abbiamo: - la catasta di schegge di laterizi (es. t. 14); - la semplice copertura di tegole in piano, senza pareti, con o senza fondo (t. 9); - la cappuccina con colmo di coppi, testate, letto di tegole, scheggia di laterizio come cuscino, il cui migliore esemplare è la tomba 5, murata con calce; - il cassone con pareti in muratura e copertura a blocchi lapidei (t. 7); - il cassone completamente in blocchi lapidei almeno in parte di reimpiego (t. 17); - esiste infine una curiosa tipologia per la quale si stanno ancora cercando confronti e che merita un'attenzione particolare. Le tombe 1, 8 e 12 sono costituite da cappuccine sormontate da un piano di blocchi o lastroni di pietra, nella t. 8 poggiante su una sottile massicciata (Fig. 2). Che i blocchi siano in relazione con le tombe è provato dalla posizione esattamente corrispondente e dal fatto che non ne sono stati trovati altri nel corso dello scavo; non sono parte di una pavimentazione perché essi (nonché le coperture delle vicine arche 7 e 17) sono a quote troppo diverse una dall'altra. Proprio la presenza delle casse indica forse la soluzione del problema: i blocchi, oltre a funzionare evidentemente da segnacolo della sottostante sepoltura, potrebbero costituire una versione semplificata dell'arca, che sappiamo trattarsi di un tipo di loculo ben più prestigioso della modesta cappuccina. 2) CRONOLOGIA Tutti i tipi di tomba citati sono caratteristici dell'epoca paleocristiana e altomedievale. L'età tarda è segnalata anche dai reimpieghi romani costituenti le arche e le pseudo-arche. Sopra la cappuccina della t. 1 stava un frammento di fregio con racemi di acanto in cui si inseriscono un uccellino e una lucertola. Il rilievo è estremamente raffinato, ma un po' freddo e accademico; la
plastica è scarsamente aggettante. Lo stile sembra quindi indicare una datazione all'epoca giulioclaudia, mentre appare evidente la destinazione del pezzo ad un monumento funerario (Fig. 3). La t. 17 era costituita da blocchi perfettamente squadrati, con i fori delle grappe e i resti delle colature di piombo (Fig. 4). La testata est riutilizzava un concio decorato estremamente interessante (Fig. 5). Innanzitutto la riquadratura asimmetrica indica che il pezzo doveva trovarsi all'inizio di una sequenza di specchiature separate da bande lisce. L'ornato rappresenta le falere, cioè quella serie di dischi bronzei decorati uniti da cinghie, che - mediante lacci - venivano legati sopra la corazza e che costituivano la decorazione consegnata al generale che celebrava il trionfo. La mandorla centrale reca probabilmente la figura di Giove in seminudità eroica; al di sopra è la testa di Minerva con elmo; sotto lo scudo a pelta; agli angoli quattro teste ritratto. Il motivo ha sicuramente valore celebrativo e probabilmente anche funerario; sorge così il dubbio che il pezzo provenga da un monumento indipendente od anche da un recinto analogo a quello di Calmazzo 4. La cronologia può essere tentata solo sulla base dei medaglioni-ritratto. Premesso che la qualità non è alta, possiamo vedere che i volti hanno contorno triangolare ed appaiono leggermente enfiati; gli occhi hanno palpebre ed arcate sopraciliari evidenziate tanto da riceverne un profilo obliquo verso il basso; la testa maschile ha la tipica pettinatura giulio-claudia; così quelle femminili, con le lunghe ciocche ricadenti sulle spalle. Quella giulio-claudia sembra essere - anche in questo caso - la datazione più probabile. La cappuccina 12 era protetta da due grossi blocchi. Uno costituisce parte di un cippo iscritto dalla sagoma centinata 5; l'altro pezzo è anch'esso un cippo funerario centinato e con acroteri, con la parte da interrare solo sbozzata, privo di iscrizione. Sulla t. 14 (Fig. 6) stava parte di un'altra iscrizione (una sottile lastra spezzata in due frammenti) di non facile interpretazione 6. I caratteri rozzi e irregolari indicano l'età molto tarda; i termini sanctorum e beati la cristianità: siamo già nel V sec. almeno (Fig. 7), il che porta la tomba ad un'epoca ancora posteriore. Gli oggetti di corredo sono pochissimi, come sempre nelle tombe di epoca tarda. Nella t. 1, a destra del capo del defunto stava un boccaletto in terracotta piuttosto rossa e con abbondanti tracce di vernice rossa, dal corpo scanalato, il fondo con piede a disco, l'imboccatura con orlo verticale ingrossato (Fig. 8). Il tipo è sicuramente tardoromano-bizantino e trova confronti (sia pure non perfetti) a Ventimiglia, Comacchio-Valle Pega, Nocera Umbra e Castel Trosino 7: tutte queste ceramiche si situano in un arco cronologico piuttosto lungo, cioè dal IV al VII sec. senza possibilità di ulteriori precisazioni se non intervengono altri elementi; per esse ―la caratteristica essenziale è data dalla presenza delle scanalature sulla superficie esterna‖ 8. Lo spillone d'osso piuttosto corto (Fig. 9) trovato nella t. 7 (dietro al capo, presumibilmente come ago crinale) può essere confrontato con pezzi di Ventimiglia recuperati dal Lamboglia 9 negli strati più alti di quello scavo (IV-V sec.). Dalla t. 5 proviene un peso 10 che sembra quasi essere un piombo da muratore (Fig. 10). 3 ) UBICAZIONE È fuori di ogni dubbio che ci si trovi davanti ad un importante nucleo di sepolture cristiane, non completamente esplorato, in quanto lo scavo si è esteso soltanto a metà piazza circa, mentre altre tombe sono state intraviste nelle pareti dello sbancamento. Ci sono inoltre notizie di altri rinvenimenti. Nel 1780-82 tombe a cassone vennero individuate sotto la strada presso l'angolo del Duomo; se ne intuì l'importanza archeologica ma non si effettuò il recupero perché nessuno si accollò la spesa 11. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX sec., nel corso della ricostruzione del Duomo, furono ―appianate‖ antiche lapidi per costituire il letto di fondazione della facciata 12; nel 1848 sotto la sacrestia della Cattedrale fu trovata (fra ossa, pietre e lastre) un'iscrizione che ricorda un imperatore Antonino divo, riutilizzata però incidendo sull'altra faccia il titolo funerario di Vergilius presbyter: del pezzo si sono attualmente perse le tracce 13.
Pensare che qui si trovasse il cimitero paleocristiano di Forum Sempronii è probabilmente fuori luogo per la rilevante distanza dal centro antico 14 e per quanto ci è noto circa il suo abbandono 15. E questo anche se il rinvenimento nel 1941 di una tomba a cassone nell'area delle case popolari 16 costituisce topograficamente una tappa intermedia. Più interessante è considerare il fatto che il Duomo è stato costruito in sostituzione dell'antichissima abbazia di San Maurenzio, già appartenuta ai Benedettini e di cui si ignora il periodo di fondazione 17. E forse opportuno pensare che in un luogo abitato in età protostorica 18 ed abbandonato in età romana (manca infatti il relativo strato archeologico) si sia stabilita una fondazione cristiana, che diede vita ad un'area cimiteriale e ad un nucleo abitato anteriore o - se contemporaneo - comunque indipendente dalla Civitas sul colle. Il cenno, sicuramente non esauriente, alla situazione di Fossombrone introduce al tema delle città. In epoca augustea le città e i centri ad autonomia amministrativa entro i confini delle Marche attuali erano 36; di questi 24 o 25 (Fig. 11) in età paleocristiana furono sede di diocesi (l'incertezza riguarda Pitium Mergens=Acqualagna) 19. La mancanza di attestazione non esclude la presenza della sede vescovile e non significa automaticamente la sminuita importanza del centro urbano. È invece vero il contrario: l'esistenza della cattedra e una certa continuità nelle documentazioni archeologiche sono il più chiaro indice di un'indiscutibile vitalità. La vera fioritura dell'organizzazione cristiana sembra risalire al VI sec., come attestano le diverse fondazioni rinvenute: a Pesaro il secondo livello (Fig. 12-13) della Cattedrale 20 e la chiesa di Colombarone 2, lungo la via Flaminia in direzione di Rimini; ad Ancona ben tre basiliche (via Menicucci, il livello superiore di Santa Maria della Piazza, la chiesa di San Lorenzo sotto San Ciriaco) 22; quella sottostante al Duomo di Fermo 23; e forse ad Ascoli il complesso cattedrale-battistero 24. Nelle città l'inserimento della cattedrale cristiana avviene sempre in posizione periferica rispetto al foro romano 25; tuttavia non sembra provocare grossi sconvolgimenti nel tessuto urbano. È pur vero che si sono riconosciute aree anche importanti nel quadro della città romana ad un certo momento declassate al punto di essere interessate da piccoli gruppi di sepolture. È questo il caso di Ascoli Piceno, dove una sepoltura e tratti di murature genericamente databili all'Alto Medio Evo si inseriscono direttamente sulla pavimentazione del foro romano, ormai definitivamente riconosciuto nell'area della Piazza del Popolo 26; oppure di Fano, dove in piazza XX Settembre si è riscontrata un'analoga situazione in un'area prima fittamente (e riccamente) urbanizzata 27; o ancora dell'anfiteatro anconitano, dove evidentemente le tombe a cappuccina o a fossa 2X dimostrano che la cessata funzionalità dell'impianto sportivo aveva aperto nel tessuto cittadino quella che oggi si indica come ―area di risulta‖ a due passi dall'acropoli e dal foro. Nel complesso però sembra trattarsi più di un fenomeno di diradamento del tessuto che di un vero e proprio restringimento dell'abitato. Anche le liste episcopali 29 sembrano confermare che la grande organizzazione delle Chiese marchigiane è un fenomeno relativamente tardo. Grazie alla testimonianza di Sant'Atanasio 30 è certa la presenza di vescovi nel Piceno attorno alla metà del IV sec.; uno di essi, Claudio, partecipò al concilio di Rimini del 359, dove però si sottoscrisse definendo la regione d'appartenenza senza precisare la sede 31. Degli altri manca documentazione sicura. Il Lanzoni, pur essendo normalmente un acerrimo critico di tutte le tradizioni agiografiche, è comunque propenso ad accogliere a vario titolo la possibile esistenza di Decentius ed Heraclianus di Pesaro rispettivamente nel 313 e nel 349, Paterniano di Fano e il suo anonimo predecessore, Vincentius ed Evandrus di Urbino (anch'essi nel 313), Severus (342-344) di San Severino, quest'ultimo documentato come aderente ma non presente al concilio di Sardica senza indicazione della diocesi di appartenenza 32; ad essi potrebbe inoltre essere forse aggiunto il Probianus sacerdos menzionato nelle iscrizioni del sarcofago di Tolentino 33. Esaminando in modo parallelo le cronotassi delle diocesi del Piceno si nota che il primo vescovo esattamente e sicuramente attestato è quel Faustino di Potentia che nel 418 fu legato della sede apostolica in Africa 34 e si nota pure che il suo è l'unico nome presente nella prima metà del V secolo. Le testimonianze aumentano invece nella seconda metà del secolo, per diventare molto fitte
negli anni 495-499 grazie soprattutto alle numerose lettere inviate dal papa Gelasio I ai vescovi della regione 35. Poco dissimile è l'andamento delle documentazioni per quanto riguarda il VI sec. C'è da domandarsi in quale misura possano aver influito su eventuali l~nghe vacanze delle cattedre la fede ariana professata dai successori di Teodorico, la guerra greco-gotica e l'invasione longobarda. Se probabilmente le attestazioni di nomine o presenze episcopali negli anni 598-600 (collegate anche a documentazioni di vacanze, come nei casi di Osimo e di Teramo) sono da ricollegare alla pace stipulata nel 598 dal pontefice Gregorio Magno col re Agilalfo e col duca spoletino Ariulfo 36, oltre che alle notizie fornite dai numerosi scritti dello stesso papa, è anche vero che i nomi sicuri si distribuiscono in tutto l'arco del secondo cinquantennio del secolo, per cui sembra che le alterne vicende storiche abbiano influito sul territorio in modo diseguale. Tanto più che in questo stesso lasso di tempo abbiamo la prova archeologica dell'edificazione (ex-novo o come rifacimento) dei ben sei edifici sacri già citati, e precisamente: la cattedrale e la basilica extraurbana di San Cristoforo ad Aquilam a Pesaro, Santa Maria e le basiliche di via Menicucci e di San Ciriaco ad Ancona, la cattedrale a Fermo; prove evidenti che il contesto politico e socio-economico era favorevole a grandi imprese di questo genere. E che i vescovi marchigiani godessero del prestigio e delle disponibilità finanziarie necessarie è dimostrato dai due episodi avvenuti negli anni della conquista longobarda a Fermo e a Fano (rispettivamente nel 580 e nel 598), quando furono proprio i presuli a riscattare i propri concittadini catturati dai nuovi barbari occupanti 37. Per quanto riguarda l'aspetto complessivo delle città alcune notizie sono deducibili delle narrazioni di Procopio riguardanti i prolungati assedi e le ripetute conquiste. E ben noto il passo in cui nota con stupore che ad Ancona, a parte la rocca su quello che oggi si chiama Colle Guasco, tutti gli edifici non sono mai stati circondati da mura (D.B.G. II, 13): ed effettivamente non abbiamo indizio della costruzione di cinte urbiche successive a quella in blocchi di arenaria che doveva comprendere il Guasco e la zona portuale, databile ad età ellenistico-repubblicana. Tutta da verificare, ma per quanto si può ora giudicare piuttosto opinabile, è l'attribuzione al periodo della guerra grecogotica di due tratti di mura di fattura diversa in via della Cisterna 38 ed a fianco del Palazzo degli Anziani (Fig. 14), ipotesi quest'ultima avanzata da Michelangelo Cagiano de Azevedo in quello che fu uno dei suoi ultimi lavori 39. E sempre a fianco del Palazzo degli Anziani gli scavi in corso non hanno confermato la datazione per quello che era stato definito ―sacello bizantino‖ del VII sec. (Fig. 15), chiarendone comunque, in attesa di ulteriori accertamenti, la situazione architettonica 40. Un cenno merita la situazione dell'area della scuola media Federico II a Jesi 41: in un contesto pienamente romano e in una zona perfettamente in piano due fosse di scarico contengono frammenti ceramici databili per quasi tutto l'arco del Medio Evo, compresi i secoli anteriori al Mille, smentendo per quanto è dato constatare la regola di un ritiro delle popolazioni nei centri di altura durante i cosiddetti secoli bui. Giova ricordare che per il territorio di Jesi sono state ricercate e trovate le tracce della presenza longobarda, per cui si scontrano le due teorie di una dominazione barbarica episodica da situarsi grosso modo durante la prima metà del VII secolo 42 oppure di una conquista duratura da parte dei Longobardi dell'intero territorio fino al mare con un inserimento consistente fra le due ―isole‖ bizantine di Senigallia e Ancona 43. Sempre per quel che riguarda le città possiamo ricordare che da Procopio (D.B.G. III, 11) apprendiamo del frettoloso restauro delle mura di Pesaro voluto da Belisario, mentre è solo la tradizione che gli attribuisce per Fano un'analoga iniziativa oltre che la costruzione di un cassero poi trasformato nella torre campanaria della Cattedrale. Se quest'ultimo dato è del tutto da escludere, non sembra impossibile un restauro delle mura in età bizantina, di cui l'eventuale unica traccia può essere riconosciuta in alcuni filari di conci di arenaria alternati a mattoni e in blocchi di calcare sicuramente di riutilizzo visibili nel tratto fra l'Arco di Augusto e la Porta della Mandria 44. Circa i ripristini avvenuti a Pesaro, nulla è più possibile riconoscere in conseguenza della pressoché totale obliterazione delle mura romane da parte delle successive costruzioni.
Da quanto sin qui esposto appare chiaro che le nostre conoscenze sono praticamente limitate alla situazione cittadina o dalle fasce immediatamente suburbane (aree cimiteriali e relative basiliche), mentre per quanto riguarda il territorio ci si limita per lo più all'analisi delle ultime fasi di vita delle ville rustiche romane, per le quali le ultime acquisizioni, non solo marchigiane, in fatto di classificazione dei materiali ha spostato dal V al VI secolo l'abbandono di tali insediamenti sparsi, abbandono che viene quindi messo in relazione con le devastazioni causate dalla guerra greco-gotica. La principale eccezione è costituita dal già citato sito pesarese di San Cristoforo ad Aquilam (Colombarone), dove nel 743 l'esarca Eutichio attese ed incontrò il papa Zaccaria 45, sito per il momento studiato di per se stesso e non per eventuali sue valenze a livello topografico. Risale al 1974 la pubblicazione del primo sistematico catalogo dei rinvenimenti di sepolture e di tesori ostrogoti in Italia 46. Pur tra errori e imprecisioni - purtroppo in parte ripetuti a vent'anni di distanza per quanto pubblicato nel catalogo della recente mostra milanese 47- l'opera di Volker Bierbraner resta il punto di riferimento fondamentale sia per la schedatura dei reperti che per le considerazioni di carattere generale. In quest'ultimo ambito costituisce un fatto di primario interesse l'individuazione di un'area particolarmente densa di ritrovamenti da situarsi soprattutto fra le attuali province di Ascoli Piceno, Teramo e Chieti (antico Picenum) (Fig. 16), e comprendente anche qualche propaggine verso nord (prov. Ancona) e verso sud (prov. L'Aquila) 48. Lo stesso Bierbraner chiarisce la situazione ―di frontiera‖ degli insediamenti che gravitano attorno alla vallata del Tronto, in un primo tempo 49 letti singolarmente in rapporto alla rete viaria e quindi incentrati sull'asse della Salaria, e poi 50 complessivamente interpretati come baluardo in vista di possibili e prevedibili attacchi bizantini dal mare e dalle aree dell'Italia meridionale. E tale funzione è resa particolarmente evidente da alcune località, come il Colle Arnaro, che domina una vastissima area dal Tronto al Tordino; oppure Acquasanta, dove il borgo di Cagnano e il luogo di rinvenimento delle tombe stanno su speroni affacciati sulla via Salaria, il primo dominante anche una valletta (Fig. 17) possibile via di ascesa ad un punto naturalmente difeso e collegato a vista con Forcella di Roccafluvione, altro probabile insediamento goto; od infine la zona di Sant'Andrea (Fig. 18) tra Cupramarittima e Grottammare (da dove provengono le fibule dette ―di Grottammare‖, ma in realtà rinvenute entro il territorio comunale di Cupramarittima), che è un castello naturale dominante la via costiera. Al di fuori dell'ambito ascolano il carattere militare delle postazioni gote è meno o per nulla evidente: sembra infatti da ricollegare alla rete viaria senza particolari motivi difensivi il luogo di rinvenimento del celebre medaglione di Teodorico 51, posto (Fig. 19) lungo un percorso collinare da Aesis (Jesi) a Sena Gallica (Senigallia); e carattere agricolo doveva avere l'insediamento di Domagnano 52, posto in un luogo aperto, non particolarmente pendente e di facile accesso. Sarebbe interessante conoscere il luogo di ritrovamento della coppia di fibule e della fibbia di cintura di Fano pervenute al Museo Romano-Germanico di Colonia dalla collezione Diergardt 53 ciò ci permetterebbe di valutare i modi di inserimento dei Goti nell'ambito di una fiorente cittadina romana notevolmente importante come nodo viario e centro costiero: ma purtroppo non abbiamo delucidazioni di sorta ed è dubbia la stessa indicazione della provenienza dalla città adriatica. Per la lettura dell'occupazione del territorio nei secoli VI e VII occorre anche considerare il problema degli insediamenti in grotta. La leggenda fanese di San Paterniano attribuisce all'età delle persecuzioni la decisione del vescovo e dei suoi più fedeli seguaci di allontanarsi dalla città per ritirarsi a vivere nelle selve. I1 testo originale si deve far risalire alla fine del VII sec.; in esso, e nelle sue successive rielaborazioni, si rispecchia la situazione ancora vigente nel Tardo Antico di un insediamento sparso nelle campagne fortemente autosufficiente; ma potrebbero esservi adombrate anche le drammatiche vicende dei decenni centrali del VI sec. fino allo stabilizzarsi dei rapporti tra Bizantini e Longobardi 54. Le grotte nella Gola del Sentino (Fig. 20) videro l'insediamento umano sin dal Paleolitico Superiore (Grotta del Prete); alcune di esse però hanno restituito nei loro strati più superficiali (spesso compromessi da manomissioni anche molto recenti) pure materiali databili dall'epoca romana in poi
55. Alcune evanescenti strutture, quali tracce di focolari (circoli di pietre lievemente inclinate verso il fondo, anch'esso rivestito di lastre) rinvenute in particolare nelle grotte dei Baffoni e del Prete 56, proprio per la loro elementarietà e per la stratigrafia non immune da disturbi risultano difficilmente databili. I reperti che interessano appartengono tutti a tipologie tardoromane e bizantine (Fig. 21); ma potrebbero in teoria porre il dubbio dell'attribuzione alla popolazione indigena o a quelle barbariche in quanto divenuti presto di uso comune: a tal proposito si possono ricordare in particolare la paragnatide di elmo a piastre già al Museo Civico di Fabriano e gli orecchini a cestello in argento dalla Grotta del Mezzogiorno 57. Il fatto stesso però che in un ambito territoriale estremamente ristretto ed omogeneo si abbia una sequenza di attestazioni archeologiche che - passando da una grotta all'altra - copre quanto meno tutto il VI sec. ed abbraccia fasi storiche diverse quali la dominazione gota, la guerra coi Bizantini, la restaurazione giustinianea, l'invasione longobarda, lo stabilizzarsi del Ducato di Spoleto nel Centro Italia, dimostra che la Gola era abitata (non sappiamo se con carattere stabile od occasionale) da Romani che avevano assai validi motivi per allontanarsi dalle tumultuose vicende sopra 58 cordate È stata rivolta qualche attenzione all'utilizzazione delle grotte come luogo di culto s8. È stata notata la frequenza dell'intitolazione a San Michele - semplificata spesso in quella a Sant'Angelo o agli Angeli -, ritenuta tipicamente longobarda e conseguentemente indice di per sé dell'insediamento germanico 59. Ma è stata avanzata anche prudenza nel proporre l'esatta corrispondenza tra questo culto e la presenza longobarda in quanto nell'area marchigiana molto raramente si conoscono origine e dedicazione primitiva delle fondazioni religiose; pertanto non sarebbero da escludere intitolazioni pienamente medievali e rispecchianti un culto diffuso e non più caratterizzato per etnia e confessione religiosa 60. Altra area di notevole interesse, ma forse irrimediabilmente compromessa negli ultimi decenni da lavori non sufficientemente controllati, è quella della Gola del Furlo, nell'Appennino pesarese. Da Procopio apprendiamo l'importanza strategica nell'ambito della guerra greco-gotica di questa strettoia lungo il percorso della principale via di comunicazione tra Roma e il medio Adriatico 61; l'argomento è stato studiato in un pionieristico lavoro del 1908 dal Feliciangeli 62. Una nota apparsa nel 1886 su ―Notizie degli Scavi‖ riferiva di un'interessante scoperta archeologica 63: lungo il percorso della S.S. 3, che ricalca esattamente la consolare Flaminia, immediatamente a monte della galleria di Vespasiano (Fig. 22), si identificò un consistente strato di terreno nerastro comprendente tracce di granaglie bruciate (Fig. 23); il fatto - unitamente alla presenza di frammenti di legno carbonizzato, pietre calcinate, pezzi di laterizi e di stoviglie in coccio e in vetro frammisti allo stesso terriccio, tutti chiari indizi della presenza di edifici - venne letto come documento dell'incendio procurato al castello bizantino di Petra Pertusa nel 570-571 da un contingente longobardo proveniente dalla Toscana, avvenimento che ci è documentato da Andrea Agnello 64. La stabile frequentazione nel corso del VI sec. è testimoniata anche dai rinvenimenti di tombe ripetutisi negli anni '60, tombe la cui datazione è comprovata almeno in un caso dalla presenza come corredo di un pettine a doppia dentatura ascrivibile appunto al VI-VII sec. 65. Un diverso discorso vale per i rinvenimenti (Fig. 24) della Selva degli Abeti presso Ascoli 66, attualmente dispersi, che consistevano in un vaso di pietra ollare, in una fibbia a traforo di tipo bizantino e negli elementi di almeno due cinture in bronzo del tipo detto ―longobardo‖ o ―a cinque pezzi‖, che serviva a sostenere le armi (Fig. 25). L'esatta individuazione del luogo di rinvenimento pone dei problemi di interpretazione. Ci si trova lungo una strada, evidentemente esistente in antico, che dal capoluogo piceno conduce a Venarotta per ricongiungersi poi ad un asse viario interno che percorre quasi tutta la regione 67 e che era ancora importantissimo nel VII sec. quale collega mento fra i Ducati longobardi di Spoleto e di Benevento. Località ed itinerario non rivestano certamente interesse strategico e pertanto l'insediamento non può essere attribuito ai Longobardi dell'occupazione, bensì eventualmente ad un gruppo che si è precocemente stabilito nella campagna accanto alla popolazione autoctona, di cui ha adottato gli usi di vita.
Per il pieno Alto Medio Evo dobbiamo poi elencare le molte cose che non sappiamo, o meglio enumerare i temi approfonditi - almeno in alcune zone - dal punto di vista storico-archivistico ma non altrettanto indagati per l'aspetto archeologico. Per quel che riguarda le pievi 68 sono soprattutto gli studi sui documenti che individuano le fondazioni più antiche e permettono di trarne indicazioni utili per ricostruire la continuità o le variazioni rispetto all'età romana e tardoantica sia del tessuto insediativo che della rete viaria medievale. Al di là della banale constatazione che molte di esse sorgono entro insediamenti romani, non esistono ricerche sistematiche sulle fasi più antiche nemmeno per gli edifici eventualmente sottoposti a restauro monumentale. Lo stesso si può dire circa la penetrazione in area marchigiana dei ―potentati ecclesiastici‖, quali le abbazie di Farfa 69 e di Ferentillo 70 o l'episcopato ravennate 71, mediante i numerosi possedimenti. In tutti questi casi l'archeologia servirebbe ovviamente a colmare il vuoto lasciato dalle fonti scritte, che diventano particolarmente ricche solo tra X e XI secolo. Invece l'impossibilità per la Soprintendenza di organizzare un piano di ricerca e soprattutto di mantenervi fede fa sì che, qualora i possedimenti documentati siano stati topograficamente identificati, sporadiche e del tutto occasionali sono le constatazioni di precedenti romani (e, perché no?, preromani) ed è di conseguenza assai difficile ricostruire in quali termini si ponga la continuità. Cito alcuni esempi per la provincia ascolana, in gran parte dovuti alle cortesi segnalazioni della dott.ssa Laura Pupilli di Fermo. COMUNANZA, Santa Maria a Terme. Scavi eseguiti dalla Soprintendenza Archeologica nel 1986 e diretti dal collega dott. M. Landolfi hanno portato alla luce tombe romane e una struttura circolare dal diam. di m 6,30 non identificata. La curtis Sanctue Mariae interamnes è segnalata tra i possessi farfensi nella valle dell'Aso nel 967, ma l'edificio romanico reimpiega frammenti di plutei con i tipici intrecci del periodo a cavallo fra VIII e IX sec. MONTOTTONE, San Pietro Martire. È segnalata la pieve di San Pietro nel 1290-92 (ma si tratta della chiesa in paese rifatta nell'età bàrocca) mentre esattamente un secolo prima è documentato il possesso farfense sul castrum. L'edificio sorge in area romana che ha dato i blocchi reimpiegati e - a quanto pare - alcune tombe. Da qui potrebbero provenire le tre fibbie di cintura longobarde (due superstiti nel Museo) che il Gabrielli acquistò da un antiquario romano nel 1897 72. MONTEMONACO, San Giorgio all'Isola. Chiesa annoverata fra i possessi farfensi. Un sopralluogo effettuato da chi scrive nel 1990 non ha rivelato evidenti tracce di precedenti romani. FALERONE, San Paolino (Fig. 26). È un'area romana frequentata nel tardoantico, come rivela il materiale di superficie. È stato supposto 73 che appartenesse all'abbazia di San Pietro di Ferentillo in quanto dipendenza di San Fortunato di Falerone (sicuramente possesso dell'abbazia umbra). Da qui provengono la lapide (Fig. 27) del duca fermano Tasbuno 74 e forse il bacile bronzeo (Fig. 28) conservato al Museo Civico di Fermo 75. MARIA CECILIA PROFUMO
1 PROFUMO I985, pp. 581-585. 2 PROFUMO 1990, pp. 139 - 140. 3 PROFUMO-BALDELLI 1991, pp. 73-74; PROFUMO 1995b. Lo scavo del 1988-89 si è svolto con la collaborazione dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Urbino: ringrazio in particolare il dott. Monacchi, che ha curato parte della documentazione grafica. Ringrazio anche il collega dott. G. Baldelli, che si è occupato della situazione protostorica. Per le notizie sulla città romana situata in loc. San Martino del Piano cfr. GORI-LUNI 1983, pp. 87-113; per notizie e leggende sui primordi del Cristianesimo e sull'Alto Medio Evo cfr. VERNARECCI 1903 pp. 97-183. 4 GORI 1991, PP. 71-72. 5 C. CORCILIO / L.F.CLA.SPICAE / Illl VIR.I.D.Q.BER / VAE.LOCUS.SE / PULT.PUBLICE / D D. I caratteri precisi ed accurati, ma con incisione sottile, indicano una datazione alla prima età imperiale, e più probabilmente fra I e 1I sec. d.C. 6 S Q.../...ITVI.../...AS CITV.../...VRIVLINA.../... EBITVMNA.../... RCORANO.../... SANCTORVM.../...MPETMVS ET.../...RTA BEATI FA... 7 LAMBOGLIA 1950, p. 158, nn. 155-158, figg. 89-90, PATITUCCI 1970, pp. 95,119, figg. 17f, 20; BALDASSARRE 1967, pp. 169,172 175. 8 PATITUCCI 1970, p. 119. 9 LAMBOGLIA 1950, p. 180, n. 27, fig. 104. 10 Cfr. MONACCHI 1995, p. 76, n. 248. 11 Notizie in merito si rintracciano negli archivi comunali ed ecclesiastici di Fossombrone. 12 La notizia, tratta da fonte manoscritta, è riportata da VERNARECCI 1879, p. 122. 13 Ibidem, p. 122: REST.../ ADIVT.../ DIVI / IMPANT. Sul retro: HIC / REQVIESCIT / VERGILIVS PRB / DIEM POS •V •IDVS •NOV. Cfr. BTNAZZI 1989, pp. 185-186, n. 122. 14 Per il rinvenimento presso la pieve di S. Martino del Piano, nel 1926, dei ruderi di quello che fu ritenuto un edificio monumentale romano poi trasformato in chiesa cristiana cfr. Soprintendenza Archeologica delle Marche (Ancona), Archivio Vecchio, Fossombrone, cass. 5, fasc. 9. is Per la supposta epoca dell'abbandono della città romana cfr. GoR~-LuNT 1983, pp. 89, 99-100. 16 Soprintendenza Archeologica, A.V, Fossombrone, cass. 5, fasc. 4. 17 Per il monastero cfr. VERNARECCI 1903, passim.
18 ―Una canaletta e numerose buche di palo, scavate fin entro lo strato detritico inferiore dimostrano che sul paleosuolo descritto si impiantò un abitato piceno, la cui datazione attorno al VII sec. a.C. è precisata dai frammenti di vasi d'impasto recuperati‖: cfr. PROFUMO-BALDELLI 1991, P. 74. 19 ALFIERI 1983, PP. 23-26. 20 FARTOLI 1975, PP. 215-223; EAD. 1982-83, PP. 131-168; EAD. 1985, PP. 489-502; RUSSO 1984, PP. 235-255; ID. 1989, PP. 79-147; LUNI 1989, PP. 55-77. 21 DALL ‗AGLIO 1985, PP. 169-176; ID. 1991, PP. 65-69. 22 BOVINI 1966, PP.23-49. FARIOLI 1975, PP.212-215, CANTI POLICHETTI 1981 ~ PROFUMO 1985, PP. 590-594; EAD. 1989, PP. 294-297. 23 COCCHINI 1985, PP. 443-455 con bibliografia precedente. 24 PANI ERMINI 1983, PP. 323-325, in part. nota 55; EAD. 1989, P. 113, fig. 13. 25 PANI ERMINI 1983, PP. 301-331; EAD. 1989, PP. 70-72, 112-118. 26 QUIRI 1985, PP. 596-599, fig. 1; PROFUMO 1985, PP. 587-589, fig. 4; QUIRI-PROFUMO 27 Per i ricchi mosaici romani rinvenuti attorno alla piazza v. PORCARO 1992, PP. 292294, per le tombe sovrastanti strutture romane e relativo strato d; crollo v. PROFUMO 1992, P. 512, figg. 4-ó. 28 PROFUMO 1989, P.287, fig. 2. 29 LANZONI 1927, PP.381-399; 487-503. 30 PG., XXV, col. 250. 31 MANST 1759, col. 209. 32 LANZONI 1927, pp. 392-393; ma v. CARDINI 1983, pp. 1154-1160. 33 L'iscrizione posta nel retro del coperchio del sarcofago di Flavius lulius Catervius dice che lo stesso Catervio e la moglie Septimia Severina erano stati battezzati da Probianus (l'appellativo sacerdos può indicare anche il vescovo, cui spettava il compito di battezzare) ma non precisa se ciò avvenne a Tolentino; è quindi solo una possibile - ma non certa testimonianza dell'esistenza della diocesi nella seconda metà del IV secolo. V. IOLL 1971, pp. 43-44, fig. 5; BINAZZI 1995, p. 46, n. 22b. 34 LANZONI 1927, p. 390. 35 Cfr. ibidem, passim i rimandi. Tra i vescovi della zona picena citati da Gelasio I ci sono anche un Respectus e un Leoninus (492-96) di cui si ignora la sede. 36 Per questo accordo e per la situazione del ducato di Spoleto v. MELUCCO VACCARO 1985, pp. 92-105. 37 Per questi episodi cfr. BERNACCHIA 1983, P. 704; ID. 1995, P. 80. 38 ALFIERI 1938, PP. 47-48, fig. 3, carta topografica. 39 CAGIANO 1983, P. ]54. 40 PROFUMO c.s.b. 41 PROFUMO 1982, P. 435; EAD. 1985, P. 586. Per l'edizione dello scavo si rimanda a BRECCIAROLI in stampa, comprendente una scheda dedicata al materiale medievale contenuto in due fosse di scarico, scheda curata da chi scrive. 4Z CHERUBINI 1983, PP 542-550 41 BALDETTI 1983, PP. 819, 828-829, 839, 861-862, tav. II. 44 PROFUMO 1992, P. 511; DELI 1992, fig. 7. 45 Lib. Ponl., I, pp. 429-430. 46 BIERBRAUER 1974, passim. 47 BIERBRAUER 1994, pp. 170-177. 48 PROFUMO 1995a, pp. 45-75; EAD. C.S. a. 49 BIERBRAUER 1974, passim. 50 BIERBRAUER 1994, pp. 174-176. 51 PROFUMO 1995a, p. 132, nota 17. 52 KIDD 1994, pp. 194-202 53 PROFUMO 1992, pp. 520-522; per la datazione vedi anche PROFUMO 1995a, p. 48. 54 PROFUMO 1992, p. 506; Dirr 1992, p. 526. 55 AA.VV. 1956,passim. Nelle grotte (in particolare in quella di Frasassi) vennero trovati nel secolo scorso anche degli scheletri, variamente attribuiti agli autoctoni del Vl sec. o ai religiosi dei monasteri medievali. Cfr. in FELICIANGELI 1908, p. 83 nota 2. Dall'esame delle presenze archeologiche effettuato in occasione della mostra di Ascoli Piceno sui Bizantini e i Longobardi nelle Marche pare possibile la prima ipotesi. Cfr. PROFUMO 1995a, pp. 138-140. st RADMILLI 1953, p. 1 T9. 57 Per l elmo v. BIERBRAUER 1974, p. 283, n.12, tav. XXII,5; per gli orecchini v. PROFUMO 1995a, p. 140, n. 5, fig. 75. 58 BITTARELLI 1983, pp. 569-586; CARDINI 1983, pp. 1150-1 '60. 59 BALDETTI 1983, p. 799. 60 VASINA 1978, p. 26, nota 57. 61 Proc. De B. Goth. II, 11, pp. 269-272 (Vitige conferma i 400 uomini a guardia del Passo del Furlo; descrizione del castello e menzione degli altri luoghi fortificati della Flaminia; assedio e conquista bizantina, anno 538), III, 6, p. 392 (riconquista di Totila, anno 542), IV 28, p. 699 (Narsete in marcia contro Totila evita la via Flaminia perché il castello di Petra era in mano ai Goti; giugno 552); IV, 34, p. 727 (i Bizantini riconquistano Petra; fine 552).
62 FELICIANGELI 1908, pp. 26, 31, 57 per quanto riguarda la Gola del Furlo. 63 Not. Sc. 1886, pp. 225-228, 411-416. 64 Agn. Lib. Pont. Eccl. Rav., 95, p. 232 ed. TeSti RASPONI. 65 PROFUMO 1995a, P. 135, n. 2, figg. 65-66. 66 Ibidem, p. 182. 67 ALFIERI GASPERINI-PACI 1985, PP. 36-41, MOSCATELLI 1984, P. 48, MELUCCO VACCARO 1985, P. 102. 68 Per le pievi più antiche e la loro distribuzione v. soprattutto Pievi 1978, Pievi 1982 nonché numerosi altri studi dedicati a specifiche aree. 69 PACINI 1966, PP.129-174; ID. I983, PP.333-425. 70 PACINI 1983, PP.339-340, nota 12; ALLEVI 1983, PP. 1001-1002 nota 63, PP.1058 - 1059 nota 148. 71 Per il Codice Bavaro vedi l'edizione critica pubblicata nelle collane della Deputazione di Storia Patria per le Marche (Codice Bavaro 1983), e la presentazione in POLVERARI 1983, PP. 159-216. 72 PROFUMO 1995a, P. 167, nn. 4-5, fJgg. 129-130; la nOtiZia deriVa da GABRIELLI Tacc. 12 (1897), P. 31; Tacc. 14 (1899), P. 10. 73 ALLEVI 1983, PP. 1058-1059 nota 148. 74 A quanto risulta, I'iscrizione (di cui si ignora il luogo di rinvenimento) era reimpiegata come mensa d'altare: cfr. ALLEVI 1983, pp. 1057-1058, con bibliografia precedente; v. anche BONVICINI 1991, PP. 61-64. 75 PUPILLI 1990, p. 16, n. 404.
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Le origini della Cattedrale di Ascoli. Aspetti di urbanistica altomedievale in una città del Picenum
Nel 451 il vescovo ascolano Lucentis fu legato di papa Leone I a Costantinopoli e rappresentò il medesimo papa al concilio di Calcedonia 1. Sin dalla metà del sec. V, dunque, esisteva una ormai consolidata sede episcopale ascolana. La Cattedrale di S. Maria (Fig. 1, n. 1), attestata per la prima volta in un documento del 996 z, è l'unica chiesa ascolana che risulta essere stata sede vescovile, e non presenta strutture databili anteriormente al sec. XI, mostrando bensì chiari segni di evidenti preesistenze romane. Pertanto, si è propensi a credere che la più antica chiesa vescovile di Ascoli, istituita nella medesima area, poté essere ricavata dal riutilizzo di un tempio o di un edificio civile. Ci conforta in ciò l'esempio della chiesa di S. Gregorio, a breve distanza dalla Cattedrale (Fig. 1, n. 2). Essa è in sostanza un tempio romano 3 riutilizzato come luogo di culto cristiano almeno da tempi altomedievali. La struttura non mostra segni di ristrutturazione anteriori al sec. XIII, ma negli scavi effettuati all'interno dell'edificio nel 1939-40 sono stati rinvenuti quattro fusti di colonnine certo destinati a sorreggere un'antica mensa cristiana, direttamente istituita sull'antico piano pavimentale del tempio 4. E al di là di questi resti, la sopravvivenza stessa delle antiche strutture sta a testimoniarci la loro remota riutilizzazione. La Cattedrale si è orientata seguendo l'andamento del decumano minore della città antica corrispondente agli attuali Corso XX Settembre e Corso Vittorio Emanuele. Un segmento di conduttura fognaria rinvenuto proprio nell'ambito della Cattedrale, nell'area dell'attuale navata sinistra (Fig. 2, x), segue l'andamento di questa direttrice 5, non priva di una sua rilevanza già a livello morfologico: essa infatti delimita la linea di giunzione tra il Colle dell'Annunziata e l'area dell'impianto urbano. Proprio nello scoscendimento del Colle, si sono potute riconoscere tracce consistenti dell'edilizia monumentale romana 6: la Porta Gemina 7 (Fig. 1, a), il teatro 8 (Fig. 1, b), le domus dell'area attualmente occupata dal Palazzo di Giustizia 4 (Fig. 1, c) e il tempio che farà da contesto alla citata chiesa di S. Gregorio (Fig. 1, d). Nell'area della Cattedrale si rinvenne nel 1882 un considerevole muro in Opus quadratum individuato a m 1,52 di profondità dal piano della navata, alla base del pilastro sinistro della cupola, in linea con la scalinata del presbiterio 10 (Fig. 2, n. 1; Fig. 3, A); a tale muro va messo in relazione un mosaico che fu individuato in due occasioni, nel corso dello scavo del 1882 e nel 1967, a m 1,66 di profondità (Fig. 2, nn. 2, 3, 4): i motivi decorativi rinvenuti suggeriscono una datazione compresa tra il sec. I a.C. e il II sec. d.C. 11. Una nicchia praticata nel 1967 all'angolo SudOvest della cripta ha individuato, a m 1,15 di profondità dall'aula, la prosecuzione dell'antico muro in opus quadratum, mettendone in luce tre filari dello spiccato e le fondazioni a sacco (Fig. 2, n. 5; Fig. 3, B); concludendosi con la sporgenza di una lesena, questo tratto del muro segue l'andamento del transetto, che si sovrappose all'antica opera conglobandone la struttura. La presenza del filare basamentale, pressoché tipico dei paramenti murari esterni delle costruzioni romane, implica che questo sia il lato conclusivo dell'antico edificio romano, il che è peraltro confermato dalla collocazione del mosaico, individuato nell'area corrispondente all'aula della chiesa. Una tangibile testimonianza del reimpiego nella chiesa preromanica di una parte almeno delle strutture romane preesistenti è data da un pavimento formato da robuste lastre di travertino rinvenuto a m 1,30 di profondità dal piano della navata centrale 12. Tale pavimento risultò addossato al tratto di muro in opus qudadratum rinvenuto presso il pilastro sinistro della cupola 13 (Fig. 2, n. 1): quando il pavimento fu realizzato, le strutture romane dovevano essere in gran parte operanti e ancora in vista. Infatti, i due citati tratti di muro romano, allo stato del rinvenimento, risultano spiccare m 1,10 sul piano preromanico. Inoltre, tra il piano pavimentale a mosaico e il bordo inferiore delle lastre del pavimento preromanico sussiste uno scarto di soli m 0,15, il che lascia pensare che quest'ultimo pavimento sia stato operato sull'area utile dell'edificio romano. Ad una fase preromanica si potrebbero anche collocare i resti dell'antica vasca battesimale ad immersione rinvenuti nel 1829 all'interno del Battistero (Fig. 2, n. 6), la cui attuale struttura è databile
al sec. XII: d'inconsueta forma circolare, la vasca si riferisce ad una precedente fase costruttiva del monumento e attesta l'esistenza in Ascoli di un complesso battistero-cattedrale sin dall'epoca altomedievale. Le pratiche sepolcrali riflettono con chiarezza la continuità d'uso dell'area interessata dai due monumenti. Se alla Cattedrale, come si può credere, è relativa l'iscrizione cristiana CIL, IX 5274 già reimpiegata nella chiesa di S. Biagio ]4 (Fig. 1, n. 3), si può pensare che nell'aula della chiesa e nei suoi paraggi si praticasse già nel sec. V la sepoltura dei fedeli. Il Gabrielli segnalava nel 1867 la scoperta di una sepoltura di “Epoca posteriore a Costantino” avvenuta presso il Battistero 15 (Fig. 1, n. 4). Tombe altomedievali furono rinvenute dietro la tribuna della Cattedrale e nell'attuale Lungocastellano nel 1891 (Fig. 1, nn. 5, 6). Le fosse, formate da lastre di travertino e coperte da tegoli o da lastre di pietra, mostravano in parecchi casi la presenza di più scheletri insieme. In una delle tombe dietro alla Cattedrale si rinvenne una moneta di bronzo dell'epoca di Atalarico (526534). Peraltro, sempre dietro alla Cattedrale, si osservò una fossa con pareti in conci di travertino e con elementi di reimpiego, strappati a edicole sepolcrali romane 16. La presenza di elementi scultorei derivati dallo spoglio della necropoli della città romana, unita alla qualificazione cimiteriale di aree rappresentative comprese nell'impianto urbanistico romano, evidenzia un forte mutamento dei valori estetici e rappresentativi dell'antica urbs: un senso di istintiva appropriazione degli spazi si osserva anche nell'ambito del forum (Fig. 1, i), dove l'area pubblica risulta anch'essa interessata da una sepoltura e da una modesta edilizia di carattere squisitamente utilitario 17. La chiesa madre di Ascoli, forse danneggiata dalle violente vicissitudini storiche del sec. VI 38, non fu amministrata da vescovo alcuno fino al 745 i9, il che comportò ovviamente il decadere del suo ruolo e, soprattutto, I'impossibilità di mantenervi anche un minimo di vita ecclesiastica, essendo peraltro sproporzionata alle esigenze di una popolazione ridotta numericamente e in capace idealmente di ritrovare forti stimoli di aggregazione civile e spirituale. Proprio il pavimento citato, che mostrava un dislivello di m 0,10 e tracce di incendio, potrebbe testimoniare un'antica devastazione della chiesa, certo legata ai saccheggi delle invasioni gota e longobarda. Nel novembre dell'anno 602, una lettera di papa Gregorio Magno 20 diretta al vescovo di Fermo Passivo (vista la vacanza della sede episcopale ascolana), ci attesta la fondazione dell'eremo di S. Savino sul Colle S. Marco, a Sud della città. Il diacono ascolano Proculo volle costruire un monastero con un oratorio dedicato al martire Savino - un Santo di grande rilievo nella tradizione cultuale longobarda le cui reliquie erano conservate nella stessa Spoleto 21, Relativamente alla vicenda storica di Ascoli, è la testimonianza di un periodo di forte impoverimento della vita urbana 22, priva della guida episcopale e ancorché priva di valide presenze spirituali, tese bensì a radicarsi nel territorio circostante. La vita amministrativa e sociale che si svolgeva all'interno della città si concentrava nella fascia settentrionale della penisola fluviale 23, Qui si erge un imponente promontorio di roccia a picco sul Tronto (Fig. 1, n. 7), legato da un evidente nesso morfologico all'insediamento di Castel Trosino: su questo naturale bastione urbano si ergeva un edificio fortificato, il "Castello in Isola", forse residenza del gastaldo, un edificio la cui prima menzione rimastaci è riferita al sec. VIII 24. Demolito nel sec. XVI 25, fu ridotto a pochi, imponenti resta ancora osservabili nel sec. XVIII 26. A breve distanza dal Castellum si erge il Ponte romano di Porta Solestà sul fiume Tronto 27 (Fig. 1, e), chiaro elemento attrattivo situato in una zona facilmente difendibile oltreché favorita dalla vicinanza del fiume. Un altro caposaldo importante, che sorge rasente al greto del Tronto, al margine di quella fascia settentrionale che si è individuata, è la plebs di S. Maria (Fig. 1, n. 8), chiesa omonima della Cattedrale (e forse, in origine, sostitutiva della stessa chiesa episcopale) che permane tuttora nella forma assunta nei rifacimenti compiuti tra il sec. XII e il sec. XIII. Un documento del 1179 28 la ricorda per la prima volta con l'appellativo inter vineas, suggestivo riflesso della tendenza a ricavare terreni coltivabili nelle aree urbane abbandonate.
Questa chiesa plebana fu confermata ai Canonici della Cattedrale in un diploma di Ottone III (996) (vedi nota 2). La tradizione locale, a sottolineare la sua forte valenza rappresentativa, non esita ad attribuirne la fondazione alla fine del sec. V 29. Forse una cronologia tanto remota non è attendibile, ma è piuttosto credibile che nel sec. VII-VIII un organismo del genere potesse già esistere, trovando il suo spazio ideale in un'area urbana degradata e priva di guida episcopale, e che necessitava dunque di un punto sostitutivo di riferimento cultuale e istituzionale quale la plebs in questione poteva essere. S. Maria non era l'unica pieve urbana di Ascoli. Il diploma di Ottone III attesta inoltre S. Venanzio, S. Vittore e S. Pietro. S. Venanzio ebbe luogo grazie al riutilizzo di un tempietto romano (Fig. 1, n. 9). La chiesa, oggi databile al sec. XIII e che mostra tuttora nel fianco sinistro la parete della cella dell'antico tempietto 30, Si trova ubicata a un centinaio di metri dall'antico forum della città (Fig. 1, i), in un'area ancora punteggiata nel sec. XII da ampi terreni coltivati 31. S. Vittore, attualmente databile al sec. XIII, si trova sul lato opposto della città (Fig. 1, n. 10), nei pressi delle presunte terme romane e del Ponte romano detto di Cecco 32 (Fig. 1, g, h). S. Pietro, fondata dal vescovo Adamo (983-996), oggi completamente perduta ma ancora esistente nel sec. XIV 33, Si trovava nella direttrice del decumanus maximus, l'attuale Corso Mazzini (Fig. 1, n. 11). Queste piccole realtà ecclesiali si erano dunque radicate in luoghi o percorsi rilevanti della città romana e altomedievale. Il rapporto con il tessuto urbano è in tutto omologo al rapporto che intercorre tra una pieve rurale e il territorio di pertinenza, pieve che si insedia spesso nel luogo di un antico insediamento o di un antico luogo di culto riassumendone le valenze rappresentative. Poste ai vertici di un ideale quadrilatero, le pievi ascolane dovevano individuare aree di attrazione ben definite, scomponendo l'ambiente urbano in una serie di ambiti coordinati da diversi centri di riferimento. Sotto l'episcopato del longobardo Auderis (745-780), a manifestare il lento ma ormai avviato riaffermarsi della vita istituzionale, peraltro attestato da una ristrutturazione della Cattedrale 34, Si formano i più importanti monasteri della città 35. S. Pietro in Castello venne appunto edificato nei pressi del "Castello in Isola" (Fig. 1, n. 7). Il cenobio di S. Maria in Solestà, dotato di una consistente corte, sorgeva nel suburbio della città (Fig. 1, n. 12) e risulta già nel sec. IX tra le pertinenze dell'abbazia di Farfa 36. S. Angelo Magno (S. Michele Arcangelo), che diverrà una delle più potenti realtà della vita economica e spirituale del Medioevo ascolano, sorse a sua volta sul declivio del Colle dell'Annunziata, entro la cerchia muraria della città (Fig. 1, n. 13). Il ruolo ambientale di S. Angelo Magno è nettamente dominante 37. Ubicato "in Texello", su un'area pianeggiante posta sul declivio dell'Annunziata, esso si appropriò del luogo di un importante edificio pubblico romano, le cui imponenti mura 38 furono riadattate a fare da solenne protezione al sagrato della chiesa. Un ruolo altamente significativo, dunque, in cui la valenza territoriale del monastero, posto a fulcro dominante di un comprensorio, viene assunta all'interno di una cerchia urbana. Pievi e monasteri sono dunque le note emergenti della vita urbana dell'Ascoli altomedievale, e individuano nuclei di attrazione che condizioneranno la successiva evoluzione urbanistica della città. In questo momento, la città è percepita in modo discontinuo, punteggiata com'è da elementi di richiamo che si situano in zone di rilevanza, senza che ciò comporti una riorganizzazione globale o un rmnovamento strutturale, fattori che necessitano di una solida volontà impositiva che non ha ancora ragion d'essere. In concreto, si è attuata un'osmosi tra la città e il suo comprensorio, sicché la città stessa è divenuta essenzialmente un'area privilegiata in cui tutta una serie di elementi consente e suggerisce di concentrarvi sempre più quelle istituzioni che necessitano di un ambito di rilievo per potersi radicare solidamente nel tessuto economico e sociale della zona. La stessa città offriva fuori e dentro le mura terreni coltivabili, corredati da un numero considerevole di falde sotterranee che potevano assicurare ampiamente il fabbisogno di acqua. I numerosi edifici inutilizzati fornivano da un lato materiale da costruzione a iosa, dall'altro garantivano alla nuova presenza insediativa una salda continuità con il passato. La capacità di Ascoli di sostenersi quasi esclusivamente con le risorse dell'agricoltura, consentirà un progressivo recupero delle sue valenze 39, cosa che sarebbe stata ben difficile in assenza di un solido riferimento amministrativo se la sua vocazione economica fosse stata orientata verso il commercio o
l'industria, attività senza le quali una città come Truentum, priva di vescovo e di autorità civili, si assopirà sempre più fino a scomparire del tutto. FURIO CAPPELLI
La presente comunicazione propone alcuni aspetti della mia dissertazione di laurea da discutersi presso l'Università di Macerata e avente per titolo: La Cattedrale di Ascoli nel Medioevo. Arte, cultura e società di una città nelle Marche (secoli Xl e Xll) (Relatori: prof. P De Vecchi, prof.ssa E. Saracco Previdi). Peraltro, il materiale qui proposto ha fornito un contributo alla mostra Ascoli nell'Alto Medioevo. Eredità barbarica (Ascoli P, Palazzo del Popolo, 20 luglio-31 ottobre 1995), organizzata dal Comune di Ascoli Piceno nell'ambito delle celebrazioni per il I Centenario della scoperta della necropoli di Castel Trosino. 1 S. PRETE, I più antichi vescovi di Ascoli Piceno (sec. IV-X17). Gronotassi documentaria, “Studia Picena”, vol. 49 (1984), fasc. I-II, pp. 1-25 (in seguito: PRETE, Vescovi), p. 2. 2 L. PANI ERMINI, "Ecelesia cathedralis " e "civitas" nel Picenum altomedievale, in AA.VV. Istituzioni e società nell'alto medioevo marchigiano, Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche, 86 (1981), Urbino 1983, p. I, pp. 301-331, p. 325; l'edizione del documento è in Ottonis 111 Diplomata, ed. E. v. OTTENTHAL, Hannoverae 1893, 1957, Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II/2, p.625s. (nr. 214). 3 M. PASQUINUCCI, Studio sull’urbanistica di Ascoli Piceno romana, in U. LAFFI-M. PASQUINUCCI, Asculum 1, Pisa 1975 (Biblioteca degli studi classici e orientali, 3), pp. 1-147 (in seguito: PASQUINUCCI, pp. 30-38: la chiesa di S. Gregorio è ricavata dalla cella di un tempio corinzio prostilo tetrastilo (I sec. a.C.), ampliata a tutta l'area del pronao, di cui rimangono due colonne in situ, reimpiegate nella facciata. 4 PASQUINUCCI, p. 34, n. 105. 5 PASQUINUCCI, pp. 127, 132; tav. 2. Sul segmento fognario vedi anche P BONVICINI, Elementi archeologici nella Chiesa Cattedrale di Ascoli Piceno, “Il Nuovo Piceno”, a. XXIV (1968), n. 37 (in seguito: BONVICINI). 6 Dall'esame dei rinvenimenti risulta chiaro l'addensarsi dell'abitato nella zona Sud della penisola fluviale: cfr. G. CONTA, 1I territorio di Asculum in età romana; G. CONTA U. LAFFI, Asculum 11, t. I, Pisa 1982, Biblioteca di studi antichi, 31.1, (in seguito: CONTA), P. 389. 7 PASQUINUCCI, P. 27ss. 8 PASQUINUCCI, PP 43~49 9 PASQUINUCCI, pp. 65-71. 10 G. GABRIELLI, Ristauro del Duomo / Battistero / S. Biagio, Biblioteca Comunale "Giulio Gabrielli" di Ascoli P., Fondo Gabrielli, Buste Prefettura 1-5, Cartella E.4 (1880-1883), 24 dicembre 1883 (in seguito: GABRIELLI, Ristauro): “Un masso di m. ],30 x 0,70 che fa parte di tale costruzione, è stato spezzato a tutta evidenza ner piantarvi sopra il nilastro sinistro dell'arco frontale della cupola”; ID., Duomo di Ascoli Piceno. Notizie degli Scavi comunicate all'Accademia dei Lincei fin tutto il 1880, Biblioteca Comunale "Giulio Gabrielli" di Ascoli P Fondo Gabrielli, Quaderno ms. n. 6 (in seguito: GABRIELLI, Duomo), c. Sv. (rilievo: “muro rotto per piantarvi il pilastro sinistro”. 11 La prima porzione di mosaico, rinvenuta nel 1882, era ubicata nell'area della navata centrale, presso il pilastro destro della cupola (Fig. 2, n. 2). GABRIELLI, Ristauro: “la parte scoperta ha zone bianche su fondo nero, alcune semplici, altre a triangolo”; ID., Duomo, cc. 3r. (rilievo con titolazione: Scavo stratigrafico, a m 1,66, “piano antico / mosaico bianco e nero / pietra schisto locale”: PASQUINUCCI, fig. 98), 3v. (schizzo della porzione scoperta del mosaico, oggi non più in vista; il motivo decorativo, su fondo nero, forma un angolo: PASQUINUCCI, fig. 97). La seconda porzione del mosaico, completamente bianca, è stata messa in luce nel 1967 nell'area della navata destra, a ridosso del pilastro della cupola (Fig. 2, n. 3). È tuttoggi in vista attraverso una "credenza" ricavata nella parete dell'ambulacro destro d'immissione alla cripta. Su questa parete è stato inoltre applicato in posizione verticale un piccolo frammento del medesimo mosaico, rinvenuto operando l'attigua scala d'accesso (Fig. 2, n. 4): cfr. BONVICINI. Per la datazione cir. PASQUINUCCI, p. 78 s.
12 GABRIELLI, Restauro: nello scavo effettuato per l'apertura dell'ingresso centrale alla cripta (Fig. 2, n. 2) “A m. 1,30 si è trovato un tratto di secondo pavimento pure a lastre di travertino [al pari cioè del pavimento della chiesa romanica], però molto più larghe del primo e di altezza maggiore”; nello scavo effettuato presso il pilastro sinistro della cupola (Fig. 2, n. 1) “A m. 1,40 di profondità (sempre dal piano della navata maggiore) è venuto fuori il pavimento a grandi lastre di travertino, e che avrebbe relazione coll'altro detto di sopra a m 1,30. La differenza di cm. 10 può supporsi occasionata da caduta di materiali dalla pendenza del pavimento stesso, od anche dal fuoco che sembra aver danneggiato tal parte di edifizio”, ID. Duomo, c. 3r. (rilievo con titolazione: “Scavo stratigrafico”; a m. 1,30, “Piano anteriore al restauro del Sec. XV”; lo spessore delle lastre è di m 0,21, vedi PASQUINUCCI, fig. 98). 13 Vedi lo schizzo a matita in GABRIELLI, Duomo, c. Sv. 14 Hic re]QU[i]ESCIT / in pace] PALUM/ba non]AS IULIAS / reces]S[i]T DE HAC / vita die ma]RTES LU/cis ex]ORDIO. L'iscrizione è attualmente conservata nel deposito del Museo Archeologico di Ascoli. In base ad esame paleografico, potrebbe ritenersi risalente al sec. V (gentile informazione del prof. G. Paci). La chiesa di S. Biagio sorgeva tra il Battistero e lo sbocco di via Bonaccorsi. Citata dai catasti del 1381, venne demolita nel 1886. 15 Cfr. PASQUINUCCI p. 82: il rinvenimento consistette in una cassa di marmo con due scheletri. 16 G. GABRIELLI, Taccuino nr. 56 (1891), Biblioteca Comunale "Giulio Gabrielli" di Ascoli P, Fondo Gabrielli, cc. 35v.-38r.: [c. 35v.] Scavi dietro la tribuna del Duomo. Per la celebre e costosissima strada sulle mura castellane lato sud, si taglia un tratto di terreno dietro la tribuna del Duomo per darle uno sbocco sulla via A. Vecchi e Corso V[ittorio] E[manuele]. Il taglio ha un'altezza di 5 metri e corrisponde proprio dietro il muro del cortile del Duomo, il così detto Capitolitt, cucina e cantina che dovranno essere demoliti lasciando scoperta la tribuna della Chiesa. Gli oggetti che si trovano stanno alla profondità di circa m. 5 dalla superficie e finora consistono in ischeletri umani che si trovano aggruppati entro rettangoli formati da frammenti di travertino, a modo di casse e coperti con lastre della medesima pietra. [c.36r.] Ho veduto le ossa, e mai mi sono trovato presente allo scoprimento. Riferisco quanto mi hanno affermato i terrazzieri. Uno di costoro mi ha mostrato una piccola moneta di bronzo che dice di aver trovato in una di codeste casse da morti”: al dritto busto della personificazione di Roma e la scritta INVICTA ROMA, al rovescio guerriero in piedi che “si appoggia colla d. ad un asta colla s. tiene uno scudo” e la scritta ATHALARICUS S C (...) H; Non ho comprato questa moneta che [c. 36v.] il terrazziere teneva carissima, e poi mi ha detto che l'ha gettata via? (...) 30.1.91. / Negli sterri sulla medesima strada di circonvallazione Orti Sgariglia lato Ovest prossimo al nuovo convitto (...) [Fig. 1, n. 6] sono stati trovati [c. 37r.] morti inumati e la tomba coperta di tegoloni. Uno porta la marca EN (...) un altro C. ENNI IWENALIS (...) in buone lettere, (...) conosciuta avendone trovato altri esemplari al Colle Colombario presso S. Salvatore di sotto. 22.8.91 / Abbassando ancora lo sterro dietro alla Canonica del Duomo seguitano a venir fuora altri scheletri umani, inumati altri sul terreno altri entro un rettangolo fatto di lastre di travertino, e coperti o da lastre della stessa pietra o da tegoli romani. Un terrazziere mi ha mostrato un asse repubblicano tagliato per la metà con uno scalpello, dicendomi averlo trovato in una di codeste tombe. Ieri 2 settembre ho acquistato un anello di bronzo ottagono con castone in argento. c[entesi]m[i] 50. Oggi [c. 37v.] ho fatto scavare una di codeste casse da morti e vi sono state raccolte ossa di due scheletri umani, e quelle di un animale sembra di cane. Le pareti erano fatte di travertino, la copertura con tegoli messi con una certa cura perché adattati colla calce.3.9.91 / Abbassandosi anche di più lo sterro sono venuti fuora altri due sepolcri eseguiti con lo stesso metodo, ma forse con maggiore accuratezza. Le pareti fatte con pezzi di travertino squadrato, la copertura con lastre della stessa pietra e adattati colla calce. L'orientazione di queste tombe è generalmente al Sud-Est, raramente vi stà (sic) uno scheletro. Di queste ultime, nella più grande ve ne stavano almeno tre e le ossa [c. 38r.] erano quasi disfatte. Vi ho pure notato le ossa di cane. Per copertura si erano serviti di una lastra di trabeazione dorica che faceva parte dell'architrave di una Edicola? Vi è intagliato rozzamente e molto scorrettamente un delfino, emblema di Nettuno. Un cippo sepolcrale romano costituiva la metà circa della parete destra. Vi erano rimaste le lettere LIA ET L XXVIIII (5. 9. 91)”; cc. 48r. (disegno dell'anello), 59v. (disegno dell'iscrizione, misure: m 0,51x0,87), 60r. (disegno del bassorilievo; misure m 1,27x0,77; in basso la didascalia: “Questo frammento è stato adoperato per la copertura di una chiavica nella salita di Porta tornasacco”). 17 Cfr. M.C. PROFUMO, La tarda antichità ed il Cristianesimo, in L. PAROLI (a cura di), La necropoli altomedievale di Castel Trosino. Bizantini e Longobardi nelle Marclle, Cinisello Balsamo 1995, pp. 29-43, p. 30. 18 Per le quali vedi U. LAFFI, Storia di Ascoli Piceno nell'età antica, in Asculum I cit., pp. XI-LXII, p. XLVII ss. 19 Rimane irrisolta la questione se tra il 675 e il 710 vi fu effettivamente l'episcopato di Felice, attestato sulla base di una discussa sottoscrizione al concilio romano del 680 da [F.A. MARCUCCI], Saggio delle cose ascolane e de' Vescovi di Ascoli nel Piceno, Teramo 1766 (in seguito: MARCUCCI), P. 207. 20 GREGORII PAPAE, Registrum Epistolarum, vol. II, ed. P. EWAI D Berolini 1899, 1957 Monumenta Germaniae Historica, Epistolae, Il/2, p. 385 (XIII, nr. 18j. " 21 S, PRETI, Sui più antichi monasteri del Piceno, in AA.VV., Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, 2 voll., Fabriano 1982, Bibliotheca Montisfani, 6, 7, vol. I, pp.326 (in seguito: PRETE, Monasteri), p. 8ss. 22 PRETE, Vescovi, P. 3. 23 Cfr. C. SALADINI, Ascoli Piceno. Policentrismo e "strade delle torri" nella città vescovile in E. GUIDONI (ed.), Città contado e fendi nell'urbanistica medievale, Roma 1974 (Saggi, II), pp. 128-148 (in seguito: SALADINI), p. 128. 24 Il vescovo Iustolfo cede per prestariam il "castellum de Isola" al comes di Ascol; Ludigaro nell'ambito di una donazione rogata da quest'ultimo in favore della “sanctam matrem ecclesiam in episcopatu Asculano”, nell'ultimo decennio del sec. VIII. La donazione, apocrifa, è stata probabilmente composta tra la fine del sec. X e gli inizi del sec. XI: cfr. S. PRETE, Sulla più antica donazione alla Chiesa ascolana di Ludugari comes di Ascoli, Studia Picena, vol. 47
(1980-81), pp. 1-19, p. 11. Per essere messo in relazione al comes carolingio, comunque, il castellum, di pertinenza vescovile, doveva essere già esistente nel sec. VIII. MARCUCCI, P. 208s., afferma che nel 768 esso fu donato al vescovo Auderis dal duca di Spoleto Teodicio. 2sNel 1542 “lu palazo de santo Petro in Castello” viene demolito per ottenere materiale di costruzione da destinare all'erigenda tribuna della Cattedrale: G. FABfANI, Cola dell'Amatrice secondo i documenti ascolani, Ascoli P 1952 (Collana di pubblicazioni storiche ascolane, V), pp. 149, 216 (nr. 24). 26 Attestati in MARCUCCI, P. 199: “[...] restandone pur oggi alcuni avvanzi di sontosi Portici sopra le acque del Tronto, e di Sotterranei [...]”. 27Per il quale vedi PASQUINUCCI, pp. 14-18. 28 PF KEHR, Italia Pontificia, vol. IV, Berolini 1909, p. 151. 29 MARCUCCI , p. 204, in base ad una perduta cronaca del sec. Xll. 30 PASQUINUCCl, pp. 38-42. 31 Tali terreni sono attestati dai documenti dell'Archivio di S. Angelo Magno: vedi L. TOMEI, Genesi e primi sviluppi del comune nella Marca meridionale, in AA.VV., Società e cultura nella Marca meridionale tra alto e basso Medioevo, Grottammare 1995, pp. 129-415, p. 240. 32 PASQUINUCCI, pp- 8-13, 63s. 33 P VARESE-G. ANGELINI ROTA, I catasti ascolani del 1381, Monza 1943, pp. 55, S9s. 34 Al vescovo Auderis si deve la costruzione di un'arca sepolcrale affrescata, demolita nel sec. XVI11, in onore del Beato Agostino Eremita: vedi S. ANDREANI ONELLI, Historiae Asculanne libri IV, Patavii 1673, p. 234, MARCUCCI, p. 208ss., PRETE, Monasteri, p. 16; ID., Vescovi, p. 4. Numerosi frammenti lapidei reimpiegati nella ricostruzione del sec. Xl o rinvenuti nel 1882 durante i lavori di ristrutturazione della chiesa, appartenuti almeno in parte all'antico arredo scultoreo della Cattedrale, attestano che nel sec. VIII-IX essa fu oggetto di una ristrutturazione. Per gli “ornamenti a fune” rinvenuti nel 1882 vedi GABRIELLI, Duomo, cc. 11v., 12r. (disegni a matita), da ultimo cir. F. BETTI, 11 transetto protocarolingio della cattedrale diAscoli, “Arte medievale”, S. Il, IX, 2, 1995, pp. 119-139. 35 MARCUCCI, p. 210. 3611 Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, ed. U. BALZANI, 2 voll., Roma 1903, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Fonti per la Storia d'Italia, 33-34,1, p. 233, 4 (anno 37 Cfr. SALADINI, P. 128; G. PICASSO, Monachesimo nella Marca nell'Alto Medio Evo, in Aspetti e problemi cit., vol. I, pp. 27-38, p. 31. 38 Per le quali vedi PASQUINUCCI, p. 101s. 39 Cfr. CONTA, P. 547ss.
La necropoli di Castel Trosino: un laboratorio archeologico per lo studio dell'età longobarda
La necropoli di Castel Trosino costituisce ancor oggi uno dei più importanti complessi cimiteriali altomedievali italiani i, non solo per la completezza dello scavo e per lo stato di relativa integrità dei corredi funerari, ma anche per le caratteristiche dell'area cimiteriale, in cui è particolarmente evidente la confluenza di tradizioni funerarie distinte, che si manifestano nella diversa tipologia dei corredi e, in misura più limitata, in quella delle fosse sepolcrali 2. La sovrapposizione di più tradizioni funerarie nella stessa necropoli è un fenomeno largamente diffuso nel primo medioevo, ma in Italia esso non è stato ancora sufficientemente studiato 3. Pertanto, è stato solo a causa del cattivo stato delle fonti archeologiche e dell'inadeguatezza dei modelli interpretativi se la necropoli di Castel Trosino è apparsa per molto tempo un caso isolato e per molti versi enigmatico. Un compito essenziale è ora quello di definire concretamente il significato da attribuire a questo intreccio di vari elementi culturali in rapporto allo sviluppo complessivo della necropoli 4. Più peculiare appare, almeno a prima vista, il carattere spiccatamente bizantino della cultura materiale della necropoli di Castel Trosino. Oltre alla presenza di inumati di origine romanza (cfr. infra), tra i fattori che possono aver determinato la massiva penetrazione di prodotti bizantini nei corredi funerari, deve aver svolto un ruolo di primo piano la posizione geografica del territorio in cui si trova la necropoli, posto a ridosso della Pentapoli e - fatto essenziale - aperto verso il mare Adriatico dove i Bizantini dominavano incontrastati. Non c'è bisogno di sottolineare il persistere, nell'arco di tempo in cui la necropoli fu utilizzata dai Longobardi, tra il tardo VI e la metà ca. del VII secolo, delle strettissime relazioni tra Ravenna e Bisanzio da una parte, tra Ravenna e Roma dall'altra, attraverso il ben noto "corridoio", relazioni che coinvolgevano in qualche misura anche i territori longobardi. Proprio a Roma, infatti, sono emerse le testimonianze più dirette dell'interscambio tra le regioni bizantine e quelle longobarde dell'Italia centrale, grazie al ritrovamento, nello scavo della Crypta Balbi, dello scarico di un'officina specializzata in produzioni suntuarie; tra i materiali raccolti vi sono matrici, pezzi non finiti, scarti di lavorazione, utensili, etc., per la fabbricazione di oggetti corrispondenti a quelli che si trovano nei corredi delle necropoli longobarde centro-italiche di Nocera Umbra e di Castel Trosino 5. A quanto pare, lo stato endemico di guerra della prima età longobarda, la frantumazione dei territori della penisola, con la creazione di numerose frontiere interne, non sembrano aver compromesso in modo irreversibile il mercato dei prodotti di lusso, il quale manifesta ancora una forte vitalità, soprattutto se considerato in rapporto al resto dell'organizzazione socio-economica del periodo 6. Oltre a questa forte impronta bizantina, la necropoli di Castel Trosino è caratterizzata da una straordinaria concentrazione di ricchezza e da una profusione di oro, anche monetato, che appare senz'altro eccezionale nell'Italia longobarda, ma che trova la sua spiegazione in una situazione politica locale particolarmente favorevole per il gruppo longobardo insediato nel territorio ascolano, il quale deve aver beneficiato direttamente del flusso d'oro bizantino che soprattutto in area esarcale ha spesso regolato gli alterni rapporti di alleanza e belligeranza nell'ultimo trentennio del VI secolo 7. Il carattere difensivo dell'insediamento longobardo di Castel Trosino è abbastanza evidente; esso ricalca con ogni probabilità quello di un precedente castrum bizantino, noto dalle fonti, al quale si possono forse attribuire le più antiche sepolture di tradizione romanza presenti nell'area cimiteriale di S. Stefano e nelle necropoli circostanti 8. Il carattere nobiliare delle fare longobarde insediate a Castel Trosino è altrettanto evidente. Cionostante, il numero delle sepolture con corredo d'armi è abbastanza esiguo (cfr. infra, Fig. 13). Ciò fa pensare che il sito non avesse una funzione strategica cruciale, paragonabile ad esempio all'insediamento longobardo di Nocera Umbra, controllato da un'imponente guarnigione militare 9, anche se è molto probabile che esso costituisse il centro amministrativo del distretto di Ascoli. Anche
in questo caso i Longobardi sembrano aver seguito una modalità insediativa frequente nella prima fase dell'occupazione, scegliendo come loro prima sede una località esterna, anche se limitrofa (Km. 1.5), al capoluogo di età romana 10. Prima di entrare nel merito, è necessario premettere che la definizione puntuale della cronologia delle sepolture - o meglio, di quella parte delle sepolture passibili di un'analisi cronologica - è disponibile per ora solo per un numero limitato di esse 11. Va tenuto presente, comunque, che solo il 54 per cento delle tombe di Castel Trosino è fornito di corredo e che, nella maggioranza dei casi, si tratta di corredi composti di pochissimi elementi di difficile datazione. In prospettiva comunque, quando sarà completata la classificazione delle collane, attualmente in corso, il numero dei corredi utilizzabili per l'analisi del cimitero sarà considerevolmente più alto. Una cronologia dettagliata dei contesti funerari è d'altro canto essenziale per l'interpretazione dello sviluppo dell'area cimiteriale. Al momento perciò, si potrà presentare solo una descrizione preliminare della dinamica di occupazione del sito sulla base dei contesti tombali datati con una certa sicurezza. Come si ricorderà, il primo tentativo di interpretazione globale della necropoli risale al 1980 quando Bierbrauer elaborò un'analisi in chiave di stratigrafia orizzontale della necropoli di S. Stefano 12. Secondo lo studioso, il cimitero avrebbe compreso solo Longobardi e si sarebbe sviluppato da nord a sud, evidenziando un rapido processo di acculturazione del gruppo germanico venuto a contatto con l'ambiente bizantino. L'analisi del Bierbrauer si basava esclusivamente sui corredi femminili, ed in particolare sulla distribuzione delle fibule ad arco di tipo germanico, che sono concentrate in un piccolo gruppo di tombe dislocate nell'area nord del cimitero, delle fibule a disco e delle fibule zoomorfe e a croce di tradizione romana, diffuse invece anche nel settore centrale e orientale della necropoli. Si consideravano poi anche altri ornamenti ed accessori di tipo tardoromano, quali gli orecchini a cestello, gli spilloni, gli aghi crinali e gli anellini di guarnizione di cuffie, etc. La distribuzione di tutti questi elementi veniva interpretata in termini di mera successione cronologica: per effetto di un rapido processo di acculturazione, nei corredi femminili si sarebbero sostituite prima le fibule ad arco con le fibule a disco e con gli altri accessori di tradizione romana, quindi sarebbe stato abbandonato del tutto l'uso del corredo (tombe senza corredo al centro e al sud, corrispondenti alla fase più recente del cimitero). Dopo quella del Bierbrauer, sono state avanzate altre proposte di interpretazione della necropoli che giungono a conclusioni discordanti. Nell'articolo pubblicato nel 1988 da M. Martin si ipotizza la presenza nel cimitero di un gruppo autoctono a cui andrebbero riferiti alcuni corredi a carattere simbolico, con fibule a croce, fuseruole e pochi altri accessori prettamente romani, quali le cuffie con guarnizioni trilobate d'argento, etc., tombe databili secondo il Martin ancora nell'ambito del VI secolo, sulla base del confronto con la piccola necropoli della chiesa di SS. Pietro e Paolo a Mels (Svizzera) 13. Lo studioso richiamava inoltre l'attenzione sulla tipologia delle fosse di tradizione tardo-antica concentrate nell'area centrale del cimitero, che venivano messe in relazione con la piccola chiesa di cui si ipotizzava la fondazione nella fase iniziale della necropoli 14. La coesistenza di sepolture autoctone e longobarde nella medesima area funeraria era stata già prospettata, anche se in forma dubitativa, da A. Melucco Vaccaro; tale ipotesi è stata sostenuta invece con decisione da 0. von Hessen e ripresa, più recentemente, da chi scrive 15. Ancora diverse le conclusioni a cui è giunto L. Jorgensen in un lavoro pubblicato nel 1991 comprendente tra l'altro una seriazione delle tombe longobarde italiane: secondo questa ricerca, i corredi con le fibule ad arco sarebbero perdurati fino alla metà del VII secolo, fatto questo che porta l'Autore ad ipotizzare, in opposizione al Bierbraner, che sosteneva un rapidissimo processo dT romanizzazione, uno straordinario conservatorismo del costume femminile longobardo, e a relegare viceversa tutte le tombe con fibule a cavallino, colomba, etc., e altri accessori di tipo tardo-romano alla seconda metà del VII secolo 16. Lo Jorgensen inoltre, partendo dal presupposto che il cimitero fosse occupato unicamente da Longobardi, applica alla necropoli di Castel Trosino lo stesso modello familiare germanico ricavato dalE'analisi della necropoli di Nocera Umbra, giungendo alla
conclusione che le deposizioni nell’area cimiteriale si sarebbero protratte fino al primo trentennio dell'VIII secolo, con sepolture del tutto prive di corredo. Da questo riassunto schematico delle principali ipotesi finora elaborate sulla necropoli di Castel Trosino, appare evidente la difficoltà di un'intrepretazione univoca della necropoli e la necessità di stabilire parametri cronologici più sicuri sulla base dei quali formulare ipotesi più aderenti alla complessa realtà rappresentata da questo cimitero. Un primo punto di riferimento è costituito da alcune sepolture maschili che comprendono nel corredo armi ed altri elementi, in particolare le cinture, che forniscono in molti casi un orientamento cronologico abbastanza preciso. La carta di distribuzione delle tombe maschili di più sicura datazione dimostra che tombe attribuibili alla prima fase (tardo VI-inizi VII secolo`) sono distribuite un po' in tutta la necropoli (Fig. 1): nella parte settentrionale, ad esempio, troviamo la tomba F, che ha un corredo incompleto, ma che è comunque attribuibile a questa prima fase; la tomba U che non è segnata in pianta, ma che si trovava certamente nella zona dei primi scavi, come risulta dal resoconto del Mengarelli 17; nella fascia mediana (tombe 36 e 37), a sud e a ovest della chiesa (tombe 109 e 178); le tombe databile nel primo quarto o trentennio del VII secolo (Fig. 1) sono concentrate nelle file di sud-sudovest (tombe 83, 90, 97,111, 119, 180, 76 e probabilmente anche 190), quelle del secondo quarto o trentennio del VII secolo a nord (Fig. 1) (tombe 142, 137, a CUT va aggiunta certamente la tomba T che non è in pianta ma che, come la U, si trovava certamente nel quadrante nord della necropoli), al centro (tomba 9) o all'estremo sud (tomba 205). Dalla distribuzione di queste sepolture appare chiaro che l'accrescimento del cimitero non si è realizzato per semplice espansione da nord a sud, ma deve aver avuto una dinamica più complessa, imperniata su diversi nuclei 18. Per inciso, vorrei ricordare che la tomba maschile più importante del periodo tardo VI-inizi VII secolo si trovava al di fuori del campo cimiteriale di S. Stefano: è la tomba scoperta nel 1872 in località Pedata. Il Mengarelli verificò successivamente che si trattava di una sepoltura isolata 19. La posizione appartata e lo straordinario corredo indicano una tomba nobiliare di altissimo rango, l'unica che abbia una cintura d'oro di fabbricazione quasi certamente orientale 20. E possibile inoltre che i nuclei cimiteriali longobardi fossero più vasti o più numerosi, stando alle notizie di ritrovamenti di armi, monete e altri oggetti d'oro, riportate verso la fine del XVIII secolo dal Colucci 21. Tornando alla necropoli di contrada S. Stefano osserveremo che anche le tombe femminili non seguono una rigida distribuzione cronologica: la tomba B, pur non essendo una delle tombe più antiche del cimitero, si trovava egualmente nella zona settentrionale, a pochissima distanza dal nucleo molto compatto delle tombe femminili con fibule ad arco, che appartengono alla prima fase longobarda della necropoli. La tomba 7 e la tomba 16 si trovavano l'una accanto all'altra nella zona mediana della necropoli (nella fila immediatamente sopra la tomba 9), nonostante che la prima sia riferibile agli anni intorno al 600, la seconda al secondo trentennio del VII secolo. Bastano questi pochi esempi per escludere anche per le tombe femminili l'ipotesi di uno sviluppo lineare delle deposizioni, ipotizzato dal Bierbrauer 22. La realtà è invece molto più complessa, come dimostra l'esame della zona centrale della necropoli. Qui si trovano i ruderi di una piccola chiesa che il Mengarelli attribuì ad una fase avanzata del cimitero, avendo costatato che la sua costruzione aveva determinato la distruzione di diverse sepolture, e mise in relazione con questa cappella la serie di tombe a pareti murate che le si addensano intorno 23. Questa area è caratterizzata inoltre da una certa irregolarità nella distribuzione delle sepolture, che in qualche caso si sovrappongono, da una notevole varietà delle fosse, su cui torneremo tra breve più in dettaglio, da una certa frequenza di seppellimenti plurimi ed infine da un'alta percentuale di tombe prive di corredo o con corredi formati di pochi elementi. Quanto basta per dare a questo settore del cimitero una connotazione particolare che richiama immediatamente quella dei cimiteri di tradizione tardoromana. Vediamo più in dettaglio questi elementi, cominciando dalla tipologia delle fosse (Fig. 2).
Come appare evidente, le fosse terragne sono le più diffuse in tutta la necropoli, ma nella zona intorno alla chiesa (Fig. 3) sono molto frequenti le tombe a fossa terragna di forma ovale, antropomorfa o trapezoidale con pareti stondate, poco profonde, generalmente prive di corredo 24. Tra le tombe terragne circostanti la chiesa solo la tomba 23 ha un piccolissimo corredo formato da tre aghi crinali e una collana di poche perle di vetro e due dischetti di bronzo forati, in sostituzione delle monete. Oltre alle tombe terragne, abbiamo nella necropoli le tombe costituite dalla fossa scavata nella terra e dalla copertura di lastre di pietra (Fig. 2). Questo tipo di tomba è nota nella letteratura come Deckplattgrab e rientra nel gruppo che il Mengarelli definisce a "loculo ipogeo" perché la copertura di lastre poggia su una risega del terreno, ad una certa profondità sotto il piano di calpestio, formando per l'appunto un vano sotterraneo zs. In alcuni casi si trova anche qualche pietra agli angoli della fossa (come ad esempio nelle tombe 75, 80, 81). Le tombe a fossa terragna con copertura di lastre si concentrano anch'esse nella zona che gravita intorno alla chiesa estendendosi verso ovest, dove si trova un gruppo di sepolture che ha le stesse caratteristiche di quelle intorno alla chiesa. Le Deckplattgrdber sono tipiche della tradizione funeraria tardoromana dell'area mediterranea e di alcune regioni transalpine romanizzate, dove sono documentate fino agli inizi del VII secolo 26, Anche in queste tombe il corredo è rarissimo (un boccaletto distrutto della tomba 79; un'armilla a sezione piatta, poche perle - purtroppo perdute - e una moneta forata nella tomba 80 (Fig. 4). Le altre ne sono del tutto prive. L'armilla depone a favore di una datazione piuttosto antica, precedente molto probabilmente la fine del VI secolo ed anche l'altro elemento di corredo, la moneta forata, che era inserita nella collana, da un orientamento cronologico analogo. Nella necropoli infatti, questo tipo di offerta ha un'area distribuzione che coincide largamente con quella delle tombe terragne a pareti stondate e con le Deckplattgrdber, vale a dire intorno alla chiesa e ad ovest (Fig. 5). Si tratta sempre di corredi di tradizione tardo-romana, alcuni dei quali presentano un elemento di datazione abbastanza preciso costituito dalla fibbietta di bronzo stagnato a placca fissa che qui vediamo nel corredo della tomba 82 dove, per l'appunto, la fibbietta è associata a una collana con dischetto forato e grani di collana databili nella seconda metà del VI secolo (Fig. 6). Questa tipo di fibbietta ricorre anche in tombe con ricchi corredi, tra cui le tombe R e 37, che sono databili con sicurezza nella prima fase longobarda del cimitero (tardo VI-inizi del VII secolo) 27. Ciò suggerisce un inquadramento cronologico delle tombe con monete forate e/o fibbietta ancora nell'ambito del VI secolo, al più tardi agli inizi del VII secolo 28. Si può aggiungere ancora che nessuna delle tombe con monete o dischetti di bronzo forati presenta elementi che contraddicano questa datazione, compresa la tomba A, la più eccentrica rispetto al gruppo con monete forate. Tutto ciò ci porta a concludere che quest'area del cimitero era già occupata prima della fine del VI secolo da un gruppo molto consistente di sepolture con corredi, tipologie sepolcrali e usanze funerarie (ad esempio i seppellimenti multipli) di tradizione tardo-romana. Torniamo ancora una volta alla carte di distribuzione delle fosse e prendiamo in considerazione le tombe con pareti murate con calce o con muretti a secco che si trovano nella zona intorno e dentro la chiesa 29 (Fig. 2). Queste sepolture sono di forma grosso modo rettangolare, ma presentano una certa varietà di soluzioni per quanto riguarda la copertura, realizzata di frequente con lastre di pietra, ma non sempre; le pareti sono talvolta murate con legante di malta, talvolta semplicemente rivestite di muretti a secco; in un caso (tomba 42) è impiegata anche una tecnica mista: rivestimento di grandi lastre da un lato, muretto a secco dall'altro. Tutto ciò rientra nella normale variabilità dei sistemi costruttivi delle fosse sepolcrali della fine dell'antichità. Si tratta in effetti di un'unica tipologia di tradizione tardo-romana che è documentata sporadicamente nei cimiteri dal IV al VI secolo, ma che diviene più frequente nel corso del VII secolo 30. La tipologia della tomba a fossa con pareti murate non è perciò utilizzabile per una cronologia di dettaglio. A Castel Trosino le tombe con pareti rivestite da muretti sono tutte concentrate, intorno alla chiesa e al suo interno. Queste tombe presentano pochi elementi di corredo, che indicano una datazione intorno alla metà o poco dopo la metà del VII secolo. Costituisce un'eccezione la tomba 72, che dovrebbe risalire alla seconda metà VI-inizi del VII secolo per la presenza della fibbietta del tipo
analizzato in precedenza (Fig. 4); non a caso, questa tomba presenta un orientamento divergente rispetto a tutte le altre tombe a pareti murate che hanno una relazione diretta con la chiesa (Fig. 3). Sappiamo del resto che le fosse a pareti murate rappresentano un tipo tombale di lunga durata. La costruzione della chiesa sembra risalire invece ad una fase molto più tarda del cimitero, come aveva già affermato il Mengarelli e come è stato dimostrato anche dallo Jorgensen 31. Come è noto, l'inserimento di piccoli edifici di culto nelle necropoli di V-VII secolo è fenomeno generale che non pone di per sé alcun problema 32. In alcuni casi l'edificio di culto sorge contestualmente all'area cimiteriale, in a tr~ sonserisce m una necropoli già attiva, come nel nostro caso. Vediamo ora in dettaglio alcuni elementi che consentono di datare la chiesa e il gruppo di sepolture a pareti murate che la circondano negli anni intorno alla metà del VII secolo (Fig. 7). Nella tomba 49, posta all'interno dell'edificio, quasi certamente la tomba del fondatore, di sesso femminile 3`3, furono rinvenuti una fibbia con placca ageminata, un pettine di grandi dimensioni ed una bottiglia di vetro 34. La fibbia (Fig. 8) presenta una decorazione animalistica ageminata a 8 su fondo placcato in argento, molto frequente nelle cinture multiple ageminate di tipo evoluto, databili dalla metà del VII secolo in poi 35. Il pettine, di dimensioni e decorazione eccezionali, rientra in un gruppo di pettini poco comuni, ad una sola fila di denti e manico, documentati per tutto il VII secolo 36. Per l'esemplare della tomba 49 di Castel Trosino non si hanno confronti veramente puntuali per quanto concerne la decorazione. Va sottolineata tuttavia la costruzione della costola mediante innumerevoli, sottili listelli di osso, la stessa tecnica utilizzata per il pettine rinvenuto nella tomba di Gisulfo a Cividale 37. Questa sepoltura ha restituito un corredo principesco databile intorno alla metà del VII secolo, che offre un altro confronto di rilievo per la datazione delle tombe circostanti la chiesa di Castel Trosino: la bottiglia di vetro 38. A Castel Trosino esemplari analoghi, con la caratteristica risega a metà del corpo, ricorrono nella tomba 43, dove la bottiglia costituiva l'unica offerta funebre 39, nella tomba 45, che forma con la tomba 44 un sepolcro bisomo in muratura, dove era associata ad una fibula d'argento a forma di cavallino 40, e nella tomba 65, posta di fronte alla facciata della chiesa. Nel corredo della tomba 65 4', che conteneva pochi elementi ma di un certo prestigio (un cofanetto, un ventaglio, un anello d'oro, etc.), c'è anche un calice di vetro, con gambo largo e cavo, che rappresenta uno degli sviluppi più tardi di questa tipologia 42 (Fig. 9). La tomba 67, addossata alla facciata della chiesa, conteneva due deposizioni, un uomo con scheletro in posto, e una donna con le ossa sparpagliate. Come elementi di corredo furono rinvenuti i resti di un tessuto d'oro, un frammento di pettine d'osso e una placchetta di cintura a doppia testa di grifo 43. La placchetta apparteneva probabilmente alla deposizione maschile: è infatti frequente nelle guarnizioni di cintura maschili, ben documentate anche a Castel Trosino (tombe 9, 90, 142, etc.). L'esemplare della tomba 67 ha una forma molto stilizzata, tipica delle cinture del VII secolo inoltrato, come ad esempio la guarnizione della tomba 137 della stessa necropoli 44. Anche questa tomba dunque può essere ricondotta con ogni probabilità agli anni intorno alla metà del VII secolo. Analoga indicazione cronologica proviene dalla tomba 44, una sepoltura a pareti murate a due vani, già menzionata in precedenza a proposito della tomba 45 4s. Nel vano di sinistra (tomba 44) vi era una doppia deposizione, la prima rappresentata dalle ossa ammucchiate in fondo alla fossa, la seconda da un individuo con scheletro intatto. Presso il fianco di quest'ultimo era deposta una punta di lancia, ai piedi un collo di bottiglia. La punta di lancia appartiene ad una tipologia alquanto rara, ma che rinvia allo stesso orizzonte cronologico indicato dagli altri corredi: per essa infatti abbiamo un confronto abbastanza preciso in una piccola necropoli friulana, a Moraro presso Gorizia, con materiali databili dalla metà del VII secolo in poi 46. In conclusione dunque il gruppo di sépolture che si trova a più immediato contatto con la chiesa sembra datarsi non prima della metà del VII secolo; di conseguenza anche la costruzione dell'edificio di culto si colloca nello stesso periodo. La chiesa viene a sovrapporsi a quella parte della necropoli
dove si trovava un nucleo cimiteriale con spiccate caratteristiche romanze che viene in parte distrutto dal nuovo insediamento. Le nuove sepolture utilizzano in prevalenza tipologie tombali e costumi funerari di tradizione locale (tombe con pareti murate, seppellimenti plurimi), ed anche la composizione dei corredi, quando presenti, ha forti analogie con quelli di tradizione tardoromana. Molto significativa è comunque il persistere, in questo contesto tardivo, del corredo d'armi, anche se ridotto simbolicamente ad un'unica punta di lancia (tomba 44), e altri elementi di distinzione sociale, quale i ventagli, il cofanetto, il tessuto aureo, i vetri, etc. A questo gruppo di sepolture può essere forse aggregata anche la tomba 41, il cui corredo (croce pettorale, staffe e due grani di collana) può essere datato con una certa verosimiglianza intorno alla metà del VII secolo 47. La tomba 41 è una fossa con pareti semplicemente rivestite di lastre, una tipologia questa che appare affermata nella necropoli fin dalla prima metà del VII secolo (Fig. 2) (cfr. ad esempio la tomba 97 con cintura molteplice ageminata databile entro il primo quarto del VII secolo) 48. Nella necropoli di Kaiseraugst le tombe con pareti rivestite di lastre, le cosiddette Plattengraber, sono distintive della fase più tarda del cimitero, che copre tutto il VII secolo 49. La tendenza verso un incremento delle tombe caratterizzate dal rivestimento di lastre di pietra nel VII-IX secolo si riscontra anche in altre regioni europee e in Italia; si ricordano a puro titolo esemplificativo le tombe altomedievali della basilica di Pianabella a Ostia Antica e di altri cimiteri altomedievali dell'Italia centrale come Norba, nel Lazio meridionale o della Selvicciola, nel Lazio settentrionale, di Grancia in Toscana meridionale, etc. 50. Se gli anni intorno alla metà del VII secolo sono dunque la datazione più verosimile per il gruppo di sepolture a pareti murate intorno alla chiesa si, questo è l'orizzonte cronologico anche della tomba 45, che abbiamo visto costruita in un solo blocco con la tomba 44, e del suo corredo, composto dalla bottiglia con risega sul corpo e la fibula a cavallino (cfr. supra). Le fibule zoomorfe (a forma di cavallino, colomba o pavone e quelle ad esse strettamente correlate a forma di croce, sono distribuite nei diversi settori del cimitero, in posizione prevalentemente marginale (Fig. 10). Si trovano quasi sempre inserite in corredi che potremmo definire di tradizione locale, da sole o con uno o due altri oggetti (boccaletto, aghi crinali, pettine, fuseruola, etc.). Nel corredo della tomba 13 la fibula a forma di colomba si trova associata invece ad un anellino trilobato d'argento, relativo ad un'acconciatura dei capelli di tradizione tardo-romana che comprende di solito otto o nove anellini trilobati e un numero variabile di aghi crinali, di bronzo o di argento, talvolta con la capocchia riccamente decorata s: (Fig. 11). A Castel Trosino questa acconciatura si trova in altre tre tombe con caratteristiche analoghe (tombe 26, 31, 157) (Fig. 10) 51. Tutti questi corredi con fibule a croce, zoomorfe, cuffie, aghi crinali, etc., già coTIsiderati dal Bierbrauer come tappa intermedia del processo di romanizzazione dei Longobardi stanziati a Castel Trosino, databili quindi nel Vll secolo, sono stati viceversa interpretati dal Martin come pertinenti alla popolazione locale e datati, per analogia con una tomba dell'area alpina, alI'ultimo terzo del Vl secolo 54. Al contrario, secondo la seriazione dei tipi-guida delle necropoli longobarde elaborata dallo Jorgensen, le fibule zoomorfe, le fibule cruciformi e le cuffie con anellini ricadono invece tutte nella fase databile dal 650 in poi, come abbiamo già ricordato all'inizio. Poiché non vi sono motivi per mettere in discussione la datazione della tomba svizzera con la guarnizione di anellini d'argento pubblicata dal Martin (cfr. supra), che ha offerto l'unico confronto archeologico puntuale per questa acconciatura, si deve supporre che l'uso di cuffie con anellini d'argento si sia protratto molto a lungo, se è giusta la datazione a partire dalla metà del VII secolo proposta dallo Jorgensen per le sepolture di Castel Trosino contenenti questo elemento di corredo. In effetti, anche la tomba 31 di Castel Trosino, è databile almeno nella prima metà del VII secolo, considerata l'associazione nel corredo di una di queste guarnizioni ad anellini trilobati d'argento con una coppia di orecchini a cestello 56. Come abbiamo visto in precedenza, la tomba 45 con fibula a cavallino ricade nella fase databile intorno alla metà del VII secolo, insieme al gruppo delle tombe a pareti murate più vicine alla chiesa. Abbiamo già osservato che le sepolture con analoghi reperti
(fibule zoomorfe, anellini trilobati) si trovano spesso Tn posizione contigua e non di rado marginale (Fig. 10), cosa che depone a favore di una loro datazione tardiva. Sappiamo del resto che le acconciature con questo tipo di cuffia di tradizione tardo-romana sono ancora documentate dalle fonti iconografiche in età carolingia 57. Va sottolineato tuttavia che non sempre si hanno elementi per una datazione circostanziata di questi corredi. Un caso abbastanza problematico è quello della tomba 124, nonostante abbia un corredo abbastanza consistente: infatti, oltre alla fibula a cavallino in argento, sono presenti gli orecchini a cestello d'oro, l'anello a losanga d'oro, un coltellino con fodero d'argento e due spilli d'argento a capocchia biconica 58. Secondo la tipologia dello J0rgensen, questi ultimi dovrebbero appartenere alla fase del cimitero databile dal 650 in poi, fase a cui viene attribuita anche la sepoltura 59. Sappiamo in realtà che gli spilli a capocchia biconica non sono esclusivi della seconda metà del VII secolo, ma sono documentati a partire almeno dagli inizi del VII 60. Va osservato inoltre che in nessuna delle tombe con gli anellini trilobati si trovano associati gli spilli a capocchia biconica, ma solo quelli a capocchia sferica, molto comuni nelle fasi più antiche del cimitero. Le due tipologie di spilli hanno dunque convissuto a lungo e non è possibile attribuire tout court le tombe con spilli a capocchia biconica alla fase post 650. Allo stato attuale perciò sembra più prudente lasciare aperto il problema della datazione delle tombe con fibule zoomorfe e cruciformi e con cuffie con anellini trilobati, che potrebbero riferirsi ad un arco cronologico molto ampio, dalla seconda metà del VI alla metà-seconda metà del VII ed oltre. La possibilità di una datazione piuttosto tarda di alcune di queste sepolture risulta però accertata, come indica non solo la tomba 45 di Castel Trosino, ma anche il confronto con altri contesti dell'Italia centrale, in particolare la tomba 49 della necropoli di Grancia, presso Grosseto, che offre un ottimo termine di paragone, in quanto databile senza difficoltà alla metà-seconda metà del VII secolo 61 (Fig. 12). Sulla base di tutte queste osservazioni appare evidente che a partire dalla metà circa del VII secolo il processo di assimilazione dei rituali funerari è già molto avanzato, almeno in alcuni strati della popolazione, ragione per cui diviene sempre più difficile individuare all'interno dei complessi funerari tracce di tradizioni culturali distinte. Per concludere considereremo brevemente il problema della fase finale della necropoli di Castel Trosino. I materiali più tardi finora identificati nella necropoli indicano un uso dell'area cimiteriale negli anni intorno al 650-660 ca., mancano invece tutte le tipologie più comuni del tardo VII secolo. Come si è ricordato in precedenza, lo J0rgensen ha ipotizzato una prosecuzione dell'uso della necropoli di Castel Trosino fino agli anni trenta dell'VIII secolo, partendo dal presupposto che l'area cimiteriale fosse occupata esclusivamente da famiglie longobarde, di struttura e consistenza analoghe a quelle di Nocera Umbra (cfr. supra). Come si è cercato di dimostrare in precedenza, l'ipotesi di un insediamento esclusivamente longobardo non appare verosimile: nella necropoli convivono chiaramente tradizioni culturali diverse che si riflettono, entro certi limiti, anche nella distribuzione spaziale. Il nucleo romanzo più antico, databile ancora nell'ambito del VI secolo va ricercato in corrispondenza della parte centrale del cimitero, mentre le sepolture che rispecchiano la tradizione del corredo germanico ed in genere una posizione sociale egemone (corredi di struttura complessa, con armi, fibule ad arco, pendenti di cintura, oggetti d'oro, etc.) occupano e si sviluppano dal tardo VI e per tutta la prima metà del VII secolo al di fuori di questo ambito, con sovrapposizioni molto limitate, come è possibile rilevare dalla carta di distribuzione delle tombe con armi (Fig. 13) e delle tombe con fibule a disco (Fig. 14). Solo nella fase più tarda, intorno alla metà del VII secolo o poco dopo si ha una rioccupazione dell'area centrale, dove viene edificata la chiesa, per iniziativa di un gruppo familiare egemone, nelle cui sepolture ricorrono solo pochi oggetti di corredo ma che mostrano tuttavia segni precisi di distinzione sociale: tessuto d'oro, ventaglio, cofanetto, grande pettine d'osso, vetri, etc. Unica spia di una tradizione cavalleresca e militare sono la punta di lancia e le staffe. È bene sottolineare che la rioccupazione riguarda la parte della necropoli occupata precedentemente non da sepolture di
tradizione germanica, bensì romanza, ed ha luogo quando anche le aree marginali della necropoli sembrano essere state già largamente utilizzate, come suggerisce la dislocazione estremamente marginale delle tombe 137, 142 e 205 databili nel secondo quarto del VII secolo (Fig. 1). Appare quindi improprio applicare a tutto il complesso della necropoli di Castel Trosino un modello di sviluppo familiare germanico, quando una parte almeno degli inumati è costituita con ogni probabilità dagli abitanti del castello bizantino e non sembra possibile ipotizzare un'attribuzione di tutte le tombe senza corredo alla fase finale della necropoli dal momento che molte di esse si riferiscono invece con ogni probabilità alla fase più antica, come abbiamo cercato di dimostrare a proposito delle tombe dell'area centro-meridionale della necropoli. In conclusione, solo una parte delle tombe senza corredo può essere riferita alla fase più tarda, che verosimilmente non supera il terzo quarto del VII secolo. In conclusione, dunque, la necropoli di Castel Trosino ci appare come un esempio emblematico di cimitero misto romano-longobardo che permette di analizzare le modalità di inserimento di un gruppo con tradizioni funerarie di tipo germanico in seno ad una comunità romano-bizantina e di seguirne gli sviluppi fino al momento in cui da parte di un membro dell'aristocrazia longobarda si avvia, con la costruzione della cappella funeraria, la riduzione del corredo funebre, che mantiene comunque chiari segni di distinzione sociale, l'assunzione di tipologie tombali di carattere più monumentale (sepolcri murati) e di pratiche funerarie di tradizione tardo-romana (deposizioni successive nello stesso sepolcro) quel processo di "cristianizzazione della morte" nel quale tanta parte hanno avuto le donne dell'aristocrazia longobarda e che porterà in breve tempo all'abbandono completo dell'usanza del corredo funebre 62. LIDIA PAROLI
1 Per quanto concerne la scoperta e lo scavo della necropoli di Castel Trosino cfr. MENGARELLI 1902, in particolare coll. 145-160, Ia ristampa anastatica della pubblicazione del MENGARELLI si trova ora in R. MENGARELLI-G. GABRIELLI, La necropoli di Castel Trosino, a cura di G. Gagliardi, Ascoli Piceno 1995, coll. 1-260, cfr. inoltre M.C. PROFUMO, La necropoli di Castel Trosino: il rinvenimento e lo scavo. Il contributo di Giulio Gabrielli, in PAROLI (a cura di) 199S, pp. 187-195. 2 Cfr. da ultimo PAROLI 1995, con bibliografia; inoltre, infra. 3 Una casistica si trova in alcuni contributi di questo volume, a cui si rimanda. Cfr. inoltre G.P BROGIOLO - G. CANTINO WATAGHIN (a cura di), Sepolture tra Vl e Vlll secolo (Strutture Topografia, Processi di acculturazione), Atti del 7° Seminario sul Tardo Antico e Alto Medioevo in Italia Centrosettentrionale (Gardone Riviera, 24-26 ottobre 1996), in corso di stampa. 4 Il tema è stato già affrontato in PAROI} 1995; il presente contributo ripropone senza sostanziali modifiche quanto già esposto in quella sede. 5 Cfr. il contributo di M. Ricci sull'officina della Crypta BalLi in questo volume Il fenomeno non è comunque limitato all'Italia centrale, ma coinvolge in qualche misura anche i territori del Regno longobardo. Le ricerche più recenti evidenziano infatti una perdurante circolazione di prodotti bizantini anche nella Padania: cfr. G.P BROGIOLO-S. GELICHI (a cura di), Le ceramiche altomedievali (fine Vl-X secolo) in Italia settentrionale: produzione e commerci, 6° Seminario sul Tardoantico e l'Altomedioevo in Italia Centrosettentrionale (Monte Barro - Galbiate, Lecco, 21-22 aprile 1995), Mantova 1996, in particolare pp. 221-222, M.P DE MARCHI-E. POSSENTI, Le sepolture di Monselice tra Bizantini e Longobardi, in G.P BROGIOLO-G. CANTINO WATAGHIN (a cura di), Sepolture tra V7 e Vlll secolo (Strutture Topografia Processi di acculturazione), cit. a nota 3. Va sottolineato tuttavia che tali flussi sono cLiaramente condizionati, da una parte, dalla presenza della marineria bizantina lungo le coste, dall'altra dall'esistenza di una efficace rete di distribuzione interna costituita dal Po e dai suoi affluenti. Le differenze che si rilevano nella distribuzione dei prodotti bizantini tra la Padania orientale e quella occidentale e la Tuscia si spiegano proprio con l'affievolimento del controllo bizantino sull'alto Tirreno rispetto all'Adriatico e con la mancanza sul versante occidentale del Regno di una grande arteria di penetrazione paragonabile al Po: nella situazione del commercio marittimo nel Tirreno centro-settentrionaTe all'indomani della conquista longobarda cfr. L. PAROLI, in CITTER et al., Commerci nel Mediterraneo occidentale nell'Alto Medioevo, in G.P BROGIOLO (a cura di), Early Medieval Towns in the Western Mediterranean (Ravello, 22-24 settembre 1994), Mantova 1996, pp.121-12S, sulla distribuzione dei prodotti suntuari
bizantini nell'Italia centro-settentrionale cfr. L. PAROLI, La cultura materiale, in Visigoti e Longobardi: fisionomia della cultura romano-barbarica in Spagna e in Italia, Atti del Seminario di studio (Roma, 28-29 aprile 1997), in preparazione. 6 Per una valutazione dell'impatto della conquista longobarda sulle strutture socioeconomiche dell'Italia antica cfr. da ultimo P. DELOGU, La fine del mondo antico e l'inizio del medioevo: nuovi dati per un vecchio problema, in R. FRANCOVICH-G. NOYÉ (a cura di), La storia dell'altomedioevo italiano (Vl-Xsecolo) alla luce dell'archeologia, Firenze 1994, pp. 729, con bibliografia; sui territori di frontiera in età longobarda cfr. da ultimo G.P BROGIOLO (a cura di), Città, castelli, campagne nei territori di frontiera (secoli V7-V77), 5° Seminario sul Tardoantico e l'Altomedioevo in Italia Centrosettentrionale (Monte Barro - Galbiate, Lecco, 9-lO giugno 1994), Mantova 1995, in particolare per quanto riguarda l'evoluzione dell'insediamento nel Piceno e la situazione del territorio di Castel Trosino nella fase della prima conquista longobarda cfr. R. BERNACCHIA, I Longobardi nelle Marche, in PAROLI (a cura di) 1995, pp. 79-91; ID., in questo volume; A.-R. STAFFA, Un quadro di riferimento per Castel Trosino: presenze longobarde tra Marche e Abruzzo, in PAROLI (a cura di) 1995, pp. 95-123. 7 Sulle vicende della prima fase della conquista longobarda cfr. P DELOGU, 11 Regno longobardo, in P DELOGU-A. GULLOI-G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini (Soria d'ltalia, I diretta da G. Galasso), Torino 1980, p. 16 ss.; cfr. inoltre il contributo di R. Bernacchia, in questo volume, con bibliografia. 8 Sulla rioccupazione dei castra bizantini della regione da parte dei Longobardi cfr. A. R. STAFFA, Un quadro di riferimento, cit. a nota 6; cfr. inoltre il contributo dello stesso autore in questo volume; sulle sepolture di tradizione romana nella necropoli cfr. infra. 9 Cfr. RUPP 1996; EAD., in questo volume. Va ricordato tuttavia che la bassa percentuale di corredi con armi della necropoli di Castel Trosino è più vicina alla media europea degli anni intorno al 600 che non quella altissima di Nocera Umbra che costituisce senz'altro un caso eccezionale. 10 11 modello è attestato con molta chiarezza in Piemonte: cfr. il contributo di E. Micheletto e di L. Pejrani Baricco in questo volume; sulle funzioni militari e amministrative dei castelli della prima età longobarda cfr. G.P. BROGIOLO-S. GELICHI, Nuove ricerche sui castelli altomedievali in Italia settentrionale, Firenze 1996. 11 L'edizione scientifica della necropoli è in corso di preparazione da parte di chi scrive e di M. Ricci, che si occupa in particolare delle sepolture maschili. 12 Cfr. BIERBRAUER 1980, p. 97 ss.; ID., Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e Longobardi, in Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, p.473 ss.; id.,L'occupazione dell'Italia da parte dei Longobardi vista dall'archeologo, in G.C. MENIS (a cura di), Italia longobarda, Venezia 1991, p. 41 ss., nota 233. 13 Cfr. MARTIN ] 988. 14 Ibidem, p. 176, fig. 22c. 15 Cfr. A. METUCCO VACCARO, I Longobardi in Italia, 11 ed., Milano 1988, P. 114 SS., O. VON HESSEN, Testimonianze archeologiche longobarde nel ducato di Spoleto, Atti del 9° Congresso Internazionale di studi sull'Alto Medioevo (Spoleto 1982), Spoleto 1983, PP. 421-428, ID. s.v. Castel Trosino, in Enciclopedia dell'Arte Medievale, IV, Roma 1993, PP. 382-383, PAROLI 1995, in particolare p. 202. 16 J0RGENSEN 1991, in particolare p. 34 SS.; la datazione delle fibule ad arco ancora nel periodo 610-650, proposta dall'Autore, incontra moltissime difficoltà, contrastando non solo con la cronologia dell'età merovingia di area longobarda ma anche con quella di tutta l'area transalpina; per una discussione si rimanda a L. PAROTT, La cultura materiale, cit. a nota 5. 17 MENGARELLI 1902, col. 193. 18 Una articolazione per aree familiari è stata riscontrata ad esempio nella necropoli di Nocera Umbra: cfr. RUPP 1996, PP. 25-26, fig. 5; EAD., in questo volume. 19 MENGARELLI 1902, col. 156. 20 Una illustrazione del corredo ricostruito si trova in PAROLI (a cura di) 1995, PP. 1719, nota 1; cfr. inoltre F. VALLET, Une tombe de riche cavalier lombard déconverte à Castel Trosino, in La noblesse romaine et les chefs barbares du lIIe au Vlle siècle, Paris 1995, PP. 335349; L. PAROLI, TIEMMA Lombardfindsand the archaeologgy of EarlyMediaevalltaly, in The Migration Period Art in the Metropolitan Museum of Art (3rd-8th century): Highlights from the J. Pierpont Morgan Collection and Related Material Reconsidered, An Interutional Symposium at the Metropolitan Muscum of Art (New York, 22-23 maggio 1995), c.s. 21 MENGARELLI 1902, coll. 147-148; 156-159. 22 Cfr. supra, nota 12. 23 MENGARELLI 1902, coll. 173-175. 24 Ibidem, coll. 160-163, figg. 6-9; 14-16. 25 Ibidem, col. 164, figg. 17-18; rispetto alla carta di distribuzione delle tipolgie tombali della necropoli di Castel Trosino pubblicata in un precedente contributo (PAROLI 1995, P. 201, fig. 157), nella carta della Fig. 2 sono state incluse nella tipologia delle Deckplattgraber anche le tombe 75, 80, 81, in quanto la ricorrenza di alcune pietre ai margini della fossa non costituisce in effetti un elemento di individuazione di una diversa tipologia. Va ribadita invece la differenza delle Deckplattgraber rispetto alle sepolture con pareti rivestite di muretti o di lastre, indicate indifferentemente dal Mengarelli con il termine di "loculo ipogeo" (PAROLI 1995, P. 211, nota 19). 26 Ad esempio nella necropoli del castello tardoantico di Kaiseraugst, sull'alto Reno, in Svizzera: cfr. MARTIN 1991, p. 164 ss., in area picena, nella necropoli di Fossombrone, piazza Mazzini, è presente un tipo di tomba con lastroni di
copertura, posti a livello del piano di calpestio, che racchiude un vano ipogeo entro cui si trova una tomba alla cappuccina e che può costituire forse una variante della Deeplattgrab: cfr. contributo di M.C. Profumo, in questo volume. 27 Per le tombe R e 37 cfr. da ultimo PAROLI (a cura di) 1995, pp. 265-268, fig. 217; pp. 237-243, fig. 190. 28 Si tratta di un tipo di fibbia di forma mediterranea con un'area di diffusione vastissima che va dalla Svizzera (Tamins, tomba 1966/7: G. SCHNEIDER-SCHNEKENBURGER, Churratien im Frnhmittelalter auf Grund archaologischen Funde, Mùnchen 1980, pp. 58-50, tav. 23, 5), all'Italia (Cividale: MENIS (a cura di) 1990, pp. 382-383 X.44; Nocera Umbra: RUPP 1966, p. 32, fig. 8, EAD., in questo volume, Fig. 11, Roma ciove si trova tra i pezzi in corso di fabbricazione dell'atelier della Crypta Balbi: M. Ricci, in questo volume, Fig. S,8), alla Romania (Callatis: C. PREDA, Callatis. Necropola romano-bizantina, Bucarest 1980, tomba 137, p. 164 tav. XXXIV, 2). Queste fibbiette d'abito o di borsa sembrano aver avuto un periodo d'uso alquanto prolungato, sono documentate dalla metà/seconda metà del VI secolo e dovtebbero giungere, secondo la fasizzazione della necropoli di Nocera Umbra, al primo quarto del VII secolo: cfr. C. RUPP, in questo volume, Fig. 11). 29 MENGARELLI 1902, coll. 164-165, figg. 21-24; 26. 30 Cfr. ad esempio MARTIN 1991; per uno studio regionale esaustivo cfr. da ultimo M. COLARDELLE, G. DEMINANS D ARCHIMBAUD, CH. RAYNAUD (travaux collectifs conduits par), Typochronologie des sépoltures du Bas-Empire à la fin du Moyen Age dans le Sud-Est de la Gaule, in L'archéologie du cimitière cArétien, Textes reunis par H. Galinié et E. Zadora-Rio, Tours 1996, pp. 271-303, in particolare tipo 7, tavv. 1-2 a pp. 294-295. Per l'Italia non esistono studi d'insieme comparabili, ma solo ricerche parziali: cir. ad esempio gli atti del convegno: Sepolture e necropoli tra tardo-antico e altomedievo in Italia, “Rivista di Studi Liguri”, LIV, 1988, pp. 61-336; R. MENEGHINI-R. SANTANGELI, Sepolture intramuranee e paesaggio urbano a Roma tra V e Vll secolo, in L. PAROLI-P. DELOGU (a cura di), La storia economica di Roma alla luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993, pp. 89-111; GELICHI 1995, p. 138 ss.;per un'ampia casistica si rimanda ai contributi di questo volume e di quello dedicato alle sepolture di VI-VIII secolo, in corso di stampa a cura di G.P Brogiolo e G. Cantino Wataghin, citato alla nota 5. 31 MENGARELLI 1902, coll. 173-174; J0RGENSEN 1991, P. 42. 32 Il problema delle cappelle familiari ed il loro rapporto con le aree sepolcrali è stato ampiamente studiato per l'area transalpina, molto più limitatamente per l'Italia. Si vedano in particolare alcuni lavori di sintesi: H.R. SENNHAUSER, Recherches récentes en Suisse. Edifices funéraires, cimitières et églises, in Actes di XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne, Città del Vaticano 1989, pp. 1515-1533; P. EGGENBERGER, Typologie und Datierung der frnAmittelalterlichen Holzkirchen des Kantons Bern, “Archaologie der Schweiz”, 16, 1993, pp.93-96;H.W.BOEHME, AdelundKirchebeidenAlamannenderMeromingerzeit, “Germania”, 74, 1996, 2, pp. 477-507 B. SCHOLKMANN, Kultbau und Glaube. Die fruben Kirchen, in Die Alamannen, Catalogo delia mostra, Stuttgart 1997, p. 455 ss., in particolare pp. 461-663, con ampia bibliografia; B. THEUNE-GRossKoPF, Der lange Weg zum Kirchhof. Wandel der germanischen Bestattungstradition, ibidem, p. 471 ss., per una prima sintesi per il Piemonte cfr. E. Micheletto-L. Pejrani Baricco, in questo volume, per la Toscana cfr. G. CIAMPOLTRINI Ville, pievi, castelli. Due schede archeolo~iche per l'organizzazione del territorio nella Toscana nord-occidentale fra tarda antichità e aTtomedioevo, “Archeologia Medievale”, XXII, 1995 pp. 557-567; C. Citter, in questo volume; elementi interessanti di confronto offrono in particolare i casi di SS. Pietro e Paolo a Mels (Svizzera): MARTIN 1988; S. Martino di Trezzo sull'Adda: S. LUSUARDI STENA, La necropoli longobarda in località Cascina S. Martino nel quadro dell'insediamento altomedievale a Trezzo sull'Adda (Milano), in G.P. BROGIOLO, L. CASTELLETTI (a cura di), I1 territorio tra tardoantico e altomedioevo. Metodi di indagine e risultati, Firenze 1992, pp. 131-148; EAD., in questo volume, S. Gervasio di Centallo in provincia di Cuneo: L. Pejrani Baricco, in questo volume; chiesa cimiteriale della necropoli di La Selvicciola in provincia di Viterbo: M. Incitti, in questo volume. 33 MENGARELLI 1902, coll. 243-244 specifica che lo scheletro rinvenuto in questa tomba era in buono stato di conservazione e che esso apparteneva ad una donna. Questo dato appare particolarmente interessante alla luce di quanto esposto nella relazione di C. La Rocca pubblicata in questo volume, sul ruolo centrale svolto dalle donne longobarde nel processo di "cristianizzazione" del rituale funerario. 34 MENGARELLI 1902, coll. 243-244, fig. 105, A. MELUCCO VACCARO, 11 restauro delle decorazioni ageminate "multiple" di Nocera Umbra e di Castel Trosino: un'occasione per un riesame metodologico, “Archeologia Medievale”, V,1978, p.24, fig.8 (con erronea attribuzione alla tomba 20 di Nocera Umbra). 35 Per la pertinenza di questa fibbia al corredo della tomba 49 di Castel Trosino cfr. PAROLI 1995, p. 201, nota 3 1; per la datazione cir. O. VON HESSEN, Akuni aspetti della cronologia archeologica riguardante i Longobardi in Italia, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo (Milano 1978), Spoleto 1980, p. 127 ss., tav. Il. 36 I pettini ad una sola fila di denti e manico sono documentati per tutto il VII secolo: cfr. U. KOCH, Die Grabfunde der Meromingerceit aus dem Donautal um Regensburg Germanische Denkmaler der Volkerwanderungszeit, A VIII, Berlin 1968, p.101 ss., con elenco di tipi affini; per l'Italia cfr.: E.M. MENOTTI (a cura di), La necropoli longobarda a Sacca di Goito. I primi materiali restaurati, Catalogo della mostra (Goito,1994), Mantova 1994, tomba 199, pp. 58-59, tav. XVII, fig. 36 GELICHI 1995, p. 159, fig. 25,5 con bibliografia, questi pettini sono però tipici soprattutto del periodo tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo ed oltre: cfr. S. SICHLER, Zwischen alamannischen Norden und lancobardischen Suden: nene Funde von Wartau SG-Ochsenberg, “JaDrbuch der schweizerischen Gesellschaft fùr Ur- und Fruhgeschichte”, 79,1996, pp. 219-224, in particolare pp. 221-222, fig. 4 per un esemplare con decorazione ad archetti, che ha qualche punto di contatto con quella del pettine della tomba 49 di Castel Trosino. 37 MENIS (a cura di) 1990, p. 471, X.19li, fig. a p. 473, ma con sigla sbagliata.
38 MENIS (a cura di) 1990, p. 473, X.191s, fig. a p. 475. 39 MENGARE; EI 1902, col. 241, tav. X, 5. 40 MENGARELLI 1902, coll. 241-242, figg. 101-102. 41 MENGARELLI 1902, coll247-249, figg. 109-113. 42 E confrontabile con gli esemplari di VIII secolo di Roma: L. SAGUI, Produzioni vetrarie a Roma tra tardo-antico e altomedioevo, in L. PAROLI-P DELOGU (a cura di), La stona economica di Roma alla luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993, p. 128, fig. 9, 75-77. 43 MENGARELLI 1902, coll. 249-250, figg. 114-115. 44 PAROLI (a cura di) 1995, p. 258, fig. 208. 45 Cfr. supra, nota 40. 46 M. BROZZI, La necropoli longobarda di Moraro, 8tudi Goriziani, XXXIII,1963, p. 47 MENGARELLI 1902, coll.239-240; per la datazione della tomba cfr. PAROLI (a cura di) 1995, pp.301-303, figg. 245-247. 48 Cfr. PAROLI (a cura di) 1995, pp.244-245, fig.196. 49 MARTIN 1991, p.191ss. 50 Per la Gallia sud-orientale cfr.. M. COLARDELLE-G. DEMIANS D ARCHIMBAUD-CH. RAYNAUD, Typo-cronologie des sépoltures du Bas-Empire à la fin du Moyen Age dans le SudEst de la Gaule, cit. a nota 30, che sottolineano la predominanza delle tombe con pareti rivestite di lastre (tipo 7) nella fase 1, periodo 1C (VI-VII secolo) e nella fase 2 (VIII-IX secolo); per la basilica cimiteriale di Pianabella cir. L. PAROLI Ostia nella tarda antichità e nell'alto medioevo, in L. PAROLI P. DELOGU (a cura di), La storia economica di Roma alla luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993, p. 161, nota 34; per Norba cfr. L. SAVIGNONI-R. MENGARELLI, Norba. Relazione sopra gli scavi eseguiti nell'estate dell'anno 1901, “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1901, pp. 543-544, per la Selvicciola, contributo di M. Incitti, in questo volume; per Grancia contributo di C. Citter, in questo volume, con precedente bibliografia; per l'Umbria schede di L. PONZI BONOMI in L. PAROLI (a cura di), Umbria longobarda. La necropoli di Nocera Umbra nel centenario della scoperta, Catalogo della Mostra (Nocera Umbra-Roma, 1996-1997), Roma 1996, pp. 177 ss. 51 Per analoghe conclusioni cfr. J0RGENSEN 1991, pp. 42-43. 52 MENGARELLI 1902, coll. 226-227, figg. 75-76, tav. IX,8. 53 La presenza di queste cuffia era già stata sottolineata dal BI\IFI (1980, p. 1()(), tav. XIII); per un'esegesi di questo tipo di acconciatura cfr. in particolare MARTIN 1988. 54 MARTIN 1988, in particolare p. 176 e figg. 12-13 a p. 171. JORGENSEN 199 1, p. s ss. 56 Per una illustrazione del corredo della tomba 31 cfr. PAROLI (a cura di) 1995, pp. 57 G CIAUSS, Die Tragsitte von Bugelfibeln. Eine UntersucAung zur Franentracht im frnben Mittelalter, “Jahrbuch des Romisch-Germanischen Zentralmuseums Mainz”,34,2,1987, p.492,fig. 1,4-6. 58 MENGARETTI 1902, coll. 299-300, figg. 199-200. 59J0RGENSEN 1991, p. 5 ss. per i tipi-guida della fase I 60 Uno spillo d'argento a capocchia biconica si trova nella tomba 85 di Nocera Umbra datata intorno al 600: cfr. RUPP 1996, pp. 102-103, n. 11, fig. 17. 61 Cfr. O VON HESSEN, Primo contributo all'archeologia longobarda in Toscana. Le necropoli, Firenze 1971, p. 53 ss.; p. 66 s. per la datazione della necropoli, pp. 73-74, tav. 37, 8-9 per la tomba 49 che offre un confronto molto puntuale per il corredo della tomba 2 di Castel Trosino (infra, Fig. 12, 1), con fibula a croce e fuseruola: cfr. MENGARELLI 1902, col. 216. 62 8i veda in particolare il contributo di C. La Rocca in questo volume.
Bibliografia BIERBRAUER 1980—V. BIERBRAUER, FruhgeschicEtliche Akkulturationsprocesse in den germanischen Stanten am Mittelmeer (Westgoten, Ostgoten, Lan~obarden) aus der Sicht des Archdologen' Atti del VI Congresso internazione di studi sull'Alto Medioevo (Milano 1978), Spoleto, pp. 89-105.
GELICHI 1995 - 8. GELICHI, La necropoli di Castellarano (RE): nuovi dati per l'archeologia longobarda in Emilia Romagna, in E. BOLDRINI-R. FRANCOVICH (a cura di),Acculturazione e mutamenti. Prospettive nell'archeologia medievale ne Mediterraneo, Firenze, pp. 121-164. J0RGENSEN 1991—L. J0RGENSEN, Castel Trosino and Nocera Um bra. A Chronological and Social Analysis of Family Burial Practises in Lombard Italy (6th-8th. cent. A.D.), “Acta Archaologica”, 62, (1992), pp. 1-58. MARTIN 1988 - M. MARTIN, Grabfunde des 6. Jabrhunderts aus der Kirche St. Peter und Paul in Mels SG, Archaologie der 8chweiz, 11, 4, pp. 167-180. MARTIN 1991 - M. MARTIN, Das spdtromisch-fruEmittelalterliche Grdberfeld von Kaiseraugst, Kt. Aargau, Deredingen-8O1othurn. MENGARELLI 1902 — R. MENGARELLI, La necropoli barbarica di Castel Trosino presso Ascoli Piceno, Monumenti Antichi dei Lincei, XII, Roma, coll. 145-380. MENIS (a cura di) 199O - G.C. MENIS (a cura di), I Longobardi, CataloRo della mostra (Villa Manin di Passariano - Codroipo, Cividale del Friuli, 199O), Milano. PAROLI 1995 - L. PAROLl, La necropoli di Castel Trosino: un riesame critico, in PAROLT~(a cura di) 1995, pp. 198-212. PAROLI (a cura di) 1995 - L. PAROLI (a cura di), La necropoli altomedievale di Castel Trosino. Bizantini e Longobardi nelle Marche, Catalogo deIla mostra (Ascoli Piceno, l luglio-31 ottobre 1995), Cinisello Balsamo (Ml). RUPP 1996 - C. RUPP, La necropoli longobarda di Nocera Umbra (loc. Il Portone): I'analisi archeologica, in L. PAROLI (a cura di), Umbria longobarda. La necropoli di Nocera Umbra nel centenario della scoperta, Catalogo della mostra (Nocera Umbra, 1996 - Roma, 1997), Roma, pp. 23-130.
I Longobardi in Abruzzo (secc. VI-VII)
1. Introduzione Fra l'aprile del 568 e la primavera del 569 i Longobardi entrano nel Veneto passando da Cividale del Friuli, ponendo mano alla progressiva conquista dell'intera Italia settentrionale per poi progressivamente espandersi nelle aree centrali della penisola, dando luogo alla formazione di centri di potere locale quali in particolare il ducato di Spoleto. La ricostruzione di tempi e modi dell'occupazione dell'attuale Abruzzo è tuttavia legata ad un più generale riesame del problema dell'arrivo del popolo germanico nell'Italia centrale e meridionale, che vedrebbe i Longobardi anche a Benevento già nell'ultima fase della dominazione bizantina, una fondazione di tale ducato intorno al 576 forse con l'ausilio di gruppi di più recente arrivo i, ed un suo ruolo importante nella conquista di buona parte dei territori della provincia tardoantica del Sannio 2. In considerazione della presenza nell'interno del Molise di caposaldi bizantini rimasti con ogni evidenza occupati sino al 590/595, quali Venafro ed il Kastron Samnion riconosciuto alla Terravecchia di Sepino 3, l'ipotesi in passato fatta di una conquista del territorio abruzzese ad opera di Ariulfo secondo duca di Spoleto intorno al 591 4 è stata infatti rivista nell'ottica di un'occupazione svoltasi in maniera non uniforme per iniziativa sia dei Longobardi di Spoleto che di quelli di Benevento, in un arco cronologico compreso fra gli ultimi decenni del VI secolo (caduta di Castrum Truentinum nel 580) e la metà addirittura del VII, per quei centri della costa quali Ortona e Pescara che erano rimasti più a lungo collegati all'Esarcato 5. I1 comportamento di Ariulfo di Spoleto, che ad una saltuaria suDordinazione alle autorità bizantine alternava una guerra concepita esclusivamente o quasi come saccheggio e mezzo di ricatto nei confronti delle autorità bizantino-italiche” non dovette concretizzare d'altronde per qualche decennio che “un instabile dominio sulle schiere di guerrieri longobardi dell'Italia centrale”, mentre il suo potere restava ancora “tutt'altro che territoriale” 6. Un simile inquadramento può dunque ben illustrare quelle che dovettero essere le fasi iniziali della presenza longobarda anche in Abruzzo fra 575/ 579 e 590 come altrove nell'Italia centrale anche qui “le zone allora controllate dai Longobardi ... erano fittamente intrecciate con quelle sotto dominio imperiale”, come emerge anche “dall'effimera riforma amministrativa con cui si era teso ad adattare le strutture bizantine della penisola alle conseguenze dell'invasione longobarda” 7. Una ricostruzione complessiva delle sue vicende appare finalmente possibile sulla base dell'uso di varie fonti diversificate: anzitutto le scarsissime fonti documentarie superstiti; poi le testimonianze relative all'impianto di un articolato sistema difensivo bizantino che all'invasione stessa doveva far fronte, particolarmente nelle aree costiere; ancora la crisi dilagante delle diocesi e dei centri urbani con ogni evidenza correlabile alle vicende dell'invasione, particolarmente nelle zone interne; infine le sinora limitate testimonianze archeologiche dirette, per lo più relative a piccoli nuclei di sepolture, senza trascurare un uso sia pur prudente delle fonti toponimiche, sempre correlato ad un esame delle preesistenze tardoantiche sui siti 8, 2. Le fonti storiche I documenti disponibili per ricostruire nel dettaglio fasi ed aspetti della prima conquista si riducono in realtà a poche lettere del papa Gregorio Magno, finalizzate a contenere in qualche modo una crisi profonda delle strutture vescovili locali, che erano state quasi travolte dall'invasione ed erano ormai allo sbando, non diversamente da altre aree dell'Italia centrale. Agli ultimi decenni del VI secolo si riferiscono le notizie relative all'uccisione, in provincia Valeria, di due monaci quos Longobardi suspendio necaverunt, e del Diaconus Ecclesiae Marsicanae, a cui
venne tagliata la testa 9, episodi che sembrerebbero evocare drammatiche pagine di devastazione, saccheggi e massacri che avevano travolto le aree interne della regione. Non meglio doveva essere andata sulla costa, anche se in tale ambito alcuni settori restarono ben più a lungo sotto controllo bizantino, come più oltre delineato. Da altre tre lettere di Gregorio Magno del periodo 598-601 apprendiamo infatti dello stato di abbandono della chiesa di Aprutium (l'antica Interamnia, Teramo), rimasta a lungo priva di vescovo probabilmente a motivo degli accadimenti della conquista, tanto che solo nel 601 era possibile nominare alla carica un tale Opportuno 10. Proprio nel 598 era stata inoltre stipulata una pace generale fra il grande papa ed i Longobardi di Spoleto, sicché appare plausibile l'ipotesi che costoro si fossero poi dedicati ad una più organizzata occupazione dell'intera regione abruzzese, da loro in larga parte già devastata, estendendo in tal modo i limiti del loro ducato sino al fiume Pescara 11. Dobbiamo poi attendere addirittura l'VIII secolo per incontrare alcuni pochi documenti che illustrano sia pur in maniera estremamente lacunosa l'assetto del potere locale longobardo come era andato assestandosi nell'ambito dei ducati di Spoleto e Benevento, il cui confine andò conservandosi sul Pescara sino alla conquista franca del Chietino (801-802) 12. 3. Le testimonianze della presenza bizantina I lacerti di documentazione sopra proposti vengono ad integrarsi efficacemente con le cospicue testimonianze documentarie ed archeologiche di una presenza bizantina protrattasi sulla costa e lungo gli itinerari che collegavano l'Adriatico al Tirreno sin quasi alla fine del VI secolo, per poi sopravvivere dopo il 595 ormai solo nelle aree costiere fra Pescarese e Chietino e nella Valle del Pescara, sin nei primi decenni e finanche alla metà del VII secolo. Numerosi sono infatti i contesti archeologici ad aver restituito tardissimi materiali di importazione, all'epoca ormai circolanti solo in quei territori della penisola che avevano conservato contatti politico-militari con l'oriente, nonostante l'ormai avvenuta conquista longobarda 23. Tali dati risultano in accordo con quanto testimoniato da Giorgio Ciprio sulla presenza lungo la costa abruzzese di un articolato sistema difensivo bizantino fondato, oltre che sull'occupazione di antiche ville e stationes rivelata dagli scavi archeologici 24, sull'impianto di alcuni castra veri e propri, realizzati fortificando preesistenti centri urbani (Kástron Terentinon-Castrum Truentinom, Kástron Nóbo-Castrum Novum, Kástron ()rtonos-Hortona, ma anche Pescara 15, Lanciano 16) ed altri impianti abitativi di minor momento (Kástron Beriéren-Vicus Veneris, Kástron Renia alla periferia meridionale di Histonium), tutti ubicati lungo il tracciato dell'antica strada litoranea 27. L'impianto di tali strutture difensive appare collegato all'esigenza di presidiare punti strategici alla foce dei principali fiumi ed allo sbocco sul mare delle relative valli (Castrum Truentinum nella Val di Tronto, Castrum Novum nella Val Tordino,Aternum nella Val Pescara, Vicus Veneris nella Val di Sangro, Rennia nella Valle del Trigno). Precoce dovette essere il venir meno della presenza bizantina nei gentri della costa teramana, e tuttavia appare ipotizzabile la realizzazione di struttuDobbiamo poi attendere addirittura l'VIII secolo per incontrare alcuni pochi documenti che illustrano sia pur in maniera estremamente lacunosa l'assetto del potere locale longobardo come era andato assestandosi nell'ambito dei ducati di Spoleto e Benevento, il cui confine andò conservandosi sul Pescara sino alla conquista franca del Chietino (801-802) 12. 3. Le testimonianze della presenza bizantina I lacerti di documentazione sopra proposti vengono ad integrarsi efficacemente con le cospicue testimonianze documentarie ed archeologiche di una presenza bizantina protrattasi sulla costa e lungo gli itinerari che collegavano l'Adriatico al Tirreno sin quasi alla fine del VI secolo, per poi
sopravvivere dopo il 595 ormai solo nelle aree costiere fra Pescarese e Chietino e nella Valle del Pescara, sin nei primi decenni e finanche alla metà del VII secolo. Numerosi sono infatti i contesti archeologici ad aver restituito tardissimi materiali di importazione, all'epoca ormai circolanti solo in quei territori della penisola che avevano conservato contatti politico-militari con l'oriente, nonostante l'ormai avvenuta conquista longobarda 13. Tali dati risultano in accordo con quanto testimoniato da Giorgio Ciprio sulla presenza lungo la costa abruzzese di un articolato sistema difensivo bizantino fondato, oltre che sull'occupazione di antiche ville e stationes rivelata dagli scavi archeologici 14, sull'impianto di alcuni castra veri e propri, realizzati fortificando preesistenti centri urbani (Kástron Terentinon-Castrum Truentinum, Kástron Nóbo-Castrum Novum, Kástron ()rtonos-Hortona, ma anche Pescara 15, Lanciano 16) ed altri impianti abitativi di minor momento (Kástron Beréren-Vicus Veneris, Kástron Reunia alla periferia meridionale di Histonium), tutti ubicati lungo il tracciato dell'antica strada litoranea 17. L'impianto di tali strutture difensive appare collegato all'esigenza di presidiare punti strategici alla foce dei principali fiumi ed allo sbocco sul mare delle relative valli (Castrum Truentinum nella Val di Tronto, Castrum Novum nella Val Tordino, Aternum nella Val Pescara, Vicus Veneris nella Val di Sangro, Rennia nella Valle del Trigno). Precoce dovette essere il venir meno della presenza bizantina nei gentri della costa teramana, e tuttavia appare ipotizzabile la realizzazione di strutture difensive sia a Castrum Novum (Giulianova), ove resti di una cinta difensiva a pianta quadrata erano ancora visibili nel secolo scorso 18, che a Castrum Truentinum, ove proprio all'esigenza di impiantare rapidamente tali strutture nell'ambito delle aree superstiti dell'abitato a ridosso del Tronto e del porto è forse correlabile anche lo spoglio sistematico delle strutture del quartiere commerciale rivelato dai recenti scavi 19. Per ambedue i centri il sia pur temporaneo consolidarsi di strutture difensive bizantine dovette comunque rappresentare una delle cause dell'abbandono di consistenti settori dell'abitato, lasciati cadere in rovina e subito invasi da sepolture. Una situazione simile appare documentata dai dati archeologici e dalle fonti documentarie anche per l'antica Interamnia (Teramo), fortemente ristrettasi sin dalla Guerra Gotica a definire un abitato fortificato noto come Castrum Aprutiense, collegato a Castrum Novum dall'antica via che discendeva la valle del fiume Tordino 20. I1 castrum non appare menzionato nell'elenco di Giorgio Ciprio e tuttavia dovette anch'esso rimanere dopo il 580 per qualche tempo ancora sotto controllo bizantino, nell'ambito di un vero e proprio ridotto costituitosi fra Teramo e Campli, a cui appare probabilmente correlabile la forte presenza longobarda nelle valli del Tronto e del Castellano, testimoniata dalle necropoli di Castel Trosino, Civitella del Tronto e S. Egidio alla Vibrata 21. Sulle colline dominanti gli abitati di Castrum Truentinum, Castrum Novum, Statio Ad Salinas (Città S. Angelo), ed Ostia Aterni, tutti ubicati in posizione pianeggiante sul mare lungo la strategica strada romana litoranea da Pescara a Castrum Truentinum, si è inoltre notata l'esistenza di strutture defensionali venute meno già nella prima età medievale (secc. XII-XIII), il Castellum S. Pauli, la Civitella quod est iuxta S. Flavianum, il Castellum S. Mori, ed il Castellum ad Mare, insediatisi nell'ambito di preesistenti complessi antichi, con ogni evidenza non correlabili alle dinamiche del più tardo incastellamento, e forse riferibili proprio all'impianto di strutture con funzioni di avvistamento e difesa a presidio dei sottostanti abitati ancora controllati dai Bizantini 22. Se l'occupazione di Castrum Truentinum e Castrum Novum, con il conseguente controllo della costa teramana, non dovette protrarsi molto oltre il 580, Pescara, Ortona, e due castra di recentissima ubicazione quali il Kástron Benéren sul promontorio di S. Giovanni in Venere (Fossacesia, CH), e Kástron Reùnia nei pressi di Vasto dovettero restare sotto controllo bizantino ben più a lungo, costituendo l'asse portante di un sistema difensivo presto destinato a definire due fasce di frontiera, I'una al confine fra Teramano e Val Pescara finalizzata sino al 595 al controllo dei collegamenti con le aree interne, Valle Peligna ed Alto Sangro, e l'altra di ben più lunga persistenza fra costa ed interno del Chietino, ove andavano progressivamente dilagando gruppi longobardi provenienti da Benevento 23.
Alla presenza di milizie mobili bizantine, destinate a presidiare le vie di comunicazione ed alcuni punti strategici del territorio, potrebbe infatti probabilmente correlarsi la presenza di numerose sepolture contenenti quale tipico elemento di corredo la caratteristica ceramica dipinta tipo Crecchio 24, tutte per lo più ubicate lungo la fascia costiera del Chietino e nella Valle del Pescara (vedi infra). Fra Abruzzo e Molise si è infine ricostruito il temporaneo conservarsi sin forse al 585-90 di un forte presidio bizantino quale il Kástron Sámnion menzionato da Giorgio Ciprio, riconosciuto a Sepino con ogni evidenza in località Terravecchia, e posto a controllo della strategica via che da Benevento giungeva in Molise 25. Se si collega tale dato alla presenza dei Bizantini a Venafro sino al 595 ne emerge il quadro di estese opere di difesa nei confronti del ducato di Benevento comprendenti l'alta Valle del Volturno, e probabilmente correlabili al tentativo di mantenere aperti collegamenti via terra fra Tirreno e Adriatico, lungo gli itinerari che dalla costa tirrenica giungevano a Venafro e poi Isernia e di qui per la c.d. Via degli Abruzzi sino alla Valle Peligna e alla Val Pescara 26. Ad analoghe dinamiche difensive può essere correlabile la probabile occupazione bizantina dei siti di Castropignano e Casalpiano di Morrone del Sannio, al fine di presidiare l'itinerario antico che discendeva verso il mare dalla valle del Biferno 27. All'occupazione bizantina di quest'ultimo sito è stato riferito un sepolcreto una delle cui tombe presentava come elemento di corredo una brocchetta in ceramica tipo Crecchio. Dalle fonti documentarie e dalle recenti testimonianze archeologiche sin qui proposte va dunque emergendo il panorama di una serie di iniziative difensive con ogni evidenza poste in essere negli ultimi decenni del VI secolo dalle forze imperiali locali per tentare di contenere in qualche modo la penetrazione longobarda, che avveniva sia da nord che da sud a partire dal nucleo di Benevento. Un simile quadro complessivo, ben delineabile sulla base delle indicazioni di Giorgio Ciprio e dei numerosi dati archeologici ormai disponibili, consente di ricostruire specularmente quelle che dovettero essere le direttrici e le dinamiche della progressiva estensione all'intero ambito regionale della presenza longobarda. 4. La crisi delle diocesi e dei centri urbani A tale progressiva penetrazione prima nel Teramano e nell'Aquilano, e qualche decennio più tardi anche nell'interno del Chietino, dovette accompagnarsi un vero e proprio tracollo delle diocesi ivi esistenti, correlabile con ogni evidenza alla crisi dei relativi centri urbani, accellerata ed in taluni casi resa definitiva “dai metodi della conquista, brutali ed immediati” 28. Dinamiche di progressivo stravolgimento dell'assetto antico delle città appaiono evidenti nell'inserimento di sepolture in settori abbandonati del tessuto urbano (Castrum Truentinum, Castrum Novum, Amiternum, Marruvium-Anfiteatro, Penne-Duomo, Teramo-S. Anna, Lanciano-largo S. Giovanni, Chieti-Anfiteatro), fenomeno che risulta attestato anche nel vicino Mol~se (Sepmo-Area forense e teatro, Larino-Anfiteatro) 29. La crisi dell'assetto religioso, percepibile in maniera evidente anche in centri quali Amiternum (S. Vittorino dell'Aquila, Fig. 1. n. 17), Aprutium (Teramo, n. 11), e Marruvium (Marsi, S. Benedetto dei M., n. 22) le cui diocesi sopravvivono alle vicende della conquista 30, Si traduce nel venir meno di varie sedi vescovili (Aufinum, Castrum Truentinum, Sulmo, Fig. 1, nn. 18, 1, 27), mentre in taluni casi sembrano ricostruibili spostamenti avvenuti sotto la pressione degli eventi militari e delle devastazioni: Aufidena trasferita da Castel di Sangro ad Alfedena (Fig. 1, nn. 30-31); Aveia dall'originaria sede urbana (Fig. 1, n. 19) a quella del vicus antico di Forcona (Fig. 1, n. 20), con ogni evidenza potenziato nell'altomedioevo; Marruvium-Marsi (Fig. 1, n. 22), forse spostata sia pur temporaneamente a Castrum Caelene (Celano, Fig. 1, n. 23) 31. Essendosi giustamente notato come nell'Abruzzo altomedievale “c'est la géographie ecclésiastique, celle de diocèses, qui donne à la région son ossature administrative, à l'interieur de laquelle l'organization civile se conle” 32 appare evidente che nelle traumatiche modifiche del quadro religioso accompagnatesi agli accadimenti della conquista longobarda ed ai conseguenti
sconvolgimenti erano i prodromi anche di consistenti trasformazioni nell'assetto amministrat~vo del territorio. Tali trasformazioni venivano ad essere condizionate anche dalle vicende militari della progressiva conquista, in una situazione in cui la presenza di linee di collegamento fra Adriatico e Tirreno presidiate dai Bizantini sin quasi alla fine del VI secolo era destinata a diversificare cronologicamente e materialmente gli sviluppi della conquista stessa ed i suoi effetti sull'assetto insediativo ed amministrativo della regione. Al definirsi negli ultimi decenni del VI secolo di sia pur temporanee fasce di frontiera fra territori ancora controllati dai Bizantini e territori ormai conquistati dai Longobardi dovette infatti collegarsi la crisi evidente ed aggravata di abitati che erano stati conquistati rapidamente nelle fasi della prima e più devastante conquista o restavano situati nelle zone di confine 33, non risultando pertanto compresi nelle contrapposte logiche di controllo del territorio. Eloquente in proposito appare la perdita di ruolo di quei centri che erano ubicati subito a nord di Pescara, Hatria, Angulum, e Colle Fiorano di Loreto Aprutino (Fig. 1, nn. 16, 35), con ogni evidenza avvenuta nell'ambito del consolidarsi di una frontiera che vedeva i Bizantini consolidatisi a Pescara e nel suo immediato retroterra probabilmente sin verso il 650/660 ed i Longobardi ormai probabilmente presenti a Penne (Fig. 1, n. 32), a Città S. Angelo (Fig. 1, n. 39), e probabilmente nelcastrum di nuova fondazione di Lauretum (Loreto Aprutino, Fig. 1, n. 34), destinati ad assumere presto un ruolo importante a detrimento dei centri vicini 34. Alle oscillazioni della frontiera fra ducato romano e ducato di Spoleto fra alta Valle dell'Aniene e Valle del Turano, ed allo spostamento delle"ultime difese bizantine dal sito dell'antica città (Fig. 1, n. 24) sull'asse della via Valeria (Fig. 1, n. 25), dovette probabilmente correlarsi anche la definitiva crisi della città di Carsioli 35, mentre nelle aree interne della regione oggi corrispondenti all'Aquilano devastanti risultavano le conseguenze della conquista su centri quali Amiternum, Aufinum, Aveia, Alba Fucens, Peltuinum, e Marruvium 36. Diversa dovette essere la sorte di quei centri urbani della costa abruzzese che erano rimasti sotto controllo bizantino anche dopo gli ultimi decenni del VI secolo: Pescara, Ortona, Lanciano, Vasto erano infatti destinate a conservare anche in età altomedievale un assetto ancora in qualche modo ispirato a quello antico, pur in presenza di consistenti fenomeni di ristrutturazione e nonostante le vicende della ben più tarda conquista longobarda, avvenuta alla metà del VII secolo 37. Particolarmente eloquente in proposito appare l'esempio ormai ben noto di Histonium (Vasto), il cui assetto d'età bizantina andò sostanzialmente conservandosi sino all'XI secolo 38. Anche nel vicino Molise l'attestarsi della presenza imperiale sino al 590/ 595 nell'area fra il Kastron Samnion e Venafro e le conseguenti vicende del confronto con i Longobardi che risalivano da 13enevento dovettero tradursi in un'inarrestabile crisi dell'assetto antico dei vicini centri di Saepinum e Boianum ormai quasi abbandonati al loro destino, in quanto forme di residua presenza venivano ad incentrarsi sui due adiacenti siti d'altura della Terravecchia e della Civita mentre gli abitati d'età romana ormai indifendibili venivano travolti dalle vicende belliche 39. 5. Le necropoli databili fra fine VI e VII secolo 5.1 Considerazioni preliminari I dati archeologici relativi ad inumazioni inquadrabili fra la fine del VI ed il VII secolo sono ancora limitati, consentono molto raramente di caratterizzare etnicamente il defunto 40, e tuttavia permettono già qualche utile valutazione preliminare. Anzitutto deve notarsi dopo un periodo di quasi tre secoli il ritorno delle popolazioni locali all'uso di seppellire con qualche sia pur minimo elemento di corredo i propri defunti 41, di qualsiasi etnia fossero, e non appare certo casuale che il fenomeno venga a riproporsi in un'epoca (fine VI-primi
decenni VII secolo) che è anche quella del progressivo consolidamento della presenza longobarda nell'area. Si propone di seguito una disamina analitica dei vari sepolcreti sinora localizzati (Fig. 2), escludendo quelli caratterizzati da corredo con ceramica tipo Crecchio (vedi infra), che sembrano con ogni evidenza relativi ad un ambito culturale e probabilmente anche etnico ben diverso. 5.2 Descrizione dei contesti e dei materiali 5.2.1 S. EGIDIO ALLA VIBRATA (TE) - LOC. COLLE CHIOVETTI-FONTE TROCCO Si era già segnalata in precedenza 42 e più recentemente proprio in occasione della Mostra di Ascoli Piceno la presenza nella località Colle ChiovettiFonte Trocco di S. Egidio alla Vibrata di un sepolcreto culturalmente vicino a quello di Castel Trosino, interessato da rinvenimenti sporadici fra 1900 e 1907, e da sia pur limitate indagini di scavo nel 1913 (Fig. 1, n. 4; Fig. 2, n. 1) 43. Fra gli oggetti allora venuti in luce è sufficiente in questa sede ricordare una “borchia d'oro a decorazioni filigranate del genere di quelle longobarde apparse nella necropoli di Castel Trosino” 44. Ricognizioni recenti condotte sul sito 45 sembrano confermare che l'area non ha esaurito le sue potenzialità in termini archeologici, e che, come si osservava nel 1913, “è bene che si continui nell'indagine, giacché la zona è molto vasta e vi sono vari posti indicati da esplorare” 46, La presenza del sepolcreto sembrerebbe correlabile al definirsi poco dopo il 580 di una fascia di frontiera fra i Longobardi, che avevano ormai occupato Asculum e Castrum Truentinum, ed i Bizantini, ancora presenti ad Interamnia e Castrum Novum 47. 5.2.2 CIVITELLA DEL TRONTO (TE) - FUORI PORTA Dl NAPOLI Anche questo sepolcreto, venuto casualmente in luce nel 1859 in occasione di lavori di sbancamento di un piccolo colle subito all'esterno dell'abitato, corrispondente al sito originario dell'antica pieve di S. Lorenzo di Civitella 48, è stato già ampiamente analizzato nell'ambito del catalogo della mostra di Ascoli, a cui si rinvia (Fig. 2, n. 2) 49. Per sottolinearne l'importanza vale la pena ricordare in questa sede gli oggetti di maggior rilievo rinvenuti: un bacile probabilmente attribuibile a quella classe di manufatti c.d. copti presenti anche a Castel Trosino e recentemente attestati anche in Abruzzo dal rinvenimento di Crecchio 50; due anelli d'oro con pietre diverse, un pendente in cristallo di rocca che ricorda esemplari da Castel Trosino, alcune medaglie o piuttosto monete d'oro fra cui probabilmente una moneta dell'Imperatore Maurizio Tiberio (582-602), ed altra moneta bizantina con raffigurazione della Vittoria, alcuni pendenti di collana in oro, un anello d'oro con corniola dove vi era scolpito un angelo forse riconoscibile come una vittoria, una lancia ed una spada di ferro; una "scatolella" anch'essa d'oro, probabilmente una pisside, ed altro 50. I numerosi oggetti d'oro vennero subito venduti dal Comandante della locale Fortezza Borbonica ad un gioiellere di Civitella, che provvide purtroppo di lì a poco a fonderli per gli usi del suo laboratorio 52, Ben poco è noto sulle circostanze precise del rinvenimento, anche se gli oggetti erano con ogni evidenza correlabili ad alcune sepolture. In una nota del Maggiordomo Maggiore di Casa Reale all'Intendente del Regio Abruzzo Ulteriore si segnalava infatti che il rinvenimento era avvenuto presso “ruderi di vecchie fabbriche frammisti a scheletri umani” 53. In altra lettera del Sindaco di Civitella si precisava inoltre che “nello scavo si sono trovate ossa umane e a poca profondità il suolo appare tufaceo - e non presenta indizi di potervisi trovar altro, mentre ciò che vi si è rinvenuto da tutti dicesi dovea essere ornamenti di antichi guerrieri” 54.
L'area del rinvenimento era nota sino al secolo scorso con il significativo toponimo di “Aringo”, con ogni evidenza correlabile ad assemblee che dovevano svolgersi presso la pieve altomedievale e medievale, abbandonata già nel XVI secolo 55. Deve infine notarsi che la presenza nell'ambito del sepolcreto di inumati con armi, su un sito quale Civitella naturalmente predisposto alla difesa e pertanto interessato in età medievale e moderna dalla presenza di imponenti strutture fortificate, sembrerebbe suggerire la presenza in loco di un presidio longobardo destinato a controllare il saliente di Interamnia-Castrum Aprutiense, probabilmente rimasto sotto controllo bizantino sin verso il 598 56 5.2.3 MARTINSICURO (TE) Loc. CASE FERIOZZI A completare un quadro di testimonianze che vanno facendosi consistenti lungo l'intera Valle del Tronto devono menzionarsi i rinvenimenti avvenuti alla foce del fiume fra 1991 e 1995, nel corso delle campagne di scavo sul sito della città antica di Truentum-Castrum Truentinum, riconosciuta in località Case Feriozzi di Martinsicuro (Fig. 1, n. 1; Fig. 2, n. 3) 57. Sui piani connessi all'ormai avvenuto abbandono di buona parte dell'abitato, inquadrabile fra la seconda metà del VI ed i primi decenni del VII secolo, all'interno e nelle immediate adiacenze di vari complessi antichi ormai in gran parte demoliti per riutilizzarne i materiali, sono state infatti scavate numerose sepolture con ogni evidenza databili fra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo. Si tratta probabilmente del sepolcreto di quel nucleo superstite di popolazione che era rimasto ad abitare sul sito, costituito tutto da sepolture particolarmente povere, a cappuccina, a cassone, o a semplice fossa terragna 58 Nei pressi di una di queste sepolture, una semplice cappuccina che conteneva i resti di una bambina (tomba 1) è stata recuperata una fibbia ad ardiglione conirontabile con analoghi materiali databili fra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo (Fig. 3), ed attestati anche nell'ambito di coeve necropoli longobarde 59. La tomba, anche per la sua collocazione stratigrafica, sembra infatti databile con ogni evidenza dopo il 580, epoca della conquista di Fermo testimoniata da Gregorio Magno che dovette accompagnarsi probabilmente anche a quella della vicina Castrum Truentinum 60, 5.2.4 COLONNELLA (TE) - LOC. POGGIO CIVITA-LA CIVITA In questa località, su un alto pianoro in posizione dominante verso il mare sono i resti di un esteso insediamento occupato sin dal periodo piceno, poi in età repubblicana ed imperiale, strettamente collegato al più importante insediamento di Castrum Truentinum alla foce del Tronto, rimasto poi abitato anche in età altomedievale e noto nel medioevo con il significativo nome di Civitas Tomacclara (Fig. 2, n. 4) 67, Vi esisteva la chiesa curata di S. Angelo dipendente dalla pieve truentina di S. Cipriano in Troncto, così importante che in un documento del 1241 veniva addirittura a dare il suo nome sia pur episodicamente all'insediamento, Castrum S. Angeli 62. Di particolare interesse si presenta pertanto il rinvenimento, avvenuto nel 1938 proprio nella contrada Civita, di una sepoltura a cassone realizzata con materiali antichi di reimpiego, in particolare due frammenti di decorazione arc1ìitettonica posti a fondo e copertura, collegati da spallette in laterizio; l'inumazione, priva di corredo, era stata già all'epoca riferita dal Galli, con ogni evidenza in modo corretto, “ad un periodo molto inoltrato e forse anche all'alto Medioevo (età longobarda: VII-VIII d.Cr.)” 63. La presenza sul sito del significativo culto di S. Angelo, il riemergere in età altomedievale di una connotazione abitativa connessa al termine Civitas in un ambito insediativo che era pur stato importante nel periodo piceno ed in età repubblicana, ma aveva poi ceduto la primazia nell'area al centro urbano e portuale sul Tronto di Castrum Truentinum, sono tutti elementi che sembrerebbero suggerire l'innescarsi fra VI e VII secolo di dinamiche che portano ad una sorta di "rilancio" dell'abitato.
Viene da chiedersi se il fenomeno non possa in qualche modo legarsi proprio alle vicende del progressivo stabilirsi della presenza longobarda nella zona. 5.2.5 CAMPLI (TE) - LOC. CASTELNUOVO Nei pressi della frazione Castelnuovo vennero in luce nel luglio 1982 a seguito di lavori per la realizzazione di una casa due livelli archeologici, il primo “con resti romani in cui erano visibili due cisterne”, il secondo “con resti di mura forse medievali da riconnettersi al Castello” (Fig. 2, n. 5) 64. In considerazione di questa apparente continuità di occupazione del sito fra età romana e medioevo acquista anche maggiore importanza la notizia del rinvenimento avvenuto nel 1937 di una tomba non precisamente descritta ma fra “le cui pietre erano un anello di metallo, una lama di ferro in cattivo stato, un anfora frammentaria e ossa umane”. Sembrerebbe potersi trattare di una sepoltura di pertinenza barbarica o comunque riferibile al primo altomedioevo 65. 5.2.6 TORANO NUOVO (TE) - LOC. TORRI La frazione di Torri in comune di Torano Nuovo è stata in via d'ipotesi identificata dalla Jamison come il sito del feudo Turres in Asculo, menzionato dal Catalogus Baronum (Fig. 2, n. 6) 66. L'insediamento, che si presenta come un centro signorile costituito da vari fabbricati stretti da mura con la chiesa di S. Martino, risulta significativamente collocato su una posizione di terrazzo fluviale analoga a quella del vicino abitato altomedievale di S. Massimo di Varano 67. Di particolare interesse appare a tal proposito il rinvenimento avvenuto nel 1907 nella zona di armi in ferro, attribuite all'epoca ad alcune tombe medievali (o altomedievali!) di cui null'altro è noto 68. 5.2.7 S. OMERO (TE) - LOC. S. MARIA A VICO Su un terrazzo fluviale dominante il torrente Vibrata, sul sito dell'antica chiesa pievana di S. Maria a Vico che ha conservato nel suo titolo memoria del preesistente abitato, sono sepolti i resti del principale insediamento antico di questo territorio, il Vicus Strament(arius) o Strament(icius), così noto da un'epigrafe ivi rinvenuta alla fine del secolo scorso (Fig. 2, n. 7) 69. L'occupazione del sito risale probabilmente ad antichissime origini, come sembra intuirsi per il rinvenimento nell'area di reperti di epoca preistorica, protostorica e repubblicana, e tuttavia l'abitato va probabilmente consolidandosi nella tarda età repubblicana, quale importante centro di scambi e sosta lungo un tracciato antico che, diramatosi da Asculum, doveva percorrere il bassopiano della Vibrata sino al mare. L'insediamento continuò ad essere occupato sino alla tarda antichità ed oltre, come dimostra senza alcun dubbio la presenza della pieve di S. Maria. Il Barnabei segnala inoltre il rinvenimento, nel corso degli scavi per le fondazioni di una casa colonica realizzata a sinistra della chiesa, di una necropoli ubicata a notevole profondità (circa 2 metri), costituita da varie sepolture in cui erano reimpiegati resti antichi provenienti dall'abitato fra cui la succitata epigrafe dei Cultores Herculis menzionante il Vicus. Tale lapide era infatti al momento del rinvenimento in evidente giacitura secondaria, riutilizzata come coperchio di una sepoltura a cassone con il testo epigrafico rivolto verso l'inumato. Come notato dal Barnabei “i materiali di età classica” erano inoltre stati utilizzati anche per “la costruzione delle altre tombe in vicinanza della chiesa stessa. In fatti negli scavi eseguiti per fabbricare la nuova casa colonica, a sinistra della chiesa, varie tombe furono scoperte oltre a quella sopra già menzionata”. Il sepolcreto appare con ogni evidenza riferibile ad un momento in cui si era ormai avviato il collasso dell'abitato antico, in via di trasformazione in un villaggio di capanne e case di legno non diversamente dal vicino Castrum Truentinum; la massiccia presenza di materiali antichi di spoglio
suggerisce inoltre che le inumazioni possano essere datate proprio fra VI e VII secolo, il che potrebbe trovare ulteriore conferma nella povertà dei corredi, pur esistenti come testimonia chiaramente lo stesso Barnabei: “mi si disse che vi si trovarono pochi oggetti che, ritenuti di nessun valore, vennero distrutti” 70. 5.2.8 TERAMO - LARGO S. ANNA Presso i resti della cattedrale altomedievale di Teramo è stato scavato negli ultimi anni un cospicuo gruppo di sepolture datato nelle sue fasi iniziali con analisi al C14 fra 600 e 685 (Fig. 1, n. 11; Fig. 2, n. 8) 71. La città era ancora probabilmente controllata dai Bizantini nel 598 72, dovette essere di lì a poco occupata dai Longobardi con la conseguente crisi del suo vescovato eloquentemente testimoniata da Gregorio Magno 73, e dunque le succitate sepolture sembrano relative ai primi decenni dell'occupazione germanica della città. La quota di deposizione di queste inumazioni è infatti ancora molto vicina ai piani di vita delle domus romane esistenti nella zona 74, e la loro presenza sembra correlabile alla presenza della prima fase dell'importante luogo di culto 75. Trattasi di semplici sepolture alla cappoccina o a cassone 76 nel loro complesso ancora sostanzialmente inedite, per lo più prive di corredo 77. Dalla documentazione sinora pubblicata si evince tuttavia la presenza nell'area di fibule ad anello e più generiche fibbie di bronzo, forse riferibili ad analoghe inumazioni manomesse in età medievale 78, che sembrerebbero inquadrare anche le fasi più antiche di questo sepolcreto nell'ampio ambito culturale sin qui delineato. 5.2.9 NOTARESCO (TE) - LOC. VENIGLIA In questa località (Fig. 1, n. 13; Fig. 2, n. 9) venne rinvenuto nel 1930 “uno scheletro con le ossa sparse, una fibula barbarica in metallo dorato con due granate incastonate”, ritenuta da Francesco Savini simile ad un tipo di Castel Trosino 79. I materiali andarono in seguito dispersi. 5.2.10 NOTARESCO (TE) - LOC. S. LUCIA L'inquadramento cronologico del rinvenimento precedente, purtroppo più non verificabile in assenza dei relativi reperti, è venuto a trovare in qualche modo conferma dai risultati di uno scavo di emergenza condotto nel 1983 dalla Soprintendenza non molto lontano, in località S. Lucia dello stesso comune (Fig. 1, n. 13; Fig. 2, n. 10). A seguito di un recupero della Guardia di Finanza di alcuni reperti da scavi clandestini sono state qui messe in luce tre sepolture a cappuccina mentre vari resti sconvolti dalle arature segnalavano l'esistenza sul sito di altre inumazioni ormai irrimediabilmente danneggiate 80. Una delle sepolture superstiti (t. 1) presentava due individui adulti deposti supini ed affiancati con orientamento E-O, uno dei quali presentava a lato del cranio due spilloni in argento. Le altre due, anch'esse parzialmente sconvolte dalla arature, presentavano orientamento analogo, e contenevano i resti solo in parte conservati in connessione anatomica di altri due individui adulti. Fra gli elementi di corredo riferibili al sepolcreto (Fig. 4) 81, in parte provenienti dal recupero della Guardia di Finanza e dunque non precisamente attribuibili ad una delle tre sepolture 82, erano anche due coppie di orecchini in argento che sembrerebbero attestare la presenza nel sepolcreto di almeno due individui di sesso femminile.
Trattasi anzitutto di due esemplari del tipo a cestello (Fig. 4, 2) confrontabili abbastanza puntualmente con analoghi tipi da Cividale-Cella databili fra ultimo terzo del VI e prima metà del VII secolo 83. Ad una cronologia fra fine VI e VII secolo appare riferibile anche la seconda coppia di orecchini, a globetti (Fig. 4, 1), confrontabile puntualmente con reperti analoghi dal sepolcreto di Rutigliano 84, e più latamente con altri oggetti di provenienza siciliana ed orientale 85. Si tratta nel loro complesso di reperti che, pur non sembrando attribuibili con certezza ad un ambito etnico germanico, si presentano non di meno precisamente inquadrabili cronologicamente e collegabili a vaste tematiche culturali attestate anche nell'ambito delle necropoli coeve di sicura pertinenza longobarda 86. Se a questo rinvenimento si associano il non meno significativo dato sul sepolcreto in loc. Veniglia e le testimonianze relative alla presenza attestata dalle fonti altomedievali nel territorio di Notaresco del Castrum Guardiae (Guardia Vomano), di una Fara S. Clementis e di una Curtis de Sala, e presso la vicina foce del Vomano di un Gualdum de Vomano, sembrerebbe emergerne la realtà di un consistente stanziamento longobardo lungo l'intera media e bassa valle del fiume Vomano 87. 5.2.11 PENNE (PE) - CENTRO STORICO Gli scavi archeologici condotti a Penne fra 1991 e 1995 hanno messo in luce due sepolcreti costituiti da semplici inumazioni a cassone: a) viale Ringa: trattasi di due sepolture venute in luce nell'ambito di un settore dell'abitato romano con ogni evidenza abbandonato nella tarda antichità, a seguito della contrazione dell'abitato sulla sommità del Colle Castello, sulla sella di piazza Luca da Penne e sul Colle Duomo 88. Le inumazioni presentavano il fondo di tegole poste in piano, le due spallette laterali lunghe ed i limiti alla testa ed ai piedi dell'inumato realizzate con tegole poste di taglio, ed erano coperte di tegole; i laterizi, sia pur probabilmente di riutilizzo, sono ancora in buone condizioni e sembrerebbero provenire da coperture che dovevano essere state appena smantellate all'epoca dell'inserimento del sepolcreto nella zona, forse proprio i tetti della vicina domus indagata nel corso degli scavi del 1991. Ambedue le tombe erano purtroppo prive di corredo. b) piazza Duomo: trattasi di due inumazioni anch'esse prive di corredo venute in luce nel cuore dell'abitato antico sul Colle del Duomo, correlabili o ad una prima fase paleocristiana dell'ivi esistente ed adiacente cattedrale, o ad un momento in cui era venuto a perdersi il tradizionale divieto alle inumazioni in ambito urbano, per una crisi devastante con ogni evidenza connessa all'invasione longobarda ed alla collegata latitanza di ogni potere civile. I livelli in cui le sepolture sono ricavate sono infatti riferibili ad opere tardoantiche di sistemazione dell'altura del duomo (secc. IV-V) mentre su di esse erano poi andate ad insediarsi le unità insediative del villaggio fortificato esistente quanto meno dall'VIII secolo intorno alla cattedrale 89. Anche queste due sepolture sono a cassone ma di qualità ben più scadente rispetto alle precedenti, con spallette realizzate in rozza opera laterizia in cui sono reimpiegati mattoni fratti di varia ed eterogenea provenienza, indubbiamente di spoglio, e fondo di tegole frammentarie. Altre simili sepolture riferibili a questa fase sono venute in luce nel 1996 al piano terra del vicino Palazzo Vescovile. 5.2.12 PENNE (PE) - Loc. S. ANGELO Ad una cronologia fra la fine del VI ed il VII secolo sono riferibili anche una fibbia ad ardiglione, una fibula ad anello ed altra fibbia circolare provenienti dalla località S. Angelo di Penne (Fig. 1, n. 33; Fig. 2, n. 5), attualmente conservate nel locale Museo Archeologico 90. Trattasi con ogni evidenza di elementi provenienti da sepolture scavate nella succitata località agli inizi degli anni '60 dal barone Gianbattista Leopardi, come si è ricostruito da notizie raccolte da contadini del posto, anche se purtroppo delle relative indagini non si conserva agli atti della Soprintendenza alcuna documentazione.
Il piccolo sepolcreto doveva essere ubicato nelle vicinanze di una preesistente villa romana, di cui è segnalata una cisterna oggi reinterrata. La fibbia ad ardiglione (Fig. 5, 1) appare confrontabile con l'analogo esemplare da Martinsicuro sopra descritto 91; la fibula ad anello, con anello di bronzo aperto a sezione ovale ornato da gruppi di linee ed estremità volte indietro a formare un cerchio (Fig. 5, 2), rimanda ad altri reperti dall'Italia settentrionale 92 e ad un secondo reperto di provenienza abruzzese dalla località Azienda D'Avalos di Cupello più oltre segnalato; il terzo elemento è anch'esso riconoscibile come fibula in bronzo ad anello chiuso, con semplice ardiglione decorato da una X (Fig. 5, 3), confrontabile con un reperto di analoga cronologia conservato presso il Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno 93, e con altro reperto da Cugnoli di seguito proposto. Deve notarsi che in genere le fibule ad anello compaiono da sole o in coppia nel corredo di sepolture femminili e rappresentano probabilmente un elemento "personale" attinente all'abbigliamento delle inumate. Vanno infine menzionati alcuni oggetti provenienti da località non precisabili del territorio di Penne ed oggi conservati nelle collezioni del Musco Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano. Anzitutto un anello di fibbia o fibula in bronzo, di incerta datatzione (Fig. 6) 94, confrontabile con analogo esemplare conservato presso il Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno 45; poi quella che sembra una borchia in bronzo con fascia quasi piana ai margini e calotta emisferica al centro (Fig. 7), con motivo decorativo molto vicino alla triquetra presente su alcuni umboni per scudi da parata dell'Italia settentrionale 96; inoltre una placchetta piatta circolare in bronzo di cui si conserva solo un frammento, decorata ad incisione con solcature parallele e concentriche e cerchielli (Fig. 8) 97; infine una fibula 0 ciondolo in lamina di bronzo con croce traiorata al centro e decorazione a cerchielli (Fig. 9), che trova confronti con esemplari analoghi attestati in sepolture femminili longobarde ed autoctone del Trentino e del Friuli ed è probabilmente databile agli inizi del VII secolo 98 Gli elementi sin qui descritti, ed in particolare la borchia in bronzo, ben si collegherebbero a consistenti presenze longobarde in loco, tradottesi fra VII ed VIII secolo nello sviluppo del gastaldato di Penne, principale struttura del potere civile altomedievale nell'intera fascia di territorio compresa fra i fiumi Pescara e Vomano 99. 5.2.13 LORETO APRUTINO (PE) - LOC. COLLE FIORANO Nella Collezione privata Casamarte, contenente reperti provenienti dalle tenute della famiglia esistenti nel territorio del comune di Loreto Aprutino ed in particolare da quella di Colle Fiorano, sono conservate ben quattro fibule ad anello (Figg. 10-13) 100. Anzitutto la prime due (Figg. 10-11) 101 che presentano evidenti punti di collegamento con gli analoghi esemplari da Penne, ma soprattutto Ortona e Cupello presentati in questa sede 102; poi due fibule a soggetto animalistico tipiche della produzione tardoromana (Figg. 12-13) 103, adottate molto presto dai Longobardi a testimonianza della loro progressiva romanizzazione tanto che sono ad esempio attestate presso la necropoli di Castel Trosino ed in altri contesti coevi delle vicine Marche 104. Tutti questi oggetti sembrano con ogni evidenza provenire dal corredo di sepolture databili fra la fine del VI ed il VII secolo, come si è detto probabilmente localizzabili nella tenuta Casamarte di Colle Fiorano, ove esistono i resti di un grande insediamento occupato a partire dall'Età del Ferro e poi in età repubblicana, imperiale e finanche nell'altomedioevo. Proprio qui le indagini di scavo avviate sin dal 1995 nell'ambito del Progetto Loreto Aprutino ~U5 hanno infatti rivelato la presenza di numerose sepolture andatesi a collocare nei pressi di un probabile luogo di culto paleocristiano, una struttura absidata a pianta rettangolare realizzata nell'ambito e riutilizzando strutture di un precedente complesso rustico romano. Le sepolture sinora rinvenute sono per lo più a cassone o a semplice fossa terragna, erano quasi tutte prive di corredo, ed erano ubicate subito all'esterno dell'abside; due inumazioni, realizzate a cassone
con tegole riutilizzate, erano situate nella zona absidale e potrebbero essere considerate come sepolture privilegiate. Una di esse ha in particolare restituito l'unico elemento di corredo sinora rinvenuto, una brocchetta in ceramica depurata, che presenta una decorazione dipinta abbastanza vicina ad alcuni esemplari in ceramica tipo Crecchio (Fig. 14). Fra gli elementi sporadici rinvenuti è stata infine rinvenuta una guarnizione (applique) da cintura di forma triangolare riferibile al modello delle c.d. cinture di tipo longobardo a 5 pezzi, databile nei primi anni del VII secolo, e probabilmente riferibile ad un'altra sepoltura sconvolta dai lavori agricoli. In conclusione tutti questi elementi sembrano`suggerire una notevole vitalità dell'insediamento esistente a Colle Fiorano fra VI e VII secolo, con la presenza di elementi che sembrerebbero suggerire il possibile stanziamento di gruppi di etnia germanica; ben verrebbe ciò a collegarsi con la presenza sul sito vicino dell'abitato attuale di Loreto di un incastellamento molto precoce attestato dalle fonti sin dal IX secolo e forse risalente ad epoca precedente, non casualmente se si considera che la zona doveva essere rimasta a lungo area di confine fra i territori ormai conquistati dai Longobardi e quella parte della Val Pescara orbitante su Pescara che era rimasta bizantina sin verso la metà del VII secolo 106. 5.2.14 ROSCIANO (PE) - EOC. VILLA OLIVETI/TAVERNA NUOVA Nel 1985-86 sono stati individuati lungo un itinerario antico poi ripreso dal tracciato del Tratturo L'Aquila-Foggia in loc. Taverna Nuova-Villa Oliveti di Rosciano i resti di un esteso abitato rustico romano occupato sino alla tardissima antichità (Fig. 2, n. 14) 107. Nelle sue vicinanze erano i resti di una vasta necropoli databile fra età imperiale e VII secolo, nel cui ambito è stata scavata una sepoltura del tipo a cassone, con spallette in rozza opera vittata. Lo scheletro è risultato privo di cranio e presentava all'altezza del bacino, quale unico elemento di corredo, un pettine in osso decorato con motivi geometrici (Fig. 15). "Trattasi di un reperto particolarmente significativo, lungo cm 19,5 ed alto cm 4,8, realizzato a dentatura semplice con una lamella in osso in cui sono stati ricavati circa 65 denti triangolari. La parte superiore serviva da presa ed era rinforzata da piastre d'osso sui due lati, fissate con chiodi di ferro. La decorazione, che occupa sia la superficie delle piastre di supporto che la parte non dentata della lamella, è costituita da una fila di piccolo globuli con punto centrale sormontati da tre linee parallele sulla parte sporgente della lamella, mentre le due piastre presentano una decorazione a linee verticali intervallate a due campi con semplice decorazione a treccia. L'esemplare trova numerosi confronti con analoghi esemplari attestati nell'ambito delle necropoli longobarde di Nocera Umbra, Castel Trosino, Acqui Terme, Testona, Luni e Mezzolombardo 108, anche se una definitiva attribuzione etnica deve restare ancora ipotetica. Potrebbe comunque trattarsi della possibile testimonianza dell'insediamento di gruppi di stirpe longobarda presso quanto restava del quadro insediativo antico nella zona. 5.2.15 ROSCIANO (PE) - LOCALITÀ VILLA OLIVETI/S. LORENZO Nel 1992 indagini d'urgenza condotte pressi i resti di una cisterna romana in loc. S. Lorenzo-Il Bicchiere di Villa Oliveti, in comune di Rosciano, portavano all'esplorazione di una serie di semplici inumazioni in fossa terragna, per lo più prive di corredo 109 (Fig. 1, n. 15). La cisterna era relativa ad una grande villa romana quasi completamente distrutta dalle cave nei decenni passati, presso cui era andata ad insediarsi in età altomedievale la chiesa curata di S. Lorenzo, per tradizione popolare parrocchiale originaria di Villa Oliveti poi abbandonata 1l0. Proprio la presenza della chiesa consentiva di riconoscere sul sito l'abitato altomedievale di Olivetum, menzionato già nelMemoratorium dell'abbate Bertario di Montecassino alla metà del IX secolo e poi
come castrum nell'XI secolo 111, con ogni evidenza connotabile come prosecuzione in età altomedievale del preesistente abitato romano. Fra le tombe individuate nelle immediate adiacenze della cisterna deve segnalarsi la presenza di una sepoltura dotata di alcuni elementi di corredo, due orecchini a poliedo in argento di piccole dimensioni ed uno spillone in argento (Fig. 16) 112. Questo tipo di orecchini è diffuso in Italia sin dal V secolo, epoca in cui entra a far parte anche del costume femminile delle popolazioni germaniche orientali; è poi ben attestato in epoca gota e resta in uso sino al VII secolo 113. L'intervento era condotto in condizioni di estrema urgenza dall'assistente sig. Enrico Cipressi, senza che fosse purtroppo possibile eseguire adeguata documentazione grafica delle inumazioni. 5.2.16 BRITTIOLI (PE) - LOCALITÀ IMPRECISATA Fra i reperti dal territorio della Valle del Pescara compresi nella collezione De Vico, acquisita dalla Soprintendenza per donazione nel 1971, era anche una fibula ad anello chiuso in bronzo, con semplice ardiglione (Fig. 17) l14, confrontabile con un esemplare da Penne in precedenza illustrato. Il reperto appare quasi identico anche ad un esemplare dalla necropoli longobarda di Cividale-Cella ii;. Oltre al territorio di provenienza, Brittoli, nulla è noto sulle circostanza del rinvenimento. 5.2.17 PESCARA - MUSEO DELLE GENTI D ABRUZZO Fra i reperti di incerta provenienza e privi di contesto è esposta presso il Museo delle Genti d'Abruzzo di Pescara una linguetta piatta in osso lavorato, lunga circa 12 cm e larga 6 cm, che presenta una tipica decorazione a cerchi concentrici distribuiti con una certa uniformità sull'intera superficie (Fig. 18). Il reperto sembrerebbe ricordare per la forma le guarnizioni di cintura a forma di lingua di cui sono noti vari esemplari in argento e oro 116, La decorazione a cerchi concentrici è tuttavia profondamente diversa; essa trova comunque numerosi confronti in oggetti databili fra VI e VII secolo, ed è presente in Abruzzo sulla cathedra e sulle cassettine lignee di Crecchio 117, nonché sul succitato pettine di Rosciano; compare inoltre nell'apparato decorativo di un pettine rinvenuto ad Acqualagna (AN) ed in quello di una cassettina in avorio conservata presso il Museo di Cividale l18. 5.2.18 CORFINIO (AQ) - CATTEDRALE DI VALVA Simile a quello del pettine di Rosciano appare il quadro di riferimento anche per un altro reperto simile, rinvenuto in una delle quattro tombe che erano andate a collocarsi presso preesistenti strutture antiche collocate ai margini della città romana di Corfinium (Fig. 1, n. 28; Fig. 2, n. 18). Trattasi di sepolture interamente realizzate con materiale romano di spoglio (frammenti architettonici, tegole), a cappuccina in un caso ed a cassone, probabilmente riferibili ad un periodo compreso fra tardo VI e VII secolo. L'area venne poi interessata in epoca successiva dall'inserimento di altre sepolture interamente realizzate a cassone con lastre di calcare, e dalla costruzione dell'Oratorio di S. Alessandro, connesso alla cattedrale Valvense (Corfinio, AQ), i cui lavori vennero a sconvolgere l'intera area del sepolcreto l19. Del pettine rinvenuto nella tomba 1 restano solo frammenti della presa e di parte della lamella all'attacco dei denti, probabilmente a seguito della manomissione della sepoltura di pertinenza nel corso dei lavori succedutisi sul sito in età medievale. 5.2.19 PESCOCOSTANZO (AQ) - EOC. COLLE RIINA
Fra 1995 e 1996 sono stati scavati in questa località i resti del più interessante sepolcreto di fine VI-inizi VII secolo sinora individuato, sebbene la maggior parte delle tombe sinora scavate si siano presentate sconvolte da scavi clandestini. Nell'ottobre 1995 sono state anzitutto rinvenute due sepolture a cassone, costituite da tegole probabilmente di reimpiego, e subito recuperate da personale locale (Fig. 2, n. 19). Nel giugno 1996, grazie all'impegno dell'Amministrazione Comunale di Pescocostanzo, è stato possibile ampliare le indagini all'area circostante rinvenendo altre 13 inumazioni. A causa della lunga permanenza nel terreno e dell'azione distruttiva dei clandestini la maggior parte degli elementi di corredo rinvenuti si presentano in condizioni di grave degrado e frammentarietà, per cui le opere di restauro si presentano particolarmente impegnative e sono in corso, non essendo pertanto possibile trattarne esaurientemente in questa sede in assenza di quella necessaria leggibilità degli oggetti che ne consenta un approfondito esame ed i relativi studi. In considerazione dell'interesse del rinvenimento si è tuttavia ritenuto opportuno inserire in questa sede una prima relazione preliminare, direttamente derivante dalla prima documentazione di scavo 120. Le indagini hanno in questa prima fase interessato un'area di 30 m per 25 m sulla cima del Colle Riina, altura ubicata lungo la strada che da Pescocostanzo conduce al Bosco di S. Antonio. Sono state complessivamente messe in luce 15 sepoltura, 12 delle quali purtroppo già manomesse da scavi clandestini, tutte scavate direttamente nel banco di ghiaie sterili e concentrate lungo la porzione sommitale e pianeggiante del colle. Da indagini condotte nelle aree immediatamente circostanti si è potuta accertare l'assenza di inumazioni ai lati dell'area sommitale, laddove il colle presenta una pendenza naturale. Le tombe sinora scavate si concentrano in tre gruppi: I nucleo: tombe 1, 2, 3, 4, orientamento NO-SE; II nucleo: tombe 5, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 14, 15, orientamento NO-SE; III nucleo: tombe 6, 13, orientamento NE-SO. Si presenta di seguito una breve descrizione delle inumazioni: - Tomba 1 (recupero ottobre 1995) Tomba probabilmente a cassone, con spallette realizzate con pietroni, piano di tegole parte intere parte fratte, copertura di tegole. Corredo: vaso in ceramica da fuoco con decorazione a rotellatura; staffa in ferro; altro piccolo frammento di ferro forse ad essa riferibile; quattro anelli in bronzo di cui uno con chiodo di ferro attaccato; due piccole applique in bronzo con chiodino in ferro; orlo di olla in ceramica da fuoco. - Tomba 2 (recupero ottobre 1995) Tomba probabilmente a semplice fossa terragna antropomorfa. Corredo: collana in pasta vitrea con 9 vaghi neri a due fori, 2 vaghi neri ad un foro, 86 vaghi celesti più piccoli, 2 vaghi celesti più grandi di forma cilindrica, 9 vaghi plccoh glalli; armllla m bronzo a capi aperti e sezione circolare; anellino in bronzo; armilla a sezione schiacciata in bronzo con decorazione a zig-zag, frantumata in 6 frammenti; 13 frammenti di vaso in ceramica comune; anellino in argento; anellino in argento con castone piuttosto rovinato; vago cilindrico in terracotta (forse relativo alla collana di cui sopra); vasetto in ceramica comune; 24 frammenti di due vasetti in ceramica comune; 2 frammenti di armilla in bronzo a sezione schiacciata con decorazione a linee parallele ai bordi; 1 frammento di altra armilla. I vaghi di collana a due fori trovano puntuale confronto con un grano di analoga materia conservato presso il Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno, e datato nella prima metà del VII secolo 121. Sulla base della presenza degli altri grani di pasta vitrea sembra possibile ricostruire un tipo di collana a due fili colleganti fra loro i grani allungati (Fig. 19). - Tomba 3 Probabile inumazione collocata fra le tombe 1-2, devastata dai clandestini; sono state infatti recuperate ossa frammentarie e sconvolte, nonché frammenti di un vaso in ceramlca comune. - Tomba 4 Tomba sconvolta da scavi clandestini ormai da tempo; è del tipo a cassone murato, con spallette realizzate in pietre di dimensioni diverse e piano in tegole; presenta orientamento NO-SE.
Corredo: trafugato; sono stati recuperati solo 4 frammenti di vaso in ceramica da fuoco ed un frammento di ferro non definibile. - Tomba 5 Inumazione completamente sconvolta di cui rimane leggibile solo la fossa nel banco di ghiaie, con orientamento NO-SE. Corredo: trafugato; all'interno della fossa sono stati recuperati solo 10 frammenti di scodella in sigillata africana D, tipo Hayes 103A, ed un frammento forse di lama o spatola in ferro. - Tomba 6 Inumazione completamente sconvolta, di cui resta solo la fossa nel banco di ghiaie, orientamento NO-SE. - Tomba 7 Inumazione completamente sconvolta, della cui giacitura sono stati recuperati solo alcuni frammenti ossei; orientamento NO-SE. - Tomba S Inumazione completamente sconvolta, orientamento NO-SE; recuperati 14 frammenti di un vaso in ceramica comune, nonché 14 frammenti di un cranio, che potrebbero tuttavia essere relativi anche all'adiacente tomba 9, anch'essa sconvolta. - Tomba 9 Inumazione depredata dai clandestini e tuttavia ancora leggibile; trattasi di una cappuccina con copertura parzialmente superstite; dell'inumato si conservano i femori, tibia e perone, mentre sono state asportate le parti alte dello scheletro presso cui erano probabilmente collocati gli elementi di corredo; orientamento NO-SE, cranio a N. Corredo: trafugato; sono stati rinvenuti 46 chiodini, probabilmente riferibili a calzari. - Tomba 10 Inumazione depredata dai clandestini e tuttavia ancora leggibile; restava visibile la fossa terragna, che doveva essere probabilmente coperta a cappuccina; lo scheletro era in connesione anatomica, privo però dei piedi, delle mani, di parte delle tibie, omero ed ulna; orientamento NO-SE; A sinistra degli arti inferiori è stata distinta una lente di cenere e carbone (spessore 5/ 10 cm), frammista a laterizi sfranti e frammenti di ossa combuste; si tratta probabilmente di quanto resta di un fuoco rituale, attestato anche altrove in Italia centro-settentrionale. Corredo: trafugato; si sono recuperati 10 frammenti di un vaso in ceramica comune. - Tomba 11 Inumazione depredata dai clandestini, probabilmente a fossa terragna, con margini rivestiti da pietre; lo scheletro era in connessione anatomica, privo però delle ossa dei piedi, con colonna vertebrale e costole alquanto deteriorate, e cranio lacunoso; orientamento NO-SE. Corredo: trafugato; si sono recuperati 17 frammenti di un vaso in ceramica comune. - Tomba 12 Inumazione del tutto sconvolta; si sono recuperate poche ossa frammentarie. - Tomba 13 Inumazione depredata da clandestini, a fossa terragna con margini rivestiti di pietre e plano di deposizione in tegoloni, orientamento SO-NE; scheletro rinvenuto privo di connessione anatomica, ed in buona parte in giacitura secondaria, ove rigettato dagli scavi. Corredo: frammenti di vaso in ceramica comune; elemento allungato in ferro; chiodo di ferro; 3 frammenti di scodella di imitazione della sigillata africana, variante fra pi Hayes 81 e Atlante 48,4; frammento di vaso in ceramica comune; frammento di olla in ceramica da fuoco; balsamario con corpo campaniforme, lungo collo, ed orlo estroflesso in vetro di colore celeste; 2 frammenti di altro balsamario in vetro; 21 frammenti di vaso in ceramica comune; 3 vaghi in pasta vitrea rossa; 3 frammenti del fondo di scodella imitazione di sigillate africane; frammento di asta in osso lavorato; frammento di conchiglia; 2 frammenti non meglio definibili di bronzo, probabilmente quanto resta di un oggetto trafugato; anello in bronzo.
Alcune delle ossa, in particolare la parte anteriore delle costole e le ossa del braccio poco sopra il polso, presentano chiare tracce di colore verdastro, testimonianza della presenza di altri oggetti in bronzo purtroppo trafugati. - Tomba 14 Inumazione a cappuccina, con orientamento SO-NE, rinvenuta quasi intatta; la copertura Sl presenta ben conservata, con qualche cedimento sul lato orientale, lo scheletro era tuttavia privo di connessione anatomica e frammentario, forse a motivo delle infiltrazioni d'acqua e delle gallerie scavate dagli animali. Corredo: balsamario in vetro simile a quello della tomba 13; moneta bronzea in cattivo stato di conservazione; lucerna. - Tomba 15 Inumazione sconvolta, con ossa sparse nel terreno. Corredo: trafugato; nel terreno circostante sono stati recuperati un frammento di ansa di vaso in ceramica comune depurata, ed un frammento di parete di vaso in ceramlca dlpinta. Nonostante il saccheggio dei corredi sistematicamente operato dai clandestini e le condizioni di grave danneggiamento della maggior parte delle inumazioni si rende possibile qualche prima prudente valutazione preliminare, in attesa del completamento delle opere di restauro degli oggetti rinvenuti e del loro puntuale inquadramento storico-archeologico. Trattasi di sepolture a cassone (tt. 1, 4), a cappuccina (tt. 9, 14), o più sovente a semplice fossa terragna (tt. 2, 10, 11, 13), i cui corredi sono stati purtroppo sistematicamente saccheggiati. Solo tre sepolture sono state infatti rinvenute intatte (tt. 1, 2, 14), e tuttavia solo tre sono le inumazioni a non aver restituito almeno qualche resto di corredo scampato al depredamento (tt. 6, 7, 12). Quasi tutte le inumazioni dovevano essere dotate di elementi di corredo, fra cui appare sistematica la presenza di oggetti di ceramica (tt. 1, 2, 3, 4, 5, 8, 10, 11, 13, 15), e fra essi particolarmente significativa anche dal punto di vista cronologico l'attestazione di due scodelle in sigillata africana ed imitazione tipi Hayes 103 A e Hayes 81/Atlante 48,4, che consentono un puntuale inquadramento cronologico del sepolcreto verso la fine del VI. La lacunosità dei corredi rinvenuti rende difficile una loro intepretazione complessiva, anche se non appare dubbia la persistenza di elementi di "corredo rituale", legata alla quasi sistematica presenza di reperti in ceramica, e tuttavia appare individuabile la progressiva affermazione di un carattere "personale" di alcuni corredi, con elementi probabilmente legati sia all'abbigliamento, che all'ornamento e all'uso dei singoli inumati. Due sepolture probabilmente riconoscibili come femminili (tt. 2, 13) presentano un corredo particolarmente ricco, costituito da ben 12 e 13 reperti, pur essendo stata l'ultima delle due inumazioni saccheggiata dai clandestini. Oltre all'esistenza di varie armille in bronzo dorato a sezione lenticola re simili a tipi attestati sia in contesti tardoantichi autoctoni che in contesti funerari germanici, deve qui segnalarsi la presenza di collane in vaghi di pasta vitrea, simili ad esemplari rinvenuti nell'ambito delle necropoli di Castel Trosino e Nocera Umbra. Sono anche attestati alcuni anelli in argento o bronzo (tt. 1, 2, 13), e due balsamari in vetro (tt. 13, 14). Fra gli elementi di corredo rinvenuti mancano le armi; deve tuttavia notarsi la notizia raccolta in loco relativa al rinvenimento da parte dei clandestini che hanno saccheggiato la necropoli di due spade e di quello che sembrerebbe riconoscibile come l'umbone di uno scudo. Interessanti anche gli elementi che sembrano emergere in merito al rituale funerario utilizzato nell'ambito del gruppo a cui sono relative le inumazioni. Appare infatti attestata la presenza di un caso di "fuoco rituale" probabilmente acceso a lato della sepoltura al momento dell'inumazione (tomba 10), mentre è forse documentata in almeno in caso la presenza di un feretro ligneo (tomba 14). Gli elementi di corredo rinvenuti, sin da un primo preliminare inquadramento in parte correlabili ad un vasto patrimonio di consuetudini tardoantiche ben diffuse nel mondo mediterraneo, sembrano
segnalare, più che la relativa etnia, una posizione sociale preminente del gruppo a cui gli inumati appartenevano. Non appare in proposito dubbio che in quest’epoca così tarda fosse ben difficile che a rivestire tale ruolo in un territorio ormai conquistato dai duchi longobardi di Benevento fossero rimasti gruppi di etnia locale. La segnalazione della possibile presenza di armi in alcune delle tombe ed un quadro culturale nel suo complesso "romanzo" simile a quello attestato a Castel Trosino, sono pertanto elementi che possono suggerire un almeno parziale pertinenza longobarda del piccolo sepolcreto, da verificare tuttavia sulla base dello studio sistematico dei reperti attualmente in corso di restauro e di ulteriori indagini in situ. 5.2.20 ORTONA (CH) - LOC. S. MARCO Pur essendo Ortona stata a lungo la capitale bizantina d'Abruzzo nel suo territorio sono state rinvenuti in passato reperti che sembrano suggerire punti di contatto con l'ampio ambito culturale sin qui delineato. Già nel 1882 era stato rinvenuta lungo il margine orientale della città non lungi da Palazzo Farnese una necropoli costituita da tombe a cassone con sepolture sovrapposte, fra i cui materiali di corredo erano segnalati “un anellone o di rame o di ferro ... fibule circolari con un solo ardiglione”, con ogni evidenza riconoscibili come fibule ad anello, “e fibule ovali e rettangolari con due ardiglioni” 122. L'attribuzione del sepolcreto ad un periodo compreso fra la fine del VI ed il VII secolo potrebbe essere corroborata dal rinvenimento, avvenuto in loc. S. Donato presso i resti della chiesa altomedievale e medievale di S. Marco, di due analoghe fibule ad anello 123. La prima presenta anello aperto a sezione piana, con protomi a forma d'animale, e decorazione a cerchielli incisi sulla faccia superiore (Fig. 20) 124. La seconda è particolarmente semplice, si presentava priva di ardiglione e con estremità volte indietro a definire un cerchio (Fig. 21) 125. Pur essendo stati apparentemente rinvenuti in giacitura secondaria i due oggetti sembrano con ogni evidenza riferibili al corredo di sepolture esistenti nei pressi della chiesa. 5.2.21 LANCIANO (CH) - LARGO S. GIOVANNI Nel corso degli scavi qui condotti nel 1992 nell'ambito dei resti del municipium romano diAnxanum (Fig. 1, n. 82, Fig. 2, n. 21) sono stati messi in luce i resti di un vasto edificio antico risalente alla tarda età repubblicana ed occupato sino agli inizi dell'altomedioevo, come si evidenza per la presenza di ceramica tipo Crecchio ed altri materiali di analoga cronologia negli ultimi livelli di vita sinora esplorati 126. Al suo interno sono stati inoltre messi in luce i resti quasi completamente sconvolti da scavi moderni di due sepolture 127, riferibili ad un momento in cui il complesso stesso doveva essere stato in parte abbandonato, ma il popolamento andava comunque conservandosi nelle aree limitrofe. Le due sepolture appaiono riconoscibili, per quanto se ne è potuto ricostruire sulla base degli elementi superstiti, I'una come inumazione a cassone con fondo di tegole reimpiegate, I'altra come semplice fossa terragna. Sparsi nel terreno circostante erano i resti di tre elementi di corredo con ogni evidenza provenienti dalla sepolture, ma non precisamente attribuibili. Trattasi anzitutto dei frammenti di una brocchetta in ceramica tipo Crecchio 123, che sembrerebbe attribuire una delle due sepolture alle ultime fasi di occupazione bizantina della città. Erano poi presenti i resti molto degradati di un'armilla in bronzo dorato ad anello chiuso e sezione lenticolare 329, ed un vago in osso lavorato di forma conica (Fig. 22), che presentava la caratteristica decorazione del primo altomedioevo a cerchi concentrici 130, ed aveva due fori, I'uno originario in asse al cono, I'altro ortogonale al cono stesso e relativo ad un rimaneggiamento dell'oggetto e ad un suo riuso come pendente.
La presenza di questi elementi di corredo sembrerebbe riferire la seconda sepoltura ad un ambito culturale in qualche modo diverso e successivo rispetto alla precedente, ed una cronologia alquanto più tarda appare plausibile anche in considerazione del rimaneggiamento del vago d'osso, che sembrerebbe suggerire un periodo d'uso di una certa estensione. Di particolare interesse a tal proposito si presenta la tradizione che sul sito del vicino Palazzo Vergili fossero state a suo tempo le strutture del c.d. Castello Longobardo, probabile sede del potere civile in età altomedievale: il palazzo stesso riprende gli orientamenti e riutilizza a livello fondale alcune strutture del precedente complesso antico per cui sembrano ipotizzabili forme di continuità fra di esso, le successive strutture d'età altomedievale e medievale ivi esistenti ed il settecentesco Palazzo. In considerazione dell'ubicazione strategica del sito a controllo della sella che permetteva l'accesso al colle di Lanciano Vecchia, sede del municipium romano e del successivo abitato altomedievale si è pertanto ipotizzata l'esistenza in loco di resti di strutture difensive sia d'età tardoantica e bizantina (secc. VI-VII) che longobarda 131. Che l'intera zona orbitante sull'attuale largo S. Giovanni fosse stata interessata fra fine VI e VII secolo dall'insediamento di sepolture appare infine confermato dal rinvenimento di un'altra inumazione in semplice fossa terragna, priva di corredo, ubicata all'interno del piano terra dell'edificio di via dei Frentani che prospetta sul largo, ad una quota simile a quella delle due sepolture succitate. 5.2.22 CUPELLO (CH) - LOC. AZIENDA D AVALOS In località Montalfano-Azienda D'Avalos di Cupello, nell'immediato entroterra dell'anticaHistonium (Vasto) sono state scavate nel 1992 due semplici sepolture terragne, orientate Est-Ovest e situate nei pressi di una grande villa romana occupata sino alla tardissima antichità (Fig. 1, n. 95; Fig. 2, n. 22) 132. Unico elemento di corredo di una delle due inumazioni era una semplice fibula ad anello aperto con estremità volte indietro a formare due cerchi e decorazione a zig zag (Fig. 23), molto vicina ad altri quattro esemplari da Penne, Loreto Aprutino ed Ortona in precedenza presentati (vedi Figg. 5, 1011, 21) '33, e soprattutto simile a due esemplari analoghi da sepolture dei sepolcreti di Casalpiano di Morrone del Sannio 134 e Vastogirardi 135, nel vicino Molise. 5.2.23 MONTENERODOMO (CH) - LOC. S. MARIA DI PALAZZO (IWANUM) È infine da menzionare un rinvenimento avvenuto nel corso degli scavi che l'Università di Chieti va da tempo conducendo sul sito della città antica di Inuanum (Fig. 1, n. 111; Fig. 2, n. 23), sinora inedito e presentato solo in maniera preliminare 136 È stata qui scavata la sepoltura di una bambina, ricavata all'interno di strati di crollo apparentemente connessi con il sisma del 346, e dunque ad esso con ogni evidenza successiva; “nei pressi” dell'inumazione - non è chiaro se in connessione o meno con essa - sarebbero stati rinvenuti un orecchino d'argento, alcuni vaghi di pasta vitrea, ed una borchia con motivi decorativi vegetali, forse riferibile ad una cassettina che poteva aver contenuto gli elementi succitati. L'orecchino è del tipo a cestello in argento e sembrerebbe trovare confronti con reperti analoghi in oro di sicura pertinenza longobarda 137, attribuibili ad una cronologia fra la fine del VI e gli inizi del VII secolo 138. 5.2.24 S. BUONO (CH) - Loc. GUARDIOLA-CASTELLARO Presso resti di abitato d'età altomedievale in loc. Guardiola-Castellaro di S. Buono (Fig. 2, n. 24) è infine attestato un ultimo rinvenimento che viene solo segnalato in questa sede in quanto ancora in corso di studio 139. Trattasi di una fibula ad anello simile all'esemplare da Cupello in precedenza presentato, in bronzo con anello aperto, proveniente da una sepoltura a fossa rettangolare rivestita da lastroni di pietra.
5.3 Tipologia delle sepolture Le sepolture presentate in questa sede, sia pur non numerosissime, permettono alcune prime considerazioni preliminari sugli usi e le tipologie funerarie diffuse in Abruzzo al momento dell'invasione longobarda, fra la seconda metà del VI ed il VII secolo. Appare anzitutto largamente diffuso il riutilizzo di materiali antichi di spoglio, provenienti dal crollo o dalla demolizione di edifici antichi in un momento che vede il progressivo degradarsi dei centri urbani ed il loro ritorno a forme insediative povere di antichissima origine (capanne, case in legno, etc.), e l'abbandono di tante ville ed altri complessi rustici nelle campagne. Le sepolture presentate in questa sede sono tipologicamente riferibili a tre grandi gruppi: A) Inumazioni in semplice fossa terragna: - S. Egidio alla Vibrata, loc. Fonte Trocco-Colle Chiovetti; - probabilmente Civitella del Tronto; - Martinsicuro, tomba 4 (scavi 1993); tomba 6 - Us 223 (scavi 1993); - Corropoli, Badia di S. Maria di Mejulano 140; - Loreto Aprutino, loc. Colle Fiorano; - Rosciano, loc. Villa Oliveti-S. Lorenzo; - Pescocostanzo, loc. Colle Riina; - Lanciano, largo S. Giovanni; - Cupello, loc. Montalfano-Azienda d'Avalos; A S. Egidio e Corropoli le fosse erano chiuse con coperture di lastre 14'. B) Cappuccine - Martinsicuro, tomba 3 - Us 167; tomba 8 - Us 263 (scavi 1993); Us 405 (scavi 1995); Us 406 (scavi 1995); - Teramo, area archeologica di S. Anna; - Notaresco, loc. S. Lucia; - Corfinio, Cattedrale Valvense; In alcuni casi le sepolture sono ancora di buona fattura, con laterizi interi o quasi interi (Martinsicuro, tomba 8; Teramo-S. Anna), mentre in altri casi i laterizi utilizzati sono frammentari e posti in opera in maniera molto irregolare (Martinsicuro, Us. 167, 405, 406; Notaresco; Teramo-S. Anna). C/1) Sepolture a cassone - Martinsicuro, tomba 2 - Us 159 (scavi 1993); tomba 7 - Us 245; - Teramo, area archeologica di S. Anna; - Penne, viale Ringa; - Penne, E'iazza del Duomo; - Loreto Aprutino, loc. Colle Fiorano; - Rosciano, loc. Villa Oliveti-Taverna Nuova; - Pescocostanzo, loc. Colle Riina; - Lanciano, largo S. Giovanni (?); - S. Buono, loc. Guardiola-Castellaro. In alcuni casi i margini del cassone sono realizzati con tegole intere o quasi intere poste di taglio in verticale ed analoga chiusura di tegole alla testa e ai piedi (Loreto, loc. Colle Fiorano; Penne, viale Ringa; Penne, piazza Duomo, Pescocostanzo, loc. Colle Riina), mentre in altri casi sono in muratura o vittata (Rosciano, loc. Villa Oliveti-Taverna Nuova) o laterizia (Teramo-S. Anna; Penne-piazza Duomo), a definire il tipo anche detto della “fossa con pareti murate” 142; in un caso le spallette del cassone sono realizzate con lastroni di pietra (S. Buono). C/2) Sepolture a cassone con riuso di frammenti architettonici - Colonnella, loc. Poggio Civita (con spallette in rozza opera laterizia); - S. Omero, loc. S. Maria a Vico; - Corfinio, Cattedrale Valvense; La presenza di materiali antichi di spoglio riutilizzati nelle strutture delle inumazioni sembra con ogni evidenza limitare la cronologia delle sepolture dei gruppi B-C al VI-VIII secolo, epoca in cui erano ancora agevolmente disponibili relitti da tante murature antiche ormai crollate o demolite 143. Dati di confronto interessanti a conferma di un siffatto inquadramento provengono dall'analisi di due sepolcreti riferibili al pieno altomedioevo, scavati in località Paterno di Loreto Aprutino e presso la Cattedrale Valvense di Corfinio. A Paterno le sepolture, addensate in un piccolo spazio probabilmente adiacente ad un luogo di culto altomedievale, sono tutte prive di corredo e si presentano probabilmente databili fra tardo VIII e X
secolo a motivo della presenza di reperti ceramici di quella cronologia nei piani di frequentazione ad esse correlabili 144. Trattasi di inumazioni in cui il reimpiego di materiali antichi (tegole, laterizi, etc.) appare ormai inesistente; sono realizzate a semplice fossa terragna, in due casi acconciata a rozzo cassone mediante la foderatura dei margini lunghi con grosse pietre calcaree, e sono in tali casi coperte con accumulo di pietre 145. La situazione appare simile anche nell'ambito del sepolcreto indagato all'interno dell'Oratorio di S. Alessandro presso la Cattedrale Valvense: ad una prima fase di sepolture a cassone e cappuccina interamente realizzate con materiali antichi di spoglio (tombe 1, 2, 6, 9, fine VI-VII secolo) seguono inumazioni a cassone interamente realizzate con lastre di calcaree, probabilmente di primo impiego, attribuite dagli scavatori all'altomedioevo 146. 5.4 Considerazioni generali Nel suo complesso dunque la documentazione archeologica disponibile, sia pur con gli evidenziati problemi di attribuzione etnica, sembra concentrarsi in una ambito cronologico compreso non casualmente fra la fine del VI ed il VII secolo. Gli elementi di corredo presenti, fra cui sono particolarmente diffuse le fibule ad anello (Penne, Loreto Aprutino, Brittoli, Ortona, Cupello, S. Buono, probabilmente Teramo), ma sono attestate anche semplici fibbie con ardiglione (Martinsicuro, Penne), pettini in osso lavorato con tipica decorazione a cerchi concentrici e linee parallele (Rosciano, Corfinio), spilloni in argento (Notaresco, Rosciano), armille in bronzo (Martinsicuro, Lanciano, Pescoc`òstanzo), orecchini a globetti in argento (Notaresco) e a poliedro sempre in argento (Rosciano), non risultano sempre attribuibili con certezza ad un preciso ambito etnico, ma sono più sovente riferibili ad un vasto patrimonio di usi e costumi tardoantichi 147, anche se non mancano tuttavia elementi che possono essere attribuiti con maggiore sicurezza ad inumati di stirpe germanica. Oltre alla possibile contemporanea presenza di inumati di discendenza sia autoctona che germanica, specie nell'ambito di necropoli ubicate in aree già occupate dai Longobardi (es. Notaresco, Pescocostanzo) 148, Vi sono indizi che fanno ritenere che qui come altrove in quest'epoca “gli stessi romani avessero accolto tratti culturali dei conquistatori”, elemento che rappresentava la più consistente testimonianza dei drammatici accadimenti che erano in corso ]49. Che il panorama culturale sin qui delineato sulla base dei corredi funerari presi in esame risulti con evidenza riferibile a popolazioni locali autoctone già entrate in contatto e forse ormai collegatesi con gruppi di longobardi che andavano stanziandosi nella regione appare evidente anche dal confronto con un gruppo ormai cospicuo di sepolture diffuse lungo la costa e nelle aree che erano rimaste più a lungo sotto controllo bizantino, inumazioni che attestano usi funerari ben differenti. Trattasi infatti di semplici sepolture terragne caratterizzate dalla presenza di un corredo costituito da uno o due vasi della caratteristica ceramica bizantina c.d. tipo Crecchio (Fig. 25) 150: 25) Moscufo (PE), loc. imprecisata, fiasca monoansata 151; 26) Penne (PE), loc. imprecisata, brocca monoansata 152; 27) Castelvecchio Subequo (AQ), catacomba di S. Agata, brocca monoansata e brocchetta monoansata 153; 28) Giuliano Teatino (CH), loc. imprecisata, due brocchette monoansate 154. 29) Crecchio (CH), loc. S. Polo, brocchetta monoansata 155; 30) Frisa (CH), fraz. Guastameroli, anforetta biansata e brocca monoansata 156; 31) S. Vito Chietino (CH), loc. Murata Bassa, brocchetta monoansata 157; 32) Lanciano (CH), loc. imprecisata, anforetta biansata 158; 33) Vasto (CH), loc. Tratturo, brocchetta monoansata ed anforetta biansata 059;
A questi sepolcreti abruzzesi risulta assimilabile anche la piccola necropoli scavata in loc. Casalpiano di Morrone del Sannio, lungo la vallata molisana del Biferno, da cui proviene un'analoga olletta monoansata 160. Pur essendo la maggior parte degli oggetti provenienti da rinvenimenti fortuiti i dati disponibili sui contesti di S. Polo e S. Vito Chietino consentono di correlare gli oggetti stessi a sepolture che dovevano essere per lo più del tipo a cassone, con largo riuso di laterizi antichi 161. Le inumazioni risultano tutte ubicate: - o nella Val Pescara rimasta in parte bizantina sino a primi decenni del VII secolo (Fig. 25, nn. 25-26: Moscufo, Penne) 162; - o lungo quegli itinerari che collegavano negli ultimi decenni del VI secolo i territori bizantini dell'Adriatico e del Tirreno (Fig. 25, n. 27: Castelvecchio Subequo; Morrone del Sannio) 163; - o infine lungo la costa chietina, rimasta bizantina sin verso la metà del VII secolo (Fig. 25, nn. 28-33: Giuliano Teatino, Crecchio, Frisa, S. Vito Chietino, Lanciano, Vasto), con una particolare e significativa concentrazione nell'immediato entroterra di Ortona (Fig. 25, nn. 28-32), vera capitale dall'Abruzzo Bizantino 164; Essendo in esse inoltre ben evidente l'assoluta assenza di quegli elementi di corredo che sono stati descritti nell'ambito dei sepolcreti analizzati in precedenza (nn. 1-24) appare evidente che le inumazioni caratterizzate da ceramica tipo Crecchio dovevano essere relative a gruppi di individui attivi nell'ambito delle aree rimaste sotto controllo bizantino, forse militari afferenti a milizie mobili di difesa e relative famiglie 165 A conferma dell'esistenza di precise differenze culturali e forse finanche etniche leggibili nel divario fra i tipi di corredo delle due categorie di sepolcreti sin qui analizzati può proporsi l'esame di un piccolo gruppo di fibule e fibbie rinvenute presso il sito bizantino di Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio. Le differenze con il panorama di fibbie e fibule in precedenza analizzato appaiono infatti evidenti (Fig. 24): trattasi anzitutto di un anello frammentario di fibbia in bronzo (Fig. 24, 1) che trova confronti in materiali attribuiti al primo altomedioevo, in particolare le fibbie c.d. “Bizantine” 166; poi di due fibbie in bronzo con decorazione a tacche (Fig. 24, 2-3), una delle quali priva di ardiglione ed ambedue della connessa piastra quandrangolare 167 confrontabili con oggetti abbastanza simili in bronzo, argento e ferro da sepolture femminili delle necropoli di Rutigliano 169, S. Giovanni di Cividale e Trento-piazza Duomo 170; ed infine di una fibuletta in bronzo raffigurante una colomba o un pavone (Fig. 24, 4), che trova confronti in un'ampia classe di fibule zoomorfe diffuse nel mondo tardoantico 171 anche nell'ambito dei corredi di necropoli di pertinenza longobarda 172 risultando al contrario sinora presente in Abruzzo solo a Crecchio. Significativamente confrontabili con altri reperti di area mediterranea e bizantina appaiono nel loro complesso anche i materiali dalle inumazioni della catacomba di Castelvecchio Subequo 173, fra cui si è segnalata la presenza di ceramica tipo Crecchio mentre vi sono al contrario del tutto assenti quegli elementi di corredo che caratterizzano i corredi di tradizione locale/germanica presentati in questa sede (sepolcreti nn. 1-24). Verrebbe da chiedersi se la cessazione delle inumazioni all'interno della catacomba non fosse stata causata proprio dagli sconvolgimenti connessi alla conquista longobarda, con il connesso venir meno di ogni presenza bizantina lungo i tracciati della via Claudia-Valeria e della c.d. Via degli Abruzzi, ancora in qualche modo presidiati sin verso il 595 al fine di conservare un collegamento fra i territori bizantini del medio adriatico e quelli dell'area laziale campana 174. 6. Il contributo della toponomastica e delle fonti documentarie altomedievali (secc.IX-X) 6.1 Gualdi pubblici e stanziamenti militari
Stefano Gasparri in un suo recente contributo ha invitato ad utilizzare con particolare prudenza le fonti toponomastiche in ogni tentativo di ricostruzione complessiva dei tempi e delle forme della conquista longobarda e del successivo stanziamento 175, limitando ad “una puntuale convergenza di dati diversi, archeologici o archivistici” la possibilità di riferire i toponimi di apparente origine longobarda presenti sul territorio a tali più antiche fasi storiche 176. In merito al possibile stanziamento in punti strategici del territorio di gruppi di liberi longobardi lo stesso Gasparri ha inoltre ammesso che “non vi è dubbio che molti di questi gruppi di liberi (non necessariamente detti arimanni) affondassero le loro radici in età longobarda”, e che “nella documentazione d'archivio dell'Italia longobarda o immediatamente postlongobarda esistono effettivamente numerose attestazioni di terre incolte (mons o silva arimannorum, gualdus exercitalis, silva hominum reatinorum), date in godimento collettivo a comunità di uomini liberi nell'Italia del nord e del centro” 177 Quel che appare evidente nell'esame delle fonti documentarie e della relativa documentazione toponomastica alla luce di tali due punti fermi è la quasi sistematica presenza di gualdi per lo più attestati già nella documentazione altomedievale in quei punti strategici del territorio abruzzese che erano stati caratterizzati da forme di presidio bizantino testimoniate dalle fonti o dai dati archeologici, il che non sembra affatto casuale e potrebbe correlarsi ad una rioccupazione sistematica da parte dei Longobardi di quelli che erano stati i capisaldi della presenza bizantina nel territorio. Fra essi ricordiamo: - anzitutto il Gaium direttamente dipendente aai duchi di Benevento ed ubicato nelle immediate adiacenze del castrum bizantino di Re~nia-Rabone presso Histonium (Vasto: Fig. 1, n. 93), documentato già nel 747 quando viene donato con l'ivi esistente monastero di S. Stefano a S. Sofia di Benevento 178; alla frequentazione da parte di liberi longobardi dell'antico anfiteatro della vicina città di Histonium per la partecipazione alle assemblee giudiziarie può inoltre legarsi l'origine del significativo toponimo Parlascio, passato a definire l'antico monumento già prima degli inizi del IX secolo, ed attestato nel toponimo della chiesa di S. Pietro in Verolaso, citata in una donazione di Ludovico il Pio dell'829, in altri documenti del CI7ronicon Farfense dell'840 e 981 179, e poi attestata sino al 1204 con le varianti “Parlasi” o “Parlari” 180; - il Gualdum che viene addirittura a dare il suo nome all'abitato in precedenza occupato dai Bizantini in località Murata Bassa di S. Vito Chietino presso cui è stata scavata la succitata sepoltura con corredo di ceramica tipo Crecchio (vedi supra n. 31), e che presenta anche fasi di vita d'età altomedievale come Portus Gualdi (Fig. 1, n. 83) 181; - il Gualdum menzionato dalle fonti nelle adiacenze della capitale bizantina d'Abruzzo Ortona 182; - i toponimi in via di prudente ipotesi connessi alla possibile presenza di Arimannie, di Valle Romana presso Fara Filiorum Petri e Valle Romana presso Manoppello, superstiti proprio nell'area interessata dal singolare caso del pozzo-deposito tardoantico di S. Gennaro di Serramonacesca e da consistenti proprietà longobarde poi passate al monastero di S. Liberatore a Majella, citato nel 772 fra le dipendenze poste in finibus beneventanis del monastero di S. Salvatore a Brescia (Fig. 1, n. 70) 183; non appare in proposito casuale che in età altomedievale quest'area corrispondente al versante settentrionale della Majella fosse stata interessata da una classe di piccoli proprietari destinati a presidiare il confine settentrionale del ducato di Benevento 184; - infine il Gualdum de Gomano, ubicato presso resti d'approdo antico alla foce del Vomano (Fig. 1, n. 15) in un'area interessata da ben due sepolcreti di cui si è ipotizzata una almeno parziale pertinenza longobarda (vedi supra Notaresco, nn. 9-10); appare significativo che quest'ultima struttura facesse parte nel IX secolo di una estesa proprietà pubblica poi passata per donazione fra i beni della diocesi teramana, la Curtis de Montone i85, nella cui articolazione lungo la costa fra Tordino e Vomano presso l'antico municipio di Castrum Novum sembrerebbero ricostruibili forme di stanziamento longobardo e connessa acquisizione pubblica di terre successive all'occupazione verso la fine del VI secolo dell'ivi realizzato castrum bizantino di Kastron Nóbo 186. 6.2 Considerazioni sul precoce riassetto territoriale del Chietino (secc. VII-VIII)
Significativa appare anche la situazione del quadro toponomastico nell'interno del Chietino e sul versante pescarese della Majella, ove si sono conservati sino ad oggi o sono rintracciabili nelle fonti ben quindici toponimi derivanti da Fara (oltre a Guardiagrele), a fronte di soli 8 analoghi toponimi attestati nel resto dell'Abruzzo 187. Trattasi per lo più di abitati situati in posizione dominante a controllo delle alte valli dei fiumi che discendevano verso la costa adriatica 188, controllata dai Bizantini sin verso la metà del VII secolo 189, e fra essi sono localizzabili I seguenti: Fara de Laento probabilmente ubicabile sull'alto corso dell'Alento (Fig. 1, n. 67) 190; Fara Filiorum Petri (n. 99) 191 e Guardiagrele (n. 100) lungo il fiume Foro; Fara S. Martino sul torrente Verde (n. 101) 192; Fara in località Piano La Fara di Casoli lungo l'Aventino (n. 113); la Fara presso Archi (Fig. 1, n. 108) e la Fara ubicata presso consistenti resti di abitato antico in località Piazzano di Atessa (Fig. 1, n. 109), ambedue insediatesi in posizione strategica per il controllo del naturale e plurisecolare accesso all'interno rappresentato dalla Val di Sangro '93; Fara Filiorum Guarneri ubicabile nei pressi di Tornareccio all'imbocco della Valle dell'Osento (Fig. 1, n. 116) 194; Fara presso Gissi 195 a controllare la media Valle del Sinello (n. 117); Fara presso Celenza (n. 118) 196 e La Faretta in località Coccetta di Lentella (n. 119) 197. Un siffatto capillare quadro toponomastico non appare casuale se si considera che alla fortificazione bizantina della costa dettagliatamente ricostruita sulla base delle fonti e dei dati archeologici 198, doveva aver corrisposto dopo il 595 nell'interno la progressiva riorganizzazione del territorio ad opera dei Longobardi di Benevento, con la connessa evidente disarticolazione dei territori degli antichi centri di Cluviae, Iuuanum e Monte Pallano, tutti abbandonati alla fine dell'altomedioevo (vedi Fig. 1, nn. 112, 111, 115). Già al momento della conquista franca dell'801 l'area appare infatti interessata da abitati fortificati che ne presidiano i punti strategici: in quell'anno, quando la città di Chieti viene presa ed incendiata dai Franchi ed il suo prefetto Roselmo viene fatto prigioniero, si arrendono e vengono assoggettati anche i castelli di sua pertinenza 199; nella drammatica vicenda la città appare pertanto nella funzione di “centro politico-amministrativo di un territorio ove appaiono dislocati dei castella, cioè dei centri militarmente guarniti e fortificati dipendenti dalla civitas e dal suo Praefectus” 200 Ben distinta da tale sistema appare la città di Ortona, che è detta anch'essa civitas, “non segue la sorte dei castelli pertinenti a Chieti tanto da sembrare inserita in un autonomo circuito difensivo” 201, con ogni evidenza quello bizantino costiero attestato da Giorgio Ciprio e dai dati archeologici 202, ed è anzi “in grado di organizzare autonomamente le proprie difese e di resistere ancora per qualche tempo agli assalti degli avversari” 203 Il sistema di castra e castella dipendenti da Chieti al momento della conquista franca appare in parte ricostruibile sulla base di una preziosa fonte monastica di poco successiva, il Memoratorium realizzato dall'abbate Bertario di Montecassino intorno alla metà del IX secolo per conservare memoria degli estesi possedimenti dell'abbazia in quest'area 204 Fra essi sono menzionati il castellum Sancti Petri e il Castellum Sancti Angeli ambedue di difficile ubicazione, il Castrum quad dicitur Calcaria 205 probabilmente identificabile come Casacanditella (Fig. 1, n. 102), il Castrum de Casale forse riconoscibile come l'abitato di Casalincontrada (n. 103) 206, il Castellum de Ungo o Ugo come Pennapiedimonte (n. 104) 207, il Castellum de Prata come Prato di Civitella Messer Raimondo (n. 105), il Castellum Gessi come Gessopalena (n. 106), il Castellum de Civitella come Civitella Messer Raimondo (n. 107), ed il Castellum Vallis Sancti Martini come S. Martino in Valle (n. 101) 208; ques'ultima attestazione appare particolarmente significativa in quanto il toponimo si lega strettamente a quello dell'importante abbazia benedettina di S. Martino in Valle, e dunque il Castellum Vallis Saneti Martini appare riconoscibile come la più antica denominazione dell'abitato fortificato di Fara S. Martino in precedenza citato. Nel loro complesso i castra e castella menzionati nel Memoratorium sembrano dunque indicare il consolidamento di una zona d'abitato fortificato agevolmente difendibile che stravolge il preesistente
quadro insediativo antico, e risulta non casualmente ubicata fra la Majella e la valle del fiume Aventino da un lato 209, e la Vallata del Sangro dall'altro 210 Una siffatta situazione è talmente evidente che Alessandro Clementi, nell'analizzare il più vasto fenomeno dell'incastellamento ben più tardi attestato nel resto dell'Abruzzo (secc. X-XI), in proposito si interroga: “alla morte di Bertario (833), all'epoca della redazione del Memoratorium, la regione era in parte fortificata. Da chi? Perché?”; 211 ed un'attendibile soluzione potrebbe essere proprio riferire il fenomeno alla realizzazione da parte dei Longobardi di abitati fortificati e castelli posti nell'interno in risposta al consolidamento della presenza bizantina sulla costa, alcuni dei queli potrebbero essere riconosciuti proprio in quegli insediamenti di toponomastica germanica in precedenza elencati 212. Il definirsi di sia pur temporanee frontiere fra i due ambiti potrebbe trovar conferma in territorio di Ortona, rimasta bizantina quanto meno sino al 649 213 ma più probabilmente sin verso il 667 2l4, nella toponomastica del torrente Arielli che delimita il territorio della città verso l'interno, ed il cui toponimo vale da sinonimo di limes (piccolo agger, aggerellus) 215. Il corso d'acqua era infatti venuto probabilmente a definire il confine fra territori bizantini e longobardi in una fase (inizi VII sec.) che vedeva ancora un presidio bizantino presso la grande villa in loc. Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio (Fig. 1, n. 80), di lì a poco abbandonata in quanto non vi sono presenti le più tarde forme in sigillata africana Hayes 106 e 107 o comunque materiali che possano giungere alla metà del VII secolo 216, mentre sembra attestato un caso di intenzionale occultamento di beni all'interno della cisterna, probabilmente correlabile al repentino abbandono del sito da parte dei residenti e di chi lo presidiava 217. 6.3 Alcuni esempi di confronto fra situazione archeologica e dati toponomastici Significativo appare anche il caso dellialtro analogo abitato d'età imperiale e bizantina ubicato non lontano da Crecchio in località Orni di Canosa Sannita (n. 79), rimasto occupato anche nell'altomedioevo 218, tanto che fra le pertinenze dell'ivi esistente chiesa cassinese di S. Silvestro sono menzionate alla metà del IX secolo la Fara que dicitur Biana e la Fara Maionis 219, che dovevano situarsi nelle immediate adiacenze dell'abitato; le fonti cassinesi forniscono preziose notizie sul Maione proprietario di queste Fare, grande proprietario longobardo consanguineo del preposito di S. Liberatore a Majella Poterico, vissuto fra il tardo VIII e la metà del IX secolo, sulla sua provenienza, Maio de Piscaria 220, e sull'ampiezza della Fara che da lui aveva preso nome, ascendente a complessivi 5.800 moggi di terra 221, ben presto consolidatasi in una compatta curtis 222. Quel che sembrerebbe dedursi in proposito dai dati archeologici e documentari disponibili per Orni è che i Longobardi occupano un abitato che era stato controllato dai 13izantini sin nei primi decenni del VII secolo, a differenza di Crecchio-Vassarella invece di distruggerlo vi si stanziano, vi si consolidano tanto che l'abitato sopravviverà sino al XIV secolo, ed infine nel IX secolo i loro proprietari vanno collegandosi all'abbazia di Montecassino, a cui viene ceduto quello che era probabilmente stato il frutto della conquista due secoli prima. Anche altri dati archeologici sembrano suggerire che i gruppi longobardi che venivano insediandosi nell'intera regione andassero spesso a stanziarsi, oltre che nell'ambito delle città sino ad allora sopravvissute, presso i superstiti abitati rurali, come sembrerebbe suggerire per alcuni esempi un confronto fra la situazione archeologica e la toponomastica ancor oggi superstite 223. È a tal proposito infatti significativo quanto accertato da recenti ricerche nella Valle del Pescara sulla corrispondenza, a tre toponimi di più che probabile derivazione longobarda, Colle della Sala di Alanno (Fig. 1, n. 61) 224, Piano della Fara di Rosciano (Fig. 1, n. 58) 225, Colle Scurcola di Civitaquana (Fig. 1, n. 57) 226, di abitati romani occupati sino al VI secolo a cui seguono insediamenti d'età altomedievale. Anche nella provincia di Teramo è disponibile l'esempio del sito di Guardia Vomano (Fig. 1, n. 12), menzionato come Castrum Guardiae in fonti casauriensi dal IX al XII secolo 227 e collocato presso i
resti di una grande villa romana 228; recenti ricerche condotte nel sottosuolo dell'ivi esistente abbazia di S. Clemente in Vomano, ove sono attestate dalle fonti anche le già menzionate Fara S. Clementis e Curtis de Sala 229, hanno significativamente rivelato una serie di strutture murarie forse successive al V-VI secolo e “chiaramente precedenti l'impianto della prima fase dell'abbazia, riferibile al IX secolo” 230. Oltre ai toponimi Sculcola 231, Fara 232, Sala 233 i più significativi fra quelli relativi a dinamiche di insediamento e la cui distribuzione appare concentrata nell'Abruzzo costiero, particolarmente per gli ultimi due, anche altri toponimi di probabile derivazione germanica, derivati da Sonder 234, Guardia, Gualdo 235, Cafaggio 236, e Staffili 237, attestano una diffusione abbastanza generalizzata anche se forse non uniforme del nuovo gruppo etnico nell'intero territorio abruzzese, pur con tutte le necessarie cautele sottolineate da S. Gasparri. 6.4 Proprietà private e beni monastici Anche in Abruzzo non diversamente da altre aree dell'Italia centrale la fine del Regno d'Italia (774) dovette tradursi in un momento di crisi e momentanea perdita di ruolo per le classi dirigenti locali di tradizione longobarda, destinate a ritrovare dagli inizi del IX secolo nuovi punti di riferimento nelle grandi abbazie benedettine a cui passarono sovente per donazione cospicui beni provenienti proprio dalle grandi famiglie locali. Il succitato esempio di Maione e dei rapporti con l'abbazia di Montecassino, ed il caso del suo consanguineo Poderico, divenuto addirittura preposto del monastero di S. Liberatore a Majella, antica dipendenza beneventana di S. Salvatore di Brescia, non erano certo rimasti isolati, come sembra dedursi dall'articolazione del patrimonio cassinese proprio nel Chietino, e dalla situazione di altri monasteri del Teramano 238. Ben più tardo e tuttavia di un qualche interesse appare il caso dell'abbazia di S. Maria di Montesanto, importante struttura monastica ubicata in comune di Civitella del Tronto (TE), e centro di un importante e compatto dominio monastico quasi esclusivamente articolato lungo la Valle del Salinello nell'alto Teramano, e comprendente curiosamente ambedue i siti delle necropoli longobarde di Civitella del Tronto e S. Egidio alla Vibrata: nel 1064 l'abbate di Montesanto dona al monastero di S. Salvatore a Majella un esteso patrimonio di ben 2000 moggi di terra, curiosamente posseduto nella Val Pescara ben lontano dal resto dei suoi beni, e compreso fra il fiume Pescara, i fiumi Nora e Fontecchio e la zona di Pianella 239. Tali beni risultano significativamente ubicati subito a nord del basso corso del Pescara in corrispondenza del principale punto di passaggio del fiume prima del porto di Aternum (Pescara) 240, in un'area in cui sono numerose le testimonianze archeologiche di una presenza bizantina protrattasi sin nei primi decenni del VII secolo 240. Fra essi è compresa la chiesa di S. Martino de super Cepalia, ubicata nei pressi del probabile caposaldo bizantino di Cephalia e del successivo Castellum de Sculcula (Figg. 1, n. 51), ambedue ubicati a presidio del passo sul fiume 242. Se si tiene presente la ricca documentazione sull'esistenza di consistenti proprietà di cittadini lucchesi e chiusini nella Maremma (Populonia, Roselle e Sovana), riferite plausibilmente da I(urze e Citter alle vicende della definitiva liquidazione di ogni residua presenza bizantina sulla costa da parte dei due ducati longobardi di Lucca e Chiusi 243, verrebbe da chiedersi se il curioso caso dei beni pescaresi dell'abbazia di Montesanto, sia pur attestato da una fonte molto tarda, non potesse in via di prudente ipotesi risalire a donazioni di grandi proprietari di tradizione longobarda ormai stanziati nel Teramano, i cui antenati potevano aver partecipato alla conquista della Val Pescara bizantina nella prima metà del VII secolo. Quel che comunque appare in conclusione assodato sulla base degli esempi analizzati in questa sede è l'interesse di un esame analitico dei beni pervenuti nel IX secolo alle abbazie benedettine per
donazione da parte delle classi dirigenti locali, nell'ottica di una possibile ricostruzione di forme di acquisizione forzosa di tali proprietà e di conseguente insediamento avvenute nei due secoli precedenti ed individuabili proprio sulla base dell'articolazione ed ubicazione di tali beni sul territorio. 7. Conclusioni Il presente contributo è stato proposto come un primo quadro complessivo sui dati disponibili e sulle acquisizioni più recenti in merito al progressivo stanziamento anche in Abruzzo di genti longobarde, quadro dal cui esame sembrano emergere alcuni punti fermi che possono essere segnalati all'attenzione degli studiosi anche per i successivi necessari approfondimenti. Deve anzitutto sottolinearsi la persistenza di collegamenti viari controllati dai Bizantini fra Tirreno ed Adriatico lungo i tracciati della via Claudia Valeria e della c.d. Via degli Abruzzi sin verso la fine del VI secolo, con una conseguente articolazione topografica e diversificazione cronologica della penetrazione longobarda nei vari ambiti della regione a nord ed a sud di tali itinerari. A nord Castrum Truentinum alla foce del Tronto dovette infatti cadere in mano longobarda dopo Ascoli e Fermo già verso il 580 mentre il Castrum Aprutiense, l'antica Interamnia (Teramo), era probabilmente ancora controllata dai Bizantmi verso il 598 e così forse anche Castrum Novum A queste fasi di confronto nell'alto Teramano appaiono con ogni evidenza riferibili i sepolcreti di S. Egidio alla Vibrata, Civitella del Tronto e Castrum Truentinum (Fig. 2, nn. 1-3), mentre ad un momento più tardo, in cuí dovevano essere caduti in mano longobarda sia il Castrum Aprutiense che Castrum Novum (fine VI-inizi VII secolo) appaiono riferibili le necropoli del territorio di Notaresco (Fig. 2, n. 9- l 0). Agli anni successivi al 580 e precedenti il 595 appare ragionevolmente ríferíbíle la penetrazione longobarda nell'Amiternino e poi nella Marsica, probabilmente lungo le direttrici della via Salaria e della Forca di Corno, con il conseguente vemr meno della presenza bizantina lungo la valle dell'Aniene (Kástron Bikobaria) ed il tracciato della via Claudia-Valeria 244' ed i cruenti accadimenti narrati da Gregorio Magno e testimoniati dalla devastante crisi dei centri urbani e di alcune diocesi ivi esistenti. Verso sud alla caduta di Venafro e conseguentemente del Kástron Sámnion presso Sepino e di Isernia verso il 595 dovette seguire un dilagare dell'invasione nell'intero Molise e nella zona degli Altopiani Maggiori d'Abruzzo, per iniziativa di gruppi di Longobardi provenienti dal ducato di Benevento. Di qui appare probabile una progressiva discesa lungo le valli che conducevano all'Adriatico, in particolare attraverso la Forca di Palena e la valle dell'Aventino e le altre valli del Sangro, del Trigno e del Biferno, con una lenta compressione dei Bizantini nei centri fortificati della costa (Pescara, Ortona, Lanciano, Vasto). In questa fase, che ben potrebbe collegarsi con l'origine della necropoli di Pescocostanzo appare anche probabile che i confini del ducato di Benevento fossero stati espansi attraverso la zona di Pacentro ed il Guado di S. Leonardo sino al fiume Pescara in corrispondenza delle Gole di Popoli, mentre sin qui proseguiva da nord anche la penetrazione dei Longobardi di Spoleto lungo il tracciato della via Claudia Nova da Amiternum sino alla confluenza fra Tirino ed Aterno. In quest'area la presenza bizantina dovette così progressivamente ridursi alla bassa Val Pescara ove è ancora testimoniata nei primi decenni del VII secolo dal rinvenimento su vari siti di materiali archeologici di provenienza orientale ed africana riferibili a quella cronologia. A queste fasi di progressivo stanziamento longobardo anche nelle aree interne del Pescarese ed in parte della bassa valle del Pescara potrebbero essere riferibili i sepolcreti attestati a Penne e Loreto Aprutino (Fig. 2, nn. 11/13), e poi anche lungo il corso del Pescara a Rosciano (Fig. 2, nn. 14, 15?). Un'analoga progressiva riduzione della presenza bizantina solo ai centri urbani anche dell'adiacente costa chietina e a pochi lembi di territorio fra essi articolati appare ricostruibile per tutta la prima metà del VII secolo, come appare evidente dal probabilmente violento venir meno dell'occupazione della grande villa in loc. Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio già nei primi decenni del secolo.
Di tale processo e di possibili fasi di confronto militare fra i due ambiti rappresentano un'eloquente testimonianza anche le numerose inumazioni caratterizzate da corredo con ceramica tipo Crecchio lungo la costa localizzate (vedi Fig. 25), concentrate in particolare significativamente proprio nell'entroterra della capitale bizantina d'Abruzzo, Ortona (Fig. 25, nn. 28-32). La presenza bizantina lungo la costa abruzzese venne probabilmente a concludersi in occasione del fallito tentativo di riconquista dell'Italia meridionale da parte di Costante II (657-672), come testimonia eloquentemente Paolo Diacono nel riferire che le truppe del re longobardo Grimoaldo, accorse in aiuto del figlio duca Romualdo assediato dai Bizantini a Benevento, erano andate ad attestarsi proprio sul fiume Sangro nella loro marcia di avvicinamento con ogni evidenza percorsa sul tracciato dell'antica via litoranea 245; deve dunque supporsi che fosse ormai avvenuta la definitiva occupazione degli ultimi centri urbani ancora controllati dai Bizantini nella zona, lungo quell'asse viario collocati. Non appare in proposito casuale che i più tardi reperti ceramici d'importazione rinvenuti negli scavi di Pescara siano databili proprio sino al 650660 246, e che nell'ambito del sepolcreto scavato a largo S. Giovanni di Lanciano, ad una sepoltura con corredo di ceramica tipo Crecchio, fosse andata ad affiancarsi un'altra più tarda inumazione con elementi di corredo diversi e confrontabili con quelli delle altre necropoli presentate in questa sede. Con la seconda metà del VII secolo l'intera area dell'attuale Abruzzo appare ormai "normalizzata" e divisa fra i due ducati longobardi di Spoleto e Benevento, in un momento in cui doveva essersi ormai avviata da tempo la progressiva romanizzazione di quei gruppi di Longobardi, pochi e probabilmente sparsi, che erano giunti nell'area. Il processo doveva probabilmente essersi avviato molto presto, come appare evidente anche dal fatto che quasi tutti gli elementi di corredo attestati nei sepolcreti esaminati in questa sede appaiano riferibili alla tradizione tardoromana; quel che appare tuttavia significativo è che tali elementi ricompaiano nelle inumazioni a costituire corredo funerario proprio in un periodo (seconda metà VI-VII secolo) che è quello della progressiva occupazione longobarda dell'intera regione. Particolarmente importanti appaiono i due sepolcreti di Notaresco e Pescocostanzo in cui la presenza di significativi elementi di corredo sembra segnalare, più che la relativa etnia, una posizione preminente del gruppo sociale a cui i defunti appartenevano, posizioni che all'epoca non poteva più essere rivestita che da gruppi di provenienza germanica. Indipendentemente dall'etnia dell'inumato comunque la presenza di questi elementi nelle sepolture esaminate e l'apparente venir meno di ogni elemento di corredo dopo la metà del VII secolo rappresentano eloquente testimonianza dei drammatici avvenimenti svoltisi fra la seconda metà del VI ed il VII secolo e dell'ormai avvenuto stanziamento nella regione di nuove genti d'etnia germanica, ed infine della loro precoce, quasi inevitabile, romanizzazione. ANDREA R. STAFFA
1 Si vedano al proposito BOGNETTI 1967, MOR 1966, CONTI 1975b, 1978,FONSECA1984, p. 128, PELLEGRINI 1990, pp. 232-233. 2DE BENEDICTIS 1988; STAFFA 1995c, pp. 196-201. 3 STAFFA 1995e, pp. 196-197. 4 Ripresa da ultimo in FLORIDI 1976, p. 23.
5 Già intuito in PELLEGRINI 199O, p. 232, 235-236, vedi in proposito STAFFA l995e, pp. 223-226; a Pescara sono presenti fra i contenitori in sigillata africana finanche le forme Hayes 105, 106, 107, 110, databili sino al 650-660 (STAFFA 1991a, p. 315). 6 GASPARRI 1983, pp. 81-82. 7 GASPARRI 1983, pp. 80-81, nota 14; STAFFA 1992a, p. 819; cfr. al proposito CONTI 1975a. 8 I'invito di S. Gasparri ad utilizzare con pPudenza tale tipo di fonti appare indubbiamente opportuno (GASPARRI 1994, pp. 11-12), in relazione ad es. per 1'Abruzzo all'azzardato tentativo del Giammarco di ricostruire sulla base della toponomastica finanche le direttrici della conquista (GIAMMARCO 1984-86), quando tuttavia 1'esame della situazione archeologica del sito evidenzi chiare tracce archeologiche di abitato tardoantico o altomedievale la contemporanea presenza di toponomi di origine longobarda può ben difficilmente considerarsi casuale (STAFFA 1992a, p. 818). 9 GREGORIO MAGNO, Registrum Epistularum, IV, 24, 22, pp. 262, 260. 10 GREGORIO MAGNO, Registrum Epistularum, IX, 71, p. 90; XII, 4, p. 350; XII, 5, PP. 11 GREGORIO MAGNO, Reg. Epist., IX, 44; vedi GASPARRI 1983, p. 83; per la conquista franca vedi PELLEGRINI 199O, pp. 244-245. 12 Vedi in proposito PELLEGRINI 1990, pp. 233-237. 13 Oltre alle più tarde sigillate africane ed orientali ed alle anfore di analoga provenienza deve ricordarsi la orma ben nota ceramica dipinta a bande c.d. tipo Crecchio. Vedi in proposito STAFFA 1992a, pp. 820-826; I Bizantini in Abruzzo, pp. 31-48. STAFFA l995, pp. 347-348 ODOARDI 1993; STAFFA 1995e; PETRONE et al. 1994; STAFFA et al. 1995, pp. 331-336; STAFFA ODOARDI 1996. Da ultimo vedi anche i vari contributi in Ceramica in Italia: STAFFA 1996d, E. SIENA-D. TROIANO-V VERROCCHIO, La fornace di Castellana-Piano Leone di Pianella, R. ODOARDI, Sigillate africane ed orientali dal sito di Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio; EAD. Sigillate atricane da Castrum Truentinum; E. SIENA Sigillate atricane ed orientali dalla Val Pescara, D. TROIANO-V. VERROCCHIO, Imitazioni di sigiilate africane ed orientali dalla Valle del Pescara, R. ODOARDI, Lucerne africane e di imitazione da Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio (CHJ, V. VERROCCHIO, Lucerne in sigillata africana ed imitazioni dalla Valle del Pescara; ID., Anfore tardoantiche dalla Valle di Pescara. 14 Esemplare il caso della villa in loc. Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio, vedi / Bizantini in Abruzzo; per altri analoghi siti vedi anche STAFFA 1993b, pp. 336-346. 15 Vedi i risultati degli scavi in STAFFA 1991a. 16 STAFFA 1992b; ID. 1995d. 17 Giorgio Ciprio, 612 = Kastron Terentinon; 623 = Kastron Nobo, 565 = Kástron Òrtonos; 623a = Kástron Rennia; 624 = Kástron Benèren; STAFFA 1994b, pp. 188, 189, 210, 210-211, 212-213. 13 STAFFA 1995e, pp. 189-190; ID. 1995C, P. 104. 19 STAFFA 1994b, p. 85; ID. 1995a; ID. 1995c, pp. 97-99. 20 Vedi in proposito la scheda edita in STAFFA 1995c, pp. 101-104. 21 STAFFA 1995c, pp. 105-109. 22 STAFFA 1995e, pp. 189, 190, 204, 205; ID. 1995c, pp. 99, 104. 23 STAFFA 1995e, pp. 203-205, 209-218. 24 A.R. STAFFA, in I Bizantini in Abruzzo, pp. 45-48; STAFFA ODOARDI 1996, pp. 184189, figg. 15-18; STAFFA 1996d. 25 LA REGINA 1980, p. 34; STAFFA 1995e, pp. 196-197. 26 STAFFA 1995e, pp. 196-200, Ia caduta in mano longobarda di Venafro solo nel 595 è ricordata da Gregorio Magno (Registrum Epistularum, V1, 11; Migne, P.L., LXXVII, 802803); vedi anche STAFFA 1994b, p. 195. 27 STAFFA 1995e, pp. 197-199. 28 FONSECA 1984, pp. 160-61. Cfr. per l'area toscana le eloquenti descrizioni dalle lettere di Gregorio Magno proposte in KURZE-CITTER 1995, che trovano paralleli in episodi raccontati dallo stesso papa per le aree interne della Valeria (vedi supra). 29 Per un quadro complessivo ed analitico vedi STAFFA 1994b. 30 STAFFA 1995e, pp. ] 90-194. 31 STAFFA 1994b, pp. 201, 193-194, con bibliografia precedente. 32 FELLER 1994, p. 220. 33 Cfr. DELOGU 1990, PP. 158 ss.; ID. 1994, p. 15. 34 STAFFA 1995e, pp. 203-206. 35 STAFFA 1995e, p. 194. 35 Vedi in proposito STAFFA 1992a, pp. 792-793, 827-829; ID. 1995e, pp. 193-194. 37 STAFFA 1995f, pp.316-333; ID. 1995e, pp.201-205,209-214. Il fenomeno è attestato anche altrove in area romano-bizantina, cfr. DELOGU 1994, p.13. In tali ambiti urbani dovettero forse coerentemente svolgersi le conseguenze di quelle che erano state le scelte del notere centrale fra IV e V secolo, confisca dei terreni di proprietà dei municipi, povertà e dunque incapacità d'intervento delle amministrazioni locali (vedi STAFFA 1992a, p. 790), intervento crescente di funzionari imperiali nella gestione finanziaria (vedi in proposito HALDON 1994, p. 72). 38 STAFFA 1995e, pp. 210-211; ID. 1995b, pp. 110-131. 39 STAFFA 1995e, pp. 196-200.
40 DELOGU 1994, p. 14: “i materiali di corredo non sembrano più costituire un criterio assoluto di identificazione etnica degli inumati”; cfr. anche SETTIA 1994, pp. 64-66, con bibliografia precedente. Una prima sia pur sommaria rassegna dei rinvenimenti abruzzesi era già in STAFFA 1992a, pp. 814-17; I Bizantini in Abruzzo, pp. 24-25. 41 Per quanto sinora noto almeno nell'Abruzzo adriatico l'uso di dotare di qualche corredo anche le sepolture povere a cappuccina, per lo più lucerne e qualche vasetto di ceramica comune, va spegnendosi fra la fine del II ed il III secolo d.C. Può essere utile ricordare qualche esempio di corredo di inumazioni databili in quest'epoca: - Cellino Attanasio, loc. Case Marano, sepoltura unica: piatto ad imitazione della forma Lamboglia 40 in sigillata africana, due ollette di cui una a tre piedini in ceramica comune (STAFFA-MOSCETTA 1986, pp. 215-216, figg. 142144); - S. Vito Chietino, loc. Murata Bassa, sei sepolture: lucerne del tipo Firmalampen (ODOARDI-STAFFA 1996); - Vasto, loc. Cimitero, ventotto sepolture: lucerne del tipo Firmalampen, a volte collocate su un tegame smarginato e a volte associate con balsamari in vetro; in alcuni casi sono presenti isolati bracciali in bronzo e balsamari, ed in un solo caso frammenti di orecchini in bronzo (R. ODoARD~-M.R. PACILLI, in STAFFA 1995b, pp. 84-89). 42 STAFFA 1992a, pp. 814-815. 43 STAFFA 1995C, PP. 107-109. 44 Per un elenco completo dei principali reperti rinvenuti vedi STAFFA 1995C, P. 109. 45 STAFFA 1996a. 46 A.S.A.A., Pratica TE39A, Relazione in data 5 Agosto 1934, vedi STAFFA 1 995c, p. 109, nota 86. 47 STAFFA 1995e, pp. 190-192; ID. 1995c, pp. 105-111. 48 Archivio di Stato di Teramo, Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, Scavi di Antichità, pacco 215, f. 85: “si sono rinvenuti nei cennati scavi nello spianamento di un piccolo colle di poca altezza di figura rotonda, per abbassarlo a livello della strada pubblica fuori Porta di Napoli”. 49 STAFFA 1995c, pp. 105-107,1'elenco dettagliato degli oggetti rinvenuti, con il titolo Sugli oggetti di oro ed altro rinvenuti negli scavi fatti all'ingresso della R. Piazza di Civitella del Tronto reclamati dal Maggiordomo di Casa Reale, sono in Archivio di Stato di Teramo, Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, Scavi di Antichità, pacco 215, f. 78. 50 A.R. STAFFA, 11 vasellame di 1usso cosiddetto "copto", in I Bizantini in Abruzzo, pp. 40-43. 51 Per l'elenco completo dei reperti vedi STAFFA 1995c, p. 107. 52 A.S.T., Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, Pacco 215; in data 27 Settembre 1859 “Il giudice Regio di Campli interroga il gioiellere Impaloni il quale gli rende conto degli oggetti d'oro vendutigli dal sindaco di Civitella e dal comandante della fortezza”: “... non appena acquistati gli oggetti d'oro sopra indicati furono da esso L. Impaloni trasportati in propria casa, e dopo l'elasso di sette o otto giorni furono dall'Impaloni ed altri lavoranti addetti al suo magazzino liquefatti, ed addetti ad oggetti donneschi i quali man mano sono stati venduti”. Di lì a poco tuttavia, su pressante interessamento del Principe di Bisignano, Maggiordomo Maggiore e Soprintendente di Casa Reale, che era venuto a conoscenza dell'importante rinvenimento, l'Intendente della Provincia con lettera del 25 Ottobre 1859 gli riferiva di aver saputo dalla pubblica voce che “la quantità degli og~etti rivelati dal Comandante della Fortezza (che li aveva rinvenuti) sia stata minore di quella effettivamente rinvenuta”. Resta pertanto la speranza che qualcosa dell'importante rinvenimento si sia potuto salvare e resti conservato in qualche collezione privata, magari proprio a Civitella. 53 A.S.T., Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, pacco 215: nota in data 17 Settembre 1959 del Regio Maggiordomo Maggiore e Soprintendente di Casa Reale all'Intendente dell'Abruzzo Ulteriore. 54 STAFFA 1995c, p. 107; A.S.T., Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, pacco 215: lettera in data 1 Ottobre 1859 del Sindaco di Civitella al “Signor Cavaliere Intendente della Provincia”. 55 STAFFA 1995c, p. 107; ID. 1996c, voce Civitella del Tronto, da un altro documento del 1817, relativo al “Piano del lavoro da seguirsi fuori Porta di Piazza”, si evince che all'epoca esisteva ancora una “Strada dell'Arringo”, su cui dovevano essere effettuate delle modifiche in partlcolare la reahzzazlone dl “una voltata per intromettersi all'ingresso del Belvedere donde avrà principio la strada detta della Porta di Piazza” (A.S.T., Intendenza Borbonica Opere Pubbliche, pacco 434). Devo anche questa segnalazione, come le altre relative a questo rinvenimento, alla paziente opera di ricerca del sig. Salvatore Attorre di Civitella del Tronto, che ringrazlo cordialmente. 56 STAFFA 1995c, p. 101. 57 Si vedano per gli scavi condotti fra 1991 e 1993 (campagne VIII) STAFFA 1995a, ID. 1996b; nei mesi di aprile-maggio 1995, nel corso della IV ed ancora inedita campagna di scavl sul slto, sono statl inoltre scavati nelle adiacenze del ponte sul Tronto della S.S n 16 - Adriatica i resti di un grande edificio pubblico, con due fasi databili alla tarda età repubb;icana ed alla fine del I secolo d.C., e con ogni evidenza riconoscibile come il macellum dell'insediamento. 58 Scavi 1991/ saggio A: tomba 1, a cappuccina, nei cui pressi (Us 9) è stata rinvenuta una fibula dal terreno (bambina). Scavi 1993 / saggio A: Us 159=t. 2 (coperta da Us 158): sepoltura a cassone; Us 167=t. 3: sepoltura a cappuccina (bambino), t.4 = inumato adulto in semplice fossa terragna; Us 185 =t.5: superstite solo il piano inferiore in tegole con frammento di braccialetto in bronzo ed altri piccoli elementi in bronzo molto deteriorati; Us 223=t. 6: inumato adulto in semplice fossa terragna, poggiata direttamente sul rudere del muro 224; Us 245=t. 7: coperta di tegole poste a definire una sorta di cassone, appoggiato al muro 244 (individuo adulto); Us 263=t. 8: sepoltura a cappuccina di adulto, priva di corredo. Scavi 1995: Us 405: cappuccina priva di corredo, parte terminale delle gambe appoggiata sul muro Us 408 (individuo adalto); Us 406: cappuccina priva di corredo (individuo adulto).
59 Si vedano MENGARELLI 1902, col. 207, fig. 48, da Castel Trosino; VON HESSEN 1983 tav. 8, nn. 4, 7, p. 41, materiali della collezione Stibbert di Firenze; MENIS (a cura di) 1990, p. 437, X.96F, dalla tomba 79 (femminile) della necropoli di Romans d'lsonzo in Friuli; PROFUMO 1995, p. 167, fig. 128 (priva dell'ardiglione) conservata presso il Museo Archeologico di Ascoli Piceno, solo per proporre qualcuno dei numerosi esempi disponibili. 60 Gregorio Magno, Registrum Epistularum, IX, 52; STAFFA 1995c, p. 97. 61 STAFFA 1996a, sito 170, pp. 298-299. 62 GALIÈ 1984, p. 10. 63 E. GALLI, Scoperta archeologica nell'Agro di Castrum Truentinum, “Notizie degli Scavi” 1939 (XVII), pp. 349-350; Relazione ID., 27/2/1938, in A.S.A.A., trasmessa al Ministero per le Notizie degli Scavi :“venne praticata a circa 2 m sotto l'odierna superficie posta a cultura, e vi si utilizzarono materiali di fortuna raccolti all'intorno. Il fondo del sepolcro era costituito da un segmento di roccia lapidea rozzamente lavorata, tratta da qualche edificio romano, ed il coperchio era rappresentato da un altro analogo pezzo del medesimo canalone. Fra i due elementi erano stati murati tutt'intorno due filari di mattoni, pure raccogliticci”. 64 A.S.A.A., Relazione ~ D'Ercole in data 1 agosto 1982. 65 STAFFA 1996a, sito 2, pp. 258-260. 66 Catalogus Baronum, par. 1030, note 1-2. 67 STAFFA 1996a, sito 100, pp. 279. 68 Archivio Centrale dello Stato, Inventario Archivi Direzione Gen. Antichità e Belle Arti, III vers., porta II, scavi Teramo, t.1, fasc.23377, Archivio della Cooperativa Archeologia e Territorio in A.S.A.A., IGM f.1331INO, Medioevo, sito 307. 69 Il nome dell'abitato è noto da un'epigrafe rinvenuta alla fine del secolo scorso presso la chiesa, vedi “Notizie Scavi”, 1885, pp. 21, 167-170; STAFFA 1996a, sito 117, pp. 283-28S. 70“Notizie degli Scavi” 1885, p. 169. 71 Il rinvenimento è stato sinora edito solo in maniera preliminare (ANGELETTI 1990) anche se sono disponibili i primi dati antropologici (CALDERONI PETRONE 1990); vedi in proposito STAFFA 1992a, pp. 830-831. Il gruppo in oggetto è il gruppo C di CALDERONI PETRONE 1990 (pp. 11-12), costituito dalle tombe 44, 48, 53; ad esse sono con ogni evidenza avvicinabili le sepolture più profonde ed ancora vicine ai piani di vita romani scavate fra 1891 e 1898 da Francesco Savini (STAFFA 1992a, p. 830, nota 388, con bibliografia precedente). 72 STAFFA 1995e, pp. 190-191; ID. 1995C, P. 101. 73 GREGORIO MAGNO, Registrum Epistularum, IX, 71, p. 90, vedi supra e STAFFA 1995e P. 190; ID. 1995C, P. 101. 74 STAFFA 1992a, p. 830. 75 STAFFA 1992a, p. 831. 76 STAFFA 1992a, p. 830, nota 388. 77 ANGELETTI 1990, P. 7. 78 ANGELETTI 1990, planimetria generale dello scavo pubblicata sul retro della copertina, ove è ubicato il punto di rinvenimento dei seguenti oggetti: n. 39: “anello di bronzo a lati aperti”, con ogni evidenza riconoscibile come fibula ad anello; n. 44: “fibbia di bronzo”. Gli oggetti provengono tuttavia da una quota più alta rispetto a quella delle succitate sepolture forse nell'ambito di rimaneggiamenti ed intaccamenti delle stratigrafie più antiche del sito una loro attribuzione certa a questo ambito cronologico deve dunque attendersi dalla loro edlzione, che Sl ausplca prossima. 79 Carta Archeologica d'ltalia, f. 140 (Teramo), a cura di G. Ceralli-lrelli, Firenze 1971, I NE, n. 3, p. 37; STAFFA-MOSCETTA 1986, p. 181. 80 Il rinvenimento è stato a suo tempo già pubblicato in GIZZI 1986 a cui si rinvia per una sua disamina analitica; per un inquadramento delle vicende storiche generali dell'occupazione longobarda del Teramano vedi tuttavia STAFFA 1994b, pp. 188-192, e ID. 1995c, pp. 101-111. Anche per le circostanze del recupero, avvenuto dopo uno scavo clandestino, non vennero all'epoca purtroppo realizzati né rilievi grafici né una soddisfacente documentazione fotografica; le poche foto disponibili in A.S.A.A. sono relative al piano sconvolto di una delle sepolture. 81 Inv. 27917-l8= n. 1, invv. 27919-20= n. 2, inv. 27922-23= n. 3, inv. 27924=n.5 inv. 27921 =n. 6; inv. 27916—n. 7; sono conservati presso il Museo dell'Abruzzo Bizantino ed Altomedievale a Crecchio. 82 Per un quadro completo degli oggetti vedi GIZZI 1986, e STAFFA 1995C, PP. 110-111, 83STAFFA 1995C, P. 110, fig. 60, nn. 27919-20; cfr. POSSENTI 1994, PP. 61-62, tav. III, 4-5; in GIZZI 1986, PP. 263-264, sono proposti confronti con altri analoghi esemplari in oro da Domagnano e Nocera Umbra. Per il primo fra essi (MENGHIN 1977, PP. 13, 15, tav. 2, lac) il confronto sembra tuttavia generico. Vedi infine anche PROFUMO 1995, PP. 162-163, fig. 121; POSSENTI 1994, tav. XXV, 1, di provenienza ignota; quest'ultimo presenta punti di contatto con gli orecchini bizantino-longobardi. 84 STAFFA 1995C, P. 110, fig. 60, nn. 27917-18; cfr. SALVATORE 1981, P. 141, fig. 8, b. 85 Riferimenti in GIZZI 1986, P. 263. 86 GIZZI 1986, P. 266. 87 STAFFA 1995C p. 111, vedi anche gli interessanti risultati dei saggi di scavo condotti a suo tempo presso l'abbazia di S. Clemente a Vomano (STAFFA 1991d; ID. 1992a, p. 818, nota 88 STAFFA 1995f, pp. 62-63. 89 STAFFA 1994b, p. 71, fig. 7.
90 Museo Archeologico di Penne, già collezione archeologica del Museo Civico Diocesano, nn. inv. 1630, 1631,1632; oltre ai nn. 1631-32, già segnalati in STAFFA 1992a, pp. 816-817, e I Bizantini in Abruzzo, p. 17, il completamento della schedatura del materiale conservato nella raccolta ha consentito l'individuazione di un'altra fibula ad anello chiuso (n. 1630). 91 Museo Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano, inv. 1632, sch. 13/ 00046985, dis. n. 116; cfr. anche con una fibbia di cintura in argento con anello ovale e ardiglione a scudetto, conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Ancona, PROFUMO 1995, p. 156 fig. 113. 92 Museo Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano, inv. 1631, sch. 13/ 00046984, dis. 116; vedi VON HESSEN 1983, p. 17, fig. 3, n. 4. 93 Museo Archeologico di Penne, già collezione archeologica del Museo Civico Diocesano: inv. SOB, sch. 13/00047325, neg. 47374, diam. cm 4,4; cfr. PROFUMO 1995, PP. 146-147, fig. 91, che si presenta tuttavia, a differenza dell'esemplare da Penne, decorato con gruppi di punti aggruppati a triangoli. 94 Inv. 1630, sch. 13/00046983, dis. 116. 95 PROFUMO 1995, pp. 146-147, fig. 91, datato al VI secolo; I'esemplare di Penne, come quello di Ascoli, sembra tuttavia riferibile piuttosto al pieno medioevo. 96 Museo Archeologico di Penne, già collezione archeologica del Museo Civico Diocesano, inv. 1577, sch. 13/00046933, neg. 47107, diam. 3.ó; cfr. MENrs (a cura di) 1990 pp. 191-192, fig. IV.62. 97 Museo Archeologico di Penne, già collezione archeologica del Museo Civico Diocesano: inv. 20/B, sch. 13/00047295, neg. 47371-72, lungh. cm 7, per questo tipo di decorazione vedi i confronti più oltre proposti per la placca di cintura conservata presso il Museo delle Genti d'Abruzzo di Pescara, nonché l'apparato decorativo del pettine di Rosciano. 98 Museo Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano, inv. IB, sch. 13/ 00047276, dis. N100001, diam. cm 3, p. 85; cfr. MFNIS (a cura di) 1990, pp. 126-127, figg. II, 34, Il, 36 da Volano e Vervò in provincia di Trento, che presentano la semplice croce non inscritta in un cerchio con decorazione ad occhi di dado; due croci inscritte in cerchi compaiono invece in due ciondoli in bronzo, privi tuttavia della decorazione ad occhio di dado, dalla tomba 97 (femminile) della necropoli longobarda di Romans d'lsonzo (MENIS (a cura di) 1990, pp. 438-439, fig. X.96r), tipici secondo von Hessen del costume femminile longobardo degli inizi del VII secolo; un confronto abbastanza puntuale anche per la presenza degli occhi di dado è una fibula dal sepolcreto di Voltago in Friuli (MENIS (a cura di) 1990, p. 453, fig. X. 143). 99 STAFFA 1992a, pp. 826-827. 100 La Collezione Casamarte di Loreto Aprutino, oggi conservata a Treia (MC) dalla famiglia Bassino-Casamarte, risulta essersi formata fra secolo scorso ed inizi di questo secolo a seguito della raccolta da parte del barone Antonio Casamarte ed altri membri della famiglia di numerosi oggetti di rinvenimento sporadico provenienti dalle varie tenute che la famiglia stessa possedeva nel territorio di Loreto, in particolare quella di Colle Fiorano. Ringrazio cordialmente l'amica Raffaella Papi dell'Università di Chieti per avermi segnalato questi reperti ed avermi fornito la relativa documentazione fotografica presentata in questa sede. 101 Collezione Casamarte, nn. 176-177; si è deciso di presentare in questa sede I'immagine di cui alla Fig. 10, pur con 1'ardiglione purtroppo collocato in posizione evidentemente incongrna, non essendo possibile a breve riprodurre l'oggetto che è attualmente conservato con gli altri reperti in collocazione di difficile accesso. 102Vedi anche il puntuale confronto con due esemplari dalle collezioni Stibbert, simile anche per 1l tipo dl ardiglione (VON HESSEN 1983, tav. 3, nn. 4-5). 103 Collezione Casamarte, nn. 180, 178. 104 Vedi ad es. PROFUMO 1995, PP. 144-145, figg. 84-90, molto puntuale ad es. il confronto per l'esemplare della Fig. 13 con le figg. 84-86. 105 Trattasi di un progetto di ricerca avviato in stretta collaborazione fra Soprintendenza archeologica dell'Abruzzo, Amministrazione Comunale e Archeoclub di Loreto Aprutino, ed Università di Pisa, Padova e Chieti, nelle persone degli amici Sauro Gelichi, Giampietro Brogiolo e Raffaella Papi. Il progetto, a cui grazie alla disponibilità del Prof. Riccardo Francovich fornlsce prezioso supporto il Laboratorio di Cartografia Archeologica della cattedra di Archeologia Medievale dell'Università di Siena, prevede una serie di campagne di scavo per la riscoperta e valorizzazione del patrimonio archeologico del territorio di Loreto, e la realizzazione di un Antiquarium a tali problematiche dedicato. 106 Vedi in proposito STAFFA 1995e, pp. 203-206. 107 Le indagini sono state già pubblicate in STAFFA 1989, pp. 562-565. 108 MENGARETTI 1902, col. 207, fig. 49, particolarmente puntuale per il tipo di decorazione, coll. 297-299, fig. 8, da Castel Trosino, PASQUI-PARIBENI 19 T 8, coll. 248-249, fig. 99, 271-275, fig. 122, da Nocera Umbra; per il Piemonte cfr. ad esempio CROSETTO 1987, pp. 196-198, tav. LXIX, 2 da Acqui Terme (vedi altri confronti e bibliografia precedente alle note 22-24), I Longobardi 1989, pp. 33-34, dalla tomba 116 della necropoli di Romans d'Isonzo vedi infine l'esemplare nel Museo Nazionale Ungherese edito in MENIS (a cura di)1990, p. 40, fig. 1.24d. 110 Sul sito della cisterna si conserva ancor'oggi una vasca antica in calcare, il c.d. Bicchiere, che rappresentava sino a qualche tempo fa il punto di riferimento di una processione religiosa di lontana origine che annualmente, in occasione della festività del Santo, raggiungeva dalla parrocchiale del nuovo abitato tardomedievale di Villa Oliveti il sito dell'antica curata ormal scomparsa. 111 BLOCH 1986, I, p. 383; STAFFA et al. 1991, pp. 653-654, sito 133; STAFFA et al. 1995, pp. 316-317, sito 133.
112 Museo Archeologico Nazionale dell'Abruzzo: inv. 52001, diam. circa cm 1,7, negg. 46049-46050; inv. 52002, lungh. cm 6,3; per quest'ultimo vedi fra i vari confronti possibili MENGARELLI 1902, col. 201, fig. 38, tomba H di Castel Trosino. 113 Cfr. una coppia di orecchini d'argento da Bratei in Transilvania conservata presso l'Istituto di Archeologia di Bucarest, in I Goti 1994, p. 160, fig. III.15/a; inoltre una coppia di orecchini da loc. Brighetto di Monaroccio, conservata presso il Museo Archeologico Nazionale delle Marche, in PROFU0MO 1995, pp. 72-73, fig.50, diam. cm 2,5/2,7, ambedue ancora databili nel V secolo; vedi inoltre una coppia di orecchini in bronzo conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale, in M~N~s (a cura di) 1990, pp. 444-445, fig. X.119e, del VI secolo, di diam. ancora più grande: cm 3,1; ed infine due esemplari nella collezione Stibbert di Firenze (VON HESSEN 1983, p. 17, tav. 4, nn. 8-9). 114 Museo Archeologico Nazionale dell'Abruzzo, Chieti: inv. 22888, neg. 27522, sch. 13/00016825, diam cm 3,8. 115 MENIS (a cura di) 1990, p. 458, fig. X.155, riferito comunque ad una tradizione produttiva romana. 116 Cfr. ad es. in argento anche se un po' più allungati gli esemplari dalla necropoli Cividale-Cella editi in MENIS (a cura di) 1990, pp. 382-84, fig. X. 42, X. 46, tuttavia di dimensioni più ridotte; vedi nella stessa sede gli esemplari in oro alle figg. X. 75d, che si avvicinano anche per dimensioni al tipo conservato a Pescara, Ia decorazione è tuttavia in tutti i confronti proposti del tutto diversa. 117 A.R. STAFFA, in I Bizantini in Abruzzo, pp. 54-55, figg. 87-90, a testimonianza delle diffusione di un ampio apparato decorativo tardoantico. 118 PROFUMO 1995, PP. 134-135, figg. 65-66; MENIS (a cura di) 1990, p.409, fig. X.77b. 119 COLETTI et al. 1990, pp. 488-496, nota 33. 120 Si ringrazia per la segnalazione la sig.ra Immacolata Rainaldi, già vicesindaco di Pescocostanzo, l'attuale Amministrazione Comunale che si è impegnata a fianco della Soprintendenza per una prosecuzione delle indagini in situ, ed il Dr. Claudio De Pompeis Direttore del Museo delle Genti d'Abruzzo di Pescara, con cui è in corso una collaborazione mirata a ricostruire dal punto di vista archeologico ed antropologico le vicende della presenza longobarda in Abruzzo; un pensiero grato anche al Prof. Francesco Sabatini, per l'interesse e l'impegno inattivo in loco. La relazione presentata in questa sede si deve con me alla collaboratrice ed amica D.ssa Roberta Odoardi, come sempre impegnata con chi scrive sia nello scavo che nel successivo studio analitico del contesto, per cui si rinvia ad altra successiva sede. 121 PROFUMO 1995, P. 162, fig. 117, di provenienza ignota databile nell'ambito della prima meta del VII secolo; in ambedue i casi trattasi di vaghi di forma allungata a due fori, di colore nero lucente, lunghi circa 2 cm, decorati sulla faccia anteriore da una serie di corrugature parallele. 122 A. DENNO “Notizie degli Scavi” 1882, P. 419; A.R. STAFFA, in I bizantini in Abruzzo, P. 18. 123 Vedi in proposito Attività dell'lstituto di Archeologia e Storia Antica dell'Università di Chieti, “Quaderni dell'Istituto di Archeologia e Storia Antica dell'Università di Chieti”, 2 (1981), PP. 188-191; 10 scavo è in corso di studio da parte del collega Dr. Glanco Angeletti che lo ha condotto, e che si ringrazia. 124 Vedi SALVATORI 1977, pp. 339 ss; VON HESSEN 1983, vari esemplari in tav. 2, in particolare nn. 7,9; vedi anche per il tipo PROFUMO 1995, pp. 144-145. 125 Museo Archeologico Nazionale dell'Abruzzo - Chieti: inv.23996, sch.13/00023907 neg. 34260, diam. cm 2,1.11 tipo, molto semplice, trova confronti, oltre che nelle altre fibule ad anello di provenienza abruzzese presentate in questa sede, in un altro esemplare da Castel Trosino, anch'esso rinvenuto privo di ardiglione (MENGARELLI 1902, col. 326, fig. 234, tomba 181), ed in un esemplare dal sepolcreto di Pettinara-Casale Lozzi (O. VON HESSEN, 11 cimitero altomedievale di Petti7zara, Firenze 1978, p. 19, tav. 5, 1 e 20). 126 STAFFA 1992b, pp. 15-16, 27; ID. 1995d, p. 12, fig. 8. 127 STAFFA 1992b, p. 27; ID. 1995d, p. 16. 128 STAFFA 1992b, fig. a p. 24; ID. 1995d, p. 15, fig. 14. 129 Cfr. in Abruzzo analoghi esemplari dalla catacomba di Castelvecchio Subaquo, in GIUNTELLA et al. 1991, p. 281, fig. 22, trattasi di un tipo abbastanza frequente in corredi tardoantichi autoctoni ed anche di pertinenza germanica (vedi ibidem i confronti citati alle note 42-43). 130 STAFFA 1992b, fig. a p. 25; ID. 1995h, p. 15, fig. 15; per questo tipo di decorazione vedi i confronti proposti per la guarnizione di cintura in osso lavorato conservata presso il Museo delle Genti d'Abruzzo di Pescara (n. 17, vedi supra Fig. 18). 131 STAFFA 1992b, p. 23; ID., in I Bizantini in Abruzzo, p. 19. 1995d, pp. 15-16. 132 si ringrazia per la segnalazione del rinvenimento il Dr. Davide Aquilano di Vasto. 133 Per questo esemplare vedi anche VON HESSEN 1983, p. 17, tav. 3 n. 4, già edito in I Bizantini in Abruzzo, p. 25, fig. 22. Samnium, p. 354, f. 71. 135 CAPINI 1989, pp. 126-27. 136 E FABBRICOTTI, luvanum, in 11 Territorio e la sua storia Convegno tenutosi a Chieti nel 1991, i cui atti non sono stati sinora pubblicati, i dati esposti in questa sede sono basati esclusivamente su quanto presentato in sede di convegno. 137 Il condizionale è d'obbligo in attesa dell'edizione del rinvenimento da parte dell'Università di Chieti. 138 8i veda MENIS (a cura di) 1990, p. 205, IV. 89, da Castel Trosino; POSSENTI 1994, p. 74, tav. XVI, 1-2, ultimo terzo VI-inizi VII secolo.
139 Il rinvenimento è in corso di studio da parte della D.ssa Maria-Rosaria Pacilli della Soprintendenza, che si ringrazia per avermi consentito di dar notizia del suo studio. 140 PANNUZI-STAFFA 1996a. 141 Vedi alcuni esempi da Castel Trosino, in PAROLI (a cura di) 1995, p. 204. 142Vedine vari esempi a Castel Trosino, in PAROLI (a cura di) 1995, p. 204. 143Vedi in proposito STAFFA 1994b, pp. 68-70, sembrerebbe apparentemente divergere da una siffatta cronologia un'unica inumazione caratterizzata da materiali di spoglio, una tomba a fossa coperta da tegole antiche ricavata sui piani della villa romana preesistente alla Badia di S. Maria di Mejulano a Corropoli (PANNUZI-STAFFA 1996a); la sepoltura è stata riferita in via d'ipotesi alla prima fase altomedievale della chiesa monastica (secc. VIII-IX), e tuttavia potrebbe anche essere per tipologia relativa al VI-VII secolo in ciò segnalando la possibile presenza di un più antico luogo di culto in situ, forse correlabile alla piccola catacomba rivelata dagli scavi. 144 Segnalazione da parte dell'Archeoclub di Loreto Aprutino nel 1995, ali scavi sono stati condotti nell'aprile 1996 sotto la direzione di chi scrive, con l'assistenza del sig. Osvaldo Corneli, la collaborazione della D.ssa Paola Di Tommaso, e la documentazione fotografica di Franca Nestore; i mezzi necessari sono stati messi a disposizione da parte dell'Amministrazione Comunale di Loreto Aprutino e dello stesso Archeoclub nell'ambito delle iniziative del Progetto Loreto Aprutino; si ringraziano cordialmente il sindaco Mauro Di Zio, i presidenti dell'Archeoclub Mario Mincarelli e Pierluigi Pace, ed i soci Dino Gargia e Renato Acerbo nonché il gentile proprietario dei terreni Dr. Procaccini. 145 Una siffatta tipologia sembrerebbe restare in uso ancora per qualche tempo, come si deduce anche dalle sepolture altomedievali in fossa terragna scavate presso l'abbazia di S. Maria di Montesanto a Civitella del Tronto (vedi PANNUZI-STAFFA 19966). 146 COLETTI et al. 1990, pp. 488-496, l'unica cià vicina a questa tipologia sembrerebbe la sepoltura a cassone in loc. Guardiola-Castellaro di S. Buono in corso di studio da parte di M.R. Pacilli; su di essa non sono tuttavia disponibili dati precisi di scavo. 147 STAFFA 1992a, pp. 816-17; ID. 1993a, p. 57. 148 Cfr. infatti per taluni aspetti il sepolcreto di S. Lucia di Notaresco (vedi supra e GIZZI 1986). P Delogu propone l'esempio di due sepolcreti noti nell'ambito del ducato di Benevento, Vicenne nella piana di Bojano e Pratola Serra ove, accanto a caratteristici materiali longobardi, ne sono attestati altri riconducibili all'orizzonte bizantino-mediterraneo che non trovano confronti nei sepolcreti longobardi dell'ltalia del nord (DELOGU 1994, p. 11). 149 DELOGU 1994, D. 14, con bibliografia precedente citata alle note 23-24, vedi da ultimo l'eloquente caso della necropoli della Selvicciola di Ischia di Castro (M. INCITTI, La necropoli longobarda della Selvicciola, in AA.VV., New Developments in Italian Archaeology Papers of the Fourth Conference of Italian Archacology, London 1990, London 1992, pp. 213-227; ID. in questa stessa sede). 150 Vedi A. R. STAFFA, in I Bizantini in Abruzzo, pp. 45-48, ID., in STAFFA-ODOARDI 1996, pp. 184-189; STAFFA 1996d. 151 Museo Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano, inv. 1842, recupero del barone Gianbattista Leopardi (non sono disponibili i dati di scavo), STAFF-A 1992a, pp. 821-822, nota 309; I Bizantini in Abruzzo, p. 27, fig. 25, p. 45, nota 183; STAFFA 1993b, p. 335, nota 64; trattasi di un tipo Crecchio IXa, con decorazione A3 (in STAFFA 1993b, p. 335, nota 64, è riportato Va per mero errore tipografico). 152 Museo Archeologico di Penne, già Museo Civico-Diocesano, inv. 1515, recupero del barone G.B. Leopardi (non sono disponibili i dati di scavo), vedi I Bizantini in Abruzzo, p. 27, fig.26, p.45, nota 182; STAFFA 1993b, p.335, nota 63, tipo Crecchio IIb, con decorazione G2. 153 I Bizantini in Abruzzo, p. 27, STAll~A 1993b, p. 335. Il primo esemplare, una brocca monoansata (GIUNTELLA et al. 1991, pp. 303-304, figg. 34-35), è vicino al tipo Crecchio Illa, ma con piede simile a quello ad anello di un esemplare da Vasto (STAFFA 1995b, p.1120, fig. 154), decorazione simile a quella A di cui rappresenta un'ulteriore sottovariante rispetto a quelle già individuate (I Bizantini in Abruzzo, p. 47, fig. 72, STAFFA 1995f, p. 351, fig. 9 STAFFA-ODOARDI 1996, p. 188, fig. 18). Il secondo esemplare (GIUNTELLA et al. 1991, p. 305, figg. 36-37) è una brocchetta monoansata del tipo Crecchio Ic, con decorazione simile a quella G di cui rappresenta comunque una ulteriore variante. 154 In una collezione raccolta dal parroco del paese D. Ferdinando Cocco presso la locale Scuola Elementare, per lo più costituita da oggetti rinvenuti sporadicamente nel territorio arcostante, sono conservate due brocche in ceramica tipo Crecchio, Perfettamente inquadrabili nei tipi già noti della classe, e con ogni evidenza provenienti anch'essi dal corredo di una sepoltura. 155 I Bizantini in Abruzzo, p. 27, nota 125, p. 60, fig. 104, STAFFA 1995f, p. 335, nota 65; trattasi di un recupero fortuito avvenuto negli anni '80. 156 I Bizantini in Abruzzo, p. 27, nota 127, p. 45; STAFFA 1995f, p. 335, nota 67; in origine ritenuti provenienti dal territorio di Lanciano (STAFFA 1991a, pp. 338-341, nota 147 ID. 1992a, p. 821, nota 306) vengono in realtà da un rinvenimento fortuito presso la fraz. Guastameroli e sono oggi conservati nella Collezione Spoltore di Lanciano; trattasi di un'anforetta biansata dal lungo collo tubolare, con decorazione B, e di una brocca monoansata con banda orizzontale collocata nella parte più espansa del corpo globulare con motivi isolati slmih a crocl sul collo. 157 STAFFA 1995f, p. 335; ODOARDI-STAFFA 1996. 158 I Bizantini in Abruzzo, p. 45, nota 184; STAFFA 1995f, p. 335, nota 66; proviene da un rinvenimento fortuito dl cui non si conservano dati, ed è conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Chieti, inv. 4995, sch. 13/00018663, è simile ad uno dei due esemplari da Guastameroli.
159Venute in luce agli inizi del secolo nel corso degli scavi della grande necropoli italico romana lungo il tratturo LAquila-Foggia; vedi STAFFA 1991a, p. 331, nota 144, p. 338, nota 146, ID. 1992a, p. 821, nota 307, I Bizantini in Abruzzo, p. 45, nota 185; STAFFA 1995b, pp. 118-120, figg. 152, 154; trattasi di una brocchetta monoansata tipo Crecchio Ic, con decorazione O, e di un'anforetta biansata abbastanza vicina al tipo IIIa, con decorazione P 160 Samnium, p. 354, fig. 72; STAFFA 1995e, p. 197; trattasi di un vaso tipo Crecchio Illa, con decorazione Aó. 161 Nel caso di S. Polo sono costituite da spallette in lastre di pietra e copertura di tegole (STAFFA 1993b, p. 335, nota 65), e nel caso di S. Vito Chietino da strutture interamente realizzate con laterizi e tegole di reimpiego, con la brocchetta in ceramica tipo Crecchio ubicata ai piedi del defunto (STAFFA ODOARDI 1996). A S. Vito sono presenti altre inumazioni a cassone ed in semplice fossa terragna riferibili alla stessa fase (fine VI-inizi VII secolo), prive tuttavia di altri elementi di corredo ad eccezione di una sola brocchetta acroma (vedi ibidem). 162 STAFFA 1995 e, pp. 201-205. 163 STAFFA 1995e, pp. 194-196. 164 STAFFA 1995e, pp. 209-215. 165 STAFFA 1995f, pp. 348-351. 166 Museo dell'Abruzzo Bizantino ed Altomedievale, Crecchio, inv. 60405; vedi da ultimo PAROLI (a cura di) 1995, pp. 270-271, n. 5, fig. 220, dalla tomba B di Castel Trosino (o piuttosto dalla tomba 84 di Nocera Umbra), “tipico prodotto bizantino di stile internazionale del tardo VI secolo”, con precedente bibliografia. 167 Museo dell'Abruzzo Bizantino ed Altomedievale, Crecchio, invv. 60458, 60457, già edite sia pur preliminarmente in A.R. STAFFA, in 7 Bizantini in Abruzzo, p. 44, fig. 66. 168 SALVAToRE 1981, pp. 135-136, fig. Sa, tomba 8, a cassone. 169 MENIS (a cura di) 1990, pp. 365-366, fig. X.2f, rinvenuto in associazione con altri reperti databili fra la seconda metà del VI e gli inizi del VII secolo. 170 I Goti 1994, pp. 230-231, fig. III.136. 171 Museo dell'Abruzzo Bizantino ed Altomedievale, Crecchio, inv. 60406, già edita in I Bizantini in Abruzzo, p. 43, fig. 64; vedi VON HESSEN 1983, pp. 13-15, tav. 1, nn. 2-10; PROFUMO 1995, PP. 148-151, figg. 98-101 (particolarmente puntuale il confronto con la fig. 101), conservate presso il Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno. Il tipo poteva essere utilizzato come chiusura di mantelli o altri analoghi elementi di vestiario. 172 MENIS (a cura di) 1990, p. 123 fig. 11.24, dalla necropoli di Villa Lagarina presso Trento (lungh. cm 6,1); PAROLI (a cura dij 1995, pp. 304-305, fig. 248, esemplare in argento da Castel Trosino. 173 GIUNTELLA et al. 1991, pp. 280-308. ]74 STAFFA 1995e, pp. 194-195. '75 GASPARRI 1995, in particolare pp. 11-14; in Abruzzo sistemi di ricerca ed utilizzo delle fonti toponomastiche simili a quelli stigmatizzati dal Gasparri sono stati ad esempio utilizzati dal Giammarco (GIAMMARCO 1984-86), producendo quadri complessivi che sono stati anche ripresi da altri studiosi locali e si presentano del tutto inattendibili. 176 ID., P. 12. 177 ID., P. 13. 178 STAFFA 1995e, pp. 211, 220; ID. 1995b, pp. 118-120, 128-130. 179 Chronicon Farfense Gregorio Catinensi anctore, a cura di U. Balzani, Roma 1883, I, 180 Vedi le bolle di Alessandro III del 1176, e Innocenzo III del 1204, in F. UGHFLLT Italia Sacra, VI, Venezia 1720, coll. 709, 716. 181 STAFFA 1995e, pp. 213-214; STAFFA-ODOARDI 1996. 182 STAFFA 1995e, p. 218. |83 STAFFA 1995e, pp. 206-209; l'intero versante settentrionale della Majella risulta interessato da una toponomast~ca di presumibile origine longobarda capillarmente diffusa (vedi ibidem, p. 209). 184 STAFFA 1995e, p. 208. 185 Cartulario Teramano, pp S7-59, doc. XXVII, vedi supra. 186 Giorgio Ciprio, p. 54, n. 623; STAFFA 1995e, p. 192; ID. 1995C, P. 111. 187 Leofara e Vallefara sui Monti della Laga (STAFFA 1991b, p. 257, fig. 152); Fara S. Clementis, presso Guardia Vomano, a. 968, già citata; Farindola, Fara in Pinna, sec. XI; Piano della Fara presso Alanno, Fara Carpineti presso Carpineto della Nora, sec. X, Fara presso Torninparte, Fara in loco gui dicitur Campiliano, già citata (SABATINI 1963-64, pp. 150-51). Fara presso Fontanelle di Pescara, Fara de Macclis presso Loreto Aprutino e Fara de Saratico in territorio di Spoltore sono invece con ogni evidenza successive alla conquista della Val Pescara bizantina da parte dei due ducati di Spoleto e Benevento (vedi STAFFA et al. 1995). 188 PELLEGRINI 1990, p. 242. 189 Per una disamina analitica della presenza bizantina lungo la costa chietina vedi da ultimo STAFFA 1995e, pp. 209-215. 190 BLOCH 1986, pp. 901 ss., PELLEGRINI 1990, pp. 239-240, nota 39; il Sabatini (196364, p. 151) identifica questa fara con Fara Filiorum Petri, che tuttavia è ubicata sul fiume Foro e non sull'Alento. 191 Nei pressi si conserva anche il toponimo Selva Arimanna (PELLEGRINI 1990, p. 239). La specificazione Filiorum Petri non appare tuttavia attestata prima del 1275 (BLOCH 1986, p. 380; PELLEGRINI 1990, p. 240). 192 SABATINI 1963-64, p. 151, vedi Rationes Decimarum, nn. 4060, 4202, pp. 289, 293. Per questo insediamento ed i suoi stretti rapporti con l'abbazia benedettina di S. Martino in Valle vedi PELLEGRINI 1988, p. 33; ID. 1990, P. 239.
193 SABATINI 1963-64, p. 151, R.F., doc. 578 a. 1015: infra fines de Atipsa sub monticello qui est super guvium Sangrum, ubi ipsa Fara aedificata fuit, è ancora menzionata come Fara Aderami iuxta fluvium Sangrum (R.F., doc. 1298, sec. XI). Corrisponde probabilmente all'insediamento di Faram menzionato nel Catalogus Baronum, p. 251, n. 1216. 194 È attestata nell'XI secolo, vedi SABATINI 1963-64, p. 151; R.F., docc. 675, 879 1318, aa. 1027, 1050, 1118; in quest'ultimo documento è citata come Castrum Tornariciae et Pharam; è ubicabile in località Vallone Fara. 195 SABATINI 1963-64, p. 151, Ipsa fara in puvio Sonella (Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di A. Petrucci, Roma 1960, II, 51). 196 SABATINI 1963-64, p. 152 nota come Fara dè Risi = Fara Oderisii. 197 Chronicon Vulturnense, doc. 194, p. 47, a.994. Sul posto si conservano i resti di una struttura a pianta rettangolare (cm 13x20), al cui interno sono stati rinvenuti frammenti di ceramica acroma altomedievale ed un frammento di ceramica dipinta a bande. Il sito era ubicato anche a controllo del passaggio sul Trigno dell'asse viario di origine antica poi ripreso dal tratturo Centurelle-Montesecco, e vi è attestata nel 994 la presenza degli homines de Castello Manno che potrebbero essere riconosciuti come gli eredi di un gruppo di arimanni che vi si dovevano essere stanziati. Le funzioni strategiche di controllo della media Valle del Trigno da parte di questi due insediamenti dovettero infatti perpetuarsi anche nella successiva età medievale in complessi fortificati di cui si conservano ancor oggi la c.d. Torre della Fara, ed il ricordo del succitato Castellum Mannum. 198 STAFFA 1995e, pp. 209-215. 199 Annales Regni Francorum, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, VI (1895), pp. 116-117; vedi anche FALLA CASTELFRANCHI 1990, p. 203. 200 PELLEGRINI 1990, p. 244 201 PELLEGRINI 1990, P. 224. 202 STAFFA 199Se, pp. 209-215. 203Annales Regni Franconum, in M.G.H., Scrittores rerum Germanicarum in usum scholarum, VI (1895), pp. 116-117; PELLEGRINI 1990, p. 224; STAFFA 1994b, p. 218. 204 Vedi BLOCH 1986, II, pp. 901-913 ss. Del documento si conservano due versioni una delle quali più lunga trasmessa dal Chronicon Casinense (vedi E. CARUSI, 11 "Memoratorium " dell'abbate Bertano sui possessi cassinesi nell'Abruzzo Teatino e uno sconosciuto vescovo di Chieti del 938, in AA.VV, Casinensia. Miscellanea di studi cassinesi pubblicati in occasione del XFV centenario della fondazione della Badia di Montecassino, Montecassino 1929, pp. 97114). Sull'esatta cronologia della fonte vi sono incertezze, fra 1'833 (CLEMENTI 1993, p. 130) e l 868 (FATTA CASTELFRANCHI 1990, P. 203). Sulla cronologia della fonte e sulla redazione più ampia trasmessa dal Registrum Petri Diaconis vedi BLOCH 1986, Il, pp. 773-776, 901, 906 913-915. Sull'articolazione della presenza monastica cassinese nell'Abruzzo adriatico vedi da ultimo PELLEGRINI 1992, pp. I 7-22. 205 Memoratorium cit., 206 Memoratorium, cit.; BLOCH 1986b, n. 22b. 207 BLocH 1986, n. 51. 208 PELLEGRINI 1990, p. 256, nota 100; CLEMENTI 1993, p. 130. 209 Dovette accompagnarvisi un forte e conseguente stanziamento anche sul versante settentrionale della Majella, ove la presenza di gruppi longobardi si era probabilmente tradotta negli accadimenti descritti a Serramonacesca, e neI successivo passaggio di numerose proprietà all'abbazia di S. Liberatore Majella (vedi STAFFA 1995e, pp. 206-208). 210 Il sistema appare significativamente organizzato come un vero e proprio asse di penetrazione di questo territorio dalla Forca di Palena, e dall'area degli Altopiani Maggiori d'Abruzzo, zona da cui doveva essere avvenuta la progressiva espansione verso la costa dei Longobardi di Benevento dopo la caduta in loro mano di Venafro, Kástron Sámnion ed Isernia verso il 595 (vedi STAFFA 1995e, pp. 195-200), Iungo tale direttrice diramandosi nella valle dell'Aventino con lo strategico itinerario che conduceva a Chieti (S.S. 84 Frentana, S.S. 263 e tratto meridionale della S.S. 81 Picena-Aprutina), erano ubicati la maggior parte dei centri fortificatl sopracitati. 211 CLEMENTI 1993, p. l 30, concludendo tuttavia: “È difficile rispondere a questi quesiti se non In forma congetturale”. 21 Vedi per una ampia disamina della questione STAFFA 1995e, pp. 215-218, 224-226. 213 Nel 649 il vescovo Viatore poteva partecipare, unitamente a numerosi altri presuli provenienti dai territori bizantini d'Italia, alla sinodo lateranense indetta in quell'anno dal papa Martino I (UGHELLI, VI); a tale sinodo parteciparono per lo più vescovi provenienti dai territori bizantini d'Italia. Una siffatta situazione era già stata supposta da DUCHESNE 1903, pp. 401, 415; vedi al proposito PELLEGRINI l990, p. 235. Dopo quell'anno cala l'oscurità sulla chiesa ortonese, tanto che il successivo presule è noto solo nel X secolo. 214 Appare infatti probabile che il completamento del lento processo di occupazione della costa chietina da parte dei Longobardi fosse avvenuto a seguito della ripresa delle ostilità contro i Bizantini promossa dal duca longobardo di Benevento Grimoaldo I (646-671), anche a seguito del fallito tentativo di riconquista dell'Italia meridionale ad opera dell'imperatore d'Oriente Costante II (657-72) (PELLEGRINI 1990, pp. 235-236). Che la costa chietina fosse rimasta coinvolta in vicende destinate a mutarne definitivamente l'assetto politicoamministrativo appare evidente anche da un passo di Paolo Diacono, in cui si ricorda come le truppe del re longobardo Grimoaldo, accorse in aiuto del figlio duca Romualdo assediato da parte dei Bizantini a Benevento, fossero andate ad attestarsi proprio sul fiume Sangro (PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, V, 8, p. 148, righe 11-12; PELLEGRINI 1990, p. 236); vedi in proposito STAFFA 1994b, pp. 218-220.
215 I BizantiniinAbruzzo, p. 18. 216 Sono al contrario ad esempio attestate a Pescara, vedi STAFFA 1991a, p.315- cfr. ID. in I Bizantini in Abruzzo, p. 32, fig. 36. 217 I Bizantini in Abruzzo, p. 30; STAFFA 1995e, p. 214, nota 299; vedi in proposito GELICHI in GELICHI-GIORDANI 1994, p. 44. 218 Vedi STAFFA 1995f. 219 Memoratorium di Bertario di Montecassino (a.c. 868), vedi BLOCH 1986, II, pp. 903-904; PELLEGRINI 1990, P. 256, nota 101. 220 Memoratorium cit., p. 912, n. 49. 221 Memoratorium di Bertario di Montecassino, vedi BLOCH 1986, II, pp. 903-904 PELLEGRINI 1990, P. 256. Fra i suoi possedimenti anche la chiesa di S. Pietro, probabilmente da lui fondata, che ancor oggi si conserva sul sito dell'abitato di Orni, andato deserto dopo il XIV secolo. Nelle Rationes Decimarum vi è ancora attestata la presenza di un luogo di culto (nn. 3455, 3622, 4207). Vedi STAFFA 1995f, pp. 341-342, note 92-93. 222 DEL TREPPO 1956, p. 56, cita la Fara Maionis quale esempio dello strutturarsi del territorio in estese e compatte corti, nell'ambito del ducato di Spoleto, in quanto la situa erroneamente in territorio di Rieti; vedi PELLEGRINI 1990, P. 257, nota 107. Vedi anche PELLEGRINI 1992, p. 19. 223 Per quanto riguarda la documentazione toponomastica si veda il fondamentale SABATINI 1963-64. 224 STAFFA et al. 1991, pp. 656-657, sito 250. 225 STAFFA et al. 1991, p. 654, sito 134. 226 STAFFA et al. 1991, p. 655, sito 209; STAFFA et al. 1995, p. 324, sito 209. 227 STAFFA 1985b, P. 30 228 STAFFA MOSCETTA 1986, pp. 175-180. 229 SABATINI 1963-64, p. 156. 230 STAFFA 1991d, p.679: queste strutture vanno a collocarsi “su un panorama di substrati debolmente antropizzati, collegabili alla vicina presenza del complesso antico”, a cui sembrerebbero dunque, seppur di poco successivi. La tipologia d'intervento a suo tempo possibile, documentazione della situazione a sterro dei livelli sottopavimentali dell'abbazia ormai completato, ha purtroppo dovuto lasciare sul terreno, per mancanza di collegamenti nella sequenza così manomessa, il problema di una possibile continuità fra abitato romano e successivo insediamento altomedievale. Né è stato possibile chiarire se questi resti di importanza così evidente possano essere relativi ad un insediamento monastico antico o finanche ad un insediamento longobardo di cui restano tracce così cospicue nella toponomastica attestata dalle fonti fra IX e X secolo. 231 SABATINI 1963-64, pp. 143-145: localizzati nel Teramano, nella Valle del Vomano. Nel Pescarese a Cugnoli, loc. Colle Scurcola; a Popoli, Monte Scuncole. Nell'Aquilano a Celano, Scurcole; a Scurcola Marsicana nel Fucino. 232 SABATINI 1963-63, pp. 150-151. Il toponimo è attestato: nel Teramano a Valle Fara e Leofara di Valle Castellana; nel Pescarese a Farindola (Fara in Pinna, sec. XI); a Piano della Fara di Alanno; a Carpineto della Nora dove le fonti conservano memoria di unaFara Carpineti (sec. X), in località Fara di Bolognano (a. 875), nell'Aquilano in località Fara di Torninparte a Corfinio, ove le fonti ricordano (a. 1061) una Fara in loco qui dicitur Campeliano; per il Chietino vedi supra; in area rimasta bizantina sino alla metà del VII secolo sono inoltre attestate presso Lanciano una Fara filiorum Bedorochi (aa. 1176, 1195) e presso Fossacesia una Fara Filiorum Uberti (1176), forse riferibili ad un momento successivo a quello del primo insediamento (vedi STAFFA 1995e, pp. 219-220). 233 SABATINI 1963-64, pp. 153-158: Nell'Aquilano, in località Sala Rossa di Cagnano Amiterno, nei pressi di Carsoli, ove le fonti ricordano una Cortem quae Sala dicitur (aa. 85867). Nel Teramano, a Guardia Vomano, ove le fonti conservano memoria dell'esistenza di una Curtis de Sala. Nel Pescarese, in località Colle della Sala di Alanno. 234 SABATINI 1963-64, p. 165: Rivisondoli nell Aquilano. 235 SABATINI 1963-64, pp. 180: toponimi del genere sono attestati nel Teramano nei pressi di Teramo (a. 1000)- nel Pescarese a Spoltore (aa. 1324-28), nell'Aquilano a Carapelle (a. 779), a Trasacco (a. 967), a Sulmona (a. 1273), per il Chietino vedi supra ed inoltre Rocca Spinalveti (aa. 1324-25). 236 SABATINI 1963-64, p. 187: nel Teramano a Valle Castellana, loc. Valle del Cafaio; alla foce del Vomano (a. 968: Cafagio in comitato pinnense). Nell'Aquilano a Poggio Cancelli, loc. Cafai, a Montereale, loc. Cafaio, ad Amiternum (a. 986: Cafagium in territorium amiterninum); a Sulmona, loc. Fonte Cafaggio. 237 SABATINI 1963 -64, pp.194- 195: nell'Aquilano, ad Aringo loc. Staffoli. Nel Teramano presso Corropoli (a. 1265-81: Stuffilis), presso Bisenti (a. 1324: Lu Stufilu). Nel Pescarese, presso Popoli (a. 1138: Stuffilum inter montes); sulla Maiella (sec. IX: Stufilum de MaJella). 238 Si rivia ad uno studio attualmente in corso da parte di chi scrive e di S. Pannuzi. 239 FELLER 1985, P. 167, nota 36. Per questo monastero, recentemente interessato da estese indagini di scavo, vedi PALMA, IV, PP. 484-497, PANNUZI STAFFA 1996b, pp. 365-374. 240 Vedi STAFFA 1995e, p. 231, fig. 3, n. 51; p. 232, fig. 4, n. 51. 241Vedi in proposito PETRONE-SIENA-TROTANO-VERROCCHIO 1994; S-rAFFA 1995e, pp.201 205; STAFFA et al. 1995, E. SIENA, Sigillate africane ed orientali dalla Val Pescara, D. TROIANO V. VERROCCHIO, Imitazioni di sigillate africane ed orientali dalla Valle del Pescara, in Ceramica in Italia, c.s. 242 Per una disamina analitica della questione vedi STAFF-A 1995e, pp. 201-202; fra gli altri bem, costltuentl nel loro Insleme un amDIto compatto e terrltorlalmente molto omogeneo ricordiamo S. Giustino in Siberano, menzionata ancora
nel 1323 fra i beni del Vescovo di Chieti come S.Justinus de Sculcula (STAFFA et al. 1995, sito 101, p.312), S. Pietro de Lasteniano, ubicata presso resti di abitato romano ed altomedievale in località Astignano di Pianella (STAFFA et al. 1991, p. 659, STAFFA et al. 1995, p. 307, sito 64), ed infine il casale Castellare forse riconoscibile come Castellana di Pianella (FELLER 1985, PP. 168-169; i suoi abitanti furono trasferiti a Sculcula). 243 Vedi KURZE-CITTER 1995, pp. 167-169. 244 STAFFA l995e, p. 194. 245 PAOLO DIACONO, Historia Lar1gobardorum, STAFFA 1995, P. 220. 246 STAFFA 1991a, P. 315.
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La necropoli longobarda di Nocera Umbra: una sintesi 1. Il sito 1.1 La posizione naturale Nocera Umbra si trova nel territorio montagnoso-collinare umbro del medio Appennino, a circa 40 Km a nord-est di Spoleto. Il centro stesso si eleva a 548 metri sopra la valle del Topino, un affluente del Tevere. Dal punto di vista geologico Nocera sorge al margine di un bacino carsico di forma ovale allungata, con terreni caratterizzati da depressioni carsiche di tipo tettonico (tipo polja), scarsamente fertili 1. Questa situazione poco favorevole del suolo e del clima, tipico di un bacino appenninico interno, caratterizzato da scarse precipitazioni, fa pensare che i fattori ambientali non siano all'origine dell'insediamento di Nocera Umbra. 1.2 L'ubicazione della necropoli e la topografia del sito La necropoli di Nocera Umbra si trovava a circa 600 metri di distanza in linea d'aria dall'attuale paese di Nocera Umbra, sotto il colle Castellano (m 560), in località "Il Portone" (Fig. 1). Il pianoro sul quale si estendeva il cimitero è in leggero pendio verso nord-est. La distanza relativamente grande che separa la necropoli dall'abitato odierno di Nocera Umbra, da dove il sito non è visibile, ha fatto sorgere dei dubbi, fin dalla prima pubblicazione, sulla effettiva pertinenza della necropoli al centro odierno 2, L'insediamento longobardo di Nocera Umbra non si trovava comunque in posizione isolata, ma rientrava in un gruppo di piccole unità insediative poste a breve distanza, di carattere ed etnia diversi 3. Dal punto di vista dei collegamenti stradali, Nocera Umbra sorge sulla Via Flaminia, costruita negli anni 220-219 a.C. come principale arteria di collegamento tra Roma e Ravenna. In relazione con questo importante asse stradale il sito è nominato anche nelle fonti storiche 4. 2. Struttura della necropoli 2.1 La necropoli La necropoli di Nocera Umbra è articolata in almeno quattro zone chiaramente distinte tra loro (Fig. 2). Queste zone sono state di solito interpretate come aree pertinenti a famiglie o gruppi famigliari. L'analisi del cimitero ha dimostrato che all'origine delle zone non vi sono motivi di ordine cronologico o sociologico. All'interno delle quattro zone si rileva con chiarezza una netta differenziazione di ordine sessuale che appare con particolare evidenza nelle zone II, III e IV (Fig. 3). 2.2 Struttura delle tombe e carattere delle deposizioni Le 165 tombe, con un totale di 169 deposizioni, erano costituite da fosse rettangolari, con orientamento ovest-est, e contenevano strutture di legno. I defunti giacevano prevalentemente supini. Considerata la completezza e la ricchezza dei corredi funerari, si può escludere che le tombe siano state saccheggiate sistematicamente in antico. 3. I corredi funerari
La trattazione generale dei corredi funerari di una necropoli può essere affrontata dal punto d vista sociologico, etnico e culturale. In questa occasione verranno considerate in particolare le principali combinazioni dei corredi. Gli oggetti di corredo della necropoli di Nocera Umbra comprendono sia elementi dell'abito (ad esempio le fibule, gli spilloni, la cintura) che "offerte funebri" vere e proprie, quali l'equipaggiamento da cavaliere e le armi per gli uomini, gli oggetti di ornamento per le donne. Oltre a ciò vi sono i vasi e gli arnesi, deposti indifferentemente nelle tombe maschili e femminili, senza distinzione di sesso. 3.1 Il corredo maschile (Fig. 4) La spatha può essere identificata nel 95,7% delle tombe dei maschi adulti di Nocera Umbra, costituendo un elemento fisso del corredo mentre manca nelle tombe dei bambini o degli adolescenti. Lo scudo si trovava nel 78,7% di tutte le tombe maschili ed era di regola combinato con la spada lunga. Armi complementari variabili erano la lancia e le frecce. L'armamento supplementare con corazza, elmo e arco riflesso può essere considerato senza dubbio come un "iperarmamento" e pertanto deve essere interpretato in chiave preminentemente sociologica 6, Il corredo di ceramica manca solo nelle tombe degli uomini adulti 7. Equipaggiamento da cavaliere, spatha e scodo mancano solo nelle tombe dei bambini. Nelle tombe infantili e degli adolescenti le armi più frequenti erano le frecce, che si trovano invece raramente nelle tombe degli uomini adulti. A Nocera Umbra pertanto si individuano precise combinazioni di corredo in rapporto all'età del defunto. Tutti gli altri doni funebri, costituiti da elementi dell'abito, arnesi, cibi e monete o altri oggetti personali sono variabili e non sottostanno a nessuna regola precisa. 3.2 Il corredo femminile (Fig. 5) Nel complesso il corredo femminile non appare così unitario come quello maschile. Manca nelle tombe femminili un complesso di doni che ricorra con la stessa frequenza della spada e dello scudo. Nessun accessorio dell'abito delle donne può essere considerato a Nocera Umbra come normativo. L'analisi cronologico-antiquaria 8 ha messo in evidenza che durante il periodo d'uso di Nocera Umbra si osserva un cambiamento generale del costume, che passa da quello con più fibule a quello con una sola fibula, e si conclude con l'abbandono completo delle fibule. Con l'immigrazione in Italia le donne longobarde abbandonarono i costumi funerari di stampo etnico e accolsero la realtà locale autoctona. Sia tra le tombe con fibule che tra quelle che ne sono prive si riconoscono due gruppi di corredi: il primo gruppo è rappresentato dalle tombe con ornamenti più ricchi e con numerosi doni variabili 9, il secondo dalle tombe con corredo completamente ridotto 10. Non sembra però che questa riduzione abbia un'origine sociologica, come dimostrano alcuni corredi pregiati presenti nel secondo gruppo 11. Le tombe con corredo ridotto che contiene le fibule non hanno più alcuna relazione temporale con la generazione degli immigrati. Esse si possono attribuire al periodo intorno al 600 o agli inizi del VII secolo. Le tombe con fibule e con ornamenti più ricchi e molti oggetti variabili appartengono invece sia alla generazione degli immigrati che al periodo intorno al 600. Ciò sembra indicare che la riduzione del corredo ha una valenza temporale. Un confronto della combinazione dei corredi femminili di Castel Trosino 12 con quelli di Nocera Umbra mostra chiare differenze (Fig. 6): a Castel Trosino, innanzi tutto, prevalgono altri tipi di fibule, come ad esempio le fibule a disco e le piccole fibule di tradizione romana; inoltre vi ricorrono gli spilloni posizionati sul petto: essi erano perciò utilizzati come chiusura del mantello. A Nocera Umbra, al contrario, gli spilloni si trovano usati quasi esclusivamente come aghi crinali. La deposizione di grani di collana è praticata con la stessa frequenza nelle due necropoli. Le armille, gli orecchini e gli anelli sono molto più frequenti a Castel Trosino, a differenza delle altre offerte
variabili che vi sono rappresentate in misura molto limitata. Le spade da telaio e l'offerta di cibi mancano del tutto ed anche altri arnesi sono rari. Le differenze rilevate stanno ad indicare che a Nocera Umbra le donne erano sepolte con corredi funebri di composizione diversa. 4. Ricerche sull'acculturazione L'immigrazione in Italia non ha avuto come conseguenza semplicemente una occupazione territoriale frantumata, a carattere militare; essa infatti ha portato i Longobardi a contatto con l'area di diretta influenza della cultura mediterraneo-bizantina. Le tombe della Romanitas si distinguono da quelle longobarde per alcuni tratti specifici. L'elemento caratterizzante è la massiccia assenza del corredo che viene meno solo in pochi casi. Tratti distintivi delle tombe che hanno eccezionalmente un corredo sono i seguenti: - mancanza del corredo di armi; - accessori del costume mediterraneo collocati nella posizione che è propria di quel costume; - tipologia delle fosse, con muretti a secco, rivestimento di lastre, sostegni per la testa, deposizioni multiple 13. Una analisi del possibile processo di acculturazione, vale a dire dell'assunzione del costume autoctono, deve essere condotta separatamente per le tombe maschili e quelle femminili, visto che le ricerche sulla necropoli di Castel Trosino hanno dimostrato che il processo di romanizzazione influisce in modo diverso sul costume femminile e sul costume maschile. 4.1 Significato etnico delle tombe maschili L'alta percentuale delle tombe con armi depone in modo univoco a favore di una presenza longobarda a Nocera Umbra. 4.2 Significato etnico delle tombe femminili Il tipico costume femminile longobardo caratterizzato dalle fibule ad arco e a S, dai pendenti di cintura, dalle spade da telaio e dalle offerte alimentari indica che il 72,5% di tutte le sepolture femminili di Nocera Umbra sono di donne longobarde. Il diverso modello di deposizione delle tombe femminili di Castel Trosino, dove solo il 13,2% delle donne adulte presentava elementi del costume tipico longobardo, deve essere ricondotto ad un influsso romano o ad una presenza d~ donne romane. Il corredo di armi, anche se non molto frequente, prova che anche a Castel Trosino uomini longobardi sono stati sepolti fino alla fase più recente. Le donne che si trovano in relazione con gli uomini che si mantengono fedeli alle tradizioni longobarde, non sono più riconoscibili in modo univoco come longobarde sulla base del costume, come dimostrano le combinazioni delle offerte funebri. Pertanto a Castel Trosino il processo di acculturazione deve aver avuto luogo, a quanto pare, molto precocemente. Il dato più importante, che segnala un adattamento alle usanze locali, è il già descritto passaggio al costume con una sola fibula, al costume ridotto e alle offerte variabili. C'è da chiedersi se a Nocera Umbra siano individuabili processi analoghi. 4.3 Possibili processi di acculturazione a Nocera Umbra Riassumendo, si possono riconoscere i seguenti tipi di corredo delle tombe femminili di Nocera Umbra:
1) costume tipicamente longobardo con fibule ad arco longobarde e numerose offerte funebri variabili 14; 2) costume tipicamente longobardo con fibule ad arco longobarde e una piccola parte di offerte variabili 15; 3) costume di tipo romano con mantello e ricco corredo variabile di tradizione longobarda come la spada da telaio, i pendenti di cintura e i cibi 16; 4) corredo di tradizione longobarda con ricche offerte funebri, ma privo di fibule 17; 5) corredo ridotto con offerta di cibi, inusuali combinazioni con elementi del costume romano oppure con elementi del costume longobardo indossati secondo il costume romano 18; 6) corredo ridotto, non definibile etnicamente 19. Sulla base di questa tipologie di corredi si può individuare il seguente sviluppo a Nocera Umbra: le tombe che appartengono con sicurezza alla prima generazione sepolta in Italia, sono corredate ancora dal costume longobardo integro e da numerose offerte funebri variabili. Un primo influsso romano si rivela nella assunzione del costume romano del mantello, che nelle tombe 11, 17 e 150 appare ancora in combinazione con le fibule ad arco longobarde. Sulla base delle fibule ad arco si può affermare che ancora nel periodo attorno al 600 - e probabilmente anche fino al primo decennio del VII secolo, se si tiene conto della fibula ad arco di stile della tomba 162 - si mantiene il costume longobardo. Tuttavia le offerte variabili si riducono e fanno il loro ingresso accessori dell'abito e gioielli che hanno la loro radice nell'ambiente romano. Soprattutto nell'ultimo terzo del VI secolo e negli anni intorno al 600 si possono datare le tombe che sono fornite di doni funebri di tradizione longobarda e di numerose offerte variabili, ma che sono prive delle fibule ad arco. Tra le tombe del quinto e del sesto tipo di corredo, che non sono più databili con precisione a causa della riduzione del corredo, si celano le tombe più recenti: di conseguenza nella riduzione del corredo si riflette anche un'evoluzione cronologica. Pertanto a Nocera Umbra è accertato lo sviluppo tendenziale verso un progressivo abbandono del costume e del corredo funerario longobardo. A Nocera Umbra dunque il processo di acculturazione si presenta in forma diversa che a Castel Trosino dove i Romani presenti erano probabilmente superiori numericamente ai Longobardi ed hanno potuto perciò esercitare su di essi un'influenza determinante 20, In conclusione si può però constatare anche a Nocera Umbra un'influenza romana, anche se non così chiara, sulla base dei seguenti elementi: 1) mutamento dell'abito in direzione del costume con una sola fibula; 2) introduzione di ornamenti nel corredo; 3) diminuzione delle offerte variabili e abbandono di elementi del costume longobardo. Poiché tuttavia a Nocera Umbra non è ancora compiuta la transizione al seppellimento regolarmente privo del corredo che è proprio delle tombe romane, si può ipotizzare solo un'acculturazione parziale nel periodo d'uso della necropoli. La presenza romana a Nocera Umbra è da escludere ampiamente, per i seguentl motıvl: 1) le tombe senza corredo sono quasi inesistenti nella necropoli; 2) non è documentata alcuna tomba di tipologia tardo-romana (ad esempio le tombe con le pareti rivestite di lastre o con i muretti a secco) né alcuna deposizione di tradizione romana (ad esempio le sepolture multiple); 3) mancano uomini romani, poiché quasi tutte le tombe che si possono considerare tombe maschili mostrano un ricco armamento; 4) il numero delle tombe che non sono differenziabili etuicamente è molto piccolo. 5) Cronologia relativa e fasi delle deposizioni
5.1 Le tombe maschili (Fig. 7) La rielaborazione cronologico-antiquaria dei singoli reperti mostra che questi si possono suddividere in tre fasi. Questa tripartizione è il risultato delle ricerche comparative basate su materiale meglio datato: essa ha dunque origine esterna alla necropoli, ma tiene conto in particolare delle tombe italiane 21, Altri metodi utilizzabili per l'articolazione cronologica di un cimitero sono la fasizzazione delle deposizioni (stratigrafia orizzontale) e la valutazione combinatoria. Per la necropoli di Nocera Umbra l'analisi della cronologia delle deposizioni è resa difficile dalla struttura di base del cimitero che è stato realizzato in quattro zone separate tra loro. D'altro canto la valutazione combinatoria dei materiali tombali è impedita dal fatto che, malgrado l'abbondanza dei reperti, quelli suscettibili di essere combinati tra loro e significativi dal punto di vista cronologico sono pochi. Il primo e più antico gruppo di tombe maschili è caratterizzato da guarnizioni di cintura con placche triangolari, punte di lancia del cosiddetto tipo Nocera Umbra, umboni di scado a calotta schiacciata con il bottone apicale, placchette di spatha tipo Weibmorting, padelle di bronzo martellato, placche di cinghia decorate a punti e virgole. Tipico per il secondo gruppo di tombe maschili sono le guarnizioni di cintura multipla completa con decorazione a punti e virgole in metallo prezioso, i bottoni piramidali di osso, gli umboni di scudo con calotta ampia, che termina a punta e gli umboni di scudo con calotta semisferica accentuatamente arrotondata. Guarnizioni di cinghe con decorazione ageminata a volute compaiono isolatamente, mai comunque come guarnizione completa. Diviene frequente l'agemina a celle strette. Distintivi per la fase di transizione tra il secondo e il terzo gruppo sono le guarnizioni di spatha in ferro, senza decorazioni. Per il terzo gruppo sono diagnostiche le guarnizioni multiple con agemina a volute. Anche i ScEmalsaxe ricorrono in quantità maggiore. La elaborazione antiquaria dei reperti ha già evidenziato che questi tre gruppi sono separati anche sul piano cronologico. Così il gruppo 1 è distintivo per l'orizzonte della generazione degli immigrati (Fase D, il gruppo 2 è distintivo del periodo del tardo VI e degli anni intorno al 600 (Fase II). Il gruppo 3 corrisponde alla fase più recente del cimitero (Fase III), che sulla base degli oggetti-guida può essere datata nei primi decenni del VII secolo. Una mappatura delle tombe maschili databili mostra che in tutte le zone cimiteriale si è cominciato a seppellire contemporaneamente. Nelle zone 1-3 prevalgono le tombe delle fasi I e II mentre le tombe della fase III si trovano prevalentemente nella zona 4 (Figg. 8-10). 5.2 Le tombe femminili (Fig. 11) Le tombe femminili non sono valutabili con il metodo combinatorio. I corredi infatti sono composti da un lato di materiale di lunga durata, inadatto per una partizione cronologica delle tombe, dall'altro da singoli oggetti non deposti in serie e pertanto non adatti ad essere combinati. I tipi di fibule della generazione dell'invasione individuano la prima fase delle sepolture femminili di Nocera Umbra, le fibule di produzione italiana individuano la seconda fase di deposizione. Le fibule a disco o i loro sostituti sono caratteristici della seconda fase. Le guarnizioni d'argento dei pendenti delle fibule e del fodero del coltello, che appartengono ancora alla tradizione preitaliana, vengono portate fino al periodo intorno al 600. Gli orecchini entrano a Nocera Umbra solo a partire della seconda fase di deposizione. Le collane del gruppo combinatorio C con molte piccole perle non hanno ugualmente più nessuna relazione con la generazione dell'invasione. Rimane problematica la datazione delle tombe femminili che non contengono fibule. Qui solo singoli oggetti databili forniscono indicazioni sull'inquadramento cronologico.
Di conseguenza, le tombe che contengono materiale non utilizzabile dal punto di vista cronologico debbono appartenere in linea di massima alla fase di deposizione più recente. La riduzione del corredo contestualmente all'assunzione del costume o del rituale funerario romano, così come l'aumento dei corredi di ceramica sono tutti elementi distintivi della fase di deposizione più recente a Nocera Umbra. Un ulteriore argomento a sostegno di questa ipotesi è il fatto che le tombe femminili con corredi ridotti si trovano prevalentemente nella zona IV di deposizione, che secondo i dati delle tombe maschili contiene chiaramente in prevalenza tombe della terza ed ultima fase. 5.3 Successione delle fasi di deposizione (Fig. 12) Anche la mappatura delle tombe femminili databili conferma che in tutte e quattro le aree l'attività funeraria è cominciata contemporaneamente. La successione delle deposizioni, come emerge anche dalle tombe maschili, trova conferma nelle tombe femminili: nella IV zona le sepolture sono state praticate soprattutto nella II e nella III fase. 5.4 Fine dell'uso della necropoli Dal punto di vista della cronologia relativa la fine dell'attività funeraria a Nocera Umbra si coglie con particolare chiarezza dalle tombe maschili. Nel cimitero mancano sia le cinture molteplici ageminate a spirali di carattere evoluto che quelle in II stile animalistico, oltre agli speroni ageminati in coppia e agli umboni di scudi a calotta alta con decorazione al centro. Questo orizzonte è definito in modo particolarmente chiaro dal piccolo gruppo di sepolture di Trezzo sull'Adda, che sono databili con precisione. In particolare la tomba 5 di Trezzo è rappresentativa di questo orizzonte. Essa può essere datata su base antiquaria e numismatica nel secondo quarto del VII secolo 22, La fine dell'attività funeraria nella necropoli di Nocera Umbra può essere circoscritta meno chiaramente sulla base delle tombe femminili. Dal punto di vista della cronologia relativa la necropoli di Nocera Umbra esce di uso prima che le donne sia completamente romanizzate. Nella fase di deposizione più recente di Castel Trosino, che abbraccia il secondo quarto del VII secolo, non è più possibile una distinzione tra donne longobarde e donne romane. L'attività funeraria di Nocera Umbra si interrompe perciò ancora prima delI'inizio del secondo quarto del VII secolo. CORNELIA RUPP
1 F. TICHY, Italien, in W. STORKEBAUM (ed.), Wissenschaftliche Ldnderbunde, vol. 24 1985, P. 37 SS. 2 A. PASQUI-R. PARIBENI, La necropoli barbarica di Nocera Umbra, Monumenti Antichi della Reale Accademia dei Lincei, 25, 1918, P. 352. 3 A 100 metri dalle mura medievali di Nocera Umbra, in Piazza Medaglie d'Oro, furono scoperte nel 1953 quattro tomhe altomedievali: O. VON HESSEN, II rituale funerario longobardo e i rinvenimenti di Nocera Umbra, in 11 territorio nocerino tra protostoria e altomedioevo, Nocera Umbra 1985, P. 106 SS.; M.C. PROFUMO, La necropoli di Nocera Umbra (Piazza Medaglie d'Oro), in L. PAROLI (ed.), La necropoli altomedievale di Castel Trosino. Bizantini e Longobardi nelle Marche, Cinisello Balsamo 1995, p. 327 SS. Solo a due chilometri in linea d'aria da Nocera Umbra fu scavato nel 1976 un cimitero romanzo comprendente 41 tombe: O. VON HESSEN, 11 cimitero altomedievale di Pettinara-Casale Lozzi (Nocera Umbra), Quaderni del Centro per il collegamento degli studi medievali e numismatici dell'Università di Perugia, 3, Firenze 1978. 4 Bibliografia completa in G. SIGISMONDI, Nuceria in Umbna. Contributi per la sua storia dalle origini all'età fendale, Foligno 1979, P. 65 SS. 5 Cfr. op. cit. a nota 2, p. 138 ss. 6 RGA II, p. 436, s.v. Bewaffung (K. Raddatz). 7 Che questo insolito costume funerario sia circoscritto solo a Nocera Umbra, lo dimostra chiaramente la presenza di ceramica in tombe di uomini adulti a Castel Trosino, ad esempio nelle tombe 90 e 111: R. MENGARELLI, La necropoli
barbarica di Castel Trosino, Monumenti Antichi della Reale Accademia dei Lincei, XII, Roma 1902, p. 267 ss., fig. 143, p. 276, n. 7. 8 C. RUPP, Das langobardische Graberfeld zon Nocera Umbra, Dissertazione inedita, Bonn 1994, p. 31 ss. Cfr. inoltre EAD. La necropoli longobarda di Nocera Umbra (loc. il Portone): I'analisi archeologica, in L. PAROLI (ed.) Umbria Longobarda. La necropoli di Nocera Umbra nel centenario della scoperta, Catalogo della mostra, Nocera Umbra 1996, Roma 1996, p. 26 ss. 9 Tombe 11, 13, 17, 21, 22, 23, 29, 31, 54, 60, 64, 66, 68, 83, 87, 100, 150, 160. 10 Tombe 2, 3, 12, 24, 2S, 37, 41, 45, 46, 94, 95, 104, 116, 118, 128, 136, 144, 162. 11 La tomba 164, per esempio, ha solo pettine e orecchini, ma questi ultimi sono rappresentati da una coppia molto preziosa in oro, a forma di colomba. 12 Cfr. op. cit. a nota 7, p. 145 ss.; L. PAROLI, La necropoli di Castel Trosino: un riesame cnuco, in L. PAROLI (ed.), La necropoli altomedievale di Castel Trosino. Bizantini e Longobardi nelle Marche, Cinisello Balsamo 1995, p. 197 ss. 13 BIERBRAUER, Die germanische Aufsied lung d es ostlichen und mittleren Alpengebietes in 6. und 7. Jabrbundert aus arcEdologischer SicAt, in H. BEUMANN-M SCHROEDER (eds.), FrnEmittelalterliche Ethnogenese in Alpenraum, “Nationes”, 5, 1985, p. 11 ss., in particolare p. 13 IDEM, Zum Stand archàologischer SiedlungsforscLung in Oberitalien in Sbdtantike und fruben Mittelalter (5.-7. Jabrbundert), in K. FEHN (ed.), Genetische SiedlungsforscLung, M`tteleuropa und seinen Nacbbarraumen, 2, 1988, p. 637 ss., in particolare p. 640 s. 14 Tombe 23, 100, 13, 11, 87, 29, 22, 17, 150, 21, 10, 148, 4, 157. 15 Tombe 37, 104, 162, 2, 3, 68. 16 Tombe 39, 10, 107. 17 Tombe 54, 60, 63, 64, 66, 69, 96, 99, 112, 128, 140, 144, 160. 18 Tombe 12, 33, 83, 85, 95, 113, 114. 19 Tombe 24, 25, 35 41, 45, 46, 53, 55, 56, 62, 78, 80, 81, 94, 101, 102, 108, 116, 20 Cfr. su questo punto la discussione V. Bierbrauer-M. Martin: V. BIERBRAUER FruEgeschicEtliche Akkulturationsprocesse in der germanischen Stuaten am Mittelmeer (Westgoten, Ostoten Langobarden) aus der Sicht des Archaologen, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull'altomedioevo, Spoleto 1980, p. 89 ss.; M. MARTIN, Grabfunde des 6. Jabrbunderts aus derKirche St. Peter und Paul in Mels S.G., “Archaologie der Schweiz”, 11, 1988, 4, p. 167 ss. 21 Cfr. op. cit. a nota 8. 22 E. ROFFIA (ed.), La necropoli longobarda di Trezzo sull'Adda, Ricerche di Archeologia Altomedievale e Medievale, 12-13, Firenze 1986, p. 83 ss.
I corredi funebri nella Toscana longobarda nel quadro delle vicende storico-archeologiche del popolamento 1. Impostazione del problema 1.1 Premessa metodologica L'uso di seppellire i morti con oggetti della vita quotidiana ricompare in Toscana nella piena età imperiale, fra la fine del III e gli inizi del IV secolo, seppure in un contesto prevalente di deposizioni senza corredo 1. I tipi principali di inumazione sembrano essere la tomba alla cappoccina e la tomba a fossa, per lo più rivestita di lastre. Fra questa parentesi e l'età longobarda abbiamo al momento solo alcuni sporadici elementi riferibili al V e al VI secolo, tutti inquadrabili nell'ambito della sfera militare e/o della presenza gota 2. Lo status dell'archeologia di età longobarda in Toscana è a prima vista scoraggiante: i rinvenimenti di necropoli sono spesso occasionali, incompleti, senza adeguata documentazione 3. La necropoli urbana di Roselle non è stata completata e la parte scavata è ancora inedita 4; di Chiusi e Lucca sappiamo molto poco. Se poi passiamo al versante dell'insediamento, ad eccezione di qualche intervento su siti altomedievali non collegabili a coeve necropoli, non esiste niente di disponibile. Credo che sia una questione di onestà dichiarare a chiare lettere le basi di partenza 5. Nonostante tutto, penso che si possano fare alcune osservazioni. Questo contributo non vuole e non può esaurire i molteplici stimoli che la pur esigua documentazione archeologica permette, pertanto intendo soffermarmi solo su alcuni aspetti in particolare la struttura sociale e il rapporto fra le necropoli e l'insediamento. L'area in esame è sostanzialmente la Toscana attuale, con alcuni sconfinamenti a sud negli antichi territori di Castro e Tuscania che storicamente facevano parte della Tuscia longobarda. Negli anni '70 Otto von Hessen ha dato il primo grande impulso allo studio delle necropoli toscane, con due contributi che raccoglievano i dati a disposizione in quegli anni 6. Da allora sono apparsi numerosi studi specifici che hanno arricchito il panorama 7. È sufficiente anche solo un'occhiata ai cataloghi del von Hessen per rendersi conto che il materiale toscano è veramente molto poco, rispetto a quello di altre regioni 8, Assenza di evidenza o evidenza di assenza? Se si trattasse di capanne, ceramica o altro materiale che non ha mai attirato l'interesse di eruditi e dilettanti propenderei per la prima ipotesi, ma poiché anche nelle più confuse relazioni di scavo o di rinvenimenti fortuiti la presenza di oggetti in metallo, anche decontestualizzati, è sempre stata segnalata, ritengo che il dato sia comunque meritevole di approfondimento. Anche se la necropoli di Arcisa e le ancora ignote necropoli di Lucca venissero scavate integralmente il dato forse non cambierebbe nella sostanza. La differenza con le regioni della Langobardia maior potrebbe essere imputato ai tempi e ai modi della conquista longobarda della Tuscia, così come gli storici oggi li propongono 9. 1.2 Le fasi della conquista longobarda: le recenti posizioni storiografiche L'impostazione scientifica del problema si deve a F. Schneider, che agli inizi del secolo raccolse la già ricca produzione fornendo un quadro di riferimento che ha fatto poi da manuale per tutti gli studi successivi fino agli anni '70 quando Conti riprese e approfondì l'argomento 10. In base a recenti studi è possibile definire con maggiore precisione le fasi della conquista (Fig. 1) 11. I centri promotori furono Lucca, Chiusi, Siena e forse anche Firenze. In un primo momento Lucca si espanse ai danni di Pisa, Pistoia e Volterra arrivando a minacciare Populonia, di cui però inglobò parte del territorio solo in un secondo momento. Una terza fase vide l'espansione verso il rosellano ed il sovanese, a più tappe, conclusa con la definitiva conquista della Tuscia ad opera di Agilulfo nei primi anni 12. Chiusi diresse la sua conquista verso ovest, prendendo prima la zona amiatina e poi arrivando a minacciare il rosellano: I'enclave chiusina presso Castiglione della Pescaia, sulla costa, è
un residuo di questa iniziativa militare. Lucca e Chiusi dunque si incontrarono nella zona collinare immediatamente a nord della pianura grossetana, presso Vetulonia e Giuncarico. È probabile che verso il sud sovanese oltre a Lucca fosse interessata anche Siena e la stessa Chiusi. I sistemi difensivi bizantini lungo la costa ressero bene e non sembra irragionevole proporne un abbandono a seguito della prima pacificazione degli inizi del VII secolo (Fig. 2) 113. La frontiera interna lungo lo spartiacque fra Ombrone e Albegna funzionò invece forse per 20/30 anni fino all'azione di Agilulfo (Fig. 3). Per quello che interessa in questa sede, possiamo quindi affermare che gran parte dell'attuale Toscana non venne in stabile possesso longobardo prima della fine del VI, inizi del VII secolo, mentre solo alcune isole come Lucca e Chiusi erano già state prese negli anni '70. Vedremo di seguito che il dato materiale concorda pienamente con questa ricostruzione. 2. I corredi funebri in Toscana fra fine VI e VII secolo d.C.: inquadramento crono-tipologico 2.1 Il corredo delle tombe maschili Le Figg. 4-5 mostrano una sintesi dei rinvenimenti riferibili alla sfera maschile, sia che si tratti di armi, sia che si tratti delle guarnizioni per cintura. Nella maggior parte dei casi queste non sono complete, ma si possono fare ragionevoli supposizioni sul numero minimo attestato in base alle parti che si conservano. È ovvio che questa statistica ha solo valore indicativo, proprio per la mancanza di qualunque criterio nel modo in cui i corredi sono giunti a noi, ma credo che i dati che fornisce siano in sintonia con quanto sostenuto dagli storici. In primo luogo, dal grafico a Fig. 4a emerge la scarsità di guerrieri. Questo dato potrebbe essere modificato sensibilmente nel futuro, ma forse l'occupazione militare della Tuscia non dovette significare l'arrivo di molti soldati. Era sufficiente controllare le città, o ciò che ne era rimasto, i castra più importanti come Piazza al Serchio, mentre nelle campagne sono sostanzialmente assenti elementi militari. Comparando il grafico a Fig. 4a con quello a Fig. 4b emerge chiaramente la presenza di un ceto longobardizzato diffuso in tutta la regione, ma con alcuni distinguo. Al sud (Fig. 5) mancano quasi completamente sepolture di cavalieri e di armati. L'area dei tufi di Castro e Sovana non è un'eccezione perché, come è stato recentemente proposto, può rientrare nell'ambito dei presidi di frontiera anche dopo la pacificazione degli inizi del VII secolo 14. Andando ad analizzare più nel dettaglio gli oggetti riferibili all'abbigliamento maschile, notiamo, pur nella frammentarietà dei dati, l'emergere di Lucca e Chiusi, in piena sintonia con le fonti documentarie: la creazione dei ducati deve aver implicato anche un più consistente stanziamento di guerrieri di alto rango. Gli scudi da parata sono infatti strettamente connessi a sepolture privilegiate in situazioni strategiche: Pisa, Lucca, Chiusi, Piazza al Serchio e all'estremità meridionale La Selvicciola 15. Pisa, Lucca e Chiusi sono anche le uniche località con deposizioni ricche (in tutto 5 comprendendo anche Marlia) 16. L'assenza di armi all'opposto non implica assenza dell'elemento germanizzato, come vedremo più avanti. Le guarnizioni per cintura utilizzata per sospendere il sax e/o la spada, sono infatti indicatori importanti. Le guarnizioni per cintura sono state divise in due grandi raggruppamenti: _ e guarnizioni quintuple; - le guarnizioni multiple. Per le prime esiste ormai una vasta letteratura 17, ma forse si può dire qualcosa di più preciso per il materiale toscano (Fig. 6). È noto che tali guarnizioni si svilupparono da prototipi attestati fra la fine del VI ed i primi del VII secolo. Il tipo più diffuso è Trezzo t. 3, databile intorno al 630; dalla metà del secolo cominciano ad apparire i modelli tipo Grancia t. 62. Questi proseguono, non sappiamo per quanto ancora, nella seconda metà del VII i8.
In Toscana le guarnizioni quintuple sono l'indicatore cronologico del VII secolo più sicuro e diffuso. Si rinvengono infatti in quasi tutti i contesti. Il tipo Trezzo t. 3 è abbastanza comune, un po' meno quello tipo Grancia t. 62 19. Le guarnizioni per cintura in ferro con decorazione in agemina sono piuttosto esigue e si rinvengono a Marlia, Chiusi, Pisa, sempre in relazione alla presenza di armati. A Fiesole sono associate ad una sepoltura di personaggio eminente seppure non un militare 20. Le guarnizioni multiple sono per lo più in area chiusina e lucchese, mentre le singole fibbie di tipo "bizantino" con placca fissa ad U o cuoriforme si trovano ovunque 21. Le necropoli toscane hanno restituito anche le fibule a croce e le crocette auree 22. La pressoché totale assenza di armi in molti contesti e la generale modestia delle necropoli finora scavate 23, fanno supporre, in assenza di nuovi dati, un tipo di stanziamento per piccoli nuclei di Longobardi di alto rango, ai quali dobbiamo associare altri personaggi sulla cui origine non possiamo dire nulla 24, ma che si presentano, nel pieno VII secolo, con alcuni dei tratti caratteristici dell'abbigliamento dei guerrieri germanici 25. 2.2 Il corredo delle tombe femminili Dell'abbigliamento femminile abbiamo testimonianze meno numerose di quello maschile in Toscana (Fig. 7). Ciò che sembra emergere è un quadro assai composito, dove, accanto alla indiscussa presenza di oreficerie prodotte in serie, si hanno anche oggetti la cui limitata diffusione ed estrema semplicità tecnica inducono a ritenere prodotti da artigiani che lavoravano per ambiti locali molto ristretti. Prendiamo ad esempio le fibule a disco tipo Grancia. Esso sono state rinvenute nell'area rosellana 26 e con alcune varianti lungo la costa fino a Vada Z7, ma mancano in qualunque altro luogo della Toscana e dell'Italia longobarda. Decisamente diverse sono infatti le altre due sole fibule a disco trovate a Volterra 28 e Piazza al Serchio 29. Nel senso opposto vanno invece le fibule ad S e a staffa, seppure attestate in numero esiguo 30. Questi oggetti sono chiaramente importati da ateliers che producevano in serie. Ad un ambito di produzione locale su imitazione di modelli a larga diffusione potrebbero rientrare gli orecchini a cestello del rosellano 31. Ancora di ambito ristretto, ma non certo locale, sono le armille in bronzo tipo Bengodi che vanno decisamente datate alla seconda metà del VII secolo e non all'età gota come sostenuto in precedenza 32. Sempre nel campo delle armille hanno particolare fortuna in Toscana quelle in bronzo ad estremità ingrossate e talora decorate con incisioni datate genericamente al VII secolo 33. Per le collane di perle abbiamo in Toscana la particolarità del tipo Grancia t. 44 che sembra essere particolarmente diffuso in ambito rosellano, ma se ne trovano esemplari anche in Emilia Romagna e Istria 34. Altrove si trovano, ma in piccolissime quantità, grani di tipo millefiori 35. Di particolare ricchezza nei corredi troviamo, oltre alla deposizione isolata di Pionta, filo aureo nelle tombe femminili a Fiesole e Pisa 36 e crinali d'argento in tombe maschili a Fiesole e Chiusi 37. Non rientrano esclusivamente in ambito femminile i pettini d'osso di difficile datazione, che sono abbastanza diffusi in Toscana 38. Si tratta anche in questo caso di prodotti di un artigianato specializzato in serie, ma non si può escludere che, data la semplicità della sintassi decorativa di alcuni pezzi, potessero essere prodotti anche localmente. 3. Considerazioni di carattere socio-economico: consistenza e natura dei gruppi di inumati 3.1 Artigianato locale e di serie Credo che i materiali esaminati ci consentano alcune osservazioni di carattere generale. Cominciamo con le implicazioni economiche. La diffusione e la sostanziale omogeneità delle armi, delle
guarnizioni per cintura e di alcuni gioielli non lasciano dubbi sul fatto che questi prodotti fossero frutto di un artigianato di serie. Non sono ancora stati trovati gli opifici, ma la recente scoperta di Roma lascia ben sperare per il futuro 39. Certo si pone il problema dell'ubicazione, perché solo risolvendo quello si potrà avere un più chiaro quadro sulle dinamiche dello scambio. Il rinvenimento di guarnizioni tipo Trezzo t. 3 dalla Lombardia a Benevento significa che questi oggetti circolavano con una certa facilità all' interno del regno longobardo. Nella stessa fascia rientrano gli orecchini a cappio di Casette di Mota e Luni rinvenuti anche in Abruzzo 40. A questi centri di produzione su vasta scala si associano in alcuni casi opifici che producevano per mercati limitati come quello, tuttora da ubicare, che ha prodotto le fibule a disco tipo Grancia, quello lunense di cui abbiamo una matrice in marmo per pendenti di collana 43, quello lucchese di cui rimangono alcuni scarti di lavorazione 42, E per Lucca ho proposto altrove che le fabbriche di spade tardoantiche abbiano continuato a produrre nell' altomedioevo 44. Rimane al momento insoluto il problema di chi materialmente si dedicasse a queste produzioni artigianali 44: i dati toscani non consentono ipotesi ragionate. 3.2 Dai corredi funebri alla struttura sociale: il caso rosellano Se sulla cronologia dei reperti, dopo lungo dibattito, oggi si è arrivati ad una sostanziale identità di vedute, vasti campi di ricerca si sono aperti sul fronte dell'interpretazione, del significato degli oggetti deposti assieme al defunto/a e sulla struttura sociale delle popolazioni di cui le necropoli permettono di cogliere numerosi elementi. Nel corso degli ultimi decenni il dibattito su questi temi è stato acceso e stimolante. Da un lato si è posto l'accento su una classificazione delle sepolture in base a criteri che associano la presenza di taluni oggetti all'etnia e allo status del defunto, dall'altro, pur non negando una certa omogeneità della struttura sociale nell'Europa merovingia, si è cercato di inquadrare le necropoli nel contesto territoriale, tenendo conto delle oggettive diversità locali, dei modi e tempi della conquista dei territori da parte delle popolazioni germaniche 45. Lo stato delle conoscenze in Toscana, si è detto, non è minimamente paragonabile a quello transalpino, quindi una sintesi di quel tipo è oggi impossibile. Tuttavia, basandomi su questo secondo approccio al problema vorrei tentare di fornire alcuni spunti di riflessione su un contesto, quello rosellano, che meglio conosco e che non è stato sempre al centro del dibattito, raccogliendo lo stimolo che recentemente Paolo Delogu ha portato alla discussione 46, Sull'ubicazione e sulle informazioni generali circa i reperti delle necropoli di età longobarda rimando ad altro mio contributo e per i dettagli e le datazioni sui reperti alla parte iniziale di questo testo 47. Credo sia opportuno riprendere in esame il caso di Grancia (Figg. 8-9). Disponendo i dati relativi ai corredi sulla piantina pubblicata da von Hessen 48, risulta chiaro che: 1- di 80 tombe 29 solamente hanno restituito materiali 49; fra queste il rapporto tombe femminili tombe maschili è di 3 a 1 so; 2 - non vi sono elementi riferibili al VI secolo, pochi sono anche quelli inquadrabili intorno alla metà del VII, mentre sicure sono le attestazioni della seconda metà del VII 51; 3 - i corredi sono tutti concentrati nella parte sud 4 - le sepolture si dispongono più o meno su 7 file parallele. 5 - la presenza di sepolture senza corredo nella parte sud potrebbe indurre a ritenere che fossero qui sepolti anche personaggi di condizione sociale diversa, mentre per le tombe della parte nord propenderei invece per una datazione fra la fine del VII e 1'VIII secolo, in relazione cioè al fenomeno di progressivo abbandono dell'uso di seppellire con corredo. Se ı cımıterı merovingi possono essere visti come lo specchio materiale di una particolare situazione insediativa e sociale, potremmo cercare di vedere nel cimitero di Grancia una fotografia della società maremmana del pieno VII secolo. L'assenza di armi e di corredi ricchi non implica l'assenza di una gerarchia sociale interna: la deposizione degli oggetti era comunque una scelta motivata non solo dal
rango del personaggio, ma anche dalle contingenti condizioni familiari s'. Come a dire: una sepoltura senza metallo pregiato ha un valore diverso a Chiusi, dove sono le ricche tombe di Arcisa, e nel rosellano dove gli oggetti di questo tipo sono estremamente rari. Una società aperta non può avere risposte standard in luoghi molto distanti. È dunque all' interno delle necropoli rosellane che dobbiamo cercare di costruire una gerarchia sociale, pur se in via preliminare e tutta da verificare una volta pubblicata la necropoli urbana, individuando gli elementi che qui caratterizzano il "ceto alto", tenendo presente che la cronologia del cimitero di Grancia pone comunque in secondo piano il problema etnico 53. In tutto il rosellano non vi sono informazioni edite di guerrieri: uno se così lo si può definire, è quello in possesso del solo sax a Grancia 54. È inoltre evidente che a Grancia le tt. 60 e 62, maschili, costituiscono un'élite perché nessun'altra, neppure nelle altre necropoli vicine, presenta l'intera guarnizione per cintura. Allo stesso modo va interpretata la t. 72, femminile, con la fibula a disco del tipo rosellano, ma in argento, che trova un parallelo a La Pescaia presso Roccastrada. Osserviamo infine che le tombe menzionate si trovano tutte molto vicine e disposte nella parte sudoccidentale del cimitero. A questo punto avanzo l'ipotesi che quelle tombe siano la fotografia del gruppo eminente (se non propro dı fondazione) del cimitero, cioè quello della famiglia che ha dato lo standard cui adeguarsi nell'ambito di Grancia e forse anche della pianura rosellana nel pieno VII secolo 55, costituito dalla sola guarnizione per cintura per gli uomini (di cui a seconda dello status e della disponibilità economica delle varie famiglie viene ripreso il modello intero o solo una parte) e la fibula a disco per le donne. Vi sono ovviamente delle osservazioni da fare. Innanzitutto è probabile che questa famiglia si insedi in un'area che già aveva qualche sepoltura databile intorno alla metà del VII. Inoltre la grande collana della t. 44 è un elemento isolato, così anche il frammento di sax. Certo è che anche a Castiglione della Pescaia una tomba maschile ha restituito solo parte della guarnizione. Si può quindi tentare di interpretare questo fenomeno come un adattamento locale del concetto di status symbol parallelo a quello di altre realtà dove la presenza di oggetti in oro e panoplia completa costituisce lo standard cui le altre famiglie, a seconda delle loro possibilità, si uniformano 56, Nella fase finale dell'età merovingia in cui si colloca Grancia, non erano più i nobili a seppellire con corredo, ma personaggi di condizione inferiore. Ai primi era sufficiente manifestare il loro status con l'edificazione di chiese e quotidianamente con il possesso fondiario che nella Maremma del tardo VII era saldamente in mano alle aristocrazie cittadine lucchesi e chiusine. Questo spiega l'assenza di tombe ricche, perché in effetti non c'era una nobiltà connessa con il territorio. Rimane da chiarire il luogo dove la famiglia eminente di Grancia viveva. Ho già segnalato altrove 57 che il castrum di Poggio Cavolo mi sembra la sede più appropriata (Fig. 8). Esso si trova sull'altura dominante la vallata, collegato alla necropoli 58 da una strada ancora visibile nelle carte IGM del 1943. A causa della tarda cronologia, come si è detto, passa in secondo piano il problema etnico. Certo gli inumati di Grancia, anche se fossero autoctoni, non sarebbero culturalmente inquadrabili nell'ambito romanzo, perché manifestano un'ideologia che si ispira ai modelli dell'aristocrazia militare germanica. Tuttavia la pressoché totale assenza di armi, all'opposto, non consente di ascriverli neppure alla sfera dell'élite militare dominante, come invece quelli dell'area di Sovana e Castro. Allo stato attuale delle conoscenze per la Toscana meridionale più che di acculturazione di A o B, cioè sempre di rapporti univoci, occorre forse parlare di reciproco scambio di idee, modi di vivere, usi e costumi, fra la minoranza dominante e la maggioranza dominata. Processo non lineare, ma profondamente radicato nei complessi e diversi contesti sub-regionali che meritano studi più approfonditi di quanto sia stato possibile fare in questa sede. Nei 70 anni che separano i guerrieri di Chiusi e Lucca dai corredi di Grancia si era andata formando un'élite rurale ed urbana locale che, pur se su diversi livelli, si identificava nei valori della cultura longobarda, quale essa era, dopo decenni di continuo rapporto con il patrimonio di valori mediterranei e cristiani 59. Nel pieno VII secolo, dunque, al di là della percentuale di sangue germanico di ciascun inumato, quello che per loro, e quindi per noi, era più rilevante, era sentirsi ed essere considerati parte integrante di un'élite.
3. Le necropoli nel loro contesto territoriale 4.1 Necropoli urbane, extraurbane ed edifici di culto Le osservazioni sul contesto territoriale consentono di introdurre uno dei problemi cruciali dell'archeologia longobarda: agganciare i dati delle necropoli a quelli del popolamento sia urbano che rurale. Ho già affrontato altrove il problema del rapporto fra siti e necropoli nel rosellano e su scala più ampia nella Toscana costiera 60 In ambito rurale rientrano due tipi di tomba/necropoli: quelle connesse al presidio di punti strategici, cioè della rete di castra che i Longobardi ereditarono in gran parte dai Bizantini, e una forma particolare diffusa soprattutto nel sovanese e nel Lazio settentrionale. La scomparsa della città nella Toscana meridionale e la presenza di un popolamento sparso disaggregato, in parte anche riflesso delle vicende belliche, aveva creato i presupposti per l'eliminazione di tutte le barriere fra città e campagna ad eccezione del ruolo amministrativo. Inoltre, soprattutto nella fascia compresa fra il lago di Bolsena e il mare, si era snodato per qualche decennio un sistema difensivo bizantino. La caratteristica del sovanese, in parte anche del rosellano, è, in base ai dati diponibili, la presenza di piccoli nuclei`di tombe, talvolta anche deposizioni singole, che fanno pensare ad un occupazione del territorio più capillare che nel resto della Tuscia longobarda. In effetti troviamo singoli elementi anche a Vignale 61, a Le Camerelle 62, a S. Gaetano di Vada 63, a La Torraccia 64 e a Sarteano, ma si tratta di soli 5 casi contro i 14 compresi nella fascia fra Ombrone e Marta e notiamo che non presentano armi ad eccezione dell'arciere di Sarteano sulla strada che unisce Sovana a Chiusi, quindi un punto strategico e Vada, porto di Volterra che, nelle intricate vicende della conquista longobarda, divenne pisano. La sola anomalia inspiegabile è al momento Siena, una città che, secondo gli storici, ebbe una forte presenza longobarda, ma per la quale non sono noti allo scrivente cimiteri con corredi di età longobarda 65, Il rinvenimento di oggetti inquadrabili nella sfera militare anche nella zona fra il lago di Bolsena, Sovana e Castro presenta una particolarità che non è riscontrabile altrove nei territori della Tuscia longobarda, oggi entro i confini della regione Toscana ad eccezione dell'asse Pisa-Lucca-Garfagnana dalla evidente funzione militare 66. Mi riferisco alla capillarità dei rinvenimenti costituiti in genere da deposizioni singole o a piccoli gruppi, sparse nel territorio, lungo due evidenti direttrici (Fig. 4): una da La Selvicciola, la sola necropoli di rilievo a sud di Grancia, verso Castro, Sovana e Saturnia, e l'altra costiera da Vulci verso Roselle: cioè, grosso modo, lungo l'area interessata dal passaggio della Clodia e dell'Aurelia. Questo dato deve essere interpretato, a mıo parere, come una diretta occupazione del territorio da parte del ceto dirigente longobardo o longobardizzato e può essere la conferma archeologica ai Transpadini citati dai documenti proprio nell'area prossima al lago di Bolsena 67, Quest'occupazione, tuttavia, se in parte segue la norma, cioè posizionamento lungo le direttrici viarie e in località strategiche, dall'altro presenta i caratteri tipici dell'occupazione delle campagne al di fuori della rete difensiva. Lo studio degli edifici religiosi, soprattutto prima della monumentalizzazione dei secoli centrali del medioevo, è alquanto arretrata in tutta la Toscana. Niente di paragonabile quindi alle sintesi che già da tempo circolano per l'area transalpina 68, Tutte le strutture che non fossero di solida pietra, inutile negarlo, hanno avuto dignità scientifica nel nostro paese solo da pochi anni 69, È per questo che non possiamo essere sicuri dell'assenza di una chiesa di legno nell'ambito dei cimiteri toscani, ma, credo, anche di tutti quegli edifici con base in pietra di cui solo un attento scavo stratigrafico può registrare l’esistenza. Occorre certamente fare una distinzione fra le necropoli urbane e quelle extraurbane. L'affermarsi del sistema delle pievi nella tarda età longobarda, con evidenti parallelismi in tutta l'Europa merovingia, e quindi la costruzione di chiese sui vecchi cimiteri o in luoghi diversi determina una profonda ristrutturazione della rete cimiteriale rurale 70. Vediamo quali dati fornisce al momento la Toscana longobarda.
In ambito urbano la norma è che la necropoli di età longobarda si dispone nei pressi di un'importante chiesa. Così a Roselle sulle terme romane Per Arezzo, infine, abbiamo dati molto variegati. Se da un lato il sepolcreto presso la cattedrale del Pionta rimane in uso in età longobarda e vi trova sepoltura una bambina dell'aristocrazia locale 76, nel sobborgo di S. Croce è stato proposto di vedere una necropoli longobarda relativa ad un presidio dell'arce, che però, al momento, non sembra avere rapporto diretto con una chiesa 77. Potremmo concludere che dove la necropoli è riferibile ad un presidio militare è l'esigenza di un punto strategico a determinare la scelta. In ambito extraurbano al momento mi sembra che l'esempio più chiaro sia La Selvicciola. La villa venne abbandonata nel corso del V secolo ed interessata successivamente da un cimitero longobardo che occupa l'area coltivata. Qui fu edificata anche una chiesa cimiteriale ad una navata con cappella laterale 78 Un esempio simile proviene da Piazza al Serchio dove il castrum sovrastava da un'altura l'importante viabilità di valico appenninico e il cimitero era posto nelle immediate vicinanze della Pieve Vecchia 79. CARLO CITTER
1 Si ricordino gli esempi di Vulci, al confine con la Toscana (HELBIG 1884, PP. 17 e ss.) La Polverosa, Madonna delle Grazie (CIAMPOLTRINI 1992, PP. 691 e ss.). Significativamente concentrate nella parte meridionale, le tombe alla cappuccina con corredi ricompaiono proprio in questo periodo e non prima; ne è testimonianza la necropoli di Cosa e di Torre Tagliata - cfr. CIAMPOLTRIN; 1992, PP. 694-S. Casi analoghi da Volterra - Le Ripaie (CATENI 1988, P. 76) e Ulimeto/Poggio alle Croci (MAGGIANI 1975, P. 83). 2 Per una sepoltura della metà del V secolo a Capraia cfr. DUCCI CIAMPOLTRINI 1991. Per l'età gota, anche se si tratta di sole tombe femminili, cfr. BIERBRAUER 1974, che dimostra la concentrazione delle attestazioni a Chiusi e lungo il Valdarno, vero centro motore della Tuscia tardoantica e confluenza delle arterie di traffico transappenniniche. Si veda a questo proposito CITTER, in KURZE-CITTER 1995 dove si fanno alcune considerazioni sull'importanza strategica dei passi appenninici durante il V e VI secolo. Altre segnalazioni di inizi V secolo in CIAMPOLTRINI 1992, P. 695 da Manciano e Saturnia. 3 Anche la necropoli di Grancia, l'unica di cui si conosca il numero esatto di tombe, è stata scavata in fretta, senza possibilità di analisi antropometriche. 4 Un primo accenno in CELUZZA FENTRESS 1994. 5 È pertanto evidente che non si potranno fare qui studi di carattere specifico sui cimiteri come invece è buona abitudine in area merovingia. Ricordo due esemplari ricerche in tal senso: COLARDELLE 1983 YOUNG 1984. L'unico caso italiano è quello dei cimiteri di Nocera Umbra e Castel Trosino ad opera di J0RGENSEN 1991 e di Rupp e Paroli in questo stesso volume. Si vedano tuttavia le osservazioni di CAVADA 1992 sulla situazione trentina, che presenta purtroppo, forti analogie con quella toscana. 6VON HESSEN 1971b e 1975c. 7 Viene infatti ormai definitivamente abbandonata l'attribuzione a Chiusi dei corredi Baxter e Undset che invece sono di Castel Tirosino, come già aveva detto VON HESSEN 1975c pp. 17 e ss. Per un riesame dei contesti di Pisa-Piazza dei Miracoli, Lucca-S. Romano/S. Giulia e Roccastrada cfr. BRUNT 1994 e CIAMPOLTRINI 1983, 1993. Correzioni anche per i corredi delle tombe di Chiusi-Arcisa in CIAMPOLTRINI 1986, per Fiesole e Sarteano in CIAMPOLTRINI 1992. Nuove acquisizioni per la Toscana sono in: CIAMPOLTRINI-NOTINI 1990 per Lucca, PAOLUCCI 1985 e MAETZKE 1985 per Chiusi, CICCONE STURMANN-CONSOLI 1982 per Vada, CINI et al. 1979/80 e FROVA (a cura di) 1973 e 1977 per Luni. Un recente studio sugli orecchini a cestello tahanl ha rlpreso m esame anche ~ contesh toscani - cfr. POSSENTI 1994.
8 Si osservi la bibliografia sui rinvenimenti lombardi, veneti e friulani. Cito per esempio il catalogo curato da DE MARCHI 1988, ma si vedano anche le parti dedicate al ducato di Forum Iulii in MENIS (a cura di) 1990, dove la Toscana, significativamente, è assente. Il caso toscano non è isolato; Umbria, Abruzzi, Molise e Campania presentano forti analogie, pertanto l'assenza d~ ricerche non è spiegazione sufficente. 9 SCHNEIDER 1914. 10 CONTT 1973. 11 KURZE 1992. 12 Rimando senz'altro al testo di KURZE, in KURZE-CITTER 1995 Per la Toscana meridionale numerosi elementi ed una abbondante documentazione in PRISCO 1989 e 1994. Da ultimo BURATTINI 1995, che enfatizza il ruolo "senese", ridimensionando quello chiusino nella Toscana meridionale. 13 CITTER 1993. 14 Vedi KURZE in KURZE-CITTER 1995. 15 Ibidem, p. 179, nota 1SS. 16 L'elenco che segue si basa solo sull'edito al 1996. Non ho incluso i pochi reperti di Siena pubblicati da VON HESSEN 1975c, pp. 99-100, perché potrebbero crovenire da Chiusi o da altra località dell'antico stato senese. Così anche il guerriero di Castelnuovo di Garfagnana segnalato in CIAMPOLTRINI 1995, perché le indicazioni sul corredo sono piuttosto generiche ad eccezione forse della spada. Cominciamo con gli "scadi da parata". Umboni a calotta conica in uso ancora alla fine del VI sono a Chiusi - Arcisa t. 5 (recentemente ridatata da J0RGENSEN 1991 fra fine VI e inizi VII) VON HESSEN 1971b, tav. 13, S. Più consistente il nucleo di umboni del primo e secondo terzo del VII secolo: Chiusi VON HESSEN 1975c, tav. 20, 2; 20, 1 (che PAOLUCCI 1985 ha accertato provenire da Arcisa); Lucca S. Giulia - VON HESSEN 1975c tavv. 6-9 (lo scudo era stato dato a S. Romano, ma CIAMPOLTRINI 1983 lo assegna a S. Giulia in base a buone argomentazioni); Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 14, 1 e 2 (recentemente BRUNI 1994 lo assegna alla tomba 2 di Piazza dei Miracoli); Arezzo - VON HESSEN 1975c, tav. 19, 1 (si tratta della sola placca centrale a tre braccia con confronti stringenti a Milzanello - cfr. MENIS (a cura di) 1990, p. 191, tav. IV, 61, databile alla metà del VII), Marlia - VON HESSEN 1975c tav. 11, 1 databile alla seconda metà del VII. Altri elementi di scudo di cui si conservano solo scarsi frammenti da Chiusi - Arcisa t. 2 perduto VON HESSEN 1971b, p. 26, Arcisa t. 1 - VON HESSEN 1971b, tav. 1; Arcisa t. 6 - CIAMPOLTRINI 1986, p. 557 che dovrebbe rientrare nella fine del VI per l'associazione a punte di lancia a foglia di lauro (MERUCCO VACCARO 1971, pp. 32 e ss. aveva spostato due umboni alle tt. 6 e 7 mentre secondo l'autore sono delle tt. 5 e 6). Da Piazza al Serchio proviene sicuramente un umbone di scudo scambiato per l'elmo di un bambino, di cui abbiamo solo un illeggibile disegno e quindi senza possibilità di datazione - VON HESSEN 1975c, pp. 47 e ss. Un umbone di scudo proviene anche da Arezzo da una tomba di guerriero oggi perduta - CIAMPOLTRINI 1993, pp. 597 e ss. "Sax" sono stati rinvenuti a Pisa - VON HESSEN 1975c, tavv. 16, 1, 2, 7, 17, 2-4; la recente ricomposizione delle due tombe da parte di BRUNI 1994 pone tav. 17, 3 e 4 alla t. I e tav. 17, 2 alla t. 2. Si tratta di sax frammentari ma la datazione della t. 1 è sicura grazie alla cintura in agemina. Altri 2 sax, uno normale ed uno corto, da Chiusi-Arcisa - PAOLUCCI 1985, tav. 3, 2 e 3 (l'autore cita anche altri sax inediti). Genericamente da Chiusi un sax lungo - MAETZKE 1985, fig. 4 e 6c. Da Lucca - via Fillungo un sax forse medio, databile alla prima metà del VII per l'associazione alla guarnizione di cintura - CIAMPOLTRINI -NOTINI 1990, fig. 21, 2. Un sax frammentario da Grancia t. 61 - VON HESSEN 1971b, tav. 40, 9. Un sax perduto doveva essere stato rinvenuto a Lucca - S. Romano, ma non sappiamo se rientrasse anche questo nella confusione fatta con il corredo di S. Giulia - VON HESSEN 1975c, p. 33. Perduto è anche il sax, o la spada, della tomba di Crocignanello - CIAMPOLTRTNI 1983, p. 513. Quattro sax che VON HESSEN 1975c, p. 101 non poteva collocare sono stati attribuiti alla necropoli de Le Ripaie di Volterra da MUNZI et al. 1994, p. 646, n. 32. Da Arezzo - voN HESSEN 1975c, tav. 18, 4. “Spade” sono state trovate a Fiesole - VON HESSEN 1971b, p. 46; Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 16, 4, poi attribuita da BRUNI 1994 alla t. 2 di Piazza dei Miracoli; Chiusi - PAOLUCCI 1985, fig. 3, 4; PAOLUCCI 1984, fig. 3, 1-3, VON HESSEN 1971b, tav. 15, CIAMPOLTRINI 1986, fig. 1, 1 e 7 da Arcisa t. 6 j 6 esemplari perduti da Arcisa - VON HESSEN 1971b, pp. 16 e SS.j Piazza al Serchio - VON HESSEN 1975c, pp. 47 e ss., Lucca S. Giulia-S. Romano, perduta - VON HESSEN 1975c, p.33; Arezzo - VON HESSEN 1975c, tav. 18, 13 con damaschinatura a spina pesce. Altre 2 spade nelle due tombe di guerrieri ad Arezzo - CIAMPOLTRINI 1993. Una spada da Volterra - si veda quanto detto per i sax. "Cuspidi di lancia" a foglia di salice da Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 16, 6 che BRUNT 1994 attribuisce alla t. 2 altre 3 cuspidi di lancia da Pisa - BRUNI 1994, di cui una a foglia di salice. Da Chiusi - Arcisa t. 6 punte a foglia di lauro oggi perdute - VON HESSEN 1971b, pp. 25 e ss.; un puntale conico è attribuito da CIAMPOLTRINI 1986, fig. 1, 15 ad Arcisa t. 6 assieme ad una cuspide a foglia di lauro - Ibidem, fig. 1, 2. Da Marlia a foglia di lauro - VON HESSEN 1975c, tav. 11, 2, da Lucca via Fillungo di tipo non id. - CIAMPOLTRINI -NOTINI 1990, fig. 21, 1. Da Crocignanello nella tomba di guerriero perduta - CIAMPOLTRINI 1983, p. 513. Da Sarteano il maggior numero di cuspidi nella tomba dell'arciere: due romboidali, una a foglia di salice, una fotiata - PAOLUCCI 1985, fig. 1. Una cuspide a sezione circolare all'immanicatura e quadrata all'apice del tipo bizantino trovato ad Invillino è a Poggio Cavolo - CITTER 1995b, fig. 2. Una cuspide a lamina allungata e stretta è da Fiesole - VON HESSEN 1971b, tav. 16, 3. Due cuspidi anche dalle due tombe di guerrieri ad Arezzo - CIAMPOLTRINI 1993. Una cuspide a foglia di salice da Volterra - si veda quanto detto per i sax una cuspide da Luni - “Archeologia Medievale”, XX, pp. 5478. "Speroni" sono stati rinvenuti a Luni - cfr. Archeologia Medievale, XX, schede di aggiornamento degli scavi in corso; a Crocignanello nella tomba di guerriero perduta - CIAMPOLTRINI 1983, p. 513, a Chiusi - VON HESSEN 1975c, tav. 22, 3 e 4, PAOLUCCI 1985 fig. 3, 5; a Lucca - S. Giulia-S. Romano VON HESSEN 1975c, tav. 10, 6 e 7, a Cortona - VON HESSEN 1975c, p. 78. Infine ad Arezzo nelle due tombe di
guerrieri perdute - CIAMPOLTRINI 1993. Due coppie di speroni da Volterra - si veda quanto detto per i sax. Del tutto isolato il falcetto della t. 1 di Pisa - Piazza dei Miracoli - VON HESSEN 1975c, tav. 17, 1. Vedi le recenti riconsiderazioni di CIAMPOLTRINI 1993 e BRUNI 1994. Isolato e decontestualizzato è anche l'importantissimo rinvenimento della cosiddetta lamina di Agilulfo, che KURZE 1980, p. 452 ritiene pertinente prima ad un cofanetto di legno. Si vedano anche le osservazioni di STEUER 1987, pp. 197 e ss. e CIAMPOLTRINI 1988. 17 Rimando brevemente a VON HESSEN 1968, pp. 13-14, tav. 15, 1971b, pp. 61 e ss 1971a, pp. 29 e ss. figg. 38-45; 1983, pp. 24-27, figg. 8-13, ROFFIA (a cura di) 1986, pp. 5354 con bibliografia; DE MARCHI 1988, pp. 53 e ss. 18 Alcuni prototipi si possono vedere in CAVADA 1992 p. 119, fig. 18 da Nomi in Alto Adige e MENIS (a cura di) 1990, pp. 66 e ss. tav. I, 60 - proveniente da Kranj Lajh datato alla fine del VI- inizi del VII. Fibbie a placca triangolare cominciano già in età imperiale fra fine III e inizi IV. Ancora più avanti nel V si trovano tipi evoluti, ma sempre a placca fissa traforata o piena. Cfr. Nocera Umbra t. 145 datata 570-600 con guarnizione derivata da modelli franchi (che conferma l'idea di VON HESSEN 1983, p. 25) recentemente riproposta in ARENA-PAROLI (a cura di) 1994, cat. VI,2 p.62, e inoltre cfr. MENGHINI 1985, p.115 dove riporta una guarnizione franca di inizi del VII con fibbia, placca triangolare, controplacca uguale, placchetta rettangolare e due placchette secondarie triangolari a traforo. Confronti indiretti per il nostro tipo 1 o S. Stefano in Pertica t. 1 sono a Koln-Mungersdorf datati al V-VI (SWOBODA 1986, fig. 4, 7). Per l'evoluzione in ambito italiano ROFFIA (a cura di) 1986, pp. 53-54. Per Grancia VON HESSEN 1971b, pp. 61 e ss. La diffusione del tipo Trezzo t. 3 è ampia e va dalla Lombardia (DE MARCHT 1988, pp. 53 e ss.), al Veneto (LA ROCCA 1989, p. 76 n. 79 da Lazise), al ducato di Benevento (ROTILI 1977, p. 80), passando appunto per la Toscana. I tipi di Grancia presentano forme più allungate e sagomate che sembrano avere al momento una diffusione più limitata sotto il profilo numerico, ma con lo stesso ampio raggio. Se ne trovano esempi nei puntali sagomati e allungati di Carignano (LEBOLE DI GANGI 1988, pp. 20 e s.), a Pettinara-Casale Lozzi (VON HESSEN 1978), a Testona in ferro placcato in bronzo (VON HESSEN 1971a). La diffusione oltralpe di questi oggc-tti o di prodotti simili è piuttosto tarda. Non è questa la sede per approfondire l'argomento, mi limito pertanto ad alcuni esempi. Si vedano Krefeld Gellop 1763 datato 63050, Hùttersdorf-Buprich 6 e Donzdorf 80 datati entrambi al 680 (cfr. MENGHTN 1983, gruppi E ed F). Una guarnizione tipo Trezzo t. 3 è conservata al museo storico di Basilea e si deve trattare di un oggetto importato dall'Italia. Altro confronto a Mellecey (Giury-Belgio) - cir. GATLTARD DE SEMATNVTLLE 1980, pp. 101 e ss. dove però non sono riportati esempi italiani. Il tipo S. Maria di Zevio viene datato con una certa precisione a Trezzo t. 3 - cfr. ROFFTA (a cura di) 1986, pp. s3-s4. La datazione viene poi recepita da J0RGENSEN 1991. 19 Dunque possiamo dividere le guarnizioni per cintura quintuple in bronzo toscane in tre categorie: il tipo I o S. Stefano in Pertica t.1 - cfr. MENIS (a cura di) 1990, p. 405, tav. databile alla fine del VI-inizi del VII secolo (confronti anche a Nocera Umbra 143 datata da J0RGENSEN 1991 al 590-610); il tipo 11 o Trezzo t. 3 (in associazione a sax medio) - cfr. ROFFIA (a cura di) 1986, pp. s3-s4 databile intorno al 630, (datazione recepita da J0RGENSEN 1991 mentre VON HESSEN 1986 propone di alzarla di qualche decennio) ed il tipo 111 o Grancia t. 62 - VON HESSEN 1971b, tav. 41 databile alla seconda metà del VII. Nella quasi totalità dei casi abbiamo solo parti della guarnizione. Fanno parte del "tipo I" i pezzi di Pisa - VON HESSFN 1975c, tav. 14, 8 cui si può aggiungere probabilmente MAETZKE 1985, tav. 6a e b da Chiusi. Esempi forse anche da Fiesole e da Certaldo - DE MARTNTS 1984 (l'esempio da Certaldo non è stato incluso nei grafici, poiché non ho potuto visionarlo). Il "tipo II" è il più frequente ed abbiamo infatti: Cortona - VON HESSEN 1975c, tav. 23, 3, Sovana - CTAMPOLTRTNT 1983 tav. 2; Cortona - VON HESSEN 1975c, tav. 23, 7, 8, 10; Volterra - VON HESSEN 1975c, tav. 18, 6; Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 14, 6; Luni - VON HESSEN 1975c, tav. 24, 17; tav. 25, 24 e 25; FROVA (a cura) di 1973, C. 36/6; CINI et al. 1979/80, tav. III, 3 e 5, Orbetello - CIAMPOLTRINI 1983, tav. 4; Chiusi - che è il luogo di maggior consistenza dei rinvenimenti di questo tipo - VON HFSSEN 1975c, tav. 21, 3-5, 7-8, 10-11, 12-14, 16-17; PAOLUCCI 1985, tav. 4, 6-8, Firenze - VON HESSEN 1975c, p. 213. Fanno parte del "tipo II" ma con diversa morfologia decorativa la cintura di S. Martino sul Fiora - CIAMPOLTRINI 1983, fig. 3 e Lucca CIAMPOLTRINI-NOTINI 1990 fig. 22, 5-11 con la variante della fibbia con placca fissa rettangolare. Fanno parte del "tipo III" i rinvenimenti di: Lucca S. Romano (CIAMPOLTRINI 1983 non specifica se anche questi vadano in realtà ascritti a S. Giulia) - VON HESSEN 1975c, tav. 10, 1-5, Grancia tt. 50, 60, 62. Vari altri elementi in tt. 20, 27, 34, 48. Per tutti VON HESSEN 1971b, pp. 53-67 e tavv. 33-44. Altri elementi da Cortona -VON HESSEN 1975c, tav. 23, 1-2, 9. Nel rosellano sono a Castiglione della Pescaia - CITTER 1995b, fig. 2 e Case Benelli - VON HESSEN 1971b, tav. 47, 1. Singoli pezzi anche a Cortona - VON HESSEN 1975c, tav. 23, 12-15 e 17-18, da S. Reparata a Firenze - VON HESSEN 1975a, fig. 1; e a Chiusi - VON HESSEN 1975c, tav. 21, 6 e 9. Non sono associabili al tipo di guarnizione quintupla, ma rientrano nel panorama italiano, soprattutto padano-alpino le fibbie tipo Aldeno, databili alla seconda metà del VII e rinvenute a Luni - CTNT et al. 1979/ 80, tavv. II, 6 e IV, 1. 20 La datazione delle guarnizioni per cintura in ferro decorate in agemina ha dato e dà tuttora adito a molteplici soluzioni. Il vero problema della controversia è, mi sembra, Castel Trosino t. 119 che contiene una cintura tipo Civezzano. Seguendo la classificazione di MELUCCO VACCARO 1978, p. 18 accettata da J0RGENSEN 1991, questa tomba è databile poco dopo il 650. VON HESSEN 1990, p. l 79 (riprendendo quanto detto in VON HESSEN 1983, p. 20) la data invece al 600-630, portando in raffronto anche S. Stefano in Pertica t. 24. Il corredo di Trezzo t. 4, pertanto, è datato da VON HESSEN 1986 al 600-630 (data sostanzialmente confermata in VON HESSEN 1990, pp. 196-7 dove propone circa metà VII), mentre nello stesso testo ROFFIA (1986) p. 67, nota 217 preferisce 630-660, avvicindandosi quindi alla cronologia della Melucco Vaccaro (che ascrive l'intero tipo A al 650-670). PAROLI 1995, pp. 225 e ss. conferma la datazione al primo terzo del VII per Civezzano, come standardizzazione del modello Castel Trosino t. 90, mentre per Trezzo t. 5 propone 630-660. Guarnizioni per cintura in ferro decorate in agemina in Toscana si trovano a Pisa - VON HESSEN
1975c, tav. 15, con la fibbia che si avvicina più al tipo Civezzano, mentre le placchette con decorazione a 8 si collocano meglio nella seconda metà del VII. Secondo la nuova attribuzione di BRUNT 1994 questo materiale fa tutto parte del corredo della tomba 1 che andrà quindi collocata nei decenni intorno alla metà del VII, supponendo un attardamento della fibbia tipo Civezzano o un anticipo delle decorazioni ad 8. Inoltre a Fiesole - VON HESSEN 1971 b, tav. 20 e 21 e VON HESSEN 1975c, tav. 2. Un altro frammento dalla t. 9 di Fiesole - VON HESSFN 1971b, tav. 17, 4. Gompleta è la guarnizione di Marlia - VON HESSEN 1975c, tav. 12. Al tipo E della Melucco Vaccaro, databile fra fine VII e inizi VIII, sono ascrivibili un puntale da Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 15, 1; Chiusi Caserma dei Carabinieri - VON HESSEN 1975c, tav. 1 e da Talamonaccio - VON VACANO 1985, p. 209. 21 Fondamentale letteratura è WERNER 1950, 1955 e 1974. Si vedano anche le considerazioni in VON HESSEN, 1983, pp. 29 e ss. Fibbie ad anello con placca fissa del tipo a lira o Trebisonda sono presenti a Luni - CTNT et al. 1979/80, tav. IV, 7, datata secondo la cronologiaJoRGENsEN 1991 fra 630 e 650, con confronti a Castel Trosino t.134. Altri esemplari sempre da Luni sono stati editi da VON HESSEN 1975c, tav. 25, 2-4. Una fibbia del tipo Siracusa sempre a Luni - CINI et al. 1979/80, tav. II, 7. Cfr. anche VON HESSEN 1975b, tav. 7, 2 da Offanengo t. 2. Nella collezione Remedi di Luni sono altre 5 fibbie dei tipi Trebisonda e Siracusa - VON HESSEN 1975c, tav. 25, 1, 5-ó, 9. Sempre da Luni proviene una fibbia di pieno VI secolo con confronti a Corinto - FROVA (a cura di) 1973, CM 1770. Varie fibbie ad anello con placca fissa cuoriforme del tipo Trezzo t. 3 sono state rinvenute a Pisa - VON HESSEN 1975c, tav. 14, 7; 9 e 10; da Lucca S. Giulia - VON HESSEN 1975c, tav. 3, 1 e da Grancia t. 27 - VON HESSEN 1971b, tav. 35, 4. In base al confronto di Trezzo t.3 si possono datare intorno al 630. Varie fibbie ad anello con placca fissa ad U si trovano a Cortona - VON HESSEN 1975c, tav. 23 5; a Chiusi - PAOLUCCI 1985, tav. 4, 5 ed un altro esemplare in argento dall'Arcisa PAOLUCCI 1984. Infine a S. Gaetano di Vada, luogo della mansio e del porto di Vada, in associazione alle fibule a disco tipo Grancia - CICCONE STURMANN-CONSOLI 1982, tav. 3, 2. Fibbie con placca fissa a scudetto a Vignale sul luogo della mansio di Populonium - BATOCCO et al. 1990. A Lucca sono presenti due fibbie ad anello con placca mobile a U CIAMPOLTRINI -NOTINI 1990, tav. 23, 1 e 10b. Una segnalazione dallo scavo della necropoli nell'ex frantoio a Sovana (testi dei pannelli alla mostra permanente del Palazzetto Pretorio - cfr. anche A. MAGOIANI, Sovana (Com. di Sorano, Grosseto), “Studi Etruschi”, 1985, LI, p. 446). Ricche guarnizioni multiple per cintura complete a: Lucca/S. Giulia - VON HESSEN 1975c, tavv. 3-5, in associazione allo scudo: è una delle tombe più ricche della Toscana databile al pieno VII, Chiusi/Arcisa, t. 2 - VON HESSEN 1971b, tavv. 3 e 4, databile agli inizi del VII o alla fine del VI con confronti anche extra italiani (cfr. WERNER 1974, tavv. X e XI e p. 127). VON HESSEN 1975c, p. 20 le data alla prima metà del VII. Per Lucca Ciampoltrini (1983) ha mostrato che i due nuclei di S. Giulia e S. Romano sono in realtà un unica deposizione ricca che avrebbe pertanto: guarnizione per cintura multipla in oro tranne la fibbia che è in bronzo dorato, 5 crocette auree, un pendente di collana a forma di croce, scudo, spatha, sax, speroni, guarnizioni per cintura in ferro e forse anche un'asta. Le altre due deposizioni ricche toscane sono a Chiusi - Arcisa t. 2 con guarnizione per cintura multipla in argento, spatha, scudo, lancia e coltello e Arcisa t. 5 con spatha, lancia, scudo, bacile bronzeo, guarnizione per briglie in argento e crocetta aurea. Non rientrano in questo ambito, seppure cronologicamente arrivano fino all'età longobarda, le fibule a bracci uguali. Due vengono da Luni - FROVA (a cura di) 1973, CM 1370 e 2749, da assimilare al tipo WERNER 1950, D 32. Un'altra da Luni è pubblicata da VON HESSEN 1975c tav. 24, 8, tipo WERNER 1950, D 31. Altre due da Cosa FENTRESS et al. 1991, p. 226 e Antiquarium di Cosa, cat. 678. Una di provenienza incerta, ma secondo MELUCCO VACCARO 1971 da Chiusi, è pubblicata da VON HESSEN 1975c, tav. 24, 7, assimilabile al tipo WERNER 1950, D 32. 22 Sulle crocette auree ed il loro significato si veda VON HESSEN 1975a e la scheda curata dallo stesso in MENTS (a cura di) 1990, p. 222. Crocette auree sono a Lucca - S. Giulia in numero di 5 - VON HESSEN 1975c, tav. 4; 5, 1-3, con annesso pendente di collana tubolare a croce greca - Ibidem, tav. 5, 2. Perduta quella di Piazza al Serchio che poteva presentare decorazione a sbalzo - Ibidem, p. 49. Anche le tombe di Chiusi - Arcisa avevano crocette - VON HESSEN 1971b, tav. 5, 6 t. 3- tav. 8, 10 t. 4, tav. 12, I t. 5. Altre due da Chiusi, località non specificata - PAOLUCCI 1985, fig. 3. Una crocetta era anche a Roccastrada - CAPPELLI 1934; ad Arezzo - VON HESSEN 1975c, tav. 19, 10. Per la ricca decorazione non possiamo tacere, pur se di provenienza ignota, le due crocette decorate a sbalzo in VON HESSEN 1975c, tav. 26, 2 e 33, 1. Fibule a croce sono abbastanza rare, ma presenti in Toscana e sono tutte in bronzo. Da Vada a croce latina - CICCONE STURMANN CONSOLI 1982, tav. 1, 1; da Grancia a croce greca - VON HESSEN 1971b, tav. 37, 9, ed una inedita da Roselle a croce greca iscritta in cerchio (scavo terme urbane) Cfr. POSSENTI 1994 p. 89. 23 Si pensi che secondo i calcoli di J0RGENSEN 1991 le necropoli di Castel Trosino e Nocera Umbra con rispettivamente 239 e 165 tombe, si dovrebbero riferire a nuclei di circa 70 persone. Un semplice rapporto con la più estesa necropoli toscana finora scavata, Grancia, di sole 80 tombe (seppure tutte inquadrabili fra la metà e la fine del VII secolo) rende comunque l'idea. 24 Lo studio antropologico, che, pur con molte riserve, potrebbe dare qualche elemento di giudizio in più, non ha ricevuto mai in Toscana le stesse attenzioni dei corredi. Le tombe di dignitari di alto rango, paragonate ovviamente al contesto generale della Tuscia longobarda, sono solo a Lucca, Pisa e Chiusi. In quest'ultima abbiamo anche due bacini bronzei, uno dalla t. 5 di Arcisa, certo una delle più ricche della regione, ed uno dalla tomba Gamurrini - VON HESSEN 1971b, tav. 14 e PAOLUCCI 1984. 25 Dobbiamo comunque operare una distinzione fra semplici oggetti di abbigliamento comuni anche nelle deposizioni romanze tardoantiche e le guarnizioni per cintura. Notiamo infine che la presenza di cavalieri, oltre che dagli speroni, è attestata in Toscana anche da alcuni elementi di finimenti per cavalcatura, frammentari a Luni, mentre a Chiusi dalla t. 2 di Arcisa è un set completo d' argento con decorazione a traforo databile ancora entro la fine del Vl secolo - VON HESSEN 1971b, tav. 10. Si vedano le osservazioni di WERNER 1974, pp. 125 e ss. e DELOGU 1974, soprattutto la discussione
alle pp. 185 e ss. Caso analogo nell'Emilia Romagna (GELICHI 1995, p. 148) e si ricordi l'esemplare caso ligure. Vedi quanto detto alla nota 8. Nei territori conquistati più tardi è più labile la caratterizzazione culturale del costume funerario (VON HESSEN 1990, p. 178). Inoltre, riprendendo uno spunto di Cristina La Rocca, l'assenza di frontiere interne ad eccezione, nel nostro caso, di Sovana, lo scarso popolamento rurale autoctono, convergono nel delineare in genere nella Toscana un'area a scarsa conflittualità. 26 Per Grancia VON HESSEN 1971b, tt. 21, 22, 35 di medie dimensioni, tt. 14, 28, 50, 58 e 59 oltre a 2 fuori contesto di piccole dimensioni - per tutte VON HESSEN 1971b, tavv. 33 e ss. Unicum la fibula VON HESSEN 1971b, tav. 43 in argento con castone centrale che si avvicina ai tipi attestati a Roccastrada - CAPPELLI 1934 e CIAMPOLTRINI 1993. Fibule identiche da Castiglione della Pescaia - CITTER 1995, fig. 2; Casette di Mota tt. 1 e 2 - VON HESSEN 1971b, tav. 48, 1 e 4. 27 CICCONE STURMANN-CONSOLI 1982, figg. 1, 2-3 e 2, 1-2. Il tipo non è proprio identico a quello rosellano. Altre sono segnalate a Vignale sul sito della mansio di Popu/onium, un abitato che restituisce materiali fino alla fine del Vl e inizi del Vll - CIAMPOLTRINI 1993, p. 601 nota 137. 28 In oro della fine del Vll - VON HESSEN 1975c, tav. 18, 7. 29 Di cui rimane solo il disegno, ma che si paò datare agli inizi del VII - VON HESSEN 1975c, pp. 47 e ss. - assimilabile al tipo WERNER 1950, C 1-2, 62. 30 Una fibula a S tipo WERNER 1950 B 61 della seconda metà del Vl è a Luni, pubblicata dallo stesso; mentre un'altra da Chiusi-Arcisa della metà del Vl è del tipo WERNER 1950 B 68 - cir. VON HESSEN 1971b, tav. 8, 1. Fibule a staffa sono a Chiusi, databile alla prima metà del Vl - tipo WERNER 1950, A3 e testimone forse della presenza di contigenti longobardi durante la guerra gotica. Sempre da Chiusi-Arcisa t. 3 in argento dorato - VON HESSEN 1971b, tav. 1, 6 databile alla prima metà del VII. Da S. Lorenzo in Vaccoli in argento dorato, databile alla fine del VI - VON HESSEN 1975c, tav. 24, 1. Da Piazza al Serchio, oggi perduta - VON HESSEN 1975c, pp. 47 e ss. Bottoni apicali di una fibula a staffa sono stati rinvenuti anche ad Arezzo - VON HESSEN 1975c, tav. 19, 6 e 8. Cito infine un rinvenimento non localizzabile dalla Toscana data la preziosità del pezzo in argento dorato - VON HESSEN 1975c, tav. 34, che ha forti analogie con quella di Chiusi e si data al primo terzo del Vll. 31 CIAMPOLTRINI 1993, pp. 601 e ss. Sugli orecchini a cestello si veda il recente brillante contributo di POSSENTI 1994, che rende inutile soffermarsi ancora su questo aspetto. Per la ricca sepoltura di bambina di Arezzo-Pionta si veda MELUCCO VACCARO 1972 e 1991, con le difficoltà ivi rilevate sull'attribuzione etuica. Non sono noti allo scrivente altri orecchini di cui metta conto parlare in Toscana di età longobarda. Per quelli a pendente trovati a Luni CIAMPOLTRINI 1989, l'analogia con quelli di Casette di Mota pone il problema di una datazione al pieno VII anziché al Vl. 32 CIAMPOLTRINI 1987 ivi citando un confronto da Atella in una tomba con orecchini a cestello che il recente contributo di POSSENTI 1994, p. 45 e nota 64 porta alla seconda metà del VII. Alla stessa cronologia va ascritto l'esemplare eponimo dal momento che fu rinvenuto con perle tipo &rancia, t. 44. 33 Se ne trovano esemplari a Luni - VON HESSEN 1975c, tav. 24, 16; CINI et a/. 1979/80, fig. 111, 1-2; e le tre armille di Roccastrada - CAPPELLI 1934. Diverso ovviamente il caso della bambina di Pionta, l'unica ad avere bracciali d'oro - MELUCCO VACCARO 1991. 34 Oltre a Grancia T 44 abbiamo Casette di Mota, t. 2 e Bengodi - cfr. VON HESSEN 1971b, tav. 45 e 49, 6, CIAMPOLTRINI 1989. Cfr. GELICHI 1995, p. 152 per l Emilia Romagna. TORCELLAN 1986, pp. 5s e ss. da Meizza t. 4 (seconda metà VII), t. 72 e t. 77 (fine VI-inizi VII), t. 155 (prima metà del Vll), ma in genere sono di pieno Vll. 35 A Chiusi - VON HESSEN 1971b, tav. 8, 2-9; Fiesole - VON HESSEN 1971b, tav. 26, 1. Si veda anche MARTIN 1976, t. 27 datata ca 570. 36 VON HESSEN 1971b, tav. 24, 2 e 1975c tav. 14, 3. Il filo aureo non compare nel rlesame dI Brum. 37Per Fiesole DE MARINIS 1984, cfr. Nocera Umbra, fig. 145 e Castel Trosino, fig. 225 e i due crinali in argento della tomba dei 1906 oggi persi - VON HE55EN 1971b, p. 45. Per Chiusi-Arcisa t. 3 VON HESSEN 1971b, tav. 5, S. Altri crinali in materiale meno pregiato sono a: Lucca - S. Frediano - CIAMPOLTRINI - NOTINI 1990, fig. 23, 4, Grancia t. 25 e t. 53 in bronzo - VON HESSEN 1971b, tav. 35, 1 e 37, 5, Chiusi-Arcisa in bronzo - VON HESSEN 1971b, p. 15 e Fiesole in OSSO - VON HESSEN 1971b, tav. 17, 2. 33 Da I uni - NASTAST VAY 1978, TE 1485, 1869, 1903, 2017; FROVA (a cura di) 1977, t. 68/1 e 2; FROVA (a cura di) 1973, CM 119, 637. Da Pisa Piazza dei Miracoii t. 2 - VON HESSEN 1975c, tav. 16, 5, e BRUNI 1994. Tre pettini anche da Chiusi: uno da Arcisa t. 5 - VON HESSEN 1971b, fig. 1, due di provenienza generica - VON HESSEN 1975c, tav. 22, I e 2. Un pettine da Lucca - CIAMPOLTRINI -NOTINI 1990, p. 581; uno da Roccastrada - CAPPELLI 1934; uno da Roselle (inedito dailo scavo delle terme urbane)Cfr. POSSENTI 1994 p. 89. Frammenti di pettine d'osso anche da Fiesole - DE MARINIS 1984. 39 RICCI 1994 e RICCI in questo stesso volume. In assenza di altre evidenze di quel tipo è tuttavia consigliabile una certa prudenza per evitare pericoiose generaiizzazioni. 40 PROFUMO 199S, figg. 76-77. Il tipo è tardoantico, ma prosegue in età longobarda. 41 CINI et al. 1979/80, tav. I, 1. In questo caso si può associare i'oggetto ad una fornace per la lavorazione dei metalli rinvenuta nel 1978 e tuttora inedita. 42 CIAMPOLTRINI -NOTINI 1990. 43 CITTER |996b.
44 Per una panoramica sull'artigiano e l'artigianato nell'età merovingia si vedano ad esempio CLAUDE 1981, NEHLST N 1981, STEUER 1986, BERNHARDI et al. 1991.1 dati di RomaCrypta Balbi (RICCI 1994, pp. 12 e ss.) autorizzano a vedere un più complesso rapporto fra culture in cui la committenza germanica interagisce con un tessuto produtt~vo autoctono che affonda le sue radici nell'età romana. Affronterò questo tema in un altro contributo. 45 Tesi, la prima, proposta a più riprese da una parte della letteratura tedesca - cfr. BIERBRAUER 1988, dove però segnala tutta una serie di problemi oggettivi circa la definizione etnica degli inumati nel corso del VII secolo a causa della progressiva acculturazione in senso "romanzo" della popolazione germanica. Questo concetto è ripreso in BIERBRAUER 1990, p. 97 dove viene stabilito il solo sicuro criterio di distinzione etnica in tombe maschili del VII secolo (la presenza di armi). Sulla distinzione sociale degli inumati in tombe ricche e molto ricche cfr. BIERBRAUER 1984, pp.483 e ss. riprendendo il criterio di CHRISTLEIN 1973 di una definizione generale valida in ogni luogo. Si veda anche CHRISTLEIN 1978, capitolo su economia e società, in particolare pp. 86 e ss. con la tavola riassuntiva. Si vedano all'opposto le critiche osservazioni in BLAKE 1983, p. 176 sulla possibilità di attribuzione etnica citando il caso di Pettinara dove i corredi sono autoctoni e gli inumati alloctoni. Una diversa linea interpretativa, per riprendere un'idea di WICKHAM 1982, pone come fattore determinante nel costume funerario il modello culturale del ceto dominante, non l'etnia. Sulla stessa linea di cautela nella rigida attribuzione etnica e di maggiore considerazione dell'aspetto socio-culturale del deporre con armi è BROGIOLO 1995, pp. 196-7. Ricordo infine YOUNG 1975, pp. 3-32, che stabilisce i tre criteri che influenzano la deposizione: fisico, sociale e personale. Ancora su questo filone di studi si inserice il contributo di STEUER 1989, che sintetizza un lungo cammino arrivando a posizioni molto critiche nei confronti dell'impostazione più tradizionale. Sulla stessa linea di pensiero, pur se con accenti diversi mi sembrano YOUNG 1975 e 1984, MARTTN 1988 e J0RGENSEN 1991. 46 La scarsità di rinvenimenti non ha attirato gli studiosi ad eccezione di O. von Hessen. Si può infatti decidere di studiare solo le regioni ricche di materiali, tuttavia ritengo che pur dai pochi dati a disposizione è possibile estrarre alcune utili informazioni. Per lo spunto di P Delogu rimando a DELOGU 1994, p. 14, nota 23, ma già BLAKE 1983 suggeriva di analizzare i contesti regionali al fine di valutare analogie e differenze, sottolineando quanto i fattori socioeconomici locali incidano sulla scelta dei doni funebri. Oltre ai doni, la struttura e la disposizione della tomba sono fattori determinanti, come altri riti, magari costosi, non documentabili archeolog~camente. 47 CITTER 1 sgsb. 48 VON HESSEN 1971b, p. s7. 49 32 secondo la prima relazione di MAETKF 1959. 50 Questo dato, in assenza dell'analisi antropometrica, si deve limitare ai soli defunti con corredo. 51 Vi sono alcuni oggetti di datazione più generica che riporterebbero alla metà del secolo o forse un po' prima, ma si tratta di labili indizi e pertanto poco probanti. 52 Si doveva manifestare lo status, non una classe sociale fissa, una sorta di distintivo militare, come nei moderni eseratl. St vedano a questo proposito le osservazioni di YOUNC. 1984, pp. 168-176. 53 Pertanto non sarà possibile trasporre automaticamente questo modello ad altre realtà della Tuscia con corredi ancora inquadrabili nel VI secolo. 54 Un secondo armato potrebbe essere a La Torraccia, dove CURRI 1978, p. 105 segnala una placca di cintura tipo Grancia ed una spada ad un solo taglio che potrebbe essere un sax. Il sito è comunque frequentato dal periodo etrusco. 55 Ovvero in un periodo in cui altrove già si comincia a perdere l'uso del deporre con corredi funebri. 56 In questo quadro sarà interessante fare confronti con la tomba femminile di Roselle con due orecchini a cestello in argento, croce di bronzo inscritta entro un cerchio e pettine d'osso. Inedita, citata in POSSENTl 1994, p. 89, datata fine VI-prima metà VII. 57 CITTER 1993. 58 Che non è dove la posiziona Maetzke, ma circa 1 km più ad est come risulta dalla sua piantina di dettaglio che riporta l'incrocio fra la strada del Grillese, quella per Poggio La Mozza e quella per Istia d'Ombrone. 59 Si veda a questo proposito DELOGU 1986b, pp. 159 e ss. e 1994, p. 14 dove riprendendo le avvertenze di LA ROCCA 1989, pp.149 e ss. ricorda che anche i Romani assunsero tratti germama e non furono solo i Germani ad acculturarsi. In particolare per l'interpretazione della necropoli di Castel Trosino si veda MARTIN 1988, pp 174 e ss. dove si afferma che le tombe con corredi di tipo mediterraneo non sono Longobardi acculturati, ma Romani. Questa idea è accettata da VON HESSEN 1993 ed esposta con serie argomentazioni in PAROLI 1995. Vedi anche LA ROCCA 1992, p. 28. I corredi con armi sono stati adottati anche da persone non longobarde e inoltre il rapporto fra culture nel progressivo avvicinamento dei due modelli è sempre su basi territoriali, quindi non potrà mai essere identico in zone molto distanti ed andranno analizzati per primi i contesti microregionali. Non si tratta di sostituire ad un modello lineare un altro modello, seppure di segno opposto. L'apporto alloctono fu diverso nei tempi, nei modi e nella consistenza e si inser~ in contesti autoctoni che già manifestavano differenze subregionali. E a posteriori, dallo studio di questi contesti, che si può valutare il rapporto fra culture. Il modello rosellano, che pure è in attesa di conferme o smentite dall'edizione della necropoli urbana, non può essere esteso al Chiusino o alla Lucchesia, tanto per rimanere in Toscana. 60 CITTER 1995b e CITTER 1995a, cap. 3.1.3. 6i CUCINI 1985, sito 235. Si tratta di due fibbie ad anello con placca fissa ad U di tipo bizantino. A queste si devono aggiungere forse anche due fibule a disco tipo Grancia segnalate da CIAMPOLTRTNI 1993, p. 601, nota 137. 62 PAOLUCCI 1988, p. 45. 63 CICCONE STURMANN-CONSOLI 1982.
64 CURRI 1978, sito 42, p. 105. Si trova a 6 Km da La Pescaia, altra necropoli coeva, in una zona densamente popolata fin dall'età preromana. Non ho potuto visionare il pezzo che comunque rientra nelle guarnizioni quintuple per cintura forse tipo Grancia t. 62. Sullo stesso sito è stata rinvenuta anche una spada ad un solo taglio che potrebbe dunque essere un sax lungo. 65Sulla forte militarizzazione della società senese si è espresso da ultimo GASPARRI 1990. Unico indizio i reperti segnalati da VON HESSEN 1975c, p. 99 che potrebbero provenire da contesti prossimi al centro urbano, ma anche da Chiusi. 66 Si veda da ultimo CIAMPOLTRINI 1995. 67 Vedi Kurze in KURZE-CITTER 1995. I Traspadini sembrano localizzati, stando ai documenti, in un'area più a sud di quella che sto trattando, ma credo che la sfasatura si possa imputare a difetto di documentazione e che, pertanto, i due dati convergano nel senso di un'occupazione capillare del territorio da parte del ceto militare. 68 Si vedano ad esempio, EGGENBERGER 1993, SENNHAUSER 1989, ma anche gli studi specifici contenuti in MARTIN 1988, COLARDELLE 1983. 69 Positiva eccezione è Trezzo sull'Adda - cfr. LUSUARm SIENA 1992. Per la Toscana da ultimo CIAMPOLTRINI 1995 propone una serie di casi concentrati nella parte nord occidentale della regione in cui è possibile evidenziare la sovrapposizione fra un impianto tardoantico (forse una villa) ed un edificio religioso altomedievale. Questo mostra anche che un esame più capillare delle evidenze, che non è possibile fare in questa sede, può arricchire molto il quadro delle conoscenze. 70 Per un esame complessivo dal punto di vista storico della nascita delle pievi rimando a VIOLANTE 1982. (Fig. 10) 7', quasi sicuramente anche a Fiesole sul vecchio tempio etrusco 72, mentre per Chiusi, sede di ducato, la questione è più complessa. I1 cimitero longobardo di Arcisa è infatti ai margini dell'abitato e le sepolture intramuranee, anche nei pressi della cattedrale, sembrano riferibili ad un secondo momento, cioè, come ha giustamente sostenuto Ciampoltrini 73, in fase di avanzata integrazione culturale fra autoctoni e germani di cui il rinnovamento della chiesa di S. Mustiola nel 729 ad opera del dux Gregorius costituisce la sanzione. Anche a Lucca (Fig. 11), altra sede di ducato, le aree cimiteriali sembrano concentrarsi intorno alle chiese extramuranee, seppure non mancano deposizioni interne 74. Per Volterra non vi sono al momento elementi sicuri circa il rapporto con gli edifici di culto e le sepolture che cominciano ad invadere lo spazio della città romana 75. 71 CELUZZA, in CELUZZA FENTRESS 1994. 72 La necropoli di via Riorbico è inserita in parte entro i ruderi di un edificio etrusco - cfr. CIAMPOLTRINI 1992, P. 696: si tratta forse di una chiesa ad aula? 73 CIAMPOLTRINI 1994, P. 627. 74 CIAMPOLTRINI 1994, PP. 618 e ss. dove segnala anche la continuità delle necropoli di S. Vincenzo e via S. Anastasio. CIAMPOLTRINI 1983 collega il personaggio di S. Giulia con una EgenkTrche. 75 Sepoltura di un cavaliere con speroni è segnalata a Le Cetine, in area periferica - MUNZT et al. 1994, nota 21. All'interno delle mura era un'altra sepoltura con fibbia che si imposta sull'obliterazione di una strada romana. Anche le vecchie aree necropolari rimasero in uso almeno fino all'alto medioevo come attestano tombe con corredi ed iscrizioni. In particolare un nucleo è situato fra l'arx, piazza Duomo e piazza San Giovanni, connesso alla necropoli de Le Ripaie. All'interno del nucleo abitato erano tuttavia almeno tre chiese. Un secondo nucleo poteva essere ubicato alle propaggini occidentali della città antica, odierno Borgo S. Giusto, collegata alla necropoli di Badia Montebradoni. 76 MELUCCO VACCARO (a cura di) 1991. 77 CIAMPOLTRINI 1993, PP. 598 e ss. che segnala 1'evidente parallelo di Chiusi-Arcisa. 78 GAZZETTI 1994. 79 CIAMPOLTRINI 1984, P. 301 segnala che i pur esigui resti consentono di ipotizzare una continuità topografica fra l'edificio romanico e quello altomedievale distrutto.
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La necropoli altomedievale della Selvicciola ad Ischia di Castro (VT) ed il territorio castrense in età longobarda
1.1 L'area che viene qui presa in esame (Fig. 1) si colloca nel tratto centrale della tavoletta IGM 1:100000, foglio 136 Tuscania, ad Est del fiume Fiora e a Sud-Ovest del lago di Bolsena. Vengono interessati principalmente i territori dei comuni di Ischia di Castro, Farnese, Canino e, in parte, Arlena di Castro, Cellere, Tessennano e Valentano, posti nella provincia di Viterbo. Sulla scorta di una serie di ricognizioni iniziate nei primi anni '80 2 e ancora in corso, i siti attribuibili al periodo della dominazione longobarda del territorio circostante al centro medievale di Castro, allo stato attuale della ricerca, risultano molto ridotti nel numero rispetto all'età romana 3. Ma, oltre ai motivi storici che dovettero determinare un effettivo spopolamento, va riscontrata un'obbiettiva difficoltà nell'individuare tra i materiali affioranti sul terreno quelli attribuibili con certezza agli anni compresi tra la fine del VI e l'VIII secolo. 1.2 La documentazione scritta relativa al periodo in esame, per quanto concerne la zona castrense, è alquanto scarna. È comunque probabile che l'occupazione longobarda si verificò tra il 592 ed il 607. Infatti al giugno del 592 fa riferimento la notizia dell'assedio longobardo della vicina Sovana 4, nel mese successivo anche Roma era assediata 5. Nello stesso anno i Bizantini rioccuparono Sutri, Bomarzo, Orte, Todi, Amelia, Perugia, Luccoli ed altre città non precisate 6. Ciò provocò la reazione immediata di Agilulfo che attuò almeno la riconquista di Perugia 7. Nel 605 lo stesso re occupò Orvieto e Bagnoregio 8. Quasi sicuramente nel 607 la zona era ormai longobarda 9. In analogia con altre aree della penisola italiana, dovette così forse attuarsi un cambiamento di proprietari terrieri - ma non necessariamente di chi lavorava la terra - e i vecchi “possessores” o furono eliminati, oppure divennero tributari 10. Ma non va neppure scartata l'ipotesi che in taluni casi venissero rioccupate proprietà ormai cadute in abbandono. 1.3 Alcuni toponimi ancora presenti nella cartografia locale parrebbero indicare un'origine longobarda. I1 più comune è quello di “Sala” 11 che ricorre almeno tre volte lungo il corso del torrente Olpeta alla distanza di circa sei chilometri tra un sito e l'altro. Il più vicino a Castro è Poggio Salone a circa un chilometro a S-O dal centro. Qui sono evidenti i ruderi di una piccola chiesa romanica, nota localmente come "La Chiesaccia", poggiante su una grande platea in blocchi di tufo, probabilmente etrusca. A N-O di questa località, presso i limiti S del Bosco del Lamone, compare il toponimo Salabrone, forse un termine composto; quindi, sempre nella stessa direzione e sui limiti S-E dello stesso bosco, S. Maria di Sala. Sono qui attestati abbondanti resti medievali tra cui una chiesa romanica, mancano però notizie certe sul sito prima del XII secolo 12. È stata comunque supposta la sua identificazione con la “Sala” citata nel Privilegio di Leone IV della metà del IX secolo dove vengono specificati i beni e i confini della diocesi di Tuscania 13. Va tuttavia notato che alla periferia Sud della non lontana Canino compare il toponimo “La Sala”, assente sulle mappe I.G.M., nei pressi della chiesa romanica della Madonna del Tufo. Potrebbe corrispondere al sito citato nel Privilegio di Leone IV poiché posto sui limiti della diocesi tuscaniese '4 dove il confine “... venit in Mausilcum Caninum, & inde pergit in Canestrasi ...”. La Sala si pone proprio tra Canino - ed in particolare tra una località non indicata sulla mappa I.G.M. ma nota localmente come "Musileo" - e il Fosso Canestraccio identificabile con il Canestrasi della fonte di IX secolo. Altri toponimi di probabile origine germanica compaiono in prossimità del Fiume Fiora, a N-O di Castro. È il caso del Fontanile di Pantalla, forse un composto contenente il termine “halla” 15 e presente anche nel tuscaniese, o Poggio del Gaggio, probabilmente derivante da “gahagi” 16. Non si hanno elementi tali da poter porre in rapporto la località con il Cagio Agonis o il Caium Flaianum
citati nelle fonti e collocabili genericamente entro i limiti della diocesi tuscaniese o entro una confinante 17. A circa nove chilometri ad E è il Fontanile di Valderico 18, sul limite N del Lamone. Il nome denuncia un'indubbia origine germanica, ma nessun elemento permette di stabilire la cronologia del toponimo. Sono qui evidenti i resti di un abitato fortificato costituito da murature a secco che compongono sia la cinta difensiva che gli edifici interni ad essa e, a poche centinaia di metri a S-O, di una piccola chiesa con tombe. I pochi frammenti ceramici affioranti sul terreno possono genericamente attribuirsi all'altomedioevo. A circa due chilometri a N-E è Chiusa del Tempio, oggetto di scavi alla fine del 1800 19. Vennero portati in luce i resti di una chiesa con numerose sepolture, ma non si ha notizia di eventuali oggetti di corredo. Va anche considerato Castellardo, nel territorio di Canino, a circa quindici chilometri a S-E di Castro e posto a controllo di un asse viario di origine romana, noto localmente come Via d'Ischia. Il toponimo Castellardo potrebbe contenere il termine Wardo 20 e quindi indicare un castrum posto a controllo dell'asse viario. Nelle immediate vicinanze, durante i primi anni '60, lavori agricoli sconvolsero alcune tombe a fossa coperte e talvolta rivestite da lastre litiche e tegole, contenenti qualche piccolo oggetto di bronzo e frammenti di ferro. Va inoltre rilevato che un documento del Liber Censum, datato tuttavia al 1140, indicante i confini della proprietà di Planum de Fonte Saxi dell'abbazia di S. Mamiliano 21 così cita “... tertio latere terra longobardorum Castellardi...”. 1.4 Per quanto concerne le fonti storiche, il riferimento più antico a Castro, degno di attendibilità, non parrebbe anteriore al 768 22. Ma alcuni documenti potrebbero alludere al centro come diocesi, se non dal 688 23 almeno dal 715 o 719 24. Inoltre, su di una cart~la repromissionis amiatina del 752, accettando l'integrazione di tre lettere ad una lacuna del testo 25, il centro è considerato civitas insieme a Chiusi, Sovana e Tuscania. È comunque evidente, da documenti amiatini e farfensi di VIII e IX secolo inerenti, oltre al castrense, anche ai territori confinanti, la presenza di numerosi personaggi di vario rango con nome germanico 26. È quindi probabile che costoro, o parte di essi, discendessero da elementi longobardi stanziatisi in quest'area dopo il 592607. 2.1 Gli indizi della presenza longobarda in zona sono comunque abbastanza evidenti nonostante i limiti precedentemente enunciati e la carenza di fonti dirette relative al periodo compreso tra la fine del VI e la prima metà dell'VIII secolo. La maggiore evidenza è offerta dall'attestazione di necropoli di cui soltanto una, quella della Selvicciola (Fig. 2, 1), è stata oggetto di scavi tutt'ora in corso 27. Qui, malgrado antiche violazioni e lavori agricoli susseguitisi per decenni, è stato possibile individuare almeno 120 diverse deposizioni tra cui 64 tombe intatte o conservate quel tanto da poterne ricostruire forma e copertura. Di queste ultime circa un terzo risultano essere fosse coperte con tegolè disposte alla cappuccina e, in base ai rapporti stratigrafici e ai materiali dei corredi, le più antiche del complesso. Alcune, orientate E-O, sono tagliate o coperte dalle fondazioni di una chiesa orientata N-S. Tale edificio, di modeste dimensioni, reca una sola navata, un'abside sul lato corto S ed un ambiente quadrangolare addossato all'esterno del lato E. Al di fuori dell'angolo N-E sono poi evidenti le fondazioni di un edificio a pianta circolare, forse un battistero o un sepolcro tardoantico. Nell'area della chiesa si sono recuperati frammenti di intonaci dipinti, di lastre e crustue marmoree. Lastrine e tessere musive policrome in pasta vitrea sono state rinvenute concentrate nella zona dell'aEside. In questo stesso settore otto tombe orientate E-O componevano un allineamento nel senso N-S in parte coperto dalle fondazioni della struttura. Tra queste la t. 85/14 recava nel corredo una lucerna (Fig. 3, 1) di tipo Atlante VIII CIa databile tra il IV e la metà del V secolo 23, la t. 82/9 frammenti di una bottiglia in vetro (Fig. 3, 2) affine al tipo Isings 125 inquadrabile tra IV e V secolo 29 ed il fondo ad anello multiplo di una coppa vitrea (Fig. 3, 4) databile nello stesso arco cronologico 30. Frammenti di una bottiglia analoga alla precedente provengono dalla t. 85/11 tagliata dalle fondazioni della chiesa. Queste coprivano, senza disturbarla, la t. 86/3 nello stesso allineamento delle tt. 82/9 e 85/14. Il corredo - due armille laminari in bronzo, una aperta (Fig. 4, 3) 3', l'altra richiusa con due ribattini (Fig. 4, 2) 32, due orecchini anulari (Fig. 4, 4-s) nello stesso metallo 33 ed una bottiglia (Fig. 4, 1) in argilla
depurata dipinta con vernice arancio opaca 34 - non permette di stabilire con certezza la cronologia dell'inumazione comunque posta tra il V e il VI secolo. Indubbiamente la datazione più puntuale della t. 86/3 costituirebbe un buon termine per definire la fase iniziale della costruzione della chiesa, per diversi aspetti affine nella pianta a quella della necropoli di Castel Trosino 35 e a quella di S. Martino a Trezzo sull'Adda 36. Alla Selvicciola l'impianto dell'edificio dovette così condizionare la disposizione delle nuove tombe ad esso prospicenti: all'interno vennero realizzate fosse, talvolta rivestite in muratura, orientate N-S e, almeno in parte, coperte alla cappuccina. Tanto queste, quanto quelle precedenti alla costruzione dell'edificio, vennero ritenute in un primo momento relative alla frequentazione longobarda iniziale del sito 37. Ora, dopo un più attento esame dei corredi, conseguente al loro restauro, paiono meglio inquadrarsi forse a partire dal IV secolo d.C. 2.2 Diversi indizi fanno ipotizzare che almeno alcune tombe all'interno della chiesa vennero riutilizzate successivamente al loro primo impianto. Ad esempio la t. 82/1, che in parte poggiava sulle fondazioni dell'edificio e presentava la copertura alla cappuccina perfettamente conservata, recava accanto al cranio una coppa (Fig. 4, 6) in argilla depurata, dipinta con vernice arancio, decorata sull'orlo con un motivo inciso a zig zag analogo a quello dell'askos della t. 114 di Castel Trosino 38. SU di un lato, all'esterno della copertura, la fossa presentava una nicchia chiusa da un embrice e contenente frammenti di ossa umane, di un probabile orecchino mutilo in argento (Fig. 5, 2) e di tre recipienti in ceramica (Figg. 4, 7-8; 5, 1). Nel terreno di riempimento, al disopra delle tegole di copertura, oltre ad altri resti di ossa umane, vennero recuperati diversi frammenti di una bottiglia in vetro di tipologia affine a quella delle tt. 82/9 e 82/11 (Fig. 3, 3). Probabilmente tali elementi vanno riferiti a inumazioni più antiche traslate. All'interno della t. 82/2, allineata con la t. 82/1 e in parte sconvolta in antico, era deposto, sul cranio dell'inumato, uno scodo con umbone (Fig. 5, 3) databile entro i primi decenni del VII secolo 39. L'asticcinola dell'immanicatura (Fig. 5, 4) risulta ripiegata intenzionalmente in antico. Tale fenomeno potrebbe connettersi con il saccheggio della fossa anche se entrambi gli elementi dello scudo risultavano ancora in connessione al momento della scoperta. È suggestiva, ma difficilmente dimostrabile, l'ipotesi di una distruzione rituale dello scudo al momento della deposizione. 2.3 Mentre all'interno della chiesa le uniche coperture accertabili risultano composte con tegole disposte alla cappuccina, all'esterno sono più frequenti tombe coperte a lastre irregolari di travertino locale. Più rare sono quelle realizzate in nenfro, o tufo, sagomate a doppio spiovente. Talvolta le pareti di alcune fosse appaiono rivestite da lastre di travertino infisse verticalmente nel terreno. Una di queste ultime, la t. 86/ó, presentava nel corredo un coltello in ferro (Fig. 6, 2) e uno spillone in bronzo (Fig. 6, 1) databile tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo 40. Una fossa con rivestimento simile, la t. 89/4, relativa ad un individuo di età inferiore ai sei anni, recava nel corredo una cintura con almeno 9 elementi in ferro ageminati ancora in corso di restauro. Sepolture con tale rivestimento vennero rinvenute nella Casa del Criptoportico nella vicina Vulci 41; con molta probabilità erano già violate in antico, ma nei corredi comparivano pettini d'osso e vaghi di collana frammentari analoghi, ad esempio, a quelli della t. 7 di Castel Trosino 42. Altre tombe altomedievali vennero rinvenute negli scavi della monumentale platea del tempio in prossimità della stessa casa 43. 2.4 In un momento successivo rispetto alle t. 86/6 e 82/2, ma forse non troppo oltre la metà del VII secolo, si pone la t. 87/4. La fossa, di forma rettangolare, non presentava rivestimento e la copertura era a lastre litiche irregolari poste in piano. Il corredo, deposto lungo il lato destro dell'inumato, comprende un pettine d'osso, un coltello in ferro (Fig. 6, 10) ed una cintura da spatha (Fig. 6, 3-9, 11-15) del tipo comunemente definito a cinque elementi. Questi sono in bronzo e trovano puntuali ed abbondanti confronti in numerosi contesti funerari italiani di VII secolo 44. La variante a cui sembra riferirsi la cintura della t. 87/4 non parrebbe superare di molto la metà del VII secolo 4s.
Contemporaneamente o in un momento poco successivo dovrebbe collocarsi la t. 86/8. Purtroppo risultava in parte sconvolta dalle arature; la copertura probabilmente era realizzata a lastre irregolari di travertino. Lungo le pareti restavano ciottoli e scaglie litiche tra cui un frammento di epigrafe funeraria di età imperiale romana. Il corredo comprendeva un sax (Fig. 7, 11) lungo circa 48 cm con i ribattini e le borchie del fodero (Fig. 7, 3-4), un coltello, una moneta illegibile, una cote (Fig. 7, 6) ed un acciarino (Fig. 7, 910) deposti sul lato destro della salma. Della cintura, compresa in questo primo gruppo di oggetti, restava soltanto la fibbia in bronzo (Fig. 7, 1) di tipologia analoga a quella della t. 87/4. Dallo stato di giacitura è comunque poco probabile che molti altri elementi fossero stati asportati dai lavori agricoli. Accanto al femore sinistro erano deposte cinque cuspidi di freccia, quattro foliate (Fig. 7, 12-14, 16) e una a coda di rondine (Fig. 7, 15). Una linguetta da cintura, mutila (Fig. 7, 2) e un anello in bronzo potevano esserrelativi alla sospensione della faretra 4~. Intorno ai piedi vennero recuperate due linguette (Fig. 7, 7-8) ed una fibbia in bronzo (Fig. 7,5), oltre ad abbondanti schegge di ossido di ferro, forse relative ad una coppia di speroni distrutti dalle arature. La tipologia delle fibbie e delle linguette, oltre alle diínenSiOni del sax, farebbero supporre una datazione non molto successiva alla metà del VII secolo. 2.5 Sicuramente ascrivibile alla seconda metà dello stesso secolo, o immediatamente dopo, è la t. 86/9 dove era deposto un maschio adulto coperto da lastre litiche irregolari disposte in piano. Sul fianco sinistro dell'inumato erano deposti un sax (Fig. 8, 1) lungo circa 55 cm, con i ribattini (Fig. 7, 20-22) e le borchie del fodero (Fig. 7, 23), un coltello (Fig. 7, 18), un acciarino (Fig. 7, 19, 24), una moneta illeggibile ed una cintura, ancora in corso di restauro, con almeno due placche di bronzo con decorazioni tipo Aldeno ed una fibbia ageminata (Fig. 7, l 7; 1 I, 1). Reca sulla placca un motivo ad intreccio ancora legato a schemi del secondo stile animalistico, ma privo di parti anatomiche stilizzate (Fig. 11, 1). Compaiono poi, all'interno dei tre spazi circolari centrali delimitati dal motivo ad intreccio, le tracce di una decorazione analoga a quella riscontrabile entro i cerchielli degli elementi più lunghi della cintura di Chiusi-Caserma dei Carabinieri 4 . Prossima a questa era la t. 86/11 (Fig. 2, 2) che recava lo stesso tipo di copertura e conteneva anch'essa i resti scheletrici di un maschio adulto. Il corredo consisteva in una coppia di speroni (Fig. 10, 1-2) in bronzo, con relative fibbie (Fig. 8, 13-14) e linguette (Fig. 8, 15-16, indossati sui piedi. Lungo il fianco sinistro un sax (Fig. 9,7) lungo circa 50 cm che, come in tutti gli altri casi qui riscontrati, presentava un coltello (Fig.9, 'T ) quasi sicuramente inserito nella parte posteriore del fodero di cui restavano i ribattini e le borchie di bronzo, con una cintura arrotolata intorno. Quest'ultima recava una fibbia (Fig. 9, 17; 12, 12), un passante (Fig. 9, 16; 12, 11), cinque linguette minori (Fig. 9, 9-12; 12, 6-10) e quattro più grandi (Fig. 9, 8, 13-15; 12, 13-16) in ferro, con decorazioni all'agemina. Un secondo gruppo di cinque elementi simili era deposto a formare un unico nucleo, come se la cintura fosse stata arrotolata volontariamente, tra il cranio ed il lato corto O della fossa. È composto da quattro linguette piuttosto allungate (Fig. 9,3-6; 12, 25) ed un lungo puntale (Fig. 9,2; 12,1). Data l'assenza della fibbia, la presenza del puntale e l'affinità di alcune decorazioni, si potrebbe anche ipotizzare la pertinenza di questi alla parte terminale della stessa cintura del sax. La posizione degli elementi all'interno della tomba, rinvenuta né violata né sconvolta dalle arature, farebbe sospettare un taglio intenzionale della cintura 48. Tutti gli elementi sono in ferro, decorati all'agemina e i più allungati (Fig. 12, 1, 3-5, 13-15) recano inserzioni di almandini su di una estremità. I motivi che li ornano appaiono completamente astratti e geometrici, ormai del tutto svincolati da morfologie e temi tipici del secondo stile animalistico. L'unica eccezione potrebbe essere rappresentata dagli elementi ad S visibili sulla faccia principale della linguetta Fig. 12, 3 che parrebbero ancora conservare il ricordo di motivi di tale stile. In Italia i pochi e non sempre puntualissimi confronti si possono addurre con materiali da Sovizzo 49 da Rallo 50, da Piedicastello 51, da Nosate 52, da Chiusi-Caserma dei Carabinieri 53 e forse da Benevento 54. Più frequenti sono invece i raffronti nel mondo merovingio d'oltralpe: tra i più puntuali si possono citare degli elementi di cintura da Balingen 55, da SendlingMunchen 56, dalle tt. 229 e 363 di Feldmoching-Munchen 57, dalla t. 7 di Altessing 58, da Gammertingen 59 da Altoberndorf 60, da Peiting 61 dalla t. 1 di
Strasskirchen-Sandwerg 62 dalla t. 8 di Otzing-Kleinweichs 63 da BuchheimStochach 64 dalla t. 184 di Merdingen 65, dalla t. 65 di Oonzdorf 66, da Herbolzheim 67, dalla t. 10 di Wallersdorf 68. Spesso questi materiali transalpini si associano a motivi decorativi tipici della fine del VII e dell'VIII secolo come quello “a favo” che comunque risulta assente alla Selvicciola. Alcuni elementi non paiono poi trovare alcun riscontro in ambito italiano come ad esempio la linguetta Fig. 12, 13 rinvenuta intorno al sax. Trova confronti con due placche della cintura della t. 229 di Feldmoching in Baviera 69 dove si associa ad elementi decorati “a maschera umana” alquanto simili ad uno rinvenuto alla Selvicciola nella t. 86/2. Un altro raffronto si ha nel corredò` della t. 1 di Strasskirchen-Sandwerg 70, dove fa parte di una cintura con 21 elementi abbastanza affini a quelli di Chiusi-Caserma dei Carabinieri e agli altri della t. 86/11 ad eccezione della sola fibbia recante una decorazione ancora di secondo stile. Una cintura analoga a quella della t. 86/11, ma con minor numero di elementi, è stata rinvenuta nella t. 86/2 posta all'esterno della chiesa, presso l'abside. È composta da una fibbia (Figg. 8, 5; 11, 3), un puntale (Figg. 8, 12; 11, 9) e cinque linguette (Figg. 8, 6-11; 11, 4-8) affini tra di loro e con diversi punti di contatto, oltre che nella forma, anche nelle decorazioni con alcune della t. 86/11. Una sola (Fig. 11, 6) differisce da tutte le altre: sulla faccia principale compare un motivo “a maschera umana” realizzato all'agemina. L'unico confronto in Italia lo offre un elemento di forma più allungata da Calvisano, a Brescia 71; ma i raffronti più puntuali si hanno con una placca di fibbia ed una linguetta da Altstadten 72. Tal genere di decorazione è databile entro la seconda metà del VII secolo 73 e vede la massima diffusione in ambiente bajuvaro 74. Come già osservato, nella t. 229 di Feldmoching-Munchen una stessa cintura recava ornamenti decorati “a maschera umana” 75, molto più simili all'esemplare di Calvisano che non a quello della Selvicciola, associati con altri che recano confronto nella t. 86/11. Per quanto concerne gli altri elementi il raffronto più valido, tanto per la forma che per le decorazioni, lo offrono quelli dalla t. 7 di Altessing 76 anche se le linguette appaiono in maggior numero. Infatti nella cintura della t. 86/2 oltre alla fibbia, sembrano usate soltanto linguette di piccole dimensioni, comunque attestate ad Altessing, ed una lunga come puntale. Questo trova inoltre raffronti a Nosate con materiali databili tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo 77. Anche a Sovizzo sono presenti simili decorazioni su placche di cintura 78. Altro aspetto di notevole interesse è rappresentato da una coppia di staffe in ferro nel corredo della t. 86/2 (Figg. 8, 3-4; 11, 2). Giacevano in un unico piccolo cumulo insieme alla cintura e ad un coltello (Fig. 8, 2, 10) a lato del femore sinistro dell'inumato. Le due staffe risultano diverse tra loro: una (Fig. 8, 3) trova confronti in Ungheria, nel corredo della t. 11 di Bolcske e rientra nel tipo B, o “avaro-ungaro”, dello Hampel 79. Ha poi raffronto con una coppia di esemplari dalla t.5 di Hencida 80 e dalla “tomba del 1947” di Au in Baviera, ben datata dopo la metà del VII secolo 81. L'altra staffa (Figg. 8, 4; 11, 2), pur rappresentando un unicum nella forma, ha forse qualche rapporto con un “ritrovamento sporadico” da Karos, presso il Fiume Bodrog, in Ungheria 32. Quest'ultimo può considerarsi, con maggior evidenza che non la staffa della t. 86/2, nel tipo D, o “ungaro”, dello Hampel 83. La radiografia del nostro esemplare ha fortunatamente evidenziato la presenza di decorazioni ageminate (Fig. 11, 2) che paiono meglio chiarirne la cronologia e l'ambito culturale a cui deve riferirsi la loro produzione, cioè lo stesso delle cinture delle tt. 86/2 e 86/11. Solo per citare alcuni esempi, sull'occhiello per l'attacco della cinghia si hanno motivi circolari con segmenti radiali che ricorrono su alcune linguette della cintura della t. 7 di Altessing 84, 0 il motivo ad S su altre da Mussbach 85, da Buchheim-Stockach 86 e da Mohringen 87. Si attendono infine i risultati dei restauri dei corredi della 86/13 comprendente un sax (Fig. 10, 3) lungo circa 60 cm, il puntale (Fig. 10, 4) ed alcune borchie e ribattini (Figg. 10, 6-8) del fodero, un coltello e la fibbia della cintura (Fig. 10, S), della t. 86/9, della t. 89/4 con almeno 9 elementi di cintura in ferro ageminati, delle tt. 86/15, 91/Sa e 91/8 con ornamenti analoghi e coltelli e di altri ancora. 3.1 Come è già apparso evidente da quanto sin qui illustrato, il caso della Selvicciola non va comunque considerato un fenomeno isolato su questo territorio: oltre a Vulci e a Castellardo, a circa 3
chilometri più a S, in località Fontanile della Doganella, in un sito già interessato da un vasto complesso di edifici di età romana, tra cui un grande impianto termale, lavori agricoli effettuati nel corso anni '60, distrussero diverse tombe a fossa. Erano coperte da lastre litiche, orientate E-O e, almeno alcune, disposte in file parallele. A detta degli abitanti del luogo alcune contenevano un solo “vaso” deposto a lato del cranio oltre a fibbie e spilloni di bronzo. Un'altra recava poi una coppia di speroni dei quali è stato possibile recuperare soltanto le fibbie (Fig. 10, 10-11). Sono due piccoli esemplari in bronzo, a placca fissa e di forma cruciforme. Il tipo trova rari confronti, tra cui il più puntuale lo offre un esemplare recentemente rinvenuto a Roma, nella Crypta BalLi, in un contesto della seconda metà del VII secolo 88. Una fibbia analoga è stata reperita a Torcello 89. Oltre che in Italia si hanno poi buoni raffronti in Crimea 90 e in ambito danubiano, ad Orlea 9i che rientrano, con altre fibbie cruciformi ma tipologicamente diverse, nel gruppo II-tipo E di Varsik 92. Il sito, tenendo conto dell'entità delle emergenze e delle distanze da Tuscania e Saturnia, potrebbe ben coincidere con la statio tardo-imperiale di Maternum indicata dalla Tabula Peutingeriana e dall'Anonimo Ravennate sulla via Clodia 93' considerando il percorso indicato nella Fig. 1. Non parrebbe comunque coincidere con il fundus Maternum delle fonti di VIII e IX secolo 94 poiché chiaramente collocato entro i confini del territorio del castrum di Viterbo. Tra il sito in esame ed i confini viterbesi si interponeva infatti il vasto territorio tuscaniese i cui limiti verso N-O sono abbastanza ben definibili in base alle persistenze toponomastiche 95. Lungo questo probabile percorso viario, nel tratto compreso tra Tuscania e Canino, in località Polledrara, recenti ritrovamenti attestano la presenza di una strada antica e di una necropoli altomedievale 96 molto probabilmente riferibile al Casale Terentilianus citato in un documento farfense dell'813 e forse alla pieve di S. Lorenzo Intrintilianum indicata tra i beni della diocesi di Tuscania in un privilegio della metà del IX secolo 97. Altre arature sconvolsero numerose tombe a fossa, spesso coperte con lastre litiche, a Colli di S. Colombano, a circa due chilometri ad Ovest della Selvicciola. Da notizie attendibili raccolte sul posto, vennero rinvenuti almeno un sax, uno sperone di bronzo, fibbie ed elementi di cintura in ferro e bronzo e forse altre armi da taglio e una staffa. Ripetute ricognizioni sul luogo hanno portato al recupero di una fibbia in bronzo (Fig. 10, 9) di tipo Bologna 98 e di una punta di lancia in ferro molto ossidata e corrosa (Fig. 10, 13). La lama, nonostante il cattivo stato di conservazione, presenta un profilo piuttosto vicino ai tipi a foglia di salice 99. Una cuspide di lancia “a foglia di lauro” venne rinvenuta nel secolo scorso a Pian di Lance, a Nord del Lamone 100. Venne definita “per la forma ... tanto etrusca che romana”. Le ricognizioni effettuate sul luogo non hanno finora permesso di individuare materiali altomedievali a meno che il ritrovamento sia da porre in relazione con la non lontana chiesa - e necropoli - di Fontanile di Valderico precedentemente citata. Altra notizia è relativa a rinvenimenti effettuati “a Poggio Falcone, nella collina prospicente il Fosso del Serafino”, località posta a 4 o s chilometri a N-O dai Colli di S. Colombano. Qui, oltre a resti di edifici, di una strada e tombe di varia tipologia, tra cui fosse, vennero trovati oggetti di cronologie diverse tra cui “fibbie e frammenti varii di bronzo, spade e speroni in ferro, una testa di spillone in argento, orecchini d'oro sbalzato ...”. Non è stato possibile riconoscere tali oggetti nei depositi del museo comunale di Ischia di Castrio, ma almeno gli speroni potrebbero aver fatto parte di corredi funebri altomedievali. Riferibile ad età longobarda è poi un ritrovamento a carattere funerario a Crocignanello, a tre o quattro chilometri a N-E di Poggio del Gaggio, comprendente elementi di cintura 102. Presso l'abitato protostorico di Sorgenti della Nova si ha poi il rinvenimento isolato di una placca di cintura forse analoga a quella della t. 87/4 della Selvicciola 103. Altra notizia, anteriore al 1957, è relativa ad un sito posto ad un centinaio di metri in linea d'aria a N-O di Castro e a circa 3 chilometri a N-O dei Colli di S. Colombano, in località Pianetto 104. Vennero in luce una decina di tombe a fossa coperte da lastre litiche e contenenti “... qualche resto umano, qualche avanzo di ottone e rame corroso e di medaglie di varia forma”. Intorno venne osservata la presenza di murature identificate con i ruderi della chiesa di S. Maria del Pianetto, ma è
più verosimile che si trattasse dell'oratorio di S. Silvestro già in rovina durante l'assedio di Castro del 1641 105. Recenti ricognizioni hanno permesso di rilocalizzare il contesto oggi assai compromesso dalle arature: il terreno, su di una superficie di circa m 150x300 è cosparso di laterizi, pietrame e ceramica tra cui vari frammenti di acroma databile genericamente in età medievale. Entro l'area, in un settore di circa m 30x50, affiorano frammenti di ossa umane frammisti ad altri di tegole e lastre in travertino, forse di copertura o rivestimento di tombe. Si è qui rinvenuto un ago di fibbia in bronzo con scudetto sul punto di unione con l'anello (Fig. 10, 12). In base ai confronti l'oggetto va datato tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo 106. A circa 14 chilometri a N-E di Castro va infine segnalata la presenza di un abitato e di una necropoli di età longobarda, a S. Lucia presso Valentano. Qui sono stati recuperati due sax di tipologia analoga a quelli della Selvicciola 107. 3.2 Dalla distribuzione dei siti appare evidente una loro disposizione su allineamenti che potrebbero ben coincidere con assi viari, i principali dei quali corrisponderebbero in parte alla Clodia sul percorso Tuscania-Castro-Sovana ed in parte al prolungamento medievale della Cassia passante per Valentano, già altrove proposto 108, con altri forse di raccordo. Lungo questi tracciati si attestano unità insediative rurali forse del genere di quelle citate nelle fonti di VIII-IX secolo. Tra queste alcune, come la Selvicciola, recano talvolta nelle sepolture maschili armi, cinture da spatha o da sax, speroni e staffe. Ciò non dovrebbe indicare necessariamente la coincidenza del sito con un castrum, quanto invece la presenza di personaggi di rango elevato all'interno della loro comunità e con un lungo retaggio culturale di tradizioni guerriere. Queste dovevano essere così radicate che il cattolicesimo non le aveva ancora debellate tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo, momento a cui parrebbero risalire almeno le cinture delle tt. 86/2 e 86/11. Avvalorerebbero inoltre tale ipotesi le sepolture di individui di età inferiore ai 5-6 anni con cinture e coltelli nel corredo. Inoltre molti di questi siti non presentano indizi di strutture difensive né artificiali né naturali, ad eccezione di Castellardo e di Castro. Valentano è definita castrum soltanto a partire dalla fine dell'VIII secolo 109. Mancano poi dati apprezzabili per stabilire l'eventuale frequentazione longobarda di siti medievali fortificati come ad esempio la Roccaccia di Montauto, Castelfranco, Farnese, il Castello della Botte, Ischia di Castro, Castiglionco, Pianiano e Piananello, pur restando entro i limiti di un raggio di dieci chilometri intorno a Castro. Molti sono ancora i punti da chiarire ed i temi da sviluppare, tànto sul territorio che sulla necropoli della Selvicciola, della quale, ad esempio, si attendono ancora i restauri di parte dei corredi. Pertanto si preferisce, allo stato attuale della ricerca, rimandare ad altra futura sede considerazioni a carattere più definitivo. MAURO INCITTI 1 Oggetto dell'intervento è il frutto di una campagna di ricerche condotte da anni dallo scrivente in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l'Etruria Meridionale con l'ausilio di volontari del Gruppo Archeologico Romano. A tal proposito si ringraziano G. Gazzetti, E. Stanco, F. Livi, L. Pontacolone ed E. Gasseau. ll personale interessamento di E. Foschi ha reso possibile la realizzazione delle radiografie delle Figg. 11, 1-9 e 12, 1-16. Si ringraziano L. Paroli, che ha reso possibile la presentazione di questo intervento, M. Ricci e S. Cini per la disponibilità dimostrata e G. Caporossi, C. Casi, C. Citter, A. Corsini, A. De Angelis e A. Laura per le utili informazioni. 2 ROSSINI-SPERANDIO 1985, pp. 80-84; GAZZETTI 1985b, pp. 275-280. 3 INCITTI 1989. 4 GREG. MAGN., Ep. II, p. 29. 5 GREG. MAGN., Ep. II, p. 38. 6 H.L. IV, p. 8; L.P LXVI, pp. 3-5. 7H.L. IV, p. 8. 8 H.L. IV, p. 32. 9 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 1987, pp. 317-321. 10 H.L. II, pp. 31-32; BRUHL 1984, p. 115. 11 SABATINI 1 963, P. 33; MASTRELLI 1978, P. 38; ARCAMONE 1984, P. 404; MASTRELLI ANZILLOTTI 1991, P. 22,7.12 NARCISI 1 994, p.66. 13 RASPI SERRA LAGANARA FABIANO 1987, pp.140-141.
14 RASPI SERRA LAGANARA FABIANO PP. 49, p. l01, tav. ll, nn.78,87. 15 MASTRI T T J 1978, p.38; MASTRELLI ANZILLOTTI 1991, p.228. 16 SABATINI 1963, p.64, MASTRELLI 1978, p.42, ARCAMONE 1984, p.404; MASTRELLI ANZITLLOTTI 1 9 9 1, P. 231. 17 RASPI SERRA LAGANARA FABIANO 1987, p.45. 18 CASI 1991, s.n. 1 9 PELT EGRTNT 1898, pp. 5 8 -5 g . 20 ARcAMoNF.1984, p.404; MASTRELLI ANZILLOTTI 1991, PP. 228-229. 21 FABRE-DUCHESNE 1905, Il, p.42, n.8. 22 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 1987, pp. 55-56. 23 RASPT 8ERRA-LAGANARA FABTANO p. 56. 24 STENDARDI 1993, p. 65; A. I aura, tesi di laurea inedita. 2s KURZE (ed.) 1974, pp.17-19, n. 8. 26 Fonti contenute in RASPT 8ERRA-LAGANARA FABIANO 1987. 27 INCITTI 1989; INCITTI 1992, pp.213-217. 28 PAVOLINI 1981, pp.194-198. In particolare per forma e decorazione tav. CLVH n. 6. 29 ISTNGS l9S7, p. 156, MORIN 1913, p.263, fig. 343, n. 2, HAYES 1975, tav. 213, nn. 132, pp.437-438; AUTH 1976, p.105, fig. 120; GOETHERT POLASCHEK 1977, p.351, tav. 72 nn. 1338-1339; CLARKE 1979, pp.217-218, fig. 27, Vl, n. 551; GRECO-MAMMINA-DI SALVO 1993, p.180, fig. 343. 30 ISINGS 1957, p. 6; BRAGANTINI 1977, p.83, fig. 38; TATTON BROWN 1984, p.208, fig. 68, n. 105; WHITEHOUSE 1985, P. 169, fig. 5, n. 56; WETNBERG GOLDSTEIN 1988, P. 58, figg. 421, nn. 152-153; BARBTNT 1992, P. 115, fig. 40, n. 1. 31 GELICHI 1990, fig. 7, n. 3, datata tra l'ultimo quarto del V e l'inizio del VI secolo; LUTTAZZI 1992, fig. 3, n. 1, pp. 769-763 datata piuttosto genericamente al VI-VII secolo, va infatti rilevato che dallo stesso contesto proviene un'epigrafe funeraria datata al 405. 32 KELLER 1971, PP.104-105, fig. 29, n. 11 (decorazione), fig. 30, n. 9 (forma), entrambi inquadrabili in ambito tardo-antico; SALADINO 1991, PP. 280-281, figg. 22e (decorazione) 22d (forma), provenienti dalla stessa tomba e datati tra la seconda metà del IV ed il VI-VII secolo. 33 VON HESSEN 1971, pp. 13, 55, tav. 2, n. 18; datati tra il VI e l'inizio del VII secolo sono tuttavla in argento. 34 L'argilla, la vernice, l'ansa, l'articolazione dell'orlo ed il collarino parrebbero ricordare la bottiglia della t. 56 di Nocera Umbra (PARIBENI-PASQUI 1918, col. 253, ARENA-PAROLI 1993 p. 22, tig. 18), ma il fondo presenta ancora una foggia riscontrabile in forme chiuse tardoimperiali in ceramica d'uso comune (RICCI 1968, figg. 373-374), oppure in flaconi o fiasche in terra sigillata africana databili tra la fine del V e l'inizio del VI secolo (FULFORD-PEACOCK 1984, p. 85, fig. 25, n. 2, 8). 35 MENGARELU 1902, tav. II. 36 LUSUARDI SIENA 1992, p. 136, fig. 4. 37 INCITTI 1989; INCITTI 1992, pp. 213-214. 38 MENGARELLI 1902, col. 133, fig. 156; ARENA-PAROLI 1993, p. 52, fig. 58. 39 SESINO 1989, pp. 68-69, tav. II la-b, tav. IV 1c, tav. V le; BIERBRAUER 1991, PP. 3334, fig. 8 n. 5, fig. 10 nn. 3, 6. 40 Il nostro esemplare risulta molto vicino ad uno spillone d'argento dalla t. 115 di Castel Trosino dove Si associava con monete, usate come pendenti di collana, tra Cui le più recenti vennero coniate sotto Maurizio iiberio (MENGARELLI 1902, coll. 134-135, fig. 157 J0RGENSEN 1992, fig. 6, n. 1). 41 PAGLIERI 1959, p. 271; MASSABÒ 1979, pp. 372-375; GAZZETTI 1985a, p. 73. 42 MENGARELLI 1902, col. 75, tav. VI, n. 3; ARENA PAROLI 1993, pp. 47, 52, fig. 55. 43 Informazione A. Corsini. 44 Tra i tanti confronti si DOSSOno citare Civezzano (CAMPI 1886, tav. III, nn 1, 4 AOBERG 1923, pp. 107-108,111, (gg. 177, 179,192), S. Maria di Zevio (VON HESSEN 1968, p. 29, tav. 15, n. 1; VON HESSEN 1990, p. 196 IV, 78), Sovizzo (CINI-RICCI 1979, p. 16, tav. V) Cividale (TAGLIAFERRI 1990, 438 X103, 456 X149), iestona (VON HESSEN 1971, pp. 84-87, taff. 39-41), Carignano (LEBOLE DI GANGI 1988, nn. 57, 63, 73, 95, 109, 122), ecc. 45 VON HESSEN 1983, pp. 24-27. 46 Tra i numerosi confronti per le cuspidi foliate, databili tra Vl e Vll secolo, bastino gli esempi dalle tt. 20 e 5l di Tamasi (BÒNA 1990, pp. 50-51, 1. 37, 1. 38), dalla t. ]4 della necropoli di Gallo a Cividale (BROZZI 1990, p.379, X.29), dalla t. 5 della necropoli di Firmano a Cividale (BROZZI 199O, 44O, XlOSb), a Ibligo-lnvillino (BIERBRAUER 1987, p. 170, tav. 59 nn. 8, 10, tav. 66, nn. 7, 9, 10, 15), dalla t. 4 di Trezzo sull'Adda (ROLETA (a cura di) 1986, p 73, tav. 30, nn. 7b-c) ecc. Per le punte a coda di rondine oltre ai casi di Ibligo-Invillino (BIERBRAUER 1987, p. 170, tav. 58, nn. 11-14, tav. 60, nn. 4-ó, tav. 66, nn. 1-6, 8), della t. S di Firmano (BROZZI 1990, p. 440, X.lOSa) e della t. 4 di Trezzo sull'Adda (ROFFIA (a cura di) 1986, pp. 73-74, tav. 30, nn. 7d-e) si possono aggiungere esempi da Testona (VON HESSEN 199O, pp. 196-197, IV 76) e dalla necropoli di S. Salvatore di Maiano a Cividale (BROZZI1990, p.379, X.30). La linguetta mutila trova confronti nel corredo della t.16 di CampochiaroVicenne datata al pieno VII secolo (GENITO 1988, p. 63, fig. 12), oltre che con esemplari datati al Vll secolo come uno dalla t. XLIII di Carignano-Boatera (LEBOLE DI GANGI 1988, fig. 62), altri dalla t. 8/1979 da Collecchio (CATARSI DALL’AGLIO 1993, pp. 64-65) e da Testona (VON HESSEN 1971 P. 87, tav. 42, nn. 390-391). 47 VON HESSEN 1975, tav. 1, nn. 3, S.
48 Ciò potrebbe forse porsi in relazione con particolari aspetti del rituale funerario. Non va del tutto escluso un rapporto con quanto precedentemente esposto da C. La Rocca in questa stessa sede. 49 Tesi di laurea inedita di S. Cini. 50AMAN-IE SIMONE 1981, pp. 90-91, tav. VII, n. 4. 51 AMANTE SIMONE 1981, pp. 90-91, tav. VII, nn. 8-14; BIERBRAUER 1990, pp. 119-120, n. II, 20c. 52 DE MARCHI 1988, pp. 52-53, tav. XLIV, nn. 5, 2a-e. 53 MELUCCO VACCARO 1971, p. 37; EAI;. 1978, pp. 21, 53, fig. 27; VON HESSEN 1975, pp. 20-21, tav. I . 54 Tesi di laurea inedita di S. Cini. 55 VEECK 1931, p. 244, tav. 61B, n. 12. 56 DANNHEIMER-ULBERT 1956, tav. 2, nn. 9-11, tav. 14A, nn. 3-6. 57 DANNHEIMER-UT BERT 1956, tav. 7A, nn. 22-23, tav. 9A, nn. 2-8, 1 1-17. 58 STEIN 1967, pp. 217-218, tav. 2, nn. 29-46, tav. 74, nn. 1-16. 59 STEIN 1967, tav. 86, n. 8. 60 STEIN 1967, tav. 85, n. 1. 61 STEIN 1967, tav. 80, nn. 9, 11. 62 KOCH 1968, tav. 90, nn. 1-6, 13-20. 63 KOCH 1968, tav. 89, nn.l-12. 64 GARSCHA 1970, tav. 65, nn. 4, 9-10. 65 FINGERLIN 1971, tav. 89, n. 184, 4. 66 NEUFFER 1972, tav. 42, nn. 5-8. 67 KOCH 1982, pp. 452-463, fig. 455, tav. 37. 68 OEXLE 1992, tav. 20, nn. 258, 5-7. 69 DANNHEIMER ULBERT 1956, tav. 7A, nn. 22-23. 70 KOCH 1968, p. 232, tav. 90, n. 13. 71 VON HESSEN 1965, pp. 171-180. 72 FRANKEN 1944, tav. 17, nn. 2-3. 73 MELUCCO VACCARO 1978, p. 17, tipo c. 74 ZELLER 1988, pp. 239-240. 75 DANNHEIMER-ULBERT 1956, tav. 1, r~n. 4,7, tav. 7A, nn. 2-S, 7-16. 76 STEIN 1967, pp. 217-218, tav. 2, nn. 29-46, tav. 74, nn. 1-16. 77 DE MARCHT 1988, pp. 52-53, tav. XLIV, nn. S, 2a-e. 78 Tesi di laurea inedita di S. Cini. 79 HAMPEL 1905, I, pp. 223-227, fig. 520, II, p. 315, III, tav. 241, n. 1. 80 FETTICH 1937, tav. LXXXVI, nn. 1-2. 81 OEXLE 1992, pp. 69, 177-178, tav. 87, nn. 2-3. 82 FETTICH 1937, tav. CXXXIII, nn. 1-2. 83 HAMPEL 1905, I, pp. 234-242. 84 STEIN 1967, pp.217-218, tav. 74, nn. 3, 13. 85 STEIN 1967, tav. 9 1, nn. 18 -20. 86 GARSCHA 1970, tav. 65, nn. 8-11 87 GARSCHA 1970, tav. 65, nn. 4-5. 88 Intervento di M. Ricci in questa stessa sede. 89 LECIEJEWTCZ-TABACZYNSKA-TABACZYNSKI 1977, p.192, fig. 135, n. 37. 90 Informazione M. Ricci 91 THEODOR 1991, p.132, fig. 6, n. 3. 92 VARSFK 1992, p. 84, tav. 111, n. 11. 93 GAZZETTI 19 8 9. 94 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 1987, pp.102-103. 95 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 19 8 7, p. 1 03. 96 Informazioni di G. Gazzetti e A. De Angelis. 97 RICCI-SANTELLA-STOPPACCTARO 1992, P. S3. 98 CSALLÀNY 1954, P. 325, tav. Vl, nn. 10-11 WERNER I 9SS, p. 40, fig. 5, 1, 3 VINSKI 1967, PP. 28-29, tav. XX, nn. 10, 12; VARSLK 1992, PP. 83-84, tav. 111, n. 9. 99 BIERBRAUER 1991, PP. 34-36. 100 PELLEGRINT 1898, P. 63. 101 LOTRI RITTATORI 1941, P. 304. 102 CIAMPOLTRINI 1983, P. 513. 103 Informazione C. Citter. 104 STFNDARDI 1993, P. 37 105 AIMO-CLEMENTI 1988, P 19
106 Ardiglioni di tale foggia ricorrono su fibbie di tipologia e materiali differenti comunque inquadrabili non oltre la metà del VII secolo (MENGARELLI 1902, col.63, fig. 48, col.68, fig. 54; VON HESSEN 1985, pp.123-124, n. 4,40; BONA I 990, p. 67, I.161; TAGLIAFERRI 1990, pp.457,459, X157. 107 LUZZATI 990, pp. 277-286, tavv. 28-30. 108 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 1987, p.29. 109 RASPI SERRA-LAGANARA FABIANO 1987, p.29.
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Relazioni culturali e scambi commerciali nell'Italia centrale romano-longobarda alla luce della Crypta Balbi in Roma
Le problematiche relative alla produzione e alla commercializzazione delle merci pregiate nell'altomedioevo, ed in special modo nel VII secolo, si sono molto ampliate e chiarite nel 1993 dopo la scoperta del grande deposito nell'esedra augustea della Crypta Balbi a Roma 1. Questo era costituito da un grande riporto di rifiuti, relativi probabilmente al monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, formatosi quasi certamente in un solo momento intorno alla fine del VII secolo anche se presenta materiali databili in tutto l'arco del secolo stesso. All'interno di questo deposito sono stati rinvenuti più di cinquecento oggetti in vari stadi di produzione relativi ad un opificio: dai modelli in piombo per matrici da fusione, ai modani da sbalzo, alle prove da sbalzo, ai pezzi rotti in fase di produzione, a quelli quasi finiti, agli oggetti finiti. Soltanto questi ultimi pongono qualche problema di attribuzione alle produzioni dell'officina individuata, ma per la maggior parte di essi, è probabile che la loro produzione sia avvenuta in loco, considerata la particolare provenienza. Naturalmente tutti i materiali rinvenuti rappresentano soltanto una minima campionatura della produzione dell'opificio stesso. L'attività di produzione in senso stretto è documentata da più di duecento altri oggetti quali bilance, pesi, trance, incudini, martelli, bulini, scalpelli, affilatoi, lisciatoi, brunitoi, cannelli da saldatura, crogioli, nuclei di materia prima, scorie, utensili per la tessitura. Tali reperti non saranno oggetto di questo articolo, date le sue finalità. Verrà invece illustrata una selezione delle produzioni che maggiormente hanno implicazioni con i materiali presenti nei contesti delle necropoli italiane altomedievali. La produzione metallurgica Dal punto di vista tecnologico la produzione degli elementi da cintura, delle placche decorative in genere e dei pezzi sbalzati di serie si articolava in vari stadi, tutti documentati da questi materiali. Il primo stadio prevedeva la realizzazione di un modello in piombo, che poteva essere massiccio per la produzione di modani per placche da sbalzo oppure alleggerito sul retro per pezzi fusi. Una volta realizzato il modello da esso si ricavava la matrice vera e propria, monovalve o bivalve a seconda della necessità. Data l'assenza di terre di fusione nei depositi del contesto è probabile che le matrici fossero realizzate in osso di seppia, secondo una tecnica ancora in uso nell'oreficeria. Dopo la fusione o lo sbalzo il pezzo veniva rifinito a bulino e venivano saldate le magliette per il fissaggio. Nell’esposizione i pezzi sono presentati secondo criteri tipologici, senza fare riferimento, se non in casi particolari, al loro stadio di lavorazione. Elementi di cintura Tra le fibbie è documentata la produzione di molti tipi a partire dal più semplice, con anello ovale a sezione massiccia Fig. 1, 1, che si trova in molti corredi sia maschili che, soprattutto, femminili di tutta Italia, dalla fine del VI alla prima metà del VII secolo 2; è interessante notare come in questo modello fosse già previsto il cannello per l'immissione del metallo. Il modello di anello decorato a gruppi di linee rilevate Fig. 1, 2 per fibbia a placca mobile trova un esatto riscontro nell'esemplare della tomba 6 di Nocera Umbra 3, che presenta un ardiglione con scudetto particolare, attestato anche nel nostro contesto con due modelli tipo Fig. 1, 4 e che si ritrova anche nella fibbia “mediterranea” del corredo della tomba dell'orefice di Grupignano 4. Questa identità di dettagli tra oggetti con forme mediterranee, nel caso di Roma sicuramente prodotti in territori bizantini, e oggetti con decorazioni di tradizione germanica può probabilmente essere spiegata con l'esistenza di grandi atelier specializzati nella produzione di merci di lusso per mercati con gusti e mode diversi.
A differenza di questi primi pezzi trova confronti più generici il tipo con anello largo e sottile Fig. 1, 3, riferibile a fibbie a placca mobile del tardo VI-prima metà VII secolo s. L'ardiglione di fibbia con scudetto elaborato Fig. 1, 5, che prevede l'inserzione di un elemento in altro materiale e il probabile elemento di cintura Fig. 1, 6, che presenta le stesse caratteristiche, non sembrano trovare riscontri in ambito italiano; ma elementi di cintura con caratteristiche analoghe sono presenti in corredi dell'Europa orientale a Portovoe e a Vasilevka 6, dove sono attestate anche delle particolari placchette a bottone con bordo perlato 7 che trovano un esatto riscontro Fig. 1, 7 in questa of ficina. Diverso è il caso degli anelli di fibbia a placca mobile con zone piane Fig.1, 8-9 praticamente identici sia all'esemplare in oro della tomba in contrada Pedata di Castel Trosino ora al Metropolitan Museum di New York 8che ad altre fibbie in metallo prezioso nei corredi di tombe da Nocera Umbra, da Offanengo, da Cividale necropoli Cella 9. A tipi diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo appartengono invece le fibbie tipo Balgota 10 Fig. 1, 10-11 e tipo Corinto 11 Fig. 1, 12. Deve essere segnalato che rispetto alla massa degli esemplari, piuttosto massicci, questi romani sembrano appartenere ad un sottogruppo caratterizzato dalla particolare cura nell'esecuzione. Sempre ad un tipo mediterraneo con diffusione piuttosto ampia appartiene la placca di fibbia a scudetto Fig. 1, 13 che trova un puntuale confronto, anche per la decorazione zoomorfa, in vari esemplari italiani provenienti dalla Sicilia, dalla zona di Verona e da altri siti 12. Il modello per anello di fibbia sagomato Fig. 1, 14, la cui articolazione a globetti forati doveva essere poi saldata, del quale sono attestati nel contesto altri due modelli leggermente variati e l'ardiglione Fig. 1, 15 con scudetto ad "U" molto allungato e punta espansa verso l'estremità allungata sono riferibili a particolari fibbie in metallo prezioso del tipo a lira definito dal Werner "Trebisonda", poco comune e presente soprattutto in tesori 13, che 0. von Hessen identifica come distintivo di rango 14. Allo stesso tipo è riferibile l'ardiglione Fig. 1, 16 che trova confronto in un esemplare da Firenze e in vari altri 15. Di difficile inquadramento risulta la piccola fibbia in bronzo dorato Fig. 1, 17 con anello molto alto e ardiglione con scudetto ad "U", decorata con motivi a virgola 16 e scanalature sull'anello; questo pezzo per la particolare altezza dell'anello potrebbe essere riferibile alle fibbie reliquiario 17 anche se le dimensioni sono più piccole e altri dettagli quali la forma e la decorazione del piatto dell'anello sembrano rinviare al tipo Trebisonda 18. Ad un'altra variante del tipo Trebisonda, attestata da esemplari in oro provenienti da un piccolo tesoro 19, è attribuibile l'anello di Fig. 1, 18. A proposito del tipo Trebisonda deve essere notato che nel complesso queste fibbie, pur mantenendo alcuni caratteri comuni, quali la forma dell'anello e dell'ardiglione e l'articolazione a globetti, appaiono piuttosto disomogenee per quanto riguarda la forma e la decorazione della placca; ciò è dovuto al fatto che si tratta di opere di oreficeria; mentre per gli elementi fusi infatti veniva mantenuta una certa omogeneità, per quelli sbalzati, come la placca, ogni esemplare costituiva un unicum. Non è stato possibile reperire alcun confronto per la forma del modello di ardiglione Fig. 1, 19 a scudetto trapezoidale mentre la decorazione con due delfini stilizzati disposti in modo antitetico appare identica a quella presente sulla famosa linguetta di Sebastane proveniente da Cividale Cella 20. Il modello per anello di fibbia a placca mobile con articolazione all'interno delle cerniere della placca appartiene ad un tipo particolare, diffuso soprattutto nella seconda metà del VII secolo e trova puntuali confronti nel materiale noto, come ad esempio le fibbie per la sospensione della spada presenti nel corredo della tomba 2 di Trezzo sull'Adda 21. Non trovano puntuali riscontri i modelli di placche sagomate Fig. 2, 1-2 per fibbie a placca mobile 22che per la loro tecnica di fabbricazione dovevano essere realizzate in metallo prezioso; infatti la linguetta tagliata che doveva essere girata intorno all'anello della fibbia difficilmente sopporterebbe questa operazione senza spezzarsi se realizzata in bronzo. Il modello per placchetta quadrata Fig. 2, 3 con scritta in nesso, appartiene ad un tipo particolare che sembra trovare riscontro soltanto in una placchetta analoga, ma senza scritta, rinvenuta in una piccola necropoli a Ceriara Priverno, dove è associata ad una fibbia con anello segnato da solcature 23 analogo, anche se di dimensioni maggiori, a quello di Fig. 2, 4. Forse a cinture semplici da abito di questo tipo che prevedevano soltanto la fibbia ad anello ed una placchetta quadrata decorativa
potrebbe essere riferibile la placchetta aurea, di dimensioni analoghe a questo esemplare, rinvenuta nella "tomba di Gisulfo" a Cividale e da alcuni assegnata a produzione romana 24. Sembrerebbe che il nesso, il quale può essere sciolto in LAURENTI, richiami la dedicazione a S. Lorenzo in Pallacinis della struttura monastica, cui l'opificio dovrebbe far capo. La decorazione di questo esemplare a finta doppia cordonatura non appare frequentemente in materiali coevi e trova confronto nelle bordature delle falere della tomba di Ittenheim 25. Il modello per fibbia a placca traforata Fig. 2, 5, forse non per cintura, trova alcuni confronti generici con esemplari ad anello meno elaborato da Sovizzo e dal corredo della tomba 16 di Nocera Umbra 26. Il modello per ardiglione di fibbia a placca fissa Fig. 2, 6 appare simile, se non identico, a quello della fibbia di cintura multipla in oro proveniente dalla tomba 4 di Via Monte Suello in Valdonega 27. L'altro modello per ardiglione con dente rialzato Fig. 2, 9 sembra attribuibile a fibbie a placca fissa, varianti del tipo Siracusa, diffuse in molti corredi longobardi italiani, ma anche il tutto il Mediterraneo 28 e attestate in questo contesto da un frammento di modello Fig. 2, 7 e dall'esemplare Fig. 2, 8. Il modello per fibbia a placca fissa decorata con un animale marino fantastico Fig. 2, 10 per la forma non trova nessun confronto se non generico come ad esempio l'esemplare dalla tomba 89 di Nocera Umbra 29 o quello in argento della tomba 2 di S. Stefano in Pertica a Cividale 30, piuttosto vicino ma con placca più corta e non decorata, mentre il motivo decorativo è piuttosto frequente in figurazioni su materiali dell'epoca quali il fodero aureo del pugnale proveniente dalla tomba in contrada Pedata a Castel Trosino 31, una delle placche del tesoro di Velestinon in Tessaglia 32 o negli animali raffigurati sul famoso sarcofago di Teodote a Pavia 33. Le fibbie con placca fissa a scudetto, attestate con due modelli Fig. 2, 11-12, pur non avendo alcun confronto puntuale in Italia, trovano paralleli piuttosto simili come ad esempio nell'esemplare della tomba 89 di Castel Trosino 34 o in uno da Uc Tepe 35; un esemplare realizzato molto probabilmente con il modello Fig. 2, 12 proviene da Mangalia alla foce del Danubio 36. Il modello per fibbia con placca fissa a scudetto ed appendice Fig. 2, 13 trova soltanto un confronto generico con un esemplare dalla tomba 109 sempre di Castel Trosino 37. A cinture semplici diffuse soprattutto tra la fine del VI secolo e gli inizi del VII appartiene la placchetta a goccia non finita Fig. 2, 14 molto simile, se non identica, a quelle presenti nelle tombe 52 e 165 della necropoli di Nocera Umbra 38. Elementi di cinture multiple da parata Molti elementi sono sicuramente relativi a cinture multiple. Probabilmente vanno attribuiti a linguette cosiddette del tipo avaro i due esemplari Fig. 2, 15-16, il primo dei quali appena abbozzato: essi sono molto simili a quelle presenti nella tomba 2 della necropoli dell'Arcisa di Chiusi 39 e a quelle di una cintura da Sadovec 40 dove sono attestate anche placche a doppio pelta vicine ad un tipo particolare rappresentato dal modello per placchetta traforata a pelta Fig. 2, 17, che molto probabilmente prevedeva un inserto in altro materiale. Il modano da sbalzo con bordo perlinato Fig. 2, 18 attesta la produzione a Roma di un tipo particolare di cinture presente nei corredi della tomba 1 di Nocera Umbra 4'e della tomba 1 di Trezzo sull'Adda. Certo alcune differenze esecutive non ci permettono di assegnare con certezza all'officina romana la produzione degli esemplari usati per il confronto, i quali sono comunque da considerarsi di serie, data la loro identità. È possibile comunque supporre che, dopo o insieme alla manifattura di cinture di maggior pregio, nell'officina romana si realizzasse una produzione di massa, che eseguiva gli stessi modelli con una cura leggermente minore. Il modello per modano di placchetta decorata a bande scalettate che vogliono imitare una perlinatura Fig. 2, 19 trova un confronto piuttosto vicino, anche per la disposizione della decorazione, nella cintura multipla della tomba F e nelle placche auree della tomba 9 di Castel Trosino 42; con disposizione diversa la decorazione è presente nella linguetta in argento della tomba T e nelle cinture delle tombe 90 e 119 sempre di Castel Trosino 43 e nella cintura multipla di Colognola al Piano 44. Un modano da sbalzo per placchette a doppio "U" con una disposizione della decorazione simile,
anche se eseguita in maniera diversa, proviene dal Chersoneso 45 e ci conferma che i modelli in uso a Roma si inserivano in un panorama mediterraneo abbastanza omogeneo, seppur con alcune differenze. Va comunque notato che questa decorazione a bande scalettate è presente su altri due modelli che verranno esaminati in seguito. Altre placchette ad "U", attestate sia con un modello Fig. 2, 20 che con un esemplare non finito Fig. 2, 21, non trovano confronti calzanti, ma va evidenziata la notevole somiglianza nel modo di tagliare il bordo rettilineo tra questi esemplari e la linguetta aurea proveniente dalla tomba 12 della necropoli cividalese di S. Stefano in Pertica 46. La placchetta non finita a doppio scudo Fig. 2, 22, con evidente stacco d~ fusTone, r~sulta essere praticamente identica a quelle della cintura rinvenuta nella tomba 37 di Castel Trosino 47. Il modello di placchetta Fig. 2, 23 a scudetto semicircolare con tre appendici presenta sia la forma che le dimensioni simili alle placche delle cinture multiple delle tombe 90 e 119 di Castel Trosino 48 e rappresenta l'unico reale confronto rintracciato per la morfologia di queste placchette. Un tipo nuovo sembra rappresentato dal modano da sbalzo per placchetta a bordo perlato con doppia appendice Fig. 2, 24. Per quanto riguarda la forma, un confronto è rappresentato dalle placchette in argento di una cintura, proveniente dalla cripta 273 della necropoli di Eski-Kermen in Crimea 49, che mostra caratteristiche sia formali che decorative tali da poterne ipotizzare una origine italiana. La decorazione a bordo perlato è presente anche su altri materiali del periodo so; la zona piana è probabile fosse poi completata successivamente con decorazioni incise a bulino. Il modano da sbalzo per placchetta a scudetto molto arrotondato con appendice a scudetto Fig. 2, 25 è uno dei pezzi più ricchi di implicazioni. Per la forma è accostabile a placche di cinture in metallo prezioso quali quelle delle tombe 90 e 119 di Castel Trosino si, che sono le uniche abbastanza vicine, e a placche delle cinture ageminate, come ad esempio quelle della tomba 142 della stessa necropoli 52. Questa forma di placca sembrerebbe comunque caratteristica delle officine italiane, data anche la sua scarsa frequenza in contesti al di fuori della penisola. La decorazione non mostra eccessive particolarità nei motivi cosiddetti a virgola; più interessante è il motivo di bordatura ad arco campito da serie di lunule. Questo decoro si riscontra nella linguetta in argento da cintura, dove è eseguito in maniera identica e apparentemente dallo stesso artefice, e nelle placche auree di sella provenienti dal corredo della tomba 90 di Castel Trosino 53; la possibile produzione romana di questi ultimi oggetti può trovare conferma in altri materiali che verranno analizzati più avanti. Inoltre lo stesso motivo a serie di lunule è presente su un'altra placca aurea conservata nel Museo di Ascoli Piceno 54, forse proveniente sempre da Castel Trosino, e su una placca riusata per imprimere la decorazione in una crocetta proveniente da Lavis 55. Al di fuori dell'Italia esso è attestato in un paio di orecchini provenienti dal tesoro di Assiut 56 e, in maniera più sincopata, è infine presente sugli elementi di una cintura multipla in oro nelle collezioni della Dumbarton Oaks 57apparentemente proveniente dalla Siria, ma della quale è ipotizzabile un'origine italiana. Infine va segnalato che un motivo simile, usato però per fasce rettilinee, è presente su due placche auree, forse per finimento di cavallo, rinvenute in un piccolo tesoro ad Antiochia s8. In base alla sua particolarità è possibile supporre che questo motivo fosse divenuto tipico del repertorio della nostra officina, forse ispirato a modelli orientali quali le placche di Antiochia. Dubbia è l'attribuzione ad una placchetta di cintura del modano frammentario Fig. 2, 26 decorato con una rosetta entro cornice a scaletta, motivo già visto per Fig. 2, 17 e che si riscontra nella croce Fig. 8, 9. L'esemplare potrebbe infatti essere anche interpretabile come una placca di fibbia simile a quella di Fig. 2, 8 o di placchetta sul tipo di quelle della tomba 37 di Castel Trosino s9. Il modello per placchetta Fig. 2, 27 sembra derivare dal tipo con appendice di Fig. 2, 25 e mostra come le placchette realizzate per fusione venivano prodotte senza la decorazione che era probabilmente incisa in fase di finitura. Il modello di placchetta con appendici Fig. 2, 28 sembra invece derivare dal tipo presente nella tomba 4 di Via Monte Suello in Valdonega 60. Nessun confronto è stato rintracciato per il modello di modano da sbalzo per placchetta a doppio scudo Fig. 2, 29, mentre vari confronti sono possibili per la decorazione a virgola presente sul pezzo 61. Le placchette ad ancòra o a mordacchia sono attestate, sia con un modano da sbalzo Fig. 2, 30 con decorazioni a virgola, confrontabile per la
tecnica ad esempio con la placchetta della tomba in Contrada Pedata a Castel Trosino 62, che con il tipo fuso Fig. 2, 31 confrontabile con la placchetta della tomba 37 di Castel Trosino 63. Va comunque evidenziato che i confronti rintracciati riguardano più la tecnica esecutiva che la forma specifica. Il modello di placchetta quadrangolare con delfini Fig. 2, 32 non trova confronti specifici se non per l'uso di questo motivo decorativo diffuso sia nella necropoli di Nocera Umbra tomba 16 64 che in quella dell'Arcisa tomba 5 65. Cinture da armi I modelli per modano di placca da sbalzo Fig. 3, 1 e per placca di fibbia Fig. 3, 2, purtroppo in stato di conservazione non ottimale, ci attestano un tipo sinora non documentato in Italia, nel quale la decorazione molto rilevata del bordo è costituita da due foglie stilizzate campite con motivi a lunule e rombi, purtroppo visibili soltanto a luce molto radente. La forma della placca trova confronto con elementi simili provenienti da Kerc in Crimea e dall'Asia Minore 66; in questi ultimi è presente una decorazione di bordatura vicina agli esemplari in questione. Un confronto per il motivo delle foglie e per la decorazione di campitura sembra ravvisabile anche e soprattutto con le placche auree del pugnale della tomba F di Castel Trosino 67. Le stesse placche costituiscono il confronto più calzante per la decorazione di un modello da fusione Fig. 3, 3, e di una prova di sbalzo su lastra di rame Fig. 3, 4 di un tipo assimilabile per la forma alle cinture cosiddette a cinque pezzi longobarde, nelle quali si trova la controplacca grossomodo triangolare come in questo esemplare. Certo non si tratta di prodotti della stessa qualità, ma probabilmente la loro funzione doveva essere analoga e comunque, anche nell'ambito di queste cinture, sono atrestati esemplari in metallo prezioso riccamente ornati come ad esempio la cintura in oro della tomba 1 di Cividale S. Stefano in Pertica ó3. Ritornando alla decorazione degli elementi appena analizzati, questa è presente in una serie piuttosto limitata di oggetti quali ad esempio la cintura di Akalan 69 o la croce di Stabio 70, ma soltanto gli esemplari romani si avvicinano per la qualità esecutiva in modo tale al pugnale della tomba F da poter ipotizzare che ambedue siano frutto della stessa officina. Sempre a cinture del tipo a cinque pezzi sembra riferibile il modello per placca Fig. 3, 5 con un lato sagomato abbastanza simile per impostazione alla placca della tomba 73 della necropoli di Grancia 71 ma soprattutto ad un tipo particolare, presente nelle collezioni del Museo Archeologico di Chiusi 72 e del Museo Stibbert 73 che presenta in corrispondenza del lato sagomato due foglie stilizzate identiche ad alcune della placca Fig. 3, 4 74. Sicuramente riferibili a questo tipo di cintura sono le linguette in bronzo sia semplici Fig. 3, 6 che sagomate Fig. 3, 7, di una forma ben nota nelle produzioni dell'Italia longobarda 75. Elementi decorativi di bardature Passando ad analizzare gli elementi riferibili alle bardature del cavallo, tra questi si trova un abbozzo per placca di sella Fig. 3, 8 molto simile sia per la forma che per l'impostazione della decorazione ad una coppia di elementi analoghi proveniente dalla tomba 90 di Castel Trosino 76, che tra l'altro appaiono le uniche conosciute di questa forma. Di più difficile inquadramento è il modello per modano da sbalzo Fig. 3, 9 riferibile ad una placca da sella. Esso non trova nessun confronto calzante e la sua lettura è probabilmente resa più difficile dalla deformazione dovuta alla giacitura: infatti le due estremità laterali dovrebbero essere piegate più in basso. Si riscontrano comunque alcuni elementi di similitudine con le placche centrali di sella, come ad esempio, l'appendice fogliata molto simile a quelle presenti nella placca della tomba 5 di Nocera Umbra 77 e in quella della tomba 119 di Castel Trosino 78 nella quale sono presenti anche le terminazioni fogliate. Ancora maggiori riscontri sono possibili con l'esemplare della tomba 90 sempre di Castel Trosino 79 nel quale si nota una vera e propria identità nel modo di trattare i dettagli come, ad esempio, le terminazioni laterali dell'esemplare romano e quelle della grande placca e delle placche con appendice.
Riguardo alle placche relative alla testiera del cavallo, non trova confronto in ambito italiano 80 il modello per modano da sbalzo Fig. 3, 10; diverso è il caso del pezzo con funzione analoga e di forma abbastanza simile al precedente Fig. 3, 11 che, se pur con alcune differenze, è molto simile alla placca proveniente dalla tomba 90 di Castel Trosino 81 nella quale, oltre ad un'impostazione molto vicina, si individuano alcuni elementi decorativi analoghi quali il ventaglio centrale. Il modello per placca cruciforme Fig. 3, 12 appartiene ad un tipo piuttosto diffuso sia a Nocera Umbra 82 che a Castel Trosino come, ad esempio, quella proveniente dal corredo della tomba in Contrada Pedata 83, ma nessuno degli esemplari italiani presenta una simile terminazione delle estremità che si trova invece in un esemplare da Kamunta 84. Un pezzo decisamente particolare è rappresentato dalla decorazione di incrocio di briglie non finito Fig. 3, 14 che trova un unico confronto, anche se generico, in un esemplare proveniente dal tesoro di Martinovka; la sua decorazione con doppie linee di trattini disposti a "V" è ampiamente attestata in molti oggetti, come ad esempio nelle fibule a braccia eguali di Castel Trosino tomba 142 e Nocera Umbra tomba 134 85. Una serie di placche attestate sia con modelli da fusione Fig. 3, 15 che con modani da sbalzo Fig. 3, 16 o pezzi quasi completi Fig. 3, 17, sono relative sia alla decorazione della testiera che delle briglie; queste placche trovano soltanto confronti generici sia a Castel Trosi~o nella tomba 119, che a Nocera Umbra ad esempio nelle tombe 42 e 84 86. Sicuramente pertinente alle briglie è il modello di placchetta con risalto alla base Fig. 3, 18 identica nella conformazione a quelle presenti nella tomba S della necropoli dell'Arcisa di Chiusi 87, dove sono attestati anche i bottoncini decorativi analoghi a quelli Fig. 3, 19-20. Il modello da fusione per placchetta a doppio "8" Fig. 3, 13, anche se frammentario, appare identico all'esemplare presente nel corredo della tomba 119 di Castel Trosino 8S. Questo tipo particolare di placca, presente anche a Nocera Umbra 89, è molto probabilmente da mettere in relazione con la cinghia pettorale del cavallo. Sempre a decorazioni della cinghia pettorale del cavallo dovrebbe essere attribuibile il modello per placca Fig. 3, 21 che trova per la forma un unico confronto con pezzi simili, in ferro ageminato, probabilmente di produzione italiana, provenienti dalla tomba 26 della necropoli di Giengen 90. Elementi decorativi in ferro e in ferro ageminato Un cospicuo numero di oggetti in ferro documenta la lavorazione di materiali in questo metallo, tra cui sono attestate fibbie e linguette sia di cintura del tipo a cinque pezzi che di cintura multipla; dato però il loro stato di conservazione, essi non verranno trattati in questa sede. È doveroso invece segnalare la presenza di almeno otto esemplari ageminati, per ora visibili soltanto in radiografia. Tra questi riveste un particolare interesse la placchetta con decori a virgola e punti Fig. 4, 1 piuttosto simile a quelle della cintura multipla della tomba 142 di Castel Trosino 91. Una placca con decoro non ben comprensibile allo stato di abbozzo Fig. 4, 2 dovrebbe essere avvicinabile alle cinture a cinque pezzi. Un'altra placca Fig. 4, 3 non trova confronti né per la decorazione né per la forma. Diverso è il caso di due linguette per cintura multipla Fig. 4, 4: esse sono sostanzialmente identiche (una non viene illustrata poiché manca di gran parte della decorazione centrale) e presentano una decorazione con animali intrecciati in secondo stile animalistico germanico. Queste linguette trovano vari confronti con materiali simili come ad esempio alcune delle cinture di Marlia e di Castelli di Calepio 92. Esse pongono vari problemi; infatti non è chiaro se si tratti di pezzi il cui completamento sia stato abbandonato per qualche motivo o di pezzi rotti presenti nell'officina come modello. Certo è che, come testimonia l'esemplare in stato di abbozzo visto in precedenza, nell'officina romana si eseguivano lavori in agemina, ma le implicazioni che comporterebbe l'uso a Roma di motivi tipici germanici sarebbero indubbiamente di vasta portata, riproponendo l'ipotesi affacciata da O. von Hessen della produzione di parte del materiale ageminato, frequente nei corredi longobardi e oggetto di commerci transalpini, in grandi opifici non necessariamente collocati nel territorio del regno longobardo 93. Lo sperone frammentario Fig. 4, 5, anch'esso apparentemente non finito, decorato con motivi geometrici e floreali stilizzati che ritroviamo molto simili ad esempio in alcune linguette
provenienti da Sovizzo e dalla Selvicciola 94, Ci documenta la produzione di questo tipo di oggetti insieme al frammento di un altro sperone non decorato. Probabilmente è identificabile come elemento per la sospensione della faretra l'oggetto Fig. 4, 6 95 che non trova esatti riscontri per la decorazione a catenella di "S". Elementi per accessori di vestiario Passando alle fibbie per accessori di vestiario a placca fissa traforata Fig. 5, 1-4, esse sono presenti in varie necropoli italiane 96. La fibbia per borsa con placca cruciforme Fig. 5, 5 appartiene ad un tipo particolare diffuso tanto a Luni 97, ad Ischia di Castro 98, a Torcello 99 che ad Orlea 100, centro lungo il Danubio, con esemplari eseguiti apparentemente con lo stesso modello da fusione. Essendo l'esemplare romano un pezzo finito, non si può affermare con certezza, anche se ciò appare molto probabile, che i pezzi facciano tutti capo all'officina della Crypta Balbi. Sempre riferibili a borse sono altri tipi Fig. 5, 6-8 diffusi sporadicamente nell'Italia settentrionale come a Cividale Cella 101 e molto più nell'Italia centrale, come ad esempio nel corredo della tomba 37 di Castel Trosino 102, nel quale questo tipo di fibbia è associato ad una linguetta che troviamo identica nel contesto romano Fig. 5, 9. Armi ed accessori Venendo ad analizzare la presenza di elementi riferibili ad armi, si ha l'impressione che nell'officina romana quasi certamente non si producessero armi vere e proprie, ma queste venissero assemblate e completate dei foderi e delle impugnature. Molto probabilmente le parti in ferro dovevano essere prodotte in altri opifici che commercializzavano il prodotto semilavorato, mentre il prodotto finito veniva immesso sul mercato probabilmente dalla rete commerciale che faceva capo a questo centro. Relative alla sospensione della spatha sono le placchette piramidali attestate sia con modelli da fusione Fig. 5, 10 sia in osso Fig. 5, 11, sinora note soltanto da corredi tombali germanici 103. La loro diffusione copre gran parte del territorio longobardo ed è sicuramente posteriore al loro insediamento in Italia. Per quanto riguarda gli scramasax, arma comunemente diffusa presso i Longobardi, c'è l'evidenza di vari tipi di elementi. Le borchiette da fodero sono attestate sia con il tipo piano a decorazione incisa Fig. 5, 12, sia con il tipo troncoconico Fig. 5, 13 più comunemente diffuso nei corredi longobardi 104, sia con il tipo a tre fori Fig. 5, 14 che si trova ad esempio a Eschen nel cantone dei Grigioni 105 e a Pregradaja nell'Europa Orientale 106, sia con il tipo a bordo perlato Fig. 5, 15, che si ritrova ad esempio nel tesoro di Martinovka 107, con leggere differenze, nella tomba in Contrada Pedata a Castel Trosino 108. Probabilmente, sempre relativo alla decorazione di un fodero, è il modello Fig. 5, 16 con maschera umana fortemente caratterizzata, con baffi, barba e capelli divisi al centro, dove è presente un globo, che sembrerebbe una caratteristica dei ritratti imperiali presenti sui tipi monetali, in alcuni dei quali 109 alcune caratteristiche fisionomiche come la scriminatura dei capelli, la barba e i baffi, il volto tondo, il naso largo, sembrano associarsi all'immagine di Costanzo II, che fu presente a Roma nel 663. Le borchie per l'immanicatura Fig. 5, 17 del tipo a capocchia emisferica sono un materiale ampiamente diffuso in contesti tombali longobardi 110. La variante in argento con decorazione ad animali intrecciati Fig. 5, 18 potrebbe anche rappresentare un oggetto presente nelI'officina come modello, dato che il pezzo reca tracce di varie saldature ed è piuttosto usurato 111. Una riprova dell'assemblaggio nell'officina di coltelli e scramasax ci è offerta dagli elementi di raccordo tra lama e manico in bronzo per i coltelli Fig. 5, 19 e in ferro per i sax Fig. 5, 20-22, solitamente congiunti dall'ossido alla lama 112. Alcune punte di freccia sia del cosiddetto tipo avaro a tre alette 113 Fig. 5, 23, sia a foglia 1144 Fig. 5, 24, senza tracce di legno ci attestano che nell'officina si producevano probabilmente le aste per le frecce vendute poi finite; le aste rappresentano infatti un manufatto che richiedeva l'uso di torni la cui presenza nell'officina è testimoniata dai materiali in osso. Relativo all'arco è anche il tirafrecce in
corso di lavorazione Fig. 5, 25 già noto in Italia e analogo ad esemplari rinvenuti in territorio avaro come l'esemplare da Szegvàr 115. Tra le armi da difesa sono attestate lamelle in bronzo dorato per guanto d'armi Fig. 5, 27-28, molto vicine a quelle di un esemplare proveniente da Sovizzo l16. Con le lamelle di Sovizzo, esse costituiscono l'unica documentazione esistente in Italia per questa variante del guanto d'armi, un tipo di arma presente soltanto in corredi molto ricchi dell'Italia longobarda 117. Altre lamelle in ferro, attualmente identificate da radiografia, attestano la produzione anche di corazze ed elmi a lamelle del tipo noto dal corredo della tomba 118 di Castel Trosino . Vi è poi l'evidenza della fabbricazione di scudi, probabilmente del tipo da parata, offerta da frammenti di umbone e di immanicature e da bochie in bronzo sia emisferiche, che troncoconiche Fig. 5, 26, dorate e decorate a punzone del tipo comune nel VII secolo in tutta l'Italia longobarda 119. Per questi scudi era già stata avanzata l'ipotesi della produzione anche in atelier bizantino-italiani che ora trova un riscontro oggettivo. A proposito delle armi in genere, dai dati emersi da questo rinvenimento e da un'attenta analisi del materiale disponibile, va notato che, poco dopo l'arrivo in Italia dei Longobardi, si afferma tutta una serie di nuovi tipi che erano stati visti come un'evoluzione dei precedenti, ma che è forse possibile interpretare in buona parte come prodotti delle fabbriche di armi sicuramente attive in Italia sino alle guerre gotiche e che probabilmente continuarono a produrre sviluppando modelli propri, dei quali rimane una scarsissima evidenza materiale nei territori non longobardi. Vasellame in metallo Un'altra produzione dell'officina, della quale sono rimaste solo minime evidenze materiali, è quella dei recipienti in bronzo martellato: di questi rimangono delle appliques sia semplici Fig. 6, 2-3 che più elaborate Fig. 6, 1, che sembrano tutte relative a recipienti del tipo a secchiello o a paiolo probabilmente simili a quello della tomba 32 di Nocera Umbra 120. È comunque attestato anche un manico per padella Fig. 6, 4, forma abbastanza comune come, ad esempio, l'esemplare della tomba 145 di Nocera Umbra 121. Oggetti di ornamento e opere di oreficeria Gli oggetti di ornamento della persona, in un contesto produttivo quale quello romano, lasciano di solito poche tracce, trattandosi di opere di oreficeria realizzate per la maggior parte senza l'ausilio di matrici. Il nucleo più consistente di questi materiali è costituito dagli spilli per acconciatura dei quali è presentata una campionatura Fig. 6, 6-16. Essi appartengono per la maggior parte al tipo con capocchia sferica molto diffuso nelle necropoli italiane 122. Probabilmente attribuibile ad anellini trigemini, connessi all'acconciatura e noti da varie tombe di Castel Trosino, come ad esempio quelli dalla tomba 31 123, è il piccolo "8" formato da due anellini in argento che potrebbe essere interpretato come uno di tali oggetti in corso di lavorazione. Lo spillo con terminazione a paletta Fig. 6, 17 è morfologicamente analogo all'esemplare della tomba 26 di Castel Trosino 124 e ad un altro dalla Selvicciola 125. Molto vicino ad esemplari provenienti dalla necropoli di Grancia 126 è il nettaorecchie decorato a intacche Fig. 6, 18. Sedici gemme incise 127, per la maggior parte di età imperiale, erano destinate ad essere incastonate in fibule, anelli o altri oggetti di oreficeria. Non manca poi l'evidenza di pietre preziose o semipreziose, tra queste lo zaffiro, lo smeraldo, il lapislazzulo, la giada, l'ossidiana, il corallo, il diaspro, la madreperla, il vetro colorato. Evidenti scarti di lavorazione sono poi attestati per il granato e per il cristallo di rocca; per quest'ultimo, sono documentati anche due frammenti di un disco rottosi in corso di lavorazione, nel quale sono incisi animali in un ambiente palustre (una papera che mangia un pesce e una gru che mangia un grillo) 478. Una gemma in agata zonata Fig. 6, 5, che sicuramente fu realizzata per l'inserzione in una croce o in un reliquiario, è cava posteriormente e reca l'iscrizione
appena accennata “ATHANATOS AGHIOS” e al centro una croce patente. La gemma evidentemente si ruppe prima del suo completamento, come dimostrano le parti incise non ben completate. Riguardo agli orecchini rimane la testimonianza della manifattura a Roma di un tipo particolare con globetti Fig. 6, 20, attestato con due diversi esemplari, che trova un solo confronto con un esemplare da Castro dei Volsci i79. Non si può comunque escludere che ne venissero prodotti anche altri tipi. Relativi a pendagli da collana, o più probabilmente di orecchino data la loro dimensione, sono la piccola croce in argento dorato Fig. 6, 21 130 e il cavallino in bronzo Fig. 6, 22, che ricorda le ben note fibule zoomorfe diffuse in tutto il territorio italiano 131. Probabilmente per un fermaglio di collana venne eseguita la prova in laminette di brónzo saldate in una composizione molto fitta Fig. 6, 23. L'uso di questa tecnica è ampiamente documentato in territorio italiano per la parte posteriore degli orecchini a cestello 132, che sono però molto più semplici dal punto di vista compositivo. Una tale complessità decorativa si rintraccia invece in oggetti di maggiore importanza quale ad esempio la montatura del medaglione di Giustiniano al Musco del Lonvre 133, non necessariamente eseguita a Costantinopoli dove sembra fosse più in voga la tecnica del traforo o opus interrasile. Il piccolo disco in argento decorato con pelte e globetto centrale Fig. 6, 24 sembrerebbe attribuibile ad una fermatura di collana simile a quelle di Reggio Emilia 134, di Campobello di Mazara 135 o ad una del tesoro di Assiut 136. Probabilmente la perla a barilotto in bronzo piuttosto spesso Fig. 7, 1 è da interpretare come modano da sbalzo per la produzione di appiccagnoli da sospensione di monete come ad esempio quelli arricchiti di decori a filigrana presenti nella tomba 7 di Castel Trosino 337. Non manca poi l'attestazione di perle in pasta vitrea per il montaggio di collane, delle quali viene presentata una campionatura Fig. 7, 2-10, e che costituiscono uno dei rinvenimenti più frequenti in corredi tombali longobardi 138. Piuttosto attestati sono gli spilloni Fig. 7, 11-14 simili a esemplari rinvenuti in tutt'Italia 139. Questi spilloni dalla caratteristica terminazione aggettante, spesso interpretati come nettaorecchie, molto probabilmente avevano soprattutto funzione di chiudimantello. Le fibule a bracci uguali sono attestate con due modelli per matrici: uno con bracci losanghiformi a testa di serpente Fig.7, 15, che reca anche il previsto cannello di immissione del metallo ed è simile a vari esemplari italiani 140, l'altro con bracci circolari Fig. 7, 16 è di un tipo più raro, che trova confronto per la forma nella fibula della tomba T di Castel Trosino, eseguita in ferro decorato in agemina con motivi mediterranei 141. La fibula ad arco Fig. 7, 17, comune soprattutto nella zona subalpina 142, è attestata da un unico esemplare. Più varia è l'attestazione delle fibule ad anello con un modello da fusione Fig. 7, 18, un esemplare in ferro Fig. 7, 19, un'esemplare finito ad anello piano Fig. 7, 20 e un'esemplare con anello a sezione semicircolare Fig. 7, 21. Queste fibule di tradizione tardoromana sono abbastanza diffuse in Italia sia in contesti longobardi che di popolazioni locali 143. Un altro gruppo la cui produzione è ampiamente documentata nell'officina romana è quello degli anelli digitali attestati con vari tipi: con castone rialzato 144 (un modello per matrice) Fig. 8, 1, con allargamento dell'asta 145 Fig. 8, 2 (modello), con appiattimento del castone 146 Fig. 8, 3, con castone piano saldato all'asta a sezione circolare sia liscio Fig. 8, 4 che decorato con motivi geometrici Fig.8, 5, sia eseguito in ferro Fig. 8, 6. Quest'ultimo tipo di anello con infinite varianti, ma sempre con la caratteristica asta a sezione circolare, è abbastanza diffuso in corredi tombali, come ad esempio l'esemplare dalla tomba 79 di Nocera Umbra 147 ma anche in tesori 148. L'esemplare non finito Fig. 8, 7, con quattro perline saldate alla congiunzione tra asta e castone, rappresenta sostanzialmente una variante del tipo precedente, attestata in vari corredi tombali, soprattutto longobardi, come ad esempio l'anello della tomba 4 di Trezzo sull'Adda 149. L'esemplare romano va considerato come non finito, poiché evidentemente il castone piano era destinato a ricevere una scritta o un'immagine. A proposito di questi anelli vale la pena illustrare qui una bolla plumbea Fig. 8, 8, proveniente dal contesto, recante su una faccia un volto barbuto sormontato da croce e circondato dalla scritta ANSO Vir Illuster DUX, il tutto circondato da un bordo perlato, sull'altra faccia la semplice croce latina potenziata, nota da molti tipi monetali. Questa bulla, per l'evidente analogia con gli anelli sigillari,
l'apparente identità del ritratto con quello dell'anello di Ansualdo da Trezzo, il sicuro riferimento ad un duca, sembra confermare l'ipotesi che il personaggio raffigurato sia il re e il nome quello del dignitario autorizzato a bollare con il suo anello su ceralacca o con la pinza su piombo documenti ufficiali, dando un'ulteriore conferma alla tesi proposta da O. von Hessen per il gruppo degli anelli sigillari 150. Un modello da fusione Fig. 8, 9 ci documenta la produzione di croci, simili per la forma ad esemplari rinvenuti in contesti tombali e in tesori 151, con funzione di reliquiario, nel caso specifico per le reliquie di San Pietro, data l'iscrizione presente nei medaglioni e leggibile SANCTE PETRE / TU CUSTODI / FAMULUM TUUM dall'alto al basso e ANIMUM MEUM / TU CUSTODI / SANCTE AUGUSTE da sinistra a destra. La funzione di reliquiario è anche provata dal vano circolare presente sul retro dell'oggetto. Il rinvenimento di questo modello sembra implicare un certo collegamento dell'ergasterion della Crypta Balbi con la basilica di S. Pietro custode delle reliquie del santo. La placca conformata a calice Fig. 8, 10, in bronzo fuso con elementi perlinati saldati ]52, stagnata e priva delle magliette di fissaggio, documenta la produzione di parti decorative destinate probabilmente a coperte di codici 153. La prova di decorazione a file di punti su un pezzo di bandella per mobile Fig. 8, 11 attesta, insieme al frammento di placca Fig. 8, 12, l'uso di questa tecnica decorativa ampiamente presente sulle crocette auree, come ad esempio quella della tomba 37 di Castel Trosino 154. Produzioni di piccoli mobili e oggetti in materiale organico Più di ottanta oggetti documentano la produzione di mobilia, per la maggior parte piccole cassette. Sono presenti specchiature per armadi in piombo trai~orato Fig. 10, 1, bandelle in bronzo, sempre decorate ad occhi di dado, di diversa forma Fig. 9, 1-7, chiusure articolate in vari modi Fig. 9, 11-12, bocchette per serratura Fig. 9, 13, rinforzi angolari Fig. 9, 8-10 molto simili a quelli della tomba 65 di Castel Trosino 155. Non mancano piccole chiavi con anello articolato in ferro Fig. 9, 17, come quella della tomba 94 di Castel Trosino 156, o più comunemente in bronzo Fig. 9, 16. Un manico e una cerniera in bronzo Fig. 9, 14-15 testimoniano insieme a tre elementi in avorio Fig. 9, 18-20 la produzione di cassette identiche a quella della tomba 148 di Nocera Umbra 157. Due sportelli, un timpano ed altri elementi in osso e avorio Fig. 10, 7-11 documentano la manifattura a Roma di piccole teche, probabilmente una specie di icone a sportelli, analoghe a quella della tomba 2 di S. Stefano in Pertica a Cividale 158. Alcuni elementi Fig. 10, 4 documentano la produzione di mobili intarsiati in osso. Parecchie tessere di scacchiera Fig. 10, 13, simili per tecnica di esecuzione, anche se non per forma, a quella presente nella tomba 24 della necropoli di S. Stefano in Pertica a Cividale ISY, attestano la fabbricazione di giochi. Ad un oggetto simile si possono riferire anche gli inserti triangolari Fig. 10, 14-16, che potrebbero però anche essere interpretabili come inserti decorativi di cassette portaoggetti. Sempre a giochi sono da riferire le pedine in osso, sia sottili Fig. 10, 17, 22 che molto rilevate e costruite a settori Fig.10, 18-20 e la pedina in avorio Fig. 10, 21, tutte piuttosto vicine a quelle provenienti dal corredo della tomba 24 di S. Stefano in Pertica a Cividale i60. Molto vicini a quelli dello stesso corredo 161 sono anche i dadi da gioco Fig. 10, 5-7, uno dei quali, evidentemente parallelepipedo, deve essere considerato uno scarto o una prova. Il corpo di una bambola Fig. 10, 23, simile per impostazione agli esemplari tardoantichi 162, testimonia la continuità di produzione di questi giocattoli. Nell'officina si eseguivano comunque anche pezzi di maggiore impegno come è provato dalla formella in avorio Fig. 8, 13 con iconografia di adorazione della Salomè, identica per impostazione a quella di un avorio del British Muscum 163. Sempre in avorio venivano fabbricati anche pettini a lastra unica Fig. 11, 1-2 di un tipo di tradizione tardoantica i64 che recano spesso delle figurazioni. Questi pettini sono comunque molto più attestati nella produzione lignea, ad esempio della zona copta, una delle poche, fatta eccezione per altri fortunati rinvenimenti quali quello di Crecchio i65, nella quale questo materiale si è conservato i66. La produzione comunque più attestata è quella dei pettini in osso di vario tipo, a timpano Fig. 11, 3, a
timpano ribassato Fig. 11, 4, a due file di denti con listello di unione liscio Fig. 11, 5 o decorato e con chiodi in bronzo Fig.ll, 8 o in ferro Figg.ll, 6-7, 9-10 e 12, 1, a due file di denti con doppio listello di unione Fig. 11, 11. Evidentemente questi oggetti molto fragili venivano scartati abbastanza spesso poiché l'ultima operazione di fabbricazione e nel contempo la più delicata consisteva nel taglio a sega dei denti; più raro, ma comunque documentato, è lo scarto prima di questa finitura. I pettini di tutti i tipi attestati rappresentano un oggetto piuttosto frequente in corredi tombali longobardi 167 e non è oggi possibile identificare le diverse aree di produzione. La pisside frammentaria Fig. 8, 14 con tracce di una decorazione a losanghe, forse applicata in oro, è invece un oggetto molto particolare che trova un unico confronto con quella presente nel corredo della tomba 7 di Castel Trosino, realizzata evidentemente dalla stessa officina. La forma della pisside con corpo a sacchetto è comunque presente anche in esemplari coevi di maggiore dimensione e complessità attribuiti a produzione alessandrina 168. Probabilmente come coperchio di pisside è interpretabile il frammento in avorio con bordo tagliato ad incasso Fig. 12, 2. Al corredo domestico devono essere riferite le fuseruole in osso o avo rio 169 Fig. 12, 3-6, gli spargi profumo Fig. 12, 9-10, 13, le immanicature 170 Fig. 12, 14-15. Forse è interpretabile come uno strumento da lavoro l'asticella Fig. 12, 7 mentre ad aghi crinali sono riferibili gli elementi Fig. 12, 8, 11-12. Particolarmente rifinito appare il manico in avorio Fig. 12, 16 per strumento, forse uno stilo da scrittura. Conclusioni Cercando di proporre una sintesi di quanto suesposto, è naturale affermare che l'officina romana appare specializzata nella produzione di merci di lusso con una vasta gamma di merci. Nelle cinture è documentata la manifattura di vari tipi da quelle semplici da abito, a quelle multiple da parata, a quelle da armi, realizzate con parti metalliche in bronzo o, più frequentemente, in metallo prezioso. La diffusione di questo genere di cinture, una parte delle quali fu probabilmente prodotta a Roma, copre nel VII secolo gran parte del territorio longobardo e dell'Europa orientale e in misura minore dell'area transalpina e, sulla base dell'evidenza offerta da quest'officina, è probabilmente possibile identificare una produzione italiana che, pur inserendosi nel filone "bizantino", sembra possedere caratteri propri. Non di minore importanza appare la manifattura di preziosi finimenti da cavallo e di armi pregiate che parimenti alle cinture, sono diffusi nei ricchi corredi funerari longobardi e di altri gruppi germanici. Più difficile è la valutazione dell'importanza che ebbe la produzione di oreficerie per l'ornamento della persona e per l'arredo liturgico e domestico, ma sulla base dei materiali dell'officina e delle altre rare testimonianze, quali ad esempio la "teca persica" e la croce di Adaloaldo del tesoro del Duomo di Monza 171, 0 la croce della cappella del Sancta Sanctorum 172, sembra evidente che gli atelier romani si caratterizzarono per produzioni di notevole qualità. Prenderebbero quindi maggior vigore le ipotesi di attribuzione alle officine romane di oggetti come alcune delle fibule auree a disco di Castel Trosino 173. Notevole importanza dovrebbe aver avuto anche la manifattura di oggetti in osso, corno e avorio che si avvaleva anche di materie prime di sicura importazione 174. Scarsissime sono invece le testimonianze oggettive di altre produzioni in materiale deperibile, quali broccati o cuoio decorato, documentate da arnesi da lavoro. Se si considera che sino a pochi anni fa tutto il materiale non germanico rinvenuto nei corredi longobardi veniva considerato in genere come merce prodotta a Bisanzio e commercializzata attraverso il porto di Ravenna 175, appare evidente che dopo questo rinvenimento il panorama della produzione italiana del VII secolo e in particolare il ruolo delle officine romane, risulta rivoluzionato e ancora di più lo sarà in futuro quando verrà completato il lavoro di ricerca sui materiali attribuibili a queste manifatture. Sembra anche chiaro che la rilevanza da attribuire agli orafi itineranti rispetto ai grandi opifici come quello romano vada sicuramente riconsiderata. Infatti, anche possedendo la documentazione
dell'esistenza di questi orafi, non è affatto da escludere che essi operassero soprattutto come "cambiavalute" 176 e come rivenditori di materiali prodotti da grandi atelier come quello romano, che all'occorrenza erano in grado di modificare o personalizzare. Una possibile prova di quest'attività di commercio degli orafi sembra essere offerta proprio dal corredo delle loro sepolture, infatti nella tomba dell'orafo di Grupignano a Cividale 177 è presente una fibbia in argento, che mostra notevoli somiglianze con la produzione romana e comunque non è certo un prodotto tipico longobardo, allo stesso modo nella tomba 37 di Castel Trosino 178 l'oggetto di maggior pregio è costituito da una cintura con placche in argento, probabilmente da assegnare alla produzione romana. Emerge anche chiaramente come quest'officina non fosse organizzata per una produzione soltanto locale, ma debba essere vista come un centro di produzione e commercializzazione di merci di lusso su vasto raggio, che oggi non è perfettamente valutabile nella sua ampiezza. Comunque se esiste la documentazione del commercio di vasellame bronzeo dall'Italia meridionale sino all'Inghilterra 179, non si può escludere che sulla stessa via venissero commercializzate merci quali cinture, armi pregiate o oggetti di ornamento, prodotte in officine quali quella romana. Allo stesso modo non si può affatto escludere che le navi che sino a tutto il VII secolo giungevano a Roma dall'oriente Mediterraneo per approvvigionare il mercato cittadino 180, non riportassero ai luoghi di origine anche merci pregiate. Inizia inoltre ad apparire evidente che la produzione italiana, pur inserendosi decisamente nel filone "bizantino", presenta particolarità e peculiarità autonome. Sembrerebbe quindi che Roma abbia continuato a svolgere almeno sino alla fine del VII secolo un ruolo di primo piano nella produzione artistica minore elaborando modelli della tradizione classica ed adattando ad un gusto più occidentale quelli provenienti da Bisanzio, che pur attingendo dalla stessa tradizione erano fortemente influenzati dal gusto orientale. Non è poi affatto da escludere che gli atelier romani abbiano contribuito alla creazione di modelli che fondevano l'ornamentazione mediterranea con il gusto e l’ornamentazione germanica. E molto probabile che in tutto ciò la Chiesa abbia svolto un determinato ruolo, poiché lo sviluppo di un linguaggio comune, anche nelle espressioni artistiche minori, rappresentava un veicolo di accomunamento tra popoli diversi che andavano riconoscendo comunque un primato romano nel campo religioso e culturale. Un altro problema che sulla base di questo rinvenimento sarebbe opportuno riesaminare è quello del rapporto tra materiali longobardi e italobizantini. Se infatti vengono prese in considerazione le necropoli longobarde dell'Italia centrale che contengono sepolture posteriori di almeno una generazione all'arrivo in Italia, quale può essere Castel Trosino, che è l'unica completamente indagata insieme a Nocera Umbra, dove però vi è una maggiore
attestazione di sepolture più antiche, appare evidente come gran parte dei materiali, soprattutto di quelli di lusso, presenti nei corredi provenga da centri di produzione analoghi a quello romano se non da Roma stessa. Tra i materiali maschili dell'Italia centrale, gli unici che si possono decisamente attribuire a produzione longobarda del VII secolo, sono le cinture ageminate con motivi ad animali intrecciati forse prodotte anche in opifici "bizantini" e che hanno un'incidenza minima, e le cinture bronzee cosiddette a cinque pezzi, forse anch'esse prodotte in officine italo-bizantine e apparentemente presenti soprattutto al di fuori del territorio del ducato di Spoleto, che sembrerebbe rappresentare uno dei maggiori bacini di utenza per le produzioni romane. Non molto diverso è il panorama dell'Italia settentrionale, dato che in questo territorio le merci di lusso sembrerebbero provenire anche da officine italo-bizantine, almeno a giudicare da Cividale dove gran parte del materiale prezioso del pieno VII secolo trova stringenti riscontri con quello dell'officina romana. Naturalmente con quanto detto non si vuole assolutamente sottovalutare l'importante ruolo della metallurgia dell'Italia longobarda quanto piuttosto rilevare come per la produzione e la commercializzazione delle merci di lusso l'Italia bizantina e soprattutto le due capitali
abbiano mantenuto una gestione quasi monopolistica in continuità con quanto avveniva nel tardo impero 181. Rimane quindi come unica caratteristica di distinzione etnica l'usanza di porre corredi complessi nelle sepolture, poiché corredi semplici, composti in genere da un pezzo di vasellame, sono presenti in aree sicuramente non longobardizzate. In ogni modo non è forse lecito parlare tanto di un processo di acculturazione, dato che le fonti attestano chiaramente come le popolazioni longobarde abbiano mantenuto a lungo le loro leggi, la loro lingua e le loro usanze, elementi distintivi di una cultura di maggiore importanza rispetto al modo di vestirsi o di armarsi. Forse si deve invece considerare questo abbandono del costume e delle produzioni tradizionali e l'adozione di una moda "italiana" come un processo di osmosi tra le due componenti etniche che si andavano fondendo, favorito probabilmente da una rete commerciale e produttiva molto più diffusa di quanto si sia potuto immaginare. È auspicabile che nel prosieguo degli studi, disponendo ora di questo nuovo apporto, sia possibile meglio chiarire, sia su base storica che di storia della cultura materiale, questo periodo tra la fine del VII secolo e gli inizi dell'VIII, che appare sempre più, almeno nell'Italia centrale, come il momento di abbandono del mondo antico e di nascita del medioevo, una miscela decisamente ben riuscita nata da popoli, culture e tradizioni diverse che produsse una nuova luce e non il buio che ci tramanda l'immaginario collettivo. MARCO RICCI
1 Sui risultati dello scavo, svoltosi per conto della Soprintendenza Archeologica di Roma e dıretto da Lucıa Saguì dell'Università degli Studi di Roma - La Sapienza coadiuvata da chi scrive, vedi SAGUI 1993; SAGUI’-MANACORDA 1995; per una prima presentazione dei materiali dell’ergasterion RICCT 1994; per singole classi di materiali ANDREOZZI-GRAZIANI-SAGUI’ C.S.; SAGUI’ c.s.; RICCI I 995a; RICCI c.s. Desidero in questa sede ringraziare per l'aiuto e lo stimolo preziosi Susanna Cini, Lidia Paroli e Lucia Saguì. Le foto degli oggetti sono state eseguite da Maurizio Necci che si ringrazia. Z Cfr. ad es. PAROLI (a cura di) 1995, p. 215, fig. 156. 3 PASQUI-PARIBENI 1918, coll. 180-181, fig. 27; ARENA-PAROLI 1993, p. 31, fig. 28. 4 MENIS (a cura di) 1990, pp. 372-373, X.7d. 5 Cfr. ad es. MENIS (a cura di) 1990, p. 26, I. 9g, p. 397, X.52b, pp. 438, 442, X.100. 6 BALINI 1992, p. 470, tav.34, 1-11, p. 485, tav. 49. 7 BALINI 1992, p. 485, tav. 49. 8 BALINI 1992, p. 464, tav. 28, 23. 9 Per Offanengo tomba 1 VON HESSEN 1965, p. 38, tav. 7, per Nocera Umbra tomba 20 AOBERG 1923, p. 116, fig. 220; per Cividale MENIS (a cura di) 1990, p. 383, X.43. 10 Per la definizione del tipo e la sua diffusione vedi WERNER 1955, p. 47, carta di diffusione 2 e tav. 5, 3, 5, 7 e tav. 8, 5; per ulteriori aggiornamenti sul tipo nei territori dell Europa orientale vedi TEODOR 1991 e VARSIK 1992; da ultimo RIEMER 1995, P. 778 ss., carta di diffusione a p. 802, fig. 31. 11 Per la definizione del tipo e la sua diffusione vedi WERNER 1955, p. 47, carta di diffusione 2 e tav. 5, 1, 2 e 8, 5, per aggiornamenti vedi TEODOR 1991 e VARSTK 1992; RIEMER 1995, p. 778 ss., carta di diffusione a p. 805, fig. 32. 12 Cfr. per il tipo in generale WERNER 1955, tav. 6, 1, 3-5 e PANI-MARINONE 1981, pp. 114-116 con un'ampia rassegna dei rinvenimenti; per confronti più puntuali vedi AOBERG 1923, p. 117, figg. 223-224 e VON HESSEN 1968, tav. 23, 6; RIEMER 1995, p. 790 ss. 13 Per la definizione del tipo e la sua diffusione vedi WERNER 1955, p. 47, carta di diffusione 2 e tav. 4, 3, 5-8. 14 VON HESSEN 1983, pp. 28-29. 15 Cfr. WERNER 1955, p. 37, fig. 1, VON HESSEN 1983, p. 28, fig. 5, una variante in VARSTK 1992, p. 100, tav. Il, 10. 16 Per il motivo ad ancora che simula un volto umano, presente anche sul modello Fig. 2, 29, e piuttosto particolare cfr. Nocera Umbra tombe 36 e 84 in PASQUI-PARIBENI 1918, figg. 75, 141, tomba 79 in ARENA PAROLI (a cura di) 1994, p. 32, tav. 2, Castel irosino tombe 37 e 90 in PAROLT (a cura di) 1995, pp. 238-240, fig. 188-189, p. 229, fig. 179, e tomba 142 in MENGARELLI 1902, tav. X111: 4, Castel irosino tomba in Contrada Pedata in PAROLI (a cura di) 1995, pp. 18-19, fig. 1; Cividale 8. 8tefano tombe 2 e 12 in MENIS (a cura di) 1990, p. 409
X.76c, d, pp. 412-415, X.81b,c; Verona Via Monte 8uello in Valdonega tombe 2 e 4 in VON HESSEN 1968, tavv. 6-7, 10, 2; tomba di Colognola al Piano in DE MARCHI 1988, pp. 92-95, flg. 14. 17 Cfr. ad es. I'esemplare da Prizzi in DANNHEIMER 1989, p. 15, fig. 5. 18 L'anello e la sua decorazione del piano appaiono identici ad un esemplare in metallo prezioso di una collezione privata che rappresenta una variante del tipo cfr. VON HESSEN 1983 p. 28, fig. S. 19 Cfr. Ross 1965, pp. 8-9, tav. Xl, 5a e b. 20 MENIS (a cura di) 1990, pp. 402,404, X.71. 21 ROFFIA (a cura di) 1986, p.31, fig. 12. 22 Solamente per quella di Fig. 2,2 è possibile un confronto per la forma con la placca di fibbia, però a placca fissa, della cintura multipla in oro proveniente dalla tomba 4 di Via Monte Suello in Valdonega in VON HESSEN 1968, tav. 6,2. 23 MAZZUCATO 1984, tav. la e per la fibbia tav. lb. 24 MENTS (a cura di) 1990, p.472, X.19ld. 25 WERNER 1952 e HUBERT et al. 1990, p.211, fig. 218. 26 RICCI 1981, tav. 39,613,619; PASQUI-PARIBENI 1918, col. 191d e col. 192, fig. 38. 27 VON HESSEN 1968, tav. 6,2. 28 Per la definizione del tipo vedi WERNER 1955, p. 46, carta di diffusione 1, per aggiornamenti riguardo all'Europa orientale vedi TEODOR 1991 e VARSIK 1992; per altri esemplarl dl confronto non compresi negli elenchi del Werner, VON HESSEN 1965, p.38, tav. 7 da Offanengo, e AJSASIN 1994, p.132, fig. 2, 47, da EslKi Kermen in Crimea; da ultimo RIKMER 1995, p.778 ss., carta di diffusione a p. 799, fig. 30. 29 PASQUI-PARTBENI 1918, col. 287, fig. 152. 30 MENIS (a cura di) 1990, pp. 407, 409, X.76d. 31 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 18-19, fig. 1. KIDD 1992, p. 513, fig. 2g. 33 MENIS (a cura di) 1990, p. 311, VII, 16. 34 MENGARELLI 1902, col. 257, fig. 121. 35 Cfr. l'esemplare in argento un poco più piccolo, ma molto simile a Fig. 2, 11, in BALTNT 1992, p. 454, tav. 18, 8. 36 TEODOR 1991, p. 132, fig. 6, 11. 37 MENGARELLI 1902, col. 274, fig. 149. 38 PASQUI-PARIBENI 1918, coll. 250-251, fig. 100 e col. 346, fig. 196. 39 VON HESSEN 1971b, tav. 3. 40 WERNER 1974, tav. 10. 41 PASQUI-PARIBENI 1918, col. 163. figg. 6-11; ARENA-PAROLI (a cura di) 1994, p.32, tav. II. 42 MENGARELLI 1902, coll. 197-198, tav. VII: 5-9; ARENA-PAROLI 1993, p. 40, fig. 38 PAROLI (a cura di) 1995, p. 255, fig. 206. 43 MENGARELLI 1902, col. 212, fig. 55, PAROLI (a cura di) 1995, pp. 221-222, fig. 171; MENIS (a cura di) 1990, pp. 180-182. 44 DE MARCHI 1988, p. 92-95, fig. 14. 45 AJBABIN 1982, p. 196. 46 MENIS (a cura di) 1990, pp. 413-415, X.81b, c. 47 PAROLI (a cura di) 1995, p. 237, fig. 187. 48 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 221-222, fig. 171; MENTS (a cura di) 1990, pp. 180-182. 49 AJBABIN 1994, p. 132, fig. 2, 47. 50 Cfr. ad es. Ia fibbia del corredo della tomba in contrada Pedata di Castel Trosino in BAINI 1992, p. 464, tav. 28, 23 e altri materiali dall'Europa orientale in BALINT 1992, tav. 28 17, 20-21,24 e tra i materiali dell'officina Fig.8,10, inoltre per placche sbalzate con contorno a grossa perlinatura e decorazioni a virgola nel campo centrale cfr. Ie placche di Reggio Emilia in STURMANN CICCONE 1977, tav. 3, 2-3. 51 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 221-222, fig. 171; MENTS (a cura di) 1990, p. 182, IV, 52 MELUCCO VACCARO 1978, p. 50, fig. 24. 53 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 225-226, fig. 175 e pp. 231-232, fig. 182. 54 PAROLI (a cura di) T 995, pp. 166-167, fig. 126. 55 CIURLETTI 1980, tav. X, 6. 56 DENNISON 1918, tav. XLII. 57 BALINI 1992, p. 446, tav. 10. 58 Ross 1952, p. 31. 59 PAROLI (a cura di) 1995, p. 237, fig. 187. 60 VON HESSEN 1978, tav. 7. 61 Vedi nota 16. 62 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 18-19, fig. 1. 63 PAROLI (a cura di) 1995, p. 238, fig. 188; per altri confronti vedi BALINI 1992, p. 483, tav. 47. 64 PASQUI-PARIBENI 1918, col. 193, figg. 41-42; ARENA PAROLI 1993, p. 29, fig. 25. 65 VON HESSEN 1971b, tav. 10, 8-10. 66 BALINI 1992, p. 470, tav. 34, 17 e p. 496, tav. 60B, 1-3. 67 MENGARELLI 1902, col. 197, tav. V, 8; ARENA PAROLI1993, p. 43, fig. 43.
68 MENIS (a cura di) 1990, pp. 405-406, X.75b-d. 69 Cfr. WERNER 1974, tav. 7, 1-5; per un modano da sbalzo al Museo di Kiev WERNER 1974, tav. VII, 6; per una placca dal tesoro di Martino V decorata con foglie simili WERNER 1974, p. 131, fig. 14, 6; per orecchini decorati a sbalzo con fogliami molto simili dall'Egitto DENNISON 1918, p. 152, fig. 45 e tavv. XLII, XLIII. 70 Per Stabio e altri materiali di area transalpina vedi VON HESSEN 1964, tav. 10. 71 VON HESSEN 1971a, tomba 73, tav. 44, 4. 72 VON HESSEN 1975, tav. 21, 1. 73 VON HESSEN 1983, tav. 11, 8. 74 Si veda in particolare le due foglie presenti all'interno del lato corto della placca. 75 Cfr ad es. VON HESSEN 1983, tav. 11, 16 per Fig. 3, 6; ABERG 1923, p. 110 e VON HESSEN 1975, tav. 23, 9 per Fig. 3, 7. 76 PAROLI (a cura di) 199S, pp. 231-232, fig. 182. 77 PASQUI PARIBENI 1918, coil. 169-170, fig. 16; DELOGU 1974, tav. X. 78 MENIS (a cura di) 1990, p. 180, IV 58a-b. 79 PAROLI (a cura di) l99S, pp. 230-231, fig. 180. 80 Qualche elemento di similitudine si può rintracciare con una placca in oro dall'Asia Minore in BALINT 1992, p. 496, tav. 60B, 9; per la decorazione si nota un'impostazione abbastanza simile alla placca di Fig. 2, 25. 81 PAROLI (a Cura di) l995, pp. 230-231, fig. 180. 87 Tomba 36 in PASQUI-PARIBENI 1918, col. 235, fig. 76, tomba 42 in DELOGU 1974, tav. XI, fig. 1. 83 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 18-19, fig. 1. 84 BALINI 1992, p. 475, tav. 39, 30-31. 85 ARENA PAROLI (a cura di) 1994, p. 35, tav. Sc. 86 MEMS (a cura di) 1990, p. 182, IV,581-p; PAsQuT-PARTsENT 1918, col. 243, figg.87-88, col. 278, fig. 137. 87 VON HESSEN 1971b, tav. 10, 8-10 e per i bottoncini tav. 11, 3-14. 88 MENGARELLI 1902, col. 287, fig. 173. 89 Cfr., anche se con leggere differenze, l'esemplare della tomba 36 in PASQUI-PARIBENI 1918, col. 235, fig. 77. 90 PAULSEN SCHACH DOERGES 1978, tomba 26, tav. 11, 4-9. 91 MELUCCO VACCARO 1 978, p.50, fig. 24 e altri materiali inediti dello stesso corredo in corso di studio da parte di chi scrive. 92 MELUCCO VACCARO 1978, p. 20, fig. 5; CINI 1988, pp. 148-171, tav. 21. 93 Lipotesi si trova in VON HESSEN 1978. 94 RICCI 1981, tav. XLI, 661-664; Incitti in questo volume; per un'impostazione della decorazione molto simile cfr. VON HESSEN 1971a, p. 24, fig. 1. 95 Per un pezzo di forma e dimensioni simili, ma in altro metallo, cfr. PAROLI (a cura di) 1995, p. 226, 12. 96 Cfr. ad es. VON HESSEN 1971a, tav.47, 478-483, PAROLI (a cura di) 1995, p. 261, fig. 211; PEDUTO 1984, tav. XLVIII, 5. 97 CINI PALUMBO RICCI 1979-80, p. 45, tav. IV, 9. 98Cfr. infra contributo di M. Incitti. 99 LT CTEJEWTCZ et al. 1977, p. 192, fig. 135, 37. 100 TEODOR 1991, p. 132, fig. 6, 3; VARSTK 1992, p. 101, tav. III, 11. 101 MENIS (a cura di) 1990, p. 383, X.44. 102 PAROLI (a cura di) 1995, p. 240, fig. 190. 103 Per l'aspetto funzionale vedi RTCCT 1988; per esemplari in metallo cfr. ad es. CINI 1988, p. 129, fig. 23 e p. 137; per esemplari in osso cfr. ad es. PASQUI-PARIBENI 1918, coll. 322-323, fig. 172. 104 Cfr. ad es. VON HESSEN 1971a, tav. 16, 152-156; RICCI 1981, tav. X, 97-101. 105 SCHNETDER SCHNEKENBURGER 1980, tav. 37, 3-4, 8-10. 106 BALINT 1992, p. 488, tav. s2, 22, 25 e carta di diffusione p. 479, tav. 43. 107 BALINT 1992, p. 488, tav. s2, 31. 108 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 18-19, fig. 1. 109 HAHN 1981, tav. 27, 142-145. 110 Cfr. ad es VON HESSEN 1971a, tav. 16, 145-146. 111 Per confronti relativi al tipo vedi ad es. VON HESSEN 1971 a, tav.16, 144, BRECCIAROLI TABORELLI 1982, tav. LV con disposizione degli animali a triquetra. 112 Cfr. ad es. VON HESSEN 1971a, tavv. 13-15, 55-56. 113 Cfr. ad es. PAROLI (a cura di) 1995, p. 217, fig. 167; per confronto con materiali FOSSATI-MURIALDO 1988, p. 383, tav. XVIII, 1-3. 114 Cfr. ad es. VON HESSEN 1971a, tav. 21, 200. 115 PASQUI-PARIBENI 1918, coll. 284-285, tb. 86; GARAM 1992, p. 191, tav. 19. 116 CINIT RICCI 1979, p. 2s, tav. IX, 36. 117PAROLI (a cura di) 1995, pp. 217-218. 118 RICCI 1995b.
119 Cfr. ad es. VON HESSEN 1965, pp. 31-32, tav. 4; VON HESSEN 1983, pp. 34-35. 120 CARRETTA 1982, tav. 13, 4. |2[ CARRETTA 1982, tav. 13, 3. 'Z7Vedi ad es. MENGARELLI 1902, col. 200, fig. 38, col. 232, fig. 85; PAROLT (a cura di) 1995, pp. 271-272, fig. 220. 123 PAROLT (a cura di) 1995, p. 309, fig. 252. 124 MENGARELLI 1902, col. 231, 3. 125 Vedi il contributo di M. Incitti in questo volume. 126 VON HESSEN 1971b, tav. 35, 1, 7-8. 127 Una prima notizia sulle gemme provenienti dal contesto corredata da numerose analisi in ANDREOZZI-GRAZIANI-SAGUI’ C.s. 128 ANDREOZZI-GRAZIANI-SAGUI’ c.s. 129 FIORE CAVALIERE 1992, p. 211, 18; p. 212, fig. 165. 130 Per piccole croci vedi ad es. Ross 1965, p. 23, tav. XXIV, 18 e GRABAR 1951, p. 36, 131 Cfr. ad es. FUCHS WIRNER 19SO, tav. 51, FT8 20. 132 Vedi POSSENTI 1994. 133 METZGER 1980, p. 88, figg. 13-14. 134 BIERBRAUER 1994, tav. XXXIII, 135 I Bizantini in Italia p. 414, scheda 229, fig. 301. 136 DENNISON 1918, tav. 30. 137 MENGARELLI 1902, tav. 6, 3. 138 Cir. ad es. ARENA PAROLI (a cura di) 1994, p. 38, tav. Vlll. 139 Cfr. ad es. MENGARELLI 1902, col. 225, fig. 73. 140 Cfr. ad es. FUCHS-WERNER 1950, tav. 45. 141 ARENA PAROLI (a cura di) 1994, p. 54, fig. 22 e per un esempIare simile in bronzo FUCHS WERNER 1950, tav. 48, D29. 142 Cfr. ad es. MENIS (a cura di) 1990, p. 455, X.141 e 142. 143 Per esempIari in ferro cfr. ad es. MENGARELLI 1902, coL 326, fig. 234; per una vasta campionatura vedi VON HESSEN 1983, tavv. 2-3, per un esemplare con anello largo e piatto come Fig. 7, 18 cfr. SCHNEIDER SCHNEKENBURGER 1980, tav. 7, 5. 144 Anelli con alto castone sono presenti in vari contesti altomedievali come a Domagnano, BIERBRAUER 1994, p. 197, fig. III, 74 e a Castel Trosino, ad esempio nella tomba 220, MENGARELLI 1902, tav. VI, s. 145 Cfr ad es. BIERBRAUER 1974, tav. Xll, 4. 146 Cfr. ad es. BIERBRAUER 1974, tav. Xxxv, 5 e VON HESSEN 1971a, tav. 2, 40. 147 ARENA PAROLI (a cura di) 1994, p. 33, tav. III. 148 Cfr. ad es. I Bizantini in Italia, p. 414, schede 223-224 e figg. 296-297. 149 MENIS (a cura di) 199o,p. 161. 150 Da ultimo LUSUARDI SIENA 1992, pp. 145-146, nota 28. 151 Cfr. CHRISTLEIN 1978, p. 120, fig. 99, 1 esemplare dalla tomba 15 di Friedberg GARAM 1992, p. 245, tav. 73 da Ozora Tòtipuszta, Ross 1965, pp. 21-22, tav. XXIII, 15 dall'Egitto, pp. 10-12, tav. XII, 6 da Costantinopoli o dalla Siria, GRABAR 1951, p. 35, fig. 2 12 da Mersin; DENNISON 1918, tav. 33, 2 dal tesoro di Assiut, in assoluto l'esemplare più vlcmo a quello romano. 152 Per la decorazione a grossa perlinatura cfr. ad es. STURMANN CICCONE 1977, tav.3, 2-3. 153 Per coperte di codici con elementi metallici cfr. ad es. HUBERT eí al. 1980, p. 224, 154 PAROLI (a cura di) 1995, p. 237, fig. 187. 155 MENGARELLI 1902, col. 274, fig. 149. 156 MENGARELLI 1902, col. 270. 157 PASQUI-PARIBENI 1918, col. 334, fig. 186; un'altra cassetta identica proviene da una necropolI nei dintorni di Vienna (segnalazione di C. Rupp). 158 MENIS (a cura di) 1990, pp. 409-410, X.77b. 159 MENIS (a cura di) 1990, p. 427, X83y. 160 MENIS (a cura di) 1990, p. 247, X83x. 161 MENIS (a cura di) 1990, p. 247, X83w. 162 Vedi ad es. CARRA 1966, pp. 52-53, fig. 22. 163 Byzance 1992, p. 71, 24, fig. 1 164 EFFENBERGER 1976, figg. a p. 99. 165 STAFFA PELLEGRINI (a cura di) 1993, p. 53, fig. 91. 166 EFFENBERGER 1976, fig. 85. 167 Cfr. ad es VON HESSEN 1971a, tav. 50. 168 EFFENBERGER 1976, fig. 83. 169 Per Fig. 12, 4 cfr. ad es. PASSI PITCHER 1986, tav. XXIII. 170 Cfr. ad es. per Fig. 12, 15, MENIS (a cura di) 1990, p. 392, X.49f. 171 1 Bizantini in Italia, pp. 410, 411, schede 279 e 282.
|72 HUBERT et al. 1980, p. 232, fig. 246. 173 ARRHENTUS 1985 pp. 158-160 e PAROLI (a cura di) 1995, pp. 28S-286, 290. 174 Varie sono le testimonianza di pezzi di avorio in corso di lavorazione ed inoltre l'analisi dei materiali faunistici sta evidenziando la presenza di animali particolari quali le corna di cervo irlandese scomparso in epoca molto remota dal continente. 175 Su questi aspetti vedi in generale TAGLIAFERRI 1964 ma anche JONES 1974, pp. 16271628; SODINI 1993, pp. 165-170 e con una diversa prospettiva ARENA-PAROLI (a cura di) 1994, pp. 11-18. 176 Questo termine è stato usato per indicare l'attività di commercio minuto di metallo prezioso che poteva essere convertito in moneta. 177 MENIS (a cura di) 1990, pp. 372-373. 178 PAROLI (a cura di) 1995, pp. 237-243. 179 Vedi da ultimo PÈRIN 1992. 180 Vedi RICCI c.s. e SAGUI C.S. 181 LOPEZ 1975, pp. 10-11.
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Tecniche orafe di età longobarda
Le analisi microscopiche e microchimiche eseguite su di un gruppo di oltre 120 manufatti di oreficeria longobarda conservati presso il Muso dell'Alto Medioevo in Roma hanno consentito di evidenziare, oltre agli aspetti composizionali archeometallurgici, una sorprendente molteplicità di tecniche, utilizzate tra l'altro con grande perizia, disinvoltura e padronanza dell'arte orafa. Gli oggetti analizzati provengono per la più parte dalla necropoli di Castel Trosino e, in numero più limitato, da quella di Nocera Umbra 1. La metallotecnica orafa archeologica è nel suo complesso fortemente conservativa: le fusioni, lo stampaggio con matrici, la punzonatura, la toreutica (sbalzo e cesello), la filigrana, la granulazione e perlinatura, i collegamenti meccanici e termici (saldature), la placcatura e le dorature, le agemine ed il niello, ecc. possono variare qualitativamente e quantitativamente nei diversi ambienti e momenti storico-culturali, a seconda del livello raggiunto dalle varie scuole, botteghe ed artigiani orafi; in rapporto ai momenti di crisi economica o di benessere sociale oltre che della disponibilità di materie prime nel ben noto rapporto domanda/offerta, ma rimangono comunque ancorati a procedure di carattere tecnico collaudate dall'esperienza, tramandate o addirittura "standardizzate" nel tempo. È innegabile che alcune tecniche orafe abbiano raggiunto vertici di eccellenza straordinaria presso alcune culture ed in particolari momenti storici: ad esempio la granulazione finissima "a pulviscolo" etrusca arcaica, la filigrana godronata greca classica ed ellenistica, l'esaurimento superficiale in oro della "tumbaga" precolombiana, il traforo (opus interassile) tardo romano, lo sbalzo ad altorilievo su argenti romani e sasanidi. Tuttavia si tratta soltanto di perfezionamenti particolari di metallotecniche già ben note in precedenza, per esigenze decorative legate al gusto del momento o di ordine semplicemente pratlco. Lo stesso cloisonné, diffusamente e magistralmente utilizzato nelle diverse oreficerie barbariche, attinge ad una tradizione orafa già largamente diffusa e collaudata nell'antico Egitto. Lo stesso può dirsi per gli smalti, noti almeno dal II millennio in area egeo-cipriota. Potrebbe quindi destare sorpresa l'utilizzazione nell'oreficeria longobarda dell'Italia centrale di alcuni procedimenti tecnici che possiamo definire "innovativi", almeno rispetto a quanto si conosce finora in materia di oreficeria antica alto-medioevale, dove i controlli analitici e le indagini tecniche sono spesso ancora ad uno stadio embrionale. Queste novità tecnologiche avevano presumibilmente lo scopo primario pratico di accelerare la prassi costruttiva di gioielli ed ornamenti di grandi dimensioni, vistose e talvolta assai complessi in quanto costituiti, per alcune categorie, da un gran numero (anche varie decine) di pezzi prefabbricati assemblati progressivamente. Tali sono le grandi fibule circolari in oro a cloisonnè, gli anelli d'oro a castoni romboidali e, per quanto riguarda le dimensioni, le guarnizioni auree delle selle e delle impugnature di spade e sax. I metalli e le leghe I gioielli e gli ornamenti in oro analizzati (fibule circolari, anelli, orecchini a cestello e a pendenti, placche e puntali di selle e briglie, fibbie e decorazioni di cinture e baltei) sono caratterizzati costantemente (con una sola eccezione per una piccola fibula circolare della tomba I di Castel Trosino inv. n. 1240) da una lega ad alto titolo di fino, in cui la percentuale in Au varia tra il 90% ed il 98%. Gli altri elementi fondamentali in lega sono l'argento, con percentuali che oscillano tra 1,7% e 8%, e il rame che solo in due casi isolati supera il 7%, per rimanere costantemente attestato tra il 2,5% e 0,3%. Fanno eccezione alcune crocette di lamina che rivelano percentuali in Au comprese tra il 98% e il 99%, con Ag tra 1,7% e 0,5%, mentre una matassa di filo piatto da Nocera Umbra (tomba 2) raggiunge il 99,2% in Au. In quest'ultimo manufatto la percentuale in argento si riduce a meno dello 0,6%, mentre il rame è rilevabile solo a livello di tracce.
L'uso di leghe di oro a più alto titolo nelle crocette e nel filo piatto risponde certamente ad una deliberata scelta da parte degli orafi, motivata dalla necessità di disporre di metallo particolarmente duttile a comportamento plastico, destinato ad essere cucito sulle vesti o addirittura tessuto in un broccato. Nei diversi oggetti di oreficeria presentano notevole interesse gli elementi in tracce riscontrati, il cui studio sistematico ed approfondito potrà forse in futuro fornire qualche precisazione circa la provenienza geologicogeografica di almeno parte dell'oro utilizzato. In particolare si è rilevata quasi costantemente in tutte le categorie di manufatti in oro la presenza di platinoidi (platino, iridio, osmio), sotto forma di micro o criptogranuli indisciolti nelle leghe di oro, distribuiti spesso selettivamente in piccoli raggruppamenti a motivo della loro più elevata densità e dei punti di fusione troppo alti che ne impedivano l'amalgamazione intima con l'oro e gli altri componenti in lega (Tav. Ia). Vale la pena sottolineare che le microinclusioni di platinoidi sono sempre localizzate in punti od aree particolari del gioiello, corrispondenti con ogni probabilità in origine, prima della lavorazione toreutica vera e propria, alle superfici basali dei lingotti e delle pastiglie di lega già predisposti per la fusione. La densità più elevata provocava nel fuso uno smistamento ed un accumulo per gravità dei microgranuli verso il fondo dei crogioli, prima della solidificazione. La presenza di inclusioni ed impurezze di platinoidi nelle oreficerie archeologiche è nota da tempo; tali elementi forniscono in primo luogo dati archeometallurgici sulle temperature di fusione per la preparazione di leghe di oro, che non dovevano superare i 1700 °C (punto di fusione del platino: 1772 °C). Secondariamente consentono di presumere che venisse utilizzato anche oro di giacitura secondaria alluvionale che può contenere platinoidi, a differenza dell'oro estratto da giacimenti primari che normalmente ne è privo. Nel caso delle oreficerie longobarde analizzate la presenza di platinoidi, finora mai segnalata, pone alcuni problemi non trascurabili in merito alla provenienza dell'oro utilizzato. I depositi alluvionali (placers) italici di sabbie aurifere sfruttabili (Pianara Padana, per lo più) non contengono platinoidi; bisogna quindi ipotizzare che, pur nei miscugli normalmente in uso per l'oro di diverse provenienze e giacimenti, gli orafi longobardi di Castel Trosino e di Nocera Umbra abbiano utilizzato, almeno in parte, polveri e pepite di giacimenti auriferi alluvionali transalpini iberici e gallici o addirittura esteuropei (Transilvania) e medioasiatici (Asia Minore, Caucaso od Urali), spesso platiniferi. Altre ipotesi sono tuttavia parallelamente sostenibili, almeno allo stato attuale della conoscenze; non si può affatto escludere che gli orafi longobardi in Italia abbiano riutilizzato nelle fusioni preliminari oreficerie più antiche romane, etrusche o persino greco-italiote, recuperate o rapinate da tesori sepolti e necropoli. Anche manufatti bizantini in oro, coevi o penecontemporanei, potrebbero essere stati rifusi per procurarsi oro lavorabile già raffinato. Tutte queste oreficerie di possibile rifusione contengono abbondanti inclusioni di platinoidi. A questo punto nasce spontanea la supposizione, tutta da verificare analiticamente, che anche grandi quantità di solidi d'oro bizantini, quasi costantemente caratterizzati da platinoidi, siano stati rifusi, selezionando gli esemplari in migliore stato di conservazione per incastonarli “sic et simpliciter” nei pendenti di collane come gioielli monetali. Se si considera che le numerosissime analisi disponibili di solidi bizantini rivelano titoli di fino altissimi, che superano quasi sempre il 97-99% di Au in un arco cronologico di almeno quattro secoli (dal V al IX secolo), è possibile una ulteriore considerazione circa una più che logica alterazione dei titoli nei gioielli longobardi analizzati, con l'aggiunta di argento e rame. Ciò con la normale finalità non soltanto di risparmiare oro, quanto di rendere il manufatto più resistente all'uso cui era destinato. Come si è già detto, tanto le oreficerie più varie di eventuale rifusione, quanto e soprattutto i solidi bizantini, contengono frequenti ed abbondanti microinclusioni di platinoidi; esse potevano venire quindi tranquillamente "trasferite" intatte e concentrate nei nuovi prodotti, a causa delle basse temperature di fusione delle leghe di oro, insufficienti per provocarne la miscelazione minima e completa. Tra gli elementi in tracce finora riscontrabili nelle oreficerie longobarde di Castel Trosino e Nocera Umbra figurano anche l'arsenico, che compare con una certa frequenza, il selenio già più raramente osservabile ed il tellurio, solo episodicamente presente. Queste tracce non vanno sottovalutate, anche
se il loro reale significato andrà verificato meglio in futuro su di uno spettro di campioni più ampio e diversificato, in quanto potrebbe documentà`re l'impiego di quantità di oro ricavate da solfuri, quali arseniuri, seleniuri e tellururi d'oro, con ogni probabilità già utilizzati in età romana imperiale e più tardi in epoca bizantina ed altomedioevale. Tracce di selenio sono state rilevate dallo scrivente in un anello d'oro di produzione ostrogota, rinvenuto in una sepoltura intatta presso Ladispoli sul litorale romano. I giacimenti da cui provengono questi minerali auriferi erano situati in Germania e nei Carpazi orientali, più precisamente in Transilvania dove avevano cominciato ad essere sfruttati con la conquista romana della Dacia, se non addirittura in precedenza nell'oreficeria della Tracia ellenistica. Con tutte le riserve e la prudenza d'obbligo, questi primi risultati potrebbero confortare sia l'una che l'altra delle ipotesi sollevate, relative la prima all'utilizzazione di quantitativi di oro importato dall'Europa centro-orientale, la seconda al recupero ed alla rifusione di oreficerie più antiche e di oro monetato. I gioielli e gli ornamenti di argento (grandi fibule ad arco, fibbie e puntali di cinture, morsi equini) sono caratterizzati da leghe in cui il titolo di fino varia tra il 95% ed il 73% circa, con percentuali di rame comprese tra il 5% ed il 25% circa, con piccole quantità di piombo (2,4-0,9%) ed occasionalmente modeste quantità di zinco. Tra gli elementi in tracce sono state rilevate talora p.p.m. di oro, di iridio e di antimonio. La presenza di piombo non intenzionalmente aggiunto in lega (% inferiore al 3%) fa pensare ad argento estratto da galena argentifera (solfuro di piombo) od anche da cerussite (carbonato di piombo spesso argentifero), minerali che del resto hanno rappresentato sempre le principali fonti di approvvigionamento del metallo prezioso nell'antichità, come del resto ai giorni nostri. Anche le piccole percentuali di zinco talora riscontrate inducono ad ipotizzare l'utilizzazione parallela di solfuri misti argentiferi quali sfalerite e wurtzite, oltre che di carbonato di zinco (smithsonite) anch'esso caratterizzato spesso da significativi contenuti in argento sfruttabile. Maggior interesse rivestono le tracce di oro e soprattutto di iridio talora rilevate; non si può far a meno di notare una analogia archeometallorgica con argenterie sasanidi più o meno caratterizzate proprio da questi microelementi in tracce. Le tecniche di lavorazione a freddo La preparazione delle lamine in oro di vario spessore è caratterizzata da martellatura su incudini o masselli, cui fa seguito la normale tecnica toreutica con sbalzo a mano libera nei dischi delle fibule circolari; al contrario tutte le piastre e le placchette per guarnizioni di selle e finimenti, i puntali e le piastrine di cinture e baltei sono ricavati in serie per battitura a stampo su matrici in bronzo ad incavo con motivi ornamentali predisposti. La rifinitura dei manufatti stampati era completata a cesello nei dettagli debolmente improntati o poco definiti, fino alla punzonatura con fustelle circolari, al punteggio con bulini a testa variabile (tonda, piramidale, tranciante a scalpello). Tale procedura è documentabile dall'esame micromorfoscopico dei diversi motivi decorativi sul dritto delle lamine e dalle misure micrometriche lineari degli omologhi tratti e punti, indagine che tra l'altro conferma l'assoluta identità delle decorazioni stampate con la medesima matrice sulle diverse lamine di uno stesso gruppo di manufatti, cui si sovrappongono gli interventi a mano libera in grado di migliorare la definizione e in un certo senso di "personalizzare" ogni singola placca o piastrina (Tav. IIa-b). Matrici da stampo in bronzo per lamine metalliche sono state ritrovate a Roma nell'ergasterion altomedievale della Crypta Balbi; alcune di esse presentano straordinarie analogie con i manufatti di Nocera Umbra e Castel Trosino. Bisogna sottolineare che gli orafi longobardi non si accontentavano di un effetto d'insieme, che poteva risultare già benissimo dal semplice stampaggio della lamine d'oro, ma perseguivano anche un minuzioso approfondimento nella definizione del particolare, se si tiene conto delle dimensioni ridotte dei motivi decorativi sulle singole placchette e puntali. Le lamine sottili delle numerose crocette auree rivelano a luce radente, su di una delle facce, microglifi a creste e solchi discontinui diversamente improntati, ereditati dalla martellatura su incudini metalliche rettificate con abrasivi a grana fine (Tav. IId).
Il taglio delle lamine (rifilatura marginale) è caratterizzato, come nella più parte delle oreficerie archeologiche classiche e preclassiche, dall'uso di taglierini affilati a mano libera, fatti scorrere con movimento orizzontale, in assenza di forbici o tronchesi che segnano invece caratteristicamente le superfici di taglio con facce a doppia curvatura convessa convergente e striature verticali (Tav. IIc). È interessante notare che anche molte monete auree incastonate nei pendenti di collane sono state rifilate lungo i bordi, presumibilmente non tanto per adattarle ai castoni (che venivano predisposti in anticipo in base ai diversi diametri delle monete), quanto per recuperare, con una vera e propria tosatura monetale, un certo quantitativo di oro ad altissimo titolo. La foratura delle diverse lamine sagomate di vario spessore per il passaggio di fili, chiodi, perni, rivetti o ribattini, è sempre eseguita in modo speditivo per semplice pressione o percussione con punte metalliche di vario calibro e forma, operazione del resto facilitata dall'elevata duttilità dell'oro ad alto titolo. Tra le tecniche orafe definibili come "innovative" emerge l'uso di "fettucce" stampate a onde oblique, ottenute per sagomatura di sottili nastri di lamina aurea tra due rotelle scanalate ruotanti in senso inverso (Tav. IIIa). Una prima ipotesi che poteva prevedere la semplice battitura a stampo di interi fogli di lamina su piastre metalliche scannellate, da cui sarebbero state ricavate con taglierini affilati le singole "fettucce", ha dovuto essere abbandonata in quanto mancano ai bordi delle strisce ondulate a 45° deformazioni per compressione e tagli con trascinamento tipici di questo procedimento. Bisogna precisare inoltre che l'operazione di taglio avrebbe provocato gravi ed irreparabili danni alle "fettucce" stesse, con schiacciamenti e guasti del motivo a onde prestampato. Si tratta comunque di una lavorazione metallotecnica originale e veloce per motivi ornamentali a strisce saldate su fibule circolari, capace di realizzare notevoli effetti di chiaroscuro. Questa tecnica, che non è stato finora possibile documentare in nessun'altra tradizione orafa antica archeologica, è verificabile facilmente in base alla costante, rigorosa "lunghezza d'onda" delle creste e depressioni sagomate, oltre alle impronte ereditate dalle rotelle matrici metalliche. Anche l'esecuzione di un vero e proprio "scatolato" 2 ante litteram, in uso per i castoni a doppia losanga vuota degli anelli matrimoniali in oro, si prospetta come tecnica nuova, destinata ad ottenere elementi geometrici cavi prefabbricati, sia singoli che doppi, battuti su di una unica matrice a rilievo, da saldare successivamente alla fascia-cerchio (Tav. IIIb). Tra le tecniche orafe decorative a freddo (o al massimo con riscaldamento preliminare della base metallica) si evidenzia l'agemina su manufatti in ferro quali sgabelli pieghevoli, morsi equini, speroni e punte di lancia. Il procedimento, antichissimo, si ritrova sistematicamente nell'oreficeria celtica, greco-romana, anglosassone, gota e longobarda; la tecnica è ben nota e consisteva nell'applicazione di un metallo o di una lega più duttili e plastici (oro, argento, subordinatamente rame e "ottone") e di colore contrastante con il substrato entro solchi e cavità incisi su di un metallo o lega di base (per lo più ferro, acciaio e bronzo). Le incisioni ad intaglio venivano praticate con bulini affilati e taglienti, realizzando sedi entro le quali il metallo ageminato era inserito a pressione per martellatura. È probabile che il substrato venisse opportunamente riscaldato per sfruttarne la dilatazione termica specifica durante l'inserimento delle decorazioni, che rimanevano più saldamente ancorate per il successivo raffreddamento e contrazione, anche qualora il solco non fosse stato realizzato in sottosquadro. Nei manufatti longobardi di Gastel Trosino e Nocera Umbra la tecnica dell'agemina si osserva spesso su oggetti in ferro: gli sgabelli pieghevoli e morsi equini da Nocera Umbra sono arricchiti da una finissima decorazione in sottile filo di argento ad elevato titolo di fino. La grande punta di lancia a cannone in ferro da Castel Trosino evidenzia invece una ricca ornamentazione ad agemina in lega rame-zinco ("ottone") che doveva risaltare con il suo colore giallo-oro sull'originaria tonalità grigio-acciaio lucido dell'arma. Anche gh sperom della stessa necropoli sono caratterizzati da una complicata agemina in filo di argento e di "ottone". A questa tecnica si associa spesso sui medesimi oggetti una incrostazione (o placcatura) piana o a leggerissimo rilievo; a differenza dell'agemina, essa consisteva nell'applicare superficialmente a battuta una sottilissima foglia di argento ad altissimo titolo sul substrato metallico opportunamente
preparato a punteggio obliquo o a graffiatura parallela incrociata, così che il metallo plastico della decorazione "aggrappasse" solidalmente sui leggerissimi rilievi creati dall'incisione. Si tratta di un procedimento di incrostazione metallica tipicamente orientale, identico al cosiddetto koftgarì di origine persiana ed al nunome giapponese, in uso almeno dal XIII secolo. In più rari casi la lamina del metallo di incrostazione è semplicemente "rimboccata" sotto i margini in sottosquadro di un debole rilievo predisposto nel substrato. Particolare interesse riveste una speciale tecnica innovativa definibile come "falso traforo", largamente utilizzata per le guarnizioni ed i fornimenti aurei di spade e sax, oltre che nelle piastre e placchette di sella prestampate su matrici. I rilievi risultanti sul rovescio delle lamine battute a stampo sono stati tagliati di netto, o meglio "rasati" tangenzialmente con lame affilate a rasoio, aprendo m tal modo con estrema rapidità e sicurezza una serie di fori a giorno all'interno dei motivi decorativi (Tav. IVa). L'utilizzazione sistematica di questo metodo intelligente e speditivo, finora`mai documentato, è provata dai microglifi isorientati da taglio e trascinamento orizzontali visibili microscopicamente intorno ai fori sul rovescio della lamine, impronte lasciate dal filo delle lame adoperate. Si tratta di una tecnica di lavorazione orafa "a giorno" che non ha nulla a che vedere con l'autentico traforo (opus interassile) tanto diffuso in epoca tardoromana e bizantina, procedimento che prevedeva l'impiego di seghetti o di scalpelli taglienti azionati verticalmente rispetto alla superficie della lamina, seguendo il perimetro dei motivi decorativi programmati. Tra le tecniche a freddo rientra anche la preparazione di fili d'oro a sezione circolare eseguita per la massima parte con la ben nota procedura antichissima del "tiraggio a torsione elicoidale" di sottili fettucce o quadrelli di lamina ritagliata. Le tracce di questa lavorazione sono sistematicamente riscontrabili nei vari tipi di filo a livello microscopico, sotto forma di sottili "cicatrici" regolarmente spaziate ed inclinate di circa 45° rispetto all'asse di allungamento (Tav. IVb). Non mancano tuttavia fili che presentano ad un esame micromorfoscopico finissime striature parallele apparentemente prodotte dal passaggio attraverso trafile o filiere tradizionali; i fili di maggiore diametro mostrano poi deformazioni strutturali da tiratura a martello, cui si sovrappongono talora sfaccettature irregolari dovute a burnitura successiva. Molto varia è la tipologia dei fili godronati destinati alla decorazione di moltissimi gioielli (fibule circolari, anelli, orecchini a cestello, ecc.). Dal tipo a "nodi", a sfere e a dischi differentemente spaziati, si passa a quello a "tronchi di cono" in sequenza a cannocchiale, fino al modello a rocchetti larghi o serrati. Spesso il filo godronato presenta tratti lisci od incompleti ed i diversi modelli sagomati sono frequentemente associati nel medesimo oggetto, talora assemblati e ritorti con fili lisci a elica o a falsa treccia, per lo più in direzioni opposte (Tav. Ib). I vari fili sono applicati sulle lamine seguendo un disegno preliminare già graffito sul fondo a punta finissima, del quale rimangono talora tracce esposte a causa di lacune nel saldante adoperato, per distacchi posteriori o per piccolissime deviazioni inconsapevoli dal tracciato prestabilito. Nelle piastre e placchette auree ricavate per stampaggio su matrici si nota spesso una "falsa godronatura" trasferita direttamente dallo stampo e talvolta perfezionata sul diritto con il bulino in alcuni dettagli poco definiti, così come negli altri particolari prima ricordati (Tav. Va-b). Le tecniche di lavorazione a caldo In questa categoria di interventi metallotecnici rientrano ovviamente, oltre alle fusioni in matrici e a cera persa, la saldatura (saldobrasatura) eseguita nel caso di lamine, fili e setti del cloisonné con leghe altofondenti (oltre 800 °C) di rame-oro e oro-argento, sotto forma di paglioni 3 preparati in serie, applicati per punti e fusi con il cannello ferruminatorio a bocca 4 (Tav. VIa). L'impiego di un sottile dardo di fiamma mirato esclusivamente sui punti di saldatura è documentabile microscopicamente dai numerosi fori irregolarmente sfrangiati con bordi di fusione arrotondati e caruncolati a gocce,
rilevabili nei punti di applicazione dei paglioni lungo i contatti delle diverse parti metalliche; tali fori imponevano spesso veri e propri immediati "interventi di restauro" (o meglio di rattoppo), eseguiti sul rovescio dell'oggetto con frammenti di sottile lamina di oro ritagliata (Tav. VIb). Una saldatura colloidale a sali di rame ("crisocolla" l.s.) con più basso punto di fusione (600°-700° C) 5 è stata invece adoperata per fissare elementi strutturali più delicati e minuscoli quali granulazione e perlinatura, relativamente poco diffuse e sempre piuttosto grossolane nelle oreficerie longobarde analizzate, ma tuttavia presenti in alcuni dettagli decorativi di fibule circolari, anelli a castoni romboidali ed orecchini a cestello o a pendente. La lavorazione a "cloisonné" è troppo nota nelle oreficerie altomedievali per parlarne diffusamente; tuttavia si può sottolineare che nelle fibule circolari longobarde di Castel Trosino e Nocera Umbra i setti di nastro aureo sono saldati alle lamine di fondo piuttosto sommariamente soltanto per punti singoli con paglioni di lega oro-argento. Inoltre la forma dei castoni delimitata dai setti è sempre diversa e talora estremamente irregolare; ciò induce ragionevolmente a credere che le gemme (in massima parte granati rossi) inserite venissero tagliate in precedenza in formati simili ma mai identici l'uno all'altro ed i castoni settati costruiti in funzione delle gemme stesse. Tale prassi poteva tra l'altro consentire di limitare al massimo lo sfrido di materiale gemmologico raro, prezioso e costoso, in maniera quasi analoga a quanto si verifica ai giorni nostri per rubini e zaffiri birmani o thailandesi, tagliati nei luoghi d'origine con forme e sfaccettature irregolari in funzione della caratura del grezzo di partenza, allo scopo di non perdere peso sprecando materia preziosa. Sul fondo di molti castoni di fibule ad arco e ad S in argento dorato si riscontrano laminette d'oro e di argento finemente lavorate a punteggio o a graticcio, tagliate a misura e presumibilmente bloccate in sede da mastici e collanti. La funzione di tali minuscole superfici metalliche zigrinate sotto le lastrine pianoparallele di granati rossi trasparenti, era probabilmente quella di diffondere uniformemente la luce riflessa attraverso la gemma migliorandone, esaltandola, la colorazione e attenuando nel contempo il lampo di luce concentrato e violento emesso da una lastrina metallica liscia lucida. Per quanto concerne la doratura di parti di gioielli in argento e di ornamenti in bronzo è stato possibile rilevare sia l'uso della tecnica a fuoco con amalgama di mercurio (grandi fibule ad arco in argento), sia l'applicazione di sottilissima foglia di oro per placcatura (umboni- di scodo in bronzo); quest'ultima era ottenuta sfruttando gli intervalli termici di fusione dei diversi metalli e leghe (saldatura autogena o bollitura) senza alcun saldante interposto ed esercitando pressione e stiramento penecontemporanei della foglia d'oro con burnitoi, di cui rimangono talora tracce isorientate. Sotto il profilo tecnologico assume notevole interesse la stagnatura di alcuni ornamenti in bronzo (fibule simmetriche a bracci uguali, placchette e fibbie per cinture) tramite rivestimento delle superfici in vista con una sottile pellicola di stagno metallico; le tracce di mercurio rilevate consentono di ipotizzare ragionevolmente che tale stagnatura venisse applicata per evaporazione a fuoco di amalgama, come nell'analoga doratura, ma a temperature molto più basse. Questi ornamenti "stagnati" sono un'autentica esemplificazione di "bigiotteria" ante litteram, destinata a coprire le richieste di particolari manufatti da parte dei ceti meno abbienti; gli effetti coloristici del tipo oro-argento erano ottenuti sfruttando i contrasti cromatici tra il bronzo giallo-rosa`to e lo stagno argenteo. Una successiva decorazione a punzonatura con fustelle cave circolari (cerchietti concentrici) e ad incisione (linee a zigzag) veniva eseguita sulle superfici trattate a stagno, interrompendo localmente la continuità della pellicola di rivestimento e riportando in luce nei solchi il sostrato bronzeo con effetti di colore puntiformi e lineari. Sul piano strettamente archeometallurgico vale la pena sottolineare come il rivestimento di stagno abbia svolto una funzione protettiva nei riguardi della sottostante lega di rame, in quanto le superfici stagnate sono di regola tra le meglio conservate, ancora lucide, levigate e quasi prive dei prodotti minerali di corrosione del bronzo. Tra le tecniche a caldo si pone in risalto particolare il largo uso del niello su fibule ad arco in argento. Le decorazioni a triangolini punzonati sono colmate con una miscela che ha rivelato alle microanalisi una composizione molto prossima a quella di un solfuro di argento e piombo, con modestissime ed irregolari tracce di rame (Tav. VIIa-b). Tenendo conto dei complicati processi di alterazione ipogea,
smescolamento ed esaurimento non solo superficiali delle leghe metalliche di scavo archeologico, si può presumere che le piccole e variabili quantità di rame riscontrate nel niello provengano dal substrato in argento delle fibule stesse. È noto da tempo che gli elementi meno nobili in lega (in questo caso il rame contenuto nell'argento) sono soggetti a formare precipitati intermetallici; il rame più alterabile e corrodibile può essere mobilizzato a subire una parziale "migrazione" verso le superfici esterne del manufatto, ove spesso si mineralizza in composti autonomi (solfuri, ossidi, carbonati di rame). Nella fattispecie è possibile che ioni rame in quantità variabili si siano infiltrati nella composizione del niello, formato in origine da solo solfuro di argento e piombo. In margine a questa breve sintesi tecnologica, non sembra superfluo puntualizzare l'intensa usura d'uso subìta da moltissimi gioielli, anche tenendo conto dell'alto titolo di fino di buona parte delle leghe di oro e di argento utilizzate. Si tratta di gioielli d'ornamento personale, portati certamente molto a lungo "in vita", anche nel corso di più generazioni e soggetti quindi ad un logorio selettivo di tutte le parti aggettanti ed esposte a continui insulti di carattere meccanico, quali semisfere in lamina di fibule circolari, filigrana e perlinatura delle medesime, cerchi ed appiccagnoli di orecchini, punzonature, dorature a niello di fibule in argento, con appiattimento ed obliterazione per abrasione reiterata di moltissimi dettagli, perdita di definizione e caduta di elementi saldati, in molti casi fino allo sfondamento da erosione d'uso dei castoni vuoti di anelli. Al contrario i fornimenti in oro delle impugnature di spade e sax, le piastre e le placche di sella, numerosi puntali di cinture e baltei non mostrano segni di usura o logorio sistematico delle superfici esposte; sembra logico supporre che ciò sia imputabile alla funzione puramente decorativa da parata occasionale dei manufatti a cui le guarnizioni auree erano destinate. L'orafo di età longobarda a Castel Trosino e Nocera Umbra era essenzialmente uomo pratico, dotato di inventiva e di risorse tecniche innovative, pur nel filone di una tradizione metallotecnica consolidata da millenni; talora apparentemente poco attento ad una rigorosa precisione geometrica del proprio lavoro. Ciò andava tuttavia a vantaggio, salvo casi isolati, della personalizzazione del singolo gioiello, che rappresenta sempre un unicum (anche quando eseguito in coppia, come nel caso di orecchini e fibule ad arco), caratterizzato proprio da alcune piccole irregolarità ed imperfezioni esecutive individuali, capaci tuttavia di conferire particolare "vita e calore" al manufatto. GUIDO DEVOTO
1 Sono felice di ringraziare anche in questa sede la cara amica Dr.ssa Lidia Paroli, che mi ha non soltanto stimolato entusiasticamente ad intraprendere lo studio tecnico delle oreficerie longobarde del Museo dell'Alto Medioevo in Roma, ma mi è stata paziente e preziosa consigliera durante l'intero percorso della ricerca. 2 Lo scatolato è una tecnica orafa moderna che si avvale di lamina vuota profilata e presagomata in forma di solidi geometrici (parallelepipedi, prismi, elementi cavi anche curvi a sezione quadrata o rettangolare, ecc.) utilizzati da soli od assemblati in gioielli compositi. 3 Residui di paglioni di leghe saldati indisciolti sono talora riscontrabili microscopicamente in vari punti di saldatura dei diversi manufatti.
4 Un cannello ferruminatorio a Roma nell'ergasterion della Crypta Balbi. 5 Le analisi microchimiche di alcune saldature di grani e sferette rivelano costantemente incrementi altissimi del rame.
Bibliografia DEVOTO 1985 - G. DEVOTO, Geologia applicata all'archeologia, NIS, Roma ELUÈRE 1990 - C. ELUÈRE, Les secrets de l'or antique, Bibliothèque des Arts, Paris. AA.VV 1985 - M.W, L'or monnayè I; Purifications et alteration de Rome a Byzance, Ed. Centre National Recherche Scientifione, Paris HARPER 1981 - PO. HARPER, Silver Vassel of the Sassanian Period, vol. I, Metropolitan Museum of Art, New York, Princeton Univ. Press. OGDEN 1982—J. OGDEN, Jemellery of the Ancient World, Trefoil Books, London.
Le sepolture in urbe nella norma e nella prassi (tarda antichità - alto medioevo)
L'oggetto di questo intervento è rappresentato da un'analisi delle possibili valenze del fenomeno dell'inurbamento delle sepolture, con particolare riferimento a quanto prescritto dalla normativa giuridica e a quanto documentato dall'evidenza archeologica. Per il secondo aspetto l'esemplificazione sarà limitata all'Italia annonaria, in quanto area indagata in modo più sistematico da chi scrive 1. La specificità del seppellimento in urbe consiste nel suo stesso manifestarsi, presentandosi come aperta violazione a disposizioni giuridiche e superamento di consuetudini di tradizione secolare, che, almeno formalmente, risultano ancora in vigore nella tarda antichità e rispettate anche a cristianesimo diffuso 2, La prima testimonianza del divieto di seppellire nella città è rappresentata, come è noto, dal testo della Legge 1, X del corpus delle XII Tavole - che si datano alla metà del V secolo a.C. - riportato da Cicerone nel De Legibus (Tab. 1, 1) 3. Si tratta di una chiara prescrizione di ordine pubblico, non priva di implicazioni profilattiche, verosimilmente resasi necessaria a causa dello sviluppo della vita urbana. Inserita nel primo codice romano, essa appare in opposizione ad un costume precedente, del quale esistono tracce nelle fonti (Tab. 1, 6) 4 ed in alcune attestazioni archeologiche, quali le sepolture di VIIIVI secolo a.C. che coesistono con le prime capanne dell'area del Foro romano s La novità della regola viene rafforzata da un secondo passo contenuto nella medesima legge ed in cui si coglie meglio la preoccupazione del legislatore verso l'igiene pubblica, là dove si stabilisce la distanza minima delle tombe dalle abitazioni private (Tab. 1, 2) 6, La base giuridica della norma che prescriveva per Roma e per"tutte le città soggette al suo diritto che le sepolture venissero realizzate al di fuori del pomerium, ad una distanza misurata in cento piedi dalla linea di cinta 7, pare rappresentata dal carattere di res religiosa attribuito ai sepolcri ed al concetto di locus purus contrapposto a quello di locus religiosus. La condizione perché un seppellimento fosse considerato legale era posta dal fatto che esso avvenisse dove non erano mai state praticate sepolture (locus purus); la deposizione di resti umani - incinerati o inumati 8_ conferisce al sito, infatti, il carattere di locus religiosus 9. Poiché il pomerio è un luogo sacro per definizione e ab initio, ne consegue l'impossibilità di sfruttarne l'area a fini sepolcrali. I successivi richiami alla citata legge repubblicana - sempre rubricati sotto il titolo De sepulcro violato - non sono più espliciti di quanto lo sia il primo testo circa la natura dei principi che li hanno ispirati, ma il loro comparire nei codici romam m momenti diversi prova che a più riprese l'antica norma venne disattesa e che, sia pure in condizioni che ci sfuggono, il fenomeno non ebbe un carattere isolato ed occasionale, poiché questo non avrebbe giustificato l'intervento del legislatore. Il primo richiamo è rappresentato da un rescritto adrianeo (Tab. 1, 3) 10, che, oltre ad attestare una violazione del diritto sepolcrale vigente - trasgressione evidentemente non ignorata da alcuni magistrati - è particolarmente illuminante di un diverso regime giuridico applicato nei municipi e che l'intervento imperiale tende ad allineare con quello dell'Urbe. Il testo dimostra implicitamente che nella mentalità comune permaneva il desiderio di seppellire i propri morti il più vicino possibile alle aree abitate, in modo da potersi garantire un'assidua frequentazione dei sepolcri, anche a dispetto di pur necessarie norme igieniche o a scelte di carattere insediativo, che Imponevano di destinare gli spazi propriamente urbani alla vita civile e produttiva, con gli edifici e le strutture di servizio che essa comportava, piuttosto che ad aree funerarie non più altrimenti recuperabili alla vita attiva 11. Per i successivi due secoli e mezzo non si hanno tracce giuridiche del problema, fino al noto editto teodosiano emanato nel 381 (Tab. 1, 4) 12, in cui si rilevano due elementi nuovi rispetto alle più antiche prescrizioni. Il primo è dato dall'accento, difficilmente casuale, posto sul fatto che solo le sepolture che ingombrano il sopraterra debbano essere rimosse e trasportate extra urbem: l'ordinanza sembra voler sottolineare che l'interesse dello stato in materia è volto unicamente ad evitare un'indebita occupazione di suolo pubblico mediante l'installazione di monumenti sepolcrali 13. Il
secondo elemento - che evidentemente non poteva essere presente nelle norme anteriori alla definitiva affermazione del cristianesimo - è il riferimento alle reliquie di apostoli e martiri, che cominciavano ad essere trasferite all'interno delle città e di cui alcuni fedeli cercavano la vicinanza post mortem, nel quadro della nascente pratica delle sepolture ad sanctos. Il legislatore, considerandolo un pretesto per contravvenire alle norme giuridiche, ne conferma di fatto la crescente diffusione, attestata, oltre che da precoci manifestazioni in Africa settentrionale, note da fonti letterarie ed archeologiche, anche dalle contemporanee riflessioni agostiniane circa la liceità e l'opportunità di tale pratica 14. Il testo teodosiano, emanato a Costantinopoli, si riferisce ad una situazione in atto almeno in Oriente, mentre per l'Occidente non si hanno prove per affermare che già alla fine del IV secolo la presenza di reliquie in chiese urbane vi abbia attratto delle sepolture 15; ma che il fenomeno fosse in larga espansione lo conferma anche l'articolo IX, XVII, 7 del 386, complementare al precedente, in cui il divieto di rimozione delle tombe viene contemplato non più nel quadro di una generica violatio sepulchri - che pur è sottintesa nella natura stessa della disposizione - bensì nella specifica casistica di un trasferimento di corpi santi (Tab. 1, 5) 16. Il Codice Giustinianeo, redatto a distanza di circa centocinquant'anni, non contiene più alcun riferimento esplicito al seppellimento in urbe e si limita a riprendere dal corpus teodosiano il divieto di commerciare le reliquie e di trasferire altrove i corpi già inumati (Tab. 1, 7) 17. I contemporanei editti emanati dai sovrani ostrogoti, raccolti nelle Variae di Cassiodoro, contemplano una sola citazione relativa a problemi di ordine funerario, priva peraltro di alcun legame con la posizione dei cimiteri rispetto alla città 18, Agli inizi del IX secolo, infine, una Novella dell'imperatore Leone V Armeno sancisce l'avvenuto superamento delle antiche leggi in merito alla collocazione delle sepolture (Tab. 1, 8) 19. Non diversamente da quanto avvenne per il potere civile, gli interventi delle autorità ecclesiastiche riguardo ai costumi funerari furono volti più a correggere degli abusi che a codificare dei riti 20, Nei Canoni Conciliari che si occupano della materia - mai anteriori al VI secolo - non compare alcun riferimento alle sepolture urbane, né in termini di riprovazione, né di accettazione di tale pratica: essi si limitano infatti a ribadire la proibizione del seppellimento all'interno delle chiese e dei battisteri; a vietare il riuso delle tombe; a regolamentare la consacrazione degli altari, che deve avvenire solo in presenza di reliquie di corpi santi 21. Sono dunque i due articoli di legge teodosiani dell'ultimo quarto del IV secolo a costituire l'anello di congiunzione tra inumazioni urbane e pratica delle deposizioni ad sanctos, in un nesso che viene implicitamente accettato nei primi contributi dedicati al fenomeno 22; ma se è chiaro che le sue origini possono essere inscritte anche entro questa prospettiva, i caratteri della sua evoluzione sono ancora ben lontani dall'essere definiti, soprattutto per quanto riguarda l'ampia casistica delle tombe prive di alcun rapporto diretto con edifici di culto. *** Fin qui la scarna normativa in materia di sepolture in urbe; veniamo ora ad esaminare alcuni dati relativi alla prassi, quali sono emersi dallo studio sull'introduzione delle tombe nelle città dell'Italia del nord 23, L'arco cronologico scelto è compreso tra la costituzione delle diocesi e gli inizi dell'VIII secolo, momento in cui le pratiche funerarie subiscono dei mutamenti tali da annullare il carattere di eccezionalità precedentemente rivestito dall'inumazione all'interno dell'abitato 24, Dal punto di vista geografico si è privilegiato il territorio dell'Italia Annonaria, che nel periodo esaminato risulta interessata da avvenimenti storici simili e relativamente ben documentati: sono state dunque analizzate le civitates che tra il IV ed il VII secolo assunsero il ruolo di sede episcopale, con l'esclusione di quelle città che sono scomparse precocemente o il cui assetto urbanistico tardo antico è risultato troppo lacunoso ai fini della ricerca 25. Nell'area presa in considerazione, la pratica delle sepolture in urbe è attestata in 33 città su 42 (78%) - in 6 casi con incertezza (14%) -, ma i dati di cui si dispone attualmente rivelano delle cifre
sicuramente per difetto 26; il fenomeno, inoltre, interessa le diverse località secondo modalità e cronologie che variano sensibilmente. Per quanto riguarda il rapporto tra le sepolture intramuranee e gli elementi della topografia urbana, va tenuto presente, in primo luogo, che l'esistenza di cinte murarie erette nel corso del basso impero o della tarda antichità, o i restauri operati sulle mura di epoca anteriore, sono attestati in 14 casi (33%), mentre 16 città (38%) sembrano essere sprovviste di fortificazioni. L'estensione del tracciato è conosciuta interamente, o per una superficie che ne permette una ricostruzione sufficientemente verosimile, solo per 7 città (17%): Albenga, Aquileia, Bologna, Milano, Ravenna, Rimini e Verona. In alcuni casi resta aperta la possibilità di un uso prolungato delle mura romane tardo repubblicane o degli inizi dell'età imperiale: tale continuità sembra sicura nelle città di Aosta, Novara, Torino e Trieste; in altre, alcuni settori del territorio che in origine erano extra muros hanno potuto divenire parte integrante della città imperiale, per venirne nuovamente esclusi in seguito, in occasione di una contrazione dell'abitato: è il caso di tre città dell'attuale Emilia Romagna -Bologna, Reggio Emilia e forse Parma-, dove questo restringimento ha assunto la forma di una vera e propria “enceinte réduite” in rapporto alle superfici sulle quali in precedenza, e talvolta in contemporaneità, è attestata una buona consistenza insediativa 27. Compatibilmente con i già citati limiti delle attuali conoscenze, la posizione relativa tra le tombe registrate e le mura è la seguente: interna in 18 città (55%); interna - ma con incertezza - in 5 (15%); non identificabile in 5 (15%). Nelle rimanenti S i dati topografici o di scavo sono insufficienti per ogni valutazione. La cronologia delle sepolture urbane, conosciuta solo per il 62% dei casi e in termini spesso approssimativi, indica il prevalere del fenomeno nel corso del VI-VII secolo, anche se non mancano alcune manifestazioni più precoci (Tab. 2). L'analisi del rapporto reciproco tra le diverse tombe di una città e di queste con gli eventuali edifici di culto ha dato i seguenti risultati: sepolture isolate, talvolta organizzate in piccoli gruppi, sono attestate in 20 città su 33 (61%) - di cui 3 incerte (9%) -; sepolture associate ad edifici di culto in 25 (76%) - di cui 6 incerte (18%) -. In 12 centri (36%) si è verificata la coesistenza di inumazioni isolate e di sepolture legate ad un edificio di culto. In questo quadro, le tombe poste in relazione a strutture del gruppo episcopale sono le più numerose: nelle 25 città citate solo 4 fanno eccezione (Tab. 2). Dall'insieme dei dati risulta che sulla totalità delle città che presentano sepolture all'interno dell'abitato il 43% è interessato da sepolture privilegiate; il 19% dalla duplice presenza di inumazioni privilegiate e comuni; il 19% da inumazioni comuni; le 19% da sepolture di carattere indeterminabile 28. Per quanto riguarda le inumazioni episcopali urbane, ritenute un importante indicatore degli usi funerari di questo periodo 29, le fonti di cui si dispone sono, ancora una volta, molto lacunose e di natura tale da limitare fortemente l'interpretazione: nell'Italia del nord si hanno segnalazioni per 11 città - Brescia, Classe, Genova, Ivrea, Lodi, Milano, Modena, Pavia, Ravenna, Torino, Verona -, con una cronologia compresa tra l'ultimo quarto del V secolo e la seconda metà dell'VIII. Va tuttavia osservato che, nella maggior parte dei casi, non si dispone di indicazioni precise circa la collocazione originaria delle iscrizioni funerarie alle quali è legata principalmente la conoscenza di tali deposizioni e che le fonti letterarie ricordano talvolta degli edifici oggi difficilmente identificabili dal punto di vista archeologico e topografico 30. Se dunque si può accettare con cautela la possibilità che in alcuni centri le prime sepolture vescovili siano più precoci, queste sembrano affermarsi prevalentemente nella seconda metà del VI secolo, pur mantenendo, anche a questa data, un carattere di eccezionalità. Il numero delle tombe episcopali in urbe finora note, infatti, non è mai superiore alle due unità e in nessun caso i personaggi sono identificabili come fondatori o santi patroni della diocesi. Una volta ammessane l'antichità, resta inoltre oscuro se la pratica della deposizione vescovile urbana sia dovuta ad una scelta personale di singoli presuli o all'iniziativa della comunità, indotta dal prestigio del proprio pastore a conferirgli sepoltura nell'edificio-simbolo del suo ministero 31. In conclusione si può osservare che nell'Italia del nord il fenomeno delle sepolture urbane si manifesta, in particolare, dal V-VI secolo. Tale pratica, se pure attesta il superamento dell'antico
diritto in materia sepolcrale, è comunque limitata a situazioni riconducibili, di volta in volta, alle trasformazioni socio-economiche di un centro, con conseguente destrutturazione urbana, o all'acquisizione di uno specifico privilegio da parte di qualche membro della comunità. Al momento sembra da escludere una valenza etnica, poiché nella valutazione distributiva e quantitativa delle sepolture in urbe non si è rilevata un'apprezzabile differenza tra le civitates che risultano mantenere più a lungo un legame con la tradizione romana e quelle che, invece, sono interessate dalla presenza stabile di popolazioni di cultura diversa (cfr. Tab. 2). Esaminando infine la posizione dei luoghi di inumazione tradizionali extra-urbani, si verifica che nella maggior parte dei casi si ha una vera e propria continuità tra le necropoli romane ed i cimiteri della tarda antichità: talvolta si è avuta una contrazione verso l'abitato o una riduzione nel numero dei siti a destinazione funeraria, ma tutti i dati - anche se imprecisi sulla quantità delle tombe e la loro cronologia - sembrano indicare che le antiche aree sepolcrali furono mantenute in uso fino alle soglie dell'alto medioevo. Quanto alle sepolture urbane, del resto, il loro numero è talmente esiguo che si deve ammettere, forzatamente, che nell'epoca considerata si è continuato ad inumare la maggior parte delle persone all'esterno dell'abitato: se per alcuni centri è probabile un calo demografico in rapporto all'età romana imperiale e se i risultati di scavi spesso avvenuti in anni lontani non forniscono che un quadro estremamente parziale della situazione reale, il numero delle tombe sicuramente attestate inferiore alle 300 unità ripartite su 33 città e su tutto il periodo esaminato - è evidentemente insufficiente a provare un radicale cambiamento di mentalità e di abitudini. CHIARA LAMBERT
1 Cfr. LAMBERT 1992, PP. 145-158; EADEM 1994 e c.s. Per uno studio puntuale del fenomeno nel territorio urbano di Roma, cfr. MENEGHINI SANTANGELI VALENZANI 1993, per una recente analisi dell'ideologia delle sepolture urbane cfr. CANTTNO WATAGHIN C.S. 2 Cfr. KOTTING 1965, PP. 10-12. 3 CICERO, De Legibus, II, 23, S8. Il testo fu in seguito confermato e rinnovato fino all'età dioclezianea (in proposito cfr. BRIDE 1941, col. 1888, con rimando a MANY 1904, P. 233, n. 138). Cfr. inoltre DYGGVE 1952, P. 147; O5BORNE 1984, P. 291. 4 Cfr. DE VISSCHER 1963 P. 60, dove, a margine della citata legge delle XII Tavole, è riportato il passo di SERVIUS, Aieneidem, VI, 152. 5 Cfr. DYGGVE 1952, PP. 147-149; GJERSTAD 1952, PP. 13-29; TOYNBEE 1971, PP. 39-42. 6 CICERO, De Legibus, II, 24, 61. Cfr. inoltre DE VISSCHER 1963, PP. 61; 147. 7 Cfr. BLUMENTHAL 1952, coll. 1867-1876, TESTA 1990, PP. 78, 83. Per una disamina aggiornata sulla nozione di pornerium, cfr. MAGDELAIN 1990, PP. 155-191. 8 Circa la coesistenza dei due riti anche in epoca repubblicana, cfr. TOYNBEE 1971, pp. 9 Per le nozioni giuridiche citate, cfr. LONGO 1964a, pp. 137-144 e ID. 1964b, pp. 342352; TESTA 1990, pp. 77-78. 10 Cortus luris Civilis, vol. I, Digesta, XLVII, 12.
11 Una conferma di tale mentalità è offerta da aree di minor radicamento della cultura urbana: in alcuni ambiti rurali della Gallia sono state individuate tombe ad incinerazione della prima metà del I secolo d.C. al di fuori delle necropoli tradizionali ed in stretto rapporto con l'abitato, talora entro il cortile di villue aristocratiche. In proposito cfr. LAFoN-ADAM 1993, pp. 113-120. 12 Codex Theodosianus, lib. IX, tit. XVII, lex 6. 13 Orienta in questo senso anche il commento del De Visscher: “L'interdiction de transfert subsiste, bien entendu, en ce qui concerne les corps et cendres placés "sous terre" en ville fussent ils renfermés dans des sarcophages ou des urnes” (DE VIS5CHER 1963, p. 313). 14 Circa le sepolture ad sanctos cfr. KOTTING 1965 ed i più recenti e fondamentali DwAr 1988 e 1991; PICARD 1992, pp. 21-33; 38-45. 15 Cfr. CANTINO WATAGHIN 1992, p. 29. 16 Codex Theodosianus, lib. IX, tit. XVII, lex 7. Cfr. DE V~sscH~R 1963, pp. 311-314. 17 Corpus luris Civilis, vol. II, Codex lustinianus, lib. 1, tit. IT, lex 3 e lib. III, tit. XLIV, lex 14. Cfr. BRIDE 1941, col. 1888; DE VTSSCHER 1963, p. 312. 18 Cassiodori Senatoris Variae, IV, 34, a. 507/511. Il testo riguarda la proibizione di deporre monete nelle tombe. 19 Novellae ad calvem Cod. Iustinianus, LIII, cit. in BRIDE 1941, col. 1888. 20 Cfr YOUNG 1977, P 9 21 Si tratta rispettivamente del concilio di Braga, a. 563, canone XVIII (cfr. HEFELE-LECLERCQ 1909, P. 180); del sinodo di Auxerre, a. 561-605, canone XIV-XV (Conc. Gall., II, A. 511-A. 695, p. 267); del concilio di Nantes, a. 658 (?), canone VI (cfr. HEFELE-LECLERCQ 1909, p. 297); del concilio di Macon, a. 58S, canone XVII (Conc. Gall., II A. 511-A. 695, p. 246); di un concilio svoltosi in un luogo incerto, in un anno imprecisato ma posteriore al 614, canone II (Conc. Gall., II, A. 511-A. 695, p. 287). 22 Cfr. in part. BERNARD 1933, p. 16; SAEIN 1952, pp. 33-36; DYGGVE 1952, pp. 150153; ID. 1953, pp. 137-141. 23 Questa sezione del testo ripropone nelle linee essenziali quanto presentato da chi scrive al Colloque "Vie et mort du cimetière cArétien"' Orléans 29 sept. - ler oct. 1994, per il quale cfr. LAMBERT C.S. 24 Cfr. PICARD 1987, pp. 33-48; ID. 1987a, pp. 35-38; ID. 1988. 25 Si sono escluse le città di Adria, Altino, Asolo, Belluno, Brescello, Ficuclue, Oderzo, Treviso, Vibo Valentia, per le quali cfr. CANTINO WATAGHIN 1989, PP. 22-23, 31. Per i limiti cronologici scelti, non si è trattato in questa sede del caso di Vada Sabatia, dove ricerche recenti hanno rimesso in luce una necropoli del periodo bizantino, datata tra la metà del IV e la metà del VII secolo; la città divenne diocesi solo nel IX secolo e non è attestata come civitas nell'antichità. In proposito cfr. LANZONI 1927, PP. 844-845 e, per i dati archeologici, VARALDO 1990, PP. 129-138; ID. 1992. 26 I dati che si presentano nel testo e nelle Tab. 4-5-6 sono aggiornati al 1994; essi vanno letti, pertanto, tenendo conto, oltre che delle possibili lacune del censimento, anche delle eventuali scoperte archeologiche più recenti. 27 Cfr. CANTINO WATAGHIN 1989, PP. 35-37; DEMEGETO 1992, PP. 1-4. 28 Il carattere privilegiato delle sepolture è dedotto dal loro rapporto con un edificio di culto e/o, più raramente, dalla loro tipologia o dalla presenza di un corredo significativo. 29 Cfr. PICARD cit. a n. 24. 30 Cfr. LAMBERT 1992, pp. 150-151; EADEM 1994. 31 A questo proposito si veda il caso di S. Vaast, deceduto ad Arras nel 540: malgrado una differente scelta personale, egli fu seppellito in ecclesia ad dextro cornu altaris, ubi ipse pontificale cathedrale fingebat officio (Vita Vedastis episcopi atrebatensis, p. 412, cfr. inoltre E. SATIN 1952, pp. 34-35; 361).
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Archeologia funeraria e insediativa in Piemonte tra V e VII secolo
Le riflessioni sulle vicende dell'insediamento nel territorio dell'attuale Piemonte tra il V ed il VII secolo proposte in questo contributo si fondano sui risultati di una serie di ricerche in corso, tra le quali si segnalano in particolare la stesura della Carta archeologica del Piemonte 1, che ha fornito l'occasione per una generale revisione della bibliografia e dei documenti dell'archivio della Soprintendenza, ed il riscontro dei materiali del Museo di Antichità di Torino nell'imminenza dell'allestimento della nuova sezione relativa al territorio. Le fonti considerate sono quindi essenzialmente archeologiche e comprendono i dati, anche inediti, di molte indagini recenti o non ancora concluse 2. Sull'attendibilità del quadro generale che emerge da questo primo spoglio, si deve considerare che gli interventi di scavo degli ultimi due decenni hanno subito vistosi incrementi, determinati dall'adozione di criteri di tutela uniformi per tutta la regione. Ne risultano quindi ridimensionate le tradizionali riserve sulla casualità delle scoperte, cui viene spesso imputata la disomogeneità di distribuzione dei ritrovamenti. Indubbiamente ben diverse conclusioni si potrebbero trarre da studi territoriali sistematicamente impostati su tutte le fonti disponibili, con l'ausilio della toponomastica e delle raccolte di superficie 3, ma in attesa che maturino le condizioni per avviare nuovi specifici programmi di ricerca interdisciplinare, pare comunque utile un primo confronto della situazione piemontese con i temi discussi nel Convegno. In particolare si è affrontato il problema della riconoscibilità e attendibilità dei resti materiali direttamente riferibili all'occupazione longobarda in Italia nell'ambito più generale della documentazione archeologica altomedievale. Proprio nella consapevolezza dell'ampio dibattito sorto sul significato dei corredi funebri di età longobarda 4 Si è tentato di valutare il maggior numero possibile di componenti, tra le quali è compreso, ma non sopravvalutato, lo stesso corredo delle sepolture che comunque dovrebbe essere, per quanto ancora possibile, confrontato ed integrato con i risultati delle analisi antropologiche. Su questo fronte di ricerca si attende a breve un primo bilancio condotto su consistenti campioni demografici, analizzati nell'ambito del programma di studio integrale delle sepolture indagate nel corso dell'ultimo quindicennio, relative a tutte le epoche, fino ai cimiteri subattuali 5. Sulla carta della regione (Fig. 1), nella quale è evidenziata la principale rete stradale di età romana, con i centri urbani - in lettere minuscole le città precocemente abbandonate - sono indicate tutte le emergenze archeologiche databili tra il V ed il VIII secolo con l'inclusione di alcuni complessi di poco più tardi e di rilevante interesse come l'abbazia di Novalese: i cimiteri con inumati privi di corredo e le tombe isolate, gli edifici religiosi rurali di età paleocristiana e altomedievale accertati archeologicamente, le epigrafi (per lo più funerarie) e gli insediamenti. Questi ultimi assommano ad un numero ancora esiguo di casi, molto diversificati tra loro tipologicamente. Si sono invece esclusi i centri urbani, da cartografare con criteri diversi per la complessità dei ritrovamenti, ed i siti documentati esclusivamente da materiale scultoreo altomedievale, in assenza di verifica archeologica. In primo luogo risulta immediatamente percepibile la diversa distribuzione delle presenze, pur essendo ancora da valutare appieno in quali termini esse si pongano rispetto all'evoluzione del quadro insediativo tra la media e la tarda età imperiale, che nel Piemonte meridionale presenta segni precoci di crisi, tale da condurre in tempi diversi all'abbandono di molte città 6. Risalta la maggior concentrazione dei ritrovamenti lungo tutta la fascia prealpina, anche in profondità nei solchi vallivi a nord, con una rarefazione dell'insediamento nella pianura e nell'area collinare del Monferrato e di nuovo una discreta concentrazione nella piana cuneese, dove le ricerche degli ultimi anni stanno modificando il quadro delineato dalle vecchie indagini, anche per i periodi più antichi 7. Ancora recentemente infatti si è posto l'accento sulla fondazione dei municipi romani del Piemonte meridionale in un territorio caratterizzato da una presenza umana rarefatta, che costituirebbe la prova
indiretta di una sorta di errata valutazione per eccesso della pianificazione dei centri urbani e la premessa inevitabile della loro decadenza 8, mentre pare ormai provato che le tappe della romanizzazione, sviluppatesi lungo direttrici commerciali preromane, non abbiano rappresentato che la riorganizzazione degh insediamenti delle popolazioni indigene alleate 9. Alba, Pollenzo, Forum Fulvii, Libarna, Tortona e forse Augusta Bagiennorum si sovrapposero o giustapposero anch'esse, non diversamente da quanto si verifica per l'area settentrionale, a nuclei "protourbani" ben più antichi, peraltro già indiziati dalla stessa toponomastica. In ogni caso la persistenza di una maggiore vitalità nel Piemonte transpadano anche in età tardoantica sembra ulteriormente confermata dalla marcata disparità nel numero degli edifici religiosi paleocristiani, ormai frequentemente attestati nel territorio delle diocesi di Vercelli e Novara, in più diretto rapporto con l'area milanese. Diversità di origine e di funzioni - chiese private, fondazioni missionarie, chiese battesimali sorte per iniziativa del clero diocesano - sembrano emergere dalle peculiarità dei singoli edifici di culto, dalla loro durata nel tempo e dalle eventuali trasformazioni medievali. In continuo incremento risultano i casi di chiese sorte nell'ambito di ville tardoromane: a quelli già noti di Ticineto 10 e di Centallo, che si approfondirà in seguito, si aggiungono gli esempi ancora inediti di S. Apollinare a Carpignano (No), dove un intervento di scavo limitato ha potuto accertare l'impostazione di un edificio di culto absidato su precedenti strutture di età romana, e di Sizzano, sempre nel novarese, oggetto di indagini sistematiche che hanno rivelato, nelle ultime campagne di scavo, l'inserimento di una chiesa nell'ambito di una villa rustica, probabilmente rimasta in uso durante il primo periodo di vita della chiesa stessa 11. Il tema di questo lavoro impone di non proseguire con la rassegna di tutte le chiese paleocristiane, battesimali o no, indagate in ambito rurale nel territorio regionale, ma preme sottolinearne almeno il numero relativamente elevato, rispetto ad esempio alla limitrofa Lombardia 12, e l'attendibilità della documentazione archeologica, frutto per la maggior parte di scavi recenti, condotti per quanto possibile in estensione. Questa precisazione è particolarmente importante per la corretta valutazione delle aree cimiteriali connesse agli edifici di culto, che nella maggior parte dei casi comprendono soltanto sepolture prive di corredo e di complementi di vestiario, ma non per questo indatabili o non analizzabili antropologicamente. Valga per tutti l'esempio, quantitativamente più rilevante, costituito dalla vasta area cimiteriale di Ticineto, datata fra il VI secolo e l'età carolingia 13, dove l'esplorazione di 160 sepolture associate alla chiesa non ha restituito nessun elemento di corredo o accessori di abbigliamento. Il dato è stato ulteriormente confermato dalla recente ripresa delle indagini, che ha interessato anche nuovi settori del cimitero 14. Per quanto riguarda le altre chiese paleocristiane individuate in ambito rurale, l'avvio dei relativi cimiteri non pare, allo stato attuale delle ricerche, fenomeno precoce o comunque contemporaneo alla creazione degli edifici di culto stessi 15. Questi riflettono l'impostazione di un'evangelizzazione delle campagne che nelle sue fasi iniziali probabilmente innestò le proprie strutture, almeno in parte, al di fuori della maglia insediativa esistente, in posizioni decentrate e al servizio di più villaggi o di un abitato sparso, ancora dotati di proprie aree funerarie. Tale caratteristica, già da tempo evidenziata per la distribuzione e la localizzazione delle pievi medievali in relazione agli insediamenti 16, potrà rivelarsi di origine ben più antica se si moltiplicheranno i casi come quello della chiesa battesimale di Mergozzo, fondata nel V-VI secolo in posizione isolata sul Montorfano, ma a breve distanza da importanti strade e vie d'acqua 47. Data la complessità e variabilità dei casi finora indagati archeologicamente sarebbe comunque prematuro cogliere nella diversa distribuzione delle tombe presso le chiese rurali l'indizio di funzioni specifiche e alternative per chiese funerarie o battesimali, improntate su modelli urbani e suburbani 18. Inoltre risulta attualmente ancora problematica l'individuazione e la valutazione delle aree funerarie tardoantiche, in parte sviluppatesi in continuità nell'ambito delle necropoli di età imperiale
sia rurali, sia urbane, come indicano i casi dei cimiteri di Tortona, in particolare quelli di corso Repubblica e di via Emilia 19, di Alba 20 0 di Vercelli 20, ma altre volte insediatesi per archi cronologici ristretti in siti diversi, precedentemente non occupati 22. Pur con le cautele rapidamente esposte, è parso indispensabile considerare e localizzare tutte le sepolture ascrivibili al periodo in esame come indicatori di insediamento, analogamente a quanto si verifica per le tombe con elementi di corredo. Per quanto riguarda il materiale epigrafico, quasi esclusivamente funerario, esso risulta comunque molto significativo, anche nell'incertezza della sua originaria collocazione, per i riferimenti cronologici, sociali e amministrativi che offre. Evidenze insediative vere e proprie per i secoli V-VII sono rappresentate da un numero ancora modesto di casi che, se per il momento non consentono generalizzazioni o l'individuazione di modelli, aprono tuttavia incoraggianti prospettive di ricerca. Nella val Curone (A1), a partire dalla fine del IV secolo si costituirono nuovi abitati rurali, rilevati a seguito di ricerche di superficie, due dei quali, nelle frazioni S. Giorgio e Frascata di Brignano Frascata, sono stati indagati esaustivamente 23. Nel primo sito l'abitato tardoromano si inserì in un'area già occupata da un insediamento rustico del I sec. d.C., con fasi comprese tra la prima e la media età imperiale. Le capanne presentano un impianto rettangolare, con massicciata in ciottoli ed elevato in pisè, confrontabili con quelle del tardo IV secolo recentemente individuate a Ind?~stria 24. Anche a Frascata modeste strutture con basi in ciottoli a secco si addossarono alle murature superstiti di un solido fabbricato, per il quale si è proposta l'identificazione con un deposito di merci o di derrate agricole. A breve distanza si impiantò una capanna circolare. Per entrambi i siti, si ipotizza un abbandono definitivo nel corso del VI secolo. A Mombello, nella val Cerrina (A1), nell'area della cascina "del Piovano" del Molino Nuovo di Gambarello, lungo il tracciato collinare di collegamento tra Industria e Vardacate, nei pressi della quale si localizza la pieve di S. Michele di Meda (ad Meidias), presente in documenti del X sec. ~s, si sono recentemente messe in luce strutture di età tardoromana alle quali si sovrapposero murature in pietre e ciottoli, con alzato probabilmente ligneo e palificate interne, che definiscono parte di un grande ambiente quadrangolare a destinazione abitativa e artigianale 26. A1 loro esterno, a pochi metri di distanza, sono emerse due tombe terragne con orientamento est-ovest. Tra i materiali, in prevalenza della fine del VI-VII secolo, si segnalano un tremisse a nome di Maurizio Tiberio, di I tipo 27, pettini in osso decorato insieme a ceramica riconosciuta come longobarda 28 e invetriata, mentre notevoli quantità di pietra ollare caratterizzano i livelli di abbandono, datato al VII secolo. L'importanza del sito è evidente, in ordine soprattutto al problema della continuità di insediamento, che pare attuarsi tuttavia con una trasformazione radicale delle precedenti strutture, più che con il loro riadattamento. A queste significative testimonianze si devono aggiungere i pochi esempi sinora indagati in Piemonte di abitati d'altura, che non consentono per il momento schematizzazioni tipologiche, come il Castelvecchio di Peveragno (Cn) e Belmonte (To), ai quali si dedica una trattazione specifica nei paragrafi seguenti e S. Stefano Belbo (Cn) che documenta, sulla sommità dell'altura che domina l'attuale centro, nell'area del castello medievale del quale rimangono la torre, una cisterna ed un tratto del muro di cinta datati al XIII secolo, l'esistenza di un abitato articolato in più fasi ed una fucina metallurgica attiva nel V secolo 29. L'area artigianale fu precocemente interessata da ristrutturazioni ed in particolare da un vistoso taglio nel terreno, che determinò una sorta di terrazzamento, sul quale venne realizzato un ampio focolare in lastre di pietra. In un momento ancora successivo, verosimilmente nel corso del VI secolo, questo settore dell'insediamento, ai margini della scoscesa pendice dell'altura, venne annullato dalla costruzione di una poderosa struttura in tecnica mista, con travi lignee alternate a parti murarie in pietre legate da malta, interpretata come cinta difensiva 30. La contiguità di bassi- fuochi, o fuochi di forgia, a focolari con probabile uso domestico è stata verificata pure nel caso della fucina riconosciuta in un vecchio scavo nella grotta valsesiana della Ciota Ciara, oggetto di una recentissima revisione 31. I materiali metallici ed il significativo contesto ceramico di questo sito, datato tra la fine del V e la metà del VI secolo, documentano in Piemonte,
analogamente a quanto avviene in altre regioni 32, la rioccupazione delle grotte dal periodo tardoantico in momenti di particolare instabilità politica, ma anche in connessione con un diverso sfruttamento delle risorse. Nella carta alla Fig. 2 sono indicate le poche evidenze archeologiche gote, già segnalate nel loro complesso nei noti lavori di Bierbrauer 33, ora arricchite dal ritrovamento recentissimo di una fibbia in argento da Peveragno, databile alla prima metà del VI secolo, di cui rimane solo la placca rettangolare con bordura articolata da un motivo a onda e con quattro almandini negli angoli sporgenti dal profilo; nella parte centrale aperta è inserita, dal retro, una piastra con cinque castoni 34 (Fig. 3). Da Tortona, sede del castrum menzionato da Cassiodoro 35, del quale non si è trovata traccia archeologica, ma che si ipotizza situato nell'area del castello, dove si sono per il momento messe in luce solo parti della cinta tardo-repubblicana 36, accanto ai più conosciuti materiali goti si segnala un consistente nucleo di reperti longobardi, diviso tra i Musei di Tortona e Alessandria 37: essi provengono da quelle stesse aree funerarie suburbane, che parrebbero presentare una continuità di funzione sin dal periodo tardoromano. Si tratta di un esempio significativo, pur nella sua eccezionalità per il nostro territorio, della possibilità di formazione di cimiteri misti, che le indagini recentemente riprese potranno definire nei caratteri cronologici e distributivi. In età longobarda (Fig. 2) la regione subalpina occidentale era caratterizzata da una certa permanente connotazione di confine, che si proiettò essenzialmente sul fronte di difesa rispetto ai Franchi, ed anche in seguito fu teatro di una costante tendenza dei poteri pubblici a strutturarvi formazioni territoriali di notevole estensione 38. Alle sedi dei grandi ducati di Torino, Ivrea e Asti, si affiancò quella del castrum di S. Giulio d'Orta, citato dalle fonti a proposito dell'episodio del duca ribelle Mimulfo, sconfitto e ucciso da Agilulfo nel 590 39. Se è discussa la sua effettiva territorializzazione 40, vanno peraltro considerati la mancata promozione di Novara, benché città episcopale, a capoluogo militare ed amministrativo del regno longobardo, ed il perdurare anche in età carolingia di una distrettuazione che non faceva capo a Novara, ma al castrum di Pombia 41. Nessun dubbio invece sul carattere strategico-difensivo dell'insediamento longobardo sull'isola di San Giulio, più volte interpretato come rioccupazione di una precedente piazzaforte militare allestita alla fine del IV secolo nell'ambito dell'organizzazione del Tractus Italiae circa Alpes, o in età teodoriciana a seguito della politica gota di potenziamento delle strutture difensive 42, o ancora come fortificazione bizantina sorta durante la guerra greco-gotica 43. Sulla questione disponiamo oggi di nuova documentazione archeologica raccolta nel 1992 in occasione dei lavori di posa dell'impianto di metanizzazione 44: nonostante i ristretti limiti della trincea, obbligatoriamente scavata lungo la strada anulare che segue il perimetro dell'isola, e i pochi ampliamenti che si sono potuti effettuare negli spiazzi, si sono indagate sequenze stratigrafiche concordi in più punti del sito, che hanno restituito frammenti ceramici datati tra la fine del V ed il VII secolo 45. È evidente l'importanza del riscontro materiale che indica, dopo una frequentazione protostorica testimoniata da ceramica golasecchiana, un lungo periodo di abbandono dell'isola fino all'inoltrato V secolo. Ciò non esclude che l'insediamento religioso possa essere avvenuto anche prima, secondo la tradizione agiografica recentemente rivalutata 46, con possibile riferimento alla più antica fase edificatoria individuata negli scavi della basilica di San Giulio. Nel V secolo avanzato o agli inizi del VI, con l'affermarsi di un precoce sviluppo del culto del santo, e forse in concomitanza con la creazione del castrum, fu costruita una chiesa cruciforme in cui, a metà del VI secolo, scelse di essere sepolto il vescovo di Novara Filacrio 47. I Longobardi dunque presero possesso di un ganglio importante del sistema difensivo collegato alle isole dei laghi prealpini, ma archeologicamente non si sono fino ad oggi ritrovati materiali riferibili alla loro cultura, benchè la datazione della ceramica risulti estesa all'arco cronologico della loro presenza in Italia. È questo un fenomeno ben noto, che coinvolge in Piemonte anche le altre sedi ducali urbane.
Conferme archeologiche più consistenti sulla facies del periodo in esame si sono acquisite ad Asti, dove ai materiali longobardi raccolti nel Museo Civico Archeologico, di provenienza imprecisata, si aggiungono ora i ritrovamenti di ceramica a stampiglia in una fossa colmata da materiali altomedievali, esplorata in via dei Varroni 43 e di un altro significativo contesto stratigrafico di età longobarda da via S. Giovanni 49, entrambi presso la porta urbica occidentale. Interessante è inoltre la fase altomedievale del cimitero di S. Secondo, posto nei pressi del sito della Curtis ducati, pur in assenza di reperti tipicamente longobardi in questi ultimi due casi so. Come ad Asti, all'interno delle città - ducali o no - si conferma la pressoché totale mancanza di sepolture con elementi di vestiario o di corredo, benchè il fenomeno delle sepolture in urbe si riveli sempre più consistente negli scavi urbani recenti si. Fanno eccezione Novara e Vercelli: nel primo caso fu rinvenuta nei pressi del Duomo una croce aurea di probabile provenienza funeraria 52; a Vercelli la tardo-cinquecentesca Cronaca del Corbellini descrive la scoperta di una sepoltura con corredo (spada, cintura, croce in oro), cui deve aggiungersi un anello - sigillo aureo, segnalato pochi anni dopo dalla relazione del Vescovo, presso l'altare maggiore della chiesa di S. Eusebio 53. Per Torino si va arricchendo la trama, ancora estremamente frammentaria, delle fasi urbane altomedievali attraverso l'esplorazione sistematica dei cortili oggetto di interventi edilizi 54, ma le informazioni archeologiche sull'occupazione longobarda sono pressoché nulle dall'area intramuranea 55. Numerosi ed importanti sono invece i ritrovamenti avvenuti, tra fine Ottocento e primo Novecento, nelle zone circostanti la città: a nord soltanto nel quartiere di Madonna di Campagna è emersa una tomba con uno scramasax di corredo 56, ma a sud, lungo la strada in uscita dalla città, oggi via Nizza, a più riprese si individuarono tombe con corredi d'armi completi appartenenti ad un nucleo cimiteriale 57. Più lontano dal centro urbano, ma sempre lungo lo stesso asse viario, in quartiere Lingotto, avvenne il ritrovamento di una sepoltura femminile, nota per il ricco corredo della prima metà del VII secolo 58. La loro ubicazione, a discreta distanza dalle mura, non può definirsi propriamente suburbana e non ricalca precedenti siti funerari o di abitato, così come risultano isolate le sepolture con armi ritrovate ai piedi della collina torinese che, soprattutto per i versanti settentrionale ed occidentale, inducono ad ipotizzare l'occupazione ex novo di aree disabitate e incolte. Sebbene maggiori tracce di insediamento e di sfruttamento agricolo del suolo in età romana siano state individuate, soprattutto su base toponomastica, sul versante meridionale, dove si sviluppò la grande necropoli di Testona 59, il quadro insediativo specificamente riferibile all'arco cronologico che qui interessa, è tuttavia caratterizzato dalla presenza quasi esclusiva di documentazione archeologica di ambito longobardo, fatto che suggerisce come minimo modi di inserimento autonomo della popolazione immigrata in quel territorio. In estrema sintesi si può ricordare che non paiono più sussistere elementi sufficienti per ipotizzare una continuità d'uso dell'area funeraria di Testona rispetto ad un nucleo di sepolture precedente 60, ma che il cimitero sembra pertinente ad una comunità stabilmente insediata per un lungo periodo, dalla fase dell'immigrazione al tardo VII secolo almeno, sostanzialmente fedele agli usi funerari germanici tradizionali, a differenza, come si vedrà, di altri gruppi maggiormente integrati nella cultura romana. Proprio dal confronto con le altre presenze longobarde in Piemonte risulta difficile escludere per l'insediamento di Testona una valenza anche militare 61, in stretta relazione con la strada ed il Po 62. Allargando lo sguardo al territorio regionale nel suo insieme, la distribuzione delle sepolture con materiali di corredo di età longobarda non pare offrire elementi significativi per sovvertire il quadro interpretativo tradizionale, che indica un insediamento inizialmente distinto della popolazione immigrata, finalizzato al controllo di nodi strategici e delle principali vie di comunicazione 63. Nel tentativo di verificare questo assunto, si è dovuto far ricorso ad una cartografia della rete stradale di età romana in buona parte tratta da vecchi studi, perché le pur numerose puntualizzazioni comparse su sezioni territoriali limitate, non sono ancora confluite in un aggiornamento su scala regionale 64. Ma ancor più opportuna sarebbe una verifica in prospettiva diacronica, che consentisse di evidenziare
le importanti variazioni determinatesi in età tardoromana e altomedievale, come ad esempio l'abbandono del principale tracciato stradale alla sinistra orografica del Po, tra Torino e Pavia, a favore di un più lungo percorso che dall'altezza dell'attuale Chivasso raggiungeva Vercelli, per poi innestarsi sulla direttrice che dai valichi della Valle d'Aosta, attraversata Ivrea, conduceva a Vercelli e Pavia 65. L'affermazione del nuovo itinerario portò alla scomparsa delle mansiones e mutationes di questo tronco 66, ma il fenomeno va tuttavia inserito in una complessa ristrutturazione territoriale di lungo periodo, che inizia in età tardoantica ed abbraccia tutto l'altomedioevo e che trova riscontro archeologico nelle vicende dell'insediamento di Trino S. Michele (Vc) 67. Questo abitato rurale di pianura ha rivelato una costante vitalità anche tra V e VIII secolo, ma non ha restituito materiali in qualche modo riconducibili all'occupazione longobarda, che pare significativamente aver trascurato proprio la fascia lungo il Po, non più inserita nella rete viaria principale. Con l'eccezione delle tombe di Fontanetto 68, la distribuzione dei ritrovamenti longobardi presenta infatti ampie lacune in questa zona, mentre si riaddensa a breve distanza dalla strada da Vercelli a Ivrea nell'area di S. Germano, posta negli attuali territori comunali di Alice Castello e Borgo d'Ale, dove sono emerse in tempi diversi tre importanti sepolture di cavalieri, con corredi datati nell'arco del secondo terzo del VII secolo. Dal centro storico di Alice è ancora da segnalare una tomba femminile isolata, priva di corredo 69. A pochi chilometri dalle tombe di S. Germano, riservate a personaggi dell'aristocrazia longobarda, si sviluppò la grande necropoli di Borgomasino 70, che si è ipotizzato comprendesse oltre cento deposizioni con ricchi corredi, purtroppo quasi totalmente dispersi 71. Una ulteriore concentrazione di reperti caratterizza nel Monferrato la val Cerrina e l'area immediatamente circostante, in sintonia con il quadro che vedeva in essa, su base essenzialmente documentaria e toponomastica “il centro di irradiazione, durante l'alto Medioevo, dello stanziamento germanico” 72; oltre al sito di Mombello, del quale si è già parlato, si segnalano la spada e la crocetta aurea di Serralunga di Crea 73, I'orecchino a cestello di Vignale 74, le tombe con corredo da Moncalvo 75 e quelle meno sicure di Ottiglio 76, il puntale di cintura di Lu Monferrato 77 A Pecetto di Valenza, in una località ubicata sul margine delle colline, alla confluenza di Tanaro e Po e nelle vicinanze della via Fulvia, si è indagato nel 1980 un piccolo nucleo di 19 sepolture orientate ovest-est in piena terra e in casse costruite con frammenti laterizi, coperte a doppio spiovente 78. Soltanto dalla tomba 1, già manomessa, si è recuperato un anello bronzeo digitale e filamenti di broccato d'oro, che indicano l'elevato rango sociale dell'inumato 79, mentre in giacitura secondaria si sono rinvenuti frammenti di pietra ollare, una punta di freccia e una moneta argentea: 1\8 di siliqua con monogramma di Pertarito (?) della Langobardia Regno, databile tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo 80. La disposizione a file del cimitero e l'assenza di un edificio di culto ad esso associato concorrono, con i pochi ma significativi reperti, a differenziare il sepolcreto da altri di più sicuro ambito locale, come ad esempio il vicino cimitero di Ticineto. La proposta di datazione alla fine del VII- VIII secolo potrebbe giustificare la scomparsa quasi completa dei corredi, se il gruppo fosse riferibile agli insediamenti barbarici indiziati dai numerosi toponimi rilevati nell'area 81. La questione non pare oziosa perché gli interrogativi posti da siti come Pecetto o, come vedremo, Rivoli-Perosa e Centallo, richiedono ulteriori approfondimenti storici e indagini più complete, in quanto suggeriscono modelli interpretativi di maggiore complessità rispetto al quadro offerto dai vecchi ritrovamenti. È il caso del Piemonte meridionale, e in particolare della pianura cuneese, dove la componente germanica nel popolamento, valutata su base toponimica o epigrafica 82 e scarsamente supportata da materiali archeologici, appariva marginale oppure tardiva 83. Ora la moltiplicazione di ritrovamenti sporadici di complementi di vestiario come a Caraglio 84, Fossano 85 e Savigliano 86 (Fig. 4), e l'ancora inedita tomba di Scarnafigi 87, insieme al più noto corredo di Baldissero, alle armi di Cherasco, alla sepoltura femminile di S. Stefano Belbo 88, attenuano la disparità distributiva generalmente rilevata, sia pure in un panorama territoriale caratterizzato da presenze puntiformi e disperse, già evocato per il periodo tardoromano. Dietro a queste ultime ed alle indubbie variazioni antropometriche e fenotipiche registrate negli studi in corso sui resti scheletrici di alcuni cimiteri
altomedievali, si potrebbe forse intravvedere l'insedi`amento di nuovi gruppi umani, attratti in primo luogo dalle risorse agricole di terre fertili, organizzate in latifondi sin dai secoli precedenti 89. Un precoce inserimento tra i proprietari terrieri potrebbe aver favorito, in quest'area periferica sud-occidentale, un più rapido processo di integrazione con la popolazione locale, che consente però ancora di distinguere archeologicamente nel VII secolo comunità con tradizioni almeno in parte differenziate, come ad esempio a Centallo, dove il rito funebre conserva ancora la deposizione, rara e molto ridotta, di oggetti e accessori personali. La bassa percentuale di sepolture con corredo si ritrova, più a nord, nella necropoli di Carignano (To) 90, relativamente ai due nuclei di regione Boatera (140 tombe orientate ovest-est, in cinque file, terragne salvo una sola cassa in ciottoli, con una percentuale del 7-8% di corredi, in cui non compare l'armamento completo di spada-scudo-lancia, ma soltanto sax, frecce, un'ascia e doni variabili) e di località Fornace (30 tombe, di cui una sola, realizzata con tegole, aveva cintura, coltello e moneta forata). Un terzo gruppo di sepòlture, comprendente quattro tombe maschili con armi databili alla seconda metàfine del VII secolo ed una quinta già violata, fu individuato in regione Valdoch, nei pressi della cappella di S. Remigio e nelle vicinanze di una necropoli romana a incinerazione e di inumazioni senza corredo 91. A Carignano si delinea quindi un sistema di aree funerarie separate destinate a gruppi sociali differenziati, presente anche altrove, come ad esempio a Trezzo sull'Adda 92. In Piemonte tuttavia la lacunosità delle vecchie notizie impedisce di approfondire eventuali confronti con altri siti, quali Moncalvo o Borgovercelli 93, dove risultano individuati più nuclei cimiteriali. Il gruppo ristretto e privilegiato di Carignano-Valdoch offre inoltre lo spunto per altre considerazioni: in primo luogo queste sepolture sembrano costituire un possibile esempio di continuità d'uso di un'area funeraria di età romana e poi tardoantica, non eccezionale ma molto raro nella nostra regione, in secondo luogo sarebbe stato interessante verificare archeologicamente un'eventuale origine in età longobarda o precedente della chiesa di S. Remigio, attestata nei documenti a partire dall'XI secolo 94. Si apre cioè il problema del rapporto fra chiese e tombe con elementi di corredo più o meno sicuramente riferibili alla tradizione culturale longobarda 9s. Per il momento può essere utile ricordare, oltre al caso di Centallo, gli sporadici ritrovamenti di due sax in una tomba della chiesa paleocristiana di S. Massimo di Collegno 96, di un vaso e di cesoie in una tomba infantile nella chiesa battesimale di S. Stofano a Lenta (Vc) 97e del già citato puntale di cintura nel S. Giovanni di Lu Monferrato 98. Solo notizie non verificabili segnalano poi armi e crocette auree da tombe non scavate all'interno e davanti alla chiesa di S. Martino di Pombia (No) 99. Per Collegno, Lenta e Lu si tratta di materiali poco caratterizzanti o addirittura dubbi (Lenta), che possono indicare al più la presenza di singole sepolture di tradizione longobarda in contesti funerari paleocristiani e altomedievali connessi con importanti chiese di origine precedente, divenute pievi nel medioevo. Non sono invece noti, per il momento, casi di cappelle funerarie private fondate ex novo dalla classe dirigente longobarda, al di fuori dei suggestivi, ma labili, indizi segnalati per Carignano-Valdoch e S. Martino di Pombia. L'unico esempio indagato estesamente rimane quindi il S. Gervasio di Centallo che, come vedremo, si pone in una situazione intermedia e più complessa: un gruppo egemone elegge a proprio luogo di sepoltura una chiesa battesimale paleocristiana, della quale promuove successivamente una completa e originale riedificazione. Salvo queste eccezioni, stimate per eccesso, le sepolture con corredo di età longobarda non risultano collocarsi in prossimità di edifici di culto e in continuità con i relativi cimiteri, come bene si evidenzia nella sovrapposizione delle due carte precedentemente illustrate (Fig. 5). Resta anche da dimostrare che le tombe prive di corredo dei cimiteri organizzati a file (Testona, Carignano-Boatera) debbano essere riferite alla popolazione romanza e non a membri dello stesso gruppo, legati da una tradizione culturale comune: in primo luogo alle donne, di cui, non solo in
Piemonte, risultano largamente minoritari i corredi, e poi alle inumazioni più tarde, per il noto fenomeno della progressiva riduzione e scomparsa del dono funebre. Per quanto riguarda la tipologia costruttiva delle tombe, alla deposizione in semplici fosse terragne, prevalente nei cimiteri a file di più antica formazione, come Testona, sembra tendenzialmente preferita, a partire dal VII secolo, quella in fosse con rivestimenti e coperture più elaborati, soprattutto m connessione con corredi importanti o con ubicazioni privilegiate della tomba stessa 100. Questa tendenza è comune anche ai contesti non longobardi, dai quali anzi originano tipologicamente le varie forme di cassa. In conclusione, se a vent'anni dalla puntuale e pionieristica schedatura di Von Hessen 101 il catalogo dei ritrovamenti longobardi risulta numericamente raddoppiato, ciò non è dovuto tanto a recenti scoperte di nuovi cimiteri con spiccate caratteristiche germaniche, quanto piuttosto al risultato delle revisioni in corso alla luce di più aggiornate conoscenze, e in misura consistente anche alle nuove indagini sul campo che, grazie alle più attente metodologie di scavo, permettono di documentare contesti che certamente sfuggivano alle scoperte fortuite ed ai recuperi non stratigrafici. Si tratta di evidenze materiali di minor impatto, da leggere su una base sempre più articolata di parametri, aggiornata sulle problematiche archeologiche e storiche che si vanno definendo e precisando per i complessi e non univoci fenomeni di trasformazione del paesaggio e della società tra tardoantico e altomedioevo. E.M.- L.P.B. Il Castelvecchio di Peveragno Dal 1993 è in corso un'indagine archeologica sull'altura denominata "Castelvecchio" (Fig. 6), che raggiunge m 843 s.1.m., nella frazione Montefallonio del comune di Peveragno, a pochi Km da Cuneo 102. L' intervento è stato avviato dopo il recupero di una consistente quantità di materiali metallici e ceramici di epoca protostorica e tardoromana, in concomitanza e successivamente alla costruzione di una carrareccia di accesso alla sommità, per l'installazione di un ripetitore telefonico 103. L'interesse archeologico del sito era peraltro noto sin dal Settecento, quando eruditi locali segnalavano l'esistenza di antichi abitati sui colli di S. Giorgio, Moncalvino, Castelvecchio e Forfice, incombenti sulla piana cuneese, all'imbocco della valle Pesio 104. La documentazione d'archivio di epoca medievale fornisce informazioni solo su Forfice, sede di un castrum attestato per la prima volta tra il 1041 ed il 1153, quando la giurisdizione della diocesi di Asti fu estesa sino al monte Bisalta 105. In particolare, un atto relativo alla vendita di un castagneto nel territorio dipendente da Forfice, menziona un “castrum vetulum” 106, da identificarsi verosimilmente con il nostro Castelvecchio, provandone nel contempo l'antichità, confermata dalle risultanze archeologiche. Ad una prima fase di insediamento, databile alla media età del Ferro (VI-V sec. a.C.), documentata solo da materiali ceramici in giacitura secondaria da strati di colluvio seguì, alla metà circa del III sec. d.C. l'impianto di modeste strutture artigianali. Analisi al C 14 di campioni dai livelli d'uso consentono infatti di attribuire a questo periodo due piccoli forni scavati nel substrato roccioso, con piano di cottura in lastre di pietra e probabile copertura a calotta, collassata all'interno. Le camere di cottura furono progressivamente colmate da strati di colluvio e detriti di roccia, frammisti esclusivamente a ceramica protostorica, che confermerebbero una fase di abbandono dell'insediamento del quale non è possibile, allo stato attuale delle indagini, ipotizzare estensione e caratteristiche. Certo è che anche il Castelvecchio parrebbe rientrare nell'ampia casistica di abitati arroccatisi nel III secolo, meglio documentati in area veneta e lombarda, per la grave insicurezza politica seguıta alle prime incursioni barbare 107. Ma è solo con la fine del secolo seguente che l'altura cuneese venne intensivamente occupata da abitazioni prevalentemente lignee, disposte su terrazzamenti creati dopo impegnativi interventi di
taglio e regolarizzazione della superficie rocciosa. Non si è per il momento in grado di restituire la planimetria delle capanne, vista la limitata estensione dei sondaggi ed il forte dilavamento delle ripide pendici dell'altura; numerosi incavi nella roccia e brevi tratti superstiti di impiantito ligneo, insieme ai laterizi recuperati, autorizzano tuttavia l'ipotesi di modeste strutture, con intelaiatura lignea a volte su zoccolo in pietra e copertura in coppi, spesso a falda unica poggiata direttamente alla parete litica. I1 primo terrazzamento, a pochi metri dalla sommità, era occupato da una costruzione stretta ed allungata, divisa in almeno due vani, nel primo dei quali si è messo in luce un forno coperto da una calotta in pietre legate da malta. Nell'area antistante la camera di cottura, dove si è rinvenuto un focolare in laterizi, era ancora visibile un tratto di assito ligneo completamente carbonizzato. I1 secondo ambiente era verosimilmente destinato all'immagazzinamento di derrate alimentari, come attesta una fossa-silos, colma di cariossidi di cereali (orzo, segale, frumento, farro, avena, panico), rıcavata direttamente nella roccia; essa presenta un profilo circolare, con un diametro massimo nella parte superiore di m 1, 50, restringendosi progressivamente verso il basso. Anche dai livelli d'uso circostanti si sono recuperate notevoli quantità di orzo e avena, insieme a numerose mele carbonizzate; l'assenza di veri e propri strati attribuibili ad incendio, lascia aperta la possibilità che le tracce di combustione riscontrate sui materiali organici derivino da trattamenti di tostatura per la conservazione 108. Anche se le scorie e gli utensili metallici, rinvenuti insieme a frammenti di pietra ollare riconducibili a crogioli, dagli strati di vita del V e del VI secolo avevano fatto ipotizzare la destinazione di questo settore dell'insediamento ad attività metallurgiche, i dati di scavo della campagna'9S, evidenziando un forno sostanzialmente privo di camera di combustione, farebbero propendere invece per il suo utilizzo per la trasformazione di materiale organico, in stretta connessione con lo stoccaggio di derrate alimentari. L'ordinata scansione distributiva delle cellule lungo i primi terrazzamenti, con un'occupazione intensiva della sommità, è provata anche dal sistema di convogliamento delle acque di versante, che confluivano in una sorta di fossato-canale, colmato progressivamente ed in ultimo utilizzato come strada. Da questo settore dello scavo proviene la maggiore quantità dei materiali ceramici, già oggetto di uno studio preliminare, al quale si rimanda per il dettaglio: alla ceramica grezza, riferita ad un arco cronologico compreso tra IV e VI secolo, si associano scarsissime quantità di terra sigillata africana e di t.s. chiara di imitazione, note in contesti della fine del IV e del V secolo. Si è verificata la compresenza di queste ultime classi con contenitori invetriati di analoga cronologia, mentre la pietra ollare, in gran parte di origine valdostana, caratterizzata da livelli più tardi, del VI secolo 109. Ad una distanza di circa 100 metri verso ovest, in corrispondenza di una sella che collega il Castelvecchio ad un altro colle, affiora una poderosa struttura muraria (m 1, 90 di larghezza x 8 circa di lunghezza), i cui caratteri costruttivi, insieme alle considerevoli dimensioni, avevano indotto ad identificare con una torre, all'esterno della quale si è individuato un fossato scavato in gran parte nella roccia. Il rilievo planialtimetrico di tutta l'area, realizzato nell'autunno '95 e la prosecuzione dello scavo pur facendone risaltar'l'allineamento con costruzioni quadrangolari poste più in basso, oggetto di ripetute ricostruzioni anche in epoca moderna, permettono di riferire i resti ad una cinta continua, forse limitata ai settori non difesi naturalmente 110. La sequenza stratigrafica consente di racchiudere le fasi principali dell'abitato sommitale nell'arco cronologico compreso tra la fine del IV ed il VI secolo, pur mantenendo quest'ultimo limite - imposto sia dai reperti ceramici che monetali - un certo margine di oscillazione, che si spera di precisare con la prosecuzione dei lavori. Qualche incertezza può lasciare anche la quantità minima di materiali di età romana imperiale, solo monete e vetri, che si è per il momento riferita a recuperi per il reimpiego in attività artigianali altomedievali, piuttosto che indizio di un insediamento in loco. La forgiatura del ferro, che caratterizza soprattutto la fase più tarda del villaggio, è attestata infatti dalle grandi quantità di scorie e di semilavorati, insieme a lingotti, panelle di piombo, utensili per metallurgia, oltre ad attrezzi per carpenteria e lavori agricoli ed elementi di connessione delle strutture in legno (cfr. l'esemplificazione alla Fig. 7). Anche se la metà circa di essi provengono da raccolte di superficie antecedenti l'avvio dello scavo archeologico, la mappatura dei ritrovamenti, aggiungendo Peveragno all'elenco dei siti altomedievali con testimonianze archeologiche di
lavorazione dei metalli 111, rivela significative associazioni - ad esempio una piccola incudine in bronzo, tre martelletti in ferro di dimensioni diverse e due scalpelli in acciaio - che autorizzerebbero l'ipotesi di lavorazioni più delicate, connesse con l'oreficeria. Il ritrovamento del Castelvecchio, per quantità e stato di conservazione dei materiali riveste, insieme a Belmonte (To), un carattere di eccezionalità, che si spera possa essere integrato con le strutture materiali della fucina metallurgica, per il momento non individuate. La maggioranza dei reperti trova confronto solo con ritrovamenti tombali, primo fra tutti e più completo, il lotto di utensili di Héronvillette in Normandia; in questo cimitero si è infatti scavata la sepoltura di un fabbro - orefice vissuto nei primi anni del VI secolo, al quale la comunità di villaggio riconosceva probabilmente un ruolo importante 112. Insieme alle armi, egli recava con sé nella tomba gli utensili della sua professione, così come si verfica per i corredi longobardi di Brno, Poysdorf e Grupignano l13, pur rimanendo per tutti aperta la discussione sulla posizione occupata da questi personaggi nella gerarchia della società altomedievale 114. Nel nostro caso, l'attrezzatura non risulta provenire da tombe, ma è uniformemente sparsa su tutti i terrazzamenti, compresa la scoscesa pendice settentrionale, con alcune concentrazioni come documenta la recentissima consegna da parte di privati di un falcetto, una sgorbia, un'ascia barbuta, una zappa ed una sorta di picchetto, rinvenuti insieme durante lavori agricoli 115. Non è questa la sede per l'approfondimento tipologico di questi materiali metallici, già oggetto di una schedatura preliminare, ma preme far risaltare alcuni di essi e le relative associazioni, anche per il contributo alla definizione cronologica dell'insediamento. Oltre alla fibbia gota in argento e almandini di cui si è parlato nel paragrafo introduttivo (Fig. 3), l'ascia barbuta frammentaria, arma di probabile origine germanica della quale si annoverano ormai numerosi esemplari anche in Italia, in prevalenza da tombe databili tra la fine del VI secolo e tutto il VII 116, può nel nostro caso avvalorare l'ipotesi della sua polivalenza, per un utilizzo in carpenteria, insieme a falcetti ed attrezzi per la scortecciatura degli alberi. Come già si verifica per Belmonte, il numero di reperti collegati all'armamento appare comunque irrisorio: tre punte di freccia del tipo avaro ed uno sperone frammentario in bronzo che trova scarse rispondenze in Italia 117, ampiamente diffuso nell'Europa merovingia ed utilizzato in esemplare unico al piede sinistro. Molto più articolata è la tipologia degli elementi di connessione e fissaggio per strutture lignee, le cui diverse fogge attestano la presenza di pali e travi squadrate, documentando nel contempo una notevole articolazione delle strutture, solo suggerita dalle scarse tracce superstiti nella roccia; si conferma ancora una volta la pervicacia nella volontà di arroccamento di una popolazione che avrebbe potuto molto più agevolmente insediarsi sui declivi a quota più bassa. Tale evidente connotazione difensiva ben si inserisce nel momento di riorganizzazione del limes alpino, come viene restituita agli inizi del V secolo dalla Notitia Dignitatum 118, quando si evidenzia la necessità di controllo dei più importanti tracciati stradali con la formazione di nuovi nuclei difensivi e la fortificazione di quelli esistenti. Un elemento primario di questo sistema è rappresentato dalle chiuse, poste nei punti di transito obbligato e più agevolmente difendibile l19; in effetti è particolarmente suggestiva la vicinanza del Castelvecchio a Chiusa Pesio, il cui toponimo aveva già suscitato l'interesse degli studiosi. Il Durandi localizzava nella valle Pesio ún importante asse viario di epoca romana 120, che in realtà non ha mai trovato riscontri archeologici, fatta eccezione per un'epigrafe con dedica a Diana, una piccola necropoli ad incinerazione ed alcune monete del III secolo 121. Anche Nino Lamboglia ne ribadiva l'importanza per l'altomedioevo, come collegamento tra la pianura padana e la Liguria bizantina, lungo le cime di Pertegà e Saccarello 122. Pur non escludendo la possibilità dell'esistenza di chiuse anche in valli di importanza strategica secondaria come quella del Pesio 123, pare più corretto allo stato attuale della ricerca inquadrare il Castelvecchio come villaggio fortificato d'altura, con una generica funzione di controllo di potenziali vie di passaggio, senza sottovalutare le potenzialità rappresentate dalla consistente attività metallurgica. E.M.
Belmonte L'insediamento fortificato di Belmonte si situa a circa 700 m d'altezza sulla sommità di un rilievo granitico, in posizione strategicamente rilevante rispetto all'imbocco della Valle Orco, valle che tuttavia non conduce a valichi alpini importanti e che si diparte da un tratto di pianura canavesana abbastanza appartato rispetto alle maggiori vie di comunicazione. Il sito fu occupato tra il Bronzo Finale e la piena età del Ferro 124, mentre non sono emersi indizi d'insediamento in età romana. Soltanto tra tarda antichità e alto medioevo si sviluppò un abitato protetto da una cinta muraria, che racchiuse una vasta area di circa due ettari e mezzo intensamente occupata 125 (Fig. 8). Sul ciglio del versante settentrionale i vecchi scavi del 1968-1975 avevano accertato, con una serie di sondaggi, la presenza pressoché continua della cortina, mentre su quello meridionale essa fu individuata in due diversi punti in un saggio limitato, eseguito a sud del nucleo abitativo B e in zona "Campass", su un tratto più ampio di scavo, conseguente al tentativo d'apertura di una nuova strada. Le più recenti indagini, avviate a partire dal 1986, hanno permesso di verificare nel settore nordoccidentale del sito, a tutt'oggi il più estesamente esplorato, come la cinta sia stata ricostruita più volte. Questo dato è stato evidenziato per un segmento di m 15,50, in cui si susseguono da valle verso monte tre muri paralleli larghi rispettivamente: m 1,00 circa il primo edificato, m 0,70-0,90 il secondo e m 0,70-1,00 l'ultimo e più conservato, rimesso in luce per m 120 circa e individuato per altri 300. La tecnica di costruzione, che impiega blocchetti del granito locale di diverse dimensioni tenuti da un legante molto magro, ottenuto impastando le sabbie prodotte dal disfacimento del granito stesso, non varia in modo sostanziale, ma si rivela più regolare nella prima fase edilizia, per quanto si possa ancora dedurre dagli ultimi corsi di fondazione residui. La cinta muraria non pare essere stata mai rinforzata da torri, segue le curve di livello del colle e si interrompe soltanto in corrispondenza di bruschi strapiombi, evidentemente utilizzati a integrazione dell'opera di difesa. I successivi rifacimenti del perimetro fortificato coinvolsero una serie di vani (A) addossati all'interno della cortina, dei quali è possibile ricostruire la cronologia relativa soltanto in base alle relazioni tra le strutture, in quanto le prime indagini, non stratigrafiche, hanno esaurito completamente i depositi, intaccando anche lo strato sterile di base. Ampliando l'area di scavo verso l'estremo limite occidentale di questo nucleo abitativo, si è tuttavia potuto documentare come appartengano al primo periodo insediativo, o comunque ad epoca precedente l'ultima ricostruzione delle mura, edifici (C) delimitati da muri di pietra di spessore anche notevole (m 0,50-0,80) apparecchiati con materiali e tecnica analoghi a quelli della cinta, e accuratamente fondati sulla roccia anche mediante appositi profondi tagli, laddove il ripido declivio rendeva poco stabili le strutture (Fig. 9). Allineate all'interno delle pareti in pietra, alcune grosse buche scavate nella roccia indicano come gli alzati fossero rinforzati da pali di legno che, come nel caso dell'edificio occidentale (C), sviluppato sul pendio, dovevano certamente sostenere anche il tavolato del pavimento. Questa abitazione, articolata in più vani, includeva a monte un ambiente di piccole dimensioni incassato con tagli artificiali nel versante roccioso e destinato ad accogliere il focolare. L'impiego suppletivo di pali a sostegno del tetto e di piani pavimentali o soppalchi, trova oggi confronto nell'edilizia "rustica" di V-VI secolo dell'area lombarda, con la quale le prime fasi insediative di Belmonte condividono altre caratteristiche come lo schema planimetrico elementare e la povertà dei battuti pavimentali, su cui venivano direttamente apprestati i focolari 126, Il vano parzialmente scavato nella roccia rimanda poi a tecniche evidenziate ad esempio a Peveragno 127, Dopo l'abbandono di questa abitazione e il recupero dei relativi materiali edilizi, si collocano cronologicamente l'ultima ricostruzione della cinta, il riadattamento della serie di vani a schiera del nucleo A e la costruzione di strutture precarie in legno in luogo delle precedenti murature, o per una diversa destinazione d'uso dell'area, occupata da tettoie a ricovero di attrezzi o animali, oppure a
causa di un più generalizzato e progressivo impoverimento delle tecniche edilizie, che comunque emerge dalle sequenze stratigrafiche documentate in più punti dell'insediamento. Da murature realizzate con conci di pietra di pezzatura omogenea, ben allineati e legati da malta, sia pure di pessima qualità, si passa a strutture elevate a secco, più esili e di andamento irregolare, che utilizzano pietre di dimensioni molto varie e talvolta piccoli frammenti di tegole a risvolto, probabilmente derivanti dalle coperture dei periodi iniziali. Non è invece possibile attribuire soltanto alle fasi più recenti l'uso di pali verticali portanti 128 che anzi, come si è visto, certamente compare a rinforzo della muratura nelle soluzioni edilizie più antiche e complesse. Sembra invece variare nel tempo la dimensione dei pali, generalmente di diametro inferiore e non più incassati nella roccia nelle strutture più tarde. Naturalmente si tratta di indicazioni di tendenza che richiederanno ben altri approfondimenti e più estese verifiche in relazione alle diverse tipologie edilizie che si vanno delineando. E utile segnalare in proposito che durante l'ultima campagna di scavo del 1994 si è effettuata un'indagine di superficie nell'area pianeggiante al centro del castrum, preliminare ad un futuro scavo in estensione, dalla quale sono emersi tre diversi edifici (D): per nessuno di questi si è potuta definire la planimetria completa, ma almeno in un caso si può riconoscere un grande vano quadrangolare con base in muratura di pietra a secco lungo m 12 ed apparentemente privo di muri di divisione interni. La tipologia di queste case rettangolari allungate non è certo nuova per i siti d'altura dell'arco alpino 129, ma a Belmonte, come si è visto, non è esclusiva e sembra associarsi anche a diverse soluzioni distributive. Oltre ai vani allineati all'interno della cinta muraria- presenti sia nel settore nordoccidentale (A), sia nelle due aree esplorate in passato lungo il perimetro meridionale (E-F) e alle case rettangolari (D), con vani aggregati successivamente, individuate nella zona pianeggiante centrale, un altro gruppo di ambienti (B) denuncia una maggiore complessità di progetto. Si tratta di un nucleo residenziale, scavato nel 1970, di cui non è stato raggiunto il perimetro. Benché non sia quindi noto l'intero sviluppo planimetrico, la parte rimessa in luce evidenzia un sistema di vani di varie dimensioni, distribuiti sui due lati di un muro di spina longitudinale. Uno di questi (B4) era pavimentato in lastre di pietra sigillate da cocciopesto: l'unica eccezione sinora riscontrata al generale utilizzo di pavimenti in terra battuta. Tali caratteristiche potrebbero indurre ad una cronologia leggermente anticipata di questo settore dell'abitato, nel quale sono stati raccolti anche alcuni oggetti di età romana, ma la tecnica costruttiva delle strutture non si discosta da quella già descritta, presentando anzi una tessitura muraria piuttosto irregolare. D'altra parte negli appunti di un memoriale inedito ]30 è descritta una sequenza stratigrafica per il vano B4 che potrebbe suggerire l'interpretazione di uno “strato di colorito giallastro con scarsa quantità di ceramica e rari frammenti di laterizi (embrici)” spesso cm 40 e direttamente poggiante sul lastricato, come fase di abbandono dell'edificio. Successivamente si depositò uno “strato ... grigio scuro inglobante numerosi frammenti di ceramica di colorito biancastro, in massima parte costituita da piatti, a tesa molto larga, in maggioranza con traccia di invetriatura. Lo spessore di questo strato è di circa cm 30” e poi ancora uno “strato di humus dello spessore di cm 20, contenente frammenti di embrici e molti frammenti di pietra ollare”. Pur valutando con estrema prudenza simili osservazioni, effettuate durante scavi condotti con criteri largamente insufficienti, si potrebbe dedurre che dopo la prima fase insediativa e un temporaneo abbandono, l'edificio sia stato rioccupato forse con piani di calpestio non più strutturati e dispersione di materiali domestici di rifiuto, sia vasellame, sia utensili e accessori in ferro, come indicato in un passo che qui si omette. Si può infine evidenziare come anche a proposito di altre zone dell'insediamento sia stata annotata la predominanza di pietra ollare negli strati più recenti e superficiali. Si tratta di informazioni da tenere ancora in conto, perché lo studio dei materiali per il momento si avvale in misura minoritaria di reperti provenienti da stratificazioni intatte correttamente esplorate. Tuttavia già in occasione dell'approfondimento condotto sulla ceramica invetriata si era rilevata la notevole omogeneità del vasellame nel suo complesso i131, ora nuovamente ribadita
nell'ambito di un aggiornamento di sintesi regionale 132, che propone di restringere tra metà V e metà VII secolo il periodo di vita del castrum, per il quale reperti metallici ben databili offrono un termine di confronto abbastanza preciso. L'assenza di anfore e la minima percentuale di ceramica fine di importazione o di imitazione della sigillata chiara sono significativi indizi di rapporti commerciali a raggio ridotto, connotati tuttavia da una vivace iniziativa locale, anche testimoniata dalla produzione autonoma di ceramica invetriata, attestata da scarti di lavorazione, e molto verosimilmente di quella priva di rivestimento, analoga per i caratteri tecnico-morfologici 133. Oltre a questa produzione, il complesso dei materiali delinea una notevole gamma di specializzazioni artigianali praticate dagli abitanti, certamente dediti alla metallurgia, alla lavorazione del legno e alla filatura e tessitura, a complemento delle attività agricole e pastorali. Lo strumentario in ferro, eccezionalmente abbondante e vario 134, fu ritrovato in parte in due ripostigli e in parte distribuito all'interno o presso i vam dı abitazıone, in tutti i settori di abitato esplorati. Le associazioni di oggetti raggruppati nei due distinti ripostigli 135, in cui compaiono strumenti per usi diversi - agricoli, artigianali e domestici - sembrano riferibili agli attrezzi di singole famiglie, occultati in vista di un abbandono del villaggio, rivelatosi poi definitivo. Uno di questi due nascondigli fu ricavato scavando una fossa all'angolo tra due muri e riponendovi i ferri in un piccolo barile, di cui sono rimasti i cerchi di assemblaggio delle doghe. Nell'elenco del contenuto compaiono: un piccone, un treppiede, un morso, tenaglie da fabbro e un'ascia barbuta con nuca a martello 136, La presenza dell'ascia, di tipologia attestata in Italia tra la fine del VI e il VII secolo 137, fornisce un prezioso riferimento cronologico agli altri oggetti associati e nel contempo trae da questi un'indicazione utile alla definizione della sua funzione artigianale. Se le tenaglie costituiscono indizio sicuro dell'attività di forgiatura a Belmonte 138, difficilmente invece può essere accolta l'ipotesi di localizzazione della fucina nel vano così interpretato durante lo scavo per l'abbondanza dei ferri ritrovati 139, in quanto l'ipotetico fuoco di forgia appare nelle fotografie più simile ad un semplice focolare. Il vano risulta inoltre connesso con l'abitazione già descritta (C) sviluppata sul pendio roccioso all'estremità occidentale del sito, ed ha restituito attrezzi da miniera - piccone, scalpello, palanchino accanto ad un altro piccone ed a ben tre vomeri d'aratro: tutti arnesi probabilmente impiegati in attività condotte all'esterno del castrum e poi ricoverati al sicuro delle mura domestiche. Altri tre vomeri, di cui due recuperati in posizioni molto lontane, all'estremità est e sud del villaggio, portano attualmente a sei il numero eccezionalmente rilevante, e probabilmente non definitivo, di queste componenti fondamentali dell'aratro, che testimoniano ad un tempo l'ampiezza del distretto agricolo e la consistenza demografica della comunità che lo coltivava (Fig. 10, 2). Vomeri di questo tipo, a pala triangolare fornita di una lunga asta, detti anche "a ferro di lancia", sono stati trovati in Italia soltanto a Carignano, nel Torinese 140. Altri esemplari sono segnalati a Parma 141 e a Masegra, presso Sondrio 142, ma di provenienza e cronologia ignote. Allo stato attuale delle conoscenze, paiono ancora labili gli argomenti addotti dal Forni a favore di una ininterrotta tradizione locale di questa tipo logia di vomeri e dei relativi aratri fin dall'età preromana 143, mentre non si può escludere la loro importazione nell'Italia padana dalle aree mitteleuropee 144, in un periodo storico - quello tra V e VII secolo indicato per il sito di Belmonte - in cui tali apporti possono trovare più di una spiegazıone. In particolare sarebbe interessante poter riferire con migliori margini di sicurezza almeno parte degli strumenti agricoli e artigianali alla fase di occupazione longobarda, provata dal ritrovamento di due umboni di scudo, di cui uno da parata 145. A proposito di questi ultimi, le circostanze del loro fortuito ritrovamento non sono chiare e non si può escludere, come vedremo, una originaria provenienza da corredi funebri, ma altri oggetti risulterebbero raccolti nei vari contesti abitativi, che hanno restituito ceramica e strumenti in ferro: durante gli scavi 1968-69 (nel nucleo A?) si rinvennero uno scramasax, una punta di lancia, una freccia, quattro puntali di cintura in ferro, un quinto puntale in ferro ageminato e due fibbie, di cui una a placca mobile triangolare allungata, sempre in ferro 146.
In un altro punto dell'insediamento, a meridione (F), emersero nel 1975 uno dei vomeri già citati, fusaiole, un bacile in lamina di bronzo e una fibula in bronzo a forma di croce sormontata da una colomba, con bordi a tacche e decorazione interna a cerchielli incisi di tipologia ben nota, presente in tombe femminili di VI-VII secolo 147 (Fig. 10,1). Da altre zone ancora provengono un vago di collana in pasta vitrea e una moneta forata, mentre ulteriori complementi del vestiario e dell'armamento (ad esempio la punta di una spatl1a) sono conservati tra i materiali dei vecchi scavi, a testimonianza di una fase insediativa di età longobarda che pare interessare tutta l'area del castrum. La localizzazione in più punti di questi reperti pone dei limiti oggettivi all'ipotesi di una loro eventuale appartenenza a corredi funebri manomessi e dispersi, anche se l'Assandria riporta la notizia, appresa dai Francescani residenti nel Santuario di Belmonte, del ritrovamento di tombe nell'area tra la V e la VI stazione della via Crucis 148, cioè in corrispondenza dei vani A successivamente individuati, di cui vide ancora i "rottami di laterizi" di epoca romana che le rivestivano. Anche negli appunti di Zambelli è ripresa la notizia di queste o altre tombe emerse in passato nella stessa zona, ma egli non riuscì a verificarne la veridicità né archeologicamente né su altre fonti documentarie. " Esito negativo su questo tema hanno infine prodotto le indagini recenti condotte abbastanza estesamente nell'area indiziata, all'interno della cinta, e in superficie sulla sella a nord-ovest del villaggio, indicata da abitanti del luogo. Resta in definitiva possibile che un'area cimiteriale, probabilmente molto limitata, si sia sviluppata entro le mura nel periodo terminale dell'insediamento, in quanto le notizie lasciano intendere che le tombe fossero piuttosto superficiali al momento della scoperta, mentre rimane aperto il problema dell'eventuale presenza di corredi 149. Valutando nel loro insieme i materiali più o meno precisamente ascrivibili alla sfera longobarda, e considerando che la ceramica a stampiglia e a stralucido per il momento non è ancora stata individuata a Belmonte, si potrebbe ipotizzare una occupazione longobarda del castrum durante il pieno VII secolo, poi repentinamente abbandonato, come indica la moltitudine degli strumenti in ferro e il vasellame non più recuperati. Livelli di incendio, di demolizione e di ricostruzione ricorrono ripetutamente nelle stratigrafie esplorate in tutto il sito, ma ogni generalizzazione interpretativa sarebbe ancora incauta. Un capitello datato all'VIII secolo iso, ritrovato sporadicamente, è l'unico indizio di persistenza di un edificio di culto, per altro non localizzato. Nessuna fonte antica permette l'identificazione storica dell'insediamento fortificato, per il quale evidentemente si esaurirono nell'arco di due, o al massimo tre secoli, i fattori e le motivazioni che ne avevano determinato la formazione e la fortuna. Soltanto alla fine del XII secolo Belmonte compare come sede di un priorato benedettino dipendente dall'abbazia di Fruttuaria isi, ma a quel tempo non risulta essere sopravvissuto nemmeno il ricordo di un villaggio o di un castello. L.P.B. La necropoli di Rivoli-Perosa Sul pianoro sommitale del modesto rilievo del Truc Perosa, estrema propaggine dell'anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana, a circa un chilometro dall'attuale alveo della Dora Riparia, è in corso di indagine dal 1990 una vasta area archeologica, individuata durante i lavori di costruzione della superstrada del Frejus 152. La prima fase di occupazione del sito consiste nello sviluppo di un insediamento, probabilmente rurale, articolato in più nuclei e datato a partire dall'età augusteo-tiberiana. Alla distanza di circa 100 metri dall'abitato è stata esplorata una ricca sepoltura ad incinerazione, deposta all'interno di una piccola camera`funeraria. Successivamente, tra la fine del II e III secolo
d.C., la creazione di un tratto di variante della via pubblica per le Alpi Cozie interferì con le strutture insediative preesistenti, determinandone la demolizione per una parte consistente, senza tuttavia causarne la totale distruzione, ma piuttosto il mutamento della destinazione d'uso. L'abbandono avvenne solo più tardi, in concomitanza con la caduta in disuso anche della sede stradale. E tuttavia il ritrovamento di un significativo segmento (oltre 100 metri) della struttura materiale della strada il dato emergente di questa indagine, che consente di ancorare topograficamente almeno un tratto del tracciato viario in relazione al suo periodo di utilizzo. Le dimensioni della carreggiata (m 6,40 di larghezza) e l'accurata esecuzione dell'opera con statumen in grossi ciottoli, regolarizzato in superficie da una spessa coltre di sabbia e ghiaia, confermano l'appartenenza di questo tratto alla strada delle Gallie, di cui già si ipotizzava il passaggio in località Perosa in base al ritrovamento ottocentesco di un miliario, di resti della strada stessa e di costruzioni di età romana {53. Tuttavia, malgrado l'impegno tecnico e la felice scelta della sede topografica, in leggero rilievo sulla riva destra del fiume (ancora oggi intensamente percorsa dalla viabilità maggiore e secondaria, nonché dalla ferrovia) si verificò un precoce e definitivo abbandono di questo tratto di strada in età tardo antica, probabilmente nel V-VI secolo, per ragioni di più vasta portata, note o ipotizzabili come fenomeno generale, ma non nelle specifiche e variabili situazioni locali. All'abbandono fece seguito la formazione naturale di uno strato di sabbia e limo e poi l'impianto di un'area cimiteriale, proprio in corrispondenza del precedente sedime stradale (Fig. 11). La necropoli si articola in due gruppi di sepolture: il primo è costituito da sette tombe a cassa in muratura di pietre, talvolta miste a frammenti laterizi, legate da malta o anche soltanto disposte a secco. Il fondo risulta variamente realizzato con frammenti di laterizi e lastre di pietra e, in un caso, con la stesura di cocciopesto (t. 2). La t. 1 conservava ancora le lastre di pietra di copertura, mentre elementi analoghi, ritrovati dislocati, possono essere anch'essi riferiti alle originarie chiusure delle altre tombe in muratura. A proposito della perdita dei dati relativi alle coperture, alla profondità delle fosse e alle eventuali sistemazioni superficiali del cimitero, va considerato il fenomeno generale di erosione del deposito archeologico verificato su questo sito, che ha portato a quota affiorante dal piano di campagna non solo le strutture, ma quasi i resti scheletrici stessi. A questo fenomeno va certamente imputato in buona parte l'esiguo numero di sepolture infantili rinvenute, più fragili e superficiali. Di fatto un'altra tomba, infantile per le ridotte dimensioni, (t. 14) a fossa rivestita in modo incompleto da tegole a risvolto disposte di taglio, priva di fondo e con una lastra monolitica di copertura, non conteneva resti scheletrici al suo interno, così come un'altra piccola tomba a cassa in muratura (t. 18). Una fossa terragna (t. 25) e resti molto disturbati di altre simili inumazioni (tt. 19, 21, 22), appartengono ancora a questo settore del cimitero, che appare organizzato per file in direzione nord-sud; l'orientamento delle singole sepolture è costante: ovest-est con capo a ovest. Le tombe in muratura furono tutte violate, ad eccezione della t. 3, dove forse non a caso l'ultima deposizione è risultata priva di corredo, mentre nelle t. 1 e t. 2 pochi oggetti residui indicano l'originaria presenza di ben più ricchi corredi trafugati (Fig. 12). Lo studio dei resti scheletrici, ormai quasi completo 154, ha permesso di stabilire che al centro dell'allineamento principale si collocano tre tombe di individui maschili adulti. Di queste la t. 1 conteneva un coltellino in ferro, decorato presso l'impugnatura da due fili ad agemina, una piccola fibbia in bronzo riferibile alle stringhe di fissaggio delle calze 155 ed un elemento in ferro ricurvo, per ora di incerta interpretazıone. Nel riempimento sconvolto della t. 2 si sono rinvenuti: una fibbia in bronzo di piccole dimensioni con ardiglione a scudetto e placca mobile, un puntalino di cintura a becco d'anatra in ferro con abbondanti tracce di tessuto mineralizzato, tre borchie di bronzo a testa circolare appiattita e decorata, di tipologia generalmente riferita al fodero del sax 156, ed infine una placchetta, che poteva far parte delle guarnizioni della cintura per la spatha, in ferro, rettangolare con bordo inferiore sagomato, quattro borchie in bronzo e occhielli di fissaggio sul retro. La decorazione, in agemina con fili di argento e di ottone su psendo-placcatura in argento, forma semplici riquadrature geometriche che incorniciano un
piccolo almandino incastonato al centro. Un secondo almandino è inserito nel lobo mediano del bordo inferiore, mentre i due laterali sono decorati ad agemina a cerchio quadripartito. In attesa di approfondire lo studio sulla decorazione di questa placchetta, piuttosto insolita, si può tuttavia proporre una datazione intorno alla fine del VII secolo, per la placcatura estesa e la presenza degli almandini 157. Si tratta in ogni caso di uno degli elementi di guarnizione di una cintura per la sospensione delle armi di discreto pregio, compatibile con un eventuale armamento completo e con elementi suntuari ambiti dai violatori. Si noti ancora che la struttura delle due tombe descritte è a cassa rettangolare ~abbastanza ampia e accuratamente costruita, avvalorando l'ipotesi che in questa "fila", e in particolare in queste tombe, fossero stati inumati i personaggi eminenti della comunità. A sud si allineano una terza tomba (t. 13), meno conservata, che conteneva i resti sconvolti ma abbastanza completi di altri due individui maschili di età compresa fra i 40-45 e i 45-50 anni 158, ed una quarta (t. 3), più stretta, lievemente trapezoidale e meno accuratamente rifinita, destinata invece ad una sepoltura femminile e successivamente ad un individuo maschile di circa 25 anni ritrovato in connessione anatomica, come si è già detto. A pochi metri di distanza verso est si collocano due tombe femminili affiancate: t. 20, a cassa in muratura con resti molto incompleti e sconvolti di una donna di circa 25 anni, e t. 25, terragna, con scheletro in connessione di un individuo femminile di età matura. Tralasciando la descrizione di altre poche inumazioni frammentarie in piena terra individuate nelle vicinanze del gruppo delle tombe in muratura, passiamo al rapido esame del secondo, più numeroso nucleo cimiteriale, situato ad ovest a breve distanza, ma ben separato e caratterizzato rispetto al primo. Esso comprende soltanto sepolture terragne del tutto prive di oggetti di corredo o di complemento del vestiario. Le fosse erano distinguibili in pochi casi ed avendo esse raggiunto e tagliato gli strati di crollo e abbandono degli edifici e della strada precedenti, è assai difficile stabilire se il contorno incompleto di elementi lapidei e laterizi, talvolta rilevato, sia stato intenzionale, in funzione di qualche sistemazione della fossa, oppure sia il risultato casuale dell'affioramento degli strati sottostanti, o dell'operazione di scavo della fossa stessa. L'unica sistemazione certamente intenzionale pare essere quella della t. 9, mentre la t. 29, più profonda delle altre, ha consentito di leggere con maggior precisione la forma della fossa, scavata a stretta misura dell'inumato. L'orientamento è analogo a quello delle tombe in muratura, ma con deviazioni anche marcate nelle sepolture periferiche, verosimilmente più recenti, fino all'unico caso della t. 29, quasi disposta in direzione sud-nord. Nell'organizzazione planimetrica si coglie una minore regolarità, ma è pur sempre individuabile una suddivisione interna per piccoli gruppi composti da due a quattro-cinque sepolture in fila, che a loro volta hanno rivelato la disposizione degli individui maschili affiancati al centro e a sud, mentre quelli femminili occupano prevalentemente le posizioni nord delle "file". Anche nel settore delle sepolture terragne si può quindi osservare la tendenza a raggruppare separatamente gli individui maschili e femminili, pur all'interno di piccoli nuclei, verosimilmente famigliari. Questo dato è emerso anche nel cimitero di Centallo, come vedremo, ma potrebbe essere verificato in molti altri casi, come è stato ad esempio sottolineato per Nocera Umbra 159. In conclusione il cimitero della Perosa, indagato in modo completo, comprendeva 36 sepolture, probabilmente appartenenti ad una piccola comunità, in cui si distingueva un nucleo famigliare gentilizio. Le caratteristiche fin qui descritte convergono con i risultati delle analisi antropologiche nel proporre l'ipotesi che si tratti di un gruppo di origine germanica, probabilmente longobarda. Nessuna traccia è emersa, nel corso dell'estesa indagine già effettuata nelle aree circostanti, di un'eventuale cappella oppure di un insediamento coevo al cimitero. A1 di fuori dello sporadico ritrovamento ottocentesco di una fibula ad arco nel vicino territorio di Avigliana, di tipologia franca, ma ritenuta pertinente ad una tomba femminile longobarda 160, il cimitero della Perosa costituisce la prima attestazione archeologica dell'occupazione longobarda
della bassa Val di Susa, di cui non mancano tracce toponomastiche, distribuite tra Rivoli e le Chiuse 161. Ma ritorniamo ad uno dei dati di maggior rilievo emersi da questo scavo: l'interro della strada verificato stratigraficamente, benchè su un tratto limitato, non consente interpretazioni sfumate sulla persistenza del tracciato antico. In questo punto la strada, nella sua realtà fisica, subì un abbandono completo, non si trasformò nemmeno in una pista e alla fine del VII secolo era diventata luogo adatto per un cimitero. Se non è pensabile che la via delle Gallie fosse scomparsa tra V e VII secolo, certo le modificazioni subite appaiono radicali, e probabilmente non soltanto per difetto di manutenzione o crollo di ponti, che pure dovettero causare cambiamenti di tracciato o disgregazione e ramificazione di alcuni tratti 162. I1 vicino sbarramento delle Chiuse, che almeno dalla fine del IV secolo erano state erette a controllo della strada nella strettoia della valle tra Caprie e Chiusa S. Michele 163, non potè che influire in modo determinante sulle sorti dell'arteria viaria. Certamente utilizzate in età gota 164, le chiuse divennero definitivo confine del regno longobardo verso il 575, a seguito dell'occupazione della valle di Susa da parte del re burgondo Gontranno, e da quel momento fino al celebre scontro tra Franchi e Longobardi, avvenuto nel 773 proprio alla chiusa valsusina, è verosimile immaginare che la loro efficacia militare sia stata inversamente proporzionale alla percorribilità della strada. Nell'VIII secolo le fonti attestano infatti da un lato restauri e consolidamenti delle opere di difesa da parte dei re longobardi, ma dall'altro anche le rigide restrizioni da loro imposte al valico della frontiera riservato ai latori di permesso regio, mentre successivamente con il nuovo assetto politico-territoriale determinato dalla conquista franca, la funzione delle chiuse si trasformò da difesa militare di confine a struttura economica per l'esazione dei pedaggi 165. Non stupisce quindi se proprio in età longobarda le evidenze archeologiche della Perosa attestano l'avvenuta interruzione del transito sull'ampia strada carreggiabile romana e la presenza in zona di un insediamento di Longobardi connesso con l'area cimiteriale. L.P.B. La chiesa di S. Gervasio a Certallo Nella pianura cuneese, non lontano dal torrente Grana e sul confine amministrativo fra Centallo e Fossano, si è individuato e indagato archeologicamente un sito di notevole interesse che ha visto il succedersi, nel tempo, di una necropoli di età imperiale, poi di una villa rustica, trasformata in chiesa battesimale nel V secolo, a sua volta modificata e infine completamente ricostruita in età longobarda (Figg. 13-14). Documenti del XV e XVI secolo consentono di identificare l'edificio di culto con la chiesa di S. Gervasio, ancora visibile e "dirupta" nel 1582 166. Avviata a seguito di affioramenti di materiali archeologici durante le arature, l'indagine è stata condotta su circa mq 780, appena sufficienti ad includere il perimetro della villa, ma non certo all'esplorazione esaustiva del sito, che purtroppo per ragioni tecniche e amministrative si è dovuto ripristinare 167. La prima fase di occupazione sembra porsi nel I secolo d.C., indicata dalla presenza di una tomba ad incinerazione. La quota di giacitura di questa deposizione è molto elevata rispetto al piano di imposta delle strutture insediative successive e dà ragione della probabile distruzione di altre analoghe sepolture. Dopo uno iato cronologico, che sarà precisato alla conclusione dello studio d~i materiali, corrispondente all'abbandono dell'area funeraria, si determinò l'impianto di un edificio residenziale organizzato intorno ad un cortile centrale sul quale prospettavano tre ambienti principali ad est e vani minori a nord e sud (Fig. 14, 1).
L'edificio in seguito si ampliò ad ovest con l'addizione progressiva di due ampie porzioni di fabbrica. Il termine della funzione residenziale è segnato da ingenti e diffuse tracce di un incendio che raggiunse temperature tali da deformare un gruppo di vasi interi e in uso. La singolare circostanza ci consente di datare l'evento attraverso l'analisi del contesto ceramico deformato, ritrovato in frammenti all'interno di una unità stratigrafica posteriore alla demolizione di alcuni muri della villa e contemporanea alla costruzione dell'abside della chiesa. Il contesto è caratterizzato da due piatti e una coppetta in terra sigillata chiara D, che indicano una data per l'incendio compresa tra la fine del IV e gli inizi del V secolo 168. Con l'interpretazione di questo edificio come elemento del complesso di una villa dominica al centro di un latifondo, concorda Giovanni Mennella, che ha studiato il vasto repertorio epigrafico rinvenuto in scavo 169. Una serie di bolli laterizi attesta infatti, proprio intorno alla metà del V secolo, la presenza di latifondi in una fascia di territorio lungo il confine tra Liguria e Transpadana, che comprende Centallo. In quest'ottica vanno anche rilette alcune epigrafi funerarie paleocristiane, in contesto rurale isolato, provenienti dalla stessa area, probabilmente riferibili ad una aristocrazia terriera cristiana residente nelle ville dei propri latifondi 170. A Centallo quindi la trasformazione in chiesa, che segue a tempi brevi l'incendio dell'edificio residenziale, in quanto utilizza ancora gran parte delle murature precedenti, può essere attribuita all'intervento di un evergeta, esponente di quel ceto di possessores, che gran peso ebbe nelle comunità cristiane dell'Italia settentrionale tra la fine del IV e gli inizi del V secolo 171. In una data così precoce, probabilmente compresa entro la prima metà del V secolo, è più verosimile infatti ricondurla ad un'iniziativa privata che non missionaria o vescovile. La ristrutturazione in chiesa (Fig. 14, 2) rivela un progetto organico basato su uno schema distributivo degli spazi inscritto nel perimetro della costruzione preesistente. L'aula di culto venne ad occupare l'area del cortile, prolungata a spese dell'ala occidentale, mentre una grande abside semicircolare, del diametro di m 8,70 fu costruita ad est obliterando i tre vani precedenti. Tra gli ambienti annessi lateralmente si evidenzia la creazione, in parte ex novo, di un battistero quadrato a nord. I piani pavimentali in questa fase dovevano trovarsi poco più in basso dell'attuale quota di campagna, fatto che ha determinato la perdita di tutti i piani d'uso dall'età paleocristiana in poi, ad eccezione di un tratto di pavimentazione in cocciopesto con un inserto, a passatoia centrale, di opus sectile bianco e nero conservatosi nella parte mediana della navata, presso l'abside. Il fonte battesimale ha dimensioni ragguardevoli (diametro m 1,70) e forma circolare, abbastanza rara nell'Italia padana. Presenta tracce di modificazioni successive, ma non di riduzioni, come invece si è riscontrato ad esempio a Mergozzo e a Cureggio nel Novarese 172. In sintesi si può osservare che il programma architettonico attuato in età paleocristiana, pur valutato nell'ambito del riutilizzo di strutture precedenti, appare imponente per dimensioni, molteplicità dei vani annessi, qualità dei rivestimenti e caratteristiche del fonte. Fatta salva l'ipotesi di una committenza da parte di un esponente dell'aristocrazia terriera, la presenza del battistero impedisce di relegare questo centro di culto al solo ruolo di oratorio privato al servizio di una villa. È probabile invece che provvedesse anche alla c?vra animarum di una comunità di una certa importanza, servita da un clero stabile, evidentemente delegato dal vescovo per l'amministrazione del battesimo. Per il primo periodo di vita della chiesa non è provata la funzione funeraria, che sembra manifestarsi soltanto nel corso del VI secolo, nel momento in cui già si prospettavano o si erano avviate importanti modificazioni strutturali (Fig. 14, 3). Queste coinvolsero gli ambienti collaterali e in particolare determinarono la precoce soppressione del battistero, ridisegnando gli spazi nell'area a nord-est della chiesa. L'obliterazione del fonte implica che lt~mportante prerogativa, accordata solo alle chiese matrici a capo di ampi distretti rurali, sia stata presto sottratta al S. Gervasio. Ne fu causa probabilmente la creazione di un'altra chiesa battesimale, che viene spontaneo identificare nella pieve di S. Michele, anche se attestata dai documenti solo molto più tardi, nel XIII secolo 173.
Le prime sepolture (Fig. 14, 2), a cassa di tegole o con fondo di laterizi e copertura a doppio spiovente, occupano il vano collaterale sud, il vano antistante il battistero, il battistero stesso prima della sua soppressione e l'area esterna davanti al fronte occidentale. Successivamente compaiono tombe a cassa in muratura, di cui una riutilizza una pregevole stele romana }74. Nelle tombe di questo periodo iniziale, o negli strati relativi, si sono ritrovati alcuni oggetti di corredo o di complemento dell'abbigliamento, tra i quali si ricordano tre fibbie in bronzo di tipo "Aldeno", altre in ferro, vaghi di collana in pasta vitrea, orecchini, bracciali, spilloni, coltelli e pettini 175. Asce barbute compaiono invece curiosamente graffite su un mattone del fondo di una tomba "a cappuccina" 176 (Fig. 15). Nel loro complesso non emergono certamente elementi etnicamente caratterizzanti, tuttavia la loro stessa presenza implica consuetudini funerarie di norma non riscontrate in Piemonte in altri cimiteri coevi annessi a edifici di culto, come si è evidenziato nell'introduzione. La nostra chiesa risulta quindi aver acquisito la funzione funeraria per una comunità ben definita che, probabilmente nel corso del VII secolo, promosse la ricostruzione integrale dell'edificio nelle forme di un organismo basilicale a tre navate separate da pilastri rettangolari (Fig. 14 ,4). Di questa chiesa, caratterizzata da murature realizzate con elementi eterogenei ed eterometrici, si è conservato lo schema planimetrico quasi completo, ad eccezione dell'angolo nord-est, dove rimane ipotetica la terza absidiola. Già nelle murature della ristrutturazione precedente, e ancor di più in questo rifacimento, furono copiosamente impiegati, come materiali edilizi, elementi architettonici, frammenti di are e di epigrafi funerarie di età romana: è il segno del definitivo abbandono di necropoli e luoghi di culto pagani e quindi di un consistente mutamento delle infrastrutture territoriali. Gioca un ruolo importante nella fase basilicale una tomba (t. 12) isolata, situata presso l'abside della navatella settentrionale, accuratamente costruita in muratura e rivestita da uno spesso strato di intonaco scialbato, di forma antropomorfa con alveolo cefalico. La copertura non era conservata, forse a causa della violazione in antico della parte corrispondente al tronco dell'inumato, ma tra gli arti inferiori erano ancora deposti tre attrezzi in ferro comprendenti un martello, uno strumento a punte piegate e un'incudine di interpretazione non del tutto sicura per le proporzioni molto allungate '77 (Fig. 16, 2, 3, 4). Dai pressi della tomba, forse residuo della parte di corredo asportata, proviene una controplacca di cintura in bronzo, a contorno sagomato, decorata a occhi di dado, approssimativamente attribuibile alla seconda metà del VII secolo '78 (Fig. 16,1). Anche se la pertinenza di quest'oggetto non è certa, una verifica cronologica è stata effettuata con la datazione al radiocarbonio calibrata dello scheletro, che ha fornito la data: 545-655. L'eccezionalità del corredo con gli strumenti in ferro, I'alta qualità della tomba, che risulterebbe adottare molto precocemente l'alveolo cefalico 179, la sua posizione privilegiata presso l'ipotetico altare dell'absidiola nord, e infine le caratteristiche antropologiche dell'inumato - un uomo di 45-50 anni - concorrono a identificare questo personaggio come esponente di alto rango nell'ambito della comunità, che può aver rivestito il ruolo di donatore o di magister artefice e promotore della ricostruzione della chiesa. Se l'interpretazione è corretta, nel valore simbolico del dono funebre di questa sepoltura si può cogliere la persistenza di aspetti della ritualità funeraria germanica 180, coniugata tuttavia con una altrettanto evidente fede cristiana, ormai profondamente assimilata anche in una comunità insediata perifericamente rispetto ai maggiori centri di cultura e di potere. Questa doppia valenza caratterizza tutto il cimitero sviluppatosi fra VI e VII secolo, prima e dopo la costruzione dell'impianto basilicale. In corrispondenza della navata centrale della nuova chiesa venne edificato un profondo atrio rettangolare con un ampio varco di ingresso nella parete occidentale. Il lato sud sembra frutto di un rifacimento, ma rivela la stessa partitura esterna in lesene della parete ovest dell'atrio stesso e del muro perimetrale nord della chiesa. All'interno di questo vano si allestì un'area funeraria privilegiata: lo spazio risulta sistematicamente occupato da tombe a cassa in muratura di esecuzione molto accurata, coperte da lastre di pietra di
grande pezzatura, con il reimpiego, nella tomba più recente, situata in asse con gli ingressi, di una stele dell'età del Ferro. I destinatari di questi sepolcri, utilizzati per più inumazioni, sono risultati quasi esclusivamente individui adulti maschili, evidentemente personaggi eminenti in seno alla comunità. Una donna di alto rango fu invece deposta in una tomba di pari qualità esecutiva, ma esterna all'atrio, addossata alla parete nord. La sepoltura, intatta, conservava ancora in situ, 30 cm al di sopra della copertura in mattoni bipedali, l'iscrizione funeraria di Agnella, datata dal Mennella, in base alle caratteristiche epigrafiche, all'inoltrato VI secolo, ma probabilmente da riportare al VII, in base ai dati di scavo 181. Altre due epigrafi coeve sono state ritrovate dislocate sempre nell'area dell'atrio, mentre un quarto sigillo tombale, a grande lastra con l'epitaffio di Rustician~us, fu rinvenuto fortuitamente agli inizi dell'indagine 182. Alla facile attribuzione di queste sepolture ad un nucleo separato di popolazione romana si oppongono i dati fenotipici degli inumati, che le analisi antropologiche hanno verificato omogenei con il resto della popolazione rappresentata nel cimitero altomedievale Mi domando se sia possibile risolvere questa discrepanza ipotizzando una precoce adozione, proprio da parte del gruppo ai vertici della comunità, degli usi funerari, e addirittura dell'onomastica, allora in voga presso l'aristocrazia terriera alla quale probabilmente si sostituì. Che comunque le sepolture dell'atrio riflettano un maggior grado di osmosi culturale con la popolazione locale, anche in quanto più tarde, è suggerito dalla mancanza totale di elementi di corredo e da due datazioni calibrate al C14 con esito 605-685 per la deposizione più recente. Concludendo si può osservare una certa evoluzione tipologica delle strutture delle tombe: dapprima a cassa in laterizi, a "cappuccina", cioè con fondo laterizio e copertura di tegole disposte a doppio spiovente, e poi a cassa in muratura, ma in rapida successione cronologica e certamente con una compresenza di tipi ed un uso reiterato delle strutture stesse, ubicate prevalentemente all'interno dell'edificio, mentre all'esterno predominano le sepolture terragne. La distribuzione degli individui sembra poi rispondere a criteri di aggregazione per sesso piuttosto che per famiglie: gruppi di donne e bambini si alternano ad altri di soli individui maschili, ai quali vengono tendenzialmente riservate posizioni privilegiate, come nel caso dell'atrio. Un aspetto importante, ma che non si è potuto indagare adeguatamente, riguarda l'inserimento della chiesa, nelle sue fasi altomedievali, in un insieme di strutture più ampio, che proseguiva oltre i limiti di scavo e che non si esclude possa aver avuto funzione residenziale. Qualche indizio si è colto ad esempio nel ritrovamento di buche da palo e di un focolare nel settore esterno all'angolo sud-occidentale, mentre tra i reperti ceramici, rari dopo l'impianto della chiesa, compaiono tipi particolari riconosciuti come longobardi, ma diversi dal vasellame noto dalle sepolture l83. Infine è indispensabile un breve accenno alla presenza di una seconda fase cimiteriale, molto distanziata nel tempo, che comprende una serie di inumazioni ad orientamento divergente rispetto alle precedenti, in piena terra e in casse lignee chiodate (due casi), datate da una fibbia di cintura, da rari materiali tardo-medievali e da un'analisi al C14 che ha fornito la data: 1235-1430. L'interruzione e la successiva ripresa della funzione funeraria del S.Gervasio potrebbero essersi verificate in relazione al periodo di più rigoroso esercizio dello ius funeris da parte della chiesa plebana 184. L.P.B. EGLE MICHELETTO, LUISELLA PEJRANI BARICCO
1 La Carta archeologica del Piemonte, di cui è prevista la pubblicazione per i tipi dell'Editrice Panini di Modena, è curata dalla Soprintendenza Archeologica, in accordo con la Regione Piemonte. La schedatura dei materiali e dei siti altomedievali è stata realizzata da P Demeglio e C. Morra. 2 Ringraziamo per la collaborazione i colleghi della Soprintendenza Archeologica, in particolare Alberto Crosetto, Giulia Molli Boffa, Gabriella Pantò, Maria Teresa Sardo ed Emanuela Zanda. Alla consueta e preziosa disponibilità di Susanna Salines si deve il corredo grafico di questo contributo. 3 Cfr. BIERBRAUER 1991, pp. 44 ss. Anche se sostanziali perplessità sono state espresse sul reale ausilio fornito dalla toponomastica: aree “caratterizzate da una toponomastica di forte impronta germanica” possono mancare infatti di necropoli attribuibili a tale popolamento (SETTIA 1994, p. 68). 4 Il discorso sul significato dei corredi funebri in età longobarda, in relazione alla possibilità della loro utilizzazione come indicatori etnici e sociali o come indizi archeologici si è talmente dilatato da rendere ardua e forse superflua una ulteriore puntualizzazione teorica. La via d'uscita più costruttiva sembra quella che passa attraverso l'analisi attenta delle singole realtà territoriali, poi confrontate con modelli su scala più ampia. Sul problema, con una posizione di sostanziale pessimismo sulla validità del contributo delle stesse discipline archeologica e antropologica per la corretta interpretazione storica del periodo, cfr. SETTIA 1994, con bibliografia precedente. 5 MALLEGNI et al. in stampa. 6 Cfr. SCHMIEDT 1974, pp.503-607 e, con particolare riferimento al Piemonte LA ROCCA 1992 e LA ROCCA 1994; FILIPPI-ZANDA in stampa. Se queste città romane denotano segni di inequivocabile decadimento dal II secolo, in tutte permangono tracce archeologiche di occupazione sino almeno al V secolo. Ad esempio nel caso di Pollenzo, il dato archeologico è limitato per ora al risultati di una trincea per servizi che, troppo limitata per considerarsi risolutiva nei confronti delle diverse ipotesi sull'abbandono (sintetizzate in LA ROCCA 1992, pp. 114-115 e nota 40), ha evidenziato comunque fasi di vita sino al V secolo seguite dalla distruzlone delle murature, con la sovrapposizione di un livello carbonioso forse riferibile ad un incendio (FILIPPI 1991, p. 149). Che un nucleo di abitanti vi risiedesse e ne sia fuggito agli inizi del V secolo, in concomitanza con i noti avvenimenti culminati nello scontro tra Stilicone e Alarico nel 402, potrebbe essere comprovato dalla citazione da parte dell'Anonimo Ravennate, insieme a Pollenzo, del toponimo "Pollentinum", posto "iuxta fines Alpium", fra "Ororiatis" e "Albis" (SERRA 1957, pp. 23-23). Tale considerazione è stata recentemente ripresa (SETTIA 1995, pp. 243-266), all'interno di più generali considerazioni sulla nascita di "coppie toponimiche" nel popolamento rurale, dove lo sdoppiamento spesso origina da “spostamenti dl popolazione avvenuti a causa degli sconvolgimenti causati dalle immigrazioni germaniche e dal degrado dell'ambiente naturale non più controllato dall'uomo”. Analoga ipotesi è prospettata dall'A. per lo spostamento degli abitanti di Augusta Bagiennorum nell'odierna Benevagienna, che a sua volta vedrà un trasferimento di popolazione a Beinette (Baienne Superius). Anche l' abitato di Forum Germa (l'attuale frazione S. Lorenzo di Caraglio) presenta una rinnovata vitalità nel IV secolo, con successive trasformazioni tra V e VI sec., che riutilizzano, con modalità costruttive diverse, le strutture più antiche, nelle quali si inseriscono anche nuclei sepolcrali (MOL;IBOFFA1980; EAD.1989; MICHELETTO 1995). 7 Cfr. GAMBARI 1995. 8 LA ROCCA 1992, p. 117. 9 GAMBARI 1995, pp. 46 ss. 10 NEGRO PONZI MANCIM 1980; EAD. 1982; EAD. 1983. 11 Le ricerche sono state dirette da G. Spagnolo, con la collaborazione di I . Pejrani per la campagna 1995 a 8izzano. 12 SANNAZARO 199O. 13 NEGRO PONZI 1983. 14 ZANDA in stampa. Neile circa 30 nuove tombe indagate, solo in un caso era presente una fibbia di cintura in ferro ad anello semplice, ovale. 15 CANTINO WATAGHIN 1994a, p. 147. 16 SETTIA 99 la. 17 PEJRANI BARICCO 1984b; EAD. 1990b. 18 CANTINO WATAGH[N 1994a, pp. 146-147. 19 ZANDA 1993, pp. 210-213; EAD. 1994, pp. 266-267. In corso Repubblica si è messa in luce una necropoli di età romana (I sec. d.C.) con continuità sino oltre il V sec. Nel cimitero di via Emilia la continuità, indiziata dall'abbondante materiale epigrafico (PROFUMO-MENNELLA 1982; MENNELLA 1990), non è accertata archeologicamente. Nell'area retrostante i monumenti funerari di età augustea si provvide, tra il I ed il III sec., a colmare con riporti di terreno l'originaria pendenza. Dopo la metà del III sec. il sito venne quindi progressivamente occupato da inumazioni, che proseguirono senza soluzione di continuità per tutto l'altomedioevo. 20 Un importante nucleo sepolcrale, con continuità sino almeno al V secolo, è stato indagato nei primi anni'80 nell'area di S. Cassiano (FILIPPI 1982). 21 A Vercelli l'unica attestazione certa di continuità riguarda la necropoli sorta nel I sec. Iungo la strada verso la valle del Sesia, nella quale si edificò poi la chiesa dedicata ad Eusebio (PANTò-MENNELLA 1994). 22 Ad es. a Verolengo (To), dove si è indagato un piccolo cimitero di 26 tombe tardoromane\altomedievali alla cappuccina (LUCCHINO in stampa). Nell'attuale centro storico di Alba, in un settore immediatamente esterno alla cinta urbana di età romana (via Mazzini), si è recentemente messa in luce una piccola necropoli, con due diverse fasi nettamente separate dall'impianto di strutture abitative. Quella più antica, della prima età imperiale è documentata da tombe a cremazione; quella più tarda da undici inumazioni con tipologie diverse, ma prevalentemente "alla cappuccina", che i
materiali ceramici, in particolare un piatto di sigillata africana C3 decorato a rilievo, consentono di datare a partire dalla seconda metà del IV secolo. ll momento dell'abbandono rimane cronologicamente indeterminato tra tarda antichità e altomedioevo (FILlPPI 1995). Cfr. anche i nuclei cimiteriali di impianto tardoromano urbani e suburbani a Vercelli (PANTÒ-MENNELLA 1994) e nel biellese (PANTÒ 1990-91). 23 PANTÒ 1993, pp. 110 ss. 24 ZANDA 1988, p. 98. 25 SETTIA 1983, pp. 173 ss. 26 SARDO ZANDA 1995; SARDO ZANDA 1996. 27 ARSLAN in stampa. 28 PANTÒ 1996, pp. 112-114. 29 MICHELETTO 1992a. Due pozzetti circolari di 30 cm circa di diametro paiono attribuibili a bassi fuochi per la riduzione del minerale di ferro in metallo, mentre chiazze di concotto costituiscono le sedi di alloggiamento delle tuyères dei mantici. Tale modesto apprestamento era quindi costituito da una struttura minima realizzata con la semplice escavazione di una piccola buca emisferica, entro la quale si ponevano il carbone di legna ed il minerale. 30 Cfr. MICHELETTO 1992b. È da rimarcare come dal territorio di S. Stefano, nelle vicinanze dell'abbazia benedettina di S. Gaudenzio venga segnalata una delle rare sepolture femminili di età longobarda (VON HESSEN 1974, p. 506, n. 32, che si rifà ad una segnalazione di RODOLFO 1910, p. 14, nota 12, priva di dettagli, ma a sua volta ripresa da FERRERO 1897, pp. 273-274, nota 2) il corredo era composto da orecchini in oro, due grandi fibule, insieme ad altre di più piccoie dimensioni ed una crocetta aurea. I materiali, non conservati, erano stati trattenuti dall'allora proprietario della chiesa. 31 BRECCIAROLI TABORELLI 1995. 32 BRECCIAROLI TABORELLI 1995, con bibliografia aggiornata, cui si potrebbe aggiungere il caso delle Marche (PROFUMO 1995, p. 129). 33 Basti citare per tutti BIERBRAUER 1974 e da ultimo BIERBRAUER 1994. 34 MICHELETTO et al. 1995, n. 2, pp. 154-155. 35 CASSIODORI Varine, I, 17. 36 FINOCCHI 1982, pp. 336-339; ZANDA 1991, pp. 91-92. 37 CROSETTO 1986. Si tratta di una raccolta di materiale romano e altomedievale dall'eredità di Negri Carpani, confluita al Museo di Alessandria a fine '800. I reperti provengono in gran parte da un'area immediatamente a nord di Tortona, dove si localizza una delle grandi necropoli lungo la Postumia, forse in connessione con la chiesa di S. Simone. Per i materiali goti cfr. BiERsRAuER 1974 con bibliografia precedente. 33 SERGI 1985, P. 9 3Y GASPARRI 1978, P. 59; cfr. anche SERGI 1985, P. 10, nota 21. PAULI DIACONI Historia Langobardorum, IV, 3, P. 145; Origo gentis Langobardorum, p. 5. 40 GASPARRI 1978, P. 31. 41 SERGI 1988. 42 LUSUARDI SIENA 1989, PP. 195-198. 43 ANDENNA 1982, PP. 623-624. 44 L'intervento è stato diretto da L. Pejrani, con la collaborazione di E. Perencin. 45 PANTÒ 1996, PP. 109-112. 46 FRIGERIO-PISONI 1988; SANNAZARO 1990, PP. 39-43. 47 PEJRANI BARICCO 1990a; PICARD 1988, pp. 306-308, 329-330. 48 PANTÒ 1996, pp. 114-116. 49 CROSETTO 1995, pp. 323-324; PANTÒ 1996, pp. 117-118. 50 CROSETTO in stampa. 51 Lambert in questo volume. 52 ORSI 1887, pp. 365-366; MENGHIN 1977, p. 28, n. 24 . 53 CORBELLINI ms., sec. XVII (copia di un manoscritto autografo), Archivio Storico del Comune di Vercelli, L2 c. 13, FERRERO 1609, p. 127. Le vicende relative al ritrovamento, con l'attribuzione della tomba “a un membro dell'aristocrazia longobarda della prima metà del VII sec.” sono in PANTÒ-MENNELLA 1994, pp. 351-352 e nota 44. 54 Cfr. da ultimo FILIPPI-PEJRANI-LEVAT1 1995. 55 si deve segnalare invece un interessante contesto di materiale ceramico da un ampio scavo antistante la porta Decumana, inglobata in Palazzo Madama, sul tracciato stradale verso il Po. In livelli del VI-VII sec. si sono recuperati alcuni frammenti ceramici in argilla grigio scura “affine a quella della ceramica longobarda” (PANTÒ 1996, p. 96 e fig. 4) ed altri con superficie a parziale stralucido. 56 VON HESSEN 1974, p. 502, n. 17. 57 VON HESSEN 1974, p. 498, n. 1. 58 RIZZO 1910; VON HESSEN 1974, p. 499, n. 2 . 59 LA ROCCA 1986, in particolare pp.58 ss. Sulla necropoli: CALANDRA 1883, VON HESSEN 1971; NEGRO PONZT 1980; PEIRANI BARICCO 1980. 60 L'ipotesi formulata da Von Hessen a proposito di una eventuale fase tardoromana e poi gota della necropoli di Testona (VON HESSEN 1971, pp. 47-49), è stata confutata sia dalla Negro Ponzi che dalla La Rocca (NEGRO PONZI 1980, pp. 4-5; LA ROCCA 1986, pp. 51-53).
61 Sulle caratteristiche dell'insediamento riflesso nella necropoli si sono formulate le più diverse ipotesi, a partire da quella di “stazione di un corpo armato di Longobardi”, proposta dallo scopritore (CALANDRA 1883, p. 38), alla più cauta possibilità di scetta tra cimitero di villaggio o postazione militare con eventuale presenza anche di Romani, avanzata dal von Hessen (VON HESSEN 1971, pp. 47-49). Nel recensire la pubblicazione della necropoli, il Settia si pronunciò a favore di un uso dell'area funeraria riservato alle genti longobarde appartenenti a un “normale stanziamento fisso che ospitava pure un robusto presidio militare” (SETTIA 1972, p. 620). Diversa è la ricostruzione proposta dalla La Rocca, che vede in Testona un cimitero "ufficiale", utilizzato da più villaggi circonvicini, in cui i Longobardi si sarebbero semplicemente sovrapposti all'organizzazione insediativa romana (LA ROCCA-HUDSON 1987, p. 30, cfr. anche LA ROCCA 1986, pp. 64-73). La Negro Ponzi, dopo una iniziale attribuzione della necropoli “all'insediamento di un nucleo germanico ristretto e forse all'origine neppure specificamente longobardo con forte assimilazione di una popolazione romanza (locale?) legata in parte ad usi funerari locali (tombe in laterizi romani), ma assorbita nel quadro rigidamente tradizionale di un cimitero a file germanico” (NEGRO PONZI 1980, p. 10), è tornata sull'argomento con nuove riflessioni, ma ribadendo che “il carattere isolato e compatto delle necropoli di Testona e Carignano e la loro formazione nel tardo VI-VII secolo suggeriscono per entrambi i casi l'appartenenza a gruppi specifici, organizzati in nuovi abitati distinti da quelli della precedente occupazione tardo-romana” (NEGRO PONZI 1988, pp. 71-72. In quest'ultimo studio l'Autrice esamina in particolare il fenomeno della rideposizione di oggetti romani, provenienti dallo spoglio di corredi funerari molto più antichi, riscontrabile a Testona ed in altri casi piemontesi del tardo VI-VII secolo, secondo una consuetudine relativamente comune in ambiente merovingio, più rara nell'Italia centro-meridionale (NEGRO PONZI 1988, P. 77 e passim). LO scarto cronologico e la particolare nrovenienza deali oggetti romani rideposti a Testona ridimensiona ulteriormente l'argomento della presenza di elementi di corredo attribuibili alla popolazione autoctona, addotto a favore di una composizione mista della comunità e del relativo insediamento. 62 Sull'origine romana del tratto stradale nell'area di Moncalieri-Testona cfr. LA ROCCA 1986, pp. 43-44. Il ruolo del ponte sul Po presso Testona, dove passava uno dei più importanti percorsi della strada di Francia tra Asti e Torino, è ben noto per la piena età medievale (SERGI 1981, pp. 43-44 e passim), ma non si può escludere che questo tracciato si fosse già affermato precedentemente, sfruttando favorevoli condizioni di attraversamento del fiume. 63 DELOGU 1980, pp. 19-22. 64 La base cartografica è stata ricavata dalla Tabula Imperii Romani, con variazioni sulla base della lettura di CORRADI 1968 e della bibliografia specifica più recente. Per brevi sintesi di aggiornamento si rimanda alle schede di ZANDA et al. 1991. 65 In uno studio recente (VERCELLA BAGLIONE 1993a, pp. 14-21) si affronta la documentazione storica ed archeologica relativa alle vicende di questo tratto di strada, che dopo interventi di accurata manutenzione nel IV secolo, testimoniati dai miliari, declinò già dal secolo successivo per una serie di concause storiche e ambientali, connesse con mutamenti idrografici e gravi alluvioni, attestate dalle fonti tra V e VI secolo. 66 SETTIA 1991b, pp. 222 ss.; SCHMIEDT 1974, pp. 536-539; VERCELLA BAGLIONE 1993a. 67 A Trino si susseguono, sul sito di un primitivo impianto del I-II sec. d.C., numerose fasi edilizie a carattere residenziale, con variazioni tipologiche e funzionali, tra il V-VI secolo ed il IX-X, quando la stratigrafia archeologica registra una distruzione radicale. Già a partire dal VII-VIII secolo compare un cimitero con sepolture prive di corredo, forse associato ad un edificio di culto, meglio documentato nelle ricostruzioni dei secoli IX-X e successivi. Almeno dall'età romanica una cinta fortificata racchiudeva sia il nucleo residenziale, sia il complesso chiesa-cimitero (NEGRO PONZI MANCINI et al. 1991, con bibliografia precedente). 68 VON HESSEN 1974, p. 504, n. 24. 69 VON HESSEN 1974, pp. 503-504 nn. 21-22; BRECCIAROLI TABORELLI 1982; VERCELLA BAGLIONE 1993b; GERBORE et al. 1993. 70 VON HESSEN 1974, p. 503, n. 20. 71 Dalla pubblicazione postuma degli appunti dell'Ispettore onorario Domenico Torasso si sono acquisite maggiori informazioni sulle caratteristiche del cimitero, tra le quali si segnala la presenza di cavalli sacrificati, deposti accanto ai cavalieri, e di finimenti, morsi e staffe tra gli oggetti di corredo (BERATTTNO 1981; FERRERO 1893, p. 259). 72 SETTTA 1991b, p. 194. 73 CROSETTO 1994, p. 74. 74 CARBONELLI 1897; VON HESSEN 1974, p. 505, n. 30; POSSENTI 1994, p. 99, n. 104, Tav. XXXVIII, 4. Datazione: pieno VII secolo. 75 VON HESSEN 1974, p. 505, n. 31. I materiali raccolti nelle tombe scoperte nel 1880 comprendevano “n. 42 pezzi cioè: 1 vaso-armi-fibie ecc. rinvenute nel territorio di Moncalvo e donate dal Sig. cav. Avv. Giovanni Minoglio”, secondo quanto riportato dal Verbale di consegna delle collezioni preistorica ed etnologica del 1895 da parte del Musco Civico al Museo di Antichità di Torino. Almeno alcune armi si sono ora potute identificare attraverso il vecchio cartellino con la sigla del Museo Civico, ma la maggior parte dei reperti è verosimilmente andata confusa tra i materiali simili, compresi quelli di Testona. 76 Sul colle di S. Germano, presso la cappella di S. Michele, è segnalato nel 1944 il ritrovamento di armi in una tomba scavata nel tufo (Archivio Soprintendenza Archeologica) una sepoltura analoga, contenente anche monete ed una armilla in bronzo era stata messa in luce nel 1905 in fraz. Moleto, presso la cascina Magrina (Ibidem).
77 DEMEGLIO 1994, pp. 271-272. Si tratta di un puntale bronzeo di cintura a becco d'anatra (VII secolo). Non proviene da una tomba, ma è probabilmente da riferire all'utilizzo del cimitero, che si impianta in età tardoromana e, almeno dall'altomedioevo, pare connesso alla chiesa di S. Giovanni. 78 DONZELLI 1989. 79 Il ritrovamento fortuito del cimitero ha parzialmente sconvolto la tomba, dalla quale si sono tardivamente recuperati soltanto gli oggetti citati. Nel rapporto di scavo edito si riporta la notizia, fornita da testimoni presenti alla scoperta, che i fitamenti d'oro fossero disposti intorno ai polsi del defunto (DONZELLI 1989, pp. 116-118). Non si conosce invece il sesso dell'adulto della t. 1, in quanto le analisi antropologiche sono state limitate a due soli altri individui. In attesa di possibili ulteriori approfondimenti della ricerca, pare comunque importante aggiungere questo ritrovamento piemontese al catalogo delle tombe altomedievali italiane contenenti fili aurei, generalmente riferiti alla decorazione della parte superiore degli abiti maschili e al velo delle acconciature femminili (AHUMA DA SILVA 1990, pp. 62-66) L'elenco comprende in prevalenza tombe longobarde di personaggi probabilmente appartenenti ad una ristretta cerchia nobiliare. Cfr. anche ROFFIA-SESINO 1986, P. 39. 80 DONZELLI 1989, p. 116, figg. 18-19; ARSLAN in stampa. 81 DONZELLI 1989, p. 7. 82 Ad es. per la notissima lastra tombale del presbitero Gudiris cfr. LUSUARDI SIENA 1989. Più in generale cfr. SETTIA 1983, pp. 233-234; RUGO 1980; COCCOLUTO 1983. 83 Come indizierebbe, tra gli altri elementi, la serie di fondazioni monastiche ricondotte dalla tradizione erudita ad un diretto impulso regio, tra il VII e la prima metà dell'VIII secolo: l'abbazia di S. Dalmazzo a Pedona, i cenobi dei SS. Pietro e Colombano a Pagno e quelli di S. Costanzo al Villare e sul monte S. Bernardo sono stati considerati come punti di controllo strategico in area di confine (CASARTELLI NOVELLI 1974, pp. 32 ss., CANTINO WATAGHIN 1989 NEGRO PONZI MANCINI 1981, p. 47). 84 Dalla frazione S. Lorenzo proviene una fibula in bronzo a forma di croce sormontata da una colomba, con decorazione a occhi di dado, recentemente consegnata da privati al Museo civico di Cuneo, confrontabile con un reperto analogo da Belmonte (v. oltre, Fig. 10,1). L'oggetto è qui incluso in quanto probabile elemento di corredo femminile e ben databile anche se non specificatamente riconducibile all'ambito longobardo. 85 Nel corso di uno scavo di emergenza nel centro storico (via Mazzini), si è rinvenuta una placchetta trapezoidale in bronzo di guarnizione di cintura di tipo "longobardo" (VII sec.). 86 MICHELETTO 1994, p. 127. In concomitanza con opere di scavo per il risanamento del chiostro dell'ex-convento di S. Francesco, attuale sede del Museo civico, si è ritrovata una placca di fibbia bronzea di tipo "longobardo" (VII sec.). 87 Nel 1978 venne messa in luce, nel corso di lavori agricoli in regione tetto Garellicascina S. Vittorio di Scarnafigi, una tomba a cassa laterizia e copertura a lastre di Dietra orientata ovest-est; al suo interno vi erano due inumati. Il corredo era composto da due scramasax, un coltello, una fibbia di cintura ed una linguetta a becco d'anatra in bronzo, una borchia con testa dorata per il fissaggio dell'umbone ailo scado ed un frammento vitreo. Del ritrovamento, sostanzialmente inedito, è stata data notizia, tra gli altri, daNEGRo PONZT MANCINI 1981, p. 62, nota 290. 88 Cfr. nota 30. Per Baldissero: VON HESSEN 1974, p.506, n.33. Per Cherasco: COCCOLUTO 1988, pp. 139 ss. Troppo incerta per consentirne l'inserimento nella nostra carta, è parsa la descrizione del Bartoli (PROMIS 1878, p. 296; già ripresa in MICHELETTO 1984, p. 69) del rinvenimento a Cavallermaggiore di un ricco corredo comprendente un coltello con fodero un "elmo", un morso di cavallo. 89 Si vedano a questo proposito le osservazioni di MENNELLA 1993, che ipotizza, sulla base di materiale epigrafico databile tra V e VII secolo (cfr. elenco alle pp. 212-213, ibidem), l'esistenza di un latifondo nell'area compresa tra i territori di Pollentia, Augusta Bagiennorum e Forum Vibii Caburrum. 90 RODOLFO 1910; ID. 1942; VON HESSEN 1974, p. 501, nn. 10-11- LEBOLE DI GANGI 1988. 91 RODOLFO 1910; ID., 1942, p. 174 e pp. 178 ss. La cappella di S. Remigio era posta nell'area compresa tra l'odierno viale della Rimembranza, via Monte Nero e via S. Remigio forse in corrispondenza dell'edificio attuale, costruito nel XVII secolo. A breve distanza, ii Rodolfo posiziona il ritrovarnento, in tempi diversi, di un nucleo sepolcrale ad incinerazione e di tombe ad inumazione con cassa in ciottoli e pezzame laterizio di reimpieco, queste ultime assolutamente prive di corredo (anni 1934-35, Archivio Soprintendenza Archeologica, lettera di G. Rodolfo, 29\05\1941). Nella stessa nota del '41 egli ricorda la scoperta, risalente al 1925, “davanti alla cappella di S. Remigio” delle cinque tombe di età longobarda, che pubblicherà dandone però una generica collocazione verso W, oltre la necropoli romana (RODOLFO 1941, ma ediz. 1942, p. 180). Soltanto la t. 1 aveva spada e sperone; fa t. 2 lancia, sax lungo e cintura; la t. 3 sax e sperone, la t. 4 solo il sax. Taii materiali, conservati solo in parte, sono attualmente depositati presso il Museo di AntichiKà di Torino, dove, ultimato i restauro, ne è in corso il riscontro e lo studio. 92 LUSUARDI SIENA 1992; EAD. in questo volume. 93 Per Moncalvo cfr. nota 75; per Borgovercelli 1987. 94 Diploma di Enrico III del maggio 1047 (RODOLFO 1942, p.178). 95 Il tema, rimasto a lungo in secondo piano, è stato recentemente ripreso soprattutto per l'area lombarda ma non mancano i riscontri in regioni diverse del regno, come nel caso di Castel Trosino o deila necropoli della Selvicciola, oggerto di specifici studi in questa sede. Per la Lombardia si vedano LUSUARDI SIENA 1989, pp.201 ss.; EAD. 1992 ed il contriburo dell'Autrice in questo volume; DE MARCHI 1995. 96 CARDUCCI 1950, p. 196, fig. 11.
97 GARERI CANIATI 1986, p. 233. La cronologia della tomba e gli stessi materiali de corredo presentano aspetti problematici, ancora in attesa di verifica. 98 v. nota 77. 99 VENTURINO 1988, p.438 e nota 152. 100 Grandi casse in muratura, spesso coperte da pesanti lastre di pietra ricorrono nelle sepolture isolate di personaggi eminenti dotati di ricchi corredi: Borgo d'Ale (Vc), Alice Castello (Vc), Carignano-Valdoch (To), Torino-Lingotto e via Nizza, Beinasco (To). 101VON HESSEN 1974. 102 Per i risultati delle prime campagne di scavo, di cui queste annotazioni costituiscono una sintesi, cfr. MICHELETTO et al. 1995. 103 L'individuazione del sito e le prime raccolte di superficie si devono a L. Mano, del Museo Civico di Cuneo. 104 NALLINO 1789, p. 65; CASALIS 1846, XIV, p. 427; SCHEL 1878, p. 19; SOLERI 1909. 105 ll Libro Verde della chiesa d'Asti, p. 204, doc. 315 (Bolla di Eugenio III del 16 maggio 1153). Cfr. anche le osservazioni di COMBA 1983, pp. 57-58, note 120 e 122. 106 MOROZZO DELLA ROCCA 1894 (Atto di vendita del 15 marzo 1243). 107 Cfr. ad es. ARSLAN 1975-76 . 108 MOTELLA DE CARLO 1996. 109 Cfr. i contributi di A. Guglielmetti e L. Vaschetti in MICHELETTO et ai. 1 99S, PP. 110 La larghezza notevole della struttura ne consentiva un ottimo ancoraggio alla roccia colmandone le irregolarità. 111 Cfr. da ultimo PAROLI 1994, p. 13. In ambito piemontese l elenco comincia a farsi consistente: oltre a S. Stefano Belbo (Cn) ed alla grotta della Ciota Ciara in Valsesia, si segnalano il sito di Misobolo (CIMA 1986a) ed il castrum di Belmonte. 112 DECAENS 1971. 113 BONA 1990, pp. 20 ss.; pp. 32 ss. 114 PAROLI 1994, pp. 13-14. 115 Solo per questo piccolo lotto di materiali potrebbe ripetersi la modalità di ritrovamento segnalata per Villa Clelia (BARUZZI 1978), che fece supporre la loro originaria collocazione in una cassa o in un involto, forse intenzionalmente occultato al momento dell'abbandono del sito. Cfr. anche la scheda di Belmonte infra. 116 Cfr. elenco in PARENTI 1994, pp. 483 ss. Per rimanere al Piemonte sono noti, oltre al nostro, gli esemplari di Testona, Borgovercelli, Belmonte, Cherasco. 117 Oltre all'esemplare di Monte Barro (DE MARCHI 1991, tav. LXI, 1) e quelli della t. 119 di Castel Trosino (PAROLT 1994, p.58, IV, 12 in ferro) possono aggiungersi i tre speroni da altrettante tombe di Carignano, regione Valdoch (RODOLFO 1942, fig. 50). 118 CLEMENTE 1968. 119 Cfr. MOTLO 1986. 120 DURANDT 1774, pp. 156-158; ma contra CARRATA THOMES 1953, p. 24 e nota 4. 121 L'epigrafe, rinvenuta nel 1853 sul colle Mortè fu trasportata a Margarita, dove se ne persero le tracce (FERRUA 1948, n. 90). Per gli altri ritrovamenti cfr. CONTT 1980, p. 50 e FEA 1986, pp. 124-125. 123 LAMBOGLIA 1933, p. 113. 124 CIMA 1986b. 124 Per una breve scheda riassuntiva cir.: PANTÒ-PEJRANI BARICCO 1992 con bibliografia precedente. 125 La stessa Mollo (MOLLO 1986, p. 354, nota 86) ammette l'incertezza dell'identificazione delle chiuse sul Pesio, insieme a quelle di Pontebernardo nell'alta Val Varaita, lasciando la responsabilità dell'affermazione al Durandi (v. nota 120). 126 BROGIOLO 1994a, p. 106. Brogiolo inserisce in questa categoria edifici sia di ambito urbano (via Alberto Mario a Brescia), sia rurale (Monte Barro, Sermide, Ponte Lambro) in cui ricorre la tecnica di rinforzare le murature con pali eretti su basi in pietra o in laterizio. I casi piemontesi ad oggi noti, pur significativi, offrono tuttavia confronti meno stringenti, ad esempio le strutture lignee verificate a Brignano sorreggevano tramezzi, soppalchi interni o tettoie addossate alla muratura, ma non partecipavano alla statica dell'intera costruzione (PANTÒ 1993, pp. 123-125). 127 Su Peveragno v. scheda precedente; si possono inoltre ricordare le case, più propriamente rupestri, di S. Martino di Lecco, datate da ceramica longobarda al VI secolo, e dell'Isola Comacina, sebbene l'incasso nella roccia a Belmonte sia di ben minore entità (BROGIOLO 1994a, p. 112; BRAMBILLA-BROGIOLO 1994). 128 Per quest'ipotesi di lettura cfr. CANTINO WATAGHIN 1994b, p.97, tuttavia non fondata sulla documentazlone dl scavo. 129 Nell'ampia rassegna di esempi proposta da Bierbraner a confronto delle case di Invillino del periodo III, datate fra la metà del IV e metà del V secolo, si evidenzia come la tipologia delle case in pietra rettangolari, sia a vano unico, sia ripartite in due o tre vani, sia diffusa tra fine IV e VI secolo in ambiente alpino e nelle aree circostanti, soprattutto tra le costruzioni interne degli insediamenti (BIERBRAUER 1987, pp. 312-327). In area lombarda il caso più noto è quello di Monte Barro, dove sono recentemente emerse numerose case rettangolari, articolate perlopiù in tre vani e distribuite a gruppi sui terrazzi del versante (BROGIOLO 1994b, pp. 218 -221).
130 L'Autore è Mario Zambelli, membro del gruppo archeologico "Ad Quintum" ed attivo collaboratore della Soprintendenza durante le ricerche a Belmonte tra il 1968 e il 1975 che consegnò la relazione, poco prima della sua scomparsa, al collega Luigi Fozzati, dal quale mi è stata gentilmente trasmessa. 131 PANTò-PEJRANI BARICCO 1992. 132 PANTÒ 1996, pp. 101-107. 133 PANTÒ 1996, pp. 106- 107. 134 SCAFILE 1971; EAD. 1972, PEIRANI BARICCO 1990C. 135 Gli appunti di M. Zambelli consentono ora di precisare meglio le modalità di ritrovamento degli oggetti editi da F. Scafile (cfr. nota precedente). 136 Su questi oggetti l'elenco di Zambelli concorda con quello edito da F. Scafile (SCAFILE 1971), che vi include inoltre altri oggetti (compasso, doppi ganci e un "arco a sesto rialzato" di incerta interpretazione) probabilmente provenienti invece dai vani del nucleo A. 137 PARENTI 1994, PP. 482-487 con bibliografia precedente. 138 A favore di una eventuale interpretazione di questo gruppo di attrezzi come prodotti artigianali m attesa di essere commercializzati, potrebbe pesare l'osservazione che al momento del ritrovamento “tutti questi oggetti, in buono stato di conservazione, ad una accurata ispezione risultavano tutti nuovi, senza alcuna traccia di usura”, secondo le annotazioni di Zambelli. 139 SCAFILE 1972; CARDUCCI 1975-1976, PP. 95-96. 140 Ne diede la prima notizia: SCAFILE 1972, P. 28. 141 CATARSI DALL’AGLIO 1993. 142 FORNI 1996, PP. 38-39 attribuisce questo vomere ad “epoca probabilmente tardomedievale”. 143 FORNI 1996 con bibliografica precedente. 144 Pohanka ritiene che la forma di questo attrezzo risalga ai vomeri usati nel Nord Europa dalla tarda età del Bronzo, conservatasi in isolate regioni centroeuropee fino all'età imperiale romana connessa con aratri documentati, ad esempio, da un modellino proveniente da Colonia (POHANKA 1986, pp 36-38). In Italia non mi risultano invece attestati archeologicamente vomeri simili fino all'alto medioevo con gli esempi appunto di Belmonte e Carignano (PEJRANI BARICCO 1990c, pp. 344-345) 145 SCAFILE 1970; VON HESSEN 1974, p. 502, n 18. 146 SCAFIM E 1 972. 147 SCAFILE 1978, per l'inquadramento tipologico di questa fibula, già citata a confronto dell'esemplare da S. Lorenzo di Caraglio (v. testo relativo nota 85), cfr. PAROLT 1994, Catalogo, pp. 7]-72 con bibliografia precedente. 148 ASSANDRIA 1926. 149 Per la presenza di sepolture con corredi di guerrieri longobardi nei pressi o all'interno dei castra cfr. DE MARCHI 1995, PP. 34-35; BROGIOLO 1994C, P. 155. 150 CASARTELLI NOVELLI 1974, PP. 57-61. 151 FROLA 1911, doc. 11, a. 1197, PP. 79-80. 152 Il cantiere è diretto scientificamente da Luisa Brecciaroli Taborelli con la collaborazione di chi scrive. Per il breve inquadramento delle fasi di età romana si rimanda alle notizie preliminari edite: BRECCIAROLI TABORELLI 1991; EAD. 1993. 153 Il Casalis riporta la notizia che nel 1823 oltre al miliario, sul quale si leggeva la cifra X, furono ritrovate tracce della strada; successivamente, nel 1840, sempre in un prato della regione Perosa, si rinvennero resti di edifici di età romana ed “alcuni pezzi di marmo, di porfido e di metalli lavorati” (CASALTS 1847, pp. 401-402). 154 Le analisi sono in corso da parte di E. Bedini, F. Bartoli, L. Paglialunga, F. Severini e A. Vitiello della Cooperativa Etnoantropolgica e Paletnologica "Anthropos" di Pisa ed attualmente si attendono soltanto più i risultati delle datazioni al C14 di alcuni individui scelti a campione dei due gruppi, le notizie che si anticiperanno in questo testo sono tratte dalle schedature e dalle relazioni già consegnate alla Soprintendenza. 155 Forma e dimensioni di questa fibbia trovano confronto ad esempio in analoghe guarnizioni da Testona (VON HESSEN 1971, nn. 478-483) e in un paio di fibbie proveniente dalla tomba 205 di Castel Trosino, datata al secondo quarto del VII secolo (cfr. scheda di M. RICCI in PAROLI 1995, PP.259-261). La fibbia in esame conserva, a differenza dei confronti citati, una laminetta di fissaggio al cuoio ripiegata e inserita nel passante, chiusa da due ribattini. 156 Cfr. ad esempio le borchie da Testona edite da VON HESSEN 1971: n. 153, per la testa circolare appiattita e nn. 148, 1SS e 156 per affinità nella decorazione. 157 Cfr. MEPUCCO VACCARO 1978, in particolare tipo e, p. 21 SS. 158 Per uno di essi è stata calcolata una statura di cm 174,7, la più elevata tra i valori staturali ricostruibili sul totale degli individui, mentre per entrambi sono stati rilevati valori di dolicocrania. 159 Si fa riferimento alla relazione di C. Rupp presentata in questo Convegno. 160 VON HESSEN 1974, P. 502, n. 16. 161 CROSETTO et al. 1981, PP. 375-376. 162 Per la storia della strada di Francia nel Medioevo cfr. SERGI 1981, in particolare per gli aspetti materiali pp. 33-36 e MANNONI 1995. 163 MOLLO 1986. 164 MOLLO 1986, pp. 339 ss.; SETTIA 1993, pp. 110-112.
165 MOLLO 1986, pp. 342-343 166 Nel 1411 viene redatto un documento in fine Foxani, videlicet prope ecclesiam sancti Gervaxil m contrata Burdieti, con il quale il vicario del comune di Fossano ordina la demolizione della torre costruita da Antonio Bolleris, signore di Centallo. I beni fondiari dei Bolleris erano localizzati nel territorio posto ai confini di Fossano che includeva la località Mellea, toponimo che ancora oggi designa l'area del sito archeologico in esame (COMBA 1983 p. 156; doc. 4, pp. 226-227). Nell'Archivio Comunale di Fossano si conserva una copia settecentesca di un documento del 1582 in cui l'“ecclesia dirupta Sancti Gervasij” è citata più volte come rifer~mento topografico. 167 Le campagne di scavo si sono svolte dal 1979 al 1993 sotto la direzione di Giulia Molli Boffa, con ia collaborazione di chi scrive dal 1989. Notizie preliminari sono apparse nei “Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte”, 1 (1982)-11 (1993), mentre è ancora m corso dl redazlone il rapporto di scavo conclusivo. Ringrazio la collega per avermi concesso di anticipare parte dei risultati della ricerca comune. 168 Il contesto di cui si tratta, in corso di studio da parte di Aurora Cagnana, comprende un piatto tipo Lamboglia 51, un altro piatto tipo Hayes 60, una coppetta tipo Lamboglia 35 - Hayes 44, olle in ceramica comune e una bottiglia invetriata. 169 MENNELLA 1993. 170 MENNELLA 1993, in particolare pp. 220-222. 171 Sul complesso e dibattuto problema del ruolo dei proprietari terrieri nell'evangeIizzazione delle campagne si rimanda ad esempio a SANNAZARO 1990, pp.20-34 con bibliografia precedente. 172 PEJRANI BARICCO 1984b; EAD. 1990b; EAD. 1986. 173 La pieve di Centallo è ricordata per la prima volta in due atti del 1265, secondo Casiraghi la dedica a S. Michele, unica tra le pievi della diocesi torinese, potrebbe risalire all’età longobarda (CASTRAGHI 1979 pp. 59 e 135). 174 Lo studio di questa stele è di prossima pubblicazione da parte di Liliana Mercando. 175 Per alcuni di questi oggetti è già stata data notizia: MOLLI BOFFIA 1982. Tre dei quattro orecchini in argento rinvenuti sono stati pubblicati da POSSENTI 1994, pp. 60-61, nn. 7-8; pp. 101-102, n. 113.1 due più conservati Inn. 7 e 8) sono stati attribuiti al gruppo degli orecchini con cestello a calice floreale (sottotipo la) e datati tra l'ultimo terzo del VI e il primo terzo del VII secolo; il terzo esemplare, molto frammentario (n. 113), è databile tra fine VI e metà VII secolo. Tutti gli orecchini provengono dall'area del vano antistante il battistero e, benchè in giacitura secondaria, paiono da riferire alle tombe della fase 3. Per quanto riguarda le fibbie in bronzo di tipo "Aldeno", ritrovate nelle tombe 71 e 25 (in situ), la datazione generalmente proposta per la tipologia cui appartengono è la seconda metà del VII secolo (VON HESSEN 1971, pp. 31-32), con possibilità di qualche anticipazione (DE MARCHI 1988, PP 59-60). 176 v. nota 137. 177 L'interpretazione di questo oggetto come incudine si basa sulla diversa conservazione delle superfici, che presenta un netto stacco tra la punta, verosimilmente infissa in un ceppo di legno, di cui si sono conservate tracce aderenti al metallo, e la parte superiore, più ossidata. La forma richiama quella dell'incudine in ferro dell'orefice di Grupignano (inv. n. 561-BRozzT 1972), benchè questa di Centallo risulti 3 cm più lunga e con una superficie di battuta invece più ridotta (cm 3X3,5 contro 4,SX4,5), mentre pare sensibilmente diversa 1'incudine in bronzo di Peveragno (v. sopra). Ancora più problematico risulta, al momento, identificare la funzione dell'attrezzo a punte ripiegate, con originaria immanicatura centrale in legno. In linea generale le dimensioni di questo arnese e del martello non sembrano adatte a lavorazioni minute dei metalli, rendendo quindi improbabile la specifica attribuzione degli strumenti ad un orefice. 178 Questa controplacca trova confronto ad esempio con le guarnizioni di una cintura delle collezioni Stibbert di Firenze (VON HESSEN 1983, pp. 26-27, tav. 13) datate alla seconda metà del VII secolo. 179 Questa caratteristica, molto rara nelle tombe altomedievali, compare tuttavia già nel VI secolo, ad esempio nel sarcofago del vescovo Agnello di Aosta (PERINETTI 1981, pp. 5253) e ne è segnalata la presenza, a partire dalla fine del VII-VIII secolo, anche in area francese (DURAND 1988, PP. 163-164). Nella nostra regione i dati archeologici indicano una vasta diffusione dell'alveolo soltanto più tardi, e in particolare in età romanica. 180 Per le sepolture di fabbri-orefici e, più in generale, per la presenza di strumenti artigianali nel corredo funebre cfr. bibliografia citata da PAROLI 1994, pp. 13-15. 181 MENNELLA-COCCOLUTO 1995, n. 11, PP. 33-34. 182 MENNELLA COCCOLUTO 1995, n. 15, PP. 42-43; n. 17, PP. 45-46; n. 18, P. 47. 183 PANTÒ 1996, PP. 120-123. 184 SETTIA 1991a, pp. 11 ss.
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Paleobiologia del gruppo umano altomedievale della chiesa cimiteriale di Centallo (Cuneo)
La collaborazione già da diversi anni avviata con la Soprintendenza Archeologica del Piemonte ci ha consentito l'esame di numerose serie scheletriche piemontesi cronologicamente comprese tra la tarda classicità e l'epoca rinascimentale. È risultata particolarmente interessante l'analisi del gruppo umano della chiesa cimiteriale in località Madonna dei Prati a Centallo (Cuneo). Ricordiamo brevemente che questa presenta due distinte fasi di utilizzazione (cfr. il contributo di Micheletto e Pejrani in questo stesso volume), la prima della quali, di età altomedievale (VI-VII secolo), ha restituito un cospicuo numero di sepolture; la seconda, databile al XIII-XIV secolo, ha invece fornito un campione antropologico di entità assai più limitata. La pubblicazione congiunta dello scavo e dei risultati delle analisi antropologiche è in via di completamento, ed in questa sede saranno brevemente riassunti i risultati derivati dall'analisi delle sepolture altomedievali. L'analisi dei resti scheletrici si è articolata, oltre che nel classico studio antropologico basato sul rilievo e la descrizione dei caratteri metrici, morfometrici e morfologici del cranio e dello scheletro postcraniale necessari per la ricostruzione della fenotipia del gruppo, nel rilievo delle stigmate delle patologie e degli indicatori scheletrici e dentari di stress. La valutazione di questi parametri, l'analisi dei resti infantili, la discussione della distribuzione della mortalità e l'esecuzione delle analisi paleonutrizionali permettono di presentare organicamente, forse per la prima volta in Italia, il quadro delle condizioni di vita e del cosiddetto “stato di salute” di un gruppo umano altomedievale. La letteratura antropologica italiana relativa a questo periodo storico presenta infatti soltanto poche sintesi relative a gruppi assai numerosi interamente indagati 1. La maggior parte degli studi riguarda infatti reperti rinvenuti in singole tombe 2, in piccole aree sepolcrali 3, in sepolture selezionate casualmente dagli archeologi in grandi aree cimiteriali 4 e nelle analisi di pochi crani rimasti conservati da scavi ottocenteschi di grandi necropoli 5. Questi materiali, oltre ad essere pochissimo o per niente significativi per la ricostruzione dell'aspetto fisico e delle condizioni di vita delle popolazioni altomedievali italiane, in quanto relativi a poco più che singoli individui, nella maggior parte dei casi consistono in studi morfologici che si esauriscono in minuziose classificazioni antropotassonomiche in "tipi umani" la cui validità attualmente sembra piuttosto discutibile. Talvolta si osserva inoltre un certo distacco delle analisi antropologiche dal contesto archeologico, che si riflette nella pubblicazione su riviste specialistiche antropologiche con brevi, imprecise o poco esaurienti notizie archeologiche; clamoroso è infine il caso dell'area cimiteriale di Pettinara (Nocera Umbra), per la quale l'analisi degli oggetti di corredo (VON HESSEN 1978) e l esame dei resti scheletrici (SORCETTI et al. 1978), presentati in uno stesso volume, hanno tratto conclusioni opposte, e sembrano essere state condotte in modo del tutto indipendente tra loro, senza nessuno scambio di idee tra specialisti diversi (cfr. anche BLAKE 1983, P. 176 e GINATEMPO 1988, nota 1). I resti scheletrici relativi alla fase di utilizzazione altomedievale della chiesa cimiteriale di Centallo appartengono complessivamente a 162 individui 6, dei quali 114 adulti di età superiore a 20 anni (66 maschi, 31 femmine e 17 soggetti di sesso non determinabile), un subadulto tra 15 e 18 anni, 47 bambini ed adolescenti inferiori a 15 anni. Su un totale di 162 individui si nota in primo luogo la maggiore rappresentazione degli "adulti" (71,4°/0) rispetto ai "non adulti" (28,ó°/0), che tuttavia non sono scarsi. Questo dato, che evidenzia la discreta importanza dei decessi infantili all'interno del gruppo, appare di notevole interesse, tenendo presente che la mortalità dei bambini, a Centallo come nella maggior parte delle serie scheletriche 7, è senz'altro stimata per difetto, soprattutto nel caso di quelli più piccoli: è infatti verosimile ritenere che i bambini morti in età perinatale fossero sepolti in contesti diversi dall'interno della chiesa cimiteriale e dalle sue adiacenze 8. La mortalità infantile si distribuisce in tutte le fasce di età (Grafico 1),
ma registra due punte massime, la prima nel corso del primo anno di vita (11 decessi, dei quali 5 in età neonatale), la seconda tra 4 e 6 anni (1(} decessi); sembra diminuire, pur mantenendosi ancora sensibile, tra 6 ed 8 anni, ed ulteriormente nelle classi di età comprese tra 8 e 15 anni. Le cause responsabili dell'incidenza e della ripartizione della mortalità infantile sembrano essere state, nel gruppo di Centallo, le stesse che caratterizzavano tutti gli strati sociali delle popolazioni antiche, direttamente o indirettamente determinate dalle loro precarie condizioni igieniche, sanitarie ed alimentari. I decessi in età neonatale, mal valutabili nelle serie scheletriche del passato, erano collegati ai vari stress conseguenti al momento della nascita ed al primo periodo della vita, mentre quelli avvenuti intorno ai 2-3 e forse 4 anni potevano essere conseguenza dello svezzamento. Questo, nelle antiche popolazioni, era molto tardivo, e comportava il brusco passaggio da un'alimentazione costituita dal latte materno ad una del tutto analoga a quella degli adulti, che poteva determinare malattie intestinali e problemi di assorbimento talvolta fatali. Con la cessazione dell'allattamento veniva inoltre a mancare l'immunità verso le malattie infettive-trasmessa dal latte materno, e ciò aumentava le possibilità di esposizione agli agenti patogeni e contribuiva a rendere molto problematico il passaggio alla seconda infanzia 9. Nella mortalità dei bambini di età maggiore e degli adolescenti si potrebbe invece vedere la conseguenza di un inserimento abbastanza precoce nelle attività degli adulti, con tutti i problemi e gli stress che poteva comportare; per il sesso femminile probabilmente anche l'inizio, nell'adolescenza, del periodo fertile e quindi il verificarsi delle prime gravidanze, che comportavano rischi e stress notevoli, soprattutto in soggetti ancora in accrescimento e con alimentazione forse non adeguata. Le considerazioni riguardo la mortalità degli adulti risultano influenzate dalla notevole sovrarappresentazione dei soggetti maschili (in tutto 66) rispetto a quelli femminili (soltanto 31). Questa sex ratio, non realistica all'interno di una qualsiasi popolazione naturale, porta a ritenere che la chiesa cimiteriale di Centallo non abbia raccolto gli inumati di una completa comunità rurale, ma un particolare gruppo di persone, che le caratteristiche strutturali delle loro sepolture e la stessa deposizione in una chiesa "privata" sembrano connotare come privilegiato. È noto, d'altra parte, che in età altomedievale all'interno delle chiese erano sepolti soltanto i personaggi appartenenti al clero ed i laici di alto rango sociale o ritenuti particolarmente "degni" di essere deposti in un luogo "privilegiato", e che una parte più o meno cospicua delle popolazioni delle aree rurali si disperdeva in tombe, singole o organizzate in piccoli gruppi, sparse sul territorio (BLAKE 1983, PP. 188-189). È stato ritenuto opportuno elaborare la life table (Tab. 1), secondo le metodologie riportate da UBELAKER 1978, pur tenendo presenti sia le critiche ben documentate cui è stata sottoposta soprattutto da autori francesi (cfr. BOCQUET-MASSET 1977; MASSET-PARZYSZ 1985; MASSET 1 897) che le ineliminabili limitazioni delle analisi paleodemografiche '°. Dall'esame della Tab. 1 e del Grafico 2 si osserva che le fasce di età che presentano la maggiore mortalità, a sessi uniti, sono quelle dei 20-25 anni (11 decessi), e, in assoluto, quella tra 35 e 40 anni, con 15. Si nota un modello di mortalità leggermente diverso nei due sessi (Grafico"3): mentre tra 20 e 35 anni la ripartizione dei decessi appare analoga per i maschi e per le femmine, nella classe dei 35-40 anni si osserva una leggera prevalenza di quelli femminili, mentre in quella dei 40-45 anni il rapporto si inverte. Nelle successive classi sorprende invece la completa sottorappresentazione degli individui femminili, soltanto 4 in confronto a 18 maschi. Nella notevole mortalità adalto-giovanile si potrebbe vedere la conseguenza di condizioni di vita che comportavano per entrambi i sessi rischi considerevoli, collegati, per le donne, al susseguirsi di gravidanze e di parti, e, per gli uomini, allo svolgimento di attività pericolose o pesanti. La precocità dei decessi femminili in età pienamente adulta (35-40 anni) rispetto a quelli maschili, può essere spiegata ipotizzando che le donne arrivassero a questa età debilitate dalle ripetute gravidanze e dai parti; soltanto pochi soggetti riuscivano quindi ad oltrepassare l'età matura ed a raggiungere quella senile. I maschi sembrano invece aver goduto di una maggiore longevità che consentiva ad un buon numero di soggetti di raggiungere l'età matura o senile, anche se, probabilmente, ciò avveniva soltanto per
quei soggetti che appartenevano ad un gruppo sociale selezionato ed erano sepolti nelle tombe "privilegiate" all'interno della chiesa di Centallo e nelle sue immediate vicinanze. Passando ad analizzare i principali parametri demografici si osserva (Grafico 4a) che il 90% circa dei nati arriva ad un anno di vita; poco meno di 1/4 raggiunge gli 8 anni, il 60% circa supera i 20, mentre il dimezzamento del gruppo avviene a circa 25 anni; il 30% supera i 40 anni e soltanto 1/5 dei nati oltrepassa i 45. La speranza di vita (Grafico 4b) è molto bassa in rapporto ai parametri attuali dei paesi occidentali, essendo pari a circa 25 anni alla nascita; il suo valore assoluto diminuisce regolarmente, escludendo una piccola oscillazione in età infantile, nelle fasce successive, anche se consente, almeno teoricamente, il raggiungimento di età sempre più avanzate: 41 anni e mezzo per un individuo di 25, 47 per uno di 40, 49 per uno di 45. Per il gruppo inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo si evidenzia quindi una breve durata della vita, che non meraviglia anche nel caso di individui di status sociale ed economico elevato, date le precarie condizioni di vita che caratterizzavano tutti gli strati delle popolazioni altomedievali europee, dovute soprattutto al loro basso livello igienico e sanitario. Pur essendo stati rinvenuti i resti di 114 individui adulti, l'incompletezza ed il precario stato di conservazione di molte entità scheletriche hanno impedito in molti casi il rilievo dei caratteri metrici, morfometrici e morfologici del cranio e dello scheletro postcraniale ''. In particolare, nonostante la lunga e paziente opera di reintegrazione dei resti cranici, soltanto 33 calvari sono risultati effettivamente analizzabili. A livello cranico il gruppo si caratterizza nel sesso maschile per le forme prevalentemente lunghe e strette, mediamente alte in norma laterale e posteriore, con fronte media o stretta nei suoi diametri e con creste poco o mediamente divergenti, mentre i crani femminili si collocano soprattutto nelle classi dei valori medi (mediamente lunghi, larghi ed alti in norma laterale, ma generalmente bassi in norma posteriore), con fronte larga nel diametro minimo, media o stretta in quello massimo, e con creste poco divergenti; nei due sessi la capacità cranica è generalmente elevata. I valori dell'indice cranico orizzontale sono decisamente orientati verso la dolicocrania in entrambi i sessi (Grafici Sa e Sb); è presente una percentuale non trascurabile di mesocrani mentre la brachicrania si rileva in un solo individuo di sesso maschile. La regione occipitale, osservata lateralmente, presenta una notevole gamma di morfologie, anche se prevalgono quelle aggettanti che di solito si associano alle forme allungate del cranio. I caratteri morfologici, quali la sporgenza della protuberanza occipitale esterna e l'aggetto della glabella, legati al dimorfismo sessuale, non presentano sensibili differenze nei due sessi: la prima è generalmente poco rilevata, anche se nei maschi si ha qualche caso di sviluppo molto accentuato che non si osserva in nessuna femmina; la glabella è molto pronunciata nella maggior parte dei soggetti maschili, ma assai sporgente anche in alcuni femminili. Questo può interpretarsi come legato ad un basso dimorfismo sessuale a livello cranico ed a una certa rudezza dei tratti morfologici anche nel sesso femminile. I valori dell'altezza facciale totale, degli indici facciale totale e superiore non mostrano nessuna distribuzione preferenziale e sono troppo pochi per apprezzare differenze tra i due sessi. Le orbite sono alte o di media altezza, di forma generalmente subrettangolare e sormontate da rilievi sopraciliari quasi sempre reniformi, più aggettanti nel sesso maschile; il naso è di media altezza e larghezza nei maschi, basso e largo nelle femmine; il dorso denota generalmente ponte alto e sinuoso. Il mento è quasi sempre alto e squadrato nei maschi, più basso ed arrotondato nelle femmine. L'analisi dei crani più completi sottolinea quasi sempre, in entrambi i sessi, armonia cranio - facciale, con associazione tra cranio lungo e stretto e faccia alta, anche se talvolta si rileva una certa disarmonia (cranio lungo e stretto associato a faccia stretta e molto bassa, con orbite alte e naso alto e stretto). Il rilievo dei caratteri metrici e morfometrici delle ossa degli arti evidenzia scheletro postcraniale particolarmente robusto, soprattutto nei soggetti maschili, nei quali gli indici di robustezza dei diversi elementi scheletrici assumono prevalentemente valori uguali o maggiori a quelli medi delle
popolazioni europee attuali; più gracile nel sesso femminile; le sezioni diafisarie sono in prevalenza rotondeggianti nei due sessi. È stato possibile calcolare il valore della statura, secondo TROTTER-GLESER 1958 e 1977, per 36 soggetti maschili e 14 femminili (Grafici 6a e 6b). Le stature maschili sono comprese tra circa 160 e 191 cm, ed in maggioranza (11 individui) sono comprese nell'intervallo 170-175 cm, che corrisponde a valori considerati alti nella valutazione di MARTIN-SALLER 1957, p. 324; seguono per importanza l'intervallo 165-170 cm (10 individui) e quello 175-180 cm (8 individui). È da notare che su un totale di 36 soggetti analizzabili, ben 23 presentano valori staturali che superano i 170 cm. Le stature femminili variano da circa 153 ad oltre 173 cm. La maggior parte dei valori (relativi a 7 individui) cade nell'intervallo compreso tra 155 e 160 cm, ed è quindi valutabile come superiore alla media per questo sesso. Si tratta quindi, particolarmente per il sesso maschile, di stature eccezionalmente alte, soprattutto nei valori più elevati, che non trovano riscontro in nessuna altra serie scheletrica altomedievale italiana, e che, uniti alla prevalente dolicocrania ed ai lineamenti morfologici marcati e piuttosto rudi nei due sessi, caratterizzano questo gruppo umano e sembrano inquadrarlo in una fenotipia riconducibile ad una popolazione alloctona, forse di origine germanica. Questa conclusione appare particolarmente significativa, dal momento che il rinvenimento, nel corso dello scavo archeologico, di alcuni elementi di corredo o di ornamento di tipo "longobardo" suggeriva la possibilità che nella chiesa fossero stati sepolti individui appartenenti ad un gruppo alloctono, forse riconducibile a popolazioni di tipo longobardo. Si imponeva, a questo punto, di stabilire la posizione ed il significato degli individui di Centallo nel quadro dei gruppi umani altomedievali dell'Italia centro - settentrionale. Avendo a disposizione una serie scheletrica di discreta entità numerica è stato ritenuto scientificamente corretto evitare di fornire impressioni soggettive e di cadere nel cosiddetto riconoscimento dei "tipi razziali" che spesso caratterizza l'analisi di necropoli longobarde italiane, ma proporre un confronto di tipo statistico. Sorgeva quindi il problema di reperire, nella non ampia bibliografia antropologica relativa all'Italia altomedievale, i gruppi umani sufficientemente numerosi da consentire un'analisi attendibile e statisticamente valida. L'applicazione di un metodo statistico imponeva, in primo luogo, la selezione di gruppi sufficientemente numerosi, e, a questo scopo, sono stati scartati quelli composti da meno di 3 individui e le sepolture singole. Successivamente sono stati eliminati quei gruppi la cui bibliografia non riportava i dati metrici individuali o almeno i fondamentali parametri statistici. Le serie di confronto sono stati ridotte in questo modo ad otto: Testona (KISZELY-SCAGLIONI 1969); Rivoli La Perosa (Cooperativa "Anthropos", dati inediti); Acqui Terme, località Corso Roma (Cooperativa "Anthropos", dati inediti); Battistero di Chieri (PAGLIALUNGA-VITIELLO 1994); Duomo di Trento (CORRAIN-CAPITANIO 1969), S. Stefano in Pertica (CORRAIN-CAPITANIO 1990), Romans d Isonzo (BARTOLI et al. 1989; Cooperativa "Anthropos", dati inediti) e Castel Trosino (KISZELY 1971). Esse, anche se rigidamente selezionati, risultano ancora poco significative in quanto numericamente esigue e talvolta riferibili a situazioni archeologiche particolari. I resti scheletrici di Testona, come noto, consistono in 31 crani, dei quali soltanto 14 hanno permesso il rilievo dei dati metrici, recuperati da un totale di 360 tombe rinvenute in scavi ottocenteschi (KISZELY-SCAGLIONI 1969, pp. 247-250). L'area cimiteriale di Rivoli La Perosa (PEJRANI, com. pers.), completamente indagata, ha messo in luce 34 sepolture di adulti, delle quali soltanto 10 presentavano il cranio sufficientemente completo (nessuno però conservava lo scheletro facciale) e 9 hanno consentito il calcolo dei valori staturali. La necropoli di Acqui Terme località Corso Roma (CROSETTO, com. pers.), ha restituito le sepolture di 33 individui; dei 29 adulti identificati (19 maschili e 10 femminili), soltanto per 11 maschi e 2 femmine è stato possibile il rilievo dei caratteri metrici cranici. I valori staturali sono invece stati stabiliti per 15 maschi e 9 femmine.
Nell'area sepolcrale del Battistero di Chieri, databile tra il V-VI secolo e l'età preromanica, interessata una prima volta da scavi condotti da personale non specializzato e solo successivamente da attività eseguita sotto il controllo della Soprintendenza (PANTÒ1994), sono stati sepolti 48 individui (PAGLIALUNGA VITIELLO 1994), dei quali 42 adulti (25 maschili, 12 femminili e 5 di sesso non determinabile). Solo 6 crani maschili e 3 femminili sono risultati completi, mentre le stature sono state ricavate solo per 23 individui (15 maschili e 8 femminili). I resti "paleocristiani" del Duomo di Trento sono riferibili ad un gruppo di IV secolo, prelongobardo (CORRAIN-CAPITANTO 1979, pp. 98-99), che ha permesso l'analisi di 10 crani; riguardo ai valori staturali gli Autori non riportano i dati individuali, ma soltanto le medie calcolate sul numero totale di ossa maschili e femminili. Della necropoli di S. Stefano "in Pertica" a Cividale del Friuli, vasta ma non completamente indagata (LOPREATO 1990) sono stati sottoposti a studio antropologico i resti contenuti in 26 tombe (CORRAIN-CAPITANIO 1990); i crani complessivamente analizzabili sono 16; i valori staturali sono stati ricavati per 10 maschi ma soltanto per 2 femmine. Romans d'Isonzo costituisce una vasta necropoli, composta da oltre 150 sepolture (MASELLI SCOTTI 1989), delle quali finora è stato possibile indagarne antropologicamente soltanto una ventina (BARTOLI et al. 1989). Castel Trosino, infine, presenta le stesse limitazioni di Testona: anche in questo caso, infatti, sono conservati soltanto 19 crani recuperati dalle 268 tombe portate in luce da scavi ottocenteschi (KISZELY 1971, pp. 115-121). Il confronto, eseguito a sessi separati, si basa sull'esame dei caratteri metrici del cranio, elemento scheletrico più significativo per rilevare somiglianze o differenze tra gruppi diversi. Il metodo statistico utilizzato è quello del "t di Student", (THOMA 1985, pp. 101-103) che a ciascun valore relativo ad ognuno dei 10 caratteri metrici cranici non correlati tra loro 12 associa un valore di probabilità che esprime se i due gruppi confrontati presentano, per quel carattere, differenza altamente significativa, mediamente significativa o non significativa; in quest'ultimo caso la probabilità che, per quel carattere, i due gruppi posti a confronto appartengano allo stesso universo è effettivamente reale. È però necessario sottolineare che si tratta quasi sempre, soprattutto per il sesso femminile, di confronti tra piccoli gruppi e che l'incompletezza del materiale scheletrico relativo a ciascun sito ha consentito di confrontare soltanto in pochissimi casi tutti i 10 caratteri metrici, rendendo più problematica la lettura dei risultati ottenuti. Le serie scheletriche di Acqui Terme e del Battistero di Chieri hanno infine permesso il confronto dei soli soggetti maschili, essendo i campioni femminili troppo limitati e non utilizzabili in analisi statistiche. Una volta definite, con questo metodo, le affinità a livello cranico, sono stati presi in esame i valori dell'indice cranico orizzontale e, quando possibile, quelli staturali. I risultati dell'applicazione del "t di Student" sono mostrati nella Tab. 2. Riguardo al sesso maschile, i gruppi che sembrano presentare maggiore affinità antropologica, a livello cranico, con quello di Centallo, sono Castel Trosino, Testona e Chieri, che presentano entrambi 5 differenze non significative; Acqui Terme, S. Vigilio, Cividale e Romans - per il quale è però confrontabile un minor numero di caratteri - ne mostrano 3. Meno indagabile è il grado di affinità con il gruppo di La Perosa, essendo confrontabili soltanto 4 caratteri, dei quali 2 presentano differenze non significative. Per il sesso femminile il maggior numero di differenze non significative si realizza nel confronto con Testona, nel quale se ne osservano 3; Castel Trosino e S. Vigilio ne mostrano entrambi 2. Più difficile da stimare è il grado di affinità con Romans, Cividale e La Perosa: rispetto a Romans si osserva infatti una differenza non significativa; Cividale e La Perosa consentono invece il confronto solo di 3 e 2 caratteri, che mostrano tutti differenze non significative rispetto a Centallo. In conclusione, a sessi uniti, il gruppo di S. Vigilio di Trento, riferibile ad una popolazione di IV secolo, sembra il meno affine in assoluto a quello di Centallo, presentando soltanto 5 differenze non significative su un totale di 18 caratteri confrontabili, essendo orientato prevalentemente sulla
mesocrania e mostrando valori staturali nettamente inferiori, pari in media a circa 169 cm per i maschi ed a 154,5 cm per le femmine i3. Non completamente indagabile, data l'impossibilità del confronto tra i soggetti femminili, appare l'affinità con i gruppi di Acqui Terme e del Battistero di Chieri, anche se i campioni maschi sembrano mostrare, soprattutto nel secondo sito, un discreto grado di affinità con quello di Centallo. I valori staturali maschili, nonostante la presenza, sia ad Acqui che a Chieri, di alcuni soggetti molto alti, rimangono in media inferiori a quelli di Centallo; quelli femminili, invece, r~sultano med~amente minori ad Acqui e superiori a Chieri. Gli individui di Cividale sembrano abbastanza distanti da quelli di Centallo: tra i caratteri metrici cranici 6 su 10 mostrano differenze non significative, ma i valori dell'indice cranico orizzontale attestano, accanto ai prevalenti soggetti dolicocranici, altri meso - e brachicranici; i valori staturali sembrano inoltre nettamente più bassi per entrambi i sessi (tra i maschi, soltanto 2 individui su 10 superano i 170 cm di statura). Discretamente affini sembrano i gruppi di Testona e di Castel Trosino, che mostrano rispettivamente 8 e 7 differenze non significative su 19 caratteri complessivamente confrontabili. L'impossibilità di valutare i valori stàturali di questi due siti impedisce però di evidenziare ulteriori affinità o differenze. Una buona somiglianza sembra registrarsi anche con Romans d'Isonzo e con Rivoli La Perosa, soprattutto riguardo ai valori staturali; il fatto che a livello cranico siano confrontabili soltanto pochi caratteri (11 a Romans, dei quali 4 presentano differenze non significative rispetto a Centallo, e 6 a La Perosa, con 4 differenze non significative) non consente però una buona valutazione dell'affinità tra i gruppi. Le stature risultano, in entrambi i sessi, mediamente minori ]4 a La Perosa rispetto a Centallo, e mediamente analoghe a Romans is; riguardo al sesso maschile i valori più elevati non raggiungono però quelli massimi di Centallo. Antropologicamente, quindi, gli individui di Centallo sembrano appartenere ad un gruppo, piuttosto omogeneo, che presenta buone affinità con quelli delle necropoli dell'Italia centro-settentrionale definite come "longobarde", dai quali tuttavia si distacca per la decisa dolicocrania in entrambi i sessi e per le stature maschili straordinariamente elevate, presentando quindi caratteri "nordici" particolarmente evidenti. Sarebbe stato significativo, per confermare ulteriormente queste conclusioni, almeno limitatamente ai principali caratteri metrici cranici, procedere al confronto, utilizzando lo stesso metodo statistico, tra gli individui di Centallo e quelli delle necropoli altomedievali dell'Europa centro-orientale, riferibili a popolazioni germaniche e longobarde, analizzate da Kiszely. Sfortunatamente il lavoro di sintesi eseguito da questo Autore, riporta, per ogni carattere metrico relativo agli individui di ciascuna necropoli, soltanto i valori minimi, massimi e medi, rendendo impossibile qualsiasi analisi statistica. Viene così a mancare, almeno per il momento, la possibilità di una verifica che sarebbe stata di fondamentale importanza per confermare o meno le conclusioni precedentemente formulate. La precisa caratterizzazione fenotipica contraddistingue, infine, il gruppo altomedievale, definibile quindi come longobardo, di Centallo rispetto a quelli, più tardi, del Piemonte medievale. Sia gli individui appartenenti alla seconda fase di utilizzazione, di XIII-XIV secolo, della stessa chiesa cimiteriale (Cooperativa "Anthropos", dati inediti), che quelli delle cospicue serie scheletriche del Priorato di S. Pietro a Cavallermaggiore (RONCO 1990a e b) e dell'Abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese (Cooperativa "Anthropos", dati inediti) presentano infatti indice cranico orizzontale orientato prevalentemente verso la brachicrania; i valori staturali a Centallo rimangono particolarmente elevati (evidentemente in seguito a diretta continuità genetica con il gruppo altomedievale) - addirittura aumentando in media per entrambi i sessi - mentre negli altri due siti, raggiungono in media i 170 cm per i maschi ed i 157 per le femmine. Il tentativo di valutazione del cosiddetto "stato di salute" del gruppo inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo, prendendo in considerazione l'incidenza degli indicatori scheletrici e dentari di stress (Tab. 3), può essere soltanto parziale, data l'incompletezza della maggior parte delle entità scheletriche e la conseguente impossibilità di una esatta valutazione della loro frequenza. I bambini e gli adolescenti sembrano essere stati sottoposti soltanto a stress di origine nutrizionale o carenziale, rimasti documentati dall'ipoplasia dello smalto 16, dai cribra orbitalia 17 e dalla carie
dentaria 18. La frequenza piuttosto elevata dei relativi indicatori, soprattutto dei cribra orbitalia, che sembrano colpire oltre la metà dei bambini, la stessa incidenza e distribuzione della mortalità infantile e la frequenza dell'ipoplasia negli individui adulti, sottolineano le condizioni sfavorevoli nelle quali vivevano i soggetti immaturi, esposti a patologie di varia origine e soggetti a deficit nutrizionali o a stati anemici da carenza di ferro. Con l'età adulta veniva a determinarsi anche una notevole esposizione ai traumi, ai processi infettivi, attestati dagli esiti di periostite 19, ed alle patologie da usura, quali le manifestazioni osteoartrosiche 20 e le alterazioni entesopatìche 21. L'incidenza di questi indicatori scheletrici di stress sembra significativamente diversa nei due sessi. I soggetti maschili sembrano essere stati più sottoposti a stress funzionali, conseguenti ai traumi ed alle patologie "da usura". Mentre i primi possono essere stati causati dallo svolgimento di particolari attività fisiche non esenti da rischi, la maggiore incidenza dei fenomeni osteoartrosici sembra essere soltanto causata dalla maggiore longevità dei maschi rispetto alle femmine: questi, rappresentando infatti normali degenerazioni legate al processo di invecchiamento, colpivano in minor misura le donne, i cui decessi erano assai più precoci di quelli maschili. La periostite, che sembra interessare assai più i maschi rispetto alle femmine, nei quali colpisce prevalentemente le ossa degli arti inferiori, potrebbe essere stata causata da traumi che non arrivavano ad interessare il tessuto osseo o da abitudini esclusive del sesso maschile, come, ad esempio, l'eccessivo uso del cavallo (ALCIATI et al. 1987, p. 140). Il fatto che le patologie dentarie appaiano, al contrario, costantemente più gravi nel sesso femminile sembra di particolare rilievo, soprattutto tenendo conto la minore longevità delle donne rispetto agli uomini e l'insorgenza più precoce della carie dentaria. Responsabili dell'incidenza di questa patologia potrebbero essere stati le ripetute gravidanze 22 ed i lunghi periodi di allattamento cui nelle antiche popolazioni le donne erano soggette fino dall'adolescenza. L'incidenza delle patologie e degli indicatori di stress, nel gruppo umano inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo, notevole sia nei bambini che negli adulti e forse stimata per difetto, non deve essere considerata come contrastante con lo status sociale elevato che le caratteristiche strutturali delle sepolture e lo stesso uso di una chiesa sepolcrale "privata" fanno presupporre. Nelle antiche popolazioni, e soprattutto in età altomedievale, le condizioni igieniche e sanitarie potevano infatti essere assai precarie anche per gli strati sociali più elevati; la mortalità infantile non era necessariamente collegata ad una bassa qualità della vita; squilibri e carenze alimentari potevano caratterizzare anche diete "ricche". Per individuare il tipo di alimentazione del gruppo sono state condotte analisi paleonutrizionali tramite spettroscopia ad assorbimento atomico, analizzando frammenti ossei relativi a 24 soggetti adalti, 11 maschili e 13 femminili. Sono stati saggiati tre elementi: il Calcio, che fa parte della matrice ossea, lo Stronzio e lo Zinco, presenti nell'osso come elementi in traccia 23. Questi ultimi rappresentano veri e propri "elementi guida" della nutrizione, markers ossei delle condizioni alimentari delle popolazioni del passato. Lo Stronzio, infatti, presente in quantità elevate nei vegetali, si trova nell'osso umano in concentrazioni direttamente proporzionali all'importanza, nella dieta, degli alimenti vegetali. Lo Zinco, contenuto nella carne (soprattutto in quella rossa), ma anche nei crostacei, nei legumi e nella frutta secca, caratterizza invece l'alimentazione a base carnea, costituendo in un certo senso il corrispettivo dello Stronzio nei confronti delle proteine di origine animale. I risultati delle analisi (Grafico 7) evidenziano elevatissimi valori di Stronzio e bassi valori dello Zinco, senza particolari differenze tra i due sessi. Si può quindi avanzare l'ipotesi di un'alimentazione basata prevalentemente sul consumo di vegetali, soprattutto cereali, con scarsi apporti di carne. Queste conclusioni appaiono particolarmente significative, dal momento che il modello produttivo-alimentare delle popolazioni seminomadi germaniche era di tipo silvo-pastorale, basato sullo siruttamento delle risorse dell'incolto e quindi sulla caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei e l'allevamento - soprattutto suino - allo stato semibrado e prevedeva un notevole consumo di carni (MONTANARI 1988, PP. 13-21). Il fatto che un gruppo altomedievale di origine germanica
abbia profondamente mutato le sue abitudini alimentari indica la sua stabilizzazione sul territorio e conferma l'adattamento al modo di vita delle popolazioni autoctone. ELENA BEDINI, FULVIO BARTOLI, LAURA PAGLIALUNGA, FEDERICA SEVERINI, ANGELICA VITIELLO
Ringraziamenti Esprimiamo la nostra più viva riconoscenza alla Dott. Liliana Mercando, Soprintendente Archeologo del Piemonte, per la fiducia che ci ha accordato, affidandoci in studio i reperti antropologici di numerosi siti piemontesi. I nostri più cordiali ringraziamenti vanno alle Dott. Luisella Pejrani, Giulia Molli Boffa Egle Micheletto, Gabriella Pantò ed al Dr. Alberto Crosetto, della Soprintendenza Archeologica del Plemonte, che ci hanno fornito numerosi consigli ed informazioni utili per la stesura di questo lavoro. Ringraziamo anche la nostra collega Dott. Maria Paola Antonioli, che ha partecipato alle fasl preliminari di preparazione e schedatura dei materiali. Rivolgiamo infine un particolare ringraziamento al Prof. Francesco Mallegni, del Dipartimento di Scienze Archeologiche dell'Università di Pisa, per la sua consueta disponibilità nella supervisione scientifica e nella revisione critica del lavoro. 1 Per il momento soltanto le serie scheletriche di S. Vigilio di Trento (CORRAIN-CAPITANIO 1979), del Battistero di 8. Giovanni a Milano (CORRAIN 1972) e della necropoli di S.Stefano "in Pertica" a Cividale del Friuli (CORRAIN CAPITANIO 199O). Per i siti piemontesi di Villaro di Ticineto (DORO GARETTO-DARDANO 1983) e 8. Michele di Trino Vercellese (DORO GARETTO LIGABUE STRICKER 1988; DORO GARETTO 1991) sono ancora inedite le complete analisi antropologiche. Lo studio dei resti scheletrici di Rivoli La Perosa (Torino) è attualmente in corso di completamento (Cooperativa "Anthropos", dati inediti). 2 Verona Via Monte Suello (CORRAIN CAPITANIO 1971), Brescia (KTSZELY 1972); Nuvolera (CAPITANIO 1979a); Alice Castello (PANTÒ et al. 1993). 3 Sovizzo e Vigo di Legnago (CORRAIN PICCININO 1965), Reggio Emilia (SCAGLIONI 1967). Mossa (GALLO 1969); Fiesole (KTSZELY 1970); Nomi (CAPITANIO 1973); Rivoli Rocca (CORRAIN 1976), Vezzano (CAPITANIO 1976); Pettinara (SORCETTI et al. 1978),8. Polo di Brescia (CAPITANIO 1979 b); Vione (ERSPAMER et al. 1979), monastero di Santa Giulia a Brescia (BROGIOLO CUNT 1988); Monte Barro (CATTANEO 1991); Costa Balenne (CORRATN et al. 1988). 4 Villanova di Farra (BEDINI 1988); Romans d Isonzo (BARTOLI et al. 1989). 5 Testona (KTSZELY-SCAGLIONI 1969); Castel Trosino (KTSZELY 1971). 6 Negli individui adOlti il sesso è stato determinato secondo i criteri riportati da FEREMBACH et al. 1979; I'età di morte, in base alla maggiore o minore completezza delle entità scheletriche, secondo il grado di saldatura della sinfisi pubica (UBELAKER 1978); all'usura dentaria (MILES 1963) ed al grado di sinostosi delle suture craniche, pur riconoscendone le limitazioni (MASSEI 1987, p. 65; I(RAMAR STMON 1987, pp.123-128). Solo per le entità scheletriche complete in tutti i distretti è stato possibile applicare il metodo combinato descritto in FEREMBACH et aL 1979. 7 Questa situazione si registra nella maggior parte delle necropoli medievali italiane - anche geograficamente distanti oggetto di accurati scavi stratigrafici e sottoposte ad analisi paleOdemografiche: Cavallermaggiore (RONCO 199O a e b); San Benigno Canavese (Cooperativa Anthropos, dati inediti), S. Michele di Trino (DORO GARETTO-LIGABUE STRICKER 1988; DORO GARETTO 1991); 51illaro di Ticineto (DORO GARETTO-DARDANO 1985), Sarezzo e Villa Carcina (MAZZA 1985-86); S. Maria della 8cala a 8iena (BEDINI VALASSINA 1991); Mola di Monte Gelato
(CONHEENEY 199O); Malborghetto (BEDINI dati inediti), ierme di Venosa (MACCHIARELLI SALVADEI 1989). Prevalenza, più o meno evidente, di soggetti adulti Si osserva anche in altre cospicue serie scheletriche dell'Italia settentrionale: paleocristiani del Battistero di Milano (CORRAIN 1972); paleocristiani del Duomo di Trento (CORRAIN CAPTTANIO 1979), longobardi della necropoli di 8. 8tOfano "in Pertica" a Cividale del Friuli (CORRAIN CAPITANIO 1990); medievali di Torcello (CORRAIN CAPITANIO 1967; CAPITANIO-ERSPAMER 1987). Si discostano da questo modello di mortalità la piccola area cimiteriale di Torre di Morro (BEDINI c.s.) e le necropoli toscane di 8. Maria all Impruneta (FORNACIARI 1981) e di S. Vito di Calci (FORNACIARI et al. 1986). 8 In mancanza di appropriati dati di confronto con necropoli coeve italiane si rimanda ad ALDUC LE BAGOUSSE PILET LEMIERE 1986, che nel caso di aree cimiteriali della Normandia registrano una modificazione delle pratiche funerarie relative ai bambini, soprattutto ai neonati che soltanto dall'XI secolo in poi, con l'istituzione delle chiese parrocchiali, vengono sepolti negli stessi cimiteri degli adulti. 9 “Una delle spie per individuare indirettamente le condizioni di nutrizione di una popolazione è rappresentata dalla mortalità infantile: tanto più questa è elevata, tanto più vi concorrono malattie di natura gastrointestinale, tanto più siamo autorizzati a pensare di trovarci di fronte a una situazione di diffusa e generale malnutrizione. (...) Del resto questo tipo di disturbi affliggeva largamente anche la popolazione adulta, nella quale era solo maggiore forse il grado di resistenza e minore quindi il rischio di letalità”. (MAZZI 1981, PP. 329-330). 10 Infatti (cfr. SOLTNAS 1986, PP. 99-100) quasi sempre il paleodemografo opera su una “psendo-popolazione” formata dal totale di tutti i soggetti deceduti, considerati come vissuti contemporaneamente e quindl appartenenti ad una stessa generazione, ma, in realtà, vissuti in momenti diversi delía storia demografica della popolazione che possono, talvolta, comprendere anche intervalli cronologici di più secoli. Si tratta, quindl, di un “modello statistico di popolazione” e non di una vera e propria popolazione, che illustra “l'assetto demografico del gruppo studiato se nei suoi cicli vitali esso seguisse regolarmente le norme di probabilità che si ricavano dall'analisi delle serie diacroniche dei decessi condensati in una ponolazione - somma finale” (SOLINAS 1986, P. 100), per la quale si assume, inoltre, che il tasso di natalità e di mortalità non abbiano subito variazioni apprezzabili nel tempo (popolazione stazionaria). 11 I caratteri metrici e morfometrici del cranio e dello scheletro postcraniale sono stati rilevati secondo MARTIN-SALLI R 1956-S9. Per la stima dei caratteri metrici cranici sono stati seguite le valutazioni di HUG 1940. Le capacità craniche sono state calcolate secondo la formula interraziale di Lee Pearson sia al basion che al porion e stimate secondo Sarasin I caratteri morfologici del calvario e della mandibola sono quelli riportati in MALLEGNI et al. 19is, p. 324. 12 Lunghezza massima del calvario, lunghezza basilare del calvario, larghezza massima del calvario; diametro frontale minimo, altezza basion - bregma (maschi); altezza porion - bregma (femmine); larghezza bizigomatica, larghezza orbitaria; altezza orbitaria, larghezza nasale; altezza nasale. La scelta dell'altezza basion - bregma per i maschi e di quella porion - bregma per le femmine è stata dettata soltanto dal maggior numero di dati rilevati. 13 Per questo sito non sono editi i valori staturali individuali. 14 Le stature maschili sono comprese tra circa 162 e 175 cm con una media di 169 cm circa; dei 6 valori calcolati, 3 superano i 170 cm, uno è compreso tra 165 e 170 cm e due cadono tra 160 e 165 cm. Le due stature femminili corrispondono a 150,6 (t.27) e 154,7 cm (t. 34). 15 I valori maschili variano da 164 a circa 176 cm, con una media di 170,5 cm, la sola statura femminile, pari a circa 178 cm, sembra invece sovrastimata, essendo stata calcolata in base alla lunghezza di un solo osso - il radio, che, nella Tabella di TROTTER e GLESER 1958 presenta un elevato errore standard. 16 Cfr. SCHROEDER 1987; REPETTO et al. 1988. 17 Cfr. FORNACIARI MALLEGNI 1981 e 1989; MOLLESON 1987; REPETTO et al. 1988; RUBINI et al. ]990. 18 Cfr. ORTNER PUTSCHAR 1985. 19 Cfr. ORTNER PUTSCHAR 1985; MANN-MURPHY 1990. 20 Cfr. FANTINI 1983; ORTNER PUTSCHAR 1985. 21 KENNEDY 1989; MANN-MURPHY 1990. 22 DE MICHELIS et al. 1992. 23 Cfr. FORNACIARI 1989; FORNACIARI-MALLEGNI 1989 e relative bibliografie. 24 Cooperativa Etnoantropologica e Paletnologica "Anthropos", Pisa. Dipartimento di Scienze Archeologiche, Università degli Studi di Pisa.
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Alcune riflessioni sulla "ideologia funeraria" longobarda alla luce del recente scavo nella necropoli di S. Martino a Trezzo sull'Adda
In attesa che venga ultimato l'esame analitico dei materiali e si possa procedere ad un più accurato resoconto dei dati di scavo e ad un più organico sforzo di interpretazione critica delle evidenze materiali, colgo l'occasione di questo incontro per una ulteriore riflessione sulle tappe di sviluppo del nucleo cimiteriale di Trezzo, loc. S. Martino 1. Questa volta l'attenzione sarà rivolta in modo particolare alla sequenza stratigrafica accertata delle sepolture e alla loro logica distributiva in relazione all'edificio che nel medioevo risulta intitolato a S. Martino: elementi che - come si vedrà sembrano riflettere un processo di trasformazione dell'ideologia funeraria longobarda e richiamarsi a modelli di comportamento ben individuati in area alamanna e, più in generale merovingia. 1. La sequenza individuata 1.1 Uso funerario dei resti di una villa romana Nell'ambito di una villa romana abbandonata, non sappiamo se totalmente o con un settore ancora attivo ed abitato, e presso i resti di un locale quadrangolare (difficile dire se rovinato o ancora coperto) vi è l'inserimento di una sepoltura (Us 237) di datazione problematica, data la mancanza di elementi del vestiario e del corredo. 1.2 "Fondazione" del cimitero germanico (Fig. 1) A sud di questo locale (conservato ancora, almeno parzialmente, in elevato), viene installata una sepoltura importante (Us 332): dalle tracce di travi orizzontali rimaste sul fondo, essa può essere riferita al tipo a camera lignea; fu asportata in antico, forse in occasione della costruzione della prima chiesa - se si trattava di una struttura emergente sopra terra (Grabanlage) -, o in occasione della ricostruzione romanica, se era una semplice struttura lignea completamente interrata 2. In una tomba ossario più recente, di cui si parlerà oltre, sono state rinvenute anche ossa animali, probabilmente equine. L'originaria inumazione di un cavallo potrebbe essere avvenuta proprio nella sepoltura con camera lignea, apparentemente la più ampia, antica e prestigiosa della necropoli 3. In relazione con essa sembrano essere state altre due tombe, a fossa terragna, che la affiancavano a nord (Us 234, dove è deposto un adulto di sesso imprecisato) e a sud (Us 310, dove sono sovrapposti due individui di sesso maschile, un giovane e un adulto). Tutti gli inumati sono privi di qualsiasi elemento del vestiario o del corredo e potrebbero appartenere ad uno strato sociale inferiore. Non sono stati disturbati da alcuna spoliazione; solo la tomba meridionale è stata appena intaccata, più tardi, dal perimetrale della prima chiesa altomedievale. In questo nucleo sembra riconoscibile, per rapporti planimetrici e cronologici, il polo generatore del cimitero. 1.3 Sviluppo del sepolcreto famigliare Intorno a questa tomba a camera lignea si dispongono, con andamento, sembra, leggermente a raggera, altre sepolture forse attribuibili a membri dello stesso nucleo famigliare 4. Queste a loro volta sono circondate da altre inumazioni sostanzialmente coeve, ma appartenenti ad individui di livello sociale decisamente inferiore s soli elementi presenti sono i pettini e i vaghi di collana, oltre a un vasetto e a una fibbia in bronzo a placca fissa di tipo bizantino. In due casi sono documentate tombe multiple (forse famigliari).
Tutte le sepolture presentano orientamento Est-Ovest, con qualche oscillazione dell'asse non sempre individuabile con certezza nella sua inclinazione originaria dal momento che in molti casi i tagli originari delle fosse sono stati disturbati dalla successiva aperture dei sepolcri e dall'esumazione dei resti scheletrici o casualmente da lavori edilizi di età postmedievale. Dubbi permangono circa lo status sociale di alcune tombe esterne alla chiesa, sempre con orientamento Est-Ovest: l'una (Us 316), maschile, situata a meridione sull'allineamento delle tre tombe che verranno inglobate nel coro, le altre due (Us 122 e 309, la prima delle quali femminile) sulla fila immediatamente a Est del coro stesso. Anche se il campione è numericamente non molto consistente e incertezze permangono sull'identità sessuale di alcuni individui, il gruppo famigliare pare connotato dalla presenza di ambo i sessi, con una prevalenza dell'elemento femminile, e di infanti o adolescenti. Purtroppo manca qualsiasi informazione sulla tomba che, in seguito alla costruzione dell'edificio religioso, verrà a trovarsi davanti al presbiterio (Us 319), a causa della sua quasi totale asportazione. La conoscenza di tale sepoltura infatti, avrebbe dato un contributo importante alla comprensione della dinamica di sviluppo del cimitero; questo sembra comunque interessare solo un paio di generazioni e svilupparsi - stando ai dati disponibili - non oltre gli anni 30 del sec. VII. 1.4 I dati cronologici offerti dai materiali di corredo L'unico contesto chiuso di cui disponiamo per la datazione di questa piccola necropoli è rappresentato dal corredo della tomba maschile Us 345; la definizione cronologica delle altre sepolture si basa solo, nel migliore dei casi, su associazioni parziali di elementi dell'abbigliamento e dell'ornamento personale o, in due casi, su crocette auree sfuggite alla spoliazione. Anche se lo studio dei manufatti, tuttora in corso, potrà determinare ulteriori precisazioni, le sepolture più recenti, utili a fornire un termine post quem per la costruzione della chiesa, sono proprio le due coperte dalla facciata. La tomba femminile Us 351 (violata in antico) denota l'appartenenza ad una defunta di rango molto elevato, sepolta intorno al 630 circa, per la presenza del broccato, di una guarnizione di calzatura in argento dorato e niellato (Tav. VIIIa), di chiodini di fissaggio in oro, di un elemento in osso lavorato (riconducibile forse all'intarsio di una cassettina), di piccoli vaghi di collana di tradizione romana; è la guarnizione che offre il termine cronologico più indicativo, in base allo stile decorativo impiegato 6. La presenza del broccato d'oro, se effettivamente era riservato solo ai nobili 7, fornisce un'indicazione preziosa sullo status sociale di questa defunta, il più elevato dopo quello dell'inumato in camera lignea che pare aver dato origine al piccolo cimitero. Il ragazzo della tomba Us 345, dell'età di 11-12 anni, nonostante l'assenza del broccato e la mancanza dello scudo 8, rivela la sua appartenenza alla classe sociale più elevata per la presenza del corredo "da tavola" costituito da un bacile in bronzo fuso e una fiasca tirata a martello 9. Il fodero della spatha con rinforzi laterali in ferro ageminato, lo scramasax corto e soprattutto le guarnizioni della cintura quintupla ageminata (Tav. VIIIb-c), dotata di bottoni piramidali in osso, e la crocetta in lamina d'oro indicano una datazione intorno al 630 d.C. 1O. Dalle restanti sepolture che verranno a trovarsi comprese nel perimetro della chiesa medievale i~, tutte manomesse in antico, provengono altre tre croci auree, che non offrono puntuali riferimenti cronologici 12; solo quella della Us 209 non sembra superare il 620 circa. In questa tomba femminile di infante sono stati rinvenuti, oltre ad un paio di orecchini d'oro ad anello con chiusura a pressione, alcuni vaghi di collana che, in base a precisi confronti, sono da ricondurre al massimo ai primi anni del VII secolo. Altri vaghi provengono dalla Us 193 e, fra le sepolture esterne all'area che verrà interessata dalla costruzione dell'edificio sacro, dalle Us 122 (Tav. VIIId), 346,408,405, 403. L'analisi evidenzia come fra le collane non ci siano scarti cronologici rilevanti, anzi l'insieme dei monili si presenta piuttosto omogeneo, con la presenza dei vaghi più semplici in tutti gli esemplari e di quelli più elaborati attestati in più di una collana 13. I1 dato è significativo perché indica una
cronologia ristretta per tutto il nucleo cimiteriale. I rimanenti reperti rinvenuti non aggiungono precisazioni cronologiche 14. Accenno poi, brevemente, alla presenza in alcune sepolture di elementi quali carboni (Us 332,310,234,237,345), ossa animali (Us 309,209,247, 237, 168), conchiglie o gusci d'uovo (Us 237,345) ed elementi floreali o semi (Us 237, 345, 407) 15. Le tombe presentano infine, sotto il profilo strutturale, diverse tipologie: oltre a semplici fosse terragne sono documentate recinzioni in ciottoli, talora con aggiunta di laterizi, fosse con fondo in laterizi frammentari o in altro materiale romano di recupero (piastrelle in pietra, intonaci dipinti, tessere musive), strutture in cocciopesto. Frequente è risultato l'uso della bara lignea, soprattutto nelle sepolture più ricche. La parte superiore del riempimento della Us 345 poi, era costituita da ciottoli di medie e grandi dimensioni, in maggior numero in corrispondenza del centro del taglio; si potrebbe pensare che si tratti di quanto resta di un originario tumulo di sassi ceduto dopo che la bara è marcita e livellato in occasione della costruzione della facciata altomedievale della chiesa. 1.5 Costruzione della chiesa (Fig. 2) Probabilmente intorno alla metà o seconda metà del sec. VII, per iniziativa di un membro della famiglia, viene commissionata la costruzione di un edificio di culto che comporta il livellamento dei ruderi romani entro lo spazio destinato all'aula e la rimozione parziale delle strutture della camera lignea eventualmente ancora emergenti sul terreno. Circa la relazione tra le sepolture longobarde e il più antico luogo di culto in muratura, i rapporti stratigrafici suggeriscono la recenziorità di quest'ultimo; tuttavia non si può non rilevare come le sepolture 209, 247, 349 risultino perfettamente inserite nel presbiterio rettangolare dell'edificio che parrebbe averle intenzionalmente rispettate; la tomba 319 viene a trovarsi sull'asse della chiesa, in posizione chiaramente privilegiata; le sepolture 313, 345,351 sono infine coperte dalle fondazioni della facciata della chiesa che sembra averle in qualche modo "sigillate". Nella costruzione dell'edificio di culto all'interno della necropoli sembrano quindi riconoscibili criteri precisi, che riflettono un particolare rapporto del fondatore nei confronti di alcuni inumati 16. Nonostante non si disponga di contesti chiusi, ad eccezione della tomba 345, si ha motivo di ritenere che le sepolture comprese nell'edificio sacro appartenessero a defunti di rango sociale più elevato rispetto agli altri inumati, a giudicare dai segni di agiatezza e di prestigio che le accomunano: le fosse sepolcrali sono più profonde, alcune sono dotate di una struttura interna di recinzione che doveva accogliere la bara in legno e una doveva contenere una camera lignea. Inoltre, dove lo svuotamento non è stato totale, i reperti ritrovati testimoniano la presenza originaria di ricchi corredi, a differenza di quanto è constatabile per le sepolture esterne, contenenti per lo più solo collane e pettini. All'interno dell'edificio di culto l'unico piano di calpestio messo in luce e di una qualche consistenza materiale (Us 107), risulta connesso al presbiterio rettangolare medievale e sovrapposto al riempimento delle tombe 209, 247,349 dopo la loro violazione. A meno che tale piano non sia da interpretare come relativo ad un livellamento delle murature presbiteriali, esso parrebbe indicare dunque la posteriorità di questa porzione almeno dell'edificio rispetto al momento di svuotamento delle sepolture. Ciò è peraltro palesemente in contrasto con gli altri dati che manifestano nell'impianto perimetrale del presbiterio la volontà di rispettare le tre tombe. Inoltre i rapporti stratigrafici segnalano che lo svuotamento della tomba 319 è avvenuto contemporaneamente a quello della tomba 314 che si era successivamente impostata su di essa, con orientamento N-S (diversamente da tutte le altre sepolture, orientate E-W) e proprio sulla mezzeria dell'edificio, quasi presupponendolo. L'ubicazione di questa seconda inumazione sembra giustificarsi proprio in ragione di una relazione con il defunto della tomba sottostante e, forse, con la prossimità al luogo dell'altare, non individuato probabilmente perché asportato dalla costruzione di un muro moderno della cascina. Poiché i dati di scavo sembrano suggerire una sostanziale contemporaneità nell'apertura delle tombe, sembra logico ipotizzare che questa sia avvenuta quando era già stato edificato un luogo di culto, nel
rispetto di un nucleo cimiteriale che, come si è visto, presentava caratteri di privilegio. Questa ipotesi è confermata da un altro elemento: le sepolture 321 e 345 sono coperte dal muro di facciata dell'edificio che, come si è detto, sembra averle intenzionalmente sigillate, quasi ad impedirne la violazione; in effetti la tomba 345 è l'unica ritrovata intatta con il ricco corredo, mentre la 351 è stata quasi completamente svuotata solo in seguito al rinvenimento fortuito della struttura in occasione di un intervento edilizio in facciata. In conclusione non mi sembra inverosimile ipotizzare che la chiesa medievale intitolata a S. Martino ricalchi un primo edificio-mausoleo di età longobarda, impostato in parte su ruderi di età romana. Di tale edificio sarebbero sopravvissuti solo residui dei perimetrali - di antica o nuova costruzione (Us 333,327,282,195,194,283), ma nessun piano pavimentale, scomparso in seguito alle successive ricostruzioni dell'edificio in età medievale e moderna. 2. Il possibile committente Considerata la disposizione delle tombe più antiche e la particolarità della sepoltura 314 (appartenente ad un uomo di età matura), l'unica inserita nella nuova costruzione e posta davanti all'ingresso del presbiterio, in rapporto diretto e apparentemente intenzionale con la sottostante fossa tombale, è lecito ipotizzare, per i caratteri di unicità e la successione cronologica, che si tratti del fondatore. La quota di affioramento del cranio di questo inumato (203.36) fornisce inoltre un'indicazione preziosa per il ricollocamento ideale del primo pavimento della chiesa, confermando che questo doveva trovarsi al di sopra della quota di affioramento delle fondazioni delle lesene del perimetrale nord (203.60). Poiché la quota (203.28) del piano di cantiere Us 107 individuato nel coro ed attribuito alla ricostruzione "romanica" è inferiore a quella del primo pavimento, se ne ricava che la successiva pavimentazione fu più bassa della precedente e ne determinò la scomparsa. Essendo poi quest'ultima quota inferiore anche a quella di affioramento del cranio dell'inumato della tomba 314, si potrebbe pensare che quando era in uso il piano Us 107 il defunto sia stato parzialmente protetto da qualche struttura emergente sul piano pavimentale. Presso la porzione conservata dello scheletro non è stato rinvenuto alcun elemento di corredo, ma non abbiamo la certezza che al momento della deposizione il defunto ne fosse sprovvisto )17. L'insieme dei dati suggerisce la possibilità che l'inumato della tomba 314 sia un discendente della famiglia sepolta nell'area, ormai convertito al cattolicesimo e che forse ha deciso la costruzione della chiesa pro remedio animae. Avrebbe così conciliato da un lato il desiderio di preservare le sepolture dei suoi antenati e dall'altro la prassi diffusa fra le élites cristiane delle donazioni per la salvezza dell'anima e delle commissioni edilizie come segno esteriore del prestigio sociale e della propria auctoritas 18. Il lasso temporale intercorso tra le sepolture sotto la facciata (le più recenti del nucleo sepolcrale "sigillato" dall'edificio sacro) e la costruzione della chiesa non può essere circoscritto con precisione, ma se la linea interpretativa proposta è corretta dovrebbe essere breve e forse addirittura ristretto all'arco di vita del parente più vicino alla coppia di giovanissimi inumati: una data nella seconda metà del VII secolo potrebbe essere plausibile. Oltre a quella del probabile fondatore, la sola sepoltura che documenta la continuità d'uso dell'edificio come Grabkirche è la tomba 164. Addossata all'esterno del coro, a nord, è stata rinvenuta già compromessa da scassi moderni; tuttavia ha restituito qualche elemento del presunto corredo originario (un bel pettine in osso riccamente ornato e un coltello in ferro) che permette di collocarla nell'ambito del sec. VII. La posizione e la sicura posteriorità rispetto all'edificio di culto ne suggeriscono l'identificazione con personaggi legati al gruppo sociale sepolto nella chiesa 19. Non abbiamo altre prove, più tardi, di un persistente utilizzo cimiteriale dell'edificio o dell'area circostante. Non è chiaro se ciò rispecchi l'estinzione del gruppo famigliare o rifletta più in generale la pratica invalsa di seppellire i defunti intorno alla chiesa battesimale del villaggio. Sappiamo ancora troppo poco sull'evoluzione dell'insediamento e la distribuzione del popolamento a Trezzo d'Adda in
età altomedievale per avanzare ipotesi in questo senso. Si potranno forse ricavare ulteriori informazioni utili in merito se verranno condotte indagini stratigrafiche nella zona di S. Michele in Salianense, l'area di maggiore potenzialità informativa (almeno stando alle testimonianze documentarie pervenute), distante un chilometro circa dalla Cascina S. Martino 20. Un'ultima nota riguarda la struttura tombale più recente rinvenuta all'interno della chiesa (Us 178, immediatamente a est delle Us 332 e 310) (Fig. 3): costruita con laterizi legati da malta e con il fondo composto da cinque tavelloni legati da argilla, ha restituito parti ossee relative ad almeno 6 individui adulti di entrambi i sessi e 2 infanti. Poiché le sepolture individuate già sconvolte o asportate all'interno della chiesa sono proprio 8 (di cui due certamente femminili e due di infanti), è assai probabile che questa tomba ossario sia da mettere in relazione con le attività connesse all'esumazione dei defunti e alla bonifica del sottosuolo della chiesa avvenuta verosimilmente nell'ambito dei lavori di ricostruzione dell'edificio in epoca protoromanica (se ci affidiamo all'unico elemento utile per la cronologia: un capitello di X-XI secolo reimpiegato nella sacrestia bassomedievale) 2~. Da questa sepoltura provengono anche le ossa animali, probabilmente equine, che ho in precedenza ipoteticamente collegato alla tomba che presentava tracce di una camera lignea. 3. Rapporto con il nucleo nobiliare dei "signori degli anelli" A circa m 200 dalla Cascina S. Martino si trovavano le cinque tombe maschili con ricchi corredi messe in luce durante gli scavi effettuati negli anni 1976-78 Z2; queste sono state attribuite ad un arco cronologico che va dai primissimi anni del sec. VII ad un momento di poco posteriore alla metà del secolo 23. Il cimitero della Cascina S. Martino risulta sostanzialmente contemporaneo a tale nucleo (la tomba con camera lignea suggerisce una datazione alla fine del sec. VI, mentre le due tombe in facciata non superano gli anni '30 del sec. VII) ed è fortemente connotato dalla presenza di donne e infanti, distribuiti intorno ad una tomba a camera lignea, tipologia adottata dai Longobardi già in Pannonia, che potrebbe appartenere ad un membro della generazione immigrata. Ritengo non si possa escludere che si tratti di una necropoli di un nucleo parentale (fara) installatosi presso una villa romana. Si tratterebbe di un'ulteriore testimonianza dello stanziamento della generazione immigrata che proprio nelle terre dell'Adda, a Fara Authari (Fara Gera d'Adda), ha lasciato una così eloquente testimonianza toponomastica 24. Si sente qui l'eco di quel processo di stanziamento e di creazione della proprietà fondiaria che caratterizza le prime fasi dopo la conquista e di cui ancora una volta il testamento di Rottopert permette di cogliere i risultati: grandi possessori beneficiati dalla che, entrata in possesso con Autari e Agilulfo di enormi patrimoni fondiari di origine fiscale e non, crea le basi per la gestione e il potenziamento del regno attraverso una fitta rete di funzionari di fiducia. Pur immaginando facilmente una connessione fra i due nuclei sepolcrali, non ne conosciamo il preciso rapporto a causa dell'impossibilità di effettuare sondaggi archeologici nell'area intermedia, recentemente interessata da una forte espansione dall'abitato di Trezzo. SILVIA LUSUARDI SIENA
1 Le prime notizie deilo scavo, effettuato fra ii 1989 e il 1991, e preliminari riflessioni interpretative delle realtà materiali emerse sono apparse in: S. LUSUARDI SlENA-D. SALSAROLA, Trezzo d'Adda (Ml): Cascina S. Martino, in Notiziario
della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Milano 199O, pp. 170-174, S. LUSUARDI SIENA, Qualche considerazione sulla necropoli longobarda in località Cascina S. Martino a Trezzo sull'Adda (Milano), in Scavi Medievali in ltalia (Quaderni di Archeologia Medievale, 1), Roma 1991, Dp. 9-28, 8. LUSUARDI S;ENA, La necropoliTongobarda in località Cascina S. Martino nel quadro dell'insediamento altomedievale a Trezzo sull Adda (Milano), in G.P BROGIOLO-L. CASTELLETTI (a cura di), 11 territorio tra tardoantico e altomedioevo. Metodi d'indagine e risultati Firenze 1992, Dp. 13 1-148. Desidero ringraziare la dott. Caterina Giostra per l'aiuto nell'analisi dei materiali di corredo. 2 Strutture di questo tipo sono state individuate, oitre che in Pannonia (BONA 1974, p. 243) e in Baviera (A. RETTNER, Bevor FranFen frankisch wurde. Thuringen am Main Bepunde aus dem frnhmittelalterlichen Grdberfeld von Zencleben bei Schmeinfurt, “Bayernspiegel”, 3 1992, pp. 4-9), anche in alcune tombe di capi della Gallia orientale (YOUNG 1986, p. 70) e della Svizzera (M. MARTTN, Le cimitière de B)le-Bernerring (Suisse). Interprétation historique et sociale d'après la chronologie exacte des tombes, in Problèmes de c~ronologie relative et absolue concernant les cimitières mérovingiens d'entre Loire et Rbin, Paris 1978, p. 187). In Italia una tomba con struttura in legno e pali conficcati è stata individuata a Leno (BS), loc. Campi S. Giovanni, durante gli scavi ancora in corso da parte della Soprintendenza Archeologica della Lombardia (segnalazione del dott. A. Breda). 3 Nelle necropoli di età longobarda in Italia la presenza di tombe con cavallo è finora attestata a: Fornovo S. Giovanni (BG) (DE MARCHI-CINI 1988, p. 24), Nocera Umbra, t. 38 (PG) (PASQUI-PARIBENI 1918, p. 238), Povegliano, Ortaia (VR) (L. SALZANI, Povegliano Ortaia (VR), “Quaderni di Archeologia del Veneto”, 1987, pp. 106-107), Bovolone (VR) (L. SALZANI, Bovolone (VR), “Quaderni di Archeologia del Veneto”, 1993, pp. 88-90), Borgomasino (VC) (P SESINO, Le necropoli, in S. LUSUARDI SIENA, L'eredità longobarda. Ritrovamenti archeologici nel milanese e nelle terre dell'Adda, Milano 1989), Bresaz (Istria) (M. TORCELIAN, Le tre necropoli altomedioevali di Pinguente, Firenze 1986), Goito (MN) (E.M. MENOTTI (a cura di) La necropoli longobarda a Sacca di Goito, Mantova 1994). Dieci tombe con cavallo sono state rinvenute a Vicenne (Campochiaro) in Molise (B. GENITO, Tombe con cavallo a Vicenne, in S. CAPINI-A. DI NIRO (a cura di), Samnium. Archeologia in Molise, Roma 1991, pp. 335-338) una necropoli che rivela punti di contatto con l'Europa orientale, dove l'inumazione del cavallo è ricorrente. In ambito longobardo, l'uso in questione è attestato già in Moravia, nel ricco tumulo di Zuran, ed in Pannonia (per esempio a Szontendre, Kajdacs, Vors e Veszkeny), dove era praticato anche dai Gepidi (Batajnica e Kishomok) (I. BONA, A l'aube du Moyen Age, Budapest 1976). Riscontrato nel cimitero del primo periodo avaro di Kornje (Pannonia settentrionale, MENGHIN 1985, fig. 83), tale componente del rituale funerario era nota anche agli Alamanni: si vedano, per esempio, i casi di Niederstotzingen (PAURSEN 1967) e Giengen an der Brenz (P PAUT sEN-H. SCHACH DOERGES, Das alamannische Graberfeld von Giengen an der Brenz (Kr. Heidenbeim), Stuttgart 1978). 4 Si tratta delle sepolture che verranno a trovarsi all'interno della chiesa altomedievale, Us 209, 247, 349, 319, 193, 351, 345, 313. 5 Sono le tombe situate a Ovest delle precedenti. 6 La piccola controplacca reca una decorazione tripartita, formata da due file laterali di due animali ciascuna che si susseguono e una matassa naturalistica centrale, e si conclude con un medaglione. Lo schema tripartito dell'ornato in II Stile animalistico più armonioso, dato da due file di animali che si inseguono e da una matassa zoomorfa centrale (i motivi che l'Haseloff definisce “in rapporto infinito”), è presente sulla maggior parte degli speroni del secondo quarto del sec. VII rinvenuti (Trezzo sull'Adda, t. 5, Borgo d'Ale, t. 2, Castelseprio, Castel Trosino, t. 9), eseguito in agemina e psendo-placcatura. Allo stesso ambito cronologico sono da ricondurre gli speroni della t. 4 di Trezzo sull'Adda (ROFFIA-SESINO 1986, pp. 74-76), gli unici manufatti che, recando una matassa centrale naturalistica e non zoomorfa, riproducono il medesimo schema compositivo della placchetta niellata in questione. Tuttavia, poiché da Sovizzo proviene un insieme di guarnizioni di cintura cosiddetta "a cinque pezzi" (inedito conservato al Museo Naturalistico-Archeologico di Vicenza) risalente agli anni centrali della prima metà del sec. VII e comprendente una controplacca (anch'essa con decorazione tripartita in II Stile animalistico ageminata) con la forma sagomata ed il medaglione terminale che richiamano vistosamente quelli della nostra guarnizione, ritengo di poter estendere ad essa la medesima datazione (cfr. C. GIOSTRA, La produzione metallurgica in età longobarda: le guarnizioni ageminate, Tesi di laurea in Archeologia Medievale, Università Cattolica di Milano A.A.1993-94, relatore Prof.ssa S. Lusuardi Siena). Anche il carattere elementare e non allungato degli animali mal si concilia con la fase più vicina alla metà del secolo. Non mi sono note in Italia altre guarnizioni delle fasce o delle scarpe in argento niellato (i reperti provenienti dalla t. 100 di Nocera Umbra e datati negli anni intorno al 600, sono in argento privo di decorazione o con file di triangoli contrapposti e linee con tracce di doratura incise: cfr. RUPP 1996, p. 104). 7 ROFFIA-SESINO 1986, p.39 e VON HESSEN 1986, p.163. Una messa a punto degli aspetti relativi allo studio dei fili aurei ed un elenco delle tombe altomedievali in Italia che li contengono sono in: I. AHUMADA SILVA-P LOPREATO-A. TAGLIAFERRI (a cura di), La necropoli di S. Stefano in pertica", Città di Castello 1990, pp. 62-66. 8 Il coetaneo inumato nella t. 3 del piccolo nucleo sepolcrale nobiliare rinvenuto a circa 200 metri di distanza, nella stessa località, durante gli scavi effettuati negli anni 1976-78 (ROFFIA-SESINO 1986) aveva con sé spatha, scramasax, lancia e umbone di scudo; anche qui sono presenti i coltellini e una croce in lamina aurea, nonché una cintura quintupla, ma le guarnizioni sono bronzee e non in ferro ageminato come nel caso della tomba Us 345 in esame. 9 L'associazione di brocca e bacile o padella in bronzo nelle sepolture dell'Italia longobarda risulta molto rara. L'unico altro caso a me noto al momento è quello del ricco corredo della t. 17 di Nocera Umbra (RUPP 1996, p. 95). Nei contesti
di età merovin~ia tali presenze si riscontrano in tombe considerevolmente ricche (si pensi, per esempio, aila t. 9 della già citata necropoli nobiliare di Niederstotzingen, PAULSEN 1967, tav. 9). 10 Fra le guarnizioni della cintura, la placca di fibbia con anello, la controplacca, il puntale principale, la placca dorsale e, dei pezzi relativi a due bandoliere, un puntale secondario, recano una decorazione in II Stile animalistico più armonioso realizzata in agemina e pseudoplaccatura. Le cinture quintuple facilmente riconducibili a tale tipologia stilistica non sono numerose (un insieme da Sovizzo, uno da Castelli Calepio e uno da Castione) e coprono un arco cronologico che va dagli anni centrali della prima metà del sec. VII all'inizio della seconda metà. Il nostro insieme sembra appartenere alla fase iniziale di tale periodo, soprattutto a giudicare dalla forma delle guarnizioni (in particolare del puntale principale) e dal tratteggio sui bordi, in alcuni casi ancora a gruppi di due o tre linee separati, elemento costante nella prima produzione ageminata, con motivi in pseudo-cloisonné. Una nota stilistica: nella composizione, eseguita con notevole abilità e precisione, l'intreccio nastriforme acquista un peso rilevante rispetto alle componenti zoomorfe, sempre prive di dettagli costitutivi quali le zampe anteriori e posteriori. Anche la coppia di bottoni piramidali in osso, ulteriori componenti del sistema dl sospensione della spatha, non consente una datazione più bassa degli anni centrali della prima metà del sec. VII. Quanto alla crocetta aurea, l'intreccio animalistico molto serrato e compatto con i nastri di base "a triplice linea" richiama in modo evidente il motivo impresso sulla croce della t. 5 del piccolo nucleo sepolcrale nobiliare rinvenuto in un'altra zona della stessa località (ROFFIA-SESINO 1986, p.96), che è stato inserito nella corrente stilistica indicata dal Roth come Stile IIB2, tipo A (per la successione regolare e continua di teste zoomorfe azzannanti i propri corpi e inserite in un intreccio nastriforme omogeneo), e datato nella prima metà del VII secolo. Nel nostro manufatto, date le dimensioni inferiori e i tagli praticati in senso obliquo, non è possibile individuare l'intero motivo del modano, pur distinguendosi la ripetitività delle teste zoomorfe. 11 Si tratta delle Us 209, 247, 349, 319, 193, 313. 12 Nella Us 209 si trovava una crocetta decorata in Schlaufenornamentik databile fra la fine del VI secolo e i primi decenni del VII; gli altri due manufatti, l'uno recante tre file di piccole punzonature parallele su ciascun braccio (Us 193),1'altro con intreccio di nastri perlinati regolare e simmetrico (Us 313), rimandano ad un arco cronologico più ampio, tra gli ultimi decenni del VI secolo e la prima metà del VII. Per tali manufatti, tuttavia, si attende un'analisi più approfondita. 13 Per la descrizione dei vaghi e la discussione dei confronti e dei dati cronologici e legati alla produzione si rimanda alla pubblicazione analitica dei manufatti, dal momento che l'argomento necessita di un'ampia trattazione. 14 Fra i rinvenimenti segnalo: una fibbia in bronzo a placca fissa di tipo "bizantino", comunemente datata alla prima metà del VII secolo, dalla Us 375; uno spathion di VI-VII secolo dalla Us 247; un vasetto a sacco in ceramica grigia dalla Us 368; frammenti di calici in vetro dalle Us 209 e 247; pettini in osso dalle Us 122, 351, 345, 346, 294, 405, 368, 403 elementi in osso dalle Us 209 e 321, una fusarola fittile e un frammento d'argento dalla sepoltura multipla Us 405; due coltelli provengono dalla Us 34s e uno dalla Us 293. 15 Numerose sepolture contenenti ossa animali e gusci d'uovo sono state rinvenute nella necropoli di Nocera Umbra (RUPP 1996, tavv. 1 e 2). 16 Fra i casi di edifici di culto che sembrano aver monumentalizzato nuclei sepolcrali nobiliari ricordo la struttura di età altomedievale al di sotto della chiesa parrocchiale di Schoftland (Cantone di Zurigo). Al suo interno sono state rinvenute sette sepolture, poste molto in profondità: una risultava inserita nel coro, delle altre, lunco la navata unica, due contenevano i resti di cavalieri, una apparteneva ad una giovane donna. È stata avanzata l'ipotesi che si trattasse di un nucleo famigliare della nobiltà locale (M. MARTIN-H.R. SENNHAUSER-K. VIERCK, Reiche Grabfunde in der frnhmittelalterlichen Kirche von Schoftland “Archaologie der Schweiz”,III,1980,pp.29-55). Sull'argomento si veda: E. SPALLA, Tombe di fondatori ed edifici di culto nella documentazione archeologica dell'età altomedievale (Italia settentrionale e Gallia merovingia) (tesi di laurea discussa presso l'Università Cattolica di Milano, A.A. 1993-1994, relatore Prof. S. Lusuardi Siena). 17 Anche a Morbio Inferiore (Canton Ticino) troviamo un inumato sepolto sotto l'altare, probabilmente nel corso del VII secolo (PA. DONATI, Ritrovamenti dell'Alto Medioevo nelle attuali terre del Canton Ticino, in I Longobardi e la Lombardia Milano 1978, pp. 161-171) così a Hettlingen (Cantone di Zurigo), dove la sola sepoltura inserita all'interno, sulla mezzeria dell'edificio (non però sotto l'altare) e ben relazionata stratigraficamente, è interpretata come quella del fondatore che intorno al 700 ha costruito la chiesa sulle tombe di famiglia dislocate intorno ad una piccola camera funeraria della prima metà del VII secolo (A. ZURCHER, Die Ausgrabungen in der reformierten Kirche Hettlingen, “Zeitschrift fùr schweizerischen Archaologie und Kunstgeschichte”, 41, 1984, pp. 229-248). 18 Un esempio di tale consuetudine lo abbiamo proprio a Trezzo, nel testamento del vir magnificus Rottopert (AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 175-179). 19 Il riempimento della tomba, a cassa di muratura costituita di grossi ciottoli e malta sconvolta dalla costruzione del campanile e poi dell'angolo della cascina nel 1924, ha restituito ossa relative ad almeno due individui adulti e di probabile sesso maschile. 20 La specificazione toponomastica di S. Michele è da collegare con il vicus Salienensis menzionato nelle fonti a partire dall'896, ma che probabilmente, per la sua forma onomastica ha origini ben più antiche. L'area dove, grosso modo, doveva sorgere la chiesa in questione, che è menzionata nella bolla di Adriano IV del 1155 e nel Liber Notitiae Sanatorum Mediolani del sec. XIII, è stata di recente individuata poco a sud di S. Martino, in direzione dell'Autostrada
Milano-Bergamo. Per questo argomento e per un più ampio quadro storico e topografico sul territorio di Trezzo si rimanda a: AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 167-229. 21 A conferma di ciò vi è il fatto che le sepolture sembrano essere state aperte una sola volta e tutte contemporaneamente; questo deve essere avvenuto tempo dopo l'inserimento dell'inumazione Us 314, dal momento che un unico taglio di asportazione ha interessato i riempimenti di questa tomba e di quella sottostante, Us 319. Quindi non si trattò di spoliazioni di poco successive alla deposizione (che avrebbero forse sottratto il corredo lasciando gli scheletri in situ), bensì di un'apertura più tarda, che ha coinciso con l'esumazione dei corpi. Le due tombe in facciata, che dovevano essere entrambe integre al momento della costruzione del primo edificio, confermano che non ci furono spoliazioni iniziali, d'altra parte non avrebbe avuto senso monumentalizzare un'area sepolcrale gia violata. 22 ROFFIA (a CUra dj) 1986. 23 VON HESSEN 1986. 24 AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986.
Bibliografia AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986—A. AMBROSIONI -S. LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell Adda nell'Altomedioevo in ROFFIA (a cura di) 1986, PP.167-234. BONA 1974 - I. BONA, I Longobardi e la Pannonia, in La Civiltà dei Longobardi in Europa, Roma, pp. 241-255. DE MARCHI CINI 1988 — PM. De MARCHI S. CINI, I reperti altomedievali nel Civico Museo Archeologico di Bergamo, Bergamo. VON HESSEN 1986 - O. von HESSEN, Considerazioni sui ritrovamenti di Trezzo, in ROFFTA (a cura di) 1986, PP.163-166. YOUNG 1986 - B.K. YOUNG, Quelques reflexions sur les sépoltures privilégiées, leur contexte et leur évolution surtout dans la Gaule de l'est, in L'inFumation privilégiée du IV au VIII siècle en occident, a cura di Y. DuVal e J.Ch. Picard, Paris. MENGHTN 1985 —MENGHTN, Die Langobarden. Archaologie und GeschicAte, 8tuttgart. PAULSEN 1967 - P. PAULSEN, Alamannische Adelsgrdber von Niederstotzingen (Kr. HeidenFeim), Veroffentl. d. 8taatl. Amtes f. Denkmalpflege Stuttgart, A 12/1. ROFFIA (a cura di) 1986 - E. ROFFIA (a cura di), La necropoli longobarda di Trezzo d'Adda, Firenze. ROFFIA SESINO 1986—E. ROFFIA P SESINO, La necropoli, in ROFFIA (a Cura di) 1986, PP.9-162. RUPP 1996 - C. RUPP, Catalogo, in L. PAROLI (a cura di), Umbria longobarda. La necropoli di Nocera Umbra nel centenario della scoperta, Roma, pp. 89-130.
Calvisano e la necropoli d'ambito longobardo in località Santi di Sopra. La pianura tra Oglio, Mella e Chiese nell'altomedioevo
1. Introduzione Una recente indagine che ha avuto come oggetto l'analisi della distribuzione delle necropoli d'ambito longobardo in Lombardia mi ha permesso di mettere in evidenza alcuni aspetti dell'insediamento altomedievale 1. In particolar modo è risultato evidente che la distribuzione dei ritrovamenti con materiali di corredo funerario "d'arme", relativi quindi a liberi exercitales, a datazione più alta (fossile guida gli umboni a calotta conica o emisferica munita di bottone alla sommità datati ancora al VI secolo, o al massimo alla fine del VI secolo 2, si distribuiscono nella fascia centrale di pianura coinvolgendo i territori comunali o i centri abitati di Sirmione (lago di Garda), Leno (BS) Fornovo San Giovanni (BG), Dovera (CR), Trezzo d'Adda (MI), Nosate (Ticino), con l'eccezione di Ossuccio di fronte all'lsola Comacina. Distribuzione che disegna sul terreno un percorso frastagliato, ma regolare nella continuità, che sembrerebbe confermare come nel primo periodo di occupazione il dominio longobardo non si fosse ancora esteso oltre la fascia centrale di p~anura e alle città nominate da Paolo Diacono 3. Solo nel periodo successivo (fine VI/VII secolo) le tracce della presenza di gruppi umani di cultura longobarda s~ estendono a popolare un'area più ampia di pianura e a raggiungere le valli del Ticino e della Tresa, le rive del lago di Como (Fig. 1). Le necropoli di pianura censite dovrebbero corrispondere a nuclei abitati, disposti sul territorio a maglie larghe (Fig. 2), lungo il corso dei maggiori fiumi lombardi, affluenti del Po e lungo strade di tradizione romana, che conducono alle città rege e ducali. In pianura è evidente il loro allineàmento lungo la fascia delle risorgive, che per l'abbondanza d'acque è naturalmente predisposta allo sviluppo insediativo. Nel tratto di pianura, tra Adda e Mincio, considerando le necropoli a maggior numero di sepolture, quelle con corredi funerari più ricchi, nonché gli insediamenti archeologicamente più promettenti, si possono notare due allineamenti: il primo più meridionale che tocca Boffalora d'Adda, Offanengo, Fiesco, Leno, Milzanello, Calvisano, Goito, il secondo più settentrionale che coinvolge Fornovo San Giovanni, Romano di Lombardia, Flero, Sirmione. Tale distribuzione potrebbe indicare direttrici viarie di collegamento interne alla rete insediativa, non documentate per l'età romana. La mancanza di testimonianze consistenti per la bassa pianura, determinata forse da lacune di ricerca, può fare pensare anche che l'allineamento meridionale sia stato condizionato da un limite imposto da ragioni dettate o dalle condizioniidrogeologiche del territorio, o da necessità difensive e di controllo. In sostanza che esso costituisse il limite della possibilità insediativa più meridionale possibile, oltre il quale poteva estendersi forse una “fascia confinaria”, popolata prevalentemente da autoctoni, come parrebbero indicare le scarse testimomanze a disposizione 4. All'interno di questo quadro, I'area considerata presenta ulteriori direzioni di ricerca di notevole interesse, che meriterebbero di essere approfondite con indagini interdisciplinari. La prima nasce dall'evidenza che i ritrovamenti di maggiore entità toccano abitati di età romana (testimonianze epigrafiche, strutture edilizie e viarie), o le loro vicinanze, e nel caso bergamasco, bresciano, mantovano che queste località risultano ancorate alle maglie dell'insediamento centuriato preesistente, in collegamento con il sistema stradale e idroviario di più ampia gittata. Constatazione che indica una tendenza alla continuità di vita degli insediamenti rurali di pianura - e degli insiemi territoriali relativi - tra romanità e altomedioevo finora raramente riscontrata in altre regioni, dovuta alla facilità di approvvigionamento da parte dei nuovi insediati prima e successivamente all'ancorarsi della nobiltà longobarda e della monarchia alla proprietà terriera, con necessità di controllo delle vie commerciali, della produzione, della rendita agricola (i maggiori cespiti economici). Il secondo elemento d'interesse nasce dalla constatazione che le maggiori necropoli "d'arme" di pianura sono lontano dai territori di Cremona e Mantova fino al 602/603 ancora bizantini s, in
posizioni adatte a controllare ed intercettare il passaggio lungo le strade che mettevano in comunicazione la Langobardia con le due città, onde evitare l'eventuale penetrazione in profondità verso le città ducali o "capoluogo". Una linea di demarcazione, spesso in territori di proprietà fiscale (come risulta da documentazione più tarda) 6, sarebbe stata utile, nel periodo successivo alla stabilizzazione dei confini del regno longobardo settentrionale, alla monarchia per controllare dai lembi meridi~nali dei territori ducali le espansioni autonomistiche degli stessi duchi (cfr. rivolte di Gaidolfo, 590, di Alachis, 690/692, guerra tra Ariperto II e Rotari, 700) 7, e l'andirevieni di truppe che questi conflitti, coinvolgenti gruppi delle due fazioni, provocavano sia per l'intervento di eventuali alleati transalpini che provenienti da altre regioni della penisola (il Friuli ad esempio). Nell'area tra Mella e Chiese i ritrovamenti più meridionali si sono verificati a Milzanello e Visano, rispettivamente interessati da una necropoli "longobarda" e dal rinvenimento di una croce aurea decorata a sbalzo, sporadica. Sempre in territorio bresciano la distribuzione dei ritrovamenti mette in rilievo il vuoto di presenze nell'area tra Oglio e Mella, forse determinato dalle periodiche esondazioni e dal divagare del corso dell'Oglio, o forse anche da una situazione incerta nei confini tra le zone di influenza delle città di Brescia e Cremona, in età romana definiti dal fiume 8. È evidente, invece, I'addensarsi delle necropoli "d'arme" nella pianura a Sud di Brescia, che per essere delimitata ad occidente dal Mella, a meridione dall'Oglio e ad Est dal Chiese ha quasi i caratteri di un'isola, facente capo alla vicina città, in posizione intermedia tra cremonese e mantovano (Fig. 3). Un territorio ad alto potenziale agricolo, che dai documenti d'VIII secolo si caratterizza per la presenza di proprietà fiscali, o del patrimonio regio (infra), o di fideles della monarchia, come, ad esempio, lo strator bergamasco Gisulfo 9. La fiscalità di buona parte di queste terre, documentata per 1'VIII secolo, è ragionevole pensare possa farsi risalire alle donazioni ducali in favore della monarchia con l'elezione di Autari (584), o forse alla suddivisione delle terre delle città di Mantova e Cremona con Agilulfo 10, o alla presenza di fiumi in buona parte navigabili immissari del Po, di quasi certa dipendenza pubblica 11. I recenti ritrovamenti di una necropoli (88 sepolture scavate) in località Santi di Sopra (1988) a Calvisano e di altre sepolture nelle vicinanze (199092), che si aggiunge al già consistente numero di aree cimiteriali note per questo paese, uniti allo scavo di una seconda necropoli con vicino insediamento a Leno e di una terza area cimiteriale a Leno/Porzano i~ costituiscono l'occasione per aggiornare le conoscenze e per compiere alcuni approfondimenti su questa area rurale, dipendente dalla città ducale di Brescia, che per le sue caratteristiche di sistema territoriale definito e stabile permette, meglio di altre zone lombarde, di seguire l'evoluzione economica, della proprietà e delle popolazioni rurali tra VI e VIII secolo. Il discorso si incentra su Calvisano, che, finora, è l'abitato di pianura che ha restituito il numero maggiore di necropoli d'età longobarda, e riprende argomenti già in parte esposti in un articolo, che presentava i manufatti pertinenti al corredo di una sepoltura scavata in località Mezzane (infra) 13. 2. Calvisano: le scoperte Nel territorio comunale di questo grosso borgo agricolo-industriale, situato a km 25 ca a Sud/Est di Brescia, sono venute in luce a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso (1891), in momenti successivi e quasi sempre per ragioni casuali, ben quattro necropoli con corredi composti di manufatti d'ambito longobardo, alle quali si aggiungono nuclei di tombe relative ad aree cimiteriali, in parte andate distrutte e in parte ancora da indagare, sempre riferibili all'altomedioevo (Fig. 4). Il numero di tombe segnalato per ciascuna necropoli o nucleo cimiteriale è limitato a quanto tramandato dalle cronache, per i ritrovamenti ottocenteschi, e a quanto si è potuto effettivamente verificare sul terreno o scavare per quelli più recenti. Più precisamente, oltre a Santi di Sopra, sono interessate dai ritrovamenti: - Località Marcadei, a Sud/Est del centro abitato, con una necropoli longobarda di 500 tombe circa (ma il dato è incerto, molto materiale è andato perduto e oggi si conservano manufatti per comporre 11/13 corredi), scoperta casualmente nel 1891, durante scavi di ghiaia per la costruzione di un tratto
della ferrovia Brescia/Parma, che ha restituito numerosi oggetti connessi al costume guerriero longobardo, spade, scramasax, punte di lancia, umboni di scudo e numerose croci auree decorate a stampo, giunti a noi privi delle associazioni di corredo 14. Le sepolture avevano coperture alla cappuccina e a lastre di pietra, muretti in laterizi e ciottoli, o erano costituite da fosse scavate in nuda terra. La località interessata dal ritrovamento dista dal centro abitato km 1,1 circa, è posta presso il torrente Palpice, non lontana dall'oratorio di S. Zeno, distrutto durante i lavori per la costruzione della ferrovia, e dal santuario della Madonna delle Bredelle. - Frazione Mezzane, in area non lontana dalla chiesa di S. Salvatore, situata a N/E di Calvisano e distante da questi km 5,5 circa, nel 1947- durante lavori di livellamento di un campo conformato a dossi - si scoprì e distrusse un cimitero che, dalla documentazione conservata, doveva comprendere qualche decina di sepolture, tutte orientate E/O (scheletro deposto con cranio ad Ovest). Le sepolture erano provviste di coperture alla cappuccina o a lastre di pietra, in alcuni casi con pareti interne intonacate a malta e decorate con croci dipinte e/o incise. L'unico oggetto di corredo ricordato era una croce d'oro (perduta). Nel 1988, in questa stessa località, ai lembi meridionali della necropoli precedentemente distrutta, sempre durante lavori agricoli, emersero altre tre tombe, una delle quali bisoma, contenente oggetti di corredo costituiti da: un pettine in osso a doppia dentatura, un coltellino, elementi di cintura multipla in ferro ageminato da datarsi al secondo e al terzo trentennio del VII secolo 15. - Prati del Giogo, area già nota per una necropoli distrutta da lavori agricoli negli anni '50, ha restituito, nel corso di indagini di superficie (1988), una sepoltura alla cappuccina, orientata E/O, con muretti in laterizi e in mattoni sesquipedali, contenente elementi di corredo costituiti da un coltellino in ferro, una fibbietta a placca fissa in bronzo e cinque linguette bronzee, forse relative al sistema di sospensione delle armi (Fig. 7/A, 1-2). La prosecuzione delle indagini nello stesso sito, ha individuato successivamente altre cinque sepolture, orientate e organizzate su due file. Esse avevano piante variate, struttura in mattoni sesquipedali e in frammenti di embrici legati con malta, ed erano prive della copertura che doveva essere a falde di pietra. I rari oggetti dei corredi si riassumono in una croce in oro decorata a stampo, frammenti di filo aureo, un pettine d'osso con decorazione a cerchielli, un'armilla bronzea, un pendente in pietra ollare con decorazione incisa, un rasoio e un coltellino in ferro, con datazione al VII secolo 16. La località è posta a km 3 (linea d'aria) da Calvisano, in direzione N/E. - Prati del Giogo/Cascina Bagnadello, lungo la strada che da Visano porta a Montichiari (m 600 via aria da Mezzane), un cedimento del terreno ha recentemente messo in luce una sepoltura rettangolare, priva di corredo, con muretti in ciottoli, bozze di pietra e laterizi intonacati 17. - Montechiaresa, frazione di Montichiari, al confine con il comune di Calvisano, una ventina di tombe alla cappuccina, scoperte nel 1958. Una conteneva uno scramasax 18. - Frazione Viadana a N/E di Calvisano, da cui dista km 3,7 (linea d'aria), interessata da un sondaggio nel 1985 (area dell'odierno cimitero), con una sepoltura priva di corredo 19. - Località S. Michele, posta all'esterno del centro storico fortificato medievale, a m' 200 circa dalla rinascimentale chiesa di S. Michele, con testimonianze archeologiche di età tardoromana e altomedievale, costituite da strutture murarie, materiali vitrei e ceramici (tra i quali un vasetto di età longobarda) emersi nel corso di lavori edili (1979) 20. 3. Caratteristiche delle necropoli d'età longobarda di Calvisano Le cinque aree funerarie "longobarde" di Calvisano si distribuiscono attorno all'odierno centro abitato (non lontane da questo oltre km 5/ó), a raggiera nelle direzioni N, N/E, S/E, mentre mancano finora attestazioni per la zona ad occidente del paese dove doveva estendersi un'ampia foresta, che nei documenti di XIII secolo risulta proprietà del monastero di Leno 21. La necropoli di Marcadei, che con le sue 500 tombe è confrontabile attualmente solo con quelle di Cividale del Friuli, Testona (350 sepolture) e Goito (più di 200 sepolture) 22, ha caratteri culturali "germanici", come si evince dai corredi composti da spade, lance, umboni di scudo, speroni, croci
d'oro, guarnizioni da cintura. La sua ubicazione (Fig. 4) rende probabile la pertinenza al centro abitato. La presenza di armi e di manufatti, in taluni casi di valore economico e di pregio, la mettono in relazione con altre necropoli lombarde d'arme (ad esempio Fornovo S. Giovanni, Botticino Sera, Flero, ecc.: cfr. Fig. 2), dove sono sepolti liberi exercitales, appartenenti ad un ceto distinto da buon potere di acquisto e integrato in una rete di rapporti a carattere sovraregionale 23. Rispetto a questa realtà, la parte scavata del cimitero in località Santi di Sopra mostra indubbiamente, al di là dei grossi limiti di documentazione, corredi ridotti e complessivamente a datazione più recente (infra). Oal punto di vista cronologico la necropoli Marcadei dovrebbe essere stata frequentata dagli inizi del VII secolo, forse fine VI 24, alla seconda metà inoltrata del medesimo. A questa fase tarda sono da ascrivere le guarnizioni da cintura in ferro di forme allungate e sottili, tipo Testona, presenti con varianti anche in due sepolture di Santi di Sopra (Fig. 7/B e 7/D), oltre al puntale in ferro ageminato con decorazioni a teste incappucciate, che ha confronti in territorio bavaro, nella necropoli della Selvicciola, in comune di Ischia di Castro (VT) 25. Le guarnizioni da cintura in ferro ageminato ad intrecci zoomorfi (II stile) e a motivi ornamentali ad "S" stilizzati della t. 1 in località Mezzane portano ad una datazione della deposizione nella seconda metà del VII secolo compresi gli ultimi decenni 26; al VII secolo dovrebbero, infine, datarsi le guarnizioni bronzee di tradizione bizantina rinvenute nella tomba di Prati del Giogo (Fig. 7/A). Si tratta in ogni caso di realtà cimiteriali riconducibili al VII secolo, con testimonianze di attardamento nella seconda metà anche avanzata del medesimo, che attestano la contemporaneità dei diversi nuclei insediativi con punto di contatto a partire dal secondo trentennio del secolo. L'elevato numero di aree funerarie che circonda Calvisano, la media grandezza che le contraddistingue (da 20 a 90 sepolture scavate, su totali imprecisati, più le 500 di Marcadei), con dati in continuo accrescimento perchè le scoperte si succedono annualmente, 1' ubicazione in aperta campagna vicino a cascine isolate e, in taluni casi, presso resti di edifici romani, disegna una rete di nuclei abitati rurali (masserie, casali più o meno grandi), disposti attorno ad un centro più importante, lungo percorsi viari di probabile origine romana 27. I1 polo aggregante della popolazione rurale potrebbe essere riconosciuto in località S. Michele, ma occorre approfondire le indagini per appurare a che tipo di edificio siano da attribuire le strutture murarie, le caratteristiche e la cronologia dei materiali ivi rinvenuti. La vicinanza alla odierna chiesa di S. Michele potrebbe far pensare all'esistenza, in questa area appena esterna al centro storico odierno, di un edificio di culto più antico dedicato a questo santo, che si sa caro ai Longobardi. Questa rete di nuclei insediativi fa pensare ad un'organizzazione del territorio già, in qualche modo, consolidata su nuovi assetti di potere, dovuti all'affermarsi della proprietà fondiaria ed ecclesiastica e al rinnovato interesse per il mondo rurale e per l'organizzazione del lavoro secondo un linea di sviluppo simile a quella riscontrata nel territorio della provincia di Siena 23. Mutamento che andrebbe a porsi tra la metà del VII secolo e gli inizi del successivo. Ai decenni centrali e finali del VII secolo, infatti, fanno riferimento cronologicamente tutte le necropoli con corredi di Calvisano (supra). Dai materiali dei corredi funerari e dalle tipologie delle sepolture, messi a confronto, si evidenzia un quadro sociale sfaccettato, che riesce a visualizzare il processo di assimilazione tra popolazione locale di tradizione cristiana e Longobardi e che contemporaneamente indica la presenza di gruppi sociali con caratteristiche diverse: liberi guerrieri, forse proprietari terrieri; individui di rango meno elevato detentori di diritti sulla terra a vario titolo, e contadini (coloni, massari, servi). Non è impensabile la presenza anche di religiosi. Si confrontino, ad esempio, le tombe con corredi d'arme in località Marcadei, le sepolture con corredi selezionati e quelle con pareti interne ornate da croci in località Mezzane, nelle immediate vicinanze della chiesa di S. Salvatore - che viene ricordata perchè punto di riferimento del monastero dei SS. Faustino e Giovita fondato dal vescovo bresciano Ramperto nel IX secolo 29, le sepolture con corredi "simbolici" o affatto prive di corredo nelle località Santi di Sopra e Montechiaresa. Alcuni manufatti dei corredi provenienti dalla necropoli in località Marcadei e dalla sepoltura di Mezzane (armi, guarnizioni ageminate, croci auree a stampo) sono di pregio e comportano una
lavorazione in opifici specializzati o per mano di artigiani anche itineranti 30 e presumono, quindi, che i proprietari avessero disponibilità economica e possibilità di acquisto sul posto (mercato?, luogo di sosta?, luogo frequentato per i buoni collegamenti viari, sede religiosa?), o raggiungendo altre località sedi di mercato. La contiguità tra resti di edifici romani e aree cimiteriali, è accertata in località Santi di Sopra, per la vicinanza alla necropoli di un edificio d'uso abitativo d'età romana, dal quale dovrebbero provenire i numerosi laterizi riutilizzati nelle strutture di alcune sepolture e gli elementi cubici disuspensurae presenti nella t. 62, e per un secondo fabbricato rustico, posto poco più a meridione; per le tombe in frazione Viadana dai resti di un edificio romano mosaicato (località Pates) e da ritrovamenti di materiali ceramici e laterizi romani (frazione Bredazzane). Infine, le sepolture di Mezzane sono prossime ad un terreno che ha restituito materiali ceramici di età romana 31. Per Santi di Sopra e Viadana non è improbabile che, oltre all'uso come cava di materiali, gli edifici preesistenti siano stati utilizzati come basi e strutture di appoggio di nuove abitazioni. Una situazione che avrebbe confronti nella realtà urbana di Brescia (area dell'insediamento longobardo di VI-VII secolo, che precede il successivo sviluppo del monastero di S. Salvatore/S. Giulia, impiantatosi sulle strutture di edifici romani) 32, a Sovizzo, nel vicentino, con sepolcreto posto a poca distanza dai resti di una villa rustica 33, a Fornovo S. Giovanni, nel bergamasco, con parte di una strada romana scavata, risultata ancora in uso nell'altomedioevo, di strutture edilizie, pozzi, tessere musive, manufatti di età romana (anfore, lucerne, monete) nei pressi dell'area dove si estendeva la necropoli longobarda in località Cantacucco/via Cimosse (podere Viticelle) 34, a Trezzo/località San Martino con l'utilizzo di un edificio romano come necropoli (sfruttandone gli spazi interni) e in seguito per sovrapporvi un edificio di culto 35, per fare solo alcuni esempi. Una situazione simile di insistenza insediativa da età romana alla longobarda è stata riscontrata anche in territorio bergamasco in centri strutturati (di raccolta della produzione, di transazioni commerciali, religiosi), come Fornovo San Giovanni, che un documento dell'861 ricorda quale sede pievana con diritti di navigazione, inquisizione e mercato 36, il che fa agevolmente pensare alla presenza di terre fiscali in questa area del bergamasco già in precedenza e ad Arsago Seprio, nel Varesotto, che conserva resti di edilizia monumentale romana di "tipo quasi urbano" 37. Si tratta di centri abitati che dovevano avere conservato la loro funzione di raccordo tra città "dominante" e territorio circostante, grazie alla posizione di snodo viario, a controllo di strade e percorsi di terra e d'acqua, e ad una migliore conservazione delle strutture edilizie e territoriali (centri di culto e/o di mercato). Si è parlato, in casi come questo di Calvisano, di modello insediativo “statico/continuista” in contrapposizione ad un modello più dinamico riscontrabile, ad esempio, a Trezzo d'Adda 38 (area di Cologno Monzese) che, in base all'analisi della toponomastica operata da G. Rossetti (1968), sembra coinvolta già nella prima fase longobarda da modifiche nell'organizzazione di terre appartenenti al publicum in età romana. La definizione di modello insediativo statico/continuista deve essere estesa a fasce territoriali, a insiemi geografici urbanizzati, se si considerano le caratteristiche di questa fascia di territorio bresciano e buona parte della pianora padana, prese ad esempio. 4. Il territorio tra Oglio, Mella e Chiese Questo territorio si qualifica per la ricchezza delle testimonianze archeologiche di insediamenti, tombe e necropoli, che coprono cronologicamente dall'età dell'invasione longobarda a tutto il VII e si distribuiscono in modo capillare (Brandico, Bagnolo Mella, Flero, S. Zeno, Poncarale, Montirone, Leno, Leno/Porzano, Manerbio, Milzanello, Montichiari/ Montechiaresa, Calvisano, Visano) (Fig. 3), con preferenza per l'area più occidentale lungo il Mella, navigabile, ad eccezione di Calvisano e Visano prossimi al Chiese. La continuità di popolamento in epoca successiva è attestata soprattutto da documentazione scritta, che riguarda primariamente la fondazione e la dotazione di proprietà terriere e di corti rurali dei monasteri benedettini di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia (femminile), da parte di Desiderio e della sua famiglia nel 758 circa, e, in modo più rarefatto, di Leno (maschile), anch'esso
voluto e dotato dal re pressapoco negli stessi anni 39. Le fonti altomedievali (archeologiche e scritte) hanno riscontri di continuità insediativa con l'età romana, quando il territorio era fittamente popolato come attestano i ritrovamenti archeologici (edifici rustici, ville, epigrafi, necropoli, rete centuriale) 40 - pur con lacune riguardo alla fase di transizione tra tardoantico e altomedioevo, quando Brescia assunse un ruolo forte nella difesa militare dalle incursioni barbariche e quindi anche il suo territorio dovette esserne coinvolto 4] - e permettono di leggere i tratti peculiari dell'evoluzione di questa area per quanto riguarda posizione geografica, subordinata a Brescia e centrale rispetto al territorio rurale, stabilità pedologica e ambientale, varietà delle fonti di sostentamento (agricoltura, boschi, allevamento del bestiame), organizzazione della terra, caratteri in parte originari e in parte ereditati dall' età romana, quando il territorio corrispondeva alla parte orientale della centuriazione bresciana 42. Per l'altomedioevo manca attualmente uno studio globale, che integri le conoscenze già acquisite con le testimonianze relative agli edifici di culto attestati dalle fonti e da resti materiali, ad altre realtà insediative poco sondate (strutture relative a fortificazioni, a fabbricati rurali, ecc.). L'allacciamento di questo territorio alle valli bresciane e al sistema lacuale dell'Iseo e del Garda, documentato da carte del IX/X secolo e successive, relative alle proprietà dei due monasteri, ne potenziava i caratteri creando un'enclave economicamente e commercialmente autonoma 43. Dalla Val Trompia e dalla Val Camonica giungevano ferro, marmo (vezza d'Oglio) e pietra, dalle colline tra Brescia e Garda la pietra di Botticino. I1 controllo dei principali sbocchi delle valli in pianura era assicurato. I1 sistema di navigazione sull'Oglio e sul Po chiudeva l'arco delle possibilità strategiche e commerciali di questo quadrante territoriale integrato in ciò che restava della grande struttura viaria romana, costituita dalla Postumia (Verona/Calvatone/Cremona), dalla pedemontana (Verona/Sirmione/Brescia/Bergamo), che contribuirono notevolmente a rafforzare il ruolo strategico di Brescia in età tardoromana 44. Le strade Cremona/Brescia, che seguiva grossomodo il corso del Mella (percorso Bagnolo Mella/Manerbio, Pontevico, o in alternativa Quinzano), Lodi/ Brescia, che sfiorava Manerbio, e Mantova/Brescia (percorso per Castenedolo/ Montichiari e Guidizzolo) raccordavano le due grandi arterie 45 e i percorsi che servivano i nuclei insediativi rurali. Le testimonianze più antiche dell'insediamento longobardo sono costituite dalle necropoli di Leno e Leno/Porzano (materiali da corredo funerario di VI secolo, probabilmente pertinenti alla generazione immigrata). A Leno una seconda area cimiteriale, con materiali da corredo di VII secolo, si imposta in parte su un'insediamento con edifici ad alzati lignei, dove sembrerebbe attestata attività di lavorazione del vetro 46. A Manerbio e a Calvisano i ritrovamenti riguardano anche strutture edilizie (fabbricati in legno nel primo caso, in muratura nel secondo) 47. In tutte le altre località la datazione dei reperti di scavo si alza al massimo alla fine del VI secolo (ad esempio le croci auree di Calvisano, che hanno confronti con esemplari simili rinvenuti in territorio pavese) 48 e continua tendenzialmente fino alla fine del VII/inizi dell'VIII secolo. Una verifica dei materiali dei vecchi ritrovamenti potrebbe dare indicazioni più precise. I resti archeologici ed epigrafici più consistenti sembrano, finora, indicare che gli abitati romani a carattere quasi di vico siano da identificare in Leno, Ghedi, Milzanello, Calvisano e Visano, ad eccezione di Ghedi tutti coinvolti da ritrovamenti con materiali d'ambito longobardo. A sua volta Manerbio risulta l'unico vico romano attestato dalle fonti scritte 49. Tutte le località insistono sui limiti della centuriazione, mentre Calvisano e Ghedi sembrano costituire, nella Lombardia orientale, isole centuriali con caratteri propri all'interno di un reticolo che in questa zona sembra più labile so. Tale caratteristica dovrebbe dipendere dalla ricchezza di risorgive, che possono avere imposto - per condizioni naturali - un'organizzazione territoriale diversa da quella centuriale preordinata. dopo la sconfitta del regno longobardo (774), da Carlo Magno che donò il monastero di S. Giulia e le sue pertinenze, compresa la Val Camonica, al monastero transalpino di S. Martino di Tours, CDL, I, n. 52, 774, luglio 16, per assicurarsene un controllo migliore. Per i centri di approvvigionamento di pietra, marmo, metalli in età romana, cfr. TOZZT 1972, pp. 136-137. Calvisano e Porziano sono prediali riconducibili ai fondi agrari della centuriazione. Calvisano stesso deriva da un gentilizio attestato epigraficamente si.
La sovrapposizione o la vicinanza degli insediamenti longobardi agli abitati romani, ma sempre entro le maglie della centuriazione e senza che queste ne sembrino sconvolte, suggerisce che l'incisione fisica della struttura fondiaria romana e della rete dei percorsi vicinali dovesse avere retto alla crisi tardoantica senza subire gravi cedimenti, conservando, anche se contratte e limitate, le tradizioni di un'economia agricola ricca e variata. La presenza di numerose necropoli di armati in pianura nel tratto tra Adda e Mincio (con nuclei più importanti a Boffalora, Offanengo, Fornovo San Giovanni, Milzanello, Leno, Calvisano, Goito e Sirmione sul Garda) può richiamare la tesi degli insediamenti arimannici di confine su proprietà fiscali proposta da G.P. Bognetti (1948). Lo storico ha supposto che i Longobardi avessero conservato e sviluppato un limes di pianura preesistente, utile nella pr~ma fase d~ occupaz~one a fronteggiare eventuali azioni militari dalle vicine città bizantine di Cremona e Mantova (supra). In base alle osservazioni di G. P. Bognetti, altri storici hanno voluto riconoscere, in questa zona, uno tratto dello sbarramento limitaneo nella linea che unisce gli abitati di PralLoino e Gambara, soprattutto in base ai dati toponomastici 52. Di fatto, finora, i ritrovamenti archeologici d'ambito longobardo si arrestano lungo la linea Milzanello-Visano (Fig. 3) (supra), mentre solo dopo la metà dell'VIII secolo, le proprietà dei monasteri di Leno e di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia, supereranno questo "confine" - che poteva essere determinato anche dal maggiore impaludamento delle terre più prossime all'Oglio e a conseguenti necessità di bom`fica - conquistando la parte più meridionale di pianura e raggiungendo il fiume e oltrepassandolo (infra). In questa area sono attualmente assenti tracce di fortificazioni d'età longobarda o preesistenti. Sul Po Paolo Diacono ricorda Brescello 53, conquistata da Agilulfo nella campagna contro Cremona e Mantova. Questo dato potrebbe suggerire la presenza di altri castra, che andrebbero individuati con ricerche mirate e soprattutto mediante l'utilizzo della fotointerpretazione aerea e di attente ricognizioni di superficie. Le fonti scritte ricordano castelli fortificati, eretti per volere degli abati del monastero di Leno durante le incursioni ungare, a Leno, a Gottolengo (964), a Manerbio, mentre la prima menzione di castelli a Milzano e a Calvisano risale nel primo caso al 1041, nel secondo al 1091 54. Le proprietà fondiarie e le corti relative alle istituzioni monastiche di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia e di Leno si estendevano capillarmente, allo stesso modo delle presenze insediative segnalate dalle fonti archeologiche. Oltre a Calvisano e a Leno, abbiamo curtes, ad esempio, a Quinzano (ad occidente sull'Oglio) a Flero, a Leno/Porzano, a Ghedi, a Milzano e a Carpenedolo, a Manerbio, a Gottolengo (nella parte centrale dell'area tra i due fiumi Mella e Chiese) ad Alfiano, importante scalo portuale sull'Oglio 55. Le località con curtes si inseriscono nella rete centuriale romana. Con Desiderio (756-774) la tendenza alla concentrazione delle donazioni rege - da terre fiscali o dal patrimonio della famiglia reale, o derivato da proprietà di grandi possessores appartenenti all'entourage di corte - in un medesima area e nella realtà dei due monasteri prescelti, indica la volontà di compattare in grandi latifondi le proprietà, sia a fini di una riorganizzazione della produzione che a quelli di un maggior controllo politico e territoriale. È stato suggerito che la famiglia reale volesse crearsi una propria area di influenza, lontana dalle ingerenze della nobiltà arricchitasi alla corte dei predecessori, per insicurezza politica e per contenere le spinte antagonistiche delle fazioni interne 56. Per fare qualche esempio concreto, un pracceptum di Desiderio e di Adelchi (772) attribuisce a S. Salvatore/S. Giulia di Brescia un bosco di 4000 jugeri, ritagliato dai possessi regi, confinante con terre del monastero di Leno 57. Le proprietà di S. Salvatore/S. Giulia in Alfiano e Quinzano, lungo l'Oglio, risalgono agli anni poco dopo la metà dell'VIII secolo, le prime corrispondono alle terre un tempo appartenti allo strator regio bergamasco Gisulfo, le seconde derivano da donazioni rege 58. Così lo sviluppo dell'attività manifatturiera e dell' importante e raffinata produzione di pallii serici, che venivano smistati alla corte di Pavia, viene promossa da re Desiderio con la donazione a S. Salvatore dei diritti su due mulini posti poco fuori dalle mura urbane 59, che permetteva un pieno controllo degli impianti produttivi. Durante i secoli IX e X la documentazione scritta si fa più abbondante e permette di constatare l'alta produttivà della corte di Alfiano, che ha ormai assunto i caratteri organizzativi e polifunzionali di un'azienda rurale. Vi si alleva, infatti, bestiame da
produzione, da macello e da tiro (ovini, caprini, suini, bovini, equini) e minuto (oche e pollame). I fabbricati della corte si distribuiscono su una superficie ampia e proporzionata alle esigenze operative della comunità. Il Polittico di S. Giulia segnala, tra i beni, anche una flottiglia di navi usate per il commercio del sale, di granaglie e al trasporto di merci preziose (tessuti e sete). A confronto le corti di Flero e Castegnato hanno varietà di coltivi e attività di allevamento, molto più modeste 60. A sottolineare l'assetto compatto delle proprietà monastiche di S. Salvatore/S. Giulia nel IX e X secolo, si ricorda che la corte di Porzano era provvista, non unica, di 10 aldiones, con funzione di messi 61. Le informazioni riguardo al monastero di Leno sono più tarde e necessitano di una rilettura complessiva 62. In sintesi il quadrante territoriale tra Mella e Chiese è caratterizzato da una costanza insediativa che coinvolge grosso modo gli stessi nuclei o centri abitati da età romana al medioevo. La documentazione archeologica e scritta dal secolo VI al X è sufficiente ad indicare tre momenti di mutamento e sviluppo: 1) post 568/569, primi insediamenti longobardi, finora limitati a quanto scoperto a Leno e a Leno/Porzano. A Leno e a Brescia - nell'area della città romana a N/O entro le mura cittadine e in posizione di controllo viario, dove crebbe l'insediamento longobardo di VI/VII (supra) - si svilupperanno i due più importanti monasteri d'età desideriana (metà VIII). Il dato è forse un significativo indizio della fiscalità delle due aree ab antiquo?; 2) metà VII secolo, la distribuzione, lungo tracciati viari di probabile tradizione romana, delle aree cimiteriali di Calvisano indica, per l'area circostante questo centro, un assetto territoriale in qualche misura compiuto su un modello insediativo e produttivo qualificato da nuclei di abitati rurali sparsi, a carattere polifamiliare, facenti capo ad un "centro di riferimento", che dovrebbe essere localizzato nell'area dell'odierna Calvisano; la qualità dei manufatti dei corredi indica processi di assimilazione culturale tra popolazione locale e longobarda (Santi di Sopra), meglio definibili etnicamente solo con analisi antropologiche; alcune necropoli mostrano strutture funerarie e/o corredi distintivi di status sociale o ranghi medioalti (Marcadei, Mezzane, Prati del Giogo), mentre altre realtà sono meno "caratterizzate" culturalmente e sembrano indicare la coesistenza di tradizioni culturali e religiose diverse (Mezzane); 3) metà VIII secolo, Desiderio e la sua famiglia, spinti da ragioni politiche (crearsi un'enclave di diretta pertinenza), danno l'avvio alla formazione di estesi latifondi, concentrando proprietà terriere e curtes nelle realtà dei due maggiori monasteri bresciani da loro stessi fondati. 5. La necropoli Santi di Sopra La necropoli in località Santi di Sopra è andata in buona parte distrutta, nel corso di lavori di scavo di ghiaia e di recupero di materiali per l'edilizia che ne determinarono la scoperta (1988). Il rischio che l'opera di sbancamento proseguisse in modo clandestino contemporaneamente allo scavo regolare, ha spinto la direzione degli scavi ad attuare una strategia di intervento che, considerata la situazione in cui si operava, permettesse almeno di documentare tutti i dati accertabili in tempi brevi, con particolare riguardo alle caratteristiche generali della necropoli, alla morfologia delle sepolture, alla composizione dei corredi 63. Nonostante i limiti dichiarati e la perdita di numerose informazioni si possiede una documentazione abbastanza esauriente. L'area cimiteriale scavata copre una superficie di mq. 1600, con 87 sepolture recuperate (28 con corredo, corrispondente al 32%, pari a circa un terzo della situazione nota) raggiungendo i suoi limiti originari Sud ed Est, mentre rimangono incomplete le informazioni lungo i lati Nord e Ovest, che corrispondono ai confini del fondo e della cava, in buona parte sbancati prima dell'intervento di scavo. Oltre questi fronti, negli appezzamenti adiacenti si erano conservati resti di laterizi e di lastre di medolo per una superficie di mq 4200, probabile indizio che l'area cimiteriale fosse tanto estesa da ragg~ungere un numero totale di tombe forse triplo rispetto a quello scavato.
La perdita di una parte considerevole di necropoli inficia la lettura dei dati relativi alla porzione scavata. Sfuggono, infatti, le relazioni topografiche, di cronologia orizzontale che dovevano intercorrere tra la parte nota e la restante, andata distrutta. Le considerazioni che seguono devono, quindi, essere ritenute relative. Una ulteriore pregiudiziale per una lettura completa del tessuto sociale del gruppo, cui appartenevano i defunti di Santi di Sopra, è costituito dalla mancata conservazione dei resti scheletrici e dal fatto che le sepolture scavate all'atto della scoperta mancavano di copertura. Ciononostante, poiché gli oggetti conservati sono stati rinvenuti in giacitura, con due sole eccezioni (tt. 83 e 87), la coerenza riscontrata nella tipologia dei corredi, caratterizzata dalla costante presenza di alcuni manufatti e dalla costante assenza di altri, e la cronologia piuttosto omogenea e concentrata prevalentemente nell'arco di decenni che va dal secondo quarto del VII secolo circa al VII inoltrato/inizi del successivo, suggeriscono che furti non ve ne siano stati, o quanto meno che l'assetto complessivo delle sepolture scavate non sia stato sostanzialmente alterato. Le 87 tombe recuperate erano orientate Est/Ovest. Di queste 68 hanno struttura in muratura molto curata, soprattutto nell'adattamento di materiali di spoglio. La stessa cura di esecuzione della struttura funeraria è stata riscontrata nella t. 1 di Mezzane 64; è, quindi, da supporre che nel territorio di Calvisano operassero maestranze specializzate in opere murarie ed edili non soltanto di tipo funerario, in probabile relazione con la persistenza di tradizione costruttive forse determinata dal discreto tenore di vita degli abitanti. Nel quale senso andrebbero considerati e approfonditi anche i rapporti di interdipendenza tra il territorio rurale e la vicina città di Brescia. Tra i materiali utilizzati nelle strutture prevalgono laterizi, ciottoli, lastre di medolo o sfaldature di pietra, con legante costituito da argilla molto plastica 65. Numerosi laterizi ed altri elementi in pietra sono di riutilizzo, probabilmente cavati dalla vicina villa romana (supra). Spesso le tombe in laterizio presentavano una sensibile risalita del fondo verso Ovest, per l'appoggio del cranio del defunto. Quattro tombe erano provviste di cuscino cefali~o, tra queste tre avevano struttura e pavimentazione in laterizi (tt. 69, 77, 78),:mentre la quarta era una semplice deposizione in nuda terra (t. 14). Le deposizioni in nuda terra sono 19 (22% circa), con concentrazione maggiore nel nucleo A, ma le caratteristiche della struttura funeraria non sembrano costituire un discrimine di rango, due (tt. 12, 79) delle 5 tombe con corredo più ricco, infatti, appartengono a questo tipo. In alcuni casi le coperture dovevano essere in embrici disposti a capanna, considerato il rincalzo perimetrale rilevato lungo il bordo del loculo. Questo tipo di copertura è attestato a Calvisano sia in tombe relative alla necropoli in località Marcadei, sia nella sepoltura di località Prati del Giogo che in alcune di Mezzane (cfr. § 2). In soli due casi abbiamo tombe bisome (tt. 17, 19), in un solo caso (t. 62, priva di corredo) è attestato il riutilizzo delle sepolture per una seconda deposizione 66. Nell'area indagata, la necropoli è organizzata in gruppi di sepolture ben d~stmh e d~ d~versa consistenza numerica, probabilmente relativi a singoli nuclei familiari (Fig. 5). Non si può, tuttavia escludere che i nuclei maggiori A e B siano il prodotto della fusione di gruppi minori aggregatisi per l'aumento progressivo delle deposizioni. Infatti, questi due gruppi màggiori sono separati da piccoli aggregati a sè stanti e si distinguono, al loro interno, in "sotto sez~om, ancora percepibili per gli spazi liberi tra le sequenze di file, che seguono allineamenti regolari. L'assenza di sovrapposizioni di sepolture ha fatto pensare alla presenza di tumuli o di segnacoli esterni, che permettessero di individuare e di riconoscere le tombe 67, ma considerata la successione cronologica dei corredi, senza interruzioni, viene spontaneo immaginare una costante frequentazione dell'area cimiteriale che permetteva la facile identificazione dei diversi nuclei e delle singole sepolture, poichè non vi era il tempo per dimenticare una distribuzione topografica nota ai componenti delle diverse famiglie o gruppi. Si può tentare di distinguere le tombe relative ad un “capogruppo>> o ad un “capofamiglia” nei corredi più ricchi e con armi (Tabella alla Fig. 6). Le sepolture con armi (scramasax) si trovano nei nuclei I (t. 42), per altro composto di due sole sepolture, e B (t. 79) (Fig. 5), distanziate tra loro ma ambedue nel settore più settentrionale dell'area scavata. Corredi di un certo "tenore" possono essere considerati anche quelli relativi ai defunti delle tt. 39 (nucleo N), 12 (nucleo A), 61 (nucleo B), situata
accanto alla t. 79 con armi, tutte distinte dalla presenza di elementi pertinenti a due cinture (Figg. 13-14; 7/B e 10/Q). I corredi "ricchi" sono, quindi, abbastanza distribuiti nei diversi nuclei, nonostante che si rilevi una maggiore concentrazione nei gruppi più estesi e in quelli al margine occidentale. Essi si distinguono per la presenza di guarnizioni da cintura reggiarmi in bronzo (tipo a "5 pezzi") e in ferro (multiple), compresenti nel solo corredo della t. 12 (pochi elementi simbolici), e devono essere considerati relativi ad individui di sesso maschile, come in due casi indica con certezza la presenza di scramasax (tt. 42 e 79). Questa distribuzione permette di individuare le personalità di riferimento di una parte della comunità di Santi di Sopra 68, i CUi corredi avrebbero costituito il modello per la restante popolazione e questo spiegherebbe l'abbondanza delle guarnizioni da cintura reggiarmi in ferro e in bronzo in gran parte delle sepolture. Si potrebbe anche pensare che le sepolture con corredo più ricco siano le più antiche e quelle con corredo simbolico, costituito da un solo oggetto, le più recenti 6Y, ma a Calvisano Santi di Sopra un corredo con indice di "benessere" che definiremo medio/ricco, come quello della t. 12 contiene guarnizioni da cintura in ferro con decorazioni geometrico astratte applicate da datarsi al VII secolo inoltrato (forse inizi VIII) che hanno un confronto immediato nel puntale "unico manufatto" di corredo della t. 17 - e le due deposizioni sono topograficamente molto vicine 70 (Figg. 5; 7/B e 7/ D). La definizione di ricchezza per corredi di questo tipo e a datazione tarda si basa solo sul confronto con le tombe prive di corredo o con corredo povero, ma in sé ha scarso significato, considerata la mancanza di punti di riferimento e dati statistici sufficienti a chiarire questi fenomeni. Ritornando alle sepolture i due gruppi più estesi A e B contano rispettivamente 25 sepolture il primo, delle quali 9 con corredo (tt. 7, 11, 12, 14, 17, 18, 19, 26, 29), concentrate soprattutto verso il limite Est, il secondo 19, delle quali 8 con corredo (tt. 37, 44, 53, 54, 61, 77, 79). In ambedue i casi i corredi più consistenti (tt. 12, 61, 79) risultano in posizione abbastanza periferica rispetto all'intero nucleo, talvolta vicini l'uno all'altro, mentre verso il centro del nucleo, come per la maggioranza dei casi alla sua periferia i corredi si rarefanno o scompaiono del tutto. I gruppi minori interamente scavati sono C, con 9 sepolture ed un solo corredo (t.50), abbastanza ridotto; D con tre sepolture e un solo corredo (t. 20, ridotto); E con 5 sepolture, una con corredo (t. 10) limitato ad un coltello; G con tre sepolture vuote; H con due sepolture e un corredo (t.34) costituito da un coltello (Tab. 6); I con due sepolture, una delle quali conteneva un corredo maschile di guerriero armato (t. 42); N con due sepolture corredate (tt. 38, 39). I gruppi L, F, M non sono stati scavati completamente e devono essere considerati residui di concentrazioni più numerose. L si compone di tre sepolture, una sola (t. S9) con corredo povero; F ha 8 tombe indagate, due corredi (tt. 40 e 83), limitati a pochi oggetti; M si compone di quattro sepolture vuote. Isolata presso il limite occidentale dell'area indagata si trova, infine, la t. 72 priva di corredo. Le tombe con un solo oggetto deposto (nella maggioranza dei casi costituito da un coltello, una guarnizione di cintura, una fusaiola) (Fig. 6) corrispondono alle tombe 7, 10, 11, 17, 18, 19, 20, 40, 38, 44, 53, 59, 83, 87, pari alla metà delle sepolture con corredo (14 su 28). Nelle tt. 12 e 61, datate rispettivamente la prima alla seconda metà del VII secolo e la seconda al secondo quarto circa del medesimo, si riscontra la presenza di oggetti di gusto di tradizione romana e bizantina. Nella t. 12, infatti, oltre a guarnizioni da cintura in ferro e in bronzo, abbiamo anche un anello digitale bronzeo, trovato inserito all'anulare della mano sinistra - secondo la tradizione romana attestata, ad esempio, nella necropoli "longobarda" a forte componente romanza di Castel Trosino 71 (Fig. 7/B, 4), dove in genere caratterizza sepolture femminili - appartenente ad un genere diffuso in ambito mediterraneo 72. Nella t. 61, più ricca (Fig. 10/Q, 13), una fibbia bronzea a placca fissa di tipo "Siracusa" da abito accompagna il set quasi completo di guarnizioni bronzee da cintura militare c.d. "a cinque pezzi", composto da fibbia con placca e controplacca ornate da borchie a testa convessa, tre puntali di diverse dimensioni (maggiore e secondari), dei quali uno decorato da due stelle a cinque punte incise, che ha confronti, ad esempio, con la fibbia a placca fissa di tipo bizantino di Ascoli Piceno (provenienza ignota) 73. Vi sono, inoltre, placchette di dimensioni e fogge diverse, tra le quali una a forma di "8" traforato e l'altra ad "S" con teste animali contrapposte 74 (Fig. 10/Q, 10-11).
Guarnizioni bronzee di particolare interesse giacevano anche nella t. 39. Tra queste una placchetta decorata con trafori e cerchi concentrici punzonati (Fig. 9/0, 9), che si rifà al gusto di tradizione tardoromana provinciale, è del tutto estranea al panorama delle forme più diffuse e canoniche nel VII secolo 7s e appartiene al gruppo delle varianti d'imitazione con datazione, per la sagoma allungata alla seconda metà del VII secolo. Essa ha affinità con le placche bronzee della t. 157 della necropoli di Goito (MN) e di Botticino Sera (BS), nonché con la terminazione traforata della placca che completa la fibbia in ferro - a decorazione geometrica in laminette di ottone? applicate (Fig. 7/B, 1-3) - della t.12 attribuibile al tardo VII secolo, che ha a sua volta confronti con esemplari coevi, ad esempio, in area alamanna e nel Veneto. Mentre la controplacca (?) bronzea sagomata e con terminazione a "vaso" (Fig. 10/Q, S) ha confronti con un esemplare della collezione Stibbert di Firenze e ricorda le guarnizioni da cintura tardoromane 76 (Figg. 9/P, 11 e 12). Nelle sepolture 39 e 61 le guarnizioni da cintura erano attorno al bacino (Figg. 12/1 e 12/3), quindi il defunto era stato “rivestito” in modo da indossarle in posizione d'uso, al contrario nella t. 12 (dove sono state trovate in un numero minore di elementi) esse giacevano attorno all'omero sinistro. Sostanzialmente poveri sono i corredi dei nuclei familiari C, E, F, marginali, per i quali, almeno m parte, si può pensare alla pertinenza delle sepolture a famigli (massari, servi, semiliberi, aldii). Nella necropoli mancano sepolture con corredi d'armi canonici del guerriero germanico (spada, lancia, scudo) solo in due casi è attestato lo scramasax (supra), arma da equipaggiamento militare leggero, non indossato ma deposto inserito nel fodero (nella t. 79 si conserva il puntale, nella t. 42 le borchiette ornamentali) (Figg. 13-14) accanto all'omero sinistro del defunto avvolto nella cintura di sostegno, secondo una scelta rituale e simbolica (Fig. 12/2, 4). Corredi con armi limitate allo scramasax possono suggerire che almeno questa parte scavata della necropoli fosse relativa ad un gruppo indigeno che aveva assimilato l'uso del corredo di tradizione merovingia 77, germanizzandosi parzialmente, anche per il contatto diretto con gruppi di exercitales longobardi, la cui presenza nel territorio di Calvisano è ampiamente attestata (§ 2) in tutto il VII secolo - considerato anche che alla metà dell'VIII circa a Leno, poco distante, veniva fondato da Desiderio il monastero, probabilmente su terre fiscali (5 5). Se è corretto pensare che a Calvisano alla metà del VII secolo fosse già venuto precisandosi il processo di riorganizzazione della gestione della terra e del lavoro (S 3/4) risulta plausibile ritenere che i sepolti di Santi di Sopra appartenessero al ceto di "lavoratori dipendenti" che aveva in alcuni casi raggiunto un discreto tenore di vita, come saggeriscono i corredi e la buona fattura di alcune strutture tombali. Un seconda ipotesi può portare ad individuare il gruppo di Santi di Sopra con popolazioni d'ambito longobardo, di ceto meno elevato e ruralizzato. Ma sono ipotesi che necessitano di confronti più numerosi. La definizione etuica e il grado di assimilazione culturale tra i due popoli sono, in mancanza delle analisi dei resti ossei, difficilmente precisabili in base ai soli manufatti perché la foggia e la tecnica di esecuzione di alcuni (Fig. 9/O, 8-10; P, 11-12), pur non essendo specificatamente autoctone, denunciano la provenienza da produzione locale e l'assimilazione del gusto ornamentale di tradizione romanza (infra), mentre per altri è evidente la tradizione più propriamente germanica (guarnizioni da cintura in ferro tt. 12 e 17) (Fig. 7/B, 1-3; 7/D). Ancora rispetto alle necropoli relative a popolazioni indigene mancano reperti femminili (orecchini, bracciali, fibule), anche se tra il materiale erratico figurano un'armilla in bronzo ad estremità aperte e ingrossate, decorate a losanghe reticolate (impresse) (Fig. 10/S, 4) che ha confronti con un esemplare rinvenuto nell'area della necropoli Marcadei 78, e l'anello digitale della t. 12 (maschile). È del tutto assente anche la pratica di deporre monete come obolo 0 viatico, cara alla tradizione romana 79. Sono del tutto assenti i pettini in osso, oggetto comune tanto a sepolture autoctone che longobarde, le croci in lamina d'oro, altri oggetti in metallo prezioso che distinguono in genere le necropoli "longobarde" di fine VVprima metà del VII secolo, le offerte di cibo 80. In tal senso è difficile mettere in relazione i frammenti di contenitore in ceramica di tradizione locale rinvenuti all'esterno della t. 19 con la pratica del banchetto funebre o del viatico 81.
D'altronde si conosce ancora molto poco circa le condizioni e lo status economico delle popolazioni locali o dei ceti medio/bassi longobardi, la documentazione scritta di VIII secolo è relativa ai beni e alle proprietà di possessores d'alto rango. Mentre manca ancora uno studio di sintesi sui ritrovamenti archeologici riferibili alle popolazioni indigene e parallelamente sfugge il tipo di vita ed il tenore economico della popolazione longobarda che non si distinguesse per rango o per alto stato sociale, sopratutto nelle campagne. Nel posizionamento dei reperti, accanto o sul corpo, assistiamo a poche varianti: i coltellini generalmente giacevano tra il torace e l'omero sinistro dello scheletro (tt. 10, 14, 26, 44), o all'esterno dell'omero sinistro (tt. 20, 34, 53,59, 65, 77, coppia), con la punta della lama volta verso l'alto, in pochi casi essi giacevano, invece, lungo il fianco destro, all'altezza della coscia con la punta volta verso il basso (tt. 11, 37). Il primo caso sembra indicare una deposizione simbolica dell'oggetto, il secondo dovrebbe rispettare la posizione d'uso, pendente dalla cintura, custodito in un contenitore in materiale organico. Per gli scramasax relativi alle tt. 42 e 79, protetti dai foderi e avvolti nelle cinture di sospensione si è già vista la deposizione "simbolica", non relativa all'utilizzo dell'arma, ma al suo significato legato alla cultura guerriera, mentre probabilmente erano indossate le cinture rinvenute nelle tt. 37 e 40 (fibbie),39 e 61 (guarnizioni), con elementi metallici trovati presso il bacino (Fig. 12, 1-3). Abbiamo, quindi, indizi di un trattamento diverso del corpo del defunto a seconda degli oggetti simbolo scelti per il suo seppellimento. Riassumendo la datazione relativa alle deposizioni scavate in Santi di Sopra è da porsi a partire dal secondo quarto del VII secolo circa alla seconda metà del medesimo, anche inoltrata, quando abbiamo le maggiori attestazioni. Le sepolture più antiche potrebbero essere la 79 (nucleo B), che conteneva uno scramasax di media lunghezza (lungh. tot. cm 42) e la t. 61 (nucleo B), con guarnizioni bronzee, da datarsi al secondo quarto del VII secolo, e una fibbia da cintura d'abito del tipo "Siracusa" (a decorazione fitomorfa con giglio mediano e volute vegetali) 82 di esecuzione piuttosto accurata, che rimanda a una produzione attuata in grandi opifici a contatto con il mondo bizantino o in area bizantina, mentre al VII secolo inoltrato/inizi VIII si riferiscono i corredi delle tt. 12 e 17 (nucleo A) con elementi da cintura in ferro decorat`ò da laminette di ottone, tipo "Giengen" (supra) (Fig. 9/P, 13-14) 83, la t. 42 con lo scramasax lungo (tot. cm 59,5), la t.39 (nucleo N) con guarnizioni in bronzo traforate e sagomate 84. È da dirsi che le guarnizioni da cintura bronzee presenti a Santi di Sopra mostrano un'ampia gamma di elaborazioni formali (Fig. 11, 2-3), dal tipo quasi "canonico", secondo una definizione data da 0. von Hessen (1983), che prende ad esempio il set di guarnizioni da S. Maria di Zevio, caratterizzate dalla terminazione a scudetto smerlato della placca e dalle borchie bronzee su corona di base zigrinata (o a filo metallico ritorto) applicatevi in prossimità degli angoli (tt. 40, 42, 61, 83), a prodotti di imitazione con profili semplificati e privi di borchie (tt. 14, 38, 61, placchette) (Fig. 11, 1) e di qualsiasi altro motivo ornamentale e, infine, ad esemplari con decorazioni ad occhi di dado o cerchi concentrici puntinati e fortemente sagomati (tt. 12, 39) (Fig. 11, 4). Nelle tombe 39, 61 i diversi tipi sono compresenti nello stesso corredo. Questi diversi tipi nascono da produzioni non standardizzate, di artigianato locale parcellizzato in più centri territoriali. Vista l'alta concentrazione di tipi si può supporre che uno di questi centri fosse la stessa Calvisano. È chiara, nella scelta dei motivi ornamentali e nel gusto per il traforo, l'influenza della cultura del sostrato romano provinciale di età tardoantica (Fig. 9/P, 11). I confronti più evidenti sono costituiti da guarnizioni di Calvisano/ Marcadei e di altre località del bresciano, del trentino, del Veneto, del Friuli, dell'Italia centro meridionale e transalpini 85. Di questa mescolanza o assimilazione tra cultura di "sostrato" e longobarda, un altro tratto caratteristico sembra essere costituito dall'aumentare del numero degli elementi in bronzo (puntali, puntalini, placche) delle cinture a "5 pezzi" (cfr. t.39) (Fig. 9/0, 17), quasi ad emulare la quantità di guarnizioni che caratterizzava le cinture multiple (in oro, argento, ferro ageminato). In questa direzione va anche la selezione operata nella scelta del corredo che, dopo i coltelli, privilegia nei corredi “ad un solo oggetto” la guarnizione da cintura reggiarmi (cfr. tt. 7,17,40,38,83),
evidentemente per il suo intenso significato simbolico. Tale scelta deriva anch'essa dalla cultura tardoromana provinciale particolarmente nelle aree limitanee transalpine 86. A Calvisano lo strumento più diffuso è il coltello d'uso quotidiano in ferro (Fig. 6). Esso è presente come "unico oggetto" (riduzione o simbolo, indizio probabile di basso censo) in sette sepolture (tt. 10, 11, 18,34, 44,59, 87), mentre complessivamente conta 19 esemplari (due nella t. 77). Oltre alla presenza di coltellini e di guarnizioni da cintura (un unico pezzo nelle tt. 17, 40, 38, 83), abbiamo: 3 acciarini (tt. 50, 77, 79), un necessaire da toilette (t. 39) e una chiave (t. 61) 87. Nell'intera necropoli è documentata una sola fusaiola in terracotta (t. 39), deposta alla sinistra del cranio, probabile indizio di sepoltura femminile (insieme all'armilla sporadica) 88. La presenza femminile dovrebbe "nascondersi" nelle sepolture con corredi privi di indicatori specifici dell'individualità sessuale, ad esempio quelle con coltelli d'uso domestico e con fibbie da cintura semplice. Lo scheletro dei defunti, infine, giaceva in posizione supina con capo sempre ad Ovest, in soli due casi si è potuto rilevare che i defunti avevano le braccia incrociate sul bacino (tt. 62 e 64), posizione riscontrata anche per i due scheletri sepolti nella t. 1 di Mezzane 89. È documentata una sola tomba infantile certa (t. 57, priva di corredo). Altre sepolture di bambini, di adolescenti e di donne sono attestate dalle modeste dimensione del loculo 90. PAOLA MARINA DE MARCHI
1 DE MARCHI 1995b, con bibliografia relativa ai ritrovamenti citati in testo. 2 BIERBRAUER 1991, PP. 32-33, fig. 8-19. 3 Hist. Lang., II, 26 e 32. 4 Nel cremonese, ad esempio, i ritrovamenti più meridionali di Madignano/Ripalta Vecchia e S. Bassano hanno restituito sepolture con "corredi" composti di un'armilla bronzea ad estremità ingrossate di VII secolo con riscontri in esemplari autoctoni, nel primo caso, nel secondo solo fili di broccato (tomba molto danneggiata), TOSATTI-GIACOMINI 1985, pp. 135 137, GIACOMINI 1983, pp. 112-113. La necropoli di Canneto sull'Oglio, nel bresciano, BREDA 1987, pp. 159-160, suggerisce, per le sepolture dipinte e l'assenza di corredi una temperie culturale diversa, vedi n. 1S. 5 Hist. Lang., IV, 25-28. 6 DE MARCHI 1995b, p. 42. 7 Hist. Lang., IV, 3; V, 38; VI, 35-38. 8 Tozzi 1972, pp. 104-106. 9 CDL, I, n. 19, col. 38, 759, settembre 17, cfr. GASPARRI 1980, p. 438. 10 Hist. Lang., III, 16, e cfr. Hist. Lang., V, 28, lo smembramento del territorio della città di Oderzo dopo l'occupazione di Grimoaldo, diviso tra i ducati di Ceneda, Treviso, Cividale, costituisce un esempio delle modalità operative usate dai re longobardi per controllare i territori delle città conquistate. 11 Gass., Var., II, 20 e 31; IV, 45, X, 28; Procopio G.G., II, 28. Cfr. CAVANNA 1967, p. 80, n. 9; AMBROSIONI 1986, pp. 169-170 note. La regolamentazione della navigazione fluviale e l'organizzazione dei porti ove pagare il dazio, indice della consuetudine ad utilizzare le vie d'acqua, che in Lombardia è, per altro, proseguita fino a tempi ai noi molto più vicini, è chiara nel patto stipulato da re Liutprando nel 715 con i commercianti comacchiesi, HARTMANN 1 9 04; cfr. VIOLANTE 1 9 8 1. 12 VON HESSEN 1973, pp. 73-80 (vecchi ritrovamenti), BREDA 1992-93b, pp. 82-83. Leno viene cos~ precisandosi come un altro interessante fulcro di nuclei insediativi territoriali. Lo studio delle necropoli recentemente scavate di Calvisano e il catalogo dei reperti sono in corso di studio da parte di scrive. 13 BREDA 1988-89, p. 200; DE MARCHI 1992-93, pp. 295-326. 14 RIZZINI 1894 e 1914; allo studioso e al Cicogna, allora direttore della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, si devono i sopraluoghi a seguito dei ritrovamenti e il recupero di buona parte dei reperti, che vennero depositati ai Civici Musei di Brescia (dove sono tuttora), la stesura della pianta della necropoli e un primo rilievo delle sepolture, cfr. PANAZZA 1964, pp. 137-171. Inoltre, sebbene si sia certi che la necropoli fosse molto estesa, esiste una discrepanza tra il numero di 500 sepolture tramandato dal Rizzini e quello di 900 tramandato da Lechi, cfr. LECHI 1959. 15 Vedi n. 13. In DE MARCHI 1992-93 i confronti per le sepolture con croci dipinte e incise, tra i quali si ricordano solo Canneto suli'Oglio, BREDA 1987, vedi n.4, datate al medioevo Brescia S. Salvatore/ S. Giulia, relative al monastero altomedioevale, BROGIOLO 1992, p. 196, e, infine, quelle scavate nel duomo di Monza, JORIO 1990, pp. 206-210, fig. 221-223, con datazione oscillante tra VI e IX secolo, cfr. CASSANELLI 1989, pp. 71-74, che le distingue in due gruppi, il primo (tt.1-2) di IX, l'altro costituito dalla t.3 sicuramente anteriore e probabilmente di VII/VIII.
16 CHIARINI 1990, p. 133, fig. 149; BREDA 1992-93a, pp. 81-82. 17 BREDA 1992-93a, pp. 81-82. 18 PANAZZA 1964, pp. 163-164. 19 CAPB 1991, p. 43. 20 lbidem, pp. 42-43. 21 BARONIO 1984, pp.18, nn.28-29. La distribuzione di boschi nel territorio di Calvisano nel medioevo è accennata in GUERRESCHI 1989, p. 23. 22 VON HESSEN 1971a; MENOTTI 1994, pp. 97-127. La necropoli di Goito è ancora in corso di scavo. Presentazione dei reperti restaurati in La necropoli longobarda a Sacca di Goito, a cura di E. MENOTTI, Mantova, 1994. Lo studio dei reperti della necropoli Marcadei è in P SESINO, Le necropoli longobarde del bresciano, Tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore/Milano, A.A. 1981-82, relatore prof. A. M. Ambrosioni. 23 DE MARCHI 1995b, pp. 66. 24 Il materiale più antico potrebbe essere costituito dalle croci in lamina d'oro con stampi raffiguranti maschere umane, FUCHS 1938, che le data però al secondo ventennio del VII secolo, attribuzione cronologica che potrebbe essere oggi anticipata, in base ad analisi stilistica, DE MARCHI 1995b, p. 74, n. 205. 25 VON HESSEN 1964, pp. 171-180; INCITTI 1992, pp. 213-217. 26 DE MARCHI 1992-93, pp. 313-317 27 TozzI 1972, che ha identificato i percorsi relativi alle suddivisioni agrarie romane relative a Leno/Calvisano e Leno/Manerbio. La distribuzione delle necropoli "longobarde" intorno all'abitato, lungo i percorsi d'accesso al medesimo, ricorda Cividale del Friuli, LOPREATO 1990, pp. 18-19; Grancia, nel grossetano, lungo la via Aurelia con cinque cimiteri distribuiti nel circondario, VON HESSEN 1971b, e Casetta di Mota, CITTER 1995, p. 208; Povegliano nel veronese altra area insediativa distinta da quattro necropoli databili dall'età della migrazione a tutto ii VII secolo, in zona carente di testimonianze archeologiche romane, ma ricca, al contrario di ritrovamenti preromani. In questo caso le necropoli sono distribuite attorno al paese odierno e coinvolgono le località Ciringhelli con 100 sepolture (1966), Madonna dell'Uva Secca (1981, raccolta di pochi oggetti), Marinare (1992, con recupero di reperti nel corso di uno scavo dell'età del ferro), Ortaia con numerose sepolture, tra le quali una equina e di due cani, LA ROCCA 1989a, pp. 168-170. 28 VALENTI 1995, pp. 63-106, part. pp. 83-93. 29 CDL, I, n. 40, col. 245, anno 841; BOGNETTI 1961, p. 467, GUERRESCHI 1989, p. 54 con segnalazione di documenti del XII secolo. 30 La derivazione da botteghe artigiane e la distribuzione sul territorio ad opera di commercianti, o, forse in parte, grazie all'attività di artigiani-orafi itineranti, come è stato supposto da VON HESSEN 1990, pp. 208-209, può trovare conforto nelle notevoli affinità stlhstlche ed esecutive riscontrabili, ad esempio, tra due croci rinvenute a Fornovo San Giovanni DE MARCH] 1992, p. 210, fig. 6512, decorate con intreccio di animali serpentiformi, a corpo perlinato, e la croce rinvenuta a Visano (km 4 circa da Calvisano), RIZZINI 1914, p. 39, tav. 1 che sembrano battute sullo stesso stampo. Affinità soprattutto di gusto si riscontrano tra le crocl con decorazlom a maschere umane circondate da dettagli zoomorfi (musi) e da nastri perlinati di Calvisano/Marcadei, FUCHS 1938, tavv. 17, nn. 80, 18, nn. 78-79, 19, n. 77, e quelle nnvenute nel pavese, PERONT ]967, tavv. XXII, n. 89; XXIV, n. 96. 31 BREDA 1988-89. Cfr. Ia contiguità tra resti archeologici di età romana e i ritrovamenti altomedievali: Malpaga, CAPB 1991, n. 232; Viadana/ Località Pates e frazione Bredazzane, Ibid., nn. 218, 229-230, Mezzane, Ibid., n. 225, e carta allegata Dó/lV. 32 BROGIOLO 1992, pp. 179-210. 33 RIGONI-HUDSON-LA ROCCA 1988, pp. 229-233. 34 DE MARCHI 1988a e 1995a, pp. 68-70, per il ruolo di fulcro svolto da Fornovo S. Giovanni; nuovi importanti ritrovamenti d'epoca romana e longobarda sono emersi recentemente in via Cimosse, FORTUNATI ZUCCALA 1991, p. 63, e 1992-93, pp. 77-78. 35 LUSUARDI SIENA 1992, pp. 136-137. Ulteriori confronti Sono segnalati in DE MARCHI 992-1993. 36 CDL, 1, 861, 11 marzo, col. 350, n. 213; cfr. JARNUT 1981, pp. 20, 35, 97, n. 100, 6, 157. 37 DE MARCHT 1995b, pp. 41, 56-58. 38 BROGIOLO 1991, pp. 159-160. 3911 monastero di S. Salvatore/S. Giulia dovrebbe essere stato edificato nel 758, cfr. BROGIOLO 1992, p. 204, n. 83; per l'epoca di fondazione del monastero di Leno, precedente alla elezione al trono di Desiderio, cfr. BOGNETTI 1961, p. 434, n. 2, con citazione dei Diplomi regi di conferma dei beni e dei privilegi concessi all'istituzione, relativi ai secoli dal IX al Xll. 40 TOZZI 1972, pp. 101-152. 41 Vedi n. 44. 42 TOZZI 1972, tav. XIII. 43 Dalle scritture di X secolo (Polittico, inventario delle proprietà del monastero attribuito ai primi anni del secolo) sappiamo che al mercato di Iseo, proprietà appunto del monastero di S. Giulia, PASQUALI 1992, p. 139, affluiva il ferro scavato nelle valli, cfr. ODORICI 1858, V, pp. 17-18, p. 567. In BOGNETTI 1961, part. pp. 434-435, 441, il quadro generale della diffusione dei beni del monastero nella penisola e l'analisi dell'interscambio tra grossi centri monastici, rientrante nella politica di controllo della popolazione di Desiderio, attestata per Leno dal fatto che il re avesse voluto, quale primo abate della nuova istituzione, Petronace monaco a Montecassino. La presenza di monaci bresciani e
provenienti dall'ltalia settentrionale a Montecassino è attestata da fonti epigrafiche e rientra sempre nella logica di controllo delle maggiori vie commerciali, strategico-militari, e della produzione (transiti alpini, produzione, commercio di prodotti agricoli, manifatture specializzate nella lavorazione della seta, di altri tessuti, metallurgia), condotta dalla monarchia. La stessa politica di controllo fu applicata, dopo la sconfitta del regno longobardo (774), da Carlo Magno che donò il monastero di S. Giulia e le sue pertinenze, compresa la Val Camonica, al monastero transalpino di S. Martino di Tours, CDL, I, n. 52, 774, luglio 16, per assicurarsene un controllo migliore. Per i centri di approvvigionamento di pietra, marmo, metalli in età romana, cfr. TOZZI 1972, pp. 136-137. 44 Milano Capitale 1990, p. 445, la.3 (rete stradale dell'ltalia settentrionale). TOZZI 1972, p. 143, nn. 388-389 ricorda l'importanza di Brescia nei secoli IV e V attestata da dediche imperiali e dalla frequente emanazione di leggi dalla città, spesso residenza della corte e dell'esercito. L'importanza strategica di Brescia e del territorio del Garda, è evidente, ad esempio, nella battaglia vinta da Claudio il Gotico, nel 268, sugli Alamanni combattuta alla Selva Lugana, poco distante da Sirmione, cfr. BROGIOLO 1989. 45 TOZZI 1972, T'art. pp. 122-124 (la Brescia/Mantova è segnalata da fonti medievali ma l'autore ritiene “difficile pensare” che questa strada entrasse in funzione dopo il 476). 45 Ved in. 12. 47 Manerbio, BREDA 1986, pp.127-128; Calvisano, CAPB 1991, n. 223. 48 Vedi n. 24. 49 TOZZI 1972, pp. 127-128, 130, 132. 50 Ibidem, p. 115, n. 295. 51 CIL, V, 4053, 4859. 52 BOGNETTI 1948, pp. 144-148; BARONTO 1984, p. 212. 53 Hist. Lang., IV, 28. 54 ODORICI 1 858, ~ doc. 38, p. 45, e VI, p. 13, 10 dicembre. BOGNETTI 1961, pp. 502503; SETnA 1984, p. 157 e n. 22, p. 205 (riferimento alle differenze tra le fortificazione in pietra di Leno e quelle in legno di Gottolengo, cfr. MALVEZZI 1729), p. 242, n. 149, p. 246. 55 PASQUALI 1978, pp. 142-167, e 1990, pp. 131-145 (distribuzione delle curtes di S. Salvatore/S. Giulia secondo il Polittico: vedi n. 43). Analisi della produzione cerealicola dell'allevamento e delle caratteristiche delle curtes di Alfiano, Flero e Castegnato in MONTANARI 1985, pp. 356, tav. 3, 227, tav. 12, 229, 237, 246 n. 125 304, 419.11 valore della corte di Alfiano è valutato in RUGGINI 1961, pp. 493-494, 499-50i (tavole). 56 BOGNETTI 1961, pp. 425-426 e ss.; GASPARRI 1980, pp. 436- 442. Vedi n. 43. 57 CDL, III, n. 41, 772, giugno 14, Pavia, p. 241. 58 Alfiano venne acquistata in due soluzioni, la prima che vide il rector del monastero comprare dal vescovo di Lodi alcune terre già proprietà dello strator regio bergamasco Gisulfo, CDL, I, n. 19, col. 38, 759, settembre 17, per conto della badessa, la seconda ad opera della badessa Anselberga medesima che rilevò quanto ancora detenevano dell'eredità del padre Gisulfo le sue due figlie, CDL, II, 155, 761, settembre 10. Quinzano, donazione di beni regi da parte di Desiderio, CDL, I, n. 18, col. 36, 759, gennaio, e n. 20, col. 40, 760, ottobre 4. 59 CDL,111,1, n.39, p.232,767. La produzione di tessuti in seta, già in età desideriana, se non precedente, è attestata in CDL,1I, n. 158, (761?), pp. 89-90, documento che impegna le monache a pagare per l'utilizzo della condotta d'acqua - che dalla porta dei Beati Martiri Faustino e Giovita attraversava, prima di giungere al monastero, anche i terreni e le proprietà appartenenti alle chiese di S. Desiderio, S. Giovanni Evangelista e S. Eufemia - al clero della cattedrale palii de blata melesla e de blata fusca, cfr. BETTELLI BERGAMASCHI 1992, p. 148. 60 MONTANARI 1985, p. 356, tav. 3. 61 BOGNETTI 1961, p. 509. 62 Cfr. BARONIO 1984. Vedi n. 39. 63 BREDA 1988-89, PP. 201-202, al quale si rimanda per ogni informazione riguardo le modalità di scavo, la raccolta e la selezione dei dati, le prime considerazioni sulla struttura delle sepolture e i corredi. 64 BREDA 1988-89, P. 200. 65 Ibidem, p. 203, fig. 178, con analisi della distribuzione dei diversi tipi tombali nei vari nuclel. 66 Ibidem, p. 201. 67 Ibidem, p. 201 68 Cfr. LA ROCCA 1989b, p. 89, n. 48; J0RGENSEN 1992, pp. 44-45. 69 Cfr. Ie considerazioni di MARTIN 1986, pp. 147-196. 70 Cfr. datazioni in VON HESSEN 1980, pp. 123-129, tav. I-II. 71 Tombe 30, 65, 93, 124, 164,168, 173,220, MENGARELLI 1902, pp. 89, tav. IX/12 104, tav. X/ó, 126, 156, 172, fig. 223, 174, tav. XIV/4-5, 177, 193-194. Questi anelli sono generalmente pertinenti a sepolture femminili e continuano la tradizione dell'anello matrimoniale o di fidanzamento di età romana, DE MARCHI 1988b, pp. 224-225. 72 Nel repertorio ornamentale degli anelli tardoantichi e altomedievali, la croce di S. Andrea, incisa sulla piastra dell'esemplare della t. 12, è uno dei motivi più diffusi nei secoli V, VI, VII, cfr., a titolo indicativo, gli anelli di Corinto, DAVIDSON 1952, tav. 103, 1853, e 105 1925 della necropoli di Meizza, presso Pinguente in Istria, t. 86, TORCEILAN 1986, tav. 22/ 7. L'aneilo delle t. 12, unico nella parte di necropoli finora scavata e che si viene a trovare in un corredo da ritenersi maschile, si distingue per la lavorazione abbastanza accurata nei dettagli ad esempio, le due costolature che
evidenziano la piastra, cfr. anello argenteo di tradizione romana da Carpino, provincia di Foggia, D'ANGELA 1988, tav. LXVII, 21. La componente mista longobarda e romanza (con persistenza di tradizioni tardoromane nella struttura delle sepolture) dei defunti deposti nella necropoli di Castel Trosino è stata di recente evidenziata da un'attenta analisi di PAROLI 1995, pp. 199-212. 73 Fibbie di tipo "Siracusa" in WERNER 1955, pp. 36-48, con carta di distribuzione dei ritrovamenti in tutta l'area delle ex province dell'impero romano, e in VON HESSEN 1983, pp. 29-32, per un aggiornamento cfr. RIEMER 1995, p. 778 ss. carta di diffusione a p. 799, fig.30. La fibbia con placca e la controplacca della cintura a "5 pezzi" hanno confronti, non puntualissimi, con gli esemplari della t. 40. In ambedue i casi si tratta di varianti del tipo canonico al quale assomigliano nelle caratteristiche formali, cfr. VON HESSEN 1983, pp. 24-27, che le data a partire dagli inizi del VII secolo (con prototipi negli ultimi anni def VI), ma perdurante a lungo (VII secolo inoltrato). Riscontri, tra i molti, si hanno con esemplari di Calvisano/Marcadei, RIZZINI 1914, p. 42, 200, tav. V, 58, che ha quasi le stesse dimensioni dell'elemento della t. 40 di Rodigo/Corte Pannicella, ROFFIA 1982, p. 106, fig. 83, 2-3, di Testona, VON HESSEN ]97ia, tav. 40, 362 e 367; di Nomi, in Trentino, CAVADA 1992, pp. 118-119, fig. 18, 2-3, con scudetto terminale apicato, di Povegliano t. 1, LA ROCCA 1989a, tav. XXXII. Fibbia di Ascoli Piceno, ABERG 1923, fig. 20, e PROFUMO 1995, p. 156, fig. 114; il motivo delle stelle a cinque punte incise, di tradizione tardoantica e bizantina, è frequente su oggetti di diverso genere, ad esempio anelli digitali di IV-VI secolo, con ritorno di moda nei secoli X e XI, cfr. manufatti dagli scavi di Corinto, DAVIDSON 1952, tavv. 104, 1872-1873; 105,1925 e 1927-1929; 106, 1897 e 1939. 74 Queste placchette non sono ancora state nosizionate esattamente nelle ricostruzioni di cinture militari e delle cinghie di sospensione dene armi, nei corredi però sono spesso associate con elementi di cinture multiDle m metallo Drezioso, cfr. Arcisa t. 12, VON HESSEN 1971b, p. I 8 tav. 4/3 (ad "8" senza trafori); a Monte Suello in Valdonega t. 4, VON HESSEN 1968, tav. 10/1 a Trezzo d'Adda t. 4, ROFFIA-SESINO 1986, pp. 78-79, tav. 31 (a teste di cavallo contrapposte in argento con decorazioni a niello), in ricca tomba di cavaliere con equipaggiamento composto da cintura da spada e da scramasax, in contesto da datarsi al secondo trentennio del VII secolo, VON HESSEN 1986, pp. 165-166- a Cividale, necropoli di Piazza della Resistenza, AHUMADA STIVA 1996, tav. III, 3; a Castel Trosino t. 9, MENGARELLI 1902, pp. 79, n. 9, fig. 70-72, una placchetta nnvenute vicino al femore smlstro del defunto msleme ad un puntale in argento da cintura multipla e ad un fibbia di tipo "Siracusa", databili attorno alla metà del VII secolo. Nel caso della t. 61 si può, quindi, pensare che una di queste placchette guarnisse la cintura d'abito in associazione con la fibbia di tipo "Siracusa', mentre recentemente si è ipotizzata una loro funzione come elemento di chiusura di borse, RICCI 1995, p. 255. Una ripresa del custo tardoantico nella seconda metà del VII secolo è stata messa in evidenza da MELUCCO VACCARO 1978, pp. 9-71, a proposito delle guarnizioni da cintura multipla in ferro ageminato (nel motivi decorativi e nel e iscrizioni salvifiche m latino). 75 VON HESSEN 1983, pp. 24-27, per il quale il tipo "canonico" è esemplificato dalle guarnizioni di S. Maria di Zevio a Verona. 76 Goito, DE MARCHI 1994, tav. XIII/4, datata alla seconda metà del VII secolo, Botticino Sera RIZZINI 1894, tav. IV/19; necropoli alamanna di Giengen t. 36, PAULSEN-SCHACH DORGES 1978 pp. 104-105, tav. 25, 11, 13, 17, datata alla seconda metà del VII secolo; Gargagnano, DrovinCia dl Verona, LA ROCCA 1989a, tav. XIV/4; Pettinara in provincia di Perugla, etc.: da ultimo RIEMER 1996. La placca della t. 39 ha confronto ad esempio, con altra da cintura militare tardoromana, decorata ad occhi di dado, cerchielli e cerchl concentrici con punto mediano punzonati, da Lochenstein in HASELOFF 1979, fig. 1, a sua volta affine all'esemplare, privo di provenienza, della collezione Stibbert di Firenze'VON HESSEN 1983, tav. 13, part. n. 1. Cfr. fig. 9/P, 11-12, in questa sede. 77 Cfr. il processo di assimilazione tra popolazioni indigene e germaniche nelle necropoli retiche tardoantiche ed altomedievali di Bonaduz, Sézegnin, Kaiseraugst, MARTIN 1986. In Lombardia esempi di scYamasax, come unica arma di corredo sono attestati a Trescore Balueario in sepoltura con speroni, e a Cologno al Serio, DE MARCHI 1995a, Scheda 4, p. 3, in relazione ad individui che in vita appartenevano probabilmente ad un ceto modesto, romanzi o IQngobardi che fossero. 78 Civici Musei di Brescia n. inv. SB 4. 79 La continuità della tradizione romana della moneta deposta nella sepoltura con funzione di obolo/viatico a Caronte, nell'altomedioevo e oltre, è analizzata in D'ANGELA 1983 pp.82-91, che ricorda le monete, non forate e riutilizzate a ciondolo, dei cimiteri "longobardi" di Cividale del Friuli, di Nocera Umbra e Castel Trosino, ma gli esempi sono sicuramente più numerosi. Sullo stesso argomento cfr. AMANTE SIMONI 1990, pp. 231-242, che partendo dall'analisi statistica della necropoli tardoantica/altomedievale sarda di Cornus, constata come nei corredi relativi alle necropoli autoctone, le monete/obolo siano attestate in numero maggiore rispetto a quanto emerge dall'analisi dei corredi delle necropoli a carattere germanico. 80 A Nocera Umbra, ad esempio, le offerte di cibo sono attestate in 22 sepolture su 165, cfr. D'ANGELA 1983, pp. 85. Più precisamente nelle tt. 26 (ossicini di pollo), 30 (gusci d'uova), 36 (gusci d'uovo, ossicini di pollo), 37 (gusci d'uovo), 38 (gusci d'uovo), 41 (gusci d'uovo),42 (ossa di pollo e di agnello),54 (gusci d'uovo),58 (gusci d'uovo), 75 (gusci d'uovo), 79 (ossa di ovini, avanzi di gusci d'uovo), 84 (gusci d'uovo, mascella di maiale), 85 (gusci d'uovo), 87 (ossa di polli e gusci d'uovo), 93 (frammento di femore di ovino), 100 (ossa di pollo, costole di agnello, gusci d'uovo), 105 (gusci d'uova), 111 (ossa di pollo), 117 (pezzi di gusci d'uova), 121 (gusci d'uovo), 128 (guscio d'uovo), 130 (gusci d'uovo), 140 (gusci d'uovo e ossicini di pollo), PASQUI-PARIBENI 1918, cc. 216, 221, 235, 238, 241, 242, 251, 254, 269, 273, 277, 282, 287, 288, 292, 296, 303, 306, 310, 315, 316, 323. In genere queste offerte completano sepolture ricche o medioricche, fatto che suggerisce la relazione tra deposizione di cibo nella sepoltura e status sociale.
81 MARTIN 1986, P. 166. 82 Il quadro generale di datazione degli scramasax è in VON HESSEN 1971a, p. 18. 83 Vedi n. 76. 84 Vedi n. 76. 85 Guarnizioni da cintura privi di borchie e con decorazione im~ressa, datate alla seconda metà del VII secolo, sono, tra i numerosi esempi, nella necropoli alamanna di Kierchheim t. 167,NEUFFER M0LLER 1983, tav. 28/8-10; a Trento-Palazzo Tabarelli t.7, CAVADA CIURLETTI 1986, fig. 25; a Nago (TR), CAVADA 1992, p. 107, fig. 8-10; a Michele dell'Adige e lizzana, AMANTE SIMONI 1981, p. 80, nn. 22-25; a Borgomasino (Pv), PERONI 1967, tav. XXIX, 104107; a Botticino Sera (BS), RIZZINI 1894, tav. IV/20; a Goito (MN) t. 157, DE MARCHI 1994, pp. 52-53, tav. XIII/1-4, tav. XIV/1; a Padova, LA ROCCA 1989a, fig. 8, 10; a Cividale-Piazza della Resistenza, AHUMADA SILVA 1996. Si vedano, ancora, gli esemplari conservati presso la collezione Stibbert di Firenze in VON HESSEN 1983, tav. 13, Castel Trosino tt. 90 e 205, RICCI 1995, fig. 170, 174, 209. Per la ripresa della tradizione tardoromana vedi note 74-76. Cfr. si hanno anche con le fibule a testa digitata decorate a traforo e a impressioni geometriche di VI e VII secolo, ad esempio quelle rinvenute a Darfo, Corna di Darfo in Val Camonica, RIZZINI 1914, tav. III, e a Villa Lagarina (TR), AMANTE SIMONI 1981, p. 80, tav. IV8). 86 MARTIN 1986, pp. 165, 179, 187; KELLER 1989, pp. 426-427; CAVADA 1992, pp. 99129. 87 Cfr. necropoli altomedievali istriane, dove il coltello è uno degli elementi più comuni, TORCELLAN 1986. Gli acciarini sono ben documentati anche nella necropoli di Calvisano/ Marcadei con quattro esemplari (Civici Musei di Brescia nn. SB 236-239), RIZZINI 1894, p. 43, 240-243. Nella necropoli autoctona di Meizza, in area istriana, acciarini sono presenti in sepolture datate dal VI all'VIII secolo, TORCELLAN 1986, pp.51 -52. Per questo tipo di strumento deve ancora essere precisata la seriazione cronologica delle diverse fogge documentate. 88 Nel cimitero altomedievale autoctono di Meizza abbiamo - il dato statistico è molto indicativo - 19 fusaiole su 18 tombe femminili, TORCELLAN 1986, p. 53. Questo strumento è documentato, però, anche in tombe infantili e maschili, forse usato come ornamento, giocattolo amuleto cfr. BOLLA 1988, p. 218, tav. XI, 16-19, con indicazioni bibliografiche. 89 BREDA 1988-89, p. 200. 90 Ibidem, p. 203. Ringraziamenti Si ringraziano per avere autorizzato questo studio la dr. ssa Elisabetta Roffia, al tempo della scoperta della necropoli, Soprintendente reggente della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, e il dr. A.M. Ardovino, che le è succeduto nell'incarico; dello stesso ufficio ricordo con affetto la dr.ssa Filli Rossi e il dr. Andrea Breda, per l'assistenza prestatami e per le preziosi informazioni. Ringrazio ancora la dr.ssa Clara Stella e Gerardo Brentegani dei Civici Musei di Brescia per avermi agevolato in ogni modo controlli e verifiche sui materiali della necropoli Calvisanoi Marcadel, conservatl presso il museo. Un ringraziamento va infine ad Enrico Cavada, dell'Ufficio Beni archeologici della Provincia autonoma di Trento e ad Isabel Ahumada Silva per la disponibilità al confronto dimostratami. A mia madre Elena Dornig. Disegni dei reperti di Tino Pacchieni, Soprintendenza Archeologica della Lombardia. Carte di distribuzione di Alberto Longoni.
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Le sepolture a Brescia tra tarda antichità e prima età longobarda (ex IV-VII)
1. Continuità e cristianizzazione delle necropoli romane L'elenco dei primi vescovi bresciani è riportato in una pergamena del XII secolo 1. Da questo documento, che sulla scorta di taluni riscontri è generalmente giudicato attendibile, risulta che tutti i vescovi di IV e V sec. vennero sepolti nelle chiese sorte nelle aree cimiteriali suburbane a sud e a ovest della città 2. In quella meridionale, nella chiesa di S. Faustino ad sangninem 3 edificata sul lato orientale della via per Cremona, 250 metri a sud della porta che nel Medio Evo è denominata porta Matolfa, furono inumati i vescovi Faustino e Latino (IV secolo). Di quest'ultimo si conserva l'epigrafe funeraria 4, scoperta nel 1464 presso la porta della chiesa. A ovest della medesima via, in S. Alessandro sarebbe stato sepolto Gaudioso, vescovo della prima metà del V sec. s, mentre in S. Lorenzo sarebbe stato invece deposto il corpo di Ottaziano, vescovo di Brescia che partecipò al concilio di Milano del 451. Nell'area cimiteriale lungo la via per Verona, il vescovo Filastrio (seconda metà del IV sec.) fece erigere la chiesa memoriale di S. Andrea, nella quale avrebbe poi trovato sepoltura 6. Poco lontano sorgeva S. Apollonio, luogo di inumazione, oltre che del vescovo omonimo, anche di altri due presuli: Ursicino e Rusticiano 7. Lungo la via triumplina, sul versante orientale del Castello, sorgeva S. Eusebio presso la porta romana che dalla chiesa derivò poi il nome; vi si rinvennero nel 1497 le spoglie di Paolo I vescovo di Brescia degli inizi del V sec. 8. Fu distrutta nel 1516-17 per far spazio alle fortificazioni veneziane 9 e non abbiamo alcuna informazione sull'area cimiteriale ad essa circostante. Ad occidente della città, nei pressi della via per Milano, era invece ubicata, se è corretta l'identificazione, suggerita dalla lista episcopale, con la chiesa che nel Medioevo venne denominata di S. Giovanni evangelista, la basilica del Concilium Sanctorum, fondata dal vescovo Gaudenzio nell'anno 400. Anche in questo caso non abbiamo alcuna indicazione di un'eventuale area cimiteriale 10. Quantunque vi siano informazioni assai frammentarie sulla cronologia e sulle circostanze dell'edificazione della maggior parte di questi edifici, sembra plausibile una progressiva cristianizzazione delle aree cimiteriali suburbane, secondo un modello ben attestato in altre città tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, un modello che trovava nella vicina Milano di Ambrogio un esempio da imitare. Questo processo di cristianizzazione degli spazi funerari anticipa presumibilmente la riorganizzazione urbanistica, allo stato della ricerca genericamente datata tra V e metà VI secolo, che fece di Brescia una città "munita", efficacemente protetta da un rinsaldato sistema difensivo 11. La riorganizzazione comportò l'abbandono degli isolati meridionali, la ricostruzione delle mura, allargate verso ovest, la riqualificazione della sommità del colle, ove era un tempio romano, in luogo di culto cristiano forse collegato ad una funzione militare (un castrum testimoniato nell'838 è infatti da riportare ad epoca più antica); la costruzione del palatium nell'area dell'attuale piazza Vittoria, I'insediamento del complesso episcopale ad occidente, la realizzazione di un porto canale e, come conseguenza dello spostamento del baricentro politico-religioso ad occidente, la marginalizzazione dei quartieri centro-occidentali, più direttamente coinvolti in un processo di destrutturazione sia urbanistica che architettonica. Una perdita non solo di qualità ma anche di funzione e di identità architettonica che investe in primo luogo gli edifici del centro monumentale della città romana. Le murature del teatro, del Capitolium, delle taverne che affiancano il Foro, della basilica e delle domus sopravvivevano ancora in parte in alzato, ma le pavimentazioni marmoree e musive venivano in gran parte asportate e lo strato di
preparazione tagliato da una serie di buche, mentre macerie di livellamento (testimonianza di progressive demolizioni) si alternavano a piani di calpestio con focolari e buchi di palo. In questo contesto urbano degradato, che ho ipotizzato fosse di pertinenza della corte regia longobarda, si inserisce un gruppo probabilmente di condizione servile le cui manifestazioni di cultura materiale sono caratterizzate da un'edilizia residenziale povera, da numerose attività artigianali che spaziano dalla lavorazione del ferro a quella delle ceramiche, dell'osso, dei tessuti e, aspetto che qui particolarmente ci interessa, dalla deposizione dei morti presso le abitazioni. Alcuni isolati del comparto orientale della città vengono inoltre ridotti a coltura, mentre sul lato opposto, in un grande edificio ad ali (forse il palazzo tardo antico), si insedia la corte ducale longobarda. 2. Sepolture ed aree cimiteriali nella prima età longobarda Allo stato della ricerca, non vi sono sicure testimonianze di sepolture all'interno delle mura prima dell'età longobarda (fine del VI secolo), ma va rilevato che la datazione è resa possibile in alcuni limitati casi dalla presenza di corredi, in altri dalla posizione delle sepolture nella sequenza degli scavi stratigrafici, m altri ancora rimane incerta tra V e VII secolo. Distinguerò, sulla base dell'ubicazione: (a) tombe all'interno delle mura, (b) tombe in prossimità delle mura e dunque presumibilmente riferibili all'insediamento urbano, (c) tombe deposte in una fascia compresa tra 1 e 3 chilometri dalle mura, pertinenti perciò ad una fascia di insediamento suburbano. a) tombe all'interno delle mura Sono localizzate in quattro distinti settori della città: (1) sulla sommità del colle Cidneo, nell'area del castello, testimoniato nell'838, ma che, come si è detto, potrebbe risalire ad epoca più antica, (2) nell'area della presunta corte regia, che comprende l'area monumentale della città romana fino alle mura orientali, (3) nella braida realizzata nel VII secolo a sud del decumano massimo, verso oriente, (4) ed infine presso la cattedrale di S. Maria, costruita, forse nel V secolo, presso le mura occidentali della città. 1. LE SEPOLTURE NEL CASTELLO A partire da Titianus (fine del V) e fino a Densdedit (fine VII), nove vescovi su tredici furono inumati in città; di questi, ben sette sul colle Cidneo. Nella chiesa di S. Stefano in arce, o meglio nella memoria o martyrium paleocristiano sul quale la chiesa venne costruita nell'XI secolo 12, trovarono sepoltura quattro vescovi della prima età longobarda (Dominatore, Domenico, Paolo III e Anastasio). Nella cripta di S. Pietro in Oliveto si rinvennero nel 1453 le reliquie dei vescovi Paolo, Cipriano e Deusdedit (vescovi del VII sec.), nonché quelle del martire Evasio 13; anche Ansoaldo, alla fine dell'VIII secolo, sarebbe stato sepolto, secondo la lista episcopale ante uestigium 14 della chiesa, nella quale si conservano 15 resti architettonici e scultorei tardolongobardi. L'antichità dell'area cimiteriale presso la chiesa di S. Pietro è confermata dal rinvenimento avvenuto nel 1883 di una sepoltura longobarda con spada e monete tardoromane, unitamente ad altre 50 sepolture prive di corredo 16. Un centinaio di metri più a sud, un'altra sepoltura con spada (longobarda?) è venuta fortuitamente alla luce una trentina d'anni fa, presso S. Cristo 17. 2. SEPOLTURE NELLA CORTE REGIA Il comparto orientale della città, tra il Foro e le mura, era presumibilmente occupato, come si è detto, dalla corte regia longobarda. Comprende due isolati con domus, sulle quali si insedierà poi il monastero di S. Salvatore, e il complesso monumentale pubblico della città romana, con il teatro, il Capitolium, la basilica ed il Foro. In quest'area a partire dal 1980 gli scavi stratigrafici hanno fornito puntuali indicazioni cronologiche, mentre preziose informazioni sono venute da analisi
antropologiche di due distinti campioni, quello di S. Giulia (scavi 1980-87) e del teatro-Capitolium-Foro-basilica (scavi 1988-92). 2.1 Negli scavi di S. Giulia (1980-1992), sono state rinvenute sepolture particolarmente in due distinti settori 18: nel cortile di Sud Ovest, presso abitazioni databili tra fine VI e VII secolo, sono venute alla luce cinque sepolture (un feto, tre bambini e quattro adulti); nell'Ortaglia di S. Giulia, in una sequenza anteriore, contemporanea e successiva ad una capanna affiancata ad una strada, databile tra fine VI e VII secolo, le sepolture erano sette (quattro di adulto, due di adolescente e una di bambino), mentre in una tomba scavata nella strada vennero deposti nove individui (un bambino, due adolescenti, sei adulti). 2.2 Gli scavi di Vicolo Deserto (area del teatro), piazza Labus (basilica), palazzo Martinengo (taberna del portico del Foro e adiacente complesso termale) e casa Pallaveri (Capitolium) hanno restituito complessivamente 20 sepolture databili tra fine VI e fine VIII secolo, con 32 individui, 28 tra bambini, neonati e feti e solo quattro adulti 19. Le analisi antropologiche hanno dimostrato 20 come la mortalità più alta si manifestasse entro il primo anno di vita, diminuisse tra i 7 e gli 11 anni per poi risalire lievemente tra gli 11 e i 16. I caratteri antropologici "sembrerebbero richiamare le moderne popolazioni del centro-sud Italia", mentre le malformazioni da stress alla braccia, ai piedi ed alla schiena indicherebbero il loro impiego abituale in attività artigianali. 2.3 A questi rinvenimenti da scavi stratigrafici sono poi da aggiungere le tombe rinvenute in passato: (a) in via Piamarta, Ortaglia degli Artigianelli (1957): tomba alla cappuccina, priva di corredo 21; (b) nello sterro dell'iposcenio del Teatro (1958), in contesti con ceramica longobarda 22; (C) nell'Ortaglia di S. Giulia (1968): cinque tombe, tre delle quali con corredo rispettivamente di anello argenteo e collana di perle, pettine, cintura a cinque pezzi 23. 3. A sud del decumano massimo, le insulae occupate da domus romane vennero trasformate nel VII secolo in un'area probabilmente di pascolo 24. Alle fasi più antiche di questa trasformazione si riferiscono due sepolture a cassa, la prima con copertura alla cappuccina, la seconda piana, contenenti rispettivamente un individuo adulto e un adulto assieme ad un adolescente 25. 4. AREA DELLA CATTEDRALE DI S. MARIA Dalla zona circostante la cattedrale di S. Maria Maggiore provengono tombe con corredo: nel 1929, tra il portale d'ingresso e la cappella della Madonna si rinvennero sepolture “con fr. di ceramica, fibbie di cinturoni, vetri "pertinenti ai corredi"” 26; non molto lontano, ma in un contesto insediativo, nel 1991 sono state scavate stratigraficamente due sepolture, databili tra fine VI e inizi VII secolo 27 t. 1 in fossa terragna che taglia riporti della metà del VI secolo, che a loro volta sigillano fasi d'uso di un edificio di V-VI; t. 2 posteriore alla prima, a cassa di muratura riusata più volte per 7 individui, contenente un puntalino di cintura dell'inizio VII e un ardiglione di fibbia di fine VI-inizi VII. Da collegare con la cattedrale sono infine le due sepolture rinvenute nel 1957, una delle quali aveva una croce rossa dipinta all'interno 23. Risulta particolarmente significativo che, a fronte di una concentrazione delle sepolture in tre distinte zone della città, per i rimanenti comparti urbani non vi sia da segnalare che un solo rinvenimento in via Gambara di una tomba con copertura in embrici 29. Dal che si deduce che la pratica di seppellire in città non era indiscriminata, ma legata a specifici fattori: a) un sepolcreto organizzato nell'area del castello; b) un secondo sepolcreto organizzato presso la cattedrale; c) sepolture isolate presso le case nella corte regia e nella vicina braida. Questo modello, definitosi con la prima età longobarda, perdura anche nei secoli successivi, salvo nel comparto dove venne fondato il monastero di S. Salvatore. Degno di nota è anche il fatto che i soli corredi di armi provengano da aree cimiteriali poste sul castello, presso la strada che dal decumano portava alla porta di S. Eusebio. Non sappiamo tuttavia se siano o meno pertinenti alla medesima area cimiteriale e ci sfuggono, in assenza di dati archeologici puntuali, le relazioni con la chiesa cimiteriale di S. Pietro, nella quale, come si è accennato, trovarono sepoltura tre vescovi del VII secolo. Pur essendo all'interno delle mura, l'area del castello poteva
peraltro essere considerata distinta dal tessuto urbano della città e avere quindi una propria area cimiteriale organizzata 30. Sullo sfondo di queste testimonianze aleggia poi il problema, del tutto rimosso dalla storiografia, della cattedrale e delle chiese ariane in una società longobarda bresciana che fino al tempo di Alahis, duca di Trento e Brescia ribelle contro il cattolico Cuniperto, conservò un peculiare attaccamento alla fede tradizionale. b) tombe in prossimità delle mura, riferibili all'insediamento urbano Scarsi e non ben databili sono la maggior parte dei rinvenimenti di sepolture altomedievali nelle zone immediatamente esterne alle mura 31. 1. Una necropoli, presumibilmente longobarda e organizzata, presso la corte ducale è testimoniata dal Malvezzi, il primo storico bresciano che fu testimone diretto alla fine del XIV secolo del rinvenimento di sepolture di individui di alta statura con corredo di armi, avvenuto presso la porta sud-occidentale della città, che a seguito di questi rinvenimenti prese il nome di porta Paganora 32. 2. Altre aree cimiteriali organizzate, almeno fino alla fine del VI secolo e forse anche più tardi, si trovavano presso le chiese cimiteriali meridionali, in parti colare attorno al martirio di S. Faustino 32. Gregorio Magno nei Dialoghi 33 ricorda un episodio avvenuto nel 563-69, al tempo dell'occupazione bizantina. Il vescovo corrotto acconsentì a che vi venisse sepolto il patrizio Valerianum, uomo dissoluto, ma il santo, scontento di questa inumazione, apparve di notte al custode della basilica, affinché ingiungesse al vescovo di allontanare dal luogo consacrato quel cadavere. Da questo racconto si deduce che (a) la chiesa era cimiteriale, (b) era retta da un custode, ma (c) dipendeva dal vescovo che aveva l'autorità di concedervi un'inumazione privilegiata. Una continuità dell'uso funerario di questo martyrium e dell'area cimiteriale circostante potrebbe forse desumersi dal fatto che il vescovo Cunipertus, ancora alla fine dell'VIII secolo, vi troverà sepoltura. Funzione funeraria aveva anche la chiesa di S. Alessandro, poco distante da S. Faustino, dietro l'abside della quale nel 1931 si rinvenne una sepoltura forse altomedievale, con fondo in embrici e copertura in lastra di pietra 34. Mancano invece notizie, e l'assenza appare significativa, del rinvenimento di sepolture altomedievali nell’area delle necropoli romane poste lungo via Cremona; il restringersi dell'area abitata con l'abbandono delle insulae a sud di via Tosio aveva probabilmente determinato, fin dalla fine del IV-inizi V secolo, un progressivo spostamento verso nord anche delle aree cimiteriali. 3. Solo tre sepolture, databili genericamente tra tarda antichità e altomedioevo, provengono poi dalle zone adiacenti alle mura occidentali 35. Altrettanto scarse sono le informazioni per la zona ad oriente della città, dove lungo la via per Verona vi era l'altra grande necropoli romana. Anche in questo settore, nei pressi delle mura erano sorte le basiliche cimiteriali di S. Andrea e S. Apollonio, ma non sappiamo per quanto tempo abbiano mantenuto una funzione cimiteriale. Del tutto incontrollabile è infatti la notizia riportata da Ottavio Rossi del rinvenimento, presso la chiesa di S. Floriano, pure edificata in quest'area, dell'epigrafe del primo duca longobardo di Brescia 36. Per il settore settentrionale manca infine l'ubicazione dei materiali di VI/VII rinvenuti nel 1894, in Borgo Trento, tra i quali sono da segnalare una fibula autoctona, un'ascia e un coltello in ferro e alcuni vaghi di collana 37; non possiamo perciò dire, considerata l'estensione del Borgo Trento, se si tratti di sepolture da riferire alla città o all'insediamento sparso circostante. A parte queste notizie incontrollabili, è certo degno di considerazione il fatto che dalle aree immediatamente esterne alle mura non proviene alcuna sepoltura con corredo longobardo. Ricchi corredi si trovano invece in una fascia più lontana dalla città, da uno a tre chilometri dalle mura. c) Tombe riferibili ad un insediamento sparso in area rurale attorno alla città TOMBE CON CORREDO LONGOBARDO
a) Nei pressi della via per Mantova, in loc. Volta, in un'area cimiteriale utilizzata fin dall'età romana, sono state individuate numerose sepolture nel 189394, 1938 e 1961. Dalle tombe scavate nel 1883-84 furono raccolti, senza alcuna distinzione di corredo, tre spade, due sax, una punta di lancia, due umboni, tre coltelli, due asce, una fibbia e un'armilla 38. La tomba scavata nel 1938 aveva invece un corredo completo di umbone, spada, scramasax, fibbie, coltelli, assegnabile al secondo quarto del VII secolo 39. La sepoltura del 1961 era priva di corredo 40. b) Da S. Polo, via Arici 48 (1979) provengono tre tombe a cassa litica con fondo in tavelloni e copertura in lastre, dalle quali proviene una fibbia longobarda del VII secolo a piastra triangolare mobile e sagomata 41. c) A sud-ovest della città, in loc. Bottonaga è segnalata una tomba longobarda 42. d) A ovest, nei pressi della via per Milano, sono state recuperate due tombe con ricco corredo longobardo. In Via Vantini nel 1919 una tomba con spada, fibbia, calice in vetro e bacile in bronzo 43. Nei pressi, da via Villa Glori, da una tomba a cassa con copertura di lastra di pietra, distrutta da una ruspa nel 1976, proviene una croce con lamina d'oro (C.A.B. 611). e) A nord, sono segnalate due distinte aree cimiteriali con tombe longobarde. A S. Bartolomeo, una tomba della metà del VII secolo con corredo di spada, lancia, scramasax, umbone, sperone, guarnizioni di cintura multipla ageminate 44 Si trovava accanto ad altre tombe a cassa litica senza corredo 45. Nell'occasione si rinvennero numerosi embrici: da tombe sconvolte o da edificio ? Poco più a sud, da via S. Donino (1956) provengono due tombe a cassa con fondo in lastre e copertura in "grossi embrici" con corredo longobardo; la prima con sole fibbie e placche; la seconda con spada, sax, fibbia,`vaso a sacchetto 46. TOMBE PRIVE DI CORREDO a) A sud della città, cinque sono le aree di rinvenimento: (1) tra via Codenotto e via Codignole, in un'area destinata ad attività funerarie anche in età romana, sono venute alla luce, in tempi diversi, sepolture genericamente datate all'altomedioevo 47; sempre da via Codignole (1983) provengono tombe romane 48; (2) in Via Lamberti G. (1963) è stata scoperta una tomba alla cappuccina priva di corredo 49; (3) in Via Malta (1988), una tomba a cassa litica so; (4) in via fratelli Bronzetti, una tomba alla cappuccina "tardoromana o altomedievale" priva di corredo si; (5) in Via Bagni, condominio Elle: due sepolture ad inumazione di età tardo-romana o altomedievale 52. b) A nord, in via D'Azeglio (1961) sono segnalate tombe a cassa litica prive di corredo, di incerta cronologia 53. c) A ovest, in via Carducci è stato fatto il solo intervento di scavo stratigrafico che ha messo in luce i rapporti tra un'area cimiteriale ed una struttura produttiva in uso dalla tarda antichità al pieno medioevo s4. Alla fase più antica vengono riferite tre sepolture ad inumazione in nuda terra, di forma ovoidale o antropoide; una di bambino "costituita da due anfore resecate longitudinalmente e affrontate" è, per il tipo delle anfore, tardoantica. In una seconda fase viene realizzata una banchina portuale o impianto produttivo idraulico, costituito da una grande costruzione nord sud, seminterrata a ovest e sud e formata nei due-tre corsi inferiori da materiale lapideo romano di reimpiego messo in opera a secco alla quale si connette ortogonalmente altro muro realizzato con ciottoli e frammenti di laterizi. Tra il materiale romano, si segnalano due basi per statue iscritte, erette in età adrianea dai collegia fabror?~m et centonariorum, probabilmente lungo la via mediolanensis, il cui percorso non doveva passare lontano dalla zona del rinvenimento. In una terza fase vengono costruiti dei portici aperti addossati al precedente impianto produttivo. Successivamente e per la maggior parte all'interno di uno dei vani interpretati come porticato, vengono deposte 19 sepolture: quattro alla cappuccina, le altre a cassa m muratura con copertura piana. Alcune utilizzano, oltre a materiale romano di reimpiego, anche laterizi di modulo bassomedievale (cm 25/26 x 11/12 x 5/ó), mentre dalla tomba 4 proviene una moneta anonima dei vescovi di Mantova (1150-1256).
Questa importante sequenza sembra plausibilmente da riferire ad un'area insediativa con funzione produttiva almeno in alcuni periodi, ininterrottamente utilizzata dall'età tardoromana fino al bassomedievo e in stretta relazione con le sepolture. Conclusione L'insieme di tutti questi dati (tombe con corredo longobardo, tombe prive di corredo, scavo stratigrafico di via Carducci) mostra in modo inequivocabile che l'area suburbana era caratterizzata da un insediamento sparso, probabilmente di aziende agricole e di attività produttive. Le sepolture di VII secolo con ricco corredo longobardo (rinvenimenti della Volta, di S. Donino, di S. Bartolomeo, di via Vantini e di via Villa Glori) si prestano ad una duplice interpretazione: che in alcune di queste aziende si fossero inseriti, nella prima metà del VII secolo, longobardi di rango elevato, oppure che i proprietari di queste aziende avessero assunto modelli culturali tipici della classe dominante. La prima ipotesi rientra in un'interpretazione di rottura tra tarda antichità e altomedioevo, la seconda privilegia un quadro di continuità. Nella maggior parte dei casi, accanto alle tombe con corredo ne sono state trovate altre che ne sono prive, secondo un modello che si sta rivelando come il più diffuso. Talora potrebbe essere spiegato con una differenza cronologica; tal'altra come compresenza di cultura romana e cultura germanica. E infine oltremodo significativa, almeno per tre di questi siti (quello della Volta, di via Codignola e di via Carducci) la continuità con una necropoli romana o tardoromana, che sottintende, come è dimostrato per via Carducci, anche una continuità dell'insediamento. Queste conclusioni aprono peraltro una serie di prospettive di ricerca nei rapporti tra città e territorio che non possono essere sviluppate, per ragioni si spazio, in questa sede e sulle quali mi riprometto di tornare in un prossimo specifico contributo. GIAN PIETRO BROGIOLO
1 GRADONICUS 1755. 2 PICARD 1988, p. 232. 3 PICARD 1988, p. 220, nota 81, con bibl. 4 CIL V 4846, ILCV 1038. Per PICARD 1988, p. 223,1'epigrafe poteva provenire dalla necropoli a sud di Brescia, non necessariamente dalla chiesa. 5 GRADONICUS 1755, pp. 70-71. 6 S. Andrea, costruita appena fuori della porta romana, che per la presenza del luogo di culto, assunse nell'Altomedioevo la denominazione di porta di S. Andrea. Da alcuni ritenuta primitiva cattedrale, andrebbe in realtà interpretata come “chiesa memoriale che Filastrio nel 387-390 può aver eretto seguendo l'esempio di S. Ambrogio” (PICARD 1988, p. 227) consente pur in modo dubitativo, CANTINO WATAGHTN 1990, p. 154). Vi sarebbe poi stato sepolto ii vescovo bresciano, secondo una glossa al più tardi del XII secolo, apposta al sermone di Gaudenzio per il XIV anniversario della sua morte: Sermo de vita et obitu beati Filastrii episcopi praedecessoris sui, 4, ed. A. GLUCK, CSEL, 68; mass.
Queriniano A.I.8, f. 153: Iacet ad Sanctum Andream, titulus autem sebulchn eius siti iuxta altare beatissimi Andree Apostoli in meridiana plaga, hic erat: Filastrius beatissime memorie lic requiescit in pace (PICARD 1988 p. 227, nota 105). Ramperto nell'838 fece traslare il corpo del santo nella cattedrale iemale urbana di S. Maria (ODORICI 1855, IV, n. 28). 7 PICARD 1988, p. 225, per CANTINO WATAGHIN 1990, p. 154 “non sembra di poter attribuire a S. Apollonio una grande antichità, dal momento che il culto del Santo, figura in ampia misura leggendaria, è relativamente tardo”; si può peraltro pensare che la dedicazione derivi dalla presenza del corpo del vescovo omonimo. 8 SBRUNATI 1854, I, p. 80. 9 ID., I, p. 72. 10 GAUDENTIUS, Tr. 17. Sia S. Gaudenzio, sepolto ad sanctum Johannem de foris che il suo secondo successore Teofilo si trovano in S. Giovanni, ma l'identificazione dei loro corpi è solo del 1602, per PANAZZA 1988, p. 18 e CANTINO WATAGHIN 1990, p. 154 rimarrebbe di incerta ubicazione, cfr. anche PANAZZA-DESTER-VIEZZOLI 1975. La prima attestazione certa è solo del 1087 (KEHR 1913, p. 316); nel 1116 viene definita come ecclesia S. Iohannis que dicitur de fora, qune est posita in suburbio civitatis Brixiae, extra portam quae dicitur mediolanensem, nel 1151 fu distrutta da un incendio (ST.BS, I, p. 358, n. 2) e nuovamente ricostruita nel 1440-47. 11 Su questo tema rimando a due miei recènti contributi, limitandomi in questa sede ad una sintesi che consenta di collocare nel loro contesto anche il fenomeno delle sepolture) BROGIOLO 1993, 1996. 12 BREDA 1987-88. 13 FAINO 1665, p. 59; GRADONICUS 1755, p. 96; ONOFRI 1850, p. 33, n. 1. 14 La fagade: PICARD 1988, p. 241. 15 PANAZZA 1988, nota 106 con bibliografia. 16 PANAZZA 1964, p. 142; C.A.B. 97. 17 Vi è una foto del rinvenimento presso i Civici Musei, nella quale si vede lo scopritore brandire la spada all'interno di un'arcata dell'ordine più alto del teatro, dove era stata ricavata la tomba. 18 BROGIOLO-CUNI 1986, alle quali vanno aggiunte due sepolture rinvenute nel cortile di sud ovest rispettivamente nel 1989 e 1991. 19 Le sepolture degli scavi 1988-95 nelle zone monumentali della città sono state oggetto di una trattazione specifica da parte di Leonardo De Vanna (DE VANNA 1996), dalla quale ricavo i seguenti dati. In vicolo Deserto sono venute alla luce due sepolture: T 1, a fossa in nuda terra di adolescente, T2 a fossa in nuda terra coperta da un coppo, di bambino. Nel palazzo Martinengo sono stati scavati due settori distinti: (a) nelle tabernae che si affacciavano al porticato occidentale del Foro, posteriori ad un piano d'uso con ceramica longobarda, sono state individuate cinque tombe: t. 1 in nuda terra coperta da laterizi, con due neonati e due feti e pettine lavorato; t. 2 in nuda terra coperta da laterizi e pietre, con 6 neonati o feti; t. 3 in nuda terra, con giovane individuo, t. 4 a cassa di muratura coperta da laterizi orizzontali con adulto di sesso femminile; t. 5 entro coppi, con neonato, (b) in una sequenza di VII-VIII con fasi d'uso in ambienti frazionati del complesso termale, vi erano invece tre tombe: t. 1 entro coppi di neonato, t. 2 a cassa di muratura di bambino, t. 3 a cassa in muratura di bambino. In Casa Pallaveri, nell'area del Capitolium, sono state scavate quattro distinte sequenze: (a) nel sondaggio 1988 è stata messa in luce una tomba a cassa in muratura in contesto di fine VIII, con quattro bambini, (b) nel settore 1: 4 tombe in contesti di VII-VIII: t. 1 in nuda terra di bambino; t. 2 a cassa in muratura coperta da tegole piane, con resti di bambino, ma le dimensioni della tomba (lungh. m 1,80) sono per un adulto; t. 3 a cassa di muratura con copertura di tegole e lastra, con tre bambini e un adulto; t. 4 alla capuccina, di bambino, (c) nel: settore 2: 3 tombe in contesti di VII: t. 1 a cassa di muratura coperta da tegole, di bambino; t. 2 a cassa di muratura coperta alla cappuccina, di adulto; t. 3 alla cappuccina, di bambino; (d) nel settore 5: una tomba in nuda terra, coperta da laterizi, di bambino. In piazza Labus, una tomba alla cappuccina di infante è di incerta cronologia. Appartiene infatti ad una fase posteriore all'abbandono delle quote della basilica flavia e anteriore ad un pavimento di malta relativo alla riorganizzazione altomedievale dell'edificio: potrebbe segnare sia l'episodio di chiusura della fase tardoantica di frequentazione dell'edificio pubblico romano che il primo episodio della sequenza più propriamente altomedievale (DE VANNA 1996, p. 288). 20 CATTANE o 1996. 21 C.A.B. 397. 22 MIRABELLA ROBERTI 1963, p. 265, n. 1. 23 PANAZZA 1978, p. 80. 24 BROGIOLO 1993, ANGELUCCI 1991. 25 In vicolo dell'Aria: t. a cassa in muratura con copertura in laterizi alla cappuccina, alla base della sequenza agraria della braida (VII secolo); in Vicolo Orientale: t. a cassa in muratura con copertura piana in laterizi, analoga posizione stratigrafica della precedente (DE VANNA 1996). Nel medesimo contesto di area ruralizzata, in via Cattaneo angolo via Candia, nel 1962 si rinvenne, sulla rasatura di un muro romano, una tomba probabilmente altomedievale (C.A.B. 107). 26 C.A.B. 175 l-m. 27 Via Trieste angolo via Paganora (C.A.B. 583; DE VANNA 1996). 28 Individuate a sud del Duomo Vecchio: C.A.B. 184. 29 Via Gambara 2 (1930: C.A.B. 223). 30 PICARD 1988, p. 220, nota 82: “on ne sait jusqu'à quand cette nécropole est restée en usage”.
31 MATVEZZI 1729, IV, 31: sepulcra etiam, intra quae cadavera magna valde jacebant ornamentis militaribus redimita in ipsius foveae profundo reperta sunt; et lorum inventionis causa praefatam Cittadellae januam Paganorum vocaverunt autumantes corpora illa nobilium Paganorum fuisse. 32 Da via Monti, presso la chiesa di S. Afra (1918), proviene la tomba ad inumazione coperta da lastra con iscrizione (ora presso i Musei di Brescia), “databile forse tra VI e VII secolo” (C.A.B. 328). 33 4, 54 ed. A. DE VOGUE, SC, 265, pp. 178-81. La notizia nella storiografia locale riferita al 590 (ODORICI 1854-56, II, PP. 204-207), è spostata dal Bognetti (1963, I, p. 403) al breve periodo di occupazione bizantina (s63-s68). 34 C.A.B. 345. 35 Da via S. Chiara (1967) una tomba alla cappuccina tardoromana o altomedievale (C.A.B. 451); da Corso Mameli, a 30 m dalla Pallata (1989), una tomba altomedievale (?) che riutilizza un'epigrafe romana (C.A.B. 279); da Corsetto S. Agata (1961), una tomba a cassa litica con copertura piana (C.A.B. 4361. 36 Dell'epitafio funebre del duca Alahis, ricordato da Paolo Diacono (H.L., II 32) come duca della città nel periodo d'interregno, il Rossi tramanda il seguente testo epigrafico: Hic est tumba Alabis dux alta columbal fuit vir prudens et princeps optime studens/ ut Brixia floreret et paci pulcra adereretlcristiana qui morte gaudet maxima sorte) che sarebbe stato rinvenuto al momento della demolizione della chiesa suburbana di S. Fiorano, avvenuta nel 1517 (ROSST 0., St. bresc., ms Cod. Quer. D.I.6, f. 54, B, VI, 27, f. 44r; Troia, IV, n. CXX, p. 318). Il Panazza (PANAZZA 1988, p. 23, nota 62, con bibliografia relativa), la ritiene del sec. X o XI per ll cursus leomuo dei versi. 37 RIZZINI 1914, nn. 75, 76, e tav. IV fuori testo. 33 RIZZINI 1894b, pp. 39-50. 39 SESINO 1986, p. 38. 40 In via Duca degli Abruzzi presso l'ospedale psichiatrico (1961): tomba a cassa litica altomedievale (?) (C.A.B. 166). 4i C.A.B. 516. 42BOSETTI 1955, p. 182; C.A.B. 43. 43 CARRETTA 1982, p. 18, n. 9, tav. 2, n. 6; C.A.B. 593. 44 SESINO 1896; C.A.B. 445. 45 S. Bartolomeo (1907): “tombe a cassa a sarcofago” senza corredo: C.A.B. 446. 46 C.A.B. 460. 47 In via Codenotto (1958): tomba a cassa con copertura alla cappuccina in embrici (C.A.B. 117); in via Codignole 48 (1949): tomba alla cappuccina priva di corredo (C.A.B. 118); in via Codignole (1975): tomba a cassa litica con fondo in laterizi (C.A.B. 120). 48 C.A.B. 121. 49 C.A.B. 243. 50 C.A.B. 277. 51 C.A.B. 49. 52 C.A.B. 24. 53 C.A.B. 153. 54 BRIDA 199l; C.A.B. 86.
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Considerazioni conclusive Poche parole di conclusione per esporre le idee suscitate nell'ascoltatore dalle relazioni presentate in questo Congresso. Il commento più ovvio e spontaneo è che il progresso della ricerca sulla documentazione archeologica, in particolare sull'archeologia funeraria, conferma la crisi dei modelli tradizionali con cui si è cercato di ricostruire la cultura longobarda, o dell'età longobarda, in Italia; nello stesso tempo si arricchisce e complica il panorama dell'evoluzione culturale avvenuta in quell’epoca, grazie anche ai confronti che divengono possibili tra le diverse regioni italiane. Parlando di modelli tradizionali intendo quelli che per descrivere e spiegare i costumi funerari dei longobardi in Italia fanno in vario modo riferimento alle necropoli di tipo "merovingio": consistenti raggruppamenti di sepolture ordinate m righe, pertinenti ai soli immigrati germanici, caratterizzate dai corredi dei defunti tra cui le armi hanno rilevanza e significato particolare. Sia la deposizione rituale dei corredi, sia gli oggetti che li costituiscono vanno intesi come espressione della cultura germanica, anche se comprendono oggetti di fattura romano-bizantina; le tombe senza corredo che si trovano in questi cimiteri vanno interpretate come sepolture dei dipendenti romani dei longobardi, oppure come inumazioni tarde, posteriori alla definitiva- cristianizzazione che comportò l'uso delle sepolture senza corredo, frequentemente collegate ad una chiesa, urbana o rurale, ed eventualmente l'adozione di altri sistemi di commemorazione del morto, come l'epigrafe tombale. È il tipo rappresentato al meglio dalla necropoli di Nocera Umbra con la sua altissima percentuale di tombe con corredo e la singolare frequenza di deposizioni maschili con le armi. In questa configurazione l'evoluzione culturale è indicata dal progressivo abbandono di alcuni elementi del costume tradizionale - che si può ritenere utilizzato dalla generazione degli invasori - e dall'adozione non sistematica di elementi del costume romano; dalla progressiva riduzione della consistenza dei depositi funerari; dai mutamenti di gusto attestati nella decorazione degli oggetti del corredo. Un'evoluzione comunque attribuita sempre all'iniziativa del gruppo germanico nel quale non vi sono elementi romani, salvo, forse, qualche donna associata ad esso per via di matrimonio. L'estensione e la rappresentatività di questo modello sono seriamente poste in discussione dai risultati delle ricerche e degli studi recenti: le grandi necropoli a righe non si presentano più come la forma predominante delle sepolture di età longobarda in Italia. Accanto ad esse cresce l'identificazione di piccoli gruppi di sepolture ed anche di sepolture singole disseminate nelle campagne: la frequenza con cui queste più piccole necropoli appaiono è fra i risultati più interessanti dei censimenti compiuti in Piemonte, Toscana, Abruzzi, o nel bresciano, e conferma quanto già era stato messo in evidenza, in altra sede, per il Veneto. La spiegazione è ovviamente problematica, come tutto ciò che si riferisce ai longobardi. L'insediamento degli invasori poté avvenire fin dall'inizio in modi differenziati, cioè non solo per grossi nuclei militari nelle posizioni forti del territorio, ma anche per gruppi più ristretti e perfino in forme rarefatte nelle campagne, forse ricalcando la distribuzione della proprietà fondiaria romana. Nel territorio di Torino o in quello di Brescia sembra che le due forme di insediamento e le relative sepolture siano contemporanee e precoci. In altre regioni, peraltro, come la Toscana meridionale e l'Abruzzo costiero, sembra invece che la dispersione dei nuclei di insediamento sia funzione di una conquista avvenuta relativamente tardi, non prima della fine del VI secolo, e di una minore urgenza di controllo militare del territorio, o forse anche di dissesto e rarefazione dell'insediamento romano, quali non sembrano essersi verificati nelle campagne dell'Italia settentrionale. D'altra parte la distribuzione degli insediamenti nel territorio secondo un modello gerarchico non sembra rispondere ad un criterio uniforme usato nella colonizzazione, ma piuttosto a contingenti situazioni locali; così si potrebbero tra l'altro spiegare certi riferimenti di Paolo Diacono a città come Brescia o Cividale, in cui la componente longobarda era più consistente che altrove. Un secondo ordine di persuasioni che forse viene messo in questione dalle indagini correnti riguarda l'uso e la frequenza dei corredi d'armi nei quali si vede - e con ragione - il riflesso dell'ideologia guerriera e della natura militare della società longobarda.
Le sepolture con armi costituiscono solo una parte di quelle che contengono corredi personali del morto; accanto ad esse sembrano frequenti le sepolture maschili contenenti solo la cintura militare ed eventualmente altri oggetti personali, ma non armi; oppure, sporadicamente, una sola arma, che non era però la spada o la lancia, ma il sax, forse meno prestigiosa e cara. L'impressione ha bisogno di essere verificata e precisata, soprattutto attraverso la determinazione delle frequenze percentuali dei corredi con armi e senza armi e della loro distribuzione territoriale e cronologica. Sembra tuttavia già assodato che usanze diverse convissero negli stessi luoghi e negli stessi tempi, anche se i sepellimenti in cui il corredo è costituito dai soli oggetti di abbigliamento divengono probabilmente più frequenti nelle fasi tarde del cimiteri. L'osservazione, se confermata, potrebbe sollevare complessi problemi di interpretazione: risparmio delle armi; demilitarizzazione della società; o mutata concezione del corredo funebre, progressivamente limitato ai soli oggetti di complemento del vestiario, come fibbie e cinture per gli uomini, spilloni, lacci e orecchini per le donne; il che può indicare che i morti erano sepolti vestiti, o almeno con alcuni capi di abbigliamento, ma senza più l'intero complesso degli oggetti personali di cui si erano serviti in vita. Queste questioni riguardano anche altre osservazioni che hanno a che fare con l'assunto tradizionale che postulava una sequenza lineare dai rituali pagano-tribali, consistenti nella sepoltura dei morti con corredo, a quelli cristiani con sepolture prive di corredo e frequentemente associate ad una chiesa. Si può dire che alcune delle situazioni più interessanti presentate in questo Congresso contribuiscono a mettere in crisi, sia pure con molte sfumature, questo modello evolutivo, presentando rituali misti, che rinviano ad un'evoluzione meno lineare ed ordinata delle raffigurazioni culturali connesse alla morte e al seppellimento. Ne ricorderò brevemente alcune. A Centallo in Piemonte il cimitero collegato ad una chiesa fin dal VI secolo presenta sia tombe con corredo che tombe prive di corredo, e quando la chiesa venne ricostruita, nel VII secolo, all'interno di essa si collocò una sepoltura privilegiata m CUi 11 morto venne deposto vestito e gli vennero collocati vicino non armi o capi d'abbigliamento, ma attrezzi artigianali. A S. Martino di Trezzo almeno una tomba collegata alla chiesa del VII secolo - se non addirittura quella attribuita al "fondatore" - ha elementi di corredo non consistenti semplicemente in capi di vestiario; quanto alle restanti sepolture, esse non contengono corredi funebri, ma tutto il complesso funerario sembra contemporaneo alle tombe di guerrieri con ricchi corredi precedentemente rinvenuti nella stessa Trezzo. A Castel Trosino l'ultima fase delle sepolture, associate alla chiesa del VII secolo, presenta anch'essa oggetti di corredo, ridotti, ma non limitati ai soli elementi del vestiario e in qualche caso costituiti anche da arnesi militari. Nella necropoli di Selvicciola di Ischia di Castro, sepolture con corredi comprendenti cinture militari, armi e staffe risultano praticate ancora nella seconda metà del VII secolo accanto ad una chiesa che già fungeva da centro ordinatore del cimitero. In questi casi quale senso si deve attribuire ai corredi deposti nelle sepolture? E probabile che essi avessero perduto la funzione derivante dalle concezioni pagane sul destino ultraterreno del morto che dovevano ancora avere nella cultura eroica della generazione che compié la conquista. Quando la morte venne cristianizzata, la deposizione di oggetti personali, oltre a quelli di abbigliamento, ridotti nel numero e variabili nella composizione, potè vemre ancora praticata in forza di una concezione tra magica e giuridica, che considerava taluni oggetti come legati durevolmente alla persona del proprietario anche dopo la sua morte, e perciò li sottraeva alla trasmissione ereditaria. Una concezione che sottostà anche ai rituali dell'età pagana e che probabilmente trova i suoi ultimi riflessi nelle disposizioni dei testamenti dell'VIII secolo che regolano proprio la destinazione di quegli oggetti personali, ormai sottratti all'interramento col proprietario defunto, ma sempre materia di una considerazione distinta tra le proprietà del morto. Le sepolture in ambiente cristiano contenenti deposizioni votive parziali, potrebbero corrispondere ad un momento di evoluzione di questa concezione, già spogliata di implicazioni magiche o religiose, ma ancora incerta fra l'uso tradizionale di seppellire i beni personali col proprietario ed una tendenza "moderna" a conservarli all'uso dei vivi, sia pure legati in qualche modo alla memoria del defunto.
Altro grande problema per cui si deve rinunciare a riferimenti consolidati è quello dei rapporti tra occupanti e occupati, longobardi e romani, per quel che possono essere desunti dall'archeologia funeraria. Le riserve insistentemente avanzate circa la possibilità di attribuire le sepolture ad individui longobardi o romani solo in base alla presenza o assenza di corredo ed eventualmente - per i romani alla tomba fabbricata in lastre di pietra o in tegole, sono confermate dalla sempre più frequente identificazione di sepolture con caratteri misti (deposizioni di corredo in tombe fabbricate); dalla presenza di corredi anomali (i cui oggetti non presentano cioè le caratteristiche formali considerate di cultura germanica; valga per tutti il caso di Grancia nel Grossetano) o ridotti e addirittura ridottissimi come sono quelli costituiti solo da un coltello, eventualmente accompagnato da una semplice cintura o da un pettine, che però sono frequenti e mostrano di essere anch'essi ritualizzati. Questi tipi di sepoltura con caratteri culturali misti o anomali sono stati interpretati inizialmente come prodotto dell'acculturazione dei longobardi in ambiente romano (e ritengo corretto dire "romano`" anziché "autoctono", dato che questo secondo termine sottrae, più o meno intenzionalmente, identità culturale agli interlocutori dei longobardi); l'evoluzione sarebbe caratterizzata prima dall'adozione di oggetti di fattura locale, poi dalla riduzione del corredo e infine dalla eliminazione di qualunque forma di corredo. Più recentemente si è ipotizzato che i romani adottassero costumi funerari longobardi, per imitazione o assimilazione al gruppo sociale dominante. Quest'interpretazione è stata utilizzata, sia pure dubitativamente, in alcune relazioni presentate al Congresso, come possibile spiegazione, ad esempio, dei caratteri della necropoli bresciana di Santi di Sopra o di alcuni complessi di sepolture abruzzesi. Così concepita comunque, la spiegazione presuppone una assimilazione subordinata dei romani ai longobardi, manifestata dall'irregolarità dei loro corredi funebri e soprattutto dall'assenza o dalla sporadica presenza di armi. Peraltro la pratica di seppellire con alcuni elementi di corredo potrebbe essere stata adottata dai romani non solo per imitazione dei costumi longobardi, ma anche per lo sviluppo spontaneo di pratiche funerarie proprie, che conoscevano forme, pur molto sobrie, di deposizioni di oggetti nelle sepolture - monete, piccoli contenitori ceramici o spille e armille - e che poterono evolvere nell'uso di sepellire il morto con indosso almeno qualche capo di abbigliamento, anziché avvolto nel semplice sudario. Un'evoluzione di questo genere peraltro rimanderebbe ad un complesso di raffigurazioni culturali diverso da quello derivante dall'adattamento, per riduzione, della pratica longobarda di sepellire con i beni personali e le insegne del rango sociale, anche se ad un certo momento essa potè sfociare in forme di sepoltura analoghe a quelle prodotte nell'ambiente longobardo dalla tendenza alla limitazione del corredo. L'acculturazione reciproca potè dunque consistere non tanto nell'adozione scambievole di consuetudini contrapposte - da un lato perdita, dall'altro acquisizione di elementi di corredo dei sepolti e delle sepolture - quanto nell'elaborazione, parte congiunta,-parte parallela, di nuove consuetudini funerarie; un'elaborazione che poté comunque andare di pari passo con l'attenuazione del conflitto etnico dopo l'invasione, con la fine dell'economia di rapina che probabilmente accompagnò la conquista, e con la formazione di una nuova organizzazione sociale fondata su una economia produttiva agraria. Tutto ciò senza mettere in discussione la permanenza di un'aristocrazia militare che conservò più a lungo i tratti culturali e la definizione di rango della tradizione germanica, pur utilizzando ampiamente oggetti e costumi dell'ambiente romano, locale o circostante. La complessità dei rapporti tra romani e longobardi, sia nelle modalità dell'insediamento che nello scambio culturale, trova una straordinaria esemplificazione nella nuova interpretazione della necropoli di Castel Trosino presentata al Congresso. Sottratta alla lettura unilineare che faceva protagonista dell'evoluzione culturale un gruppo d'insediamento esclusivamente longobardo, essa appare ora come prodotto della giustapposizione di un gruppo romano e un gruppo longobardo, con costumi differenziati, che evolvono nel tempo verso forme e rituali originali, in cui si uniscono tradizioni germaniche e tradizioni romane, USi cristiani e consuetudini tradizionali.
Castel Trosino resta peraltro un esempio molto particolare, data la straordinaria ricchezza dei corredi e l'accentuata rilevanza che in essi hanno oggetti di fattura romana. Queste caratteristiche per certi aspetti possono essere spiegate con la collocazione geopolitica dell'insediamento: la comunità di Castel Trosino occupava una posizione strategica in prossimità degli insediamenti bizantini e controllava itinerari che mettevano in comunicazione la costa con l'interno. Ma allo stato delle conoscenze è difficile dire se la sua straordinaria ricchezza derivasse dalla possibilità di esercitare consistenti prelievi di guerra sui beni della società romano-bizantina circostante, o se il gruppo d'insediamento fosse integrato al mondo romano-bizantino, attraverso rapporti economici con i centri di produzione orafa e artigianale, o perfino come federato che riceveva ampi e ricchi doni in cambio di pace o forse di servizio. In ogni caso la necropoli di Castel Trosino costringe a rivedere anche concezioni tradizionali relative alla produzione e distribuzione degli oggetti che finirono nei corredi funerari, soprattutto se messa in rapporto con i ritrovamenti sempre più sorprendenti e intriganti dell'officina artigianale individuata a Roma nel sito della Crypta Balbi. Il primo risultato di questa scoperta è la conferma di un'ipotesi che finora non aveva supporti oggettivi: l'ipotesi cioè che oggetti di abbigliamento, monili, finiture d'armi venissero prodotti in serie da laboratori specializzati e successivamente distribuiti ad ampio raggio. Gli aspetti imprevisti sono la collocazione di un simile laboratorio, a Roma e probabilmente in un monastero, e le straordinarie affinità dei materiali che produceva con quelli che si ritrovano nelle necropoli longobarde, tra cui quella appunto di Castel Trosino. L'origine "bizantina" di molti oggetti dei corredi funerari barbarici era stata riconosciuta da tempo, ma ora è possibile perfino ipotizzare che la produzione dei laboratori operanti nei centri dell'Italia bizantina fosse destinata a clienti barbarici, e viene così messa in crisi la contraria ipotesi che almeno per molti decenni dopo la conquista vigesse una sostanziale chiusura tra le aree ròmano-bizantine e quelle longobarde; una separazione che poteva essere superata in circostanze particolari, ma certo non per un consolidato sistema di produzione e distribuzione che legasse centri romano-bizantini e centri longobardi. Devo dire che sono orientato a valutare con prudenza i dati della Crypta Balbi. Ritengo probabile che la maggior parte della produzione dell'officina fosse destinata a fruitori romani, dato che nel corso del VII secolo, nell'epoca cioè in cui l'officina era attiva, si costituiva a Roma il ceto della militia urbana, che doveva richiedere abbigliamento militare in cui cinture, fibbie, sproni decorati e impreziositi avevano un ruolo analogo a quello dell'ambiente longobardo. Una più larga area di distribuzione della produzione romana poteva essere il territorio regionale, interessato da analoghi processi di stratificazione sociale e cosutuzione di aristocrazie locali a fisionomia militare. Solo come estrema sfera di irradiazione vedrei i contigui territori longobardi dei ducati toscano e spoletino, dove peraltro i prodotti romani poterono giungere, almeno per un certo periodo, anche per contrabbando, dono o furto, anziché attraverso un regolare sistema di commissioni. Ma anche accogliendo questa lettura, i rinvenimenti della Crypta Balbi restano fondamentali per lo studio dei processi di acculturazione; essi testimoniano che il costume della società romano-bizantina sotto alcuni aspetti era simile a quello delle regioni longobardizzate; che i materiali prodotti potevano servire egualmente bene l'una e l'altra società. E se anche la produzione romana non era destinata primariamente ai consumatori longobardi delle regioni circostanti, che poterono attingere ad altre analoghe officine nelle regioni bizantine dell'Adriatico, resta acquisito che la loro informazione culturale non passava solo attraverso canali incerti e occasioni fortuite (prede, tributi, artigiani girovaghi), ma poteva fare riferimento a bene identificati centri di produzione e distribuzione attivi sul territorio italiano. È probabile che questa circolazione avvenisse più facilmente in un'area di contatti territoriali e politici aggrovigliati e complessi com'era quella che si estendeva tra l'Esarcato, la Pentapoli, il ducato di Spoleto ed il territorio romano; non a caso nell'Italia settentrionale e nella stessa Toscana meridionale mancano esempi di osmosi culturale paragonabili a Castel Trosino; ma parimenti non dev'essere un
caso che forme significative di contaminazione si rinvengano nel Friuli longobardo, posto a ridosso dei territori bizantini dell'Istria e di Grado e in ambigui rapporti politici con l'impero. L'esempio della Crypta Balbi accredita inoltre l'ipotesi che officine per la produzione m serie di oggetti di corredo personale esistessero nell'Italia padana, dove elaboravano informazioni culturali di provenienza e carattere ancora diversi, tra cui sono tentato di credere che un ruolo significativo avessero le tradizioni e le suggestioni del sostrato romano, che a questo punto, grazie anche alle osservazioni sull'insediamento, si deve ritenere meno compromesso di quanto non si fosse soliti ammettere. L'insieme dei dati e delle osservazioni presentati al Congresso conferma dunque che nell'interpretazione della cultura longobarda un modello disordinato può forse rendere conto dell'evidenza meglio di un modello lineare. Processi di natura, origine e tendenza varie e non sempre coerenti sembrano convivere ed intersecarsi, tra l'altro con caratteri ed orientamenti differenti nelle varie regioni e perfino nelle situazioni locali. Il ruolo delle culture etniche in questi processi perde rilievo, non perché esse non esistessero, ma perché sembra che si siano rapidamente trasformate finendo per non corrispon clere a ciò che tradizionalmente la definiva. L,a conclusione perciò non può essere che quella di spostare l'attenzione dalle relazioni tra i gruppi etnici alla costruzione di una società nuova nell'Italia longobarda, nelle cui articolazioni territoriali e stratificazioni gerarchiche anche le tradizioni culturali si rimodellarono e trasformarono. Il contrasto tra il panorama vario ed irregolare che risulta dalla documentazione archeologica e quello fortemente univoco e coerente offerto dalle fonti scritte - cronistiche e legislative - illustra probabilmente un aspetto di tale trasformazione: l'intento consapevole degli autori di quelle fonti di riunire e ordinare una società fluida ed eterogenea intorno ad un'ideologia longobarda che era probabilmente patrimonio di gruppi ristretti e che comunque si andava anch'essa continuamente evolvendo. PAOLO DELOGU